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Kautokeino,un coltello insanguinato

LarS PeTTerSSon

Traduzione di Stefania Forlani

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© Lars PetterssonFirst published in 2012 by ordfront with the Swedish titleKautokeino, en blodig kniv

Traduzione dallo svedese di Stefania Forlani

© atmosphere libriVia Seneca 6600136 romawww.atmospherelibri.itatmosphere.wordpress.com

[email protected]

redazione a cura de Il Menabò (www.ilmenabo.it)

I personaggi descritti sono nondimeno frutto della fantasia dell’autore e non hanno alcun riscontro nella realtà.

I edizione nella collana Biblioteca del giallo novembre 2014

ISBn 978-88-6564-113-2

Finito di stampare presso CSr - roma nel mese di novembre 2014

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“Guovdageaidnu varra niibi/ Kautokeino un coltello insanguinato”Da uno jojk, canto tradizionale, nel quale i luoghi della Lapponia

sono descritti tramite diversi oggetti.

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Jojk, una strana forza, affermatrice e liberatoria. Beffarda o sar-castica, di un’ironia provocante.

Non ci aveva mai pensato prima d’allora. Non aveva maiavuto quella sensazione di giocosità. Quella leggerezza. Nonaveva mai percepito il loro tono come quella sera.

Quando non erano schiamazzi da ubriachi, erano rappresen-tazioni balbettanti e artefatte a uso dei turisti. Vecchie befane eanziani con i vestiti tradizionali, che sbirciavano nervosi il pub-blico strizzando gli occhi, mentre cantavano interminabili nar-razioni sulla natura e sui nipotini.

Qui al pub gli jojk emergevano dal locale fumoso, si mi-schiavano con i resti sparpagliati della musica disco dell’altrasala, ondeggiavano come i rapidi riflessi della palla roteante sulsoffitto. Brevi sprazzi di vita e luce, talmente rumorosi che si sa-rebbe potuto mettere in moto una sega elettrica senza che nes-suno reagisse. All’improvviso lo jojk divenne gioia ed espressivitàdi fronte a lui.

Un senso di comunanza e una sorta di ribadita conferma disolidarietà. Non si era mai sentito così prima d’allora. Non avevamai provato quelle sensazioni così chiaramente.

Qualcuno fece cadere un vassoio di bicchieri nella sala disco.Una voce da ubriaco gridò qualcosa a qualcuno che non ascol-tava. Una sedia cadde da qualche parte nel locale, un tavolo fuspostato e raschiò sul pavimento irregolare.

Prese il suo bicchiere e attraversò il pub fino alla finestra. Nonfece caso ai sussurri alle sue spalle, lasciò che la gente parlasse elo indicasse. Se ne fregava, era una cosa passata. Era finita. Nonce la faceva a salutare o cercare con lo sguardo qualche facciaconosciuta.

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La pompa della birra non funzionava. La spina rantolante si-bilava emettendo solo della schiuma bianca. Era quasi l’ora dichiusura. Tutti urlavano i loro ordini alla cameriera sudata cheaveva una fila di bicchieri, mezzi pieni di schiuma, davanti a sé.

Con aria infelice, tentava di ricavare un mezzo litro di birrada quei bicchieri. Chiamava rassegnata il buttafuori che stavacercando di attraversare il locale fumoso con un giratubi inmano.

Fuori dalle finestrelle il vento di nord-est concentrava la suaforza proveniente dall’intero Altopiano del Finnmark e accu-mulava la neve fresca contro la parete dell’hotel e l’entrata delpub.

Una macchina passò slittando nella neve fangosa e gettòun lampo di luce su una coppia appoggiata contro un container.L’uomo indossava dei pantaloni di pelle e la tunica tradizionaledi Kautokeino a strisce multicolori, con il collo alto e la cinturapiena d’oro. La donna indossava solamente un giubbino di pelle,stivali e una gonna molto corta. I suoi capelli biondi ondeggia-vano nel vento.

Al bagliore rapido dei fanali sembrava quasi che l’uomopiangesse. La donna rabbrividì e cercò di trascinarlo al riparodel container. Una Volvo Amazon bianca, probabilmente dellafine degli anni Sessanta, sbandò facendo un testacoda nel par-cheggio. Anche lui ne aveva una simile, un tempo.

Questa aveva delle bandiere norvegesi sul paraurti ante-riore. Magari tornava da qualche matrimonio. O da un comple-anno. La donna con la mini fece un cenno al guidatore. Insiemeaiutarono l’uomo con la tunica di Kautokeino a salire nel sedileposteriore. La donna s’infilò all’interno al suo fianco. La mac-china proseguì slittando nella tempesta di neve, diretta verso lastatale.

Tirò le tendine polverose davanti alla finestra, coprendo lavista come per lasciar fuori, dietro la finestra sudicia, vento, neve,freddo, sconforto e disperazione. Voleva restarsene lì, al caldo,in quel pub rumoroso.

Era così che andava. L’aveva dimenticato. Quattro anni sono

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lunghi, molte cose possono cambiare. Sia quelle portate con sé,sia quelle lasciate. Si diresse verso la sala disco.

Non c’erano molte coppie sulla pista, la maggior parte era se-duta ai tavoli. Un uomo ubriaco con gli occhiali da sole, la tu-nica tradizionale, i jeans e gli stivali da cowboy, era inginocchiatoin mezzo alla pista con le mani alzate verso le luci tremolanti.

Un anziano entrò dalla porta d’ingresso in un turbinio difiocchi di neve, con una tuta da motoslitta e stivali di pelo. Unlazo arancio sulla spalla. In mano, il berretto di pelliccia di canee i guanti. Un grosso coltello infilato nella cintura consumata. Icapelli scuri e sudati erano arruffati. L’uomo si fermò davantialla porta e si guardò cautamente intorno nel locale.

Lui si ritrasse cercando di evitare lo sguardo dell’uomo, ma fuimmediatamente beccato.

«Ciao, sei qui, mi offri una…»«È finita, la pompa è rotta».«Dividiamo?»L’uomo fece un cenno verso la bottiglia che aveva in mano.

Si tolse cerimoniosamente il lazo e aprì la cerniera della tuta,sfilò le braccia e lasciò penzolare la parte superiore dalla cintura.Appoggiò berretto, guanti e lazo sul pavimento, vicino alla porta.

«Quindi, sei tornato?»Trovò un bicchiere vuoto su un tavolo. Le luci si accesero

nella discoteca trasformando l’atmosfera intima in un triste pal-lore verde di luce fluorescente e in una sciattezza color nicotina.

«È stata dura?»Lui non rispose, ma si mise a esaminare il bicchiere in quella

nuova luce, prima di versarci dentro più di metà della bottigliae passarlo all’uomo con la tuta da motoslitta.

Gli avventori intorno a loro si alzarono lentamente dai sudicidivani di tessuto vellutato. Per la maggior parte erano giovaniche, nell’oscurità della discoteca, si ubriacavano apposta per avereil coraggio e la forza d’animo necessari a uscire nella tempestadi neve e nel buio silenzioso.

L’uomo con la tuta estrasse le cartine per le sigarette e il ta-bacco da qualche segreta tasca impermeabile.

«Rimarrai qui?»

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«Non lo so, non ho ancora deciso. Vedremo».Bevve dalla bottiglia e si guardò intorno nel locale malmesso.

I mobili erano gli stessi. Stesse tendine. Stessa moquette mac-chiata. Persino la lanugine gialla in quella presa di ventilazioneasmatica era probabilmente la stessa. Quattro anni possonoanche essere pochi.

Una ragazza pallida dalle braccia magre iniziò a raccoglierebottiglie e bicchieri. La gente nel locale si alzò e cominciò a di-rigersi verso l’uscita.

Lo jojk proveniente dal pub penetrò nella discoteca scrostatacome una pianta rampicante. Una liana verde di forza vitale epresunzione, che sembrava prendere il suo nutrimento dalle si-garette fatte a mano, dal tabacco stantio e dalla birra sgasata.

Un ragazzo ubriaco, con una giacca da motociclista a colorivivaci e due ragazze dai capelli biondi tinti dietro di sé, si feceavanti e chiese da accendere. Si rivolse verso l’uomo in tuta, maper tutto il tempo la sua attenzione era diretta all’altro. Fece untiro dalla sigaretta bitorzoluta e si girò, chiedendo come per caso:«Sei fuori, allora?»

L’uomo con la tuta gli lanciò uno sguardo d’avvertimento.«Vattene!»Il tizio non gli diede retta, ma guardò le ragazze al bancone

del bar. Quelle annuirono con aria d’incoraggiamento.«Sei stato tu, no?»«Vattene, moccioso del cazzo!»L’uomo con la tuta da motoslitta si elevò nella sua altezza,

non troppo imponente, ma il ragazzo fece comunque un passoindietro, spaventato dalla violenza dei movimenti dell’altro. Sivoltò e tornò al gruppo di ragazzi che si erano raccolti vicino albancone.

«Stai calmo, Ovla, non fa niente, posso rispondere per mestesso».

Lui era rimasto seduto con la bottiglia di birra in mano, sem-brava tranquillo e composto. Era come se fosse preparato a unacosa del genere. Preparato alle domande. A quell’insidiosa ca-duta nel tono di voce normale. Ne aveva avuto di tempo per pre-pararsi. Quattro anni. Guardò il gruppo che si era raccolto vicino

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al bancone. Sussurri. Cazzate.Tutto d’un colpo si sentì molto stanco e si pentì di essere andato

lì quella sera. Avrebbe potuto aspettare qualche settimana. Lasciareche la voce girasse in paese prima di farsi rivedere tra la gente.

Chi se ne fregava. Ormai era troppo tardi. Fece risedere l’uomocon la tuta, Ovla, e diede le spalle al ragazzo con la giacca dellaLynx che, sogghignando, era ritornato da quelli che lo aspettavanoal bancone. Gli altri ragazzi si raccolsero intorno a lui pieni di at-tesa.

La cameriera si fece largo con l’ennesimo vassoio di bottiglievuote e bicchieri sporchi. Cercava invano di attirare l’attenzionedel buttafuori. Ma lui era occupato a distribuire cappotti e nonguardava nella sua direzione.

Con aria rassegnata s’infilò dietro il bancone tenendo in equi-librio il vassoio stracarico.

«Fregatene di quelli, sai com’è. Alla salute!»Ovla rise e alzò il bicchiere, ma i suoi occhi erano seri e lui

manteneva il controllo su ciò che succedeva alle spalle dell’altro.Il ragazzo aveva aperto la giacca pesante da motociclista. I ca-

pelli biondi erano scompigliati e lui era rosso in viso per l’eccita-zione e per la troppa birra. Spinto dai cenni d’incoraggiamento edai commenti dei suoi amici, ritornò dai due uomini. Gli appog-giò la mano sulla spalla.

«Sei stato tu a ucciderlo, eh?»Ovla cercò di alzarsi, ma lo sguardo dell’uomo all’altro lato

del tavolo lo fermò.«Adesso che sei fuori, puoi dire com’è andata, no?»Lui non girò la sedia, fece solo un piccolo movimento verso

sinistra, in modo che il ragazzo perdesse l’equilibrio, poi si alzòvelocemente a destra, si girò e, con la bottiglia in mano, gli diededue colpi secchi.

Il primo arrivò alla radice del naso. L’altro colpì la guancia e laspalla, e il ragazzo si ribaltò sulla sedia e il tavolino basso da cock-tail. Nel locale scese il silenzio.

I mormorii dal pub si dispersero tra le pareti grigie.Lui appoggiò la bottiglia sul tavolo e si diresse verso l’uscita

senza guardarsi intorno.

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*

C’era una foto di noi due sulla bacheca sopra la scrivania di miamadre, tra post-it illeggibili, orari scolastici e biglietti di augurinatalizi dimenticati. Non credevo di averla mai vista prima, maquando il giorno dopo il funerale portai via le cose di mia madre,trovai la foto sotto un vecchio calendario con l’orario delle suelezioni.

Il colore era sbiadito per il sole. In un angolo era quasi deltutto sbiancato. Ma forse poteva essere il negativo rovinato dallaluce.

Nils Mattis indossava una logora tunica da lavoro. Aveva unacintura con dei coltelli e un antiquato lazo intrecciato sullaspalla. Io avevo un parka bianco e guardavo in camera con ariadubbiosa.

Mi ricordo di quella giacca. Quella primavera andava dimoda tra le ragazze della mia scuola, l’Ängskolan di Sundby-berg. La mia aveva una fodera a quadretti rossi e verdi e un odored’impermeabilizzante, stranamente forte. Un odore che impre-gnava il maglione di lana e gli altri vestiti che indossavo. Dopoquella primavera non usai mai più quella giacca tranne quandoeravamo su dai nonni. Magari è ancora appesa nel capanno lassùal villaggio estivo.

Nils Mattis non può avere più di undici o dodici anni, nellafoto, ma sembra più grande. È basso e robusto. Ha le spalle lar-ghe.

Siamo un po’ distanti l’uno dall’altra. Nils Mattis guarda giù,per terra, si difende dallo sguardo del fotografo. Il berretto dilana è tirato ben bene sulle orecchie. Dietro di noi si vedono unpezzo dell’affumicatoio del nonno, una pila di pelli di renna suuna slitta rotta, un telone piegato e un cane che dorme. Credoche si chiamasse Zeppo.

Stavamo andando in montagna.Dopo che mio padre ebbe scattato la foto, con la sua con-

sueta cerimoniosità, Nils Mattis aveva fischiato al cane, solle-vato lo zaino e si era avviato davanti a me sul sentiero che

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portava alla torbiera.Sono quasi sicura che questa sia l’unica foto di Nils Mattis

che abbia mai visto. È stata scattata più di vent’anni fa.

Avevo riordinato le carte lasciate da mia madre e messo glioggetti della sua scrivania in alcune scatole di cartone comprateall’Ikea. Probabilmente anche la foto era in una di quelle.

Dopo la telefonata della nonna, andai in soffitta a cercare direcuperarla.

La soffitta era fredda e polverosa e la luce saltava ogni cinqueminuti. Ma rimasi lo stesso seduta al gelo a sfogliare le carte.

Non ci avevo mai pensato prima, ma non era rimasto niente,da nessuna parte, del mondo che lei aveva lasciato. Nemmenouna riga. Nessun documento ufficiale o privato. Nessuna pagelladi scuola o foto di classe. Nessuna lettera della nonna o di qual-cun altro.

Quando abitavamo a Sundbyberg c’era stata una foto dellaconfermazione sulla parete del salotto. Dopo il funerale avevochiesto a mio padre, ma non era riuscito a ricordare dov’era fi-nita. Pensava che la mamma l’avesse tirata giù in qualche mo-mento.

Era come se la sua vita fosse cominciata quando si era tra-sferita giù in Svezia e aveva iniziato a studiare per diventare in-segnante. Perché aveva eliminato così accuratamente tutte letracce dei suoi primi ventitré anni?

Presi la foto di Nils Mattis e me la portai in casa.Dovevo avere quattordici anni quell’estate. Cercai di fare il

conto, ma non riuscii a ricordare di quando fosse. Non ricor-davo niente di lui, tranne che era timido e goffo, in un certo qualmodo imprevedibile. Che aspetto avrebbe avuto ora?

La nonna era sembrata agitata parlando di lui al telefono.Laconica, aveva cercato le parole in quella lingua per lei inu-suale, e comunque aveva un tono di voce implorante che non lericonoscevo. Ma forse era solo perché non era abituata a parlareal telefono. O magari pensava al costo della telefonata interna-zionale.

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Mi scaldai le mani con la tazza del tè, guardando la foto einiziando a pentirmi di aver promesso di andare lassù. Mi sem-brava di non avere il controllo della situazione. Di non avereidea di cosa si aspettassero da me.

Ma la voce debole della nonna, al telefono, mi aveva fatto ri-spondere, senza pensare troppo a quello in cui mi sarei cacciata.

«Sì, certo che posso venire. Va bene. Posso prendere qualchegiorno di ferie».

«È urgente» aveva detto lei. «Dobbiamo sistemare subitoquesta cosa, così non succede come l’altra volta».

Avevo promesso di partire appena possibile. Di cosa fossesuccesso prima non avevo idea. Avrei chiesto una volta sul posto.

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Il giorno dopo pioveva, una pioggia di febbraio, pesante e in-consolabile. Un vento freddo carico di fuliggine e fumo sparpa-gliava i rifiuti sulla banchina della stazione di Flemingsberg,dove i gabbiani avevano appena rovistato in un cestino dell’im-mondizia. Il treno ad alta velocità diretto a sud passò creandouna corrente gelida mentre mi affrettavo verso la scala mobile.

«Anna, Anna!»Kerstin mi aveva raggiunto sulla scala. Era la segretaria del

tribunale e mi era stata d’aiuto quando avevo cominciato a la-vorare lì come assistente del procuratore, quasi un anno prima.Estrassi dalla cartella la foto di me e Nils Mattis e gliela porsi.

«Forse qualcuno degli uscieri può farne una copia migliore?»Kerstin guardò la foto mentre percorrevamo in fretta la pas-

serella dirigendoci verso la facciata lucente del tribunale di Sö-dertörn.

L’aria era secca nell’aula del tribunale e c’era un forte odoredi detersivo che mi faceva colare il naso. Mentre il giudice Aron-sson lentamente e legnosamente scandiva le considerazioni dellacorte e le delibere di rigetto delle accuse, arrivò Kerstin con l’in-grandimento della foto e la prenotazione del biglietto che leavevo chiesto di farmi.

“Arlanda-Luleå, 21.15. OK?” aveva scritto sulla busta.La aprii e guardai la foto. I colori erano migliorati, ma nem-

meno adesso ricavai qualche impressione da Nils Mattis. Nonera solo il suo sguardo a essere sfuggente. Tutta la sua postura te-stimoniava la distanza da me e da mio padre, che stava scattandola foto. Sembrava che l’avessimo costretto a stare lì. Che gli stes-simo rubando tempo da qualcosa che era molto più importante.

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«Ci vai?» sussurrò Kerstin sedendosi accanto a me al tavolodel pubblico ministero.

Guardò la foto. Indicò me e il mio parka.«Sembri molto piccola. Quanti anni avevi?»«Tredici, forse quattordici».Il giudice Aronsson fece una pausa a effetto nel suo reso-

conto senza fine e ci guardò con aria di disapprovazione. Cercaidi fargli un sorriso di traverso ma lui non fece una piega, e sischiarì la voce diverse volte prima di riprendere quell’intermi-nabile cantilena.

L’accusa sarebbe stata respinta, lo sapevo già. Il procuratorecapo Börjesson mi aveva spiegato che non sarebbe valsa la penadi ricorrere in appello. L’investigazione, su cui avevo costruitola mia accusa, era stata troppo negligente e mal circostanziata.Un’udienza in corte d’appello avrebbe sbriciolato le accuse comefanno i bambini con la casetta di marzapane a Natale.

Era un semplice caso di frode. L’imputato aveva vendutoquote di un immobile industriale del Comune, che doveva esseretrasformato in appartamenti di lusso. Era una truffa in cui di-pendenti comunali e speculatori avevano cercato di mettere lemani su una fabbrica in disuso. La sua responsabilità era chiara.L’imputato era colpevole. Non c’erano dubbi a riguardo. Ma lapolizia aveva dimenticato di procurarsi delle prove certe e avevatralasciato delle testimonianze.

Aronsson arrivò finalmente all’accusa rigettata, io misi la fotonella mia cartella e iniziai a raccogliere i miei fascicoli.

Uscendo dall’aula l’accusato si fermò alla mia scrivania.«Mia cara, è stata proprio una cosa stupida. Ti sei resa ridi-

cola e hai sprecato i soldi pubblici. Non lo capisci?»Il suo avvocato da cinquemila corone l’ora si sistemò il com-

pleto di Hugo Boss, mi strinse la mano con un sorriso ironico,e i due truffatori uscirono ridendo, verso la pioggia grigia e la li-bertà.

«Quanto starai via?»Kerstin mi aspettava sulla porta del corridoio.«Non so, ma ho ancora dieci giorni di ferie da utilizzare».«È un tuo parente, eh, quello nella foto?»

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«Sì, un cugino. Nils Mattis… Tutti hanno un secondo nomelassù. Non lo conosco. Non lo vedo da vent’anni. È stata mianonna a telefonarmi e chiedermi se potevo andare là».

Entrammo nell’ufficio di Kerstin e lei cercò il mio turno diservizio sul computer.

«Quanto hai detto che starai via?»«Una settimana, forse dieci giorni. Non c’era una riunione

mercoledì?»«Me ne occupo io. Però hai il processo venerdì mattina».«Cerca di spostarlo».«Farà freddo là, adesso, eh? E sarà buio, saranno corte le gior-

nate in questo periodo dell’anno, no?»Guardò fuori dalle alte finestre, come per accertarsi che fosse

ancora chiaro, giù ai binari dove era appena passato il treno pen-dolare da Södertälje. Aveva smesso di piovere, ma le nuvoleerano plumbee e stavano sospese grevi sopra gli alberi del liceodall’altro lato della scarpata ferroviaria.

«Non sarà certo un problema».«Lavoravi là, prima, vero?»«Sì, ho fatto il praticantato e i primi anni presso il tribunale

di Gällivare».«Hai visto le previsioni del tempo?»Scossi la testa e lei si strinse addosso la giacca del completo

grigio, per sottolineare quanto fosse lontano quel luogo, quantoapparisse freddo e buio e remoto guardandolo da qui, dall’oriz-zonte di Stoccolma.

«Quando sei andata da quelle parti l’ultima volta?»«Saranno quasi dieci anni».«Ho controllato le informazioni meteorologiche, c’erano 32

gradi sotto zero questa mattina. Sii prudente. Promettimelo».

*

Successe tutto troppo in fretta. Così in fretta da cogliermi disorpresa.

Solo un baluginio. Un bagliore, un riflesso lungo un se-condo contro il buio e la neve bianca. Feci appena in tempo a

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rendermene conto. Solo un’ombra scura contro la neve biancasul ciglio della strada.

Poi successe tutto più in fretta di quanto ci si possa immagi-nare.

Il parafango colpì la renna con violenza e il corpo grigio fusbalzato sul cofano e contro il parabrezza. Gli zoccoli e le zampeanteriori colpirono il tetto della macchina prima che l’animalerotolasse di nuovo sul cofano e scivolasse lentamente giù, da-vanti alla macchina.

Quando finalmente riuscii a fermare l’auto, l’animale erascomparso. Solo una macchia di sangue sul parabrezza e unciuffo di spessi peli grigi incastrati sotto il tergicristallo. C’eranoalcuni graffi e ammaccature sul cofano, ma non riuscivo a ve-dere la renna da nessuna parte.

Spensi il motore. Nel silenzio si sentivano i cocci del fanalerotto che cadevano tintinnando sulla strada ghiacciata.

Rimasi seduta così per alcuni secondi, guardando nel buio. Ilcono di luce del fanale intatto penetrava nel buio, bianco difronte a me. I cristalli di neve vibravano nella luce gialla. La tor-biera sembrava sterminata. I contorni disordinati dei pini si fon-devano con il cielo. L’aurora boreale disegnava un enorme arcoverde su quel paesaggio deserto.

Quando lasciai la presa sul volante, le mani si misero a tre-mare incontrollate.

Uscii dall’auto riscaldata e il freddo mi fece lacrimare gliocchi. Il naso e la bocca mi si congelarono.

La renna, un cucciolo di un anno con delle corna sottili e ra-mificate, giaceva incastrata sotto la ruota anteriore destra. Avevale zampe posteriori rotte, ma era viva. Scuoteva la testa e il suosguardo vagava terrorizzato nella luce dei fanali. Una zampa an-teriore colpì il paraurti. Aveva un taglio sulla spalla ma non si ve-deva sangue nella ferita bianca aperta. Forse perché facevatroppo freddo?

C’erano 31 gradi sotto zero all’aeroporto di Kallax, qui eranosicuramente 35 ed era l’una e mezzo di notte passata. Venti, forsetrenta chilometri da Korpilombolo. Settanta da Pajala.

Potevano volerci ore prima che un’altra macchina passasse di

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qui a quest’ora della notte.Le scarpe erano troppo leggere. Il freddo della strada mi fa-

ceva tremare le gambe, mi risaliva tutto il corpo. Mi addormen-tava i nervi, mi bloccava le articolazioni. Rendeva i mieimovimenti goffi e rigidi.

Rientrai in macchina e mi misi il berretto di lana. Con faticaaprii il bagagliaio: il coltello era nella tasca esterna dello zaino.

Il freddo era umido e pungente, le mani s’incollavano allastruttura dello zaino e alla maniglia del bagagliaio. Era un co-mune coltello Mora, vecchio, l’avevo ereditato da mia madre.Aveva una guaina di cartone pressato e un manico di legno rosso,piccolo e consumato. La lama era un po’ arrugginita ed io pas-sai cautamente il pollice sul filo. Era freddo e non aveva sensi-bilità, ma il coltello sembrava affilato. Quel tanto che bastava.

La renna sussultò quando mi vide alla luce dei fanali. Diededei colpi con la testa e batté la zampa anteriore contro il davantidella macchina.

Io girai intorno all’auto per evitare di guardarla negli occhi.Mi accovacciai e cercai di accarezzarla sulla testa per tranquil-lizzarla.

«Miesse, miesse, siivos miesse».Non sapevo cosa significasse. Dovevo averlo sentito dire

qualche volta alla mamma o alla nonna e si era fissato nel miosubconscio, da qualche parte.

La renna dava dei colpi con la testa, inquieta, ed io cercai diprenderla intorno alla gola con il braccio sinistro. La testa si sco-stò, le sue corna sottili mi grattarono la guancia e vidi il terrorenegli occhi neri sotto le lunghe ciglia.

Cercai di tenere ferma la testa, ma era troppo lontana. Nonosai avvicinarmi di più per avere una presa sicura sulla gola.

La renna lottava per liberarsi, grugniva tremando di paura, ilvapore del suo respiro ansimante si trasformava in cristalli dineve fluttuanti che brillavano alla luce dei fanali.

Non l’avevo mai fatto prima d’allora. Ma avevo visto miononno e mio zio farlo innumerevoli volte.

«Miesse, miesse».M’inginocchiai e tenni ferma la testa nell’incavo del braccio.

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Con le dita dell’altra mano tastai le ossa del cranio. Trovai il pic-colo avvallamento dietro la base ossea delle corna, cercai le primevertebre. Cercavo di trovare il punto giusto.

L’animale sotto di me, caldo e fumante, tese tutti i muscoliper liberarsi. Il corpo magro si serrò in uno spasimo. Le zampeposteriori rotte non obbedivano ai movimenti. Quella anterioremi colpì il braccio.

Non so dove trovai la forza.Improvvisamente fu tutto chiaro. Strinsi la presa sulla nuca

del cucciolo, piegai la gamba sinistra e mi gettai sulla renna spa-ventata con tutto il peso del mio corpo.

Il sangue del graffio sulla guancia mi colò sulle mani mentregiravo la testa dell’animale disperato contro la strada ghiacciata.Puntai il coltello sulla nuca con la mano sinistra e lo spinsi nellacolonna vertebrale con la mano destra. Dovetti colpirlo diversevolte prima che la lama penetrasse nella spina dorsale. La feciruotare in modo da sentire che si muoveva tra la cartilagine e levertebre.

L’animale sobbalzò, si tese e collassò. I muscoli del collo sirilassarono. La testa cadde pesantemente sulle mie gambe.

Rimasi lì seduta sopra il cadavere fino a quando iniziarono glispasmi post-mortem. Respiravo affannata e avevo un sapore disangue in bocca.

Col corpo rigido e le mani brucianti dal freddo, mi alzai dalcucciolo di renna morto e rientrai in macchina. Rovistai nellacartella per estrarre il cellulare.

Accesi la luce interna e guardai il mio viso agitato nello spec-chietto retrovisore brinato mentre digitavo il 112.

Da una ferita appena sotto l’occhio mi usciva del sangue.La centrale SOS mi mise in collegamento con la polizia di

Luleå. Era a più di centocinquanta chilometri di distanza, maera il posto più vicino con un presidio notturno.

«Sono l’assistente procuratore Anna Magnusson, del tribu-nale di Södertörn. Volevo comunicare che ho investito una rennasulla strada per Pajala. Venti o trenta chilometri a sud di Korpi-lombolo».

«È morta?»

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«L’ho uccisa io».«L’automobile ha subito dei danni?» Non chiese se io ero ferita. Era alla macchina che pensava.

Aprii la portiera e sputai sangue sulla strada.«Niente di grave».«Sei diretta a Pajala?»«Proseguirò oltre il confine finlandese. Devo essere a Kauto-

keino domani».«Puoi rimuovere le orecchie?»«Non c’è nessuno alla stazione di polizia di Pajala a que-

st’ora?»«Basta che tu tagli le orecchie e le metta in un sacchetto, poi

appendile alla maniglia della porta del benzinaio OK quandopassi da Pajala».

Si sarebbe occupato lui dei dettagli. Mi asciugai il viso conuna salvietta inumidita che trovai nel cassetto del cruscotto eper un attimo cercai il coltello, prima di ricordarmi che l’avevoappoggiato di fronte a me sul cofano.

Il freddo faceva fumare il corpo della renna. Calpestai unamassa marrone, vomitata dall’animale morto, e mi asciugai lescarpe nella neve compatta sul ciglio della strada.

Quando tagliai via le orecchie, mi scivolò il coltello e mi feriileggermente la mano.

Guardai il taglio. Non sanguinava. Il gelo mi tendeva la pelle.Era solo un segnetto bianco nel punto tra pollice e indice.

Avvolsi la sciarpa intorno alla ferita e cercai di fare retro-marcia dal mucchio di neve solida. Il corpo della renna era in-castrato sotto la parte anteriore dell’auto. Dovetti scendere,sdraiarmi sulla superficie irregolare della strada e, facendo leva,staccare le zampe rotte che si erano incastrate tra il montante el’ammortizzatore.

Quando feci per risalire, dopo aver spostato la renna mortasul ciglio, persi completamente le forze. Dovetti inginocchiarmivicino alla portiera e vomitare.

Riuscii a malapena a rientrare in macchina.Rimasi seduta almeno dieci minuti, con la testa appoggiata al

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volante, prima di riuscire ad andarmene. Le orecchie rimasero là,sul ciglio della strada.

Quello che mi spaventò, in quell’occasione, proprio quellanotte seduta nella macchina gelida, furono le mie sensazionimentre uccidevo. Il modo in cui avevo risvegliato un qualchestrano mostro nascosto da qualche parte nel mio corpo. Il modoin cui i gesti, l’istinto e l’adrenalina avevano agito in sinergiafuori dal mio controllo. Non avevo mai provato niente di simile.

La cosa più spaventosa, quella che mi sconvolse maggior-mente, fu che non era stata una sensazione spiacevole. Al con-trario. Avevo rigirato il coltello con un senso di gratificazione.Avevo percepito le cartilagini e le vertebre che si frantumavanocome una conferma del fatto che stavo agendo nel modo cor-retto. Che avevo trovato il punto giusto nella spina dorsale del-l’animale.

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Dopo che ebbi letto attentamente due volte i documenti del-l’indagine, erano quasi le otto di sera. C’erano le dichiarazioni diun solo testimone. Era come se fossero finite tra i documentiper caso. Il testimone era stato denunciato per percosse quellastessa sera, per aver buttato a terra un giovane durante una rissaal pub. Durante l’interrogatorio aveva menzionato casualmentedi aver notato Nils Mattis un po’ prima.

Mi alzai dalla scrivania, rimasi in piedi un attimo e guardaigiù nella piazza deserta. C’era qualche finestra illuminata nel pa-lazzo comunale, il tubo fluorescente rotto sopra il bancomatlampeggiava avvilito. Fuori dall’ufficio postale abbandonato c’eraun’auto ricoperta di neve. Giù al fiume il fanale di una motoslittabrillava tremolante come una stella infelice. Scomparve a velo-cità vertiginosa sotto il ponte lasciando dietro di sé una nuvoladi neve scintillante nell’ondeggiante luce gialla dei lampioni.

La lampadina fuori dall’obitorio della chiesa era accesa. Qual-cuno che aspettava il suo turno, lo scioglimento del ghiaccio euna giornata adatta per la sepoltura.

«Hai finito,vedo».L’agente di polizia era giovane e indossava un misto tra uni-

forme e abiti civili. Giacca dell’uniforme e pantaloni con il fre-gio, maglione di pile e stivali pesanti.

Scrollò la neve dal berretto e mise timidamente un cartonedella pizza sulla scrivania, come se non sapesse se fosse la sceltaadatta.

«Ho pensato che avessi fame. Possiamo dividercela. Primaperò la scaldo un po’… nel microonde. Durante la strada si èraffreddata».

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Scomparve verso qualcuna delle stanze interne della stazionedi polizia deserta.

Ero arrivata a Kautokeino nella mattinata. Il cielo era statolimpido e aveva fatto freddo fino a Kolari, sulla sponda finlan-dese del fiume Muonio.

Alcune decine di chilometri a nord del fiume la temperaturaera improvvisamente salita e mi ero ritrovata in una tempestadi neve, come un muro bianco sulla strada che era diventatacome una pista, difficile da percorrere. Col mio unico anabba-gliante non ero mai sicura che non ci fossero altre renne per lastrada. Per cento chilometri non vidi nemmeno una macchina.Solo luci esterne di case immerse nel bosco, in lontananza.

Nei pressi di Muonio incontrai un camion di legname chesollevò una nuvola di neve e mi fece quasi finire fuori strada. Mifermai a una stazione di servizio abbandonata e cercai di dor-mire qualche ora con il motore acceso e il riscaldamento al mas-simo.

Quando mi svegliai, ero bagnata di sudore e i finestrini eranoumidi di condensa. Era ancora buio fuori, ma mentre cercavo digrattar via la neve ghiacciata dal parabrezza passarono alcuneauto.

Non avevano ancora pulito le strade dal lato norvegese delconfine e dovetti aspettare un paio d’ore alla dogana di Kivi-lompolo prima che lo spazzaneve norvegese arrivasse sollevandouna coda di scintille gialle con la lama. Il guidatore saltò il suocaffè mattutino, si diresse deciso verso il confine e tornò versoKautokeino senza nemmeno una pausa.

Era più sicuro se lo seguivo, disse, in modo da non rimanerebloccata da qualche parte sulla statale deserta. Non pensava checi fossero molte auto in giro a quell’ora. Non con quel tempo.

La neve giaceva in strisce bianche davanti alla macchina edio cercavo di stare a distanza tale dallo spazzaneve da avere lamiglior visibilità possibile. Ma vedevo soltanto un turbinio dineve. Solo la luce gialla lampeggiante dello spazzaneve mi for-niva un indizio di dove fosse la strada.

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Alle nove circa del mattino arrivammo a Kautokeino. Nonmi preoccupai di mettermi in contatto con i miei parenti, mi li-mitai ad andare all’hotel, prendere una camera e rannicchiarminel lettino, al gelo, addormentandomi all’istante.

Quando mi svegliai, erano le tre del pomeriggio. La flebileluce azzurra che avevo intravisto prima di infilarmi a letto erascomparsa. La tempesta di neve era cessata, ma il vento conti-nuava. Mentre ero nella sala ristorante vuota, umida e freddadell’hotel, a guardar fuori sulle file di lampioni gialli ondeggianti,decisi di non telefonare alla nonna. Poteva aspettare fino all’in-domani.

Certo, avevo detto che avrei cercato di arrivare quel giorno,ma nessuno si sarebbe sorpreso se fossi arrivata quello successivo.In un certo qual modo sentivo di aver bisogno di un po’ di tempoper abituarmi a quell’ambiente senza dover tenere in conto gliobblighi sociali.

Dopo tre tazze di un caffè leggero con latte, presi la mac-china e mi diressi alla stazione di polizia.

Sulla scala rischiai quasi di cadere, spinta dall’impiegata chestava correndo a giocare le schedine. Potevo aspettare dentro,sarebbe tornata subito.

Il Samvirkelaget aveva cambiato nome in Coop-Prix e oraaveva delle porte a vetro con la fotocellula. Il vento aveva stac-cato il cartello con le offerte del giorno che ora sbatacchiava ras-segnato contro l’angolo dell’edificio.

L’impiegata tornò dopo qualche minuto. Il capo della poliziaera via, per un viaggio di lavoro. Già, era ancora Evald Eliassenil capo della polizia lì in paese.

«Non ci si libera di lui così facilmente».Rise un po’ dubbiosa e nello stesso tempo mi guardò con aria

indagatrice per vedere come reagivo al suo commento scher-zoso.

Comunque ora Eliassen era ad Alta a un qualche incontroriguardante l’organizzazione della polizia nel Finnmark, ma sa-rebbe tornato venerdì. Però avrei potuto parlare con un poli-ziotto che era la persona giusta per me, l’agente Kristiansen.

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«È fuori in garage».Tutte le stanze dell’ufficio erano illuminate, ma non vidi nes-

suno. Nella stanza d’angolo, che doveva essere quella del capo,visto che era la più ampia e aveva una grossa cartina del distrettodi polizia, c’era un ricevitore radio che crepitava. Non avevo ideadi quanti poliziotti lavorassero qui. Ma, a giudicare dalle appa-renze, doveva essere uno dei più estesi distretti di polizia almondo. Un’enorme estensione di montagne e tundra intorno auna piccola località con sì e no tremila abitanti. Sulla scrivaniadi Eliassen c’erano alcuni raccoglitori ad anelli e una scatola dicartucce. Sul davanzale della finestra penzolava una piantinamoribonda di una specie indefinita.

Proseguii lungo il corridoio.«C’è qualcuno?»Nessuno rispose, solo la ricetrasmittente che crepitava sulla

scrivania del capo. In fondo al corridoio c’era una porta antin-cendio. Doveva essere quella del garage.

All’interno, la macellazione era in corso. Un ragazzo con icapelli biondi e un maglione di lana norvegese e un sami piùanziano con la tuta penzolante dalla cintura erano al lavoro in-sieme. Sul rimorchio della motoslitta c’era una renna a pezzi,appena scuoiata.

Quando entrai, il più vecchio dei due gettò la spalla in unagrossa cassetta di plastica.

Le pelli violacee di due animali appena scuoiati erano ap-poggiate sul cofano della macchina della polizia. Il sami asciugòil coltello sulla gamba della tuta e gettò il corpo scuoiato sul ri-morchio, prima di girarsi verso il giovane.

«La testa? Dobbiamo occuparcene?»«Freghiamocene. Le ferite sono già nel rapporto».«Sei tu Kristiansen?»Stava già venendo verso la porta, dov’ero io. Le maniche del

maglione erano arrotolate fino ai gomiti e lui si era pulito sottoil naso con le mani insanguinate, e aveva il maglione sporco disangue coagulato.

Non riuscivo a distogliere lo sguardo dall’uomo in tuta. Conpoche rapide incisioni del coltello, strappò i tendini delle zampe

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e staccò le giunture con un rapido schiocco.L’agente Kristiansen era più giovane di quanto mi fossi aspet-

tata. Non doveva essere molto oltre i venticinque.Occhi azzurri e un aspetto innocente. Era stata sicuramente

sua madre a fare quel maglione che ora aveva macchiato di san-gue. Teneva le mani insanguinate di fronte a sé.

«In cosa posso aiutarti?»Gli spiegai perché ero lì. Dovevo difendere un imputato in un

processo e volevo vedere le indagini. Era possibile leggere il rap-porto qui, così da evitarmi il viaggio fino ad Alta?

L’uomo più vecchio divideva il corpo della renna in piccolipezzi. Incideva tra le costole con il coltello affilato.

«Galga go guoikit vai suovastit? La fate seccare o affumicare?»L’uomo col coltello mi guardò sorpreso. Non si aspettava che

parlassi sami. Non poteva certo immaginare che con quella fraseinsignificante avevo praticamente esaurito il mio intero voca-bolario.

«Na, goakadit gal. Muhto galgá vuos sáltat. Certo, la facciamoseccare ma prima la mettiamo sottosale».

«Attenzione al sale, non va bene lasciarcela troppo tempo».«Lja badjel dušše. Solo una notte».

Kristiansen aprì la porta di metallo con una spinta e mi ac-compagnò nel corridoio. Aspettai fuori dal bagno mentre lui siripuliva dal sangue e, dopo un po’ di ricerche nell’archivio diEliassen, riuscì a trovare l’indagine che m’interessava.

«Puoi metterti qui?»Indicò incerto la sedia del capo della polizia.Mi sedetti sulla sedia da ufficio sfondata e cigolante e accesi

la lampada da scrivania.Lui rimase un attimo lì in piedi a guardare che sfogliavo il

sottile fascicolo. Ma presto scomparve di nuovo verso il garage.La ricetrasmittente crepitò alcune volte. L’impiegata della re-ception era andata a casa. Ero sola in tutta la stazione di polizia.

Si trattava di mio cugino. Nils Mattis, Niilas Mahte. Il fi-glio della sorella minore di mia madre, Sara Marit. Non lo ve-devo da vent’anni. Ci eravamo incontrati qualche volta quando

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da adolescente andavo a trovare i nonni, più che altro durantele vacanze, al pascolo estivo sulla costa.

Era un tipo schivo, un po’ timido, quasi goffo, e aveva circacinque anni meno di me.

Quello che ricordavo di lui era che non mi guardava mainegli occhi. E la sua stretta di mano debole. E il fatto che se nestava per conto suo. Si isolava in un certo qual modo.

Ma mi ricordavo anche di una vacanza invernale su dallanonna. La sua calma sicurezza quando la moto si era fermatadurante un giro in montagna, a febbraio.

Mi aveva portato con sé controvoglia sul rimorchio. Al ri-torno, la vecchia motoslitta del nonno si era fermata. Nel buiocrescente aveva smontato il carburatore, pulito l’ugello soffian-doci dentro e rimesso in moto. Senza la minima incertezza.Senza operazioni inutili.

Forse lì era un po’ più grande di quanto fosse nella foto cheavevo trovato sulla bacheca di mia madre. Dodici, tredici anni,non di più.

Possibile che la mia immagine mentale di lui fosse associatasolo al ragazzo timido e goffo che avevo incontrato per la primavolta al villaggio estivo? Sorrideva incerto al di sopra del fuoco,acceso per scacciare gli insetti, verso quella cugina sconosciuta daStoccolma.

Eravamo andati su fino a Kilpisjärvi e giù a Skiboten. Ave-vamo seguito la strada serpeggiante lungo la costa e c’eravamofatti trainare da un trattore per l’ultimo pezzo. Dal fiordo en-travano trionfalmente gli arcobaleni, e noi eravamo rimasti se-duti nella tenda, la lavvu, ad ascoltare la pioggia chetamburellava e il vento che tirava il telone. Il fumo del legno ba-gnato non riusciva a uscire dal buco sul tetto, ma turbinava al-l’interno.

All’epoca mia madre era ancora viva, ma non c’erano dubbisul fatto che era la nonna a regnare tra le donne, nella tenda. Sioccupava della cucina e dell’arredamento. Regnava sulle pelli direnna e i sacchi a pelo, sulla legna da ardere e sui ramoscelli dibetulla. Decideva su figli e nipoti. Teneva i cordoni della borsa

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e quelli del sacchetto del caffè. Controllava che ognuno dor-misse al posto giusto nella lavvu. Che i ramoscelli di betulla fos-sero disposti nel modo giusto sul vialetto.

Il nonno riusciva a nascondere, tra le pieghe segrete della tu-nica, solo la bottiglia di cognac che mio padre portava con sé.Grönstedt Tre Stelle. Lo beveva come medicina, in piccoli sorsidal tappo della bottiglia.

C’erano anche due piccole baracche e un magazzino, nelquale poter dormire, ma la nonna abitava nella tenda. Non l’homai vista dormire.

A qualsiasi ora del giorno e della notte se ne stava nel suoangolo, sempre indaffarata. Aggiustava i vestiti, preparava damangiare, stigliava la sennagräs o la paglia, intrecciava nastri ocuciva qualcosa.

Aveva i capelli neri e gli occhi chiari. Erano grigioblù, un co-lore insolito. La mamma ed io li avevamo marroni. Lo sguardodella nonna era come acciaio. Quando guardava qualcuno, lotrapassava.

Il nonno era quello che cedeva, che si faceva da parte. La-sciava il posto agli altri, soprattutto alla nonna. Strizzava l’oc-chio a noi bambini, con aria d’intesa. Il suo senso dell’umorismoera inciso nelle sottili rughe intorno agli occhi.

Nils Mattis era al villaggio estivo senza i suoi genitori. Eral’unico figlio di Sara Marit. Quella che aveva sposato l’alleva-tore di renne.

La famiglia dello zio Einar non aveva certo tante rennequanto la nostra, ma era gente con un’attività con tutte le cartein regola. Si occupavano degli animali in famiglia. Nils Mattisera destinato a portare avanti l’attività. Avrebbe fatto il garzonefinché fosse stata ora di assumersi tutta la responsabilità delbranco di famiglia.

Rimasi seduta per un bel po’ con le mani sul sottile fascicoloe cercai di immaginarmi Nils Mattis, per come me lo ricordavo.Ma continuava a tornarmi in mente la sua immagine in quellaprima estate.

Ci avevano mandati in qualche torbiera sui monti per vedere

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se i multe, i lamponi artici, erano maturi. Se era ora di racco-glierli. Avevamo gli zaini con il pranzo al sacco e avevamo cam-minato almeno dieci chilometri senza che lui dicesse una parola.

Anche se era più piccolo di me, era lui a fare da guida. Pio-vigginava quando eravamo partiti dal villaggio, ma una volta incima alla montagna il cielo si era schiarito e il sole aveva squar-ciato le nuvole basse. Il vapore si sprigionava dal sentiero nellatorbiera e dai cespugli umidi di salice delle montagne. Le ombredelle nuvole sfilavano sui monti di fronte a noi e la nebbia, sot-tile e leggera, si muoveva come veli bianchi quasi trasparentilungo i ruscelli e i corsi d’acqua. Un piviere dorato ci seguivanervosamente emettendo forti gridi. Dei labbi volavano in cir-colo sopra di noi, pronti a gettarsi se ci fossimo avvicinati troppoal loro nido.

C’eravamo fermati vicino a un ruscello abbastanza largo afare il caffè.

Lui aveva acceso il fuoco mentre io mi ero tolta gli stivali ele calze, ero entrata nell’acqua gelida e ci ero rimasta fino a per-dere la sensibilità nelle gambe. Avevo tredici anni, o forse quat-tordici, all’epoca.

Sfogliai l’indagine fino a trovare i suoi dati personali per ve-dere quando era nato.

Una semplice fototessera era fissata con una graffetta sul mo-dulo. Guardai la foto ma non riuscii a riconoscerlo. Anno di na-scita: 1979.

Quindi doveva compiere dieci anni la prima volta che ci era-vamo visti.

Ero rimasta nell’acqua gelida e mi ero lavata il viso mentre luisi occupava del fuoco.

Quando avevo guadato il ruscello per uscire, era venuto sullariva a riempire il bricco del caffè.

«Non ti butti?»Mi aveva guardato con aria interrogativa, come se avessi par-

lato con qualcuno che stava appena dietro di lui.«Non è fredda».Lui si era limitato a piegarsi e riempire d’acqua il bricco di al-

luminio annerito. Mi aveva lanciato uno sguardo dubbioso,

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senza guardarmi negli occhi, e aveva scosso la testa.Avevamo bevuto il caffè e mangiato in silenzio. Quando era-

vamo ripartiti su per la montagna, era toccato a me stare da-vanti.

Un po’ più su lungo il sentiero avevamo spaventato una ni-diata di pulcini di pernice. La femmina era svolazzata via da-vanti ai nostri piedi sbatacchiando le ali. Nils Mattis era tornatoindietro a cercare tra i cespugli. Mi aveva mostrato i piccoli chevagavano tra le betulle nane.

«Sta cercando di attirarci lontano dai pulcini».Era stata la prima cosa che mi aveva detto e per un attimo

avevo visto una scintilla nei suoi occhi mentre iniziava a cercaretra i cespugli. Aveva catturato uno dei piccoli con le mani e mel’aveva messo davanti. Dalle sue dita annerite spuntava solo latestolina punteggiata di marrone.

«Attento, puoi fargli del male».Lui non aveva capito cosa intendevo, ma aveva sollevato il

piccolo verso di me nel pugno chiuso.«Okta unna rievssas. Un pulcino di pernice».Non avevo capito la frase in sami. Lui l’aveva ripetuta, an-

sioso, si era messo a ridere quando avevo cercato di dirlo in sami.Stringeva quel piccolo pulcino. Me l’aveva messo davanti al viso.Troppo vicino, cercando di farmi spaventare. Mi prendeva ingiro perché non osavo tenere in mano quel fragile uccellino.

«Prendilo».Io avevo rifiutato, girandomi dall’altra parte per farlo smet-

tere. Quando mi ero voltata di nuovo, mi aveva sorriso con ariadi scherno. Era il viso di un uomo adulto in un bambino magro.Aveva gettato il pulcino tra i cespugli e gli aveva dato un col-petto con lo stivale. I piccoli gracchiavano disorientati, mentrela femmina svolazzava qualche metro più in là.

Ero andata via in fretta, col timore che lui facesse del male aipulcini solo per far colpo su di me. Che li uccidesse solo per di-mostrarmi quanto fosse effimera la vita lassù sui monti. Che cal-pestasse a morte i piccoli per dimostrare che quello non era unposto per noi viziati ragazzini di città. Che potevamo pure starelontani da lì.

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I lamponi artici non erano maturi. Ma sul versante nord e al-l’ombra del mattino fiori e frutti acerbi erano già gelati, anche seera solo l’inizio di agosto. Avevamo raccolto un paio di litri in al-cune piccole torbiere più in basso.

Lui non aveva detto più niente quel giorno. Non mi ricordose ci siamo parlati in qualche altra occasione quell’estate.

E ora ero qui per cercare di difenderlo in un processo penale.Niilas Mahte.

Stupro. Sotto minaccia di armi. “Agitato il coltello” avevadetto la nonna al telefono.

«Non è la prima volta, è già successa una cosa del genere»aveva detto.

Ma era la prima volta che era arrivato al punto di essere ac-cusato e processato. La donna che l’aveva denunciato venivadalla costa, ma aveva abitato qui in paese per un po’.

«Una rivgu. Avevano sicuramente bevuto» credeva la nonna.

L’agente Kristiansen tornò con il cartone della pizza e duebottiglie di acqua minerale. Si era tolto la giacca e il maglionenorvegese. Indossava una polo con il simbolo di una squadra dibaseball americana.

Sembrava a suo agio tra i cassetti della scrivania del capo,poiché ne aprì uno e tirò fuori un pacchetto di tovaglioli. Miprestò il coltello da macellaio così tagliai la pizza in fette delladimensione adeguata.

«Hai trovato qualcosa?»Fece un cenno verso il fascicolo con l’indagine che avevo po-

sato sulla scrivania.«Cinque refusi e qualche errore di sintassi».Non lo trovò affatto divertente. So bene che non bisogna

scherzare con i poliziotti di queste cose. Se poi si è svedesi inNorvegia, non bisogna fare troppo i presuntuosi. Perciò met-temmo tra noi la pizza con il formaggio gommoso e masti-cammo i pezzi di salsiccia piena di grasso, senza trovarenient’altro da dire.

«Conosci quest’indagine?» tentai, per rompere quell’imba-razzante silenzio.

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Annuì con la bocca piena di pizza. Era stato lui a condurla.«Sai che non puoi assumere la difesa in un processo legale

qui in Norvegia?»«Certo, ma posso assisterlo come consigliere legale».«Hai una formazione da giurista?»Tirai fuori tutta la storia della mia vita e dei miei studi men-

tre Kristiansen mandava giù i resti della pizza che si stava rap-prendendo. Spiegai che era stata la mia famiglia quassù achiedermi di venire qui per aiutare nella difesa e che le mie co-noscenze della lingua sami si riducevano a qualche isolata paro-laccia, qualche frase d’uso quotidiano e a chiedere l’ora.

Anche lui non sapeva molto di più. Si era diplomato allascuola di polizia l’anno precedente e aveva fatto domanda quassùperché gli piaceva andare a caccia e pescare. E poi era stata lapossibilità di usufruire della neve da ottobre a maggio che l’avevaattirato qui. Era uno sciatore ed era arrivato nono nei Campio-nati Master norvegesi. A quanto pareva era un risultato piutto-sto buono.

Senza sapere se fosse permesso, feci una copia dell’indaginecon i suoi refusi. Ma Kristiansen era uscito per caricare in mac-china le cassette di plastica con la renna macellata, perciò nonpotevo chiedere a nessuno.

Quando tornai nel garage, l’uomo con la tuta da motoslittaera scomparso, ma le pelli di renna erano ancora appese lì. Midiede un passaggio fino all’hotel con la macchina della polizia.Prima però facemmo una deviazione fino a una casa in un quar-tiere giù al fiume. Aspettai in macchina mentre Kristiansen de-positava le cassette con la renna a pezzi. C’era ancora vento eper terra era sdraiato un cane coperto di neve. Per un attimopensai che fosse morto, ma quando Kristiansen uscì da casa, sialzò, si scosse la neve di dosso e abbaiò simbolicamente, primadi ritornare ad arrotolarsi per terra.

«Il capo della polizia pensava che non fosse necessario arri-vare all’incriminazione. Ma era successo un po’ prima, quindinon so».

Fermò l’auto davanti alla scalinata dell’hotel. Non aveva dettoniente della causa contro Nils Mattis, prima, ed io non avevo

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fatto domande. Adesso non sapeva esattamente come la pen-sassi e voleva probabilmente capire da che parte stessi.

«Penserai anche tu che è inutile incriminarlo, visto che as-sumi la sua difesa».

«No, per niente. Credo che sia giusto che si svolga un’inve-stigazione giudiziaria. Se si archivia il caso, ci sarà un sacco dichiacchiere».

«Sì, anch’io ho fatto più o meno lo stesso ragionamento. Manon so. Qui è un po’ diverso. Quelli che fanno le leggi non sannocom’è quassù».

«È stata una decisione unanime quella di iniziare il procedi-mento legale?»

«Abbiamo discusso a lungo. Eliassen in effetti ha più espe-rienza di come vanno fatte le cose. Poi ho chiamato il pubblicoministero ad Alta e lui ritiene che dobbiamo proseguire con leindagini».

«Non ho visto nessun indirizzo della donna che ha sportodenuncia».

«Si è trasferita, credo. A Karasjok. Vedrò se riesco a trovarlo».

Quando uscii dall’auto della polizia, il vento aveva cambiatodirezione e soffiava verso nord-ovest e la neve frusciava sul par-cheggio davanti all’hotel. Kristiansen sollevò la mano in unasorta di saluto mentre se ne andava.

Rimasi per un attimo fuori dall’ingresso, guardando giù versoil fiume e la fila di lampioni gialli che si snodava fin sopra lachiesa, su fino al macello e alle nuove case sotto Avzivägen.Quelle case non c’erano l’ultima volta che ero stata qui. Dovevaessere stato sette od otto anni prima.

Quando mi arrampicai sulla neve ammucchiata dietro al par-cheggio, vidi l’auto della polizia scendere dalla collina e svoltareal Boddu, il pub giù al fiume. Per caso a Kristiansen non era ba-stata la pizza che aveva diviso con me?

Quella notte avrebbe nevicato di nuovo. C’era come un pre-sagio nel vento. Un odore o forse solo una morbidezza umida delvento contro il viso. La temperatura si sarebbe alzata, i fiocchidi neve sarebbero stati più grossi e si sarebbe dovuti stare più

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attenti. Il branco di renne diventava inquieto con le variazionidi tempo, si sarebbe potuto disperdere nei pascoli mentre i pre-datori si muovevano, invisibili, nella neve morbida.

Naturalmente era solo un’impressione. Forse era qualcosa chemi tornava in mente da tutti i racconti di mia madre.

Quando da piccoli mettevamo una coperta sopra il tavolodella cucina e ci mettevamo là sotto, tutti vicini, laggiù a Sun-dbyberg ad ascoltare gli ululati della tempesta e gli straordinariracconti della mamma sulla natura e il vento, gli animali e gliuomini. Racconti che non avevano mai una vera e propria fine.Nessun punto d’arrivo o conclusione.

Ma le storie erano spaventose, mistiche, e per qualche stranaragione capivamo che erano legate a quelle brevi settimane divacanza dai nonni. Quella capacità di capire dal vento che c’èneve nell’aria è una cosa che mi ha di certo raccontato miamadre.

Rimasi lì a guardare il paese, anche se iniziavo ad avere freddoai piedi.

L’auto della polizia uscì dal pub, proseguì superando il museolocale, e passò sul ponte verso la chiesa e il negozio di Hætta, cheera diventato un Rema 1000, parte di una catena a diffusionenazionale.

Quando scesi dal cumulo su cui mi ero arrampicata, spro-fondai nelle tracce lasciate dalle moto e mi riempii le scarpe dineve. Mi affrettai a entrare nell’hotel per evitare di congelare. Ilportiere mi diede la chiave della sauna e rimasi a lungo nel lo-cale bollente prima di telefonare a zia Sara Marit.

Dopo aver reagito scioccata al fatto che volessi stare all’ho-tel, mi spiegò che Nils Mattis era su in montagna dal branco direnne, ma sarebbe tornato l’indomani nel pomeriggio. Ci met-temmo d’accordo per vederci a casa loro il mattino di due giornidopo.

Di ritorno nella mia stanza presi i miei appunti e la copiadell’indagine e cercai un sistema per impostare il lavoro. Tentaidi stilare una lista di priorità delle cose più importanti.

Quali informazioni dovevo controllare? Quanto lavoro

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dovevo in effetti sbrigare per preservare l’onore della famiglia?Dov’è che esattamente entravo in gioco in quella storia? Qualera in realtà il mio ruolo?

Era ovvio che avessero chiamato me perché ero l’unica in fa-miglia ad avere una formazione giuridica. Di certo era più eco-nomico che rivolgersi a un avvocato che si sarebbe fatto pagarea ore.

Perciò mi aspettavo di dover passare i giorni di ferie cheavevo messo da parte a frugare senza motivo in una causa im-provvisata, in cui la corte avrebbe emesso una sentenza in auto-matico, fregandosene altamente di quello che un consiglieresvedese ritenesse o pensasse. Al processo avrebbero assegnato aNils Mattis un difensore d’ufficio a cui i miei buoni consigli nonsarebbero interessati. Era probabile che il mio coinvolgimentoavrebbe ottenuto l’effetto contrario. Il mio coinvolgimento nelprocesso si sarebbe ritorto contro di lui. Per Nils Mattis forsesarebbe stato più difficile spiegare la sua posizione con me checonfondevo le idee alla corte.

Presi i miei appunti e andai nel bar dell’hotel. Era chiuso. Mapotevo andare giù all’Aja, disse il cameriere del ristorante. Erail pub al piano di sotto.

Bastava dirlo alla reception, così avrebbero aperto la portadelle scale di servizio. E mi sarei evitata di uscire al freddo.

A un tavolo del ristorante c’erano due sami in costume tra-dizionale da cerimonia seduti a bere cognac con un giapponesedai capelli cortissimi, con un vestito impeccabile e il gilè. Pro-babilmente i sami erano politici locali o rappresentanti del Par-lamento.

Magari stavano discutendo dei prezzi dell’anno successivoper la fornitura di corna di renna macinate.

Non riuscivo a sentire di cosa parlavano. Erano seduti con leteste vicine e sembrava che fosse più che altro il giapponese aparlare. Alla reception non c’era nessuno, perciò suonai il cam-panello.

Il portiere di notte uscì dalla cucina dopo qualche minuto, condella maionese sui baffi e una tazza di caffè in mano. Mi guardòsorpreso, come se fosse la prima volta che vedeva qualcuno lì.

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«Per aprire la porta…?»Quando indicai la porta alle sue spalle, mi guardò un istante

con aria interrogativa, prima di capire cosa intendevo.«Oh, questa».Certo, mi avrebbe aperto lui la porta delle scale. Con l’espres-

sione di uno che stava per mostrarmi la riserva d’oro dei Sami,aprì quella porta rovinata di impiallacciato e mi indicò la scalaangusta.

«Quando vuoi tornare, basta che bussi».

Scesi e sentii che richiudeva la porta dietro di me. C’era odoredi pesce fritto e tabacco stantio, lì sotto. Una debole lampadinada venticinque watt in un globo di vetro incrinato spandeva unaluce spettrale. Il corrimano rivestito di plastica si appiccicavaalle mani. Raggiunsi a tentoni la porta per entrare nel pub.

L’Aja. Non c’ero mai stata prima d’allora, ne avevo solo sen-tito parlare. Il nome significava “sorgente” in sami. E in effettimolti dovevano aver placato la loro sete, lì.

C’era a malapena una decina di persone nel locale. La mag-gior parte era seduta intorno a un tavolo nell’angolo in fondo.Comprai il mio “mezzo litro”, che in realtà era quattro decilitri,e mi sedetti a una delle panchine attaccate alla parete più lungadello stretto locale.

Era qui che tutto aveva avuto inizio, quindi. Secondo le in-dagini, Nils Mattis e l’accusatrice si erano incontrati qui. Ave-vano bevuto qualche birra insieme. Ballato in discoteca. Poierano usciti per prendere qualcosa nella macchina di un amico.

Un testimone li aveva visti fuori, in piedi vicino a un contai-ner nel cortile sul retro. Il testimone era all’interno e stava guar-dando fuori dalla finestra. Aveva visto la donna, quella che poiaveva denunciato Nils Mattis per stupro, aiutarlo a salire sul se-dile posteriore di una Volvo bianca. Una Volvo Amazon.

Eliassen aveva approfondito con altre domande.«È sicuro che si trattasse dell’imputato e di Karen Margre-

the?»Lui aveva riconosciuto Nils Mattis, ma non la ragazza.

Aveva i capelli biondi e una minigonna. Gli era rimasta

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impressa perché era vestita molto leggera.Durante l’interrogatorio Nils Mattis aveva addirittura ne-

gato di aver incontrato quella donna la sera in questione. Il te-stimone alla finestra poco dopo era stato coinvolto in una rissae aveva colpito un ragazzo di Masi con una bottiglia di birra. Sisarebbe potuto desumere che il testimone fosse ubriaco e quindinon molto affidabile.

Era stato interrogato sia per Nils Mattis sia per l’aggressione.Be’, non era certo stato un interrogatorio formale, ma più unachiacchierata con il capo della polizia dopo che l’indagine ri-guardante la rissa era stata abbandonata. La vittima non avevavoluto sporgere denuncia. Il caso era stato archiviato. Ma la te-stimonianza era rimasta nell’indagine di Kristiansen riguardantelo stupro.

I due sami e il giapponese scesero le scale dalla reception e misi sedettero accanto. Il giapponese sorrise a me e alle mie carte,che avevo sparso davanti a me sul tavolo.

Il politico sami con la cintura che brillava più vistosamenteandò a prendere la birra al bancone del bar.

Cintura con borchie rotonde, quindi non era sposato. Unsacco di borchie lavorate finemente. Quindi di famiglia bene-stante. Se avessi potuto leggere la fascia e i segni segreti sullasua tunica, avrei potuto capire a quale famiglia apparteneva, suquale sponda del fiume viveva e avrei potuto fare una stima diquante renne possedeva la sua famiglia.

«Business?»Il giapponese si girò verso di me con un sorriso storto.«Law. Public prosecutor».Un guizzo d’interesse negli occhi scuri del giapponese.«Crime or business?»«What’s the difference? You tell me?»Lui sorrise ancora. L’uomo con la cintura tornò con i bic-

chieri di birra, e si dedicarono di nuovo alla negoziazione degliafrodisiaci mentre io andai alla finestra per guardare fuori.

Il container era sparito. Tutto ciò che potevo vedere eranoalcuni bidoni dell’immondizia, una macchina senza para-fango e una motoslitta rossa appoggiata a una cassa di legno.

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Cominciava a nevicare. Grossi fiocchi pesanti che volteggia-vano al rallentatore fuori dalla finestra impolverata.

Presi un’altra birra, sfogliando un po’ le mie carte. Un saccodi lavoro di routine, e basta. Controllare la deposizione del te-stimone. Parlare con Nils Mattis. Cercare di incontrare la ra-gazza che aveva sporto denuncia. Organizzare un incontro conil pubblico ministero, giù ad Alta. Esaminare l’indagine con Kri-stiansen, dopo aver approfondito per bene il caso.

Un lavoro di due, tre giorni. Con un po’ di fortuna sabato seraavrei potuto essere a Stoccolma, alla festa per uno dei miei com-pagni di studi.

Ciò avrebbe implicato il sacrificio di quasi un’intera setti-mana di ferie per la famiglia. Forse sarei dovuta tornare quassùper il processo, se non fossero riusciti a raggiungere un accordoora, a far sì che la denuncia fosse ritirata.

La cosa più importante, in quel momento, era aver dimo-strato il mio sostegno ai parenti. Anche se il fatto di salvare uncugino ingenuo da una falsa denuncia per stupro non viene cer-tamente scritto in caratteri cubitali negli annali di famiglia. Lavoce ferita e accusatoria di mia zia, quando le avevo detto cheavrei alloggiato all’hotel quella notte, non mi lasciava in pace.Che io preferissi stare in una stanza di hotel costosa e imperso-nale invece di cercare la compagnia dei parenti quell’unica voltache venivo quassù, lo considerava un tradimento da parte mia,verso il mio compito e la mia famiglia.

Bussai alla porta per diversi minuti, ma il portiere di nottenon si fece vedere. Non mi rimaneva che ridiscendere la scala eandare sul retro dell’hotel.

La neve cadeva fitta, c’era un odore di fresco, quasi di prima-vera, mentre risalivo il pendio verso l’entrata dell’hotel. Anchequella porta era chiusa a chiave, ma c’era un campanello.

Dopo cinque minuti il portiere di notte fece la sua appari-zione e mi aprì. Mi guardò come se non mi avesse mai vistoprima e mi diede la chiave della stanza con aria molto riluttante.Comprai una Coca-Cola e, mentre lui rovistava indaffarato inun barattolo di vetro per darmi il resto, il giapponese salì e bussòalla porta della scala della cucina. Gli aprii, con la chiave che era

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nella serratura.Il portiere lo guardò con sospetto e gli consegnò la chiave di

malavoglia, prima di ritornare al barattolo dei cinquanta cente-simi.

Il giapponese andò a prendere nella sua stanza una botti-glietta di whisky di plastica, di quelle che danno sugli aerei e cisedemmo per un po’ nella sala ristorante buia e gelida. Bevemmoun bicchierino insieme guardando fuori dalla finestra, giù versoil fiume dove le motoslitte con le loro luci tremolanti lasciavanoil pub per sparire nella neve.

Non si occupava affatto di corna di renna macinate: apparte-neva a una sorta di comitato che stava preparando un festivaldelle popolazioni indigene in Giappone. Quando me lo chiese,raccontai che stavo preparando la difesa in un processo. Un casodi routine. Era affascinato dai costumi tradizionali di Kauto-keino, disse. I colori brillanti, i nastri e gli ornamenti.

Con mia sorpresa mi ritrovai a spiegare i costumi multicolori,che avevano a che fare con il fatto che la natura era priva di co-lori per la maggior parte dell’anno. Nel caso peggiore luglio eagosto erano gli unici due mesi senza neve. E bisognava vederei sami col costume da cerimonia durante i mesi freddi per per-cepire la grandiosità dei colori. Preferibilmente in primavera.Intorno a Pasqua, quando si celebravano feste in famiglia, ma-trimoni o confermazioni.

Non so nemmeno se credessi io per prima a quella spiega-zione, ma era una specie di teoria comune, di quelle adatte a unaserata in cui si è seduti in un ristorante buio con uno scono-sciuto giapponese a bere alcolici tiepidi in bicchieri di vetro graf-fiato.

Ero sami anche io?«Per niente. Ma si può dire che mia madre lo fosse».«La tua famiglia alleva renne?»«La nonna e mia zia. Ho un cugino e uno zio che lavorano

su in montagna».«E tua madre, ha un costume di queste parti?»Spiegai che mia madre era morta, ma da qualche parte nel

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guardaroba di casa, a Sundbyberg, era sicuramente appeso il suovecchio costume tradizionale. L’aveva indossato in qualche oc-casione quando eravamo bambini.

Noi ci vergognavamo un po’ di lei. Le proibivamo di met-terlo alla cerimonia di fine anno scolastico. Era troppo stranonell’ambiente in cui eravamo cresciuti. Un quartiere residenzialea Sundbyberg non ha bisogno di colori, nastri, ornamenti escialli di seta. Non c’è bisogno di mostrare chi si è, o quanto si èricchi, attraverso i vestiti. A Sundbyberg ci sono altri modi dimostrare il ruolo che si occupa in società.

Cercai di spiegarlo al giapponese, ma lui non capiva cosa in-tendevo. Mi chiese se avevo mai provato il costume di miamadre.

«No, non ci ho mai pensato. In realtà non so perché».«Devi farlo» disse. «Promettimelo».Ero troppo stanca per capire ciò che cercava di spiegarmi. Ci

mettemmo d’accordo per fare colazione insieme il giorno suc-cessivo.

Be’, in realtà era già il giorno successivo, dato che erano quasile tre quando ci augurammo la buonanotte. Il portiere di nottesembrava un gufo ferito quando il giapponese lo disturbò dalsonno per chiedere di essere svegliato il giorno dopo.

La mia stanza era calda come una sauna. Chiusi tutti i ter-mosifoni e aprii la finestrella di aerazione. Feci una palla con laneve raccolta sul davanzale e le diedi un morso. Il vento da nord-ovest era stabile, la neve aveva un odore fresco e acido. La palladi neve scricchiolava tra le mie dita.

*Quando chiuse lo sportello della lavatrice, sentì la corrente

d’aria fredda sulla schiena.Qualcuno era entrato dalla porta. Ma la porta non aveva fatto

rumore. Nessun passo al piano di sopra. Con il pacchetto di de-tersivo in mano andò fino alla scala e gridò verso l’ingresso

«Ehi, c’è qualcuno? Ehi! Sei tu?»Nessuno rispose. Lei tornò indietro e fece partire la lavatrice.

Raccolse i vestiti da montagna stesi in cantina. Tolse le spesseimbottiture di lana dagli stivali.

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Dallo scarico usciva un odore di muffa così sciacquò il pavi-mento di cemento con il tubo di gomma e rimase lì qualche mi-nuto a guardare l’acqua che lentamente veniva risucchiata dalloscarico per terra.

Piegò i vestiti asciutti e tese l’orecchio verso il piano supe-riore.

Nessun passo, nessun movimento. Ma aveva sentito la cor-rente d’aria e sapeva che lui era di sopra.

Avrebbe potuto chiudere la porta della lavanderia, arrampi-carsi fuori dalla finestra della cantina e cercare di raggiungere lacasa di sua sorella. Ma c’era un metro di neve sul retro della casa.Sarebbe stato quasi impossibile arrivare alla strada in quella nevefresca. La finestra sarebbe stata di sicuro bloccata nel telaio e luil’avrebbe sentita chiudere a chiave la porta della lavanderia.

Piegò gli ultimi vestiti nella cesta della biancheria. Aprì lacassetta degli attrezzi che c’era sotto il tavolo e prese il martello,ma lo rimise a posto dopo aver visto l’accetta nell’angolo dietroagli sci. Li spostò con cautela e la prese. La testa era malmessae il manico si era seccato, ma era tagliente, affilata da poco. Lasoppesò e tese l’orecchio verso il piano di sopra mentre si deci-deva.

Con l’accetta in mano salì le scale fino all’ingresso. La portaera chiusa. Nessuna traccia di neve sul pavimento.

Poteva essere stata la sua immaginazione. Forse la sua fanta-sia le aveva giocato uno scherzo. La corrente d’aria poteva esserearrivata da una presa d’aria o da una finestra socchiusa sulla scaladella cantina.

Entrò in cucina. Si fermò vicino al piano di lavoro ad ascol-tare. Si guardò intorno in quella stanza così familiare. Le sediedi plastica, le tazze del caffè sul lavello, il rubinetto gocciolante,il fornello con un segno scuro intorno alla piastra, per via delcaffè traboccato, il cartone del latte che si era dimenticata di ri-mettere in frigo. Il pacchetto del caffè, il mazzo di fiori secchi, icui petali quasi neri erano caduti sull’angolo del tavolo.

Aveva raccolto alcuni petali quando aveva preparato da man-giare qualche ora prima. Si era arrampicata fino in cima alloscaffale per prendere il coltello affilato, che metteva là sopra per

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tenerlo fuori dalla portata dei suoi nipoti. Mentre cercava diprenderlo, aveva urtato il mazzo di fiori e i petali di rosa secchierano caduti sul tavolo.

Quando poi aveva rimesso a posto il coltello, aveva preso ipetali secchi e li aveva sbriciolati tra le dita. Aveva inspirato il de-bole profumo di rosa e messo i petali nel barattolo del tè sulloscaffale delle spezie.

Adesso c’erano degli altri petali di rosa sul tavolo. Il coltelloin cima allo scaffale non c’era più.

Per un istante si arrabbiò con se stessa per aver cercato diconvincersi che era stata solo la sua immaginazione. Che lui nonera qui. L’aveva sentito, invece. Non aveva sentito solo la cor-rente d’aria della porta d’ingresso, era come se il suo corpo per-cepisse la sua presenza. Tutti i suoi sensi le avevano segnalatoche era lui a essere entrato.

Raccolse i petali e li mise nel barattolo del tè facendoli caderedall’alto. Erano fiori provenienti da un altro tempo. Essiccati econservati, ma in realtà morti. Della freschezza di quel colorerosso vivo rimaneva ora solo un leggero profumo. Allontanò l’ac-cetta da sé, sul tavolo, ed entrò in salotto.

Lui era seduto in poltrona ad aspettarla. Aveva il viso gonfioe gli occhi rossi.

«Ero giù in cantina» disse lei evitando di guardarlo. «Stavofacendo il bucato».

Lui non rispose, rimase completamente immobile nella pol-trona blu piena di pelucchi. Respirava affannosamente come sel’aria fosse priva di ossigeno e dovesse approfittare di ogni re-spiro per non soffocare. I muscoli del suo collo si muovevanocome se stesse deglutendo e le gambe iniziarono a tremargli len-tamente. I piedi sobbalzavano incontrollati sotto il tavolino.

«Ero giù in cantina» riprovò lei. «Ero solo giù in…»Lui si alzò dalla poltrona e cercò di colpirla al viso. Ma in-

ciampò nel tavolino e mancò il colpo. Lei finì all’indietro con-tro la porta della cucina. Lui si alzò in ginocchio e la guardò.

«Vieni qui!»Lei rimase con la schiena contro il telaio della porta. Lui si

alzò, spostò la poltrona verso di lei.

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«Siediti. Sarai stanca».Parlava a bassa voce, quasi sussurrando. Muoveva le labbra

come se avesse la bocca secca, o non fosse abituato a parlare.Come se non fosse sicuro delle parole.

Lei non si mosse e lui le spinse la poltrona ancora più vicinocon aria di comando.

«Non ce la faccio più» disse lei, e armeggiò con la cernieradella giacca di pile.

«Siediti. Siediti, cazzo!»Lui cercò di spingere la poltrona ancor più verso di lei, ma

lei si spostò dalla porta e andò alla finestra. Guardò fuori attra-verso il riflesso scuro della stanza.

Il coltello era sul tavolino.Riusciva a vedere il luccichio dell’anello d’ottone sul manico

di legno giallo. Un riverbero nel riflesso scuro.Forse avrebbe potuto prenderlo e cercare di uscire nell’in-

gresso. Se la porta non fosse stata chiusa a chiave, avrebbe fattoin tempo a uscire in strada prima che lui la raggiungesse. Nellostesso tempo sapeva che sarebbe stato un tentativo inutile.

Lui aprì la cerniera della giacca pesante. Fece un passo versodi lei. Lei si spostò di lato, cercando di stargli a distanza.

«Dove sei stata?» chiese a bassa voce. Quasi un sussurro, comese fosse passato molto tempo da quando aveva parlato con qual-cuno.

Un’auto passò sulla statale diretta verso l’hotel. I fari getta-rono una luce obliqua sulla neve ai lati della strada. Nel riflessodella finestra lo vide dirigersi verso di lei, chinarsi sul tavolo eprendere il coltello.

Dalla finestra proveniva un’aria fredda, appoggiò la fronte alvetro e guardò la stella di Natale alla finestra di sua sorella. Laluce gialla spandeva riflessi scintillanti sulla neve. Lui le si fermòdietro con le braccia penzoloni. Si protese verso di lei.

“Lo fa per togliermi l’ultima cosa di me che mi è rimasta”pensò lei. “Per togliermi il mio spazio vitale. Non posso nem-meno delimitare dei confini intorno al mio corpo”.

«Dov’eri? Rispondi, cazzo!»«Ero giù in cantina...»

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«Ieri sera! Dov’eri ieri sera?»«Dalla mamma. L’ho aiutata con le pellicce».Lui si chinò sulla sua spalla e le afferrò il braccio.«Non mentirmi! Non mentirmi così sfacciatamente!»Le spiegazioni non servirono a niente. Sapeva che qualunque

cosa avesse detto, lui avrebbe continuato con la stessa logica im-placabile. Non era il dolore in sé, era l’umiliazione, il senso d’im-potenza. Lui le torse il braccio e la costrinse a inginocchiarsi. Lacolpì sulla nuca col palmo della mano, le infilò le dita nei capellie le sollevò la testa.

Lei cercò di divincolarsi, ma lui la teneva saldamente per icapelli. Strinse la presa finché lei sentì le lacrime salirle agliocchi. Si sentiva tirare tutto il viso e le lacrime e il muco le sci-volavano sul mento. No, cazzo, non avrebbe ceduto così facil-mente.

Riuscì a sciogliere la testa dalla sua presa e a scivolare di lato,ma lui la afferrò di nuovo e la costrinse a inginocchiarsi, le giròla testa e le puntò alla gola il coltello affilato. Lei sentì l’odore delmetallo e del sangue secco sulla lama annerita, ne sentì la cru-dezza contro la pelle sottile della gola.

«Fallo. È meglio se lo fai».La sua voce era solo un sussurro e quando parlò sperava dav-

vero che lui lo facesse. Era così semplice. Così definitivo. La finedi tutte le paure e le umiliazioni.

Lui spostò il coltello e si alzò. Passò intorno al tavolo e si se-dette sulla poltrona. Iniziò a farsi una sigaretta guardando lei, lìsul pavimento.

«Perché mi prendi per il culo?» chiese. Lei rimase per terra e sentì l’odore del pavimento, il caratte-

ristico odore del tappeto bagnato. La debole corrente d’aria dallaparete. Il freddo che le accarezzava il viso, a tentoni come unagelida mano. Sapeva che questo era parte della tattica. Che erasolo una pausa nel gioco.

Lui si girò sulla poltrona. I piedi sobbalzavano sotto il tavolo.Accese la sigaretta e la guardò pensieroso.

«Non avrai mica creduto che volessi farlo così?»Lui guardò il fumo della sigaretta che volteggiava verso la

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frangia di perline gialle del lampadario.«O no?»Lei non rispose. Si limitò a raccogliere le gambe sotto di sé.

Si raggomitolò sul logoro tappeto marrone a pelo lungo. Sapevache non avrebbe avuto nessuna importanza ciò che avrebbedetto, o non detto. Bisognava seguire il rituale.

«Rispondi! Rispondi, brutta puttana!»Lui si alzò e andò da lei. Le diede un calcio nella schiena.

Lei cercò di rannicchiarsi contro la parete. Si premette contro latappezzeria gelida e cercò di proteggersi il viso con le braccia.Lui si chinò, le puntò un ginocchio alla schiena, le afferrò i ca-pelli e le voltò il viso all’insù.

«Devi imparare a non prendermi per il culo».La colpì in viso. Tutto ciò che lei sentì, fu la parete fredda

contro il suo corpo. Notte e oscurità. Il freddo azzurro ghiacciosulla neve. Pensò al freddo e alla neve là fuori, alla loro purezza.Al fascio di luce gialla diffuso dalla stella di Natale.

Mi svegliai intorno alle cinque per il freddo. Il cielo era bluscuro e pieno di punti luminosi che lo facevano sembrare unavecchia tendina punteggiata di buchi. Le costellazioni eranoruotate ed io rimasi lì per un po’ tentando di trovare i segni dellozodiaco che conoscevo, ma alla fine rinunciai.

Allora mi alzai, accesi la lampada e tirai fuori il blocco per gliappunti, ma non riuscivo a concentrarmi e dopo mezzora miriaddormentai svegliandomi solo quando la donna delle pulizieentrò nella mia stanza alle nove. Telefonai a Sara Marit e deci-demmo che sarei andata da lei nel pomeriggio.

Ad Alta riuscii a trovare il pubblico ministero dopo qualcheequivoco e un paio di telefonate sbagliate. Potevamo vederci ilgiorno dopo a Karasjok, in mattinata. Erano là per un processoche sarebbe durato tutto il giorno.

Bastava che chiedessi di lui all’hotel. Inge Amundsen. Ave-vano una pausa di un paio d’ore intorno all’ora di pranzo. Dissiche sarei arrivata intorno alle dodici. Non mi sembrò partico-larmente sorpreso che volessi parlare con lui del caso. Si limitòa scoppiare a ridere quando gli chiesi se era sicuro che stessimo

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parlando della stessa indagine.Karasjok era la città più vicina dal lato norvegese del confine.

Distava tanto quanto Alta, che era sulla costa del mar GlacialeArtico. Erano centotrenta chilometri sulle montagne dell’Alto-piano del Finnmark, ma non ci sarebbero dovuti essere problemi,secondo lui.

«Le strade sono aperte. In caso di problemi con la neve, bastaincolonnarsi dietro lo spazzaneve. Se c’è la sbarra abbassata nonoltrepassarla perché potresti rimanere bloccata sui monti».

Disse che contava di vedermi arrivare intorno all’ora dipranzo. Se fossi stata in ritardo, sarebbe bastato telefonare, e cisaremmo incontrati la sera, dopo la conclusione del processo.

Telefonai alla stazione di polizia. Kristiansen non era ancorain servizio e a casa non aveva il telefono.

«Sarà fuori ad allenarsi» disse la ragazza alla reception, ed iosentii il tintinnio dei ferri da maglia. «Ma riprova dopo l’una».

Andai nella sala ristorante a fare colazione. Il giapponese nonc’era, forse dormiva. Forse era già uscito per nuovi incontri congli indigeni. C’eravamo io e alcuni turisti tedeschi, al buffet dellacolazione. Di certo i tedeschi erano arrivati in motoslitta dallaFinlandia e adesso avrebbero dato un’occhiata in paese e com-prato dell’argento al laboratorio di Juhl, prima di ritornare.

Scambiammo qualche parola di fronte alla macchina per iwaffle. Indossavano pesanti maglioni di lana e sembravano spor-tivi e pieni di salute. Mangiarono le aringhe e le salsicce congrande appetito. Prepararono abbondanti colazioni al sacco av-volgendo le uova sode nella carta oleata. Si organizzarono contermos e arance.

Ridevano rumorosamente. Uno dei tizi mangiò il pompelmodecorativo che, con tutta probabilità, era nella cesta sul buffetdella colazione da quando l’hotel aveva aperto negli anni Set-tanta. Forse suo padre era stato uno di quelli che aveva raso alsuolo l’intero villaggio sessant’anni fa, quando die Wehrmachtaveva battuto in ritirata sull’Altopiano del Finnmark usandola tattica della terra bruciata. La maggior parte delle case quiin paese fu bruciata. E adesso i loro figli venivano qua per un

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safari in motoslitta. Arraffavano tutte le uova, senza nessun ri-guardo. Consumavano l’impasto per i waffle. Prendevano tuttele arance.

Io sorseggiai il caffè annacquato per infliggermi una puni-zione.

Questo posto era un purgatorio per anime naufragate. Peranime perse, attirate con l’inganno in queste lande selvagge perespiare i peccati dei loro padri. Anche se nel mio caso erano ipeccati di mia madre a dover essere espiati.

Perché lei aveva lasciato questo buco dimenticato da Dio abeneficio della metropoli svedese con i suoi fornelli elettrici, l’ac-qua calda, il WC, il riscaldamento centralizzato e le fognature.Di lavatrice, lavastoviglie e microonde non parliamone nem-meno.

Il mio disorientato ma gentile padre aveva attirato con sé unadelle figlie di questa terra selvaggia fino alle casette a schiera ealla scuola per insegnanti. Adesso ero io a dover compensarequesta perdita. Sostenere la famiglia. Far assolvere un cuginosempliciotto in un caso improvvisato di violenza sessuale. Sal-vare l’onore della famiglia.

I tedeschi presero i loro pacchetti di cibo e lasciarono il ri-storante. Io rimasi seduta finché fui sicura che fossero usciti perandare alle motoslitte nel fruscio delle loro tute sgargianti. Cosaci facevo io qui, in realtà? In realtà?

Alla reception c’era una nuova ragazza. Mi mostrò come fareper collegarmi alla rete internet dell’hotel e mi aiutò a inserirela spina nella presa del preriscaldatore. La sera prima me n’erodimenticata. Non c’era problema, spiegò lei.

«Basta che la macchina stia ferma un paio d’ore, dovrebbe es-sere abbastanza per scongelarla e farla partire».

Andai all’ufficio delle tasse locale che si trovava in un edifi-cio di legno rosso dietro un distributore di benzina.

Ma tutto il personale era a un corso ad Alta. Dietro al ban-cone c’era solo un ragazzo molto servizievole, un praticantemandato dall’ufficio di collocamento. Mi aiutò con gli indirizzidella mia lista, in maniera semplice e rapida.

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L’accusatrice, Karen Margrethe, si era trasferita dalla cittàsenza lasciare il nuovo indirizzo. Ma il ragazzo dietro al ban-cone sapeva chi fosse e gli pareva che lavorasse a Karasjok.

C’erano tre nomi allegati all’indagine. Presi nota dei loro in-dirizzi e il ragazzo mi aiutò a cercare i numeri di telefono giu-sti sull’elenco. Prima quello di un amico di Karen Margrethe,poi il testimone che li aveva visti dalla finestra e infine il butta-fuori del pub.

Kristiansen era fuori dal garage, giù alla stazione di polizia, ariparare la motoslitta. Siccome non aveva ancora iniziato a la-vorare, andammo al bar e ci offrimmo agli sguardi curiosi delComitato per il Tempo Libero.

«Finalmente hai trovato una fidanzata, Kristiansen, era ora!»A commentare il nostro ingresso fu uno dei tizi che stava fa-

ticosamente compilando le schedine all’alto bancone contro lafinestra.

Studenti in pausa, con addosso i loro pesanti piumini, scia-marono di sotto, lungo la fila di finestre, perciò noi ci mettemmonella zona soprastante, dove si giocava d’azzardo. In mezzo alleschedine del lotto, del calcio e delle corse di cavalli. Dietro latesta calva del gestore del bar, una lunga fila di telegrammi divincita attirava i giocatori con la promessa di una ricchezza fa-cile in cambio di una puntata modesta.

Kristiansen, stranamente, era un po’ imbarazzato da quelleattenzioni. Forse non era abituato a essere sotto esame quandoveniva a bere il caffè qui. Una coppia di anziani al tavolo vicinoal nostro mi fissarono curiosi ed io riuscii a sentire che si chie-devano chi fossi. Soprattutto di chi fossi parente.

«Ieri hai detto che non eravate d’accordo sul fatto di prose-guire o no con la denuncia contro Nils Mattis».

«Ho detto che ne abbiamo discusso».«Chi è che voleva archiviare la denuncia?»Lui arrossì e bevve un po’ di caffè prima di rispondere. Era

probabile che avesse fatto rapporto al capo della polizia e si fossepreso una sgridata per avermi mostrato il protocollo dell’in-chiesta.

«Era Eliassen a pensare che forse avessimo ingigantito la

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