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I Mappamondi1

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Anna Livia Carella

Il fuoco sulla pelleL’arte del tatuaggio tradizionale giapponese

ISBN: 978-88-7615-517-8

I edizione: settembre 2011© 2011 Alberto Castelvecchi Editore srlVia Isonzo, 3400198 RomaTel. 06.8412007 - fax 06.85865742www.castelvecchieditore.cominfo@castelvecchieditore.com

Cover: Sandokan Studio

La presente è considerata opera di saggistica rivolta all’analisi e alla promozione di autori e opere di ingegno. Si avvale dell’articolo70, I e III comma, della Legge 22 aprile 1941 n. 633, nonché dell’articolo 10 della Convenzione di Berna

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Prefazione

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Oggi la cultura giapponese è ampiamente conosciuta anche inOccidente. Il teatro kabuki, il jo-ruri (teatro delle marionette), il ka-rate, il judo e pratiche come l’ikebana (l’arte di disporre i fiori), lachanoyu (la cerimonia del tè), sono molto ammirate anche al di fuo-ri del loro paese di origine. Tra queste arti però, ce n’è una estrema-mente raffinata, di particolare bellezza e con forti legami culturali,che è rimasta nell’ombra per secoli, si tratta dello horimono: l’artedel tatuaggio giapponese tradizionale.

Poter ammirare uno horimono (‘cose incise’) non è una cosa faci-le. La prima volta che ne intravidi uno fu per caso e non in Giapponema a Roma. Era una giornata primaverile e per caso il mio sguardofu catturato da un signore giapponese sulla cinquantina vestito inmaniera piuttosto elegante; mi girai nell’istante in cui tirò su unamanica della camicia per avvicinare le mani a una fontana. All’al-tezza dell’avambraccio notai un disegno di linee molto spesse e ar-rotondate di colore nero al di sopra delle quali si intravedevano del-le linee più sottili, leggere e curve che sembravano essere parte di undisegno sfumato internamente dal nero a un nero/grigio di intensitàminore. Rimasi a fissare quel braccio stupita e incantata finché il

Avvertenza

Il sistema di trascrizione seguito per le parole in lingua giapponese è loHepburn.Per la divisione delle parole nella trascrizione dal giapponese ho cercato diincorporare, per quanto possibile, più elementi nella stessa parola: quindiukiyoe e non ukiyo-e visto che questo tipo di separazione non esiste nellalingua giapponese. I nomi sono scritti alla maniera giapponese mettendo prima il cognome epoi il nome. Sono citati con pseudonimo gli artisti che ne fanno uso; il nome di nascita èindicato tra parentesi quando l’artista è introdotto per la prima volta.Si rimanda alle relative note per gli approfondimenti, le notizie sulle operee sugli artisti citati nel testo.

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generazioni, i tatuatori giapponesi tradizionali si riferiscono alleproprie opere con il termine horimono e non amano l’ormai diffusosinonimo irezumi.

Lo horimono ha avuto, nel tempo, valenze molto diverse. In alcu-ne epoche ha assunto il segno distintivo di nobiltà, coraggio o digni-tà sociale, in altre ha avuto un significato del tutto opposto tanto daessere utilizzato come marchiatura dei fuorilegge o di coloro cheerano considerati al di fuori della società. Nel periodo Tokugawa(1603-1867) divenne una delle manifestazioni artistiche tra le piùraffinate ed eleganti, espressione soprattutto delle classi medie. Sisviluppò su un binario parallelo all’arte dello ukiyoe, da cui prese inprestito tecniche, forme, disegni. Soprattutto grazie all’opera di ar-tisti quali Hokusai (1760-1849), Kuniyoshi (1798-1861) e Yoshito-shi (1839-1892) divenne fenomeno sociale e si diffuse come imma-gine di quel «mondo fluttuante» di cui anche la letteratura e il teatrokabuki si facevano portavoce.

Non considerato dalla classe dominante una vera forma d’arte, lohorimono fu costretto negli ambienti sotterranei dell’illegalità dovedivenne emblema dei giocatori d’azzardo e della yakuza (mafia giap-ponese) esprimendo ideali di forza, mascolinità, coraggio e lealtà. Perlunghissimo tempo rimase nel buio e fu solo dopo la Seconda GuerraMondiale che il tatuaggio giapponese, non più perseguitato dalla leg-ge, poté finalmente uscire allo scoperto. Contrariamente a quantoverrebbe da pensare però, questo non significa che esso sia diventatolegale: in realtà lo horimono oggi è solo più tollerato dalle autorità. Imaestri odierni sono costretti a «regolarizzarsi» come designer e a farpassare il loro lavoro come vendita di disegni e opere d’arte.

Nel 1912 alcune persone, tatuate per lo più dal leggendario mae-stro Horiuno, dell’area di Kanda, formarono la Kanda Chyoukai(‘Associazione amici del tatuaggio di Kanda’). Dieci anni più tardinacque la Edo Chyoukai: i membri di questo gruppo, appartenenti aun’area più estesa rispetto alla precedente, più che altro manovali,carpentieri, operai edili, si incontrano annualmente in posti come

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giapponese si tirò giù la manica e si allontanò. Quell’esperienza mirimase impressa per molto tempo ma probabilmente solo quandopotei vedere un maestro mentre eseguiva un tatuaggo riuscii a car-pire un po’ della vera essenza dello horimono.

È molto difficile descrivere il fascino di un tatuaggio giapponeseo quell’atmosfera che si crea quando un maestro, seduto sul tatamiesprime la sua arte attraverso una bacchetta ad aghi. A me sembradi assistere a qualcosa che trascenda la realtà apparente. Il maestroin zazen (in ginocchio con il sedere sui talloni) prepara il materiale,è concentrato e ogni sua azione è totalmente calata nel presente ri-calcando le basi del pensiero zen: qui e ora, il cuore batte, il sanguefluisce, il respiro entra ed esce, semplicemente esiste, tutto è vivo epulsante. Il maestro emana vitalità, un’energia che non va verso unsolo senso ma fluisce in tutte le direzioni nella stanza, da se stesso alcliente, agli spettatori: l’energia è ovunque.

Nella solennità di un maestro all’opera, negli abbinamenti icono-grafici e cromatici di un tatuaggio si possono scoprire i significati ele storie della cultura giapponese. In questo lavoro ho cercato di ri-percorrere la storia dello horimono dalle origini ai giorni nostri e didescriverlo nella sua vera natura che investe gli ambiti dell’arte, del-l’antropologia, della psicologia, della storia, del costume e della tra-dizione giapponese. Una tradizione mai estinta che finalmente stavarcando i confini della subcultura entro i quali il tatuaggio è statoper molto tempo relegato.

Oggi, sia i giovani tatuatori sia gli stranieri, si riferiscono al ta-tuaggio giapponese con il termine irezumi (‘inserire inchiostro’).Tuttavia i due termini irezumi e horimono hanno una sfumatura disignificato storicamente diversa: il primo si usava per denominareil tatuaggio punitivo fatto ai criminali, mentre il secondo indica iltatuaggio decorativo e tradizionale. Per questo motivo preferisco ri-ferirmi al tatuaggio giapponese con il termine horimono, perché es-so è una forma d’arte, una pittura sulla pelle che ci accompagneràorgogliosamente per tutta la vita e del resto i maestri delle vecchie

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dimensionale della persona, riflette il senso della vita e della morte:come l’uomo e insieme ad esso, lo horimono vive e muore, partecipaal destino di tutta l’umanità.

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Ojinanushi no taki e Maruko tamagawa en per prendere parte a ban-chetti all’aperto o partecipare ai matsuri (feste tradizionali) come loAsakusa sanjya matsuri di Tokyo mostrando i loro estesi horimonocon grande fierezza.

Da quando fiorì ad oggi lo horimono ha mantenuto pressochéinalterate tecniche e disegni continuando a prediligere il tebori (tec-nica dell’incisione a mano) alternandolo alla macchinetta elettrica.

Lo horimono è una forma d’arte artigiana, esige una profonda co-noscenza culturale del Giappone e una grande preparazione artisti-ca, tramandata da maestro ad allievo, non soltanto dal punto di vi-sta tecnico ma anche interiore; una sorta di assimilazione dell’arti-sta con ciò che si vuole rappresentare. Ogni tatuaggio in quanto og-getto artistico, riflette l’anima di colui che l’ha eseguito.

Ogni horimono racconta un aspetto della cultura giapponese, èun veicolo della storia e della cultura di questo Paese, una formad’arte che richiede una profonda conoscenza del Giappone e del suofolclore. La riproduzione di un certo fiore, infatti, si armonizza conun determinato soggetto iconografico e non con un altro. L’atten-zione per i dettagli e le tradizioni sono quindi punti centrali che nonpossono essere considerati irrilevanti.

Anche nell’arte del tatuaggio si esprime l’idea propriamente giap-ponese secondo la quale la bellezza sta in tutto ciò che non è perfet-to, perché è solo nell’incompletezza, che lascia spazio all’immagi-nazione, che si ha la vera espressione artistica.

Una delle particolarità del tatuaggio giapponese è l’essere conce-pito come un’opera d’arte. Se il tatuare in Occidente può essere peralcuni solo un mestiere, in Giappone il tatuaggio tradizionale è unavera e propria forma d’arte.

Lo horimono ricopre l’intero corpo ed è per tutta la vita, non è unquadro che può essere messo da parte, non è un dipinto che può es-sere distrutto. Eseguito sulla pelle, esiste nello spazio e nel tempofinché esiste la persona, ricalca la natura evanescente del corpo e nesottolinea il carattere effimero. È ideato per adattarsi alla forma tri-

quellapiccola
Timbro
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Fotografia della fine del Diciannovesimo secolo, colorata a mano, di Antonio Felice Bea-to (1834/35-1907). Museo Nicèphore Nièpce de Chalon-sur-Saône, Francia

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Fotografia della fine del Diciannovesimo secolo, colorata a mano, di Antonio Felice Bea-to (1834/35-1907). Questa foto fa parte di un album creato tra il 1885 e il 1890 conser-vato presso il museo Nicèphore Nièpce de Chalon-sur-Saône, Francia. La maggior partedelle immagini che esso contiene non possono essere attribuite, tuttavia tra i creatori visono Kimbei Kusakabe (1841-1932), Yamamoto (?-?), Adolpho Farsari (1841-1898), An-tonio Felice Beato (1834/35-1907)

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La storia delle origini

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Le origini e le fonti: i primi marchi

Il periodo Jo-monIn Giappone, come in molti altri luoghi, l’arte di dipingere in ma-

niera indelebile il corpo ha origini antiche e oscure.Le prime tracce che testimoniano questa pratica risalgono al pe-

riodo Jo-mon (12.000 a.C.–300 a.C.), il cui studio inizia nel 1877 conla scoperta da parte del professor Edward S. Morse1 dei kaizuka –cumuli costituiti da residui di un villaggio neolitico, conchiglie, os-sa, selci – di O

–mori tra Yokohama e Tokyo.

Le statuette in terracotta di dimensioni dai cinque ai quarantacentimetri, ritrovate nei vari scavi, le cosiddette dogu-, mostrano deichiari marchi facciali. Questi marchi, situati per lo più intorno agliocchi, sulla fronte, sulle guance e intorno alle labbra, sono probabil-mente riconducibili a pitture, scarificazioni2 o tatuaggi.

Al tardo Jo-mon, è riconducibile un tipo di dogu- detta «a facciacordonata» o «con cordoni a rilievo» e chiamata in Giappone suri-keshi jo-mon, che rivela un approccio specifico alla decorazione: unornato a corde entro zone delimitate da linee. Queste dogu- presen-tano delle caratteristiche precise e inconfondibili per cui le facce,che hanno la mascella inferiore pesantemente segnata da una cor-

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Il tatuaggio era, tra gli Ainu, un’usanza sociale. Le donne ainu sitatuavano le dita, le braccia e le labbra seguendo un particolare ri-tuale che iniziava all’età di dieci anni o a volte all’età di cinque annie terminava generalmente all’età del matrimonio. Le relazioni ses-suali prematrimoniali non erano ammesse per cui il completamen-to del tatuaggio indicava che una ragazza era pronta per sposarsi edivenire madre.

Si tagliava della corteccia di frassino a pezzettini e si bolliva. L’in-fuso verdastro che se ne ricavava, veniva applicato prima dell’inci-sione, subito dopo e successivamente all’applicazione del pigmen-to. Questo infuso aveva funzioni medicamentose e lenitive e non in-cideva sul colore del tatuaggio il quale invece derivava dalla fuliggi-ne raccolta dove era stata fatta bruciare la corteccia di betulla.

Le donne più anziane, recitando frasi a cantilena, con la punta diuna freccia di selce o con una scaglia d’osso, incidevano diverse lineeintorno alle labbra delle giovani seguendo la curva della bocca e cre-ando delle ferite che poi venivano tamponate con un panno scuroimpregnato di fuliggine. Dopo due o tre giorni dall’incisione le cica-trici venivano lavate e disinfettate con l’infuso della corteccia di fras-sino per fissare il disegno e conferirgli il suo classico colore azzurro.

Si iniziava con delle incisioni più sottili che poi venivano estesepiù volte in più operazioni ripetute per anni.

L’anchipiri, il tatuaggio intorno alle labbra, era una pratica moltoammirata senza la quale non c’era possibilità di salvezza. Si credevache proteggesse le donne dagli spiriti malvagi che sarebbero potutientrare attraverso la bocca e il naso.

In maniera analoga venivano tatuati le linee e i cerchi sulle brac-cia e sulle mani. Questi, iniziati durante l’adolescenza, potevano es-sere terminati dopo il matrimonio e fungevano da amuleto. Gli Ai-nu ritenevano che avessero il potere di allontanare gli incendi, i ma-remoti e i temporali. Huku Kamui, la dea del fuoco, infatti, attraver-so il pigmento, conferiva ai tatuaggi poteri magici che allontanava-no gli spiriti malvagi, invisibili ma sempre vicini.

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donatura che va da un orecchio all’altro, hanno decorazioni incisetutto intorno alla bocca.

Le dogu- appartengono a una forma d’arte primitiva in cui la deco-razione e il realismo erano indifferenziati. Riflettevano, probabil-mente, il modo in cui chi le aveva fabbricate si abbelliva testa e cor-po, portava alle orecchie anelli, acconciava i propri capelli, nonchéil modo in cui si dipingeva e tatuava il volto.

Tali figurine dimostrerebbero, dunque, l’esistenza della praticadel tatuaggio in Giappone già in culture così antiche. Del resto an-che in altre culture del paleolitico, come per le vicine popolazioni diTaiwan e delle Ryu- kyu- , il tatuaggio era una regolare pratica rituale.

A Okinawa3, il tatuaggio era praticato sul dorso della mano, le di-ta e i polsi. Aveva un significato religioso, indicava maturità sessua-le, matrimonio, poteva essere un ornamento del corpo, o una distin-zione di sesso, un’usanza tribale o anche avere uno scopo terapeuti-co, per alleviare il dolore delle parti malate.

Un’antica leggenda racconta che tanto tempo fa un nobiluomogiapponese voleva portare via con sé una principessa di Okinawa.Questa, segretamente, si tatuò le mani e le braccia di rosso. L’uomo,credendo che la donna avesse contratto una malattia contagiosa,partì senza di lei. Da quel momento il tatuaggio divenne un abbelli-mento corporale alla moda tra le donne delle Ryu- kyu- e ogni fami-glia aveva un suo personale disegno.

Il tatuaggio continuò ad essere praticato fino a quando, nel 1879,i giapponesi, trasformando Okinawa in una propria prefettura, loresero illegale.

Le genti che abitavano il Giappone in questo periodo non eranodi etnia giapponese. La cultura Jo-mon e quelle successive, sono damettere in relazione con gli ainu4 che risulta abbiano abitato un po’tutto il Giappone prima di essere respinti verso l’Hokkaido. È pro-babile che il tardo Jo-mon, nelle regioni settentrionali, sia stato lar-gamente opera di queste popolazioni tribali che influenzarono gliusi e i costumi delle popolazioni primitive giapponesi.

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usanza si protrasse nel periodo Edo (1600-1867), quando i pompie-ri si tatueranno draghi per esorcizzare la paura delle fiamme.

D’altronde, questa era una funzione non inconsueta anche inmolte altre culture. In Birmania, lo strumento usato per tatuare erauna bacchetta d’ottone che aveva sulla cima un contrappeso. I pesipotevano essere demoni, animali mitologici, uomini o divinità chevenivano sostituiti a seconda del soggetto da tatuare: si riteneva cheavessero la proprietà di trasmettere il potere della divinità che vi erarappresentata e proteggere chi veniva tatuato. E poi, molti tatuaggicristiani, soprattutto tra i marinai, erano considerati talismani con-tro i pericoli del mare.

Altri studiosi riallacciandosi all’idea delle dogu- come amuleti consignificato magico, e mettendo in particolare evidenza gli esemplariritrovati privi di alcune parti, ipotizzarono che fossero una sorta dibambole della medicina usate in pratiche magiche e rotte intenzio-nalmente nei punti malati a scopo curativo.

Anche il tatuaggio praticato a scopo terapeutico non è infrequen-te. I Nuba in Sudan praticavano dei tagli nella pelle che lasciavanoinfettare usando il tatuaggio come una specie di vaccino atto a sti-molare l’organismo a produrre difese immunitarie per diventaremeno vulnerabile a germi e a batteri. Ancora oggi presso alcune po-polazioni nord-africane si usa tatuare segni, linee, cerchi, in puntiprecisi del corpo, vicino agli occhi, sulle tempie per prevenire e cu-rare malattie. Ed è di scoperta più recente, nel 1991, il corpo mum-mificato di un uomo, ritrovato in un ghiacciaio tra Austria e Italia,con piccoli tatuaggi in corrispondenza delle giunture, dietro le gi-nocchia e sulla spina dorsale, che gli studiosi ritengono avessero loscopo di curare i dolori artritici.

Il periodo YayoiDopo il periodo Jo-mon inizia il cosiddetto periodo Yayoi (300 a.C.-

300 d.C.). Si trattava di una cultura caratterizzata dall’agricoltura edalla lavorazione dei metalli, formatasi in seguito a una seconda on-

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Quindi, se le dogu- dimostrano l’esistenza di una pratica simile trale culture Jo- mon se ne potrebbe dedurre che il tatuaggio di quel pe-riodo, invece di avere un valore prevalentemente decorativo, fosselegato a specifici significati come avveniva tra gli Ainu.

La prima ipotesi che gli studiosi d’arte preistorica hanno preso inconsiderazione è che le dogu- siano state giocattoli per bambini, odoggetti decorativi prodotti esclusivamente per il loro valore artisti-co. In questo caso le incisioni sarebbero riconducibili a una sempli-ce forma di tatuaggio che non ha altre funzioni se non quella di ab-bellire e ornare il corpo. Del resto non sarebbe un caso isolato datoche esistono e sono esistite altre culture in cui il tatuaggio ha avutoda sempre carattere puramente ornamentale.

Tra le teorie più recenti, siccome una grande percentuale di dogu-

ritrovate erano sicuramente femminili e solo poche avevano sem-bianze maschili, alcuni studiosi proposero che si trattasse di amule-ti o statuine di divinità protettrici.

Altri studiosi, dato che moltissime dogu- avevano seno e ventre ab-bondanti, pensarono che si trattasse di simboli della dea madre asso-ciati ai culti della terra e ai processi di procreazione della natura.

In questi casi, le incisioni delle dogu--amuleti sembrerebbero lega-te a una pratica atta a favorire la benevolenza della natura. In effettila sopravvivenza della razza umana dipendeva, a quei tempi più chemai, dalla produttività della vita animale e vegetale. L’intimità del-l’uomo primitivo con la natura faceva sì che egli se ne sentisse parte:non poteva scindere la propria sopravvivenza dalla natura, per que-sto motivo cercava costantemente di ingraziarsi il suo aiuto nellainterminabile lotta per l’esistenza. È possibile, quindi, che il primi-tivo tatuaggio giapponese, legato a culti magico-religiosi, fungesseda talismano contro i pericoli così come avveniva, in parte, tra gliAinu. Ipotesi avvalorata anche dal fatto che, stando ad alcune fonticinesi5, anche i giapponesi della successiva era sembra si tatuasseroil viso e il corpo per scacciare i pesci grandi e gli spiriti maligni. Tale

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Furono queste e altre le ideologie che influenzarono le popolazio-ni giapponesi delle successive epoche e che rimasero in auge per unlunghissimo periodo di tempo. È in questo periodo, infatti, chesembra iniziare in Giappone una certa influenza cinese.

Il periodo delle grandi sepoltureVerso la metà del Terzo-Quarto secolo giunsero in Giappone, dal-

la Malesia e dalle isole dell’arcipelago indiano, flussi migratori cheportarono con sé armi perfezionate, l’uso del cavallo, motivi decora-tivi, miti, leggende e la diffusione della sepoltura a tumulo (kofun)che diede nome al periodo (300 d.C.-600 d.C.).

Dagli scavi vennero alla luce delle figurine in terracotta, gli hani-wa6 (‘cilindri di argilla’) che si pensa abbiano avuto lo scopo di ac-compagnare i morti nel viaggio dopo la morte, al posto di un’anticausanza che prevedeva sacrifici umani7.

I ritrovamenti degli haniwa coprono un arco di tempo di tre oquattro secoli durante i quali questi assunsero le forme più dispara-te. I primi haniwa antropomorfi sono databili agli inizi del Quintosecolo. Hanno spesso il volto colorato di rosso o inciso e dimostra-no, con le loro decorazioni, la continuazione della pratica del ta-tuaggio facciale. Le facce dipinte sono così frequenti tra gli haniwa,sia che si tratti di civili o di soldati, di donne o di uomini, che la cosadeve senz’altro riflettere un appassionato tentativo di riprodurreun’usanza profondamente sentita. Il colore, il rosso, può coprirecompletamente la faccia, può trovarsi solo sulla fronte o sotto gliocchi o dagli occhi alle orecchie o lungo il naso e anche in strisceverticali sul mento.

Secondo Edward J. Kidder8, ci si trova di fronte a una praticaconnessa con il culto dei morti collegata alle giare a testa umana delperiodo Yayoi. Lo sciamano che doveva scortare l’anima del trapas-sato all’altro mondo, per timore che gli spiriti diabolici gli impedis-sero il ritorno o trovassero una via sulla terra per distruggerlo, si di-pingeva il volto per evitare di essere riconosciuto.

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data migratoria proveniente dalla Cina e probabilmente anche dallaCorea, organizzata in clan specializzati, che diffuse la coltivazionedel riso, l’uso del tornio nella lavorazione della ceramica e la tecnicadel metallo. I più antichi cenni sul Giappone relativi al tatuaggio so-no contenuti nel Wei Chi (‘Cronache degli Wei’) dove gli wa, i giappo-nesi, venivano descritti come una popolazione che viveva di pesca eche usava decorarsi il viso e il corpo per scacciare i pesci grandi e gliuccelli acquatici; le donne, poi, si imbrattavano il corpo con la terrarossa, così come quelle cinesi si imbiancavano con la polvere di riso.

Un’altra fonte cinese, il San Kuo Chi (‘Cronache dei tre regni’, Ter-zo secolo), riporta che gli abitanti del regno degli wa si tatuavanoper due motivi fondamentali: per indicare il rango sociale di appar-tenenza e per scacciare gli spiriti maligni. In questa neonata societàagricola, nella quale gli spiriti della natura apparivano spesso mute-voli e non sempre benigni, le cerimonie acquistavano un’importan-za estrema. I compiti dello sciamano infatti, comprendevano ancheriti per assicurarsi un raccolto abbondante.

Se ne deduce che il tatuaggio aveva una posizione centrale: unafunzione rituale e uno scopo gerarchico per distinguere i ranghi diappartenenza. Era, dunque, una pratica condivisa, accettata e condiverse funzioni.

I cinesi, che redassero tali cronache, fecero del loro meglio perdifferenziarsi dai vicini giapponesi considerati inferiori. Per i cinesitutti gli altri popoli erano dei barbari: secondo le loro antiche cre-denze il cielo era rotondo, la terra, più estesa e di forma quadrata.Così la proiezione del cielo sulla terra delineava un cerchio inscrittoin un quadrato. I cinesi, sudditi del figlio del cielo, occupavanol’area di questo cerchio, il cosiddetto paese di mezzo, mentre gli al-tri popoli occupavano i quattro angoli del quadrato, ed erano ap-punto i barbari.

Il tatuaggio dei giapponesi era visto come una dimostrazione dibarbarie. I cinesi non avrebbero mai sottoposto i propri corpi a unatale profanazione.

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R stava per vagabondo (rogue, vagabond), T per ladro (thieves), Mper assassino (manslaughter), P per falso giuramento (prejury). Iprimi marchi erano incisi sulla base del pollice così, quando l’impu-tato si trovava nuovamente davanti a un tribunale, era subito iden-tificato nei suoi precedenti. Successivamente, per rendere il reatoancora più visibile si iniziò a incidere le guance. Le scritte venivanotatuate con un punzone, uno per ogni lettera dell’alfabeto. Intintonell’inchiostro, veniva appoggiato sulla pelle e con un colpo seccol’ago bucava la pelle inserendovi l’inchiostro. Sempre in Inghilterrasi ha notizia di uno scozzese, Alexander Leighton, un predicatore,che nel 1628 venne giudicato colpevole di aver scritto un «libroscandaloso contro il sovrano». Fu condannato, tra le altre cose, adessere tatuato con le lettere SS di sowing sedition (‘seminatore di se-dizione’) sui lati del naso. L’Inghilterra abolì la marchiatura solo nel1829: in realtà questa pratica era caduta ormai in disuso ed era or-mai utilizzata solo tra i militari dove con un miscuglio di inchiostroe polvere da sparo venivano marchiati con una D i disertori (deser-ter), e con un BC (bad character) i disubbidienti.

In epoche più recenti, come ben si sa, anche i nazisti nei campi diconcentramento fecero uso di questa marchiatura, tatuando il nu-mero di riconoscimento ai deportati.

In Cina il tatuaggio punitivo, insieme ad altre pene corporali, fupraticato per un lunghissimo periodo di tempo. Probabilmente è pro-prio dalla Cina che questo tipo di tatuaggio arrivò sino in Giappone.

I marchi dei criminali e degli intoccabiliGià verso la fine del periodo dei kofun lo Stato Yamato si trovava

in una posizione solida. Conosciuta e adottata la scrittura cinese, siiniziò la compilazione di diverse cronache, utilissime per lo studio ela ricostruzione degli avvenimenti. I giapponesi, non differendo damolte altre culture, tentarono di dare un’interpretazione razionaledegli albori e dei numerosi, antichi e accettati usi e costumi, alloscopo di fornire loro una giustificazione10.

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È opinione largamente diffusa tra gli studiosi considerare questepitture sui volti come tatuaggi9.

Dunque, le varie figurine ritrovate dimostrano il costume di di-pingersi il volto, di tatuarlo, di praticarvi scarificazioni, incisioni,nei prodromi del periodo Yayoi, e certamente quello di dipingersi ilviso nel periodo delle grandi sepolture. Lo scopo, invece, potendoessere riconducibile alle funzioni più disparate, rimane incerto.

Col passare del tempo, dal Quinto secolo in poi, le primarie formedi tatuaggio usate come amuleto con fine apotropaico, con scoporeligioso e magico, o anche per indicare il rango sociale di apparte-nenza, scomparvero del tutto. Vennero soppiantate da un tipo di ta-tuaggio con scopi ben definiti, ma lontani da quelli decorativi che loresero, dopo un ulteriore processo evolutivo, quella particolare for-ma d’arte conosciuta e ammirata oggi.

Il tatuaggio punitivo

Uno sguardo d’insiemeIl tatuaggio o la marchiatura a fuoco dei prigionieri di guerra, de-

gli schiavi e dei criminali è stata una pratica in uso in molte parti delmondo, sin dall’antichità.

Comunemente gli schiavi dopo l’acquisto venivano marchiati conferri roventi in modo da essere sempre riconoscibili e poterne riven-dicare la proprietà. Sotto la vecchia monarchia francese, i criminalierano marchiati a fuoco con un giglio di Francia sulle spalle. Chi eracolpevole di accattonaggio era marchiato con la lettera M di men-diant, chi veniva trovato a rubare con la V di voleur: un sistema pu-nitivo che venne abolito solo nel 1842. Nell’antica Roma gli schiavifuggiti e nuovamente catturati, erano marchiati a fuoco sulla frontecon una grossa F che stava per fugitivus.

Anche in Inghilterra, nel periodo medievale, per segnalare i varireati commessi si utilizzava un vocabolario basato sulle iniziali: V o

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IL FUOCO SULLA PELLE

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re di un pollice, sul braccio sinistro e ai recidivi veniva tatuata unaterza banda sotto alle precedenti. La marchiatura poteva differire inbase al luogo nel quale avveniva: le diverse autorità locali, infatti,adottarono ognuna un suo specifico vocabolario punitivo.

Nella regione di Kyoto, generalmente, si usava tatuare una dop-pia barra sul braccio; nei pressi di Nara si incideva una doppia lineacircolare che abbracciava il bicipite destro; a Satsuma si usava uncircolo vicino alla spalla sinistra e così via. In questo modo si identi-ficava sia il grado di criminalità di colui che aveva il tatuaggio sia illuogo in cui era avvenuto il reato.

Più tardi, tra il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo, si iniziòa tatuare anche la fronte. Una possibile marchiatura era l’ideo-gramma inu, ‘cane’. Di solito avveniva in tre occasioni differentiper cui al primo reato si iniziava con la linea orizzontale, al secon-do, si incideva una linea che incrociava la precedente e infine, al ter-zo reato si completava l’ideogramma.

In questo vocabolario non era espressa la natura del reato ma erachiaro a tutti che il portatore doveva aver commesso una qualcheinfrazione e per questo veniva emarginato. Era una punizione adot-tata per reati meno gravi ma, in una società come quella giapponesein cui i legami familiari e sociali erano e sono alla base di tutto, l’es-sere marchiato a vita poteva essere una pena peggiore delle prigioneo dell’esilio. Era una condanna a vivere emarginati e messi al bandodalla società, relegati al di fuori della legalità.

Irezumi e tatakiI reati minori come il rubare o quelli relativi al disordine pubbli-

co come risse, truffe, ubriachezza e vandalismo venivano punitipronunciando la sentenza irezumi no ue tataki (‘tatuaggio e puni-zione corporale’). Il tataki (‘colpo’) comprendeva dai cinquanta aicento colpi di canna sulla schiena. Avveniva in pubblico: il crimina-le veniva legato e lasciato per diversi giorni nel gosho, l’equivalentedel nostro posto di polizia. Poi, per mano di un hinin, prima veniva

ANNA LIVIA CARELLA

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Da queste fonti si apprende che dal Sesto secolo l’élite del Giappo-ne centrale, così come i cinesi prima, cominciò a considerare con ne-gatività il tatuaggio che perse quel carattere magico, rituale, orna-mentale che aveva alle origini e divenne solo una pratica punitiva.

Il Nihon Shoki (‘Annali del Giappone’,720)11 racconta di un uomodi nome Azumi no Muraji che per aver progettato la ribellione, inve-ce di essere condannato a morte, fu tatuato sul viso.

Comunemente si usava marchiare la fronte e le braccia: c’era unvocabolario alquanto vario per distinguere criminali e intoccabili.Quest’ultimi, in giapponese eta e hinin – ‘non uomini’ – erano coloroche si occupavano dei mestieri più ingrati. I primi avevano a che fa-re con i morti, erano scuoiatori, conciatori di pelli, esecutori di pe-ne, becchini, e per questo contaminati e considerati dei veri e proprifuori casta. Gli hinin invece erano più che altro mendicanti. Emar-ginati dal resto della società vivevano in villaggi separati, dove lagente comune e i samurai si rifiutavano di entrare ed era loro nega-to qualsiasi rapporto sociale. I tratti di strada nazionali che attra-versavano le loro comunità venivano ignorati. Ufficialmente nonesistevano.

Probabilmente, soprattutto nel caso degli hinin, il tatuaggio nonera tanto una punizione quanto un modo per riconoscere e tenere adistanza le persone «contaminate».

Questi fuori casta erano marchiati sulle braccia. In genere venivatatuata una croce nella parte interna dell’avambraccio, altre volte siincideva una linea esternamente, in altri casi l’incisione si facevanella parte alta del braccio, vicino alle ascelle12.

Per quanto riguarda i criminali, il tatuaggio cominciò ad essereusato dal nel primo ventennio del 1700 al posto di altre vecchie pu-nizioni dolorose e drammatiche quali l’hana sogi e il mimi sogi, il ta-glio del naso e il taglio delle orecchie.

Dagli inizi del Diciassettesimo secolo si creò una codificazionepiuttosto elaborata che comprendeva una grande varietà di simboli.Generalmente si usava marchiare due bande circolari dello spesso-

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picchiato un certo numero di volte e dopo tatuato. Il tatuaggio nonsolo era doloroso, era anche un segno indelebile.

A volte il crimine era considerato troppo grave per essere punitosolo con il tataki e l’irezumi, allora i criminali venivano anche bandi-ti dalla zona dove era avvenuto il reato, per tutta la vita o solo per uncerto periodo di tempo.

In questo ambito il tatuaggio era chiamato in giapponese irezumi(‘inserire inchiostro’) contrapposto al termine horimono (‘cose inci-se’) che si riferiva al tatuaggio decorativo vero e proprio.

Oggigiorno il termine irezumi viene usato per indicare il tatuag-gio giapponese in generale.

Fig. 3

Figurina fittile proveniente dal neolitico,

II–I millennio a.C. (Museo Nazionale di Tokyo)

quellapiccola
Timbro