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I edizione: marzo 2011

© 2011 Arcana Edizioni Srl

Via Isonzo 34, Roma

Tutti i diritti riservati

Cover: Laura Oliva

ISBN: 978-88-6231-148-9

www.arcanaedizioni.com

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Claudio Fabretti

FFrraanncceessccoo DDee GGrreeggoorriifra le pagine chiare e le pagine scure

arcana

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Indice

Introduzione 9

1. Un Greenwich Village a Trastevere 132. Camminando sui pezzi di vetro 333. Sul ciglio di una strada a contemplare l’America 674. Il cantautore alla sbarra 815. Banana Republic e i lavori in corso 976. La storia siamo noi 1117. Beautiful losers 1498. Terra e acqua 1719. Occhi senza dolore 19710. Compagni di viaggio 21311. Niente da capire 24512. Continuando a cercare un altro Egitto 259

APPENDICE – Guida all’ascolto 271Note 293Bibliografia 303Ringraziamenti 305

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A Raffaella, Elisabetta, Riccardo

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Introduzione

Non ama le chiacchiere su di sé, Francesco De Gregori. Figurarsi ilibri. Non prese bene neanche quello dell’amico Lo Cascio. E aDeregibus, autore della sua prima (e ottima) biografia, raccomandòscherzosamente di rinviarla a dopo la sua morte. Non è solo la suacelebre allergia ai media a insospettirlo. È anche il timore di vederdissezionate le sue canzoni con quello zelo didascalico che imputaa un’intera “scuola fatta da maestre vecchie e impreparate”. Ancheperché ci ha già spiegato che “non c’è niente da capire”. E allora?

E allora perché un libro su Francesco De Gregori? Forse, proprioper sfatare questi tabù, per tentare di raccontare il suo canzoniere inmodo diverso. Schivando il cliché, la spiegazione pedante, o peggioil gossip cui ormai è spesso relegata l’informazione musicale su gior-nali e tv. Lasciando che siano proprio le canzoni a conquistare ilproscenio. Parole, sì, ma certamente anche i suoni, senza i quali que-gli stessi versi perderebbero senso. E in questo non si può non esse-re d’accordo proprio con De Gregori, nemico giurato dell’accosta-mento canzone/poesia. Se Dylan o chi per lui potrà un giorno esse-

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re candidato al Nobel per la letteratura, non sarà certo perché è “unpoeta”, ma perché alla canzone è stata finalmente riconosciuta la di-gnità letteraria che le spetta. Così come, forse, sarebbe anche il casodi ridimensionare l’assunto che nell’opera di De Gregori la musica siaingrediente secondario: a volte, è proprio il piatto forte.

Ma ad affascinare non è solo l’arte del prestigiatore di parole e delmusicista. C’è quello sguardo profondo, intransigente, lungimi-rante, che, tra innocenza e ferocia, ha scoperchiato quarant’anni d’I-talia. Riletti oggi, i suoi versi, pur criptici e ammantati di metafo-re, sono proprio la più stupefacente cartina di tornasole del paese“metà giardino e metà galera”. Forse perché, più che dalla passionepolitica, sono mossi dalla curiosità dell’irriducibile studente di Sto-ria, interessato a ricostruire il presente con la memoria del passatoe la prospettiva aperta sul futuro. Si spiega così anche l’insofferen-za verso tutte le consorterie politiche e mediatiche che hanno sem-pre cercato di strattonarlo dalla loro parte: è la ritrosia di chi prefe-risce salire sulla tolda della nave a scrutare l’orizzonte, invece di in-vischiarsi nel mare delle polemiche quotidiane.

Non a tutti può piacere, uno così. Uno che appena vede una te-lecamera si dilegua. Uno che dice: “I simpatici mi stanno antipati-ci”. E che non si sforza certo di apparire simpatico o affabile, puressendo in possesso di un’ironia affilatissima, forgiata sul trabicco-lo rosso del Folkstudio, quando sbeffeggiava potenti e cortigiani asuon di ballate satiriche.

Ma questo libro non vuole convincere nessuno, né tantomenoimbastire un’improbabile agiografia. Ho cercato solo di raccoglierei pezzi di questo smisurato puzzle musicale lungo più di qua-rant’anni. Senza suggerire soluzioni definitive (che, probabilmen-te, neanche esistono), ma tentando di individuare qualche traccia,qualche chiave per orientarsi meglio in un percorso che affascina eche, in fondo, ci riguarda tutti. Chi non si è immedesimato alme-no in un verso, in una storia, in un personaggio delle sue canzoni?

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A differenza di altri libri, però, ho scelto di non seguire un ordi-ne cronologico e di raccontare l’opera di De Gregori per nuclei te-matici: l’amore, la storia, il viaggio, la sofferenza degli sconfitti e l’ar-roganza dei potenti, le fiabe e gli occhi dell’infanzia. Focalizzandoanche alcune tappe cruciali della sua carriera: dagli esordi al Folk-studio all’inaspettato ritorno “in progress” insieme a Lucio Dalla.Un capitolo ad hoc è stato poi riservato al rebus dei rebus: il lessi-co degregoriano, fonte di cruciali innovazioni semantiche rispettonon solo alla canzone “cuore-amore”, ma agli stessi avamposti delcantautorato tricolore degli anni Sessanta e Settanta.

Tutto questo mentre il giovane Principe compie sessant’anni esembra più in forma che mai. Soprattutto nelle sue performance dalvivo. Perché è il palco, ormai, il fulcro della sua attività, come te-stimoniano le lunghe tournée e la sfilza di album live pubblicati inquesti anni. Le sue canzoni cambiano sempre gli abiti di scena, marestano sempre lo stesso, meraviglioso enigma. Un ostinato cam-mino controcorrente, fra le pagine chiare e le pagine scure dellanostra storia.

In comune con l’esperienza di OndaRock c’è il desiderio di acco-starsi alla musica con passione e senza pregiudizi. Cercando di rac-contare e di incuriosire, più che di emettere verdetti. Perché se è ve-ro, come dice De Gregori, che una canzone non si può spiegare, c’èsempre la possibilità di stimolarne l’ascolto (e il riascolto), di sugge-rirne nuovi orizzonti. Magari liberando la fantasia, lungo le rotte deitanti treni, navi e aerei disseminati su questa immaginaria cartogra-fia. Ecco, un viaggio “con le orecchie e con il cuore”, proprio comequello di Eugenio: questo è stato per me Fra le pagine chiare e le pagi-ne scure e questo sarei felice che fosse anche per voi. Fatemi sapere…

[email protected]

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1. Un Greenwich Village a Trastevere

Fiori falsi e sogni veri tra gli eroi della friggitoria Chantant

grazie, ho mangiato ieriun sorriso stasera basterà.

(Arlecchino, 1974)

È infreddolito e preoccupatissimo, il diciassettenne Francesco DeGregori, mentre si infila nei vicoli di Roma, giù dalle pendici delGianicolo. Ha un turbine di pensieri in testa e i polpastrelli conge-lati: un brutto guaio per chi deve strimpellare una chitarra. Certo,anche Bob Dylan raccontava spesso di quel freddo pungente chegli paralizzava le mani quando doveva suonare al Greenwich Villa-ge, e la copertina di THE FREEWHEELIN’ ce lo ha consegnato allastoria proprio così: intirizzito, mani in tasca, sotto il braccio della fi-danzata di allora, Suze Rotolo (scomparsa di recente, il 24 febbraio2011, a sessantasette anni). Dylan, già, più che un modello per ilgiovane Francesco. Un maestro di vita, un menestrello zingaro conla valigia sempre piena di versi e suggestioni immortali. Difficilevivere l’anno 1968 senza avere le sue canzoni incise nella mente. EDe Gregori ne era rimasto folgorato: “Dylan non cantava, lui spu-tava le parole come sassi, non cercava d’essere piacevole, al contra-rio… Come tutti i grandi artisti, non dava l’impressione di volerparlare a qualcuno, ma di parlare a nome di qualcuno. Magari anome di una generazione”1.

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Le orme del maestro di Duluth, a Roma, conducono dritto nelcuore di Trastevere. A Via Garibaldi 59, per l’esattezza, in una can-tina a forma di L, umida, affumicata e non troppo pulita, ma dive-nuta ormai il crocevia obbligato per ogni folksinger o aspirante ta-le. Si chiama Folkstudio, ed è lì che il giovane Francesco ha preno-tato il suo debutto. Merito anche dei buoni uffici del fratello mag-giore Luigi, alias Ludwig, cantautore country-folk con un buonseguito nel giro underground, che prenderà poi il nome di LuigiGrechi (dal cognome della madre) proprio per non intralciare la car-riera in ascesa di Francesco.

Accompagnando il fratello sulla salita lastricata di porfido cheporta al Gianicolo, Ludwig gli impartisce tre decisive raccomanda-zioni: “Se sbagli un accordo fai finta di niente, ché non se ne accorgenessuno… Cerca di ricordarti tutte le parole a memoria, se le leggisu un foglietto pare brutto… Non ti demoralizzare se mentre can-ti qualcuno si alza e se ne va, tanto succede sempre”2.

Non è un’audizione vera e propria, né un provino. Chiunque po-teva imbracciare una chitarra ed entrare nel cunicolo di Via Gari-baldi durante i pomeriggi domenicali chiedendo di fare il suo nu-mero. Purché fosse privo di orpelli elettronici, beninteso. Poi, sa-rebbe stato il responso del pubblico – generalmente ben disposto –a decidere le sorti del menestrello di turno. Perché per il boss dellocale, l’ex chimico Giancarlo Cesaroni, la musica doveva esseresoprattutto espressione sociale, strumento di aggregazione e cultu-ra popolare.

Ma rispetto alla pletora di ragazzotti armati solo di chitarra ebuone intenzioni, l’adolescente De Gregori coltiva qualche ambi-zione in più. Nato a Roma il 4 aprile 1951 in una famiglia borghe-se (la madre, Rita Grechi, è insegnante di Lettere, il padre Giorgioè un importante dirigente bibliotecario – insieme a lui accorrerà aFirenze nel 1966 per salvare i libri dall’alluvione), è curioso, appas-sionato di letture (da Salgari a Hemingway passando per Dante),

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di cinema (da Pasolini a Bergman) e, ovviamente, insaziabile divo-ratore di note. Non disdegna la musica leggera italiana (la primacanzone che strimpella è Il ragazzo della Via Gluck di Celentano, maascolta anche Modugno, Morandi, Bobby Solo), né il rock delle ori-gini (Berry, Presley), ma la sua stella polare è la canzone d’autore,che sia quella d’oltreoceano (Dylan, Cohen) o quella nostrana diTenco, Jannacci e De André. È quest’ultimo, in particolare, a fol-gorarlo sulla via di Damasco, perché “era la dimostrazione viventeche una canzone poteva, se lo voleva, essere anche corrosiva e im-pervia, realistica e poetica: musicalissima sì, ma anche narrativa e,perché no?, politica”3. Ed è proprio con delle “grosse scimmiottaturedi De André” che De Gregori inizia a buttar giù canzoni sulle cor-de della sua chitarra. Ce n’è una, però, che, pur congegnata pro-prio invertendo gli accordi di un pezzo di De André, ha un suo fa-scino nitido e malinconico. Si chiama Buonanotte Nina ed è la let-tera di addio di uno straccione alla bella e ricca innamorata. Una co-lonna sonora ideale per l’esordio, rigorosamente senza microfononé amplificazione, davanti alla variopinta tribù del Folkstudio:freak, hippie, globetrotter, intellettuali di sinistra, musicisti del po-polo e chi più ne ha più ne metta. Non tutto, però, va per il versogiusto: “Avevo le dita congelate e non presi un accordo giusto sullachitarra”, racconterà, “a metà di Buonanotte Nina per l’emozione mivenne un groppo in gola e mi dovetti fermare e ricominciare dacapo. Qualcuno in mezzo al pubblico cominciò a tossicchiare, io di-ventai rosso e in qualche modo arrivai fino alla fine e scesi dal pal-co convinto che mai più avrei accettato di salirci. Chiesi a Cesaro-ni (allora gli davo del lei) come ero andato e lui mi disse: ‘Uhm,naturalmente non stavo lì a sentirti, ma se la prossima settimana leg-gi il tuo nome sul giornale nella programmazione di mercoledì se-ra, puoi tornare’”4.

E il nome sul giornale c’era e ci sarebbe rimasto a lungo. Perchéil talento di quel “roscio” quasi imberbe, avvolto nel gigantesco

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impermeabile paterno, con il bavero rialzato e la pipa spenta, nonpoteva restare offuscato dalla timidezza. Appollaiato sullo sgabello,un piede sopra l’altro, i folti capelli tagliati alla paggio, con lo sguar-do basso e con quel modo di strascicare le parole tirando la bocca al-la Dylan, De Gregori raccoglie sotto la sua pedana rossa una plateasempre più vasta di avventori, strappandoli ai flipper, alle chiac-chiere e al bancone del bar.

Certo, la concorrenza non manca. Tra quelle pareti insonorizza-te con sacchi di iuta, intrise di fumo e aromi di sangria, prendeforma un’intera scuola di cantautori. Antonello Venditti, GiorgioLo Cascio, Ernesto Bassignano, Edoardo De Angelis, Renzo Ze-nobi, Stefano Rosso, Mimmo Locasciulli, e poi anche Rino Gaeta-no, Sergio Caputo, Gianni Togni, Corrado Sannucci, Luca Barba-rossa: per tutti quella pedana rossa alta solo dieci centimetri sarà iltrampolino di lancio.

Ma ad animare le serate di Via Garibaldi sono anche jazzisti co-me Mario Schiano, Marcello Melis, Carlo Loffredo, Enrico Rava,Gato Barbieri, cantori della tradizione come Caterina Bueno, Ma-ria Carta, Rosa Balistreri, il Duo di Piadena, Otello Profazio, Gio-vanna Marini, più i “duri e puri” della canzone di protesta, come IvanDella Mea, Leoncarlo Settimelli, Paolo Pietrangeli. E poi natural-mente una moltitudine di menestrelli internazionali: dall’america-no Pete Seeger al brasiliano Irio De Paula fino ai profeti andini Con-dores e Inti-Illimani, ai bardi del folk britannico (John Renbourn)e francese (la fuoriclasse della chanson bretone Veronique Chalot) eal suonatore di sitar e compositore indiano Ravi Shankar.

Leggenda vuole che una notte di qualche anno prima avesse var-cato la soglia del Folkstudio persino mister Robert Zimmermann inpersona, di passaggio a Roma sulle tracce della sua fidanzata dell’e-poca, Suze Rotolo (sì, sempre quella della copertina di THE FREE-WHEELIN’). Anche se su quella prima esibizione italiana di Dylansi moltiplicheranno le ricostruzioni più disparate. Dario Salvatori la

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racconta così: “A Roma alcuni amici musicisti, chissà perché, lo por-tarono al Folkstudio […]. In Italia ovviamente era pressoché sco-nosciuto. Al Folkstudio fece un’ospitata, visto che la serata non erasua, qualche pezzo e via. La cosa finì lì […]. Giancarlo Cesaroniassicura che quella sera in sala, mentre si esibiva quel ventenne sco-nosciuto, non c’erano più di quindici persone. Eppure ci sono in gi-ro centinaia di persone che giurano di essere state presenti a quel-l’avvenimento eccezionale. Sono quasi tutti degli addetti ai lavoridel settore musicale”5.

Il Folkstudio, dunque, non è solo una vetrina, è una scuola dimusica, se non di vita. Nella sua stessa metamorfosi c’è l’essenzadel fervore creativo dell’intero decennio Sessanta. Da studio-canti-na di un pittore americano, Harold Bradley, dove si riunivano ami-ci pittori, artisti e musicisti provenienti da tutto il mondo, si tra-sforma in “circolo privato culturale apolitico”, per schivare qual-che denuncia di disturbo della quiete pubblica. Bradley poi lo mo-della sul formato del Village, con tre-quattro showmen per serata,senza un indirizzo politico dominante. Ma il business non funzio-na: non può essere quello lo spirito dell’ex latteria trasteverina. E co-sì, quando nel 1967 Bradley torna a Chicago e lascia il locale nellemani di Cesaroni, che ne era stato uno dei cofondatori, si cambiadi nuovo spartito: spazio all’“altra musica”, quella lontana dai ca-noni di consumo, via a recital, rassegne e festival, all’interno diuna direzione politica e culturale ben precisa. Il Folkstudio divieneteatro di musica e vivaio di nuovi talenti.

Francesco De Gregori è uno dei frutti più raffinati di quell’hu-mus. Ne assorbe lo spirito, politicizzato eppure sempre aperto,plurale, critico, ne respira la poetica, protesa verso il recupero dellesorgenti popolari della canzone e al contempo densa di rimandiletterari. In quelle sue notti da tiratardi che faranno disperare i ge-nitori, forgia un immaginario vastissimo, dove il fantasma diWoody Guthrie, a lungo evocato a casa dal fratello Luigi, si aggira

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tra le risaie delle mondine e le fabbriche degli operai, dove il bluesdel Delta flirta con i languori della bossa nova e la Suzanne di Leo-nard Cohen incontra l’hobo Zimmermann sulla Desolation Row, omagari sulla trasteverina Via della Scala, immortalata qualche an-no dopo dai versi di Stefano Rosso (Letto 26).

Su quello sgabello da bar di legno rosso, De Gregori cesella le sueprime canzoni gradualmente, come rebus acerbi, da dipanare a po-co a poco. Temendo di esporsi troppo direttamente con brani di cuinon è ancora del tutto sicuro, li alterna con pezzi della tradizionepopolare, canzoni delle mondine, canti anarchici. Però qualche suacomposizione riesce a emergere, come il corrosivo talkin’ blues Laballata di Spiro Agnew, che mette alla berlina il vice del presidente sta-tunitense Richard Nixon. De Gregori lo immagina dapprima “con-vertito” alla causa dei suoi nemici, figli dei fiori e pacifisti:

Un giorno Spiro Agnew impazzì improvvisamentee disse in un discorso di fronte a tanta genteche la guerra nel Vietnam è una grossa porcheriae chi la vuol difendere dovrebbe andare via

Finora coi ragazzi sono stato troppo energicocon chi prendeva l’hashish o l’acido lisergicol’America è malata, i rimedi siano estremio ci droghiamo tutti o diventiamo scemi

Poi, il surreale ritorno alla realtà, che chiama in causa anche lecronache italiane del periodo:

Ma si formò un drappello dell’America pulitaper ritrovare Agnew e fargli cambiar vitae alla testa di tutti c’era Nixon e a lui vicinoPietro Germi, i calabresi, Mauro Ferri e Ciancimino […]

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E Spiro si commosse e pianse lungamentevedendo quanto bene gli voleva la sua gentee per rendere palese il cambiamento di opinionitagliò testa e capelli a quattro capellonie qualche giorno dopo, vestito da educandatornò alla Casa Bianca accolto dalla bandaguidando un grande cocchio trainato nella piazzada cento vietnamiti

Ballate politiche che lambiscono la satira e che non saranno maistampate su vinile, come quella composta per celebrare il genetlia-co della famosa rivoluzione automobilistica.

Santa Seicento vestita di latta e di argentomiracolo indicibiledi scocca e parabrezzasegno inconfondibiledi social ricchezza

Ma affiorano anche le sue prime canzoni d’amore, virate a tintefosche, secondo la lezione di De André. Come Rosso corallo.

Rosso corallo, il sangue nelle venedatelo, vi prego, a chi mi volle benee ci sia per lei soltanto quel colorefino a che non trovi un altro amore […]

E voi fratelli, fratelli che restatevi prego non vi fate quelle facce disperateanche se quel prete mi maledirà in eternostate pur tranquilli che non andrò all’inferno

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De Gregori le sussurra sulle corde della chitarra, alternandole acover di Dylan, Cohen, De André, o magari a qualche canzonedella tradizione popolare. Come Maremma di Caterina Bueno. Perla giovane cantante ed etnomusicologa toscana, il giovane France-sco ha una venerazione. “Eri un angelo, con due spalle da uccelli-no, in un vestito troppo piccolo e con gli occhi ancora blu” la ri-corderà su Caterina, ballata country di TITANIC dal celebre assolodi armonica a bocca, citando anche la sua E cinquecento catenelle d’o-ro. E il destino favorisce il loro incontro. Quando la Bueno, in par-tenza per una tournée, chiede a Cesaroni un consiglio per un chi-tarrista, lui fa proprio il nome del giovane fratello di “Ludwig”:sarà lui ad accompagnarla in tutt’Italia, insieme all’altro chitarri-sta, Antonio De Rose.

Nel 1971, dunque, al seguito della Bueno, De Gregori suonaper la prima volta fuori da Roma. Lei lo tratta con amorevole be-nevolenza, tollerandone qualche irrequietezza ed esortandolo anchea cantare qualcuna delle sue canzoni. Lui ne serberà un ricordounico: “Caterina a volte era molto logorroica nelle presentazioni, avolte esagerata. […] Era nata per cantare, per darsi alla gente, e fie-ra, fiera di sé in modo straordinario”6. Poi, sempre nella canzone alei dedicata, scherzerà rammentando quei giorni: “E la chitarra ve-ramente la suonavi molto male, però quando cantavi sembrava Car-nevale”. E chiudendo con un messaggio d’amore: “Caterina questatua canzone la vorrei veder volare per i tetti di Firenze per poterticonquistare”. Dopo la morte dell’amica (Firenze, 16 luglio 2007),De Gregori cambierà quell’ultimo verso in “poterti ricordare”.

Il Folkstudio, dunque, è anche officina di incontri musicali. Edi amicizie vere. Come quella che lega Francesco De Gregori a trecompagni di strada: Antonello Venditti, Giorgio Lo Cascio ed Er-nesto Bassignano. “Quattro ragazzi con la chitarra e un pianofortesulla spalla”, li celebrerà nostalgicamente Venditti qualche annodopo. Faranno gruppo, con un nome che più ingenuo non si può:

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I Giovani del Folk (abbreviazione di Folkstudio). Ma nel budelloammuffito di Via Garibaldi, per molto tempo, saranno loro l’at-trazione principale.

De Gregori e Venditti sono caratterialmente agli antipodi. Ti-mido e schivo l’uno, esuberante e viscerale l’altro. “Antonello Ven-ditti è buono, generoso, spaccone proprio come il Cicalone che re-sterà sempre”, lo ritrae Ernesto Bassignano su Canzoni pennelli ban-diere supplì. “Già allora è mezzo comunista ateo e mezzo cattolicocredente, perché lui è in pratica il compromesso storico fatto uomo.Lo chiamano Mifune perché sembra davvero il celebre Toshiro deI sette samurai. Arriva dopo aver parcheggiato il suo Maggiolone ne-ro e subito attacca con la sua nuova barzelletta fresca di giornata: èinesauribile. Sempre col montgomery, anch’esso nero, con unabarba ben curata e dei capelli che sono la sua pena. Basta toccarglieliperché si terrorizzi: ‘Nooo che mi cascano, lasciatemeli stare, ma-ledizione!’”7.

Venditti, avvinghiato al pianoforte, fa tremare le pareti del Folk-studio col suo vocione prepotente. Ha alcuni pezzi nel solco dellatradizione romana, uno su tutti, Sora Rosa, fa breccia nella vario-pinta fauna della cantina, alla quale presto si aggiungono vecchie sa-gome di plastica abbandonate da qualche misconosciuto artista sur-reale. Fanno colore. E calore.

Bassignano, piemontese, è di qualche anno più grande. Lo chia-mano Il Duro Ernesto, perché è un militante rosso di quelli tosti,senza fronzoli. Nei suoi vibranti comizi, ai sogni e alle fiabe deglistudentelli romani, antepone la cruda realtà proletaria delle strade,delle fabbriche. E la lezione dell’antifascismo, appresa sulle mon-tagne, dai contadini del suo Piemonte. Poi, per tutti, diventerà“Tinin”.

Il riccioluto Lo Cascio, invece, è più timido. Si presenta un po-meriggio con una chitarra a dodici corde cecoslovacca e una tradu-zione di Sad Eyed Lady Of The Lowlands. E diventa presto amico di

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De Gregori: lo accompagna sul palco e a bordo della sua Topolino.La passione per Dylan e Cohen li unisce ancor più della timidezza.

I quattro cominciano a mettere il naso fuori dal covo trasteveri-no. Si esibiscono a Foggia, insieme ad Archie Savage, cantante ne-ro americano e pilastro dei Folkstudio Singers. Bassignano, poi, tra-scina De Gregori tra i baraccati dell’Esquilino, per una manifesta-zione politica, teatro ideale per l’invettiva Roma Capitale, un’altrainstant song che resterà sempre inedita nel canzoniere del Principe.

Cesaroni, nel frattempo, fiuta la possibilità di far esibire i suoiquattro moschettieri in un vero spettacolo ad hoc. Per questo elar-gisce loro tremila lire a testa e li affida alle sapienti mani di Savage.

Introdotti da una canzone alpina riveduta e corretta in una sortadi grido di battaglia (Tapum), i quattro si dividono il palco con unoschema fisso: Venditti al piano, Lo Cascio su una sedia, De Gregorisul suo trabiccolo rosso e Bassignano in piedi. Ognuno suona i suoipezzi. “Canzoni d’odio e d’amore”, come le chiama Francesco.

Bassignano si cimenta nei suoi inni: Civita, A Gombrovicz, Stopensando, tra logorroiche presentazioni e dissertazioni ideologiche.

Lo Cascio predilige le ninnananne in trance à-la Cohen, con lasua voce scarna, quasi recitante, e il suo chitarrismo essenziale.

De Gregori propone Rosso corallo, Al mio funerale, Buonanotte Ni-na e Signora Aquilone. “Tentava di italianizzare il suo country dy-laniato con ritmi più tranquilli, melodie nostrane, temi personali trai quali la morte, il vino e l’amicizia prevalevano”, lo ricorda ancoraBassignano, “Francesco gambe unite, piedi in dentro, mette la cic-ca accesa tra le chiavi della chitarra – tutti a imparare perché famolto fico – tira la bocca e la voce proprio come il suo idolo diDuluth, del quale ha già tradotto molto, usa metafore coltissime,al limite dell’astruso per alcuni, favolose citazioni per altri”8.

Venditti ha già in canna un hit garantito come Roma Capoccia,ma gli viene incredibilmente interdetto perché “poco impegnato”.Ripiega allora sulle più ortodosse Lontana è Milano e Sora Rosa,

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ma ci aggiunge il colpo che non t’aspetti: A Gesù Cristo, un’ode ro-manesca, nello stile del Belli, che cita la guerra dei Sei Giorni e ilVietnam: “Ammazzete Gesù Cri’ quanto sei fico, chissà che mecredevo che stavi a fa’. Volevo un po’ vede’, io so’ ignorante, permonno ch’hai creato, che stavi a combina’…”. Si scatena il putife-rio. Venditti prova a giustificarsi sostenendo che “A Roma è unepiteto bonario”. Ma qualcuno in sala non la prende bene: lo tra-scinerà in una lunga causa con tanto di condanna finale in Cassa-zione per vilipendio alla religione di Stato.

I quattro folksinger tirano avanti per un’ora di spettacolo, chiu-dendo immancabilmente con la sigla-ninnananna Irene Goodnight,ripetuta due o tre volte per far capire anche ai più irremovibili chesi è fatto tardi e si deve chiudere la baracca.

Ma tra i Giovani del Folk non si respira sempre l’aria idilliacache il nome suggerirebbe. Non mancano discussioni, gelosie, pole-miche politiche: è rimasto celebre uno scambio di battute, riporta-to da Dario Salvatori:

Bassignano: “Attenti, volano schiaffi!”.De Gregori: “Non fare il solito stalinista”.Lo Cascio (tifando De Gregori): “Non c’è motivo di scaldarsi

tanto”.Venditti: “Fulmini, tuoni, denunce, condanne, scarcerazioni!

Imparatevi gli accordi!”.Cesaroni: “Mi avete rotto le palle”9.Il boss era stufo. I quattro si erano rifiutati di suonare davanti a

un pubblico pagante di tre persone, segno che erano ormai “entra-ti nel pallone”, espressione che voleva dire varie cose ma fonda-mentalmente una: essersi montati la testa.

De Gregori, che nel frattempo si diploma e si iscrive all’Univer-sità (facoltà di Storia), perché con la musica non si sa mai comepuò andare a finire, riceve una prima proposta da Vincenzo Micoccidella It (sì, proprio quello contro cui si scaglierà Alberto Fortis in

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Milano e Vincenzo), ma la respinge: il contratto prevedeva un pie-no utilizzo dei diritti d’immagine e figurarsi se un tipo come luipoteva acconsentire… Eppure ormai il dado è tratto: “Al Folkstu-dio cominciavo ad avere successo, la gente veniva a sentire me, quin-di pensavo che se avessi fatto dei dischi li avrei venduti”10. E peruno scherzo del destino, sarà proprio Micocci l’uomo della provvi-denza: su suggerimento di Giovanna Marini, De Gregori si pre-senta alla It, in compagnia di Lo Cascio. “Entrarono nella miastanza con una specie di scarponi tutti infangati, sporcarono lamoquette e li mandai via”11, ricorda Michele Mondella, che seguiràpoi De Gregori per tutta la carriera, divenendo suo promoter. Mastavolta fila tutto liscio: i due eseguono La casa del pazzo strappan-do a Micocci un’esclamazione che resterà famosa: “Ma questa è poe-sia!”. Vengono trascinati in sala di registrazione e ne escono conuna lacca contenente Il partigiano, Signora Aquilone, Ho cercato didirti e Dolce signora che bruci. È il primo materiale inciso dal Prin-cipe, anche se resterà di fatto clandestino. Alla firma per la It, se-gue l’impegno di tornare con nuove canzoni al seguito.

Il nuovo duo viene anche invitato da Nanni Loy a incidere lacolonna sonora per un film ungherese, con tanto di La ballata diSpiro Agnew nei titoli di testa e tour in terra magiara a spese della Fe-derazione giovanile del locale partito comunista. Lo Cascio peròpreferisce restare accanto alla fidanzata. Lo rimpiazza Venditti ed èun segno del destino. Al ritorno dall’Ungheria, il duo De Gregori-Lo Cascio si scioglie, non senza qualche rancore e qualche scam-bio di versi avvelenati. Una questione di violini, ma non solo. DeGregori accetta l’idea di canzoni più arrangiate, perché “se la genteera abituata ai violini era meglio darglieli”. L’amico no. Poi peròLo Cascio riconoscerà con grande onestà: “Il motivo fondamenta-le che determinò la nostra separazione fu il seguente: Francesco eramolto più bravo di me. Scriveva delle canzoni splendide quandoio avevo appena iniziato a balbettare”12.

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Intanto, per imponderabili beghe economiche, il Folkstudio ècostretto a togliere le tende da Via Garibaldi: troverà asilo prima nel-l’osteria di Meo Patacca, poi al Teatrino dei Cantastorie, quindi al-la cantina della libreria L’Uscita e infine a Via Sacchi 3. Al suo po-sto, accanto al Bar delle Rose, prenderà forma il “Folkrosso” (sic!).Ed è qui che De Gregori conoscerà Fabrizio De André, instauran-do un’amicizia che darà preziosi frutti negli anni a seguire. Ma in-tanto il presente lo lega a quel bizzarro compagno di viaggi unghe-resi, dal montgomery di pecora e dall’“ugola di tungsteno”, secon-do l’efficace definizione del produttore Lilli Greco.

Antonello Venditti e Francesco De Gregori sono un tandem chepuò durare al massimo lo spazio di un disco. E così sarà. THEO-RIUS CAMPUS è un nome di fantasia, ma va benissimo per unaraccolta di canzoni eterogenee e singolari come queste, sospese trafolk, canzone popolare e songwriting. In cabina di regia, c’è appun-to Italo Greco, detto Lilli, produttore ex Rca che ha riunito per l’oc-casione un team di musicisti inglesi: Derek Wilson alla batteria, Da-ve Summer alla chitarra elettrica, Donald Meakin alla chitarra acu-stica, Mike Brill al basso, più Maurizio Giammarco al flauto e, na-turalmente, i Nostri: Venditti al piano, De Gregori alla chitarra, concontributi sporadici alla sei corde del ritrovato Lo Cascio.

Le registrazioni avvengono in una sola settimana, nel piccolo Stu-dio 38 di Roma, dove in quegli anni si affacciano altri giovani emer-genti come Riccardo Cocciante, Rino Gaetano, Fiorella Mannoia.

Il disco, griffato in copertina dall’Ofelia di Shakespeare ritrattanel 1851 da John Everett Millais, è diviso (quasi) a metà: sei branidi Venditti, quattro di De Gregori, più due condivisi. Il motivodello squilibrio è presto spiegato dallo stesso Francesco: “Io canta-vo peggio. Venditti era il cantante, è innegabile che lo fosse dal lo-ro punto di vista; poi aveva dei pezzi più belli, più ascoltabili, men-tre io allora facevo delle ballate su due accordi”13. Anche Grecosembrava pensarla così, almeno secondo Paolo Dossena, altro pro-

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duttore emergente, destinato a un futuro radioso al fianco di PattyPravo: “Abbiamo lavorato con convinzione, più mia verso De Gre-gori e più di Lilli verso Venditti, non è stato un disco vissuto insie-me da loro due. Io mi sono ritrovato certe volte solo di notte con DeGregori per lavorare ai suoi pezzi. Lo ritenevo fortissimo. Quei te-sti affascinavano, c’era un linguaggio rivoluzionario. L’idea di usa-re il moog è venuta semplicemente perché c’era un moog lì, inquello studiolaccio”14. E chissà se è ripensando a quei giorni cheDe Gregori riserverà a Greco un paio di versi ironici: “Lilli Greconon capisce, ma che Dio lo benedica. Un bicchiere e una bisteccami diverte” (in Marianna al bivio, su ALICE NON LO SA).

Certo, Roma Capoccia, col suo ardore melodico e il suo testostruggente, scalda i cuori, e non solo nella Capitale. Darà addirit-tura il titolo alla ristampa dell’album, nel 1980, e trionferà alla Gon-dola d’oro di Venezia, proiettando Venditti verso un futuro da star.Del resto, i suoi brani, scanditi da un uso spesso ritmico del piano,sono potenti e passionali (L’amore è come il tempo, La cantina, Ciaouomo), ficcanti anche quando ripiegano nel microcosmo romane-sco (Sora Rosa). I pezzi di De Gregori, invece, non sono mai cosìdiretti, sono piccoli racconti, densi di passaggi ermetici ed ellittici,cesellati con un fingerpicking secco ed essenziale.

Signora Aquilone è il primo brano inciso ufficialmente da Fran-cesco De Gregori e contiene già in nuce molti tratti caratteristici delsuo songwriting: la struttura spartana (praticamente quattro notein moto discendente), l’arpeggio discreto (in questo caso, della suaEko a dodici corde), in controluce, la struttura narrativa sospesatra fiaba e realtà, l’atmosfera onirica, l’antitesi tra passione e razio-nalità, il montaggio “cinematografico” dei versi. E la signora checorre dietro agli aquiloni è anche la prima di una lunga teoria di fi-gure femminili che sfileranno nei suoi dischi:

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C’era una donna, l’unica che ho avutoaveva i seni piccoli e il cuore mutoné in cielo né in terra una casa possedevasotto un albero verde dolcemente vivevasotto un albero verde dolcemente vivevaLegato ai suoi fianchi con un filo d’argentoun vecchio aquilone la portava nel ventoe lei lo seguiva senza fare domandeperché il vento era amico ed il cielo era grande

Come spesso accadrà, è ricorrendo all’ironia che De Gregori spez-za gli incantesimi, rompendo bruscamente l’atmosfera fatata dei ver-si. Ma il lapidario call and response scioglie anche ogni dubbio sucosa sia l’aquilone, metafora di libertà e di fuga dal razionale:

E io le dissi ridendo: “Ma Signora Aquilonenon le sembra un po’ idiota questa sua occupazione?”Lei mi prese la mano e mi disse: “Chissàforse in fondo a quel filo c’è la mia libertà”

Il protagonista incontra poi un ubriaco travestito da santo, ebbrodelle sue stesse lacrime (probabile citazione da La leggenda del san-to bevitore di Joseph Roth). Un pianto “antico come Dio”, recita ilverso ufficiale: ma la versione originaria era “cattivo come Dio”.Censura preventiva e prima delle tante che verranno.

Nonostante la chiusa autocritica (“Ho scritto canzoni per tutti idolori e forse questa qui non è delle migliori”), De Gregori proba-bilmente sa che è proprio questo il suo apice di THEORIUS CAM-PUS, un disco che sente suo solo fino a un certo punto. C’è peròanche il brano che aveva cantato insieme a Lo Cascio, facendo sob-balzare Micocci sulla sedia, La casa del pazzo, qui riarrangiato inun’ottica straniante, con tutte le amabili (e improbabili) ingenuità

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dell’epoca: il cupo rimbombo del moog, qualche refolo di flauto pa-ra-prog e un insistito pizzicare di corde, ad assecondare il cantatomagnetico. Il testo è costruito per flash, in un crescendo dramma-tico à-la Cohen:

In cima alla collina del tridenteappollaiata come una gallinac’è la casa che il pazzo ha costruitoper avere la luna più vicinaIl pazzo sta scrivendo da vent’anniuna canzone senza veritàma adesso è tardi e forse questa serametterà un punto e l’abbandonerà

L’epilogo annunciato si compie, suggellando il definitivo distac-co del protagonista dal mondo che lo ha respinto, abbandonando-lo sulla collina come nella beatlesiana The Fool On The Hill:

Scendendo dalle nuvole più basseun angelo è volato nella stanzae ha regalato al pazzo una pistolae il pazzo la pulisce con troppa noncuranza

Sulla sua tomba il vento sarà un baciol’erba la carezza di un amantequando l’agnello belerà più fortee il mare sarà un po’ meno distante

“Ma questa è poesia!” aveva esclamato Micocci e non a torto, per-ché il talento del De Gregori narratore è già pienamente a fuoco, colsuo lirismo spoglio, asciutto, quasi distaccato, eppure sempre pron-to a folgorare le corde dell’anima.

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Dolce signora che bruci, cantata a due voci, insinua invece il so-spetto che l’improbabile tandem, pur non essendo proprio la ver-sione italiana di Simon & Garfunkel, non avrebbe affatto sfigura-to: suadente e ironica, delinea un altro ritratto femminile spiaz-zante.

Dolce signora che bruci, per che cosa stai bruciando?i gerani al tuo balcone si stanno consumandoDolce signora che bruci, qual è il tuo peccato originalequanta acqua è passata sul tuo corpo di saleil tuo album di foto sta andando alla derivae il tuo amante prezioso se ne è andato un’ora fama io posso capire la tua età

Poco più che scherzoso divertissement, col suo scattante arran-giamento country-western, Little Snoring Willy chiude di fatto la(quasi) metà degregoriana di THEORIUS CAMPUS, riservandociun’inaspettata interpretazione in inglese, tutto sommato godibile.I due brani scritti a quattro mani con Venditti in Ungheria nonaggiungono granché di significativo: Vocazione 1 e 1/2 è un ritrattosemiserio di un sacerdote, affogato tra coretti celestiali ed effettimisticheggianti, In mezzo alla città è addirittura “la canzone piùbrutta che abbiamo mai scritto”, stando a De Gregori, che la ricor-da così: “Fu un tentativo mio e di Venditti di fare una canzone com-merciale con un testo adeguatamente stronzo. Una cosa molto sput-tanante, infatti piaceva abbastanza ai discografici, allora”15.

THEORIUS CAMPUS resterà tutto sommato un corpo estraneonelle discografie di entrambi: non abbastanza appetibile per la Rcache doveva distribuirlo, sarà promosso poco e male, tra litigi e im-probabili apparizioni televisive. Una coda lunga di incomprensio-ni e amarezze che minerà anche lo stesso rapporto tra i due amici.Perché c’è addirittura chi parla di THEORIUS CAMPUS come “l’al-

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bum del cantautore Antonello Venditti e del suo chitarrista De Gre-gori”. E la It, che si è accorta del maggior potenziale commercialedi Venditti, gli ha già proposto un disco solista (che si chiameràL’ORSO BRUNO).

De Gregori ammetterà apertamente le ragioni della sua rabbia:“Ero anche invidioso di lui a quel punto, perché mi sentivo taglia-to fuori. Forse al Folkstudio avevo più successo di Venditti, ma sulpiano discografico la cosa venne ribaltata in maniera impietosa, cioèio non ero solo un gradino al di sotto di Venditti, io ero niente eVenditti era il grosso cantante. Quindi reagii come avrebbero rea-gito molti, dicendo be’, ma insomma: chi cazzo sei?”16.

Seguirà viaggio nei Balcani, con relativo acquisto di un barattolobulgaro da regalare a un amico: Miele di rose per Giorgio Lo Cascio,spunto per l’omonima canzone (mai edita), un impertinente talkin’blues che racconta quel De Gregori amaro e scazzato, stufo dei di-scografici e della tv, che del resto non amerà mai neanche in seguito:

Il regista fa: “Attento! Hai esattamente un minuto e mezzo per ester-nare la tua anima!”.E se tu gli rispondi che la tua anima dura almeno tre minuti, lui tiguarda storto, ti fa rapporto, ti prende per comunista. Non andatealla Rai Tv di Torino. Io ci sono stato. Come dice Paul Simon, sonostato vomitato, inghiottito, deglutito e inglutito, minoreitanizzato,claudiovillato, littletonyzzato, e credo proprio che mi sia bastato.Alla fine mi hanno messo vergognosamente in mano centomila lire.Io sono scappato come un razzo giù per i portici e proprio dietro il car-tellone del dentifricio Close Up chi incontro? Incontro la SignoraAquilone e le faccio: “Scusi tanto, dov’è il cielo più vicino, che ci va-do a comprare del miele di rose per Giorgio Lo Cascio”.

Non sarà la prima canzone scritta per Lo Cascio. All’amico de-dicherà anche la pungente Buonanotte fratello (su ALICE NON LO

SA), accusandolo, tra il serio e il faceto, di mascherare dietro l’ap-

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parente disponibilità (“il tuo ospedale per i cuori infranti”, citazio-ne da Heartbreak Hotel di Elvis Presley) la mancanza di coinvolgi-mento nei problemi degli altri, l’incapacità di fornire un vero aiu-to (“Dov’eri tu quando parlavo tanto ed ero solo come una be-stemmia”), anche se poi la conclusione sarà assolutoria: “Buona-notte fratello, buonanotte fratello, con amore”.

Del Folkstudio, dunque, cosa resta? A parte qualche “birra di-sperata” e qualche partita a flipper, c’è solo il nuovo sodalizio conEdoardo De Angelis, il cantore di Lella, “la fija de Projetti er cra-vattaro”, ora alle prese con un incarico da factotum a casa It. È luia incoraggiare il De Gregori disilluso di quei giorni, imbarcandolonel progetto Capitolo 6 (un bizzarro quartetto romano folk-progche pubblica un album dall’improbabile titolo di FRUTTI PER KA-GUA) e, soprattutto, fornendo supporto clandestino e nuovi musi-cisti (tra cui il chitarrista Renzo Zenobi) al suo debutto solista.Quell’ALICE NON LO SA che farà decollare la sua carriera, liberan-dolo dall’abbraccio protettivo del Folkstudio e dei vecchi amici.

L’attività del locale, spostato in seguito in varie sedi, è continua-ta fino al 1998. Dopo la scomparsa di Giancarlo Cesaroni, avvenutail 29 gennaio 1998, l’Associazione Folkstudio ’88 ha donato il ma-teriale di archivio (locandine, fotografie, audiocassette e nastri conalcuni dei concerti registrati) alla Discoteca di Stato.

L’avventura solista di De Gregori, però, avrà sempre radici benpiantate nello scantinato di Via Garibaldi, la casa madre cui conti-nuerà a rivolgersi con affetto e nostalgia. Come in Arlecchino (suFRANCESCO DE GREGORI, 1974), storia di un artista-funambolosospeso sulla corda di una vita spesa a incantare il pubblico (“Arlec-chino è già sul filo, la gente vuole vedere cosa fa”) dove il verso ini-ziale – “Fiori falsi e sogni veri tra gli eroi della friggitoria Chantant”– celebra proprio il Folkstudio degli inizi in cui “non era importan-te neanche mangiare, bastava sorridersi, bastava comunicare”. E nel1993 De Gregori parteciperà anche a una sorta di “Folkstudio revi-

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val” al Teatro Nazionale di Milano, esibendosi proprio insieme al fra-tello Luigi che lo aveva accompagnato la prima volta in Via Garibaldi59. Perché il senso di appartenenza che univa quei carbonari di Tra-stevere, in fondo, era quello di una generazione intera.

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Note

CAPITOLO 1

1. Intervista con Michele Anselmi, «l’Unità», 1984.2. Dario Salvatori, Folkstudio Story, Studio Forma, 1981.3. Francesco De Gregori in Fabrizio De André – La cattiva stra-

da, Edizioni associate, 1995.4. Salvatori, op. cit.5. Dario Salvatori, Le risposte nel vento in formato poster, Edizio-

ni Ottaviano, 1980.6. Andrea Fantacci, Io e Caterina – Intervista a Francesco De Gre-

gori (estratto da «L’Isola che non c’era», luglio 2001).7. Ernesto Bassignano, Canzoni pennelli bandiere supplì, Pieral-

do Editore, 1996.8. Ibidem.9. Salvatori, Folkstudio Story, cit.10. Michelangelo Romano, Paolo Giaccio, Riccardo Piferi, Fran-

cesco De Gregori – Un mito, Lato Side, 1976-80.

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11. Valerio Cappelli, De Gregori, 50 anni e niente da capire, «IlCorriere della Sera», 4 aprile 2001

12. Giorgio Lo Cascio, De Gregori, Franco Muzzio editore, 1990.13. Romano, Giaccio, Piferi, op. cit.14. Enrico Deregibus, Quello che non so lo so cantare, Giunti,

2003.15. Romano, Giaccio, Piferi, op. cit.16. Ibidem.

CAPITOLO 2

1. Christian Zingales, Italiani brava gente, Tuttle Edizioni, 2008.2. Paolo Vites, intervista a Francesco De Gregori in appendice

al cofanetto contenente i suoi Cd, «Corriere della Sera», 2009.3. Ibidem.4. Francesco De Gregori, Da Alice a Scacchi e tarocchi (libro al-

legato a un cofanetto della Bmg Ariola, che racchiude tutti gli al-bum incisi da De Gregori dal 1973 al 1985), Bmg Ariola, 1989.

5. Ibidem.6. Andrea Podestà, Francesco De Gregori – A piedi nudi lungo la

strada, Zona, 2007.7. Romano, Giaccio, Piferi, op. cit.8. Vites, op. cit.9. Ibidem.10. De Gregori, op. cit.11. Podestà, op. cit.12. Vites, op. cit.13. Roberto Vecchioni, Il linguaggio in canzone e la rivoluzione

lessicale, formale e tematica di Francesco De Gregori, dispensa del-l’Università degli Studi di Torino-DAMS, corso di “Forme dellapoesia per musica”, anno accademico 2002-2003.

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