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  • Antidoti

  • Titolo originale: Max Perkins. Editor of Genius © 1978 A. Scott Berg

    Tutti i diritti riservati. La riproduzione di parti di questo testo, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma, è severamente vietata.

    Traduzione dall’inglese di Monica Capuani

    Si ringrazia la Biblioteca Statale Antonio Baldiniper la disponibilità del materiale qui riprodotto

    I edizione gennaio 2013© 2012 Lit Edizioni s.r.l.

    Elliot è un marchio di Lit EdizioniSede operativa: Via Isonzo 34, 00198 Roma

    [email protected]

  • Andrew Scott Berg

    MAX PERKINS

    L’EDITOR DEI GENI

    Traduzione di Monica Capuani

  • Al mio amicoCarlos Baker

    e ai miei genitoriBarbara e Richard Berg

  • Passò in mezzo alla folla distratta, splendorein mezzo all’ombre, una macchia di luce

    su questa lugubre scena, uno spirito di lottaper giungere a cogliere il Vero,

    ma come accadde anche al Predicatore non poté trovarlo.

    SHELLEY, Poesie

  • PARTE PRIMA

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    I

    La cosa vera

    Poco dopo le sei di un pomeriggio di pioggia del marzo 1946, un uomomagro con i capelli grigi era seduto nel suo bar preferito, il Ritz, e stavafinendo l’ultimo di molti Martini. Sentendosi sufficientemente corro-borato per la prova che lo attendeva, pagò il conto, si alzò, e indossò cap-potto e cappello. Con una ventiquattrore bella piena in una mano e unombrello nell’altra, uscì dal bar e si avventurò nell’acquazzone che stavainzuppando il centro di Manhattan. Si diresse a ovest verso un piccolonegozio che dava sulla Quarantatreesima Strada, a parecchi isolati di di-stanza.

    All’interno del negozio, lo stavano aspettando trenta giovani uomini edonne. Erano studenti di un corso serale sull’editoria che la New YorkUniversity aveva chiesto di tenere a Kenneth D. McCormick, caporedat-tore della Doubleday & Company. Gli studenti erano tutti entusiasti al-l’idea di trovare un punto d’appoggio nell’editoria e stavano frequentan-do i seminari settimanali per aumentare le proprie possibilità. La maggiorparte delle volte c’erano alcuni ritardatari, ma quella sera McCormick sirese conto che ogni studente era presente e seduto allo scoccare delle sei.McCormick sapeva perché. La lezione di quella sera verteva sull’editingdei libri, e lui era riuscito a convincere l’editor più rispettato e influented’America a “dire due parole sull’argomento”.

    Maxwell Evarts Perkins era sconosciuto al grande pubblico, ma chiapparteneva all’ambiente dei libri lo considerava una figura gigantesca,una specie di eroe. Perché lui era l’editor per eccellenza. Da giovane ave-va scoperto grandi nuovi talenti – come F. Scott Fitzgerald, Ernest He-mingway e Thomas Wolfe – e aveva puntato la sua carriera su di loro, sfi-dando i gusti costituiti della generazione precedente e rivoluzionando laletteratura americana. Per trentasei anni aveva lavorato per una solaazienda, la Charles Scribner’s Sons, e nel corso di quel periodo nessuneditor in nessuna casa editrice si era neanche avvicinato al suo record neltrovare autori di talento e farli pubblicare. Molti studenti avevano con-

  • fessato a McCormick che era stato il brillante esempio di Perkins adaverli attratti verso l’editoria.

    McCormick richiamò la classe all’ordine, battendo il palmo della ma-no sul tavolo da gioco pieghevole che aveva di fronte, e cominciò la le-zione con una descrizione del mestiere dell’editor. Disse che non era piùun lavoro che si limitava principalmente alla correzione dello spelling edella punteggiatura, come una volta. Consisteva piuttosto nel sapere co-sa pubblicare, come procurarselo, e cosa fare per aiutare quei libri a rag-giungere il più vasto pubblico possibile di lettori. In tutte queste cose,disse McCormick, Max Perkins era insuperato. Il suo giudizio letterarioera originale ed estremamente astuto, ed era famoso per la sua capacitàdi ispirare un autore a produrre il meglio che aveva dentro di sé. Più unamico per i suoi autori che un esigente collaboratore, li assisteva in tutti imodi. Li aiutava a strutturare i loro libri, se ce n’era bisogno; escogitavatitoli, inventava trame; fungeva da psicanalista, consigliere nelle que-stioni amorose, consulente matrimoniale, assistente nella gestione dellacarriera, prestasoldi. Pochi editor prima di lui avevano fatto così tantolavoro sui manoscritti, eppure fu sempre fedele al suo motto: “Il libroappartiene all’autore”.

    In un certo senso, suggerì McCormick, Perkins era una persona im-probabile per la sua professione: faceva errori di spelling, il suo uso del-la punteggiatura era del tutto personale, e quando si trattava di leggereera per sua stessa ammissione “lento come un bue”. Ma considerava laletteratura una questione di vita o di morte. Una volta scrisse a ThomasWolfe: “Non c’è niente di più importante di un libro”.

    Perkins era l’editor più importante della sua epoca, molti dei suoi au-tori erano delle celebrità, e Perkins stesso era un tantino eccentrico: pertutte queste ragioni su di lui erano nate innumerevoli leggende, moltedelle quali basate sulla realtà. Nella classe di Kenneth McCormick, tut-ti avevano sentito almeno una versione mozzafiato di come Perkins ave-va scoperto F. Scott Fitzgerald; o di come una volta la moglie di Scott,Zelda, al volante dell’auto del marito, era finita con l’editor nella lagunadi Long Island; o di come Perkins aveva convinto Scribner a prestaremolte migliaia di dollari a Fitzgerald salvandolo dall’esaurimento nervo-so. Si diceva che Perkins avesse acconsentito a pubblicare il primo ro-manzo di Ernest Hemingway, E il sole sorge ancora, alla cieca, e che poiquando il manoscritto era arrivato aveva dovuto lottare per tenersi il la-voro perché il libro era scritto in un linguaggio colorito. Un’altra storiache Perkins adorava era quella del suo scontro con l’editore ultracon-

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    servatore per cui lavorava, Charles Scribner, su certe parolacce conte-nute nel secondo romanzo di Hemingway, Addio alle armi. Si diceva chePerkins si fosse annotato le parole problematiche di cui voleva discutere– “cacare”, “fottere” e “pisciare” – sul suo calendario da tavolo, senzafar caso al titoletto: Cose da fare oggi. Sembra che il vecchio Scribner sco-prì la lista e fece notare a Perkins che se doveva ricordare a se stesso di fa-re certe cose era in un grosso guaio.

    Molte storie che circolavano su Perkins riguardavano la scrittura e iltemperamento indomiti di Thomas Wolfe. Si raccontava che mentre sta-va scrivendo Il fiume e il tempo, Wolfe fosse appoggiato col suo corpo al-to un metro e novantotto al frigorifero e usasse il ripiano superiore del-l’elettrodomestico come scrivania, gettando ogni pagina finita in unacassa di legno senza neanche rileggerla. Le voci dicevano che alla fine tremarcantoni portarono la cassa con il pesante carico a Perkins, che inqualche modo diede al suo contenuto straripante la forma di un libro.Tutti nella classe di McCormick avevano anche sentito la storia del cap-pello di Maxwell Perkins, un feltro sformato che pareva indossasse pertutta la giornata, sia all’aperto che negli ambienti al chiuso, togliendose-lo dalla testa solo prima di andare a letto.

    Mentre McCormick parlava, la leggenda in carne e ossa si avvicinò alnegozio sulla Quarantatreesima Strada ed entrò in silenzio. McCormickalzò gli occhi e, vedendo una figura curva sulla porta, si interruppe ametà di una frase per dare il benvenuto all’ospite. La classe si voltò e vi-de per la prima volta il più grande editor d’America.

    Aveva sessantun anni, era alto un metro e settantotto e pesava ses-santotto chili. L’ombrello che aveva con sé non sembrava averlo protet-to molto: era bagnato fradicio, e il cappello gli pendeva avvizzito sopra leorecchie. Un bagliore roseo pervadeva il volto lungo e affilato diPerkins, ammorbidendone le spigolosità. Il volto era allineato su un na-so forte e rubicondo, dritto quasi fino alla fine, dove poi curvava all’ingiùcome un becco. Aveva gli occhi color celeste pastello. Una volta Wolfeaveva scritto che erano “pieni di una strana luce nebulosa, con una spe-cie di remoto tempo marittimo dentro, occhi di un marinaio del NewEngland in partenza per lunghi mesi alla volta della Cina su un velierooceanico, con dentro qualcosa di annegato, di disperso in mare”.

    Perkins si tolse l’impermeabile grondante sotto il quale indossava uncompleto non stirato color sale e pepe con il gilet. Poi, dopo una rapidaocchiata all’insù, si tolse il cappello, sotto il quale c’era una testa di ca-pelli grigio ferro pettinati all’indietro a partire da una V al centro della

    LA COSA VERA

  • fronte. A Max Perkins non importava molto l’impressione che dava, ilche era un bene, perché la prima impressione che fece quella sera in par-ticolare fu di un commerciante di granaglie del Vermont che era andatoin città con l’abito della domenica ed era stato sorpreso dalla pioggia.Mentre si dirigeva verso la parte anteriore della stanza, aveva un’aria va-gamente sconcertata, e ancora di più quando Kenneth McCormick lopresentò come “il decano degli editor americani”.

    Perkins non aveva mai parlato a un gruppo come quello. Ogni annoriceveva decine di inviti, ma li declinava tutti. Innanzitutto, era diventa-to un po’ sordo e tendeva a evitare le situazioni di gruppo. Inoltre, eraconvinto che gli editor di libri dovessero rimanere invisibili; la sua sen-sazione era che se la gente li riconosceva questo poteva minare la fiduciadei lettori negli scrittori, e quella degli scrittori in se stessi. In più,Perkins aveva sempre pensato che non avesse senso discutere della pro-pria carriera; fino all’invito di McCormick. Kenneth McCormick, unadelle persone più abili e amate nel mondo dell’editoria, applicava anchelui la filosofia dell’autocancellazione editoriale di Perkins, ed era un uo-mo al quale era difficile dire di no. O forse Perkins aveva la percezione diquanta fatica e sofferenza avesse sottratto alla propria longevità e senti-va che avrebbe fatto meglio a trasmettere quello che sapeva prima chefosse troppo tardi.

    Perkins agganciò comodamente i pollici ai giromanica del gilet e co-minciò, parlando con quella sua voce leggermente stridula e impostata.“La prima cosa che dovete ricordare” disse, senza quasi guardare in fac-cia il suo uditorio “è che un editor non aggiunge niente a un libro. Nelmigliore dei casi è l’ancella di un autore. Non vi venga mai in mente disentirvi importanti per quello che fate, perché un editor al massimo ri-lascia energia. Un editor non crea niente”. Perkins ammise che avevaconsigliato libri ad autori che in quel momento non avevano idee pro-prie, ma affermò che quelle opere di solito erano al di sotto della loromedia, anche se a volte era capitato che avessero successo economico eaddirittura di critica. “Il lavoro migliore di uno scrittore” disse “ vienetotalmente da se stesso”. Mise in guardia gli studenti contro ogni sforzoda parte di un editor di immettere il suo punto di vista personale nell’o-pera di uno scrittore, oppure di cercare di renderlo diverso da quello cheè. “Il procedimento è semplicissimo” disse. “Se avete un Mark Twain,non cercate di trasformarlo in uno Shakespeare o viceversa. Perché allafine un editor può tirare fuori da un autore solo quello che l’autore ha giàin sé”.

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    Perkins parlava con attenzione, con quel timbro forzato di chi è durod’orecchi, come se si stupisse del suono della propria voce. All’inizio l’u-ditorio dovette sforzarsi per sentirlo, ma nel giro di qualche minuto era-no così immobili che si udiva chiaramente quasi ogni sillaba di quelloche diceva. Erano tutti intenti ad ascoltare il diffidente editor parlaredelle sfide esaltanti del suo lavoro, la ricerca di quello che continuava adefinire “la cosa vera”.

    Quando Perkins ebbe concluso le riflessioni che si era preparato,Kenneth McCormick chiese alla classe se ci fossero domande. “Com’e-ra lavorare con F. Scott Fitzgerald?” fu la prima.

    Un lieve sorriso aleggiò sul volto di Perkins mentre rifletteva unistante. Poi rispose: “Scott era sempre un gentiluomo. A volte aveva bi-sogno di un sostegno extra – e di smaltire la sbornia – ma la sua scrittu-ra era così potente che ne valeva la pena”. Perkins proseguì dicendo chel’editing di Fitzgerald era semplice confronto ad altri, perché era un per-fezionista nel suo lavoro e voleva che fosse eccellente. Però, aggiunse:“Scott era particolarmente sensibile alle critiche. Le accettava, ma comeeditor dovevi essere sicurissimo di tutto quello che suggerivi”.

    La discussione virò su Ernest Hemingway. Perkins disse che He-mingway aveva avuto bisogno di appoggio all’inizio della sua carriera, ein seguito ne ebbe anche di più “perché scriveva con la stessa audaciacon cui viveva”. Perkins era convinto che la scrittura di Hemingwayesprimesse quella virtù nei suoi eroi, la “grazia sotto pressione”. Disseche Hemingway era incline a correggersi in maniera esagerata. “Una vol-ta mi raccontò che aveva riscritto alcune parti di Addio alle armi cin-quanta volte” rivelò Perkins. “Prima che un autore distrugga le qualitànaturali della sua scrittura: ecco il momento in cui un editor deve inter-venire. Ma non un attimo prima”.

    Perkins raccontò alcune storie sul lavoro che aveva fatto con Erski-ne Caldwell, poi fece delle osservazioni su molte delle sue donne ro-manziere autrici di best seller, tra cui Taylor Caldwell, Marcia Daven-port e Marjorie Kinnan Rawlings. Solo alla fine, come se la classe fossestata riluttante a sollevare un argomento delicato, arrivarono le doman-de sull’ultimo Thomas Wolfe, con il quale Perkins era in rotta. Per il re-sto della serata la maggior parte dei quesiti si concentrò sull’intensocoinvolgimento di Perkins con Wolfe, l’impresa più impegnativa dellasua carriera. Per anni si era detto con insistenza che Wolfe e Perkins era-no stati partner alla pari nella creazione dei romanzi più tentacolari diWolfe. “Tom era un uomo di enorme talento, un genio” disse. “Quel ta-

    LA COSA VERA

  • lento, come la sua visione dell’America, era così vasto che né un solo li-bro né una singola esistenza avrebbero potuto contenere tutto quelloche aveva da dire”. Mentre Wolfe trasponeva il suo mondo nella lettera-tura, Perkins aveva sentito che era sua responsabilità stabilire certi limi-ti, di lunghezza e di forma. Disse: “Erano convenzioni pratiche alle qua-li Wolfe non poteva fermarsi a pensare da solo”.

    “Ma Wolfe prendeva i suoi suggerimenti con gentilezza?” chiesequalcuno.

    Perkins rise per la prima volta quella sera. Raccontò di una volta incui, a metà del loro rapporto, aveva cercato di indurre Wolfe a elimina-re una grossa parte di Il fiume e il tempo. “Era tardi, era una notte calda,e stavamo lavorando in ufficio. Gli posi la questione e poi mi sedetti in si-lenzio, continuando a leggere il manoscritto”. Perkins sapeva che alla fi-ne Wolfe avrebbe acconsentito a eliminare quel passaggio perché c’era-no motivi validi dal punto di vista artistico. Ma Wolfe non si arrendevafacilmente. Agitò la testa e si dondolò sulla sedia, mentre i suoi occhi va-gavano nell’ufficio poco ammobiliato di Perkins. “Continuai a leggere ilmanoscritto per almeno quindici minuti” proseguì Max “ma ero consa-pevole dei movimenti di Tom, e sapevo che alla fine stava guardando fis-so un angolo dell’ufficio. In quell’angolo erano appesi il mio cappello eil mio cappotto, e da sotto il cappello, lungo il cappotto, pendeva una si-nistra pelle di serpente a sonagli con sette sonagli”. Era un regalo diMarjorie Kinnan Rawlings. Max guardò Tom, che stava fissando il cap-pello, il cappotto e il serpente. “Ah ah!” esclamò Wolfe. “Il ritratto di uneditor!”. Dopo questa battutina, acconsentì all’eliminazione.

    Più di una volta gli aspiranti editori furono costretti a ripetere le lo-ro domande perché Perkins potesse udirle. C’erano lunghi silenzi scon-certanti che interrompevano i suoi discorsi. Rispondeva alle domandediffusamente, ma tra una e l’altra la sua mente sembrava vagare tra mil-le diversi ricordi. “Sembrava che Max entrasse nel mondo privato deisuoi pensieri” raccontò anni dopo McCormick “facendo associazionipersonali interiori, come se fosse entrato in una stanzetta e avesse chiusola porta dietro di sé”. Nel complesso fu uno spettacolo memorabile, e laclasse era seduta in adorazione. Lo yankee di campagna che ore prima siera catapultato lì dentro sfuggendo alla pioggia si era trasformato da-vanti a loro proprio nella leggenda delle loro fantasie.

    Poco dopo le nove, McCormick informò Perkins dell’ora, in modoche riuscisse a prendere il treno. Era un peccato interrompere. Non ave-va neanche accennato alle sue esperienze con autori come Sherwood An-

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    derson, J.P. Marquand, Morley Callaghan, Hamilton Basso; non avevaparlato del biografo Douglas Southall Freeman, o di Edmund Wilson, diAllen Tate, di Alice Roosevelt Longworth o di Nancy Hale. Era troppotardi per parlare di Joseph Stanley Pennell, che aveva scritto RomeHanks, il romanzo che Perkins considerava il più esaltante che avesse cu-rato negli ultimi anni. Non ci fu tempo per parlare di nuovi scrittori –Alan Paton e James Jones, per esempio, due scrittori di cui al momentostava curando i promettenti manoscritti. Perkins, però, sicuramente sen-tiva di aver detto più che abbastanza. Prese il cappello, lo calzò sulla testa,si infilò l’impermeabile, voltò le spalle alla standing ovation del suo pub-blico e uscì con la stessa discrezione con cui era entrato.

    Stava ancora piovendo forte. Sotto il suo ombrello nero arrancò finoa Grand Central Station. In vita sua, non aveva mai parlato così tanto disé in pubblico.

    Quando arrivò a casa sua tardi quella sera, a New Canaan, Connec-ticut, Perkins trovò la maggiore delle sue cinque figlie che lo stava aspet-tando per trascorrere la serata con lui. Si accorse che suo padre era ma-linconico e gli chiese il motivo.

    “Ho tenuto un discorso stasera e mi hanno definito ‘il decano deglieditor americani’” le spiegò. “Quando ti chiamano decano, significa chesei finito”.

    “Oh papà, non significa che sei finito” obiettò lei. “Significa solo chesei arrivato in cima”.

    “No” disse Perkins senza espressione. “Significa che sei finito”.

    Era il 26 marzo. Il 26 marzo, ventisei anni prima, c’era stato un gran-de inizio per Max Perkins: la pubblicazione di un libro che gli avevacambiato la vita, e molto di più.

    LA COSA VERA

  • II

    Paradiso

    Nel 1919 i riti della primavera a Manhattan erano straordinarie dimo-strazioni di patriottismo. Una settimana dopo l’altra, i battaglioni mar-ciavano trionfalmente risalendo la Quinta Avenue. La “guerra per met-tere fine a tutte le guerre” era stata combattuta e vinta.

    Sulla Quarantottesima Strada, le parate passavano davanti agli uffi-ci della Charles Scribner’s Sons – Editori e Librai. L’edificio Scribner erauna costruzione di dieci piani dal design classico, incoronata da dueobelischi e ornata da imponenti colonne. Il piano terra era rivestito di lu-cente ottone – l’elegante negozio della libreria Scribner, una stanza spa-ziosa e oblunga con un alto soffitto a volta e impervie scale di metallo chesi inerpicavano a chiocciola verso i ballatoi superiori. John Hall Whee-lock, che gestiva la libreria prima di diventare un editor alla Scribner, lachiamava “una cattedrale bizantina di libri”.

    Attigua alla libreria c’era un’entrata discreta. Lì dietro, un atrio con-duceva a un ascensore che saliva sbatacchiando ai regni superiori dell’a-zienda Scribner. Il secondo e il terzo piano ospitavano gli uffici finanzia-ri e amministrativi. Al quarto piano c’era la pubblicità. E al quinto, lestanze della casa editrice, soffitti e muri bianchi e spogli; pavimenti di ce-mento senza moquette; scrivanie con alzata a scomparsa e scaffali per i li-bri. In questo stile austero gli Scribner, una famiglia di uomini d’affari al-la sua seconda generazione, mantenevano la propria fama della casa edi-trice americana più nobile e ricca di tradizione di tutte. In quel luogo sirespirava ancora un’atmosfera dickensiana. L’ufficio contabilità, peresempio, era gestito da un uomo sulla settantina che passava le sue gior-nate appollaiato su un alto sgabello, a leggere attentamente libri mastrorilegati in pelle. Le macchine da scrivere a quell’epoca erano diventateun’attrezzatura normale, e dal momento che per far funzionare quegliaggeggi bisognava assumere le donne, dai gentiluomini ci si aspettavache non fumassero in ufficio.

    Dal quinto piano, la società era governata come una monarchia del

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    XIX secolo. Charles Scribner II, il “vecchio CS”, era il sovrano indi-scusso. Aveva solitamente un’espressione severa sul volto, il naso affila-to, i capelli bianchi a spazzola e i baffi. Aveva sessantasei anni, e regnavada quaranta. Il prossimo in linea di successione era il suo amabile fratel-lo Arthur, più giovane di nove anni, con i lineamenti meno marcati, cheWheelock diceva “fosse sempre un po’ paralizzato dalla vitalità di suofratello”. William Crary Brownell, il caporedattore, con la barba biancae i baffi da tricheco, nel suo ufficio aveva una sputacchiera di ottone e undivano di pelle. Ogni pomeriggio leggeva un manoscritto appena arri-vato e poi “ci dormiva sopra” per un’ora. Dopo faceva una passeggiataintorno all’isolato, tirando boccate dal suo sigaro, e quando era tornatoalla sua scrivania e sputava era pronto ad annunciare la sua opinione sullibro.

    C’erano anche uomini più giovani alla Scribner. Uno di essi, MaxwellEvarts Perkins, era arrivato nel 1910. Per quattro anni e mezzo era statodirettore della pubblicità prima di assurgere al piano editoriale per fareda tirocinante al venerabile Brownell. Già nel 1919 Perkins si era impo-sto come promettente giovane editor. Eppure, quando guardava le pa-rate fuori dalla finestra del suo ufficio, sentiva fitte di disappunto per lasua carriera. Avendo superato i trent’anni, si era sentito troppo vecchioe oberato di responsabilità per arruolarsi e andare a combattere oltreo-ceano. Guardando il pittoresco rientro in patria, gli dispiaceva non es-sere stato un testimone di prima mano della guerra.

    Anche la Scribner aveva avuto scarsa esperienza della guerra e deisuoi sconvolgimenti. Il catalogo Scribner era una palude di gusti e valo-ri letterari sonnolenti. I suoi libri non contravvenivano mai ai limiti della“decenza”. In realtà, si spingevano di rado oltre la mera funzione di di-strarre il lettore. Nessuno dei nuovi scrittori – Theodore Dreiser, Sin-clair Lewis, Sherwood Anderson – stava attirando l’attenzione. I tre pi-lastri della casa editrice Scribner erano autori affermati da un pezzo im-mersi nella tradizione inglese. La casa editrice pubblicava La saga deiForsyte di John Galsworthy e l’opera completa di Henry James ed EdithWharton. In realtà, la maggior parte dei libri importanti della Scribnererano quelli degli scrittori che pubblicavano da anni, e i cui manoscrittinon avevano bisogno di editing. William C. Brownell espresse la politicaeditoriale dell’azienda rispondendo a uno dei manoscritti della signoraWharton: “Non credo molto nel rattoppare, e non sono suffisant abba-stanza per pensare che l’editore possa contribuire molto consigliandomodifiche”.

    PARADISO

  • Per lo più, i compiti di Max Perkins come editor si limitavano allebozze da correggere – lunghi fogli stampati, ognuno contenente l’equi-valente di tre pagine di un libro – e ad altri lavoretti di circostanza. Oc-casionalmente veniva interpellato per correggere la grammatica di un li-bro sul giardinaggio o per organizzare raccolte di racconti classici e tra-duzioni di Čechov nelle antologie scolastiche. Lavoro che richiedevapoca creatività.

    Un autore fisso della Scribner era Shane Leslie, un giornalista, poetae conferenziere irlandese, che trascorreva lunghi periodi di molti anni inAmerica. In uno dei suoi viaggi prolungati fu presentato a un ragazzoadolescente dal preside della Newman School, nel New Jersey. Leslie e ilbel giovane – un aspirante scrittore del Minnesota – divennero amici. Al-la fine il giovanotto entrò alla Princeton University, ma si arruolò nell’e-sercito prima di laurearsi. Fu richiamato e inviato a Fort Leavenworth,Kansas. “Ogni sabato all’una, quando la settimana di lavoro era finita”ricordò anni dopo “mi precipitavo al Club degli Ufficiali e lì, nell’ango-lo di una stanza piena di fumo, chiacchiere e giornali rumorosi, nei tremesi seguenti tutti i weekend scrissi un romanzo di 20.000 parole”. Nel-la primavera del 1918 pensò che l’esercito lo stesse per inviare oltreo-ceano. Incerto sul proprio futuro, il giovane ufficiale – F. Scott Fitzge-rald – affidò il manoscritto a Leslie.

    L’opera, intitolata The Romantic Egotist, era poco più di un’accozzagliadi racconti, poesie e bozzetti che raccontavano il raggiungimento dellamaggiore età dell’autore. Leslie lo mandò a Charles Scribner, chiedendo-gli di esprimere un “giudizio” sul libro. A mo’ di introduzione, lui scrisse:

    Malgrado i suoi mascheramenti, mi ha dato un’immagine vivida dellagenerazione americana che si precipita alla guerra. Mi stupisce la suacrudezza e intelligenza. C’è qualche ingenuità, in altri punti è sconvol-gente, sofferto in maniera convenzionale e non privo di un senso di no-biltà ironica soprattutto verso la fine. Circa un terzo del libro potrebbeessere omesso senza che si perda l’impressione che è scritto da un RupertBrooke americano… Mi interessa in quanto è il libro di un ragazzo e cre-do che esprima quell’autentica gioventù americana che i sentimentalistisono così ansiosi di raccogliere dietro i teli della tenda della YMCA.

    Per i tre mesi successivi, il manoscritto passò da un editor all’altro.Brownell “non riuscì a digerirlo affatto”. Edward L. Burlingame, un al-tro editor anziano, lo trovò “difficile da far scendere”. Il materiale pas-

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    sò di mano in mano fino ad arrivare a Max Perkins. “Abbiamo letto TheRomantic Egoist* con un livello di interesse veramente insolito” scrissePerkins a Fitzgerald quell’agosto. “Infatti da molto tempo non ci arriva-va un romanzo manoscritto che esprimesse tanta vitalità”. Ma le dedu-zioni di Perkins derivavano da una sola opinione. Solo a lui era piaciutoil libro, e con riluttanza la sua lettera proseguì nel rifiutarlo. Citò le re-strizioni del governo sulle forniture di stampa, gli elevati costi di produ-zione, e “certe caratteristiche del romanzo stesso”.

    Gli editor alla Scribner consideravano le critiche alle opere che re-spingevano al di là delle proprie funzioni e passibili di suscitare le ire del-l’autore. Ma l’entusiasmo di Perkins per il manoscritto di Fitzgerald lospinse a ulteriori commenti. Impossessandosi del “noi” editoriale, si as-sunse il rischio di offrire qualche osservazione generale perché, disse:“Saremmo felici che si presentasse l’occasione per riconsiderare la suapubblicazione”.

    Il suo principale motivo di insoddisfazione su The Romantic Egotistera che non muoveva verso una conclusione. Il protagonista andava al-la deriva, cambiando pochissimo nel corso del romanzo.

    Potrebbe anche essere intenzionale da parte sua perché certo una cosadel genere non è infedele rispetto alla vita; ma lascia il lettore decisa-mente frustrato e insoddisfatto perché si era aspettato che il personaggioarrivasse da qualche parte o in senso reale tramite la sua risposta allaguerra forse, oppure in senso psicologico “trovando se stesso”, comeper esempio è portato a fare Pendennis. Lui in guerra ci va, sì, ma quasicon lo stesso spirito con cui è andato al college e a scuola: semplicemen-te perché è la cosa da fare.

    “Ci sembra, in breve” asserì Perkins “che la storia non culmini in nul-la come invece dovrebbe per giustificare l’interesse del lettore che la staseguendo; e che si potrebbe assolutamente fare in modo che questo av-venga visti i personaggi e le parti iniziali del libro”. Perkins non volevache Fitzgerald “rendesse convenzionale” il libro, ma piuttosto che lorendesse più intenso. “Ci auguriamo di rivedere il libro” scrisse in chiu-sura “e a quel punto lo rileggeremo immediatamente”.

    PARADISO

    *Perkins scrisse il titolo sbagliato. Tutto lo spelling e la punteggiatura sono con-servati nel materiale citato direttamente di questo libro, tranne quando l’errorepuò indurre in confusione.

  • La lettera di Perkins incoraggiò il tenente Fitzgerald a impegnarsi,nelle sei settimane successive, in una revisione del suo romanzo. A metàottobre spedì il manoscritto sul quale aveva rilavorato alla Scribner.Perkins, come promesso, lo lesse immediatamente, e fu felice di trovar-lo molto migliorato. Piuttosto che rivolgersi direttamente al vecchio CS,cercò un alleato nel figlio di Scribner. Anche a Charles III il libro piac-que, ma il suo appoggio non era sufficiente. Con i loro voti, gli editor piùanziani sconfissero di nuovo Perkins. Cosa che, come in seguito Perkinsammise con Fitzgerald: “Mi fece temere che… per lei fosse finita con noitradizionalisti”.

    Eppure Max era determinato a vedere il libro pubblicato. Lo portòall’attenzione di due editori rivali. Un collega di Scribner ricordò chePerkins era “terrorizzato che lo accettassero, perché continuava a vede-re che c’erano grandi possibilità che venisse ancora migliorato. Gli altrieditori, comunque, glielo rispedirono senza una parola”.

    Imperterrito, Perkins continuò a nutrire la segreta speranza di riu-scire a farlo pubblicare. Credeva che Fitzgerald avrebbe potuto fareun’ulteriore revisione dopo il congedo dall’esercito, per poi permetterea Perkins di portare il libro davanti al suo comitato editoriale per la terzavolta.

    Fitzgerald, però, non era così indomito come il suo paladino a NewYork. Quando The Romantic Egotist venne rifiutato per la seconda vol-ta, si trovava a Camp Sheridan a Montgomery, Alabama. Perse fiducianel libro, ma la sua delusione venne attenuata da una distrazione: ZeldaSayre, la figlia di un giudice della corte suprema dell’Alabama, che la suaclasse dell’ultimo anno di liceo aveva appena votato “la più carina e lapiù attraente”. Il tenente Fitzgerald le venne presentato a luglio a un bal-lo al country club, e fu uno degli ammiratori che la invitarono ad agosto.Fitzgerald in seguito confidò al suo taccuino che il 7 settembre “si era in-namorato”. Anche Zelda lo amava, ma lo teneva a distanza. Stava aspet-tando di capire se aveva talento a sufficienza per potersi procurare i lus-si che entrambi sognavano. L’esercito congedò Fitzgerald nel febbraiodel 1919, e lui andò a New York per un lavoro nell’agenzia di pubblicitàBarron Collier. Appena arrivato telegrafò a Zelda: SONO NELLA TERRADELL’AMBIZIONE E DEL SUCCESSO E L’UNICA COSA CHE SPERO E IN CUI CON-FIDO È CHE IL MIO ADORATO CUORE PRESTO SARÀ CON ME.

    Fitzgerald, naturalmente, andò a trovare Max Perkins. Non si sa co-sa si dissero, a parte il fatto che Perkins suggerì ufficiosamente a Scott diriscrivere il suo romanzo, trasponendo il racconto dalla prima alla terza

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    persona. “L’idea di Max era di dare all’autore una certa distanza dallamateria” disse John Hall Wheelock anni dopo. “Ammirava l’esuberan-za della scrittura e della personalità di Fitzgerald, ma era convinto chenessun editore, e certamente non la Scribner, avrebbe accettato l’operadi un autore così arrogante e intemperante com’era lui”.

    A metà dell’estate del 1919, Fitzgerald scrisse a Perkins da St. Paul.“Dopo aver cercato per quattro mesi di scrivere testi pubblicitari di gior-no e imitazioni dolorose e poco entusiaste della letteratura popolare dinotte, ho deciso che dovevo scegliere o una cosa o l’altra. Perciò ho ri-nunciato a sposarmi e sono tornato a casa”. Alla fine di luglio terminò lastesura di un romanzo intitolato The Education of a Personage. “Non è innessun senso una revisione dello sfortunato Romantic Egotist” Fitzge-rald assicurò a Perkins. “Ma contiene una parte del materiale preceden-te migliorato e lavorato, e in più ha una forte aria di famiglia”. Poi ag-giunse: “Mentre l’altro era uno stufato noioso e sconnesso, questo è untentativo preciso di scrivere un grande romanzo e credo proprio di es-serci riuscito”.

    Riacquistata la fiducia nel suo romanzo, Fitzgerald chiese se una con-segna il 20 agosto poteva significare la pubblicazione in ottobre. “Mirendo conto che è una strana domanda dal momento che non ha ancoravisto il libro” scrisse a Perkins “ma lei è stato così gentile con le mie co-se che mi azzardo ad abusare una volta ancora della sua pazienza”. Fitz-gerald diede a Perkins due ragioni per affrettarsi a far uscire il libro:“Perché voglio esordire sia dal punto di vista letterario che finanziario;secondo, perché in un certo senso è il libro giusto al momento giusto, emi sembra che il pubblico sia affamato di qualcosa di decente”.

    The Education of a Personage parve a Max un titolo eccellente e sti-molò la sua curiosità per il libro. “Fin dalla prima lettura del suo primomanoscritto eravamo convinti che lei ce l’avrebbe fatta” rispose subito.Riguardo alla pubblicazione, disse, era sicuro di una cosa: nessunoavrebbe potuto far uscire quel libro in due mesi senza comprometteregravemente le sue possibilità. Per abbreviare il tempo di valutazione,però, Perkins si offrì di leggere i capitoli via via che fossero ultimati.

    Fitzgerald non inviò nessun capitolo, ma la prima settimana di set-tembre del 1919, sulla scrivania di Perkins arrivò una revisione completa.Fitzgerald aveva cambiato il libro in maniera considerevole, accettandoin effetti tutti i suggerimenti di Perkins. Aveva trasposto la storia in terzapersona e utilizzato molto meglio il materiale che aveva recuperato. Ave-va anche attribuito all’opera un nuovo titolo: Di qua dal Paradiso.

    PARADISO

  • Perkins si preparò al suo terzo assalto alla riunione mensile del comi-tato editoriale, facendo rispettosamente circolare tra i suoi colleghi ilnuovo manoscritto. A metà settembre gli editor si incontrarono. CharlesScribner era seduto a capotavola, con lo sguardo torvo. Suo fratelloArthur era al suo fianco. C’era anche Brownell, una figura straordinaria,perché non era soltanto un caporedattore ma uno dei più eminenti cri-tici letterari americani. Aveva “dormito sul libro” e sembrava entusiastaall’idea di litigare con chiunque degli altri cinque o sei uomini seduti in-torno al tavolo fosse intenzionato ad accettarlo.

    Il vecchio CS fece uno sproloquio. Stando a Wheelock: “Era un edi-tore nato e aveva un grande fiuto, amava veramente mandare in stampa ilibri. Ma il signor Scribner disse: ‘Sono fiero della mia sigla editoriale.Non posso pubblicare romanzi privi di valore letterario’. Allora Brow-nell interpretò il suo pensiero definendo il libro ‘frivolo’”. La discussio-ne sembrava conclusa, finché il vecchio CS, con i suoi occhi ostili, sbir-ciò lungo il tavolo da conferenza e disse: “Max, sei molto silenzioso”.

    Perkins si alzò e cominciò a passeggiare per la stanza. “La mia sensa-zione” spiegò “è che un editore debba essere fedele prima di tutto al ta-lento. E sarà una cosa gravissima non pubblicare un talento come que-sto”. Asserì che l’ambizioso Fitzgerald sarebbe riuscito a trovare un al-tro editore per questo romanzo, e che altri giovani autori lo avrebberoseguito: “A quel punto potremo anche chiudere bottega”. Perkins tornòal suo posto al tavolo delle riunioni e, scontrandosi frontalmente conScribner, disse: “Se rifiuteremo gente come Fitzgerald, perderò ogni in-teresse nell’editoria”. Si procedette al voto per alzata di mano. I giovanieditor finirono a pari merito con i vecchi. Vi fu un silenzio. Poi Scribnerdisse che voleva più tempo per pensarci.

    Fitzgerald stava guadagnando qualche soldo con un lavoretto tem-poraneo: riparava i tetti delle carrozze ferroviarie. Il 18 settembre, pro-prio prima del suo ventitreesimo compleanno, ricevette una lettera rac-comandata da Maxwell Perkins.

    Sono molto felice, a livello personale, di poterle scrivere che siamo tuttifavorevoli alla pubblicazione del suo libro Di qua dal Paradiso. Conside-rato che è lo stesso libro che abbiamo ricevuto in passato, come in uncerto senso è, tradotto però in altri termini e molto ampliato, penso chelei lo abbia enormemente migliorato. Come il primo manoscritto, è pie-no di energia e di vita, e mi sembra che lo sia in una proporzione assolu-tamente migliore… È un libro così diverso dagli altri che è difficile pro-

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    fetizzare quanto venderà, ma siamo tutti favorevoli a correre il rischio ea sostenerlo vigorosamente.

    Scribner pensava di pubblicarlo quella primavera.Fitzgerald non avrebbe ricevuto nessun anticipo sui futuri guadagni

    – gli anticipi, che oggi sono una consuetudine, all’epoca non venivanoofferti sempre. Ma Fitzgerald già immaginava un prospero futuro. Nelsuo saggio Early Success (1937) scrisse: “Quel giorno mollai il lavoro ecorsi per le strade, fermando le automobili per dirlo ad amici e cono-scenti: il mio romanzo Di qua dal Paradiso era stato accettato per la pub-blicazione… Ripagai i miei terribili debitucci, mi comprai un vestito emi svegliai ogni mattina con un mondo di ineffabile superbia e speran-za”. Fitzgerald delegò tutti i termini del contratto a Perkins, ma ci fu unacondizione alla quale rinunciò solo dopo una piccola lotta. Era ossessio-nato dall’idea di voler essere un autore pubblicato entro Natale, feb-braio al massimo. Alla fine confessò a Perkins il perché: poteva arrivarea Zelda Sayre. Oltre a questo, Fitzgerald scrisse a Perkins: “Avrà un ef-fetto psicologico su di me e su chi mi è vicino, e inoltre mi aprirà altrestrade. Sono nella fase in cui ogni mese conta freneticamente e sembrauna clava in una lotta per la felicità contro il tempo”.

    Perkins gli spiegò che c’erano due stagioni nell’anno editoriale e chela Scribner si preparava a ognuna molto prima che cominciasse. Peresempio, ogni luglio e agosto, i venditori della Scribner facevano propa-ganda per tutto il paese, trasportando bauli pieni di campioni di capito-li e copertine di libri con l’obiettivo di ottenere grandi vendite durante lastagione natalizia. Un libro inserito nel catalogo autunnale dopo che i“viaggiatori” avevano visitato i loro negozi avrebbe lasciato il romanzocompletamente a se stesso. Sarebbe arrivato senza introduzione al li-braio, che, disse Perkins, stava già diventando “quasi pazzo per il nume-ro di libri nel suo negozio e aveva investito in essi tutto il denaro che po-teva”; sarebbe, gli spiegò: “La cosa più sgradita e seccante e di conse-guenza il libro ne soffrirebbe”. Perkins gli consigliò la seconda stagioneeditoriale, i cui preparativi cominciavano il mese dopo il trambusto na-talizio. A quel punto i librai avevano ottenuto i profitti più consistentidell’anno ed erano pronti a rifornirsi di nuovo, stavolta con i nuovi libridi primavera, incluso, si sperava, Di qua dal Paradiso.

    Fitzgerald capì e acconsentì. “Mentre aspettavo che il romanzo uscis-se” scrisse nel suo saggio del 1937 “cominciò a prodursi la metamorfosida dilettante a professionista – una specie di composizione di tutta la

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  • propria vita in un modello di lavoro, in modo che la fine di un libro si-gnifichi automaticamente l’inizio di un altro”. Intraprese molti progetti.Di grande interesse per Perkins fu un romanzo intitolato The Demon Lo-ver, che Fitzgerald stimava avrebbe impiegato un anno a completare.Quando il suo entusiasmo per il libro si affievolì, scrisse dei racconti e lisottopose alla «Scribner’s», una rivista mensile pubblicata dalla casa edi-trice. Solo una delle sue prime quattro proposte fu accettata.

    Fitzgerald voleva qualche parola di incoraggiamento che compensassele lettere di rifiuto. Perkins lesse gli scritti che erano stati respinti e disse aScott che sicuramente non avrebbe avuto difficoltà a piazzarli altrove. “Laloro grande bellezza” scrisse Perkins “sta nel fatto che sono vivi. Il 90 percento delle storie pubblicate derivano dalla vita, ma attraverso il mezzo didistillazione della letteratura. Mi sembra che i suoi procedano direttamen-te dalla vita. Questo si può dire anche del linguaggio e dello stile; che è quel-lo di oggi. È libero dalle convenzioni del passato cui la maggior parte degliscrittori è affezionata… a suo grandissimo danno”. I racconti, scrissePerkins: “Dimostrano chiaramente che lei ha un vero talento per il genere”.

    Più tardi, nelle ultime settimane dell’anno, Fitzgerald scrisse aPerkins: “Sento di essere stato sicuramente fortunato a trovare un edi-tore che sembra tutto sommato così interessato ai suoi autori. Dio sa sequesto gioco della letteratura non sia abbastanza scoraggiante, a volte”.Quello di cui Fitzgerald non si rendeva conto era che Maxwell Perkinsera altrettanto entusiasta perché il più brillante giovane autore dellaScribner era la sua prima scoperta letteraria.

    Quando Fitzgerald studiava a Princeton disse al poeta Alfred Noyes,che era nella sua università a insegnare per una stagione, che pensava dipoter “scrivere sia romanzi in grado di vendere sia libri di valore perma-nente” e che non era sicuro di quali dovesse affrontare. Divenne un con-flitto con il quale Scott avrebbe lottato per il resto della sua vita. Perkinssi rese presto conto che anche se tutti e due gli obiettivi erano importan-ti per Fitzgerald, la questione dei soldi era determinante. Mentre le boz-ze di Di qua dal Paradiso erano in preparazione, Fitzgerald scrisse aPerkins che aveva un’idea per un altro romanzo. “Voglio iniziarlo” disse“ma non voglio ritrovarmi a metà senza il becco di un quattrino, e co-minciare a dover di nuovo scrivere racconti – perché non mi piace [scri-vere racconti] e lo faccio solo per i soldi”. Pensando al denaro liquido adisposizione più che alla futura buona reputazione letteraria, chiese:“Non si fa un soldo con le raccolte di racconti, no?”.

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    Perkins confermò l’intuizione di Fitzgerald che di regola le antologienon diventavano best seller. “In verità, però” spiegò Perkins “mi è sem-brato che i suoi racconti potrebbero costituire un’eccezione, quando nesarà stato pubblicato un buon numero e quando il suo nome sarà ampia-mente noto. Mi sembra che siano molto in sintonia con quello che oggi èin voga e questo potrebbe far sì che si vendano in forma di libro. Mi pia-cerebbe che le piacesse di più scriverli… perché sono importantissimiper costruire la sua reputazione e perché hanno anche un valore in sé”.

    Fitzgerald rimase in ansia per tutto l’inverno. Zelda Sayre accettò disposarlo, ma il matrimonio era ancora appeso al suo successo come scrit-tore. Lui vedeva i racconti come una scorciatoia verso il suo obiettivo.Spezzettò il lavoro che aveva fatto su The Demon Lover in molti bozzet-ti di personaggi e li vendette per quaranta dollari l’uno a «The SmartSet», la popolare rivista letteraria pubblicata da George Jean Nathan eH.L. Mencken. Più di chiunque altro nel 1920, l’editor e criticoMencken incoraggiava gli scrittori a sfidare la “tradizione forbita” e a re-gistrare il linguaggio vivo della contemporaneità. Alla fine dell’inverno,dopo che «The Smart Set» aveva pubblicato sei scritti spigliati di Fitz-gerald su dandy indolenti e sfacciate debuttanti, la fama del giovanescrittore si stava diffondendo.

    Mentre la pubblicazione di Di qua dal Paradiso si avvicinava, la febbredell’eccitazione che aveva contagiato Maxwell Perkins mesi prima si dif-fuse tra molti impiegati della Charles Scribner’s Sons. Alcuni, invece, nonerano tanto eccitati quanto sgomenti. Malcolm Cowley, un critico lettera-rio, scrisse che anche prima della sua pubblicazione il libro venne ricono-sciuto come “la voce terribile di una nuova era, e fece rabbrividire alcunidei più vecchi impiegati della Scribner”. Roger Burlingame, figlio dell’e-ditor anziano Edward L. Burlingame e in seguito editor lui stesso in casaeditrice, diede un esempio di questa reazione nel suo Of Making ManyBooks, una storia informale della Scribner. Burlingame scrisse che chi det-tava legge in casa editrice all’epoca era un membro importante del repar-to vendite. Spesso non si fidava del proprio giudizio letterario e parlava dimolti libri solo “dopo matura riflessione”: aveva infatti l’abitudine di por-tarli a casa per farli leggere a una sorella erudita. Era convinto che sua so-rella fosse infallibile, e in realtà molti dei romanzi sui quali lei “aveva pian-to” avevano effettivamente realizzato vendite prodigiose. Perciò quandosi venne a sapere che Burlingame aveva portato a casa per il weekend Diqua dal Paradiso, il lunedì mattina i suoi colleghi non stavano più nella pel-le. “E che cosa ha detto sua sorella?” gli domandarono in coro. “Lo ha

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  • preso con le tenaglie” rispose lui “perché dopo averlo letto non aveva piùintenzione di toccarlo con le mani, e lo ha gettato nel fuoco”.

    Il 26 marzo 1920 Di qua dal Paradiso finalmente uscì, e Fitzgeraldvenne orgogliosamente pubblicizzato come “il più giovane scrittore dicui la Scribner abbia mai pubblicato un libro”. Perkins quel giorno sce-se a peregrinare nel negozio e assistette alla vendita di ben due copie, co-sa che gli sembrò di buon augurio. Una settimana dopo, nella canonicadella cattedrale di St. Patrick, a pochi isolati dall’edificio Scribner, ZeldaSayre e Scott Fitzgerald si sposarono. Furono sempre convinti che il lo-ro matrimonio fosse avvenuto sotto gli auspici di Perkins.

    Di qua dal Paradiso si spiegò come una bandiera su un’intera epoca.Suscitò l’attenzione delle rubriche letterarie e delle tabelle di vendita.H.L. Mencken, nella sua recensione su «Smart Set», scrisse che Fitzge-rald aveva prodotto “un primo romanzo veramente incredibile, origina-le nella struttura, estremamente sofisticato nel tono, e ricco di una genia-lità rara nella scrittura americana come lo è l’onestà nell’arte di governareamericana”. Mark Sullivan, nella sua storia sociale dell’America, Our Ti-mes, che venne pubblicata dalla Scribner, scrisse che il primo libro diFitzgerald “ha la caratteristica, se non di creare una generazione, sicura-mente di richiamare l’attenzione del mondo su una generazione”.

    Anche Fitzgerald aveva fatto la stessa affermazione nelle ultime pa-gine del suo libro. “Vi era una nuova generazione” scrisse “che lanciavale antiche grida, imparava gli antichi credo in una fantasticheria dilunghi giorni e lunghe notti; destinata a finir per uscire in quello sporcotumulto grigio per seguire l’amore e l’orgoglio; una nuova generazionededita più della prima alla paura della povertà e all’adorazione del suc-cesso; cresciuta per accorgersi che tutti gli dèi erano morti, tutte leguerre combattute, tutte le fedi umane scosse…”.

    Del richiamo popolare del libro, l’autore stesso ricordò in Early Success:

    Stordito, dissi alla casa editrice Scribner che non mi aspettavo che il mioromanzo vendesse più di 20.000 copie, e quando le risate scemarono mifu detto che venderne 5.000 sarebbe stato considerato un risultato ec-cellente per un romanzo d’esordio. Penso che fosse dopo una settimanadalla pubblicazione che superò la soglia delle 20.000 copie, ma io miprendevo così sul serio che non trovai neanche la cosa divertente.

    Il libro non rese tanto ricco Fitzgerald, ma sicuramente lo rese famo-so. Aveva solo ventiquattro anni, e apparentemente era destinato al suc-

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    cesso. Charles Scribner in seguito scrisse a Shane Leslie quell’anno: “Latua introduzione a Scott Fitzgerald si è dimostrata molto importante pernoi; Di qua dal Paradiso è stato il nostro best seller di questa stagione e staancora andando forte”.

    Nel primo trambusto della celebrità del libro molti gravi refusi pas-sarono inosservati. Perkins se ne assunse tutta la responsabilità. Si eracosì spaventato per la reazione al libro da parte degli altri impiegati del-la Scribner che se lo era quasi fatto sfuggire dalle mani durante ogni fasedella sua preparazione – anche quella della correzione di bozze. In OfMaking Many Books, Roger Burlingame osservò che se non fosse statoper l’inflessibile supervisione di Irma Wyckoff, la devota segretaria diPerkins: “Max stesso probabilmente sarebbe stato una specie di feno-meno ortografico”. Presto gli errori che Perkins non individuava maidivennero un argomento importante del dibattito letterario. Durantel’estate, il sagace commentatore di libri del «Tribune» di New York,Franklin P. Adams, aveva trasformato la ricerca degli errori in un giocoda salotto. Alla fine, uno studioso di Harvard inviò alla Scribner una li-sta di più di cento errori. Fu una cosa umiliante per Perkins; ma ancorapiù umiliante fu il fatto che li sottolineasse anche l’autore, malgradoavesse lui stesso enormi problemi di spelling. Scott era felice come unaPasqua che il suo libro stesse esaurendo intere tirature ogni settimana,ma non era contento che molti di quegli errori presenti sulla lista sem-pre più lunga di Franklin Adams non vennero corretti fino alla sesta ri-stampa.

    I refusi sembravano non avere importanza per il pubblico dei letto-ri. Era soprattutto la scrittura a esaltare l’incerta gioventù della nazione.Mark Sullivan disse in seguito dell’eroe di Fitzgerald: “I giovani indivi-duarono nel comportamento di Amory un modello per la propria con-dotta, e i genitori allarmati trovarono realizzate le loro peggiori paure”.Roger Burlingame osservò inoltre che il romanzo “risvegliò tutti i geni-tori benestanti della generazione che stava combattendo la guerra dallasbornia della propria sicurezza e li portò alla consapevolezza che qual-cosa di irrevocabile, terribile e, forse, definitivo era successo ai loro figli.E diede ai loro figli la loro prima orgogliosa sensazione di essere ‘perdu-ti’”. “L’America stava facendo la più grande e appariscente baldoria del-la storia e sull’argomento ci sarebbe stato un bel po’ da dire” scrisse inseguito Fitzgerald.

    A un mese dalla pubblicazione del libro, Fitzgerald spedì al suo edi-tor undici racconti, sei poesie – tre delle quali avevano suscitato “una

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  • certa considerazione nel Second Book of Princeton Verse” – e un muc-chio di possibili titoli per un’antologia. Max lesse tutto il materiale, se-lezionò otto racconti, e scelse Maschiette e filosofi come il più forte dei ti-toli spensierati di Fitzgerald. Charles Scribner ritenne la scelta “orribi-le”, ma lasciò che Perkins mettesse a frutto il suo primo successo con unsecondo.

    I guadagni che Fitzgerald otteneva dalla scrittura saltarono da 879dollari nel 1919 a18.850 nel 1920, e lui li scialacquò subito tutti. A quan-to poteva capire Perkins, Fitzgerald non si preoccupava di risparmiaree sembrava non curarsi molto del futuro. Scrisse a Shane Leslie che aFitzgerald “piacciono molto le cose belle della vita ed è disposto a go-dersele al massimo fintantoché le cose vanno bene. L’economia non èuna delle sue virtù”.

    A cominciare da Fitzgerald, Perkins sviluppò l’abitudine di inviarelibri agli autori con cui lavorava. “Max era come i farmacisti di una vol-ta” fece notare uno di loro, James Jones. “Ogni qual volta ti vedeva in-dulgere nell’indolenza, ti prescriveva un libro che pensava ti avrebbe sti-molato. Erano sempre selezionati appositamente per la tua malattia,corrispondevano perfettamente ai tuoi gusti e al tuo temperamento, macon un certo guizzo che ti induceva a pensare in una direzione nuova”.Nel giugno del 1920 Max inviò a Fitzgerald una copia di Ordeal of MarkTwain di Van Wyck Brooks. Brooks, Max scrisse a Scott: “È un tipo ge-niale e molto interessante e, se apprezzerai il libro, mi piacerebbe farteloconoscere un giorno a pranzo”. Van Wyck Brooks era il migliore amicodi Perkins. Si conoscevano fin dall’asilo a Plainfield, New Jersey, ed era-no stati insieme a Harvard. Adesso, dodici anni dopo la laurea, Brooksera sulla strada giusta per diventare lo studioso della letteratura ameri-cana più eminente dell’epoca.

    “È uno dei libri più stimolanti che ho letto e mi è sembrato che miinfondesse di nuovo un soffio di vita” rispose Fitzgerald qualche giornodopo averlo ricevuto. “Ho appena finito il racconto migliore che hoscritto finora, e il mio romanzo sarà il capolavoro della mia vita”. La co-pia pesantemente sottolineata da Fitzgerald di Ordeal of Mark Twain èuna dimostrazione dell’influenza assai profonda che l’opera di Brooksesercitò sulla sua successiva serie di racconti. Scott lesse in Brooks delromanzo di Clemens intitolato The Gilded Age, che racconta di un uomoche va verso l’ovest in cerca di una montagna di carbone e diventa abba-stanza ricco da sposare la donna che ama. Scott allora scrisse una novel-la in cui FitzNorman Culpepper Washington trovava per caso un teso-

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    ro minerario, circa nello stesso periodo, nel Montana. Fitzgerald intitolòil suo racconto Il diamante grosso come l’Hotel Ritz.

    Lo scrittore continuò a lavorare per tutta l’estate, ma Perkins no.Non si sentiva mai pronto per andare in vacanza a meno che non fosseconvinto di essersela meritata, e quell’estate, per la prima volta nella suacarriera di editor, ne era convinto. Prima di partire per le ferie, Perkinsinviò a Fitzgerald il suo indirizzo, che avrebbe potuto usare se avesseavuto bisogno di qualsiasi cosa. Era semplicemente il nome della citta-dina in cui era andato praticamente ogni estate della sua vita.

    Windsor, Vermont, si trova a un terzo della strada che risale il confi-ne Vermont-New Hampshire, sulla riva occidentale del fiume Connec-ticut. Per Max Perkins era il posto più meraviglioso della terra. Una set-tantina d’anni prima, proprio all’ombra del Monte Ascutney, suo nonnomaterno aveva costruito un perimetro di case nel quale riunire intornoa sé la sua famiglia. “Windsor era il paradiso personale dei nipoti di miononno” scrisse la sorella di Max, Fanny Cox, in Vermonter. “D’invernoabitavamo in posti diversi… ma d’estate ci riunivamo nel grande spaziodietro la palizzata dove c’erano sei case di fronte alla strada per il villag-gio e i campi si estendevano fino ai prati verdi con siepi di abeti canade-si potate e aiuole rotonde piene di begonie che scendevano lungo la col-lina fino al laghetto”. Dietro il laghetto c’era una parte particolarmentepiacevole della proprietà, dove i torrenti precipitavano giù dalle collinee i sentieri si insinuavano tra boschi di pini e betulle. La famiglia chia-mava questi boschi speciali “Paradiso”.

    A Paradiso un ragazzino poteva correre libero e selvaggio come lasua immaginazione. Il giovane Max Perkins aveva trascorso innumere-voli ore lì con i suoi fratelli, sorelle e cugini. In seguito, come padre, ciportava le sue figlie. A loro vennero trasmessi tutti i piaceri che si trova-vano all’altro capo del viaggio di sette ore da New York, a bordo delWhite Mountain Express, un treno estivo meravigliosamente comodo.

    Perkins disse a una delle sue figlie: “La sensazione più bella è andarea letto stanchi”. Il momento di andare a letto era sempre stato il preferi-to della giornata di Perkins, quei pochi minuti appena prima di addor-mentarsi quando poteva “manovrare i suoi sogni”. In quegli ultimi istan-ti di veglia, Maxwell Perkins si trasportava in maniera ricorrente nellaRussia del 1812 – teatro del suo libro preferito, Guerra e pace. Una seradopo l’altra, la sua mente si riempiva di visioni dell’esercito di Napoleo-ne che si ritirava da Mosca con il gelo e la prima neve dell’inverno. Tut-te le mattine nel Vermont, dopo che i personaggi di Tolstoj gli erano sfi-

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  • lati davanti, insisteva che i suoi sogni erano più vividi e dormiva piùprofondamente a Windsor che in qualsiasi altro posto.

    Una volta per ogni estate Perkins portava le figlie a fare una scalatasul Monte Ascutney, camminando per trenta minuti e riposando per die-ci, proprio come il principe Andrej avrebbe potuto far marciare i suoisoldati in Guerra e pace. Ma il più grande piacere di Perkins a Windsorera perdersi in una lunga passeggiata solitaria. Una “camminata vera”,era solito chiamarla. Da solo, percorreva lo stesso terreno sul quale i suoiantenati avevano messo piede prima di lui.

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