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A Nicola Giordano,che a tredici mesi riconosceva già un “Gog”,

a Paola, che non s’emmerde jamais

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Così come in algebra due affermazioni false ne danno una vera, così spero che il prodotto dei

miei fallimenti si concluda con un successo.Vincent van Gogh

Dall’uomo al vero uomo,la strada passa per l’uomo pazzo.

Michel Foucault

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Vincent van Gogh defi nì la sua vita come “la discesa infi nita”.

È una bellissima defi nizione, perché il grande pittore ha vissuto la sua breve esistenza, anno dopo anno, in un modo sempre più dolente e doloroso. Allo stesso modo, anno dopo anno, mentre il suo spirito era eroso quasi fosse uno dei paesaggi che dipingeva, divorati da un sole implacabile e feroce, la sua arte divenne sempre più po-tente, unica e meravigliosa.

Van Gogh può essere considerato il padre della pittu-ra moderna: fece esplodere la forma e il colore, gettò il seme della pittura espressionista e addirittura dell’arte astratta.

Era pazzo? Questo è uno degli argomenti di cui ci occuperemo. Comunque vi anticipo sin d’ora che non lo credo affatto. E se proprio pazzo lo si vuol defi nire, per prendere fi ato davanti ai suoi dipinti e al racconto della sua vita, la sua era una forma di pazzia molto speciale.

Nacque il 30 marzo 1853. Centotrentaquattro anni dopo, il 30 marzo 1987, uno dei suoi dipinti più famo-si, I girasoli – tutti l’abbiamo in mente – venne venduto a un’asta di New York per quaranta milioni di dollari. Purtroppo lui era morto quasi un secolo prima, dispe-

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rato. Si uccise nel 1890, a trentasette anni, sconosciuto e poverissimo. Tuttavia è uno degli uomini cui la sensibi-lità moderna deve di più.

Dal momento in cui la società ne ha riconosciuto i me-riti artistici, lo ripaga facendone una specie di santo laico generoso, eroico, buono, stendendo un velo estetico sul-la verità della sua esistenza. Van Gogh era in realtà un essere disgraziato, che diffondeva intorno a sé infelicità. Disgraziato, nel doppio senso di colpito dalle disgrazie e di portatore di disgrazie, eppure ci ha riempito di una bellezza nuova e senza paragoni: il pauroso rispetto per una natura meravigliosamente crudele.

La sua è una vicenda straordinaria, la storia di un pic-colo uomo che sfi dò la società e la cultura del tempo e l’universo intero, sicuro di vincere. E vinse, anche se vin-cere gli costava la vita. Una vita dissipata minuto dopo minuto in privazioni d’ogni genere, fi no al sacrifi cio fi -nale, con una coerenza sostenuta solo da un’incrollabile fede in se stesso. “La vita è breve per tutti, e il problema sta nel farne qualcosa di valore”, scrisse nel 1885. Del-la sua esistenza, prima ancora che della sua pittura, fece un’opera d’arte. Proveremo dunque a raccontare e a ca-pire chi era davvero Vincent van Gogh, e perché i suoi colori hanno il potere di appassionare tanto.

Zundert, cittadina all’estremo sud dell’Olanda, a quei

tempi aveva poco più di cento abitanti, ma era abbastanza famosa come stazione di sosta per i cavalieri e le carrozze che andavano da Parigi al nord dell’Europa. Poi la fer-rovia, per parecchio tempo, la tagliò fuori. Oggi, grazie all’autostrada e alla fama di Vincent, è un fl orido villag-gio di settemilacinquecento abitanti, i quali devono molto all’illustre concittadino per il turismo che vi porta. Anche se di Vincent e della sua famiglia rimane ben poco.

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Da un lato della strada principale attorno alla quale si assiepa il paese, si riconosce subito la chiesa che fu la parrocchia del padre di Vincent, severo pastore prote-stante in una regione a maggioranza cattolica. La casa natale è stata abbattuta nel 1903 e, ora, sulla nuova pa-lazzina, c’è una semplicissima targa. Gli abitanti di Zun-dert hanno le stesse facce larghe e piatte dei tessitori e dei mangiatori di patate tante volte dipinti da van Gogh, ma oggi sono rosse, grasse, lucide, poco familiari al viso affi lato e sparviero di Vincent.

Nel giardino davanti alla chiesa di suo padre, ci sono alcune tombe. Su una, di pietra antica e incrinata, si legge: “Vincent van Gogh – 1852. Lasciate che i pargoli vengano a me, giacché a loro appartiene il regno di Dio. Luca, 18.6”. Non è la tomba di Vincent, bensì quella di suo fratello, nato morto esattamente un anno prima di lui, addirittura lo stesso giorno. Il nostro piccolo Vin-cent, dunque, passava davanti alla propria tomba ogni volta che andava in chiesa, cioè spessissimo, vista la pro-fessione paterna.

Non occorre essere Freud per capire che vedere tutti i giorni una tomba con il proprio nome, non può fare bene alla testa di un bambino. Humberto Nagera, psi-canalista esperto in disturbi nervosi dell’infanzia, ha de-dicato a Vincent un saggio che parte proprio da quella pietra. Il suo studio sostiene che la sostituzione di un fi -glio morto con un altro – subito dopo, e per di più con lo stesso nome – porta traumi gravissimi al sopravvissuto, perché il bambino sa che non sarebbe nato senza quella morte, e il senso di colpa lo tormenta per tutta la vita, portandolo a una disperata voglia di espiazione.

Probabilmente è quello che accadde anche a Vincent, ma la spiegazione clinica non ci soddisfa del tutto, per-ché la disperazione di van Gogh, che lo condusse fi no al

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suicidio, fu consapevole e lucida, e dovuta anche a altri motivi.

Quella pietra fu però un drammatico memento mori per il piccolo Vincent, romantico in un secolo roman-tico: gli toccò prendere confi denza con la morte ancor prima di conoscere la vita.

Come accade in molte esistenze non comuni, è incre-dibile che Vincent sia riuscito a diventare van Gogh. La sua era un’ottima famiglia olandese, anche se il nome signifi ca “di Gogh”, una cittadina della Westfalia tede-sca, dove ci sono tracce della famiglia fi n dal Cinque-cento. Erano stati ammiragli, alti prelati, e soprattutto mercanti d’arte. Theodorus, il padre di Vincent, era il più umile della sua generazione. Mentre i suoi fratelli hanno posizioni migliori, o addirittura ottime, lui fa il prete di paese e, pur pensando che avrebbe meritato di meglio, si consola credendo che il Signore ha voluto così. È sereno e rassegnato, chiuso e silenzioso. Da lui, il fi glio ereditò una scarsissima capacità dialettica. Vincent era un parlatore meno che modesto: timido, imbarazzato, farfugliante, quando non discuteva di pittura.

Anche suo padre, il pastore, era poco brillante nei ser-moni, il che costituiva una vera disgrazia. A differenza del padre però, in Vincent la fede in Dio fu molto meno salda, fi no a raggiungere una disperante crisi religiosa. Quanto alla mamma, si chiamava Anna Cornelia; era una pia donna di due anni maggiore del marito, che scri-veva in modo elegante lunghe lettere ai familiari, come si usava all’epoca. Una capacità, quella di scrivere, che fortunatamente trasmise al fi glio.

Anna Cornelia dette al primogenito Vincent cinque fratelli, fra cui Theo, di quattro anni più giovane: lo in-contreremo spesso, in questa storia, perché fu l’unico

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della famiglia a cui Vincent si sentì davvero legato. E citeremo spesso, perché sono un documento preziosissi-mo e di bella lettura, le sue lettere a Theo, continuamen-te tradotte e ristampate in tutto il mondo.

Di Vincent bambino invece sappiamo davvero poco. Leggeva parecchio e non stava volentieri con gli altri bambini, forse perché lo prendevano in giro per i capel-li rossi e per una certa aria da vecchio che aveva fi n da piccolo. Tutti coloro che lo conobbero a quell’epoca lo descrissero chiuso in se stesso e di carattere irritabile, se non irascibile. La sorella minore Elizabeth, che scrisse un libro di memorie, lo descrive così: “Di complessione più robusta che longilinea, la schiena un po’ curva per la cattiva abitudine di guardare sempre per terra, i ca-pelli rossicci tagliati corti sotto il cappello di paglia che faceva ombra sul suo strano viso. Non era la fi sionomia di un ragazzo. La fronte era già solcata precocemente da rughe; le sopracciglia, aggrottate per l’abitudine alla rifl essione, quasi si congiungevano sopra la fronte, so-pra gli occhi piccoli e infossati, ora azzurri e ora verdi, a seconda che l’impressione provocata dalle cose d’in-torno penetrasse più o meno profondamente nella sua coscienza”. Suggestiva, l’osservazione sugli occhi che – legati alla coscienza – mutano colore. Ma, nonostante l’amore fraterno, si capisce che il ragazzo non era pro-prio una bellezza.

Vincent non mostrò particolari propensioni alla pit-tura, anche se alcuni critici apprezzano un disegno fatto a undici anni, la tettoia di un podere, arrivato fi no a noi perché la famiglia ne fu talmente fi era da incorniciarlo, come spesso capita davanti alle produzioni creative dei propri bambini. In seguito gli stessi genitori dimostre-ranno di avere ben poca comprensione per l’attività pit-torica del fi glio. Certo è che Vincent arriverà tardi alla

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pittura, dopo un durissimo lavoro di esercizi e di studi da autodidatta, senza credere in se stesso fi no al giorno in cui, all’improvviso, scoprì la meraviglia del suo genio.

Fin da piccolo mostrò piuttosto di avere un’attenzione speciale verso la natura. Scrive ancora Elizabeth: “Mio fratello si allontanava dagli altri bambini zitto zitto; la-sciava il giardino passando da una porticina, attraversa-va i campi e seguiva un sentiero che conduceva in cam-pagna, quindi si dirigeva verso il ruscello. I bambini se ne accorgevano dalla bottiglia e dalla rete che portava con sé. Sapevano infatti che aveva un’abilità particolare nel catturare gli animali acquatici”. Elizabeth racconta che il fratello conosceva tutti i luoghi dove crescevano i fi ori più rari, e cercava sempre posti solitari, dove non avrebbe incontrato mai un compaesano, per poter spiare la vita di ogni specie di animali: gli insetti e soprattutto gli uccelli. Tuttavia non ci troviamo di fronte a uno spi-rito bucolico che vive di idilli. Sul suo tormentato rap-porto con la natura Vincent scriverà a Theo nel 1881, in piena attività pittorica: “La natura comincia sempre col mostrarsi refrattaria a chi vuol disegnare, ma, se si è profondamente intenzionati a farlo, non ci si lascia sviare dalla sua ostilità. Al contrario, essa stimola a vincere, e in fondo il vero disegnatore e la natura sono d’accordo. Nondimeno è certo che la natura è intangibile: occorre afferrarla con mano ferma”.

L’Olanda – o meglio i Paesi Bassi – era in un perio-do di pace e prosperità. L’intera esistenza di van Gogh si svolse sotto il regno di Guglielmo III, re dal 1849 al 1890. Benché tutto ciò interessasse pochissimo al sogna-tore Vincent, al governo c’erano i liberali, che dettero avvio all’industrializzazione e favorirono lo sviluppo del commercio, vera anima del carattere olandese, anche

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grazie alle colonie conquistate nei secoli. Il nostro van Gogh, però, non aveva nessuna propensione al commer-cio e al fare denaro, anzi.

Visto che a scuola non rendeva molto, come spesso accade a bambini che poi daranno grandi prove di sé, nel 1864, a undici anni, i genitori decidono di metterlo in collegio in un paese a trenta chilometri da Zundert. Pensano che il loro primogenito non possa imparare più niente dalla scuola pubblica, con un maestro rozzo e per di più troppo spesso ubriaco, e temono che la vici-nanza con gli altri bambini del villaggio, in prevalenza di famiglie contadine, possa avere una cattiva infl uenza su di lui.

Nel collegio Vincent imparò piuttosto bene il fran-cese, l’inglese e anche il tedesco, ma dei due anni che vi trascorse non si sa altro, come nulla si conosce dei due successivi passati in un secondo collegio. Quel che è certo, è che a quindici anni la famiglia decise di fargli abbandonare gli studi, nei quali evidentemente proprio non brillava, e di farlo raccomandare da uno zio mer-cante d’arte presso la Goupil, all’Aia. La Goupil era una galleria d’arte internazionale che si occupava soprattutto di artisti contemporanei neoclassici, romantici francesi e olandesi. Fu proprio lì, dove Vincent era l’impiegato più giovane, che si sviluppò il suo amore per l’arte, an-che perché nella galleria incontrò per la prima volta dei pittori in carne e ossa.

All’Aia visitò gli importanti musei pubblici della cit-tà, e prima ancora di compiere diciannove anni la sua sete di conoscere lo portò a visitare Bruxelles, Londra e Parigi. Era un uomo curiosissimo di tutto: del mondo, dell’arte, dell’essere umano. Gli piaceva enormemente soprattutto cambiare città, vedere posti nuovi e osserva-re il variopinto dispiegarsi della vita, in ogni sua forma.

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Osservare, soprattutto, anche senza partecipare. Nono-stante la voglia di farlo.

Intanto anche il fratello Theo viene impiegato nella stessa ditta, ma a Bruxelles, e Vincent gli scrive entusia-sta: “Mi fa tanto piacere che siamo ora nello stesso ramo e nello stesso commercio. In futuro dovremo scriverci regolarmente”. Fu l’inizio di un epistolario che è divenu-to la storia di una vita eccezionale e uno dei documenti più straordinari della storia dell’arte.

Theo è diverso dal fratello: è bello, perbene, ordinato e oculato. Il suo grande merito fu di aver intuito il genio di Vincent e di averlo aiutato economicamente, anche se con molta parsimonia. D’altro canto la sua mediocrità di piccolo benpensante risalterà in tutta la vicenda. A Theo, che non abbandonò mai il mestiere di mercante d’arte, Vincent scriverà oltre seicentocinquanta lettere, nelle quali più che a un fratello sembra che si rivolga all’intera umanità, esprimendo con precisione e sotti-gliezza i propri sentimenti e i propri pensieri.

Van Gogh era uno scrittore semplice ma effi cace, tan-to che uno dei suoi maggiori studiosi, Meyer Schapiro, ha defi nito quelle lettere “un monumento d’autorivela-zione, degno di fi gurare accanto alle opere dei grandi scrittori russi, maestri di confessioni”. Schapiro esagera, con l’entusiasmo tipico dello studioso che ama l’oggetto dei suoi studi, ma quelle lettere sono degne di atten-zione e approfondimento. Oggi non abbiamo neanche bisogno di vedere i quadri di van Gogh, non c’è biso-gno di averli sotto gli occhi per ricordare quel tratto speciale del pennello, l’incanto e la vivezza dei colori, il tormento di forme uniche e irripetibili. Al contrario, leggere ciò che scriveva può inoltrarci in un territorio meno noto ma altrettanto emozionante, soprattutto per-

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ché i suoi scritti costituiscono una sorta di didascalia ideale delle sue opere.

Il lavoro di Vincent nella galleria Goupil, secondo il progetto familiare, doveva servire da apprendistato. Il ragazzo poteva fare carriera, come infatti sarebbe capitato a Theo, che avrà una serena, brevissima, vita borghese con tanto di fi glio. Era suo bisnipote, infatti, il regista Theo van Gogh che nel 2004 venne ucciso con otto colpi di pistola, e poi sgozzato, da un estremista islamico per un suo fi lm sul mondo musulmano. Stra-nezze della genetica! Quel nipote, per il suo carattere, per la sua tempra artistica e per i suoi atteggiamenti anticonformisti, era molto più simile al prozio Vincent, che al bisnonno Theo.

Nella galleria Vincent è serio, zelante e paziente con i capricci di una clientela spesso insopportabile e ine-sperta o, impresa ancora più diffi cile, con gusti che non condivide affatto. Per favorire la sua carriera, dunque, i familiari riuscirono a fargli avere un trasferimento nella sede centrale di Londra, dove il giovane van Gogh arri-vò a vent’anni e dove, appena giunto, si innamorò per la prima volta. Non sarà l’ultima. Vincent si innamorerà, sempre, perdutamente, come se i suoi sentimenti, al pari del suo genio, non conoscessero una maturazione verti-cale, ma si dispiegassero su una linea orizzontale infi nita e senza pace.

Lei si chiama Ursula Loyer, è una ragazza semplice che con la madre gestisce un asilo infantile. Per arroton-dare le entrate mensili, poi, le due donne affi ttano una camera della casa, e Vincent è il loro inquilino. Felice, scrive: “La vita è ricca. Oh, questo tuo dono, mio Dio!” È innamoratissimo. La adora, e, senza mai dichiararsi, la considera addirittura già sua moglie. È il segno di un

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ben strano carattere e di una singolare attitudine sen-timentale. Si dichiara solo dopo un anno e Ursula, con grande sorpresa del ragazzo, gli spiega di essere già fi -danzata con un pensionante precedente.

Vincent, che non aveva neanche considerato questa possibilità, rimane annichilito, eppure insiste: vuole che lo lasci per lui. Ursula è irremovibile, e i motivi del suo rifi uto sono facilmente intuibili. Probabilmente pen-sa che quell’olandese sia troppo povero, troppo giova-ne, troppo brutto e con un futuro incerto davanti a sé. Vincent ha un volto grifagno e lentigginoso, le mascel-le sfuggenti che fanno quasi paura, le gambe corte, le spalle larghissime e il busto spropositatamente lungo. I capelli rossi non rassicurano affatto, soprattutto quando sono la cornice di due occhi sempre spiritati.

Nonostante l’impietosa descrizione fi sica del giova-ne pittore, non bisogna mai dimenticare il suo animo ipersensibile, così crudelmente in contrasto con il suo aspetto fi sico: la delusione sentimentale lascerà in lui un segno incancellabile. Quel primo rifi uto acuì in lui la tendenza malinconica e nevrotica e un complesso d’in-feriorità nei confronti delle donne.

Quando torna a casa per le vacanze, i genitori lo tro-vano triste, magro, incupito e del tutto incapace di supe-rare lo sconforto, che lo macera come fosse una sconfi tta defi nitiva. È l’inizio di una depressione da cui non si riprenderà più: la discesa infi nita si para davanti al suo animo tormentato e delicatissimo in tutta la sua inelut-tabile e ruvida prepotenza.

Tornato a Londra, cambia casa e vive completamente solo, senza uscire mai. Si chiude sempre di più in se stesso e si riavvicina al sentimento religioso che gli è stato instillato in famiglia, con passione crescente. Il suo lavoro è il primo a risentire di questa estrema chiu-

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sura: diventa scorbutico, critica gli acquisti dei clien-ti, defi nendoli spesso brutti e indegni. Ovviamente la direzione della galleria non è per niente contenta, ma il solito zio premuroso riesce a ottenergli un trasferi-mento a Parigi, la Ville Lumière, il sogno degli artisti dell’Ottocento. Si spera che cambiare città riesca a far-gli superare la delusione amorosa e a redimere la sua attitudine professionale.

Deluso e infelice, van Gogh va a Parigi e ci resta quasi un anno come commesso nella galleria d’arte. Esplora tutti i musei e conosce la pittura impressioni-sta, di cui sarebbe diventato maestro, ma non gli piace. Pensa soltanto a quella ragazza. Licenziato defi nitiva-mente dalla casa d’arte, decide di rientrare in Inghilter-ra in cerca di Ursula.

Per stare vicino a lei, van Gogh insegna francese gra-tis, in cambio solo di vitto e alloggio, in un collegio di Ramsgate. Vicino per modo di dire, perché deve fare decine di chilometri a piedi, per vederla. Ma Vincent era un incredibile camminatore. Si muoveva sempre a piedi un po’ per risparmiare, ma molto perché gli pia-ceva: era capace di fare decine e decine e decine di chi-lometri al giorno senza stancarsi.

Nonostante la prova di dedizione però, Ursula pro-prio non vuole saperne di lui. Incominciano qui le crisi mistiche di van Gogh, che trova nella passione religio-sa un sostituto dell’amore. Allo stesso modo, in seguito vivrà l’arte come surrogato della fede, e, insieme, come unica passione vitale e bruciante.

Nel suo delirio religioso fa penitenza, mangia pane secco, immagina di diventare prete; parla solo di Dio e a Theo, consiglia di distruggere tutti i libri tranne la Bibbia, che legge di continuo, anche nelle parti più no-iose e tetre. Fallito il sogno di costruirsi una famiglia,

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adesso vuole addirittura diventare missionario. A Theo scriverà anche: “Non bisogna giudicare Dio da questo mondo, perché è soltanto uno schizzo che gli è riuscito male”. E in un’altra lettera: “Il miglior modo per amare Dio è amare molte cose”. Lui così bisognoso d’amore, riuscì a amarne pochissime. In questo periodo, neanche la pittura, che pure lo attirava d’istinto, oscuramente. “In questi ultimi tempi ho disegnato di nuovo un po’, ma nulla di speciale. La voglia di disegnare che m’ave-va preso in Inghilterra è di nuovo scomparsa”, racconta a Theo: “Ma forse è un capriccio che mi ritornerà, un giorno o l’altro. Quante volte ho fatto dei disegni a Lon-dra, lungo il Tamigi, quando la sera rientravo a casa! E non valevano nulla. Se qualcuno m’avesse detto allora cos’era la prospettiva, quanta fatica mi sarei risparmia-to, e quanto mi troverei avvantaggiato, adesso!” Passe-ranno ancora anni prima che decida di dedicarsi alla pittura, anni tristissimi.

La famiglia è preoccupata per lui e, visto che gli piace tanto leggere, gli trova un nuovo lavoro come commesso di libreria, a Dordrecht, in Olanda.

Ormai ha ventiquattro anni, è sempre più introverso e scostante con gli altri, ma dimostra una certa fi erezza per la sua diversità. “Non dispiacerti di essere strano”, scrive al fratello. “Vivi in disparte.” Un insegnante che divide con lui la camera d’affi tto, tale Görlitz, lo descrive così: “Era un ragazzo strano, con una fi sionomia altret-tanto strana. Era forte, con i capelli rossi che gli stavano ritti in testa, e un viso non bello con le lentiggini. La sua espressione si trasformava completamente quando si en-tusiasmava, il che gli accadeva spesso. A tavola pregava a lungo e si nutriva come un eremita, non mangiando carne e non prendendo mai salse. Il suo viso era cupo, pensieroso, profondamente serio e malinconico. Ma

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quando rideva lo faceva sinceramente, con schiettezza, e s’illuminava tutto”.

Vincent non dimostra alcun interesse per il nuovo lavoro. Invece di vendere libri, preferisce tradurre la Bibbia: in francese, in tedesco e in inglese. Su quattro colonne, aggiungendovi il testo in olandese. Benché protestante ortodosso, assisteva alle funzioni cattoliche e alle funzioni luterane. A Görlitz, che se ne sorprende, chiede: “Ma credete davvero che Dio non si possa trova-re anche in queste altre chiese?”

Vive come un asceta concedendosi soltanto un lusso, che terrà per tutta la vita: la pipa, sempre accesa. Prefe-rirebbe le sigarette, però costano troppo e non se le può permettere. Di notte legge o disegna e la sua abitudine di inchiodare i disegni alla parete disturba tantissimo il suo coinquilino. È proprio Görlitz, un giorno, a in-formare i genitori di Vincent che il fi glio non sta bene, non sta affatto bene, e che bisogna fare qualcosa per lui. Si raduna il consiglio di famiglia, che decide di as-secondare i desideri del primogenito e di fargli studiare teologia, benché sia troppo vecchio per entrare in semi-nario. In fondo sono contenti che fi nalmente imbocchi una strada, soprattutto una strada così rassicurante e tradizionale.

Viene dunque trasferito di nuovo, stavolta a Amster-dam, per prepararsi in due anni all’esame di Stato ne-cessario per accedere all’università e diventare sacerdo-te. È il 1878 e ha venticinque anni. Sennonché Vincent non vuole proprio, in nessun modo, studiare greco e latino. Nel suo furore missionario sostiene che non gli occorrono, per portare la parola del Signore ai poveri nelle strade (e non si può negare che abbia anche ra-gione se non si tiene conto che il mistero, pure quello linguistico, contribuisce a ammansire le pecorelle). Per

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di più è un oratore disastroso, che non saprebbe convin-cere un pesce a nuotare.

Il suo insegnante di latino e greco, lo spagnolo Mendes da Costa, ce ne ha lasciato questo ricordo, che vale la pena di leggere: “Dalla camera dove studiavo, al terzo piano, lo vedevo attraversare prima il ponte, poi la grande pianura, senza giacca, per una sorta di automortifi cazione. Teneva i libri sotto il braccio destro, ben stretti, e nella mano sini-stra i bucaneve che aveva raccolto di primo mattino, vicino al cimitero. La testa era lievemente piegata in avanti e di lato, verso destra. Gli angoli della bocca abbassati davano al suo viso un’espressione di disperazione. Arrivato nella mia camera, mi diceva con un tono strano, profondamen-te malinconico: ‘Mendes, non arrabbiarti. Ti ho portato ancora qualche fi ore, perché sei così buono, con me...’”

Insomma, in quelli che dovrebbero essere gli anni più belli della vita, ci troviamo davanti a un van Gogh già di-sperato: ha fallito tutti i mestieri e anche la possibilità di diventare sacerdote. In questo periodo, per punirsi man-giava come un uccellino nel deserto e, quando dormiva, metteva tra le lenzuola un bastone in modo da rompersi le ossa; il culmine della soddisfazione in questo delirio lo raggiungeva quando tornava a casa tardi, per farsi chiu-dere fuori e dormire per terra.

Fino a quando non scoprirà la pittura, Vincent vuo-le sacrifi care la propria sofferenza a Dio perché sente il bisogno di giustifi care la propria esistenza. Non era un masochista, ma piuttosto un sadico verso se stesso, che fi no alla fi ne dei suoi giorni continuerà a farsi del male inutile, e perciò tanto più voluttuoso.

Una volta, andando a dipingere nei campi, cammina-va su una strada dalla parte soleggiata, in una campagna caldissima. Qualcuno gli chiese: “Ma perché non ti spo-sti all’ombra?” E lui: “Voglio soffrire per l’arte”.

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Si potrebbe interpretare tutto ciò come un segno di pazzia, ma le cose non sono così semplici, né così univo-camente inquadrabili.

Una volta compreso di dover rinunciare a diventare sacerdote, si iscrive a una più semplice scuola per evan-gelisti di Bruxelles. È un istituto che in tre anni forma i predicatori che andranno a portare la parola del Signo-re, e dà il titolo di “evangelista” solo dopo tre mesi di corso. Scrive a Theo: “Quando ero in Inghilterra feci domanda per poter lavorare come evangelista fra i mina-tori di carbone ma venni rifi utato perché non avevo an-cora venticinque anni. L’esperienza dimostra che coloro che vivono nell’oscurità, nel centro della terra, come per esempio i minatori di carbone, sono assai sensibili alle parole del Vangelo e che credono in esse. Ebbene, nel Belgio meridionale c’è una zona chiamata Borinage, la cui popolazione è costituita unicamente da minatori”.

È così volonteroso che poco dopo lo mandano in mis-sione proprio nel Borinage. Ancora nel 1934 un docu-mentario di Joris Ivens, intitolato appunto Borinage, fece talmente scandalo che il governo ne proibì la circolazio-ne, per impedire che venissero mostrate le condizioni di vita dei lavoratori e delle loro famiglie. Figurarsi la situazione più di mezzo secolo prima.

È il 1879. Marx era ancora vivo e ignoto ai più, la rivo-luzione industriale – il lavoro interminabile, in fabbriche malsane – portava a uno sfruttamento sempre più spie-tato del lavoro umano, donne e bambini che fossero, e non era ancora nato un vero movimento operaio.

Di tutto ciò van Gogh non si interessa. Arriva nel vil-laggio minerario di Wasmes con una gran voglia di fare. Alloggia fi nalmente in una dignitosa camera d’affi tto, ha uno stipendio, gli viene lavata la biancheria e appare

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