Legami di sangue

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Rosa Pezzuto, Gothic Fantasy

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ROSA PEZZUTO

Legami di Sangue

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LEGAMI DI SANGUE Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-423-9 In copertina: Immagine di Paolo Corianò

Finito di stampare nel mese di Marzo 2012 da Logo srl

Borgoricco - Padova

A mio Nonno

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1 Alisia odiava l’istituto Mildrheed. Odiava le persone ricche e frivole che lo frequentavano, odiava i professori che ti leccavano i piedi se eri figlio di un pezzo grosso e odiava gli idioti pieni di sé che prendevano di mira gli stu-denti iscritti con la borsa di studio, ingegnandosi nella maniera più abietta possibile per farli sentire dei perfetti perdenti. E non è il massimo farsi chiamare perdente da chi vive del potere riflesso dei propri genitori. Lei era discendente di una famiglia il cui albero genealogico avrebbe fatto invidia a ognuno di quei boriosi, insignificanti ricconi. Alisia Archer vantava l’appartenenza a un nobile casato esistente fin dal medioevo e proprietario di uno degli imperi finanziari più potenti del mondo. Tutti i membri della sua famiglia avevano frequentato il prestigioso istituto Mildrheed e, suo malgra-do, anche Alisia era stata costretta a iscriversi. A scuola la conoscevano per la fama del suo buon nome; nessuno osava mettersi in cattiva luce con lei. Ogni amicizia instaurata in quell’edificio del XIX secolo serviva a consoli-dare rapporti sociali ed economici tra le varie famiglie. Seccante ma neces-sario. Eppure, non avere un vero amico la deprimeva. Quel giorno il professore di filosofia era assente, perciò sarebbero usciti un’ora prima. Durante la pausa pranzo avvisò Charles che, puntuale come sempre, si fece trovare davanti alla scuola per riaccompagnarla a casa. Il vecchio maggiordomo dai folti capelli bianchi pettinati in modo impeccabile l’attendeva vicino all’auto nera, pronto ad aprirle lo sportello. «Buon pomeriggio, signorina» la salutò. «Buon pomeriggio, Charles». Salì in macchina e attese che l’uomo occupasse il proprio posto alla guida. «Ha passato una piacevole giornata?». «Sì, diciamo di sì. Sono usciti i risultati del test di storia: ho preso una A». «Non ne dubitavo, signorina». Alisia sistemò la schiena contro la spalliera del sedile. Non erano una novità i suoi eccellenti risultati scolastici, ormai passavano inosservati. Il suo quo-ziente intellettivo era parecchio al di sopra della norma e aveva una memoria formidabile. Era in grado di fare qualsiasi cosa: se avesse deciso di intra-prendere la carriera di medico o di avvocato, ci sarebbe riuscita impiegando-

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ci la metà del tempo richiesto. Non aveva mai avuto un obiettivo nella sua vita, sapeva fare tutto e non doveva neanche sforzarsi. Questo la svuotava dentro… giorno dopo giorno. Invidiava i ragazzi con la borsa di studio: loro sopportavano le angherie dei ricconi presuntuosi perché avevano uno scopo, un sogno che solo il prestigioso istituto Mildrheed poteva aiutarli a realizza-re. Questo perché diplomandosi lì avevano automaticamente accesso a tutte le migliori università. Volse la testa per guardare fuori dal finestrino e vide l’unica ragione che le permetteva di sopportare l’odio per quella scuola: Mark. Osservò i corti capelli biondi e gli occhi azzurri come il cielo del compagno di classe finché Charles non ebbe svoltato l’angolo, impedendole la visuale. Mark era sempre gentile con tutti, era molto allegro e aveva un sacco di amici, tra cui MaryLu, la ragazza che lei più detestava. Non appena giunsero a casa, Alisia notò subito l’auto del padre parcheggiata nel vialetto. Si sorprese del fatto che fosse già rincasato e si affrettò a entrare per poterlo salutare. Adorava suo padre. Nessuno lo conosceva meglio di lei. Tutti lo temevano nell’ambiente lavorativo e sociale, ma nessuno sapeva che era il papà migliore del mondo. Non aveva mai conosciuto sua madre, morta dopo averla data alla luce per complicanze durante il parto, perciò suo padre era tutto ciò che aveva. Lasciò cadere lo zaino nell’ingresso e si diresse ver-so lo studio dove era sicura di trovarlo. Arrivata davanti alla grande porta di legno, un sorriso le stirò le labbra. Già, suo padre era l’unico che riuscisse a farle apparire quell’espressione sul vol-to. Stava per bussare, quando una voce la bloccò. Restò immobile, ascoltan-do l’accesa discussione che si stava svolgendo nella stanza chiusa. «Rupert! Spero che tu stia scherzando!». “Ma… è la voce dello zio Lucius” pensò, continuando ad ascoltare. «Cos’è che ti sconvolge tanto, Lucius?». «Non puoi lasciare tutto ad Alisia! È ancora troppo giovane! Ha solo dicias-sette anni». «Non preoccuparti, non ho intenzione di morire presto». «Già… ma se dovesse malauguratamente capitarti qualcosa?». «Non cambierò la mia decisione, Lucius. Alisia è molto più intelligente di tutti noi. Ed è molto matura per la sua età. Sono sicuro di non sbagliare sce-gliendo lei come mia erede universale». «Sei davvero uno stupido Rupert. Credi davvero che ti lascerò fare una cosa del genere?». «Lucius! Avrei dovuto immaginarlo! Hai davvero intenzione di farlo?». «Non mi lasci altra scelta. Con la tua stupidità, non hai messo a rischio solo te, capisci cosa intendo?». «Non ti azzardare a toccare Alisia!».

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«Calma, calma. Se cambierai il testamento, morirai solo tu». Sconvolta da quelle parole, Alisia aprì di colpo la porta urlando: «No!» Vide i due uomini in piedi l’uno di fronte all’altro, lo zio che puntava una pistola contro suo padre. Entrambi si voltarono sorpresi nella sua direzione. «Alisia, che ci fai qui?». «Papà!». «Tu, piccola ficcanaso!». Lo zio puntò l’arma verso di lei. Fu un attimo: suo padre lo afferrò al brac-cio per fermarlo e partì un colpo che la ferì di striscio al braccio destro. La ragazza strillò e si afferrò la parte colpita, sconvolta nel vedere il sangue che ne usciva in grandi quantità. «Alisia! Scappa mentre io lo trattengo! Ricordi cosa ti ho sempre detto, ve-ro? Vai, tesoro, sbrigati!». La ragazza ebbe un attimo di esitazione, mentre seguiva la lotta che si svol-geva davanti ai suoi occhi. Lacrime solcarono il suo viso senza che potesse fermarle. «Alisia!». Un nuovo richiamo del padre la fece scattare. Uscì incespicando dalla stanza e prese a correre senza voltarsi indietro. Udì un altro sparo. Sperò con tutta se stessa che il padre stesse bene, ma quando sentì la voce dello zio nel cor-ridoio, l’atroce pensiero che fosse morto l’afferrò dolorosamente. Questo, però, non le impedì di andare avanti, mentre la paura e la disperazione do-navano forza alle sue gambe. «Dove stai andando?» lo zio la inseguiva senza sapere dove lo stesse por-tando. All’improvviso sbucò Charles dalla rampa di scale che conducevano alla sala da pranzo di sotto, attirato dal caos in casa. «Charles! Vattene!» gli urlò la ragazza. L’uomo, sorpreso, se la vide sfrec-ciare davanti seguita da Lucius, il fratello minore del suo datore di lavoro, che lo spinse, facendolo ruzzolare giù dai gradini che aveva appena salito. Sentendo il corpo del fedele maggiordomo cadere con dei rumorosi tonfi, Alisia fu colta da una nuova ondata di lacrime e paura. Ma non smise di cor-rere, raggiungendo la ripida scala a chiocciola che portava ai sotterranei. La sua famiglia aveva delle immense proprietà che si tramandavano di genera-zione in generazione, tra cui il castello medievale in stile gotico in cui risie-deva il capo famiglia. Fin da quando era piccola, Alisia aveva sempre vissu-to in quell’enorme castello. Lo conosceva come le sue tasche, tranne i sotter-ranei, che erano l’unico posto in cui suo padre le aveva sempre proibito di andare. «Solo se sarà in pericolo la tua stessa vita potrai andare nei sotterranei, bim-ba mia» le aveva sempre ripetuto il genitore. «Dopo la scala a chiocciola,

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prenderai il corridoio che porta a sinistra. Lì ci sono delle celle di ferro sen-za fessure. Dovrai aprire solo quella dal colore scarlatto». Da piccola, non aveva mai compreso quelle parole. Una volta aveva provato ad andare nei sotterranei per curiosità ma, alla vista della lugubre scala a chiocciola, se ne era tornata indietro colta da una strana inquietudine. In quel momento però, non aveva tempo di spaventarsi del buio: un pericolo reale incombeva su di lei. Aprì la vecchia porta scricchiolante che conduceva nel-le viscere del castello e la stessa inquietudine che l’aveva colta quella volta da bambina la colpì ancora. Cosa c’era lì sotto? Cosa nascondeva la famige-rata cella scarlatta? Sentì i passi dello zio farsi più vicini. Senza pensarci troppo, scese a capofitto i ripidi gradini facendosi luce con il cellulare e im-boccò il corridoio a sinistra. Il buio le dava vantaggio. Lo zio non la trovava. Ma neanche lei trovava quello che cercava: la luce fioca del display del suo telefonino non le faceva distinguere bene il colore delle celle. Dei neon gial-li si accesero e Alisia sussultò; lo zio doveva aver trovato l’interruttore che lei non si era presa la briga di cercare. Solo in quel momento si accorse che il sangue che colava dalla sua ferita aveva lasciato dei chiari segni del suo passaggio. Non sarebbe passato molto prima che lo zio ritrovasse le tracce e giungesse fino a lei. Si mise alla ricerca della cella che le serviva e, quando la trovò, un brivido di paura percorse il suo corpo. «Sei in trappola, piccola Alisia. Tra non molto ti troverò, e sarà finita per te. Potrai riunirti alla tua mamma e al tuo papà». Quella frase le confermò quello che più temeva: suo padre era morto. Si af-ferrò la testa con le mani e lanciò un grido sordo, poggiandosi alla cella scarlatta. Un rumore secco la riscosse e, come se la serratura fosse stata a-perta con una chiave invisibile, la pesante porta in ferro si schiuse con un cigolio. Si sorprese, rimanendo ferma un momento senza sapere cosa fare… Poi però, come se una forza irresistibile la stesse chiamando, allungò una mano e, con circospezione, spinse la porta che ruotò rumorosamente sui vecchi cardini.

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2 La luce dei neon che filtrava dal corridoio le mostrò una stanza lugubre in cui facevano la loro macabra figura degli antichi congegni di tortura. Una Vergine di Norimberga sembrava fissarla con curiosità dalla sua posizione contro la parete in fondo, davanti a lei. Freddo e saturo di aria stantia, quel luogo pareva riecheggiare delle grida di coloro che vi erano stati imprigiona-ti e torturati atrocemente. Cosa doveva farci lì? Doveva per caso nasconder-si? Perché proprio nella camera delle torture? Fece un passo al suo interno. In quel momento, sentì la voce del suo inseguitore dietro di lei: «Ti ho tro-vata finalmente». La ragazza si voltò di scatto e indietreggiò terrorizzata, mentre l’altro avan-zava. «Mi dispiace mia piccola Alisia, ma non ti posso lasciare in vita. Se quello stupido di tuo padre avesse scelto me come capo dell’impero della nostra famiglia, avrei potuto risparmiarti». La ragazza continuò a fissare spaventata lo zio, senza riuscire a proferir pa-rola. L’uomo prese la mira, Alisia indietreggiò ancora, inciampò in qualcosa e rovinò per terra. Si fece male sul ruvido pavimento di pietra, ma non ci pensò, quella pistola puntata contro di lei la preoccupava più del suo fondo-schiena dolorante. “Ormai è finita” si disse, chiudendo gli occhi. «Addio, mia piccola nipotina». Stava per premere il grilletto, ma un improvviso tonfo metallico lo distrasse. «Chi c’è?» domandò l’uomo con sorpresa. Non poteva credere che suo fra-tello tenesse qualcuno in quella vecchia prigione. Anche Alisia aveva udito quell’improvviso rumore, ma non si era voltata nonostante lo zio avesse di-stolto lo sguardo da lei, perché la canna della pistola era ancora fissa nella sua direzione. Nel momento in cui riprese a guardarla, un altro tonfo, questa volta più forte, riecheggiò distraendolo di nuovo. «Chi c’è?» chiese ancora con voce abbastanza alta e con una nota d’inquietudine; per tutta risposta, un basso ringhio spettrale riempì il silenzio e i tonfi ripresero frenetici, come se qualcuno, qualcosa, stesse lottando per liberarsi.

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«Chi c’è qui dentro? Maledizione!» gridò lo zio Lucius ancor più agitato fis-sando la sua attenzione e la propria arma su un punto alle spalle della nipote. Alisia era fuori di sé dalla paura. Cosa diavolo stava succedendo? Cosa na-scondeva il padre in quella maledetta segreta? A quel punto, pur sapendo che avrebbe potuto pentirsene amaramente, Alisia guardò nella direzione da cui pareva provenissero quei suoni spaventosi. Il sarcofago dalle fattezze femminili, noto come Vergine di Norimberga, se ne stava lì, immobile, ma con qualcosa di diverso. Gli occhi che l’avevano guardata quasi con curiosi-tà al suo ingresso erano scomparsi, al loro posto si era aperta una fessura ret-tangolare che mostrava un altro sguardo… feroce, cattivo… Due iridi lumi-nose come quelle di un predatore in agguato e dai sinistri riflessi rossi scru-tavano la sua preda con folle desiderio assassino. Ma non era lei che stavano fissando. La strana creatura all’interno di quel vecchio arnese arrugginito batté ancora contro il coperchio che lo teneva prigioniero, ringhiando verso lo zio Lucius. Alisia era senza parole. Era assurdo che tutto quello stesse accadendo sul serio! Sì, doveva essere solo un bruttissimo sogno! I ringhi si fecero più forti… Poi un possente ruggito seguito da un forte schianto li atterrì entrambi e li fece urlare. Il coperchio della Vergine di No-rimberga saltò come quello di una pentola a pressione lasciata per troppo tempo incustodita sul fuoco, atterrando con violenza e fragore assordante dall’altra parte della stanza, mancando di poco lo zio che, dopo un attimo di smarrimento, prese a vuotare l’intero caricatore contro qualunque cosa fosse riuscita a liberarsi. Al primo colpo, Alisia si gettò su un fianco, nascondendo il capo tra le mani, sentendosi del tutto incapace di fare qualsiasi cosa, per-sino di dare fondo alle sue riserve di ossigeno in un grido di terrore. A mu-nizioni finite, una risata crudele fece accapponare loro la pelle. Alisia era la più vicina al sarcofago e ciò che vide la sconvolse: quello che sembrava un uomo vestito di sudici stracci, ridotti ormai quasi a brandelli dalla raffica di proiettili abbattutasi contro di lui, uscì lentamente dal congegno di tortura. Dalle sue braccia e dal suo collo, nascosto come il volto da lunghi e untuosi capelli scuri, partivano dei tubicini che parvero trattenerlo, tanto che comin-ciò a toglierseli in tutta calma. Ciò che più la sconvolse, fu vedere che i proiettili non gli avevano neanche scalfito la pelle e giacevano accartocciati per terra. La ragazza continuò a fissarlo in preda al terrore… Era a pochi passi da lei… Le avrebbe fatto del male? L’avrebbe uccisa? I suoi pensieri furono interrotti da un repentino movimento dello zio che, prima che Alisia potesse rendersene conto, uscì dalla cella chiudendo la por-ta alle sue spalle. Calò la più completa oscurità. In preda alla disperazione, la ragazza si alzò con un gesto impulsivo e corse alla porta. «Apri!» urlò in

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preda al panico battendo i palmi delle mani contro la pesante porta di ferro. «Non ci penso neanche! Crepa in questa cella in compagnia di quel mostro!» le rispose l’uomo, per poi correre via. «No!» Non poteva crederci! Quella situazione era assurda! Non stava accadendo sul serio! Afferrò il cellulare che aveva riposto nella tasca della giacca, per provare a chiamare aiuto. Non c’era linea. Avrebbe dovuto immaginarlo stando sottoterra! Ma cosa le era venuto in mente? Avrebbe dovuto chiama-re subito la polizia! E invece aveva dato retta al padre! Grazie a questo ora si ritrovava al buio, in una sudicia cella in compagnia di… Finalmente si rese conto che era calato il silenzio. Si voltò di scatto trattenendo il respiro. Gli occhi di quell’essere lanciavano bagliori sinistri nell’oscurità e la osser-vavano in modo indecifrabile. La ragazza si appoggiò con la schiena alla porta di ferro, respirando a fatica, con il cuore che pompava frenetico, inar-restabile. Un attimo dopo, non vide più nulla. Trattenne il respiro, conscia che qualcosa sarebbe presto accaduto. E infatti qualcosa accadde prima di quanto si aspettasse: una mano forte l’afferrò al braccio ferito e lei urlò, non tanto per il dolore, ma per la paura. Cercò di dibattersi, ma quello la teneva saldamente, impedendole di allontanarsi. Qualcosa di umido e caldo le sfre-gò piano la ferita e poi… «Oh mio Dio!» invocò con voce strozzata, renden-dosi conto che quell’uomo, quel mostro, si era attaccato alla sua ferita come un neonato appena uscito dal grembo materno si attaccava al seno della ma-dre per il primo nutrimento della sua vita. Udiva i suoni umidi del suo suc-chiare avido finché, con un ringhio, non si allontanò da lei, mettendola da parte senza troppe cerimonie. All’improvviso, con un boato, la porta si aprì. Più che aprirsi, si spalancò saltando dai cardini e cadendo pesantemente a terra con un rumore assordante che la scosse. L’aveva aperta con un calcio. Ora che timidi fasci di luce tornarono a riversarsi dal corridoio, Alisia riuscì a vedere meglio quegli occhi che la fissavano. Erano rossi, un rosso cupo, scuro, sanguigno. Poi, infine, la creatura parlò: «Resta qui e non muoverti». Detto questo, sparì, come se si fosse volatilizzato.

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3 Sentiva la mente intorpidita, come se, d’un tratto, gli ingranaggi del suo cer-vello si fossero bloccati e i neuroni avessero appeso sulla porta un cartello con scritto: “Torniamo tra cinque minuti”. Aveva davvero bisogno di una pausa per riuscire a elaborare gli avvenimenti degli ultimi minuti. Solo che non ci riusciva. Era tutto troppo assurdo. Ripensando a ciò che era accaduto, si portò istintivamente una mano al braccio e, con sorpresa, non ci trovò nulla. Si guardò: la ferita era sparita senza lasciare alcuna traccia. Continuò a fissare la pelle perfetta e integra che sbucava dallo squarcio alla manica della sua giacca sentendosi ancora più confusa. In quel momento la luce del corridoio si spense; l’oscurità l’avvolse ancora una volta e i suoi neuroni ripresero a lavorare a pieno ritmo, mettendosi in allerta. Cosa stava accadendo ancora? Spari improvvisi riecheggiarono tra i corridoi cogliendola di sorpresa, mandandole il cuore in gola. Si lasciò cade-re per terra, coprendosi la testa con le mani, finché i colpi non terminarono. L’unica cosa che udiva ora era il suo respiro che si infrangeva sulla pietra del pavimento, poi… Urla agghiaccianti le accapponarono la pelle. Il silen-zio tornò e la luce si riaccese. Quella era la voce dello zio Lucius, ne era cer-ta. Qualcosa di orribile e spaventoso era accaduto… Doveva riuscire a fug-gire via da lì! Il gusto del sangue di quella ragazzina era stato… non sapeva neanche lui come descriverlo. Aveva dovuto esercitare un forte autocontrollo per non rischiare di rimanere attaccato al suo braccio, o peggio, attaccarsi a quel col-lo bianco e sottile per prosciugarla. Quel maledetto bruciore alla schiena, poi, lo aveva convinto a smettere prima che il dolore lancinante della puni-zione lo colpisse. Però ora doveva saziare la sua sete. E non parlava solo di quella che gli bruciava la gola, ma anche della voglia di fare a pezzi qualcu-no. Non appena si era lanciato all’inseguimento di quel vecchio dal grilletto facile, non c’era stato un contrordine, segno che quell’uomo era una minac-cia e doveva essere eliminato. Un sorriso compiaciuto si dipinse sul suo vol-to e l’eccitazione della caccia lo pervase. Si sarebbe divertito un mondo…

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Oh, sì che si sarebbe divertito. A quel pensiero, tutto il suo corpo si preparò all’imminente assalto con l’efficienza di sempre, come se tutto il tempo di prigionia in quel posto umido e buio non avesse intaccato la perfetta mac-china per uccidere che era. Aveva già individuato la sua preda e la braccò senza dargli tregua. Gli fu al-le costole in pochissimi secondi, avrebbe potuto afferrarlo subito, ma decise che voleva giocare un po’. L’umano sembrava più rilassato ora che aveva raggiunto la scala che portava ai piani superiori, era fiducioso che tra pochi attimi si sarebbe lasciato quell’incubo alle spalle, rinchiudendolo in quelle segrete. Quanto si sbagliava. Gli permise di arrivare in cima alla scalinata a chiocciola ma, non appena giunse alla porta e fece per aprirla, lo afferrò per la costosa giacca e lo tra-scinò nuovamente di sotto senza lasciargli il tempo di capire cosa stesse ac-cadendo. Accucciato scompostamente per terra, l’umano cercò di rialzarsi, guardandosi intorno. Gli concesse una fugace visione di ciò che lo aveva preso, prima di spegnere le luci con un comando mentale. Vide la sua e-spressione terrorizzata, la bocca spalancata in un muto grido. Inspirò l’odore della sua paura a pieni polmoni, chiudendo gli occhi, assaporando quella fragranza pungente che tanto gli era mancata. L’uomo lo stava cercando, si voltava in ogni direzione, ma non poteva vederlo come lo poteva vedere lui con la sua perfetta vista notturna. Cercava di sentirlo, ma il suo udito umano non poteva cogliere i movimenti repentini che il cacciatore perfetto esegui-va. Gli girava intorno, era dietro di lui, ma quel tizio neanche se ne rendeva conto. Stava anche rovistando nella tasca interna della giacca, da cui estrasse un caricatore che, con mani tremanti, riuscì a infilare nell’arma che portava, per poi puntarla nel vuoto. «Dove sei?» chiese con voce tremante. «Lo so che sei qui, fatti vedere». Con la mente, accese il neon più vicino. «Sono qui» gli sussurrò maligno all’orecchio. L’umano si voltò di scatto, scaricando di nuovo tutti i proiettili della sua Beretta contro di lui. Ghignando spalancò le braccia e si lasciò col-pire e, non appena l’uomo restò a secco, gustò l’espressione patetica di folle terrore che gli si dipinse sul volto nel vederlo ancora in piedi, incolume. A quel punto spense il neon e attaccò afferrandogli la testa dietro la nuca, por-tandogliela indietro con un movimento brusco, scoprendo la gola. Con un basso ringhio di soddisfazione, affondò i denti nella carne e l’umano urlò con tutte le sue forze, almeno, finché ebbe una laringe per poterlo fare. Il sangue caldo si riversò nella sua bocca, sulla lingua e giù, nella gola, fino a rinforzare il suo corpo. Non era paragonabile al nettare squisito che aveva attinto dalla ragazzina, al confronto questo era un vino annacquato di scarsa qualità, ma andava bene lo stesso. Ora che si stava nutrendo come si deve,

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percepiva la sua energia tornare a essere potente come un tempo. Si sentiva elettrico… I neon si accesero tutti insieme, come rispondendo al richiamo del suo potere che tornava vigoroso a ogni sorsata. I neon in corridoio si riaccesero. Non ne era sicura, ma le sembrò che la luce fosse più intensa, prima di stabilizzarsi. Si spostò davanti all’uscita della cel-la, osservando il corridoio deserto, come in attesa di qualcosa. Si mosse e aggirò l’ostacolo della pesante porta di ferro battuto che quell’uomo inquie-tante aveva aperto con un calcio; si soffermò per qualche secondo a osserva-re il solco formatosi lì dove il piede aveva colpito, sconcertata, rendendosi conto della forza che era stata esercitata per abbattere quella pesantissima lamiera. Cosa doveva fare ora? Voleva fuggire, ma avrebbe di certo incro-ciato il cammino di quella... cosa. Aveva paura. «Restare qui di certo non ti aiuterà», si disse. «E poi, se avesse voluto farti del male, lo avrebbe già fatto, no?». Cercava di infondersi coraggio, ma non riusciva comunque a muoversi. Pre-se il cellulare e lo guardò. Ancora niente linea. Fece un respiro profondo e cominciò a camminare. Avanzò rasentando il muro, sfiorandolo con la mano come per mantenersi, come se quella vecchia parete potesse infonderle un po’ di coraggio. Più andava avanti, più sentiva qualcosa contorcersi nelle viscere. Un sentore di morte aleggiava tutt’intorno. Pensò che quel presentimento derivasse dal-la consapevolezza che lo zio era morto. Strani suoni umidi giunsero alle sue orecchie. Nonostante tutti i segnali di allarme, continuò a camminare, finché quei rumori non divennero quasi distinti. Un pensiero rivoltante e atroce le attraversò la mente. Era giunta vicino alle scale che portavano di sopra, do-veva solo svoltare quell’angolo davanti a lei e… rimase impietrita, paraliz-zata, disgustata. Lo zio la guardava con occhi vitrei e pieni di terrore dalla sua posizione scomposta sul pavimento, la gola squarciata, dilaniata, come se qualcuno lo avesse morso e rosicchiato. Qualcosa l’afferrò circondandola alla vita e una grande mano le oscurò la visuale coprendole gli occhi. Sapeva che era lui. In preda al panico, con ancora la figura dilaniata dello zio nella mente, urlò con tutte le proprie forze, cercando di liberarsi, ma invano. «Ti avevo detto di non muoverti», le disse con freddezza la creatura mentre la sollevava e ruotava con lei per dare le spalle al cadavere, per poi lasciarla andare. Alisia rovinò al suolo in ginocchio; un conato di vomito la colse e, senza potersi trattenere, si piegò in due e svuotò lo stomaco di ciò che era rimasto del suo pranzo. Quando non ci fu più nulla da far uscire, fece dei re-spiri veloci, cercando di riprendersi, pulendosi la bocca con il dorso della giacca.

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«Perché sei qui?» A quella domanda piena di irritazione si voltò di scatto finendo col sedere per terra, senza avere la forza di rialzarsi, fissando con occhi sgranati dalla paura la parte inferiore del volto di quell’uomo, madida di sangue. La bocca leggermente aperta mostrava dei bianchi canini terrificanti… terrificanti come quelle iridi di un rosso cupo che la inchiodavano. «Ti ho fatto una domanda», sbottò facendo un passo verso di lei. «Non ti avvicinare!» strillò isterica cercando di strisciare lontano da lui, co-me se potesse fuggire dalla furia sanguinaria di quel mostro. «Eh? Che ti prende, ragazzina?». «Non ti devi avvicinare». Le labbra di quella diabolica creatura si incurvarono in un sorriso che non prometteva niente di buono. «No?» domandò suadente. «Credi di potermi fermare?». Scomparve dal suo campo visivo, facendole trattenere il respiro per l’ansia e la sorpresa. Si guardò attorno con il cuore che le martellava nel petto, quasi volesse scoppiare. Dopo pochi secondi se lo ritrovò davanti, piegato su di lei, con i loro nasi che quasi si toccavano. Sussultò, fissando i denti letali che spuntavano dal sorriso crudele di quell’essere. «Piantala di fissarmi la bocca. Ho appena finito di nutrirmi». Alisia alzò lo sguardo e i loro occhi si incrociarono. Non erano più rossi ma di un verde chiaro straordinario, simile a quello che colorava le iridi dei grandi felini. Ciocche di capelli scuri gli ricadevano sul volto. Restarono in silenzio per alcuni secondi e, vedendo che lui continuava a fis-sarla senza fare nulla, prese il coraggio a due mani e chiese: «Cosa sei?». Lui sorrise mostrando i denti, perfetti, bianchi e… normali. I canini erano un po’ più appuntiti di quelli di un essere umano, ma non erano più delle zanne spaventose come prima. «Non riesci a immaginarlo da sola? Tu sai cosa sono, ragazzina». Alisia esitò, prima di sussurrare: «Mostro». L’espressione sul volto di quella strana e diabolica creatura mutò. Sembrava alquanto irritato. «Non offendermi, ragazzina. La mia cortesia potrebbe e-saurirsi». «Tu sei un mostro… Sì, tu sei un mostro! Sei…». Stava per ripeterlo ancora, ma lui le afferrò il viso con violenza, tappandole la bocca. «Piantala. Ti ho appena salvato la vita. Dovresti solo ringraziar-mi». Colta dalla paura di vedersi ridotta come lo zio, cominciò a ribellarsi. Fu ac-contentata e la creatura le tolse la mano dalla bocca. «Tu lo hai ucciso…».

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A quel punto si raddrizzò, allontanando il volto da quello terrorizzato di lei, senza però smettere di fissarla, l’afferrò per le spalle e la riportò in piedi. La sovrastava di parecchi centimetri, doveva essere un metro e novanta o poco più, mentre lei era solo uno e sessantacinque. «Lui voleva uccidere te. Dove sta il problema?». «Non volevo che morisse». «Dettagli. Ora muoviti, dobbiamo risolvere questo casino». Detto ciò, si mosse verso le scale lasciandola frastornata.

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4 Si bloccò non appena si rese conto che la ragazzina non accennava a muo-versi. Era rimasta immobile, probabilmente pensando a ciò che era meglio fare, fissando un punto sul pavimento che non fosse il cadavere di quell’uomo. Era spaventata, confusa… Se la cella scarlatta si era aperta a lei, significava solo una cosa: era stata riconosciuta come nuova padrona; lo aveva liberato, eppure non sembrava avere idea di cosa lui fosse e di cosa rappresentasse. Lo temeva, non si fidava. Non aveva tutti i torti, ma non po-teva farle del male. Alla fine, spazientito, la riportò ai piani superiori di peso, trasportandola in spalla e ignorando le sue furiose proteste. Passò per la porticina secondaria a metà della scala a chiocciola, che li condusse nel corridoio più vicino alle cucine situate al primo piano del castello. Le sue narici furono invase dal familiare odore di sangue di Rupert Archer e da quello di morte. Era passato a miglior vita. «Charles», chiamò a gran voce, continuando a ignorare lo scalpitante fardel-lo che ancora aveva in spalla. Alla fine vide il maggiordomo sul pianerottolo delle scale, sembrava svenuto. Lo osservò per un momento, meravigliandosi di quanto fosse invecchiato. «Ehi, ragazzina, che anno è?» chiese, e lei, per tutta risposta urlò: «Mettimi giù!». Cercando di mantenere la calma, la riportò con i piedi per terra, se-guendola con lo sguardo mentre si precipitava a salire i pochi gradini che la separavano dal vecchio. «In che anno siamo, ragazzina?» le chiese ancora e, non ricevendo la ben che minima attenzione, la raggiunse e la scrollò con forza. «Ti ho fatto una domanda, mi pare». Dopo averlo guardato per un momento, scioccata e spaventata, finalmente rispose. A quel punto fu lui a rimanere scioccato. Vent’anni. Vent’anni di reclusione in quella cella schifosa, imprigionato nel-la Vergine di Norimberga per tutto quel tempo… «Dobbiamo chiamare il dottor Wilkins», farfugliò ancora scosso e, notando che lei lo guardava come se non ci stesse capendo nulla, tenendo il capo di Charles tra le braccia, capì che doveva occuparsene di persona. L’impatto

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con quell’aggeggio, il cordless, non era stato dei più felici, ma alla fine era riuscito a capire come funzionava e aveva composto il numero, sperando fosse ancora quello o che, nel frattempo, Wilkins non fosse deceduto. Il dottor Wilkins era un uomo alto, sulla quarantina, capelli brizzolati e mol-to gentile, seppur professionale. Si occupò di Charles e, dopo aver rassicura-to Alisia che l’anziano maggiordomo non correva pericolo e che si sarebbe presto rimesso, si accomodò con lei in soggiorno. «Stai bene?» domandò con fare paterno. «Sì… Avevo una ferita d’arma da fuoco al braccio, ma poi…» lanciò un’occhiata veloce al… tizio? Mostro? che era stato rinchiuso nelle segrete del castello e che ora era poggiato pigramente contro una parete della stanza, e si interruppe. «Le ho bloccato l’emorragia e ho instaurato il primo legame», continuò lui per lei, rivolgendosi al medico. Cosa voleva dire con: “Ho instaurato il pri-mo legame”? «Capisco», stava dicendo Wilkins massaggiandosi il mento con aria pensie-rosa. «Almeno il primo passo è fatto». Ora stava cominciando a innervosirsi. Perché nessuno si degnava di spiegar-le quella stramaledetta situazione? «Quale primo passo?» chiese brusca. «Cosa significa? Cosa sta succedendo? Qualcuno vuole farmi la cortesia di spiegarmi qualcosa?». Il dottor Wilkins la fissò con un misto di confusione e disagio. «Piccolo particolare», si intromise la creatura, «a quanto pare la ragazzina non sa nulla». A quel punto il medico si passò stancamente una mano sul viso borbottando qualcosa che non riuscì ad afferrare, poi le chiese: «Tuo padre non ti ha mai detto nulla? Non ti ha mai accennato a cosa ci fosse nelle segrete?». «No». «Perché sei andata alla cella scarlatta a liberare Aitan, allora?». Così quel tizio spaventoso aveva anche un nome? «È stato mio padre a dirmi di farlo. Mi ha parlato di quella cella sin da quando ero piccola, ma non mi ha mai detto cosa nascondesse». «Vuoi dire che non sai cos’è Aitan?». «Credo di avere un’idea abbastanza chiara di cosa possa essere… anche se mi sembra davvero assurdo». «Aitan è un Vampiro», annunciò il medico, osservandola per vedere la sua reazione.

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Un vampiro. Ora che quella parola era stata pronunciata ad alta voce, dopo che le era balzata nella mente durante gli ultimi minuti passati a rielaborare gli avvenimenti di quel pomeriggio, sembrava ancora più assurdo. Non disse nulla, continuando a guardare con serietà quell’uomo davanti a lei. Cos’avrebbe potuto dire? «Alisia?». «Come può essere?» chiese di getto. «Cos’è? Un esperimento genetico? A-vete preso un maniaco assassino depravato e gli avete fatto qualche sorta di…», non riuscì a continuare che quel tizio/mostro prese a ridacchiare di-vertito. Non riusciva neanche a pensare a lui con il suo nome. Lo guardò con un misto di timore e irritazione finché Wilkins non prese la parola, catturan-do la sua attenzione: «Comprendo che questo possa sorprenderti, sconvol-gerti… ma non c’è niente di più di quello che ti ho appena detto e che hai già compreso da sola, come hai detto poc’anzi». Si interruppe, fece un lungo respiro e poi continuò: «Aitan è un vampiro e non è l’unico a questo mon-do…». Wilkins continuò a parlare riferendole cose che, in altre circostanze, avrebbe congedato come stupide fantasie. Stando a ciò che diceva i vampiri esisteva-no, erano una razza ben amalgamata a quella umana, di cui si nutrivano sen-za dare nell’occhio ed evitando di uccidere; come per gli umani però, esiste-vano individui che si lasciavano prendere dalla sete di sangue e uccidevano indiscriminatamente, ed era qui che entrava in gioco un’organizzazione dalle origini datate chiamata Alleanza, che si occupava di scovare ed eliminare le mele marce. La famiglia Archer era una delle tante a far parte di quest’Alleanza e Aitan – il tizio/mostro – era al suo servizio, almeno finché non era stato sigillato nella cella scarlatta non appena il padre di Alisia era diventato il capofamiglia. I vampiri che lavoravano per i membri dell’Alleanza avevano addosso un sigillo che ne limitava i poteri o li rila-sciava a discrezione del padrone, e che impediva loro di mordere un umano senza invito dell’umano stesso, o attaccarlo senza il consenso del padrone. Avevano campo libero solo se si presentava una reale minaccia al padrone o all’Alleanza stessa. «Ora sei tu la padrona di Aitan». Alisia sorrise con scherno: «Sta scherzando, spero». «Temo di no. Sei responsabile di Aitan ora». «Neanche per sogno. Mi rifiuto». Il dottor Wilkins sospirò, come se si aspettasse una reazione del genere. «Non funziona così, non si può semplicemente rifiutare». «Cosa devo fare allora?»

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«Per ora nulla, mi occuperò io del tuo vampiro. Ma discuterete la cosa molto presto». «Non ho nulla da discutere con lui», sbottò Alisia con freddezza. La sola i-dea di avere ancora a che fare con quel mostro assassino le dava il voltasto-maco. «Non rendere le cose più difficili di quanto già non siano! Per ora Aitan ver-rà via con me, poi risolveremo questa situazione», si sistemò meglio sul di-vano e la guardò con un’espressione che diceva: “Discorso chiuso”. Poi con-tinuò con tono più dolce: «Ora vorrei che mi spiegassi cos’è accaduto con tuo zio». Alisia spostò gli occhi sulle mani raccolte in grembo. «Mio zio ha ucciso mio padre per via del testamento. Ha cercato di uccidere anche me per lo stesso motivo, dato che sono l’unica beneficiaria». «Mi dispiace molto». Alisia non disse nulla, sentendo già le lacrime che le salivano agli occhi. Così la ragazzina era la figlia di Rupert e l’uomo che aveva ucciso invece era Lucius. Erano tutti invecchiati, e il suo ormai ex padrone aveva avuto una marmocchia che, a quanto pareva, non lo sopportava e non aveva la mi-nima intenzione di assumersi le sue responsabilità in quanto facente parte della famiglia Archer. Aitan osservò la piccola figura seduta sul divano, a-veva gli stessi capelli castano-ramati del padre che le ricadevano morbidi sulle spalle in lunghe ciocche ondulate; il viso aveva dei lineamenti delicati e le sue labbra erano piene e di un delizioso rosa pesca. Era carina, ma ciò che lo colpì furono le iridi di un color lavanda gelido come il ghiaccio e co-me lo sguardo che gli riservava ogni volta che quelle due ametiste si posa-vano su di lui. Ricordava perfettamente quegli occhi… li aveva presi da sua madre. Certo, quelli di Alisia avevano una luce diversa che li rendeva ancora più particolari e affascinanti; addosso a sua madre erano sempre parsi solo come ornamento alla sua bellezza insignificante. Doveva ammettere che la ragazzina aveva carattere; nonostante il terrore iniziale, ora sembrava più lucida, distaccata e sapeva quello che voleva. E non comprendeva lui. Aveva persino trattenuto le lacrime quando era stata costretta a riferire della morte del padre al dottor Wilkins, mantenendo una compostezza notevole per una mocciosa diciassettenne. «Ci occuperemo noi di tutto», stava dicendo Wilkins, «la verità sulla morte di tuo zio deve rimanere nascosta, lo capisci, vero?» «Certo», rispose lei. Quando si congedarono, Aitan fu costretto ad andare via con Wilkins, per-ché la ragazzina sembrava rasentare l’isteria non appena si accennava al fat-

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to che lui sarebbe dovuto rimanere lì. Il medico era dell’idea che bisognava darle del tempo per calmarsi e riflettere. Dal canto suo, Aitan non sapeva cosa farsene di una padrona in formato ridotto.

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5 La sveglia prese a trillare alle sette in punto, ma Alisia era già sveglia da un po’, la zittì e si alzò. Si dedicò ai gesti della sua routine mattutina con la mente che divagava; indossò la divisa scolastica detestando ogni sua com-ponente, dalla gonna a pieghe lunga fin sopra il ginocchio e color grigio an-tracite, alla giacca dello stesso colore e al cravattino blu che spiccava sulla camicia immacolata. Afferrò un elastico dal comodino e legò i capelli in una coda alta per poi osservare la propria immagine nello specchio. Era stanca e sconvolta. Dalla morte del padre, dal funerale, le sue notti erano agitate e l’appetito era calato. In più, la faccenda del tizio/mostro, Aitan, l’aveva tor-mentata non solo nei sogni, ma anche nella veglia. Cercò di non pensarci, quello era il primo giorno di scuola dopo tutto quel casino e doveva sforzarsi di sembrare meno contrita di quanto non fosse. Non voleva che professori e compagnia bella si impicciassero degli affari suoi temendo che avesse un crollo emotivo da perdita genitoriale. Non che a quegli imbecilli importasse qualcosa di lei. No, assolutamente no! L’unico motivo era osservare il pro-tocollo scolastico per non avere grane e non rischiare di perdere i cospicui doni in denaro con cui la sua famiglia finanziava da sempre quella maledetta scuola di snob. Charles l’aspettava di sotto accanto al tavolo apparecchiato per la colazione. «Non vuole mangiare?» chiese vedendo che era già pronta per andare. «A dire il vero no…» si interruppe non appena si rese conto dell’espressione contrariata dell’uomo. Lo stava facendo preoccupare. Osservò la brocca di latte caldo e il vassoio con dei biscotti fatti in casa sfornati da poco. Erano i suoi preferiti, quelli pieni di cioccolato. Stava facendo di tutto per invogliar-la a mangiare. «Oh, hai fatto i biscotti al cioccolato… Allora credo proprio che li assaggerò». Quella frase sembrò far contento l’anziano maggiordomo, il cui volto si illuminò di un sorriso radioso. «Molto bene, signorina». La BMW M5 frenò morbidamente davanti al cancello dell’istituto Mildrhe-ed e Alisia scese dall’auto, come al solito senza aspettare che Charles le a-prisse lo sportello. «Buona giornata, signorina». «Buona giornata, Charles».

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Il viale alberato che conduceva al portone principale era pieno di studenti. La giovane finse indifferenza, ma non le sfuggirono gli sguardi che la segui-vano e i commenti sussurrati. «Guarda, è tornata». «Ma è vero che lo zio le ha ucciso il padre e poi si è suicidato per il rimor-so?». «Hai idea di quanti soldi ha ereditato adesso?». «Ma guarda quant’è fredda. Non ha pianto neanche al funerale». Alisia si costrinse a non ascoltare quelle malignità. Nessuno di loro poteva immaginare quanto stava soffrendo e quante lacrime versava ogni notte. Po-co prima di varcare l’entrata una voce familiare la chiamò. «Ehi, Archer!» Alisia si fermò e si voltò. «Ciao Mark» lo salutò, sforzandosi di sorridergli, per poi rendersi conto che, con lui, le labbra si stiravano in modo naturale. Il giovane la raggiunse e sorrise a sua volta. «Allora… ehm… come stai? Tut-to ok?». «Ho avuto periodi migliori». «Mi dispiace molto per… per tutto». Alisia annuì. Capiva che voleva solo essere carino, che voleva mostrarle di preoccuparsi per lei da vero amico… ma in fondo, loro non erano davvero amici. Erano solo compagni di classe. Lei non ci sapeva fare nei rapporti in-terpersonali e Mark era… era gentile. A volte anche troppo. Lui era il ragaz-zo popolare con cui tutti volevano avere a che fare. Lei era la ragazza più ricca della scuola con cui nessuno avrebbe voluto avere niente a che fare, ma a cui tutti andavano dietro come tanti bravi cani da riporto solo perché ini-micarsi un Archer equivaleva a scavarsi la fossa da soli. Eppure le piaceva pensare che quell’angelo biondo in terra si preoccupasse per lei perché ci teneva sul serio. Ci fu un lungo, imbarazzante momento di silenzio che Mark sembrò sul punto di spezzare, quando una furia bionda super liscia ar-rivò all’improvviso aggrappandosi al braccio del ragazzo con tale impeto da fargli rischiare di perdere l’equilibrio. «Buongiorno!» salutò MaryLu ignorando l’evidente disagio di Mark che, cercando di non sembrare brusco o scortese, tentava invano di staccarsela di dosso. «Ciao, Alisia cara», disse ancora sfoggiando uno dei suoi tipici, falsi sorrisi melensi. MaryLu la detestava da sempre, perciò Alisia non si sorprese di ve-derla distogliere l’attenzione da lei senza lasciarle il tempo di rispondere. «Andiamo al bar, Mark?». «Certo, andiamo» le rispose, rinunciando ad allontanarla. «Vieni con noi?» chiese poi ad Alisia. «Andiamo, ci aspettano tutti!» si lamentò MaryLu con vocina da bambina e tirando Mark per portarlo via di peso. «Vai pure… io

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non… non sono dell’umore giusto» disse Alisia e lui fece un’espressione mortificata, come se si stesse dando dello stupido per non aver pensato al suo stato d’animo in lutto. Che caro. «Certo… ci vediamo in classe» riuscì a dire prima che la sanguisuga bionda attaccata al suo braccio lo trascinasse via con uno strattone. MaryLu era stupida e invadente e, per colpa dell’infinita pazienza di cui era fornito, Mark finiva sempre con il farsi coinvolgere dalla sua frenesia fuori luogo. Li osservò allontanarsi verso il bar interno all’edificio scolastico, poi raggiunse l’aula. La giornata andò avanti alquanto lentamente e si rivelò davvero stancante: Alisia non fece altro che destreggiarsi tra gli sguardi assortiti tra pena e di-sagio dei suoi professori e dei suoi compagni. Il culmine fu in sala mensa: gli occhi di tutta la scuola puntati su di lei, che non chiedeva altro che di es-sere lasciata in pace. Non appena le lezioni terminarono e si ritrovò in auto con Charles, lontana da quegli sguardi ipocriti, era sicura che si sarebbe sen-tita meglio. Si sbagliava. «Ha chiamato il dottor Wilkins», le riferì riluttante il maggiordomo, e questo le bastò per farla diventare un fascio di nervi. «Cosa voleva?» domandò, come se già non conoscesse la risposta. «Temo che questa sera dovrà incontrare Aitan». La ragazza si coprì il volto con una mano, imponendosi di rimanere calma. «E va bene. Togliamoci questo pensiero». Wilkins era rimasto tale e quale a come lo ricordava, con qualche capello grigio in più, certo, ma sempre molto cortese e affabile. Si era sposato e a-veva un figlio di vent’anni che stava seguendo le orme paterne studiando medicina. L’unica cosa che era del tutto identica a prima era il loro vampiro di famiglia, Edmund, mellifluo e amante delle belle cose. Si erano presi cura di Aitan, ma ora gli avevano ordinato di tornare dalla sua nuova padrona. Ed era più che sicuro che alla ragazzina sarebbero venute le crisi isteriche. Giunto a casa Archer, il vecchio maggiordomo lo accolse con lo stesso calore che si poteva riservare a uno scarafaggio improvvisamente sbucato in cucina. Non che se ne vedessero molti di scarafaggi nella cucina o in una qualsiasi delle zone di quell’enorme castello. Lo fece accomodare in soggiorno, lasciandolo davanti all’enorme televisore a schermo piatto ac-ceso su uno di quei noiosi e insulsi programmi del pomeriggio. Invece di migliorare, il mondo sembrava colare a picco sempre di più… e davano la colpa a vampiri e affini. La ragazzina non lo fece attendere molto, udì quasi subito i suoi passi leggeri raggiungerlo.

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Alisia si bloccò di colpo sulla soglia del soggiorno. Un giovane uomo sui vent’anni sedeva stravaccato sul divano guardando distrattamente la tv. I suoi lunghi capelli neri gli arrivavano fin sulle spalle e le ciocche più corte ricadevano ribelli davanti al viso. Proprio in quel momento, con un gesto pigro della mano, li portò indietro. «Hai intenzione di rimanere a fissarmi sulla porta per molto?» le disse con voce dura per poi voltarsi verso di lei. Porca miseria. Quello lì era davvero il tizio/mostro di nome Aitan? Costrinse le proprie gambe a muoversi e si accomodò alla poltrona lì accanto, per poi riprendere a guardarlo. L’attenzione del vampiro era di nuovo per la tv. Il suo viso aveva dei lineamenti duri ma affascinanti, il naso dritto, labbra leg-germente piene, occhi dalle lunghe ciglia scure e di quel colore verde chiaro, come di giada, che aveva già visto, ma che solo ora riusciva ad apprezzare. Sì, ora che era vestito con dei comunissimi jeans blu scuro, e camicia grigia antracite. Sembrava un ragazzo normale, uscito da un film o da una rivista di moda, ma normale. Chi l’avrebbe mai detto che fosse così… Charles irruppe proprio in quel momento, portando della cioccolata calda per lei. «Hai bisogno di sangue?» domandò il maggiordomo al vampiro. «No, Wil-kins ha provveduto già» rispose quello. Poi il silenzio calò e nessuno si mos-se. Aitan pareva una statua di marmo, perfettamente immobile. Alisia non pensò per nulla alla sua cioccolata, continuando a fissarlo come se non po-tesse farne a meno, troppo scioccata dal cambiamento. Era davvero quello il mostro che l’aveva terrorizzata pochi giorni prima? «Mi sembrava dovessimo parlare», disse guardando prima il maggiordomo, poi lei che rispose: «Infatti». «Hai delle domande da fare?» «Tante in realtà…». In effetti, aveva deciso di scoprire il più possibile del lato segreto di suo padre, e del perché non le avesse mai rivelato nulla. «Cominciamo dal principio. Wilkins ha detto che la mia famiglia è compo-sta da cacciatori…» non terminò di parlare, che Charles disse: «Non tutta la sua famiglia è composta da cacciatori». «Cosa vuol dire?». «C’è chi nasce cacciatore, e chi no» rispose Aitan, «chi non è cacciatore non viene messo a parte dei segreti». «Come si fa a capire se si è cacciatori o meno?» «Dal sangue. Tu sei riuscita ad aprire la cella dov’ero rinchiuso grazie al sangue di tuo padre. Se non fossi stata una cacciatrice, dubito che ci saresti riuscita. Evidentemente, Rupert era a conoscenza dei geni positivi presenti nel tuo DNA ed è per questo che ti ha lasciato la guida del suo impero». «Solo un cacciatore può divenire capo della famiglia Archer», continuò Charles.

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Alisia non sapeva cosa pensare… «Per quale motivo mio padre non mi ha mai detto nulla?». «Credo sperasse con tutto se stesso di tenerla lontana il più possibile da que-sto mondo», le rispose paziente Charles. «Già… e ora mi ritrovo in questa situazione…» disse massaggiandosi le tempie. «Essere una cacciatrice è una responsabilità, ma anche un grande onore: pre-servare la razza umana dalle creature malvagie con l’aiuto dei sigillati» con-tinuò il maggiordomo con tono solenne. «Giusto, il sigillo. Parlatemi del sigillo». A quel punto, Aitan si alzò in piedi e cominciò a sbottonare la camicia. Alisia lo guardò allibita ma, notando l’indifferenza di Charles, decise di attendere il seguito. Il ragazzo aveva un corpo niente male, non c’è che dire… Si voltò, mostrandole la schiena, su cui c’era un tatuaggio in inchiostro rosso… no, sangue. Era un cerchio for-mato da dodici pugnali con la punta rivolta verso l’interno. «Ogni pugnale è un livello di restrizione del sigillo» spiegò Aitan. «Il cac-ciatore può ricorrere al rilascio della restrizione relativa a uno dei livelli per aumentare il potere del suo vampiro». «Come?». «Tramite contatto di sangue. Durante il nostro primo incontro, ho bevuto un po’ del tuo sangue, questo può già consentirti di rilasciare la prima restrizio-ne. Ma se vuoi usarmi a pieno, dovrai attendere la Cerimonia di Transizio-ne». «Cerimonia di Transizione?». «Esatto. In questa cerimonia, i tuoi poteri latenti saranno risvegliati. Avrai una forza superiore a quella di una comune donna umana, ma la tua posizio-ne all’interno della gerarchia dell’Alleanza verrà stabilita dal numero di re-strizioni che riuscirai a rilasciare. Per arrivare a sedere sulla poltrona di capo dell’Alleanza, bisogna riuscire a rilasciare tutte e dodici le restrizioni». «Come si scopre tutto questo?». «Le regole della cerimonia devono essere rivelate solo durante la cerimonia stessa. Non posso dirti altro. Valutare la capacità del cacciatore di destreg-giarsi senza previa preparazione è di vitale importanza». «Ok… ehm… chi sono i vampiri sigillati? Perché siete stati sigillati?». «I vampiri sigillati sono criminali della loro razza» spiegò Charles come se non vedesse l’ora di dirlo, «tramite il sigillo, vengono puniti per le loro ma-lefatte e costretti a ubbidire ai membri dell’Alleanza per la salvaguardia dell’essere umano che tanto disprezzano». Così Aitan era un criminale, giusto? A quanto pareva, se non venivano ucci-si, venivano usati per la causa. Almeno erano utili a qualcosa.

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«Basta così. Charles, ho fame». «Vado a preparare la cena, signorina». E mentre l’anziano uomo si dileguava in cucina e Aitan si rivestiva, Alisia si mangiava le unghie al pensiero di quello che le avevano detto. La Cerimonia di Transizione doveva essere davvero tosta… ma lei cosa doveva fare?

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6 Alla fine aveva acconsentito a lasciare che Aitan restasse in casa. In pratica però non lo vedeva mai: appena calava il sole, Charles gli portava la sua ra-zione di sangue e, dopo essersi nutrito, usciva per unirsi ai cacciatori, per poi ritornare poco prima dell’alba e rinchiudersi per tutto il giorno nella sua stanza nei sotterranei. Alisia sapeva che c’erano tante altre cose che doveva sapere riguardo all’Alleanza, ma ancora non si sentiva pronta… ancora non sapeva come comportarsi. Non le era consentito andare a caccia con Aitan, ora sua guardia del corpo; per farlo doveva aspettare di essere convocata alla sua prima riunione dei membri dell’Alleanza della città, in cui le sarebbe stata riferita la data della Cerimonia di Transizione. Wilkins le aveva fatto capire che avrebbe avuto una scelta, ma a lei pareva invece di no. Il fatto di diventare cacciatrice faceva parte dell’eredità lasciatale dal padre defunto, era una responsabilità, come quella di prendere le redini della società pater-na non appena avesse compiuto la maggiore età. Per ora si occupava di tutto il vicepresidente Jenkins, uomo fidato di suo padre, che la teneva sempre aggiornata. «Signorina, il suo costume è arrivato questa mattina, vuole provarlo?» le disse Charles non appena arrivarono a casa dopo la scuola. Già, il costu-me… che serviva per la festa di MaryLu di quella sera. Se ne era completa-mente dimenticata! Mancavano due settimane a Halloween ma MaryLu a-veva organizzato una festa in maschera a casa sua anticipando il ballo scola-stico. Quando aveva ricevuto l’invito era rimasta molto sorpresa. Contava di non andarci, ma poi Mark le aveva detto: «Se non ti vedo giuro che ti vengo a prendere, t’infilo una parrucca ridicola in testa e ti trascino lì con la for-za!» E il suo sorriso stupendo aveva fatto il resto. «Sì, Charles, vado a provarlo. È in camera mia?». «Sì, l’ho posato sul letto». La ragazza stava per muoversi, quando il maggiordomo la fermò dicendo: «Ah, signorina, ho avvisato Aitan». Quelle parole la confusero. «Di cosa?». «Di questa sera. Posso suggerirle di andare a riferirgli di persona i pro-grammi dell’uscita nel dettaglio? Prima o poi dovrà interagire con lui».

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Fermi tutti. Cosa? Interagire con lui? Neanche morta. «Cosa c’entra Aitan con la festa? Ci andrò da sola». «Se mi è permesso dirlo, signorina, non sono d’accordo. Aitan è la sua guar-dia del corpo e, finché resterà qui, dovrà occuparsi della sua sicurezza. Devo insistere affinché la accompagni alla festa». «Non lo voglio tra i piedi». «Glielo dica». Alisia sbuffò: «Ma è davvero necessario?». «Prima o poi dovrà imparare a comandarlo. È importante che instauri un le-game con lui in vista della Cerimonia di Transizione e delle battaglie futu-re». Le battaglie future… Perciò tutti davano per scontato che lei avrebbe accet-tato il suo ruolo nell’Alleanza. “Cosa succederebbe se non accettassi?” si domandò. «E va bene… andrò da lui non appena si sarà svegliato». «Il sole sta calando, credo proprio sia già in piedi e in attesa della sua razio-ne di sangue». «Vuoi che gli porti la razione di sangue?». «Potrebbe essere un’idea per socializzare». «Dai, Charles, ammetti che è solo una scusa per non portargli da mangiare, posso capirlo!» disse Alisia, sforzandosi di scherzare. «Fa un po’ macabro no?». L’anziano maggiordomo sorrise garbato. «Può vederla in questo modo, se può esserle d’aiuto». «A dire il vero… no. Ma non importa, ci andrò lo stesso. Prepara la pappa per il mio nuovo cane da guardia». «Subito, signorina». Quei sotterranei rimanevano sempre un posto lugubre e ora che aveva sco-perto che ci abitava sul serio il mostro, facevano ancor più paura. Cercando di non far cadere ciò che aveva tra le mani, avanzò nella direzione che Char-les le aveva indicato e si ritrovò in un corto corridoio che finiva con un vico-lo cieco e, proprio davanti a lei, una porta in legno che aveva un gran biso-gno di essere rimessa a nuovo. Si fermò sentendosi un po’ agitata. Cos’avrebbe trovato entrando? Una bara? Il solo pensiero la fece rabbrividi-re… Cercò di trovare il modo di bussare ma, per non rischiare di far cadere il contenitore termico e il grosso calice di cristallo, rinunciò alle mani e usò i piedi, battendo con la punta della scarpa sul legno. Nessuna risposta. Ripro-vò mettendoci un po’ più di forza e la porta si schiuse con un rumoroso scricchiolio. Spingendola con il gomito l’aprì del tutto, lasciando che la luce dei neon nel corridoio si riversasse al suo interno. Trattenne il fiato e, quan-

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do si adattò alla penombra della stanza, si rese conto che non c’era nessuna bara. Era una normalissima camera con un enorme letto matrimoniale, un comodino al lato sinistro, un armadio nell’angolo in fondo a sinistra e un ta-volo rotondo con due sedie a pochi passi dalla porta, sempre sulla sinistra. Ed era vuota. Posò calice e contenitore termico sul tavolo e andò alla ricerca di un interruttore. Dopo averlo trovato, delle candele artificiali poste sulla parete ai due lati del letto si accesero. La luce era talmente fioca che la si-tuazione di penombra non migliorò molto. Tutta la stanza era scura, dalle lenzuola al mobilio. “Dove sarà?” si domandò. Udì un rumore indistinto provenire dal meandro di corridoi e si voltò verso la porta. Forse era lì attor-no a fare chissà cosa. Uscì dalla stanza e, seguendo uno dei corridoi, scoprì che la stanza di Aitan non era lontana dalla cella scarlatta, anzi. Quel rumore non si sentiva più, probabilmente era qualche scricchiolio di assestamento di quel vecchio castello. La curiosità però la portò lì dove tutto aveva avuto i-nizio. Curiosità di cosa poi? Di scoprire se Aitan dormisse nel sarcofago che era la Vergine di Norimberga? Poteva anche fungere da bara, no? La cella scarlatta era spalancata, anche se la porta, che recava ancora i segni del cal-cio con cui era stata aperta, era stata rimessa al suo posto. Sembrava invitar-la a entrare e scoprire altri suoi macabri segreti. Vi entrò e… eccola lì, la vecchia signora di ferro arrugginito rimessa a nuovo che la guardava curio-sa. Si avvicinò con cautela, quasi aspettandosi che lo sguardo mutasse e il rosso bagliore delle iridi affamate del vampiro facesse capolino. Niente. Con mano tremante, afferrò il coperchio e lo aprì. «Non dormo mica lì dentro». La voce di Aitan giunse senza preavviso alle sue spalle e lei sobbalzò spaventata, voltandosi di scatto. Lui era lì, con una spalla poggiata allo stipite della porta, il grosso calice di cristallo tenuto con eleganza nella mano; sorseggiava come fosse vino il sangue che lei aveva lasciato nella stanza. Lo fissò per un momento senza fiato, prima di balbetta-re: «Lo so… volevo solo vedere se era stato rimesso tutto in ordine…». Ri-portò lo sguardo alla Vergine, scoprendo che il suo interno era pieno di acu-lei aguzzi, come doveva essere. Non c’era niente di strano. «Certo» rispose il vampiro con scetticismo, «in quel sarcofago ci ho passato vent’anni, alimentato da dei tubicini che mi iniettavano sangue in corpo quel tanto che bastava a tenermi in forze. Non ho nessuna voglia di ritornarci». Alisia non rispose, sentendosi a disagio. Ma l’aveva previsto… quell’essere la spaventava. Ed era più che sicura che lui lo sapesse, perciò doveva darsi un minimo di contegno. Lanciandole un’ultima occhiata penetrante con quei suoi occhi scarlatti, si volse per andare via. Dopo pochi secondi, lei lo seguì, rimanendo a debita distanza, finché non furono nella sua camera. Nell’aria aleggiava l’odore ferroso e dolciastro tipico del sangue. Il vampiro aveva

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svuotato il calice e ora lo stava riempiendo con ciò che era rimasto nel con-tenitore termico. Alisia si guardò attorno, non sapendo più cosa fare. Sulla parete di destra c’era una porta aperta, una porta che prima non aveva notato perché posta nel punto più scuro della stanza; sporgendosi un po’, spiò den-tro e ci vide un bagno. L’incredulità si dipinse sulla sua faccia. «Già, ne ho bisogno anch’io» esordì Aitan, come accorgendosi della sua reazione. Alisia riprese a guardarlo. «Io…» balbettò ancora, ma non riuscì a trovare nulla da dire. «Mi piace fare il bagno prima di nutrirmi», continuò lui e, solo in quel momento, la ragazza si rese conto che aveva i capelli umidi. Porca miseria quant’era… Come in risposta ai suoi pensieri, le labbra del vampiro si stira-rono in un sorriso sbieco che la fece arrossire di vergogna. No, non credeva che le avesse letto nel pensiero… bastava guardarla in faccia. Nonostante il timore, quella creatura l’affascinava. «Allora, come mai ho l’onore di essere servito dalla padrona?». «Volevo parlarti di una cosa». «Parla allora». «Si tratta di questa sera…». «Charles mi ha detto tutto». «Sì, ma vorrei che non ti facessi vedere». Aitan la squadrò con attenzione senza dire nulla, poi mandò giù tutto d’un fiato quel poco di sangue che era rimasto nel calice e riprese a guardarla senza però dire nulla. «Hai capito?». «Sì, ho capito», rispose quello con uno strano tono, mentre i suoi occhi ri-tornavano verdi. «Ok». Detto questo, uscì dalla stanza senza indugio. Chiusa la porta dei sotterranei alle proprie spalle, si sentì meglio.

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7 Seduto pigramente sul ramo di un albero nel giardino di quella grande villa in stile moderno, Aitan osservava quella marmaglia di adolescenti travestiti da mostri del folclore ballare e divertirsi. Alisia, nel suo costume da strega, parlava con un giovincello vestito da morto vivente che la invitò anche a ballare. Sembrava divertirsi fino a che non giunse una vistosissima regina di rosso vestita che trascinò il giovincello in pista, monopolizzandolo per tutto il resto della serata. A quel punto, parve crearsi il vuoto attorno alla ragazzi-na. Nessuno sembrava intenzionato ad avvicinarsi a lei. Il resto dei ragazzi e delle ragazze la ignorava, oppure le lanciavano sguardi carichi di disagio, come se non sapessero cosa fare con lei. Ma Alisia dava l’impressione di non badarci molto, come se il resto del mondo non fosse alla sua altezza. Ai-tan scese giù dall’albero con un agile balzo e, a grandi passi, si diresse verso la grande porta a vetri spalancata nonostante il freddo. Ed ecco che la Regina di Cuori MaryLu non perdeva occasione di portargli via l’attenzione dell’unica persona che contasse in quella stanza. Mark si era allontanato, trascinato via dalla padrona di casa, promettendole che sarebbe tornato presto. Dubitava che quell’arpia lo avrebbe lasciato andare tanto fa-cilmente. Rimasta sola, cominciò ad annoiarsi. E dire che, stando insieme a Mark, aveva sperato di divertirsi, almeno per una volta. Dopo alcuni minuti, si rese conto che l’atmosfera era cambiata. Tutti, pur continuando a ballare, sembrarono rallentare per lasciare il passo a qualcuno che avanzava senza badare al fatto che ogni occupante della sala lo stava fis-sando. Chi stava chiacchierando si ammutolì per osservarlo con curiosità. Le ragazze se lo mangiavano con lo sguardo, i ragazzi invece si allontanavano il più possibile da lui, senza guardarlo, come a disagio. Aitan. Alisia si irri-gidì nel vederlo avanzare verso di lei. Lanciò un’occhiata furente alla folla, e tutti ripresero a parlare e ballare, senza però smettere di guardare furtivi nel-la loro direzione. Il vampiro si sedette al suo fianco con noncuranza. Era fu-riosa. Gli aveva detto di non starle tra i piedi e lui cosa faceva? Attirava l’attenzione.

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«Non sembra ti stia divertendo», le disse con un ghigno. La ragazza ignorò quel commento derisorio. «Cosa diavolo ci fai qui? Ti avevo detto di non farti vedere». «Non hai molti amici, vero?» A quanto pareva, voleva ignorarla anche lui. Inconcepibile. Non era forse la sua padrona? «Non sono affari tuoi. Ora sparisci». A quel punto lui la guardò con un sor-riso compiaciuto: «Come vuoi». Il vampiro si alzò, mentre la musica cam-biava in un romantico lento. In quel momento, Alisia si rese conto del grup-po di ragazze capitanato da MaryLu che stava avanzando verso di loro. «A-spetta» disse e Aitan si fermò. «Visto che sei qui, balla con me». Alisia si alzò e, afferrandolo per un braccio, lo trascinò in pista. Mischiandosi tra le coppie, la ragazza riuscì a impedire alle giovani desiderose di conoscere l’affascinante nuovo arrivato di avvicinarsi e fare domande. Il prezzo da pa-gare fu l’inevitabile imbarazzo di stargli vicino, mentre cercava di ignorare lo sguardo di lui che la passava ai raggi x per qualche oscuro motivo. Cos’avrebbe dato pur di vedere cosa gli passava per la testa! Intanto MaryLu la guardava, divorata dall’invidia. Se avesse saputo quale razza di mostro spaventoso fosse quel ragazzo tanto sexy, l’avrebbe invidia-ta ancora? Smise di pensare a lei e continuò a ballare. «Stai attirando troppo l’attenzione, Aitan» lo rimproverò. «Ma davvero?» rispose il vampiro, come se la cosa non lo riguardasse. Quando alzò lo sguardo verso di lui, esaspera-ta, lesse una strana espressione nei suoi occhi di giada, un qualcosa che la zittì, inchiodandola. Un brivido le attraversò la schiena… paura? La musica terminò e, nella pausa che seguì prima dell’inizio di un’altra canzone roman-tica e lenta, MaryLu li raggiunse in compagnia di Mark. Il giovane guardava Aitan con aperta ostilità, mentre prendeva a ballare accanto a loro con Mar-yLu. «Allora, Alisia, non ci presenti il tuo amico che si è sfacciatamente imbucato alla mia festa?» Nonostante le parole di rimprovero, il tono era divertito e mieloso. «Non è un amico, solo la mia guardia del corpo». «Oh… una guardia del corpo?» ripeté stupita lei, per poi lanciargli aperte occhiate di apprezzamento. Aitan si comportò come se non l’avesse neanche sentita, ignorandola e, con dei movimenti lenti, che parvero quasi naturali, la condusse lontano da loro, ai margini della calca di coppiette che si muove-vano sul posto. «Patetico», commentò con disprezzo. «Cosa?» chiese lei. «Il tentativo della tua amica di sedurmi» fu la sua rispo-sta. «Non è mia amica».

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«Chi lo è?» domandò il vampiro con sarcasmo, inarcando leggermente il so-pracciglio. «Nessuno, in effetti» ammise lei. Non aggiunsero altro e Alisia si concentrò su qualcosa che non fosse il vam-piro con cui stava ballando. Aveva ripreso di nuovo a guardarla in quello strano modo… «Perché mi guardi così?» domandò infine, sperando che smettesse. «Perché? Come ti sto guardando?». «Come se volessi mangiarmi», commentò lei lanciandogli una rapida oc-chiata truce. «Mi sembrava ti fossi già nutrito» aggiunse riducendo la voce a un bisbiglio. «Infatti, ma il tuo odore è davvero delizioso…» dicendo questo, si sporse verso di lei. «Di tutto il sangue che ho gustato nella mia vita che, credimi, è davvero lunga, il tuo è stato il migliore» le sussurrò nell’orecchio. «Be’, s… sappi che non ne avrai più». Al commento imbarazzato e irritato di lei, il vampiro sorrise deliziato. «Sapevo lo avresti detto». A quel punto, Aitan la spinse verso di sé e fece aderire l’esile corpo di lei al proprio. «Ma che fai?». «Sto danzando con la mia padrona». La ragazza non disse niente, troppo imbarazzata. Il suo cuore prese a martel-larle violento nel petto ed ebbe paura che lui se ne accorgesse.

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8 Il cielo era grigio di nuvole cariche di pioggia. Persino il tempo rispecchiava lo stato d’animo di Alisia in quel giorno. A scuola aveva finto di non accor-gersi degli sguardi e delle parole dei suoi compagni, in fondo era ben allena-ta a farlo. Solo che, quella volta, parlavano di lei e Aitan. Quando tornò a casa era visibilmente di pessimo umore. «Qualcosa non va, signorina?» chiese Charles. «Tutto non va! Ovunque io vada, non fanno che parlare di me e Aitan av-vinghiati alla festa di MaryLu!». «Il suo carattere un po’ ribelle è sconveniente per lei, devo ammetterlo». «Sconveniente? È una catastrofe! Non voglio che abbiano il pretesto per parlare male di me… già lo fanno di continuo. Aitan mi manca di rispetto, è sfacciato, incurante di quello che è importante per me!». «Deve parlare con lui e riferirgli che, d’ora in avanti, dovrà assumere atteg-giamenti più rispettosi nei suoi riguardi». «Credi che serva a qualcosa? Quando gli ho detto che non doveva farsi ve-dere alla festa non ha ubbidito». «Deve essere più autoritaria, quando dà un ordine. E non si faccia intimorire da lui. Non può nuocerle finché avrà il sigillo. Se si comporta come le ho suggerito, riuscirà a farsi rispettare… col tempo». «Credo tu abbia ragione. Andrò adesso a parlargli. Credo sia ancora a dor-mire». «Bene». Alisia si recò all’alloggio sotterraneo della sua guardia del corpo, entrò nella stanza buia senza preoccuparsi di bussare e accese la luce; Aitan era sul let-to, a torso nudo, e la guardava visibilmente contrariato. Si alzò a sedere met-tendosi le dita della mano destra tra i capelli, scostandoli dal viso. Alisia si sorprese a restare senza fiato, nel guardare la bellezza di quel vampiro. «Cosa vuoi?» domandò irritato. «Perché mi hai svegliato?». «Dobbiamo parlare» rispose la ragazza dandosi un contegno. «E non potevi aspettare?». Il suo tono di voce era minaccioso, ma lei decise di non badarvi.

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«Mi hai messa in una posizione davvero sgradevole, Aitan. Per colpa tua, la mia reputazione potrebbe subire…». «Ma di che stai parlando? Detesto essere svegliato con poco riguardo…». Lo sguardo di lui sembrava davvero inquietante ma Alisia non aveva nessu-na intenzione di cedere. «Non parlarmi in quel modo. Lo sai che tutti pensano che io abbia una rela-zione con te? Dovevi per forza comportarti da stupido la sera della festa?» Alisia alzò la voce senza neanche rendersene conto. Doveva far entrare in testa a quello stupido che non poteva comportarsi come gli pareva! Lui le doveva obbedienza. «Ti avevo chiesto di non farti vedere e mi hai disobbedito. In più mi hai messo in imbarazzo di fronte ai miei compagni» proseguì sempre più altera-ta. «Questo mi screditerà enormemente, lo capisci? Una persona nella mia posizione non può permettersi di perdere credibilità e il rispetto delle perso-ne, lo capisci? Ne va del buon nome della mia famiglia e della società che tra pochi mesi sarà sotto la mia responsabilità!». Aitan aveva continuato a fissarla con freddezza negli occhi per tutto il tem-po. Quando lei terminò di parlare, il vampiro restò in silenzio. «Hai finito?» chiese poi, scocciato. Era come se le parole di lei non lo avessero neanche sfiorato. Questo la im-bestialì. Non poteva comportarsi così. Lui era il suo vampiro, le appartene-va, doveva servirla e obbedire ai suoi ordini senza discutere, portandole il rispetto dovuto! Perché invece la trattava con sufficienza e la prendeva in giro? Forse perché era ancora giovane? Si sentì ferita ed esplose, inveendo contro di lui. «Se ho finito? No che non ho finito, stupido idiota! Come ti permetti? Parla-re a me in questo modo! Sei soltanto un mostro e mi devi obbedienza, hai capito?». Alisia tremava di rabbia. Pretendeva delle scuse da lui, ma non giunsero. «Mi hai sentita?» urlò ancora e, in quel momento, Aitan sparì dal suo campo visivo turbandola, per poi ricomparirle davanti con un’espressione che la fe-ce tremare di paura. «Sì, ti ho sentita, piccola Alis». «Allontanati subito…». La ragazza cominciò ad arretrare, ma lui la seguiva passo passo, finché non si ritrovò con le spalle contro il freddo muro della stanza. Aitan sbatté con violenza una mano contro la dura pietra, a pochi centimetri dal viso di Ali-sia, che la fissò terrorizzata con la coda dell’occhio. Cosa stava succedendo? Quel vampiro non poteva farle del male! Allora perché stava tremando? «Mi sono davvero stufato del tuo atteggiamento, ragazzina».

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Lei riprese a guardarlo negli occhi. Erano diventati scarlatti, come quando aveva ucciso suo zio. «Sono costretto a servirti, ma non pretendere che io sopporti le tue ramanzi-ne infantili. E non osare mai più rivolgerti a me chiamandomi mostro». I suoi canini erano diventati più lunghi, spaventosi… «Tu non puoi farmi del male…». Aitan le prese una ciocca di capelli e cominciò a giocarci. «È vero, non posso farlo. Altrimenti il sigillo che ho sulla schiena mi fareb-be provare un dolore inimmaginabile… E io detesto questa situazione, Alis. Perché il tuo odore mi fa impazzire… vorrei saziarmi del tuo delizioso san-gue…». Il vampiro si chinò sul suo collo, le scostò i capelli e posò le labbra sull’arteria pulsante. Alisia era spaventata, il suo cuore martellava selvaggio, pompando più san-gue, e lui poteva sentirlo. Ma non era solo paura. Nell’istante in cui lui ave-va posato le sue labbra sulla propria pelle, un brivido le aveva percorso la schiena… «Cosa c’è? Adesso non gridi più, Alis?». «Chi ti ha dato il permesso di abbreviare il mio nome?». Avrebbe voluto usare un tono più autoritario, ma la voce le uscì in un soffio tremante. Aitan si scostò di poco da lei e prese a guardarla in viso con un sorriso divertito. «Sei ancora una bambina, dopotutto. Pretendi rispetto da me, ma hai ancora paura. Sei venuta qui spavalda, ma è bastato poco per far cadere quella ma-schera. Io ti servirò, ma finché non riuscirai a stare in mia presenza senza tremare, non cambierò atteggiamento». Alisia si sentì una stupida. E le rodeva che lui avesse ragione. «Tu devi obbedirmi». «Obbedirò quando imparerai a darmi ordini, ragazzina, quando anche il si-gillo riconoscerà le tue parole come assolute e mi impedirà di trasgredire». «Forse non sarò brava a darti ordini, ma neanche tu mi aiuti! Dovresti essere più gentile!» Lui la guardò, era serio, non sorrideva più. «Tu vuoi che io sia più gentile?». La ragazza arrossì, rendendosi conto di essersi espressa in modo sbagliato. «Nel… nel senso che dovrai comportarti bene», cercò di correggersi, «devi assumere un atteggiamento diverso nei miei confronti». «Eh?» sembrava di nuovo divertito. «Smettila! Quando mi hai stretta in quel modo alla festa, tutti hanno comin-ciato a far girare la voce che noi due abbiamo una relazione segreta» disse per rigirare la frittata, «non posso sopportare che si dicano cose non vere sul

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mio conto! Anche se tu mi reputi una bambina, io sono a capo di una società che ha fama mondiale e, nonostante la mia età, il consiglio di amministra-zione chiede sempre il mio parere. Se continui a comportarti in modo così sfacciato, rovinerai la mia reputazione! E di conseguenza verrà minata la se-rietà della mia compagnia!». «Tutto per un semplice abbraccio…». «Non è colpa mia se loro ci hanno fantasticato su». «Perché? Tu non ci hai fantasticato?». «Ma per chi mi hai presa?». Aitan ghignò. «Così vuoi che in pubblico mantenga le distanze?». «Finalmente hai capito». «Ciò significa…» la prese per un polso e l’attirò verso di sé, «che in privato posso farti quello che voglio?». «Ma che dici?». La teneva contro di sé premendole una mano contro la schiena, con l’altra invece, le prese con delicatezza il mento e le alzò il viso, costringendola a guardarlo negli occhi. «Metti giù le mani, Aitan!». «È un ordine, Alis?». «Sì, lo è». «Il tuo viso arrossato è davvero carino». «Ti ho detto di smetterla!». Si divincolò e lui la lasciò andare. Gli lanciò un’occhiata truce, e in pochi passi veloci raggiunse la porta e uscì. Mentre camminava nel tetro corridoio, Aitan si affacciò dalla stanza. «Vieni pure a trovarmi quando vuoi, piccola Alis». Risalita dai sotterranei, Charles volle sapere com’era andata. «Non riuscirò mai a farmi rispettare da lui, Charles! Ha perfettamente ragio-ne! Anche se cerco di negarlo quel vampiro mi spaventa…». «Col tempo si abituerà alla sua presenza e imparerà a trattare con lui. Deve solo rendersi consapevole che, anche se le fa qualche minaccia, non è in grado di metterla in atto, dato che il sigillo lo castigherebbe. Lui sa quant’è doloroso. Ora vada a fare i compiti, la chiamerò non appena la cena sarà pronta». «D’accordo. Grazie, Charles». Ma Alisia non riusciva a concentrarsi nello studio. Il modo in cui Aitan le era stato vicino, pochi istanti prima, le faceva ancora palpitare il cuore. «Devo smetterla di ripensarci!» si disse, ma fu molto difficile…

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Aitan era nella sua stanza a sorseggiare del sangue dal calice di cristallo. Gli mancavano la caccia spietata e il sapore del sangue che sgorgava fresco nel-la sua bocca dalla ferita della vittima. «Quella ragazzina… il suo sangue… vorrei poter bere il suo sangue…». Qualcuno bussò alla sua porta. Era Charles. «Charles, di solito non vieni mai a trovarmi qui sotto». «Non cambierai mai... non è vero, Aitan? Cerca di trattare bene la signorina Alisia. Anche se la cosa non ti piace, lei è la tua padrona. Se non fosse per quella ragazza, tu saresti ancora a marcire nella cella scarlatta». «Io e la piccola Alis abbiamo già discusso a lungo della cosa». «Non rivolgerti alla signorina chiamandola per nome». «A lei non dispiace». «Non discutere». «Sei venuto fin qui solo per dirmi questo?». «Sono stato informato che i vampiri si stanno muovendo. D’ora in avanti, cerca di fare più attenzione e di proteggere come si deve la signorina». «Ricevuto». «Tra qualche giorno ci sarà un incontro con le altre famiglie dell’Alleanza». «Bene. È tutto?». «Sì, è tutto».

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9 Charles l’aveva avvisata che per quel venerdì sera ci sarebbe stata la prima riunione dei membri dell’Alleanza. Per lo stesso giorno era prevista anche la prima visita alla sede principale della società che aveva ereditato dal padre, in cui si sarebbe presentata ai dipendenti come nuovo presidente. Di fatto la cosa sarebbe diventata ufficiale dopo il diciottesimo anno di età, ma era tal-mente capace che il vicepresidente e il consiglio di amministrazione la tene-vano sempre informata di tutto e le chiedevano consiglio. Almeno per quan-to riguardava quell’aspetto della sua vita, il padre le aveva insegnato bene come comportarsi. La sua intelligenza fuori dal comune faceva il resto. A scuola, inoltre, si stavano organizzando per preparare il ballo di Hallowe-en. Una vera seccatura. Non sapeva neanche se ci sarebbe andata. La visita alla società durò quasi un’ora e contava di essere a casa per le sei. Doveva andare a parlare con Aitan della riunione di quella sera; avrebbe do-vuto farlo prima, ma aveva sempre rimandato per via… perché non voleva vederlo. Dopo l’ultima volta che era andata da lui sola, si sentiva ancor più a disagio in sua presenza. Doveva trovare una soluzione che migliorasse il lo-ro rapporto. Ovviamente non c’era da aspettarsi che la cosa partisse da lui, quindi doveva pensarci lei. “Ma tu guarda! È lui che deve servire me e devo essere io a comportarmi in modo da non offenderlo! Non dovrebbe essere il contrario?” pensò, strap-pandosi nervosa una pellicina dal pollice della mano destra con i denti e fa-cendosi anche male. Fuoriuscì del sangue, ma non vi badò. Ferma davanti alla porta della stanza del vampiro, esitò un momento, poi bussò. «Che strano…» proferì lui con espressione sorpresa dopo averle aper-to, «hai bussato». Alisia arrossì. «Mi fai entrare o preferisci parlare sulla porta?». Lui si scostò e la fece passare. «Di cosa vuoi parlare?». «Dell’incontro con le altre famiglie dell’Alleanza. Posso sedermi?». Notò che Aitan aveva uno strano sguardo.

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«Prego» la invitò con un gesto elegante della mano. «Di solito non sei così educata quando sei con me. Stai forse cercando di essere più gentile per farmi cambiare atteggiamento?». La giovane arrossì ancora. «Almeno io ci sto provando. A te sembra non importi affatto». «Infatti, è così». «Lo immaginavo» rispose sprezzante. «Comunque, parlami di questi incon-tri». «Cos’è che vuoi sapere?». «Cosa si fa esattamente?». «Il fine principale degli incontri delle famiglie dell’Alleanza è quello di par-lare della situazione della lotta contro i vampiri. Si fa una stima delle vittime di entrambe le fazioni, cioè umani e vampiri, e si discute sul da farsi. In se-condo luogo, sono presentati i nuovi membri che entrano a far parte dell’Alleanza, come te». «Sai se ci saranno altri come me?». «Non lo so. Forse». Alisia abbassò lo sguardo pensierosa. «Ti sei ferita?» le chiese. Lei riprese a guardarlo. Aveva ancora quello stra-no sguardo e i suoi occhi stavano diventando scarlatti. «Co… come? No, non mi sono ferita… che ti prende?». «Posso sentire distintamente l’odore del tuo sangue». Rispose con aria bramosa. Avvertendo una strana atmosfera, Alisia si alzò. «Bene, io vado. Grazie di…» non finì di parlare che lui, con un movimento che neanche vide, le prese il polso destro e avvicinò la sua delicata mano al proprio viso e gliel’annusò. «Aitan… ma che stai facendo?» gli domandò con un filo di voce. «Hai avuto una leggerissima perdita di sangue, ma sono comunque in grado di sentirlo. Non puoi venire qui, quando io non ho ancora saziato la mia sete, e farmi sentire l’odore invitante del tuo delizioso sangue». «Lasciami andare». Senza badare alle sue parole, con la punta della lingua, leccò il suo pollice, vicino all’unghia. Alisia restò senza fiato, con il cuore che le batteva all’impazzata. Proprio in quel momento, arrivò Charles, con la razione giornaliera di san-gue per Aitan. La porta era rimasta aperta, perciò vide subito quello che sta-va succedendo. «Cosa stai facendo, Aitan?». Lui lo guardò. Sembrava contrariato. Lasciò andare la ragazza, ma non ri-spose.

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«Niente, Charles. Non è successo nulla. È stata colpa mia». Detto questo, Alisia andò via. Doveva stare più attenta d’ora in poi. Rimasto solo, Aitan bevve la sua razione di sangue. “Non è lontanamente comparabile al sangue di Alis”, pensò, poi però buttò giù tutto d’un fiato e uscì per prendere un po’ d’aria. Notando una porta basculante aprirsi, si av-vicinò, vedendo Charles che si preparava a uscire l’auto. Entrò nell’enorme garage del castello e lo trovò parecchio cambiato. C’erano molti modelli che lui non ricordava. A quanto pareva, l’abitudine di Rupert di sperperare dena-ro in auto da collezione e auto del tutto inutili si era estinta solo con la mor-te. Proprio di fronte a lui, in bella mostra su piedistalli con scivolo, c’erano dei modelli d’epoca di auto di lusso. Ai suoi lati invece, c’erano dei modelli più recenti e di bella presenza. Di quelli che mostravi in giro per ostentare il fatto di avere tanti soldi da poter sperperare in capricci che costavano un oc-chio della testa! «Questa è la Bentley Continental GT del signor Archer, che Dio lo abbia in gloria» disse Charles notando il suo interesse per le auto. «Queste qui invece sono due BMW, modelli 650i e M5». Aitan osservò le due auto, la M5 era quella che di solito Charles utilizzava per portare in giro Alisia. «Queste so-no una Ferrari California, una Maserati Masory GT, una Jaguar XRF, una Jaguar XJ220, un’Aston Martin Rapide e due Audi, modelli Q7V12 TDI e R8 GT». Terminato l’elenco delle automobili tutte nere dai finestrini oscura-ti, tranne che per la Bentley che era di un blu elegante e per la Ferrari che era rossa, Charles continuò: «Vorresti guidarne una? Il signor Rupert non ha mai avuto nulla in contrario nel farti usare i suoi gioielli». «Già. Ci penserò su» rispose il vampiro indifferente. Villa Wilkins era molto bella ed elegante, una costruzione del XIX secolo ben tenuta e restaurata di recente. Entrati all’interno, una cameriera li fece accomodare in salotto, dov’erano già presenti altre persone. Una donna alta dai capelli biondi le si avvicinò. «Io sono la signora Wilkins» si presentò con un sorriso gentile, «tu devi essere Alisia. Benvenuta tra noi». «Grazie» rispose la ragazza stringendole la mano. La sua ospite le presentò il figlio ventenne Jess, studente di medicina, e il loro vampiro, un uomo all’apparenza sulla quarantina e molto affascinante che la salutò baciandole galantemente il dorso della mano. «Io sono Edmund» si presentò con voce soave, tanto che la giovane non riuscì ad aprire bocca e si limitò a sorridere. Le furono presentate le famiglie Connor, Kidman e Johanson, con i rispettivi vampiri Jessica, Vladimir e Mina. Infine, un pittoresco personaggio panciuto in giacca e cravatta che le rivolse un largo sorriso melenso. «Io sono Gusta-

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vo Degli Angeli e lui è Andrea». Tutti i vampiri, ad eccezione di Edmund, sembravano molto giovani, soprattutto Andrea, che pareva un adolescente. A detta del signor Wilkins mancava ancora una famiglia all’appello, e atte-sero tra the e biscottini. Dopo una decina di minuti anche gli ultimi ospiti arrivarono. Erano una famiglia orientale e, tra loro, c’era una ragazza della sua stessa età piccola e carina, con dei corti capelli neri. Riconobbe due vampiri, uno dei quali la seguiva come fosse la sua ombra. «Ciao, io sono Kazehaya Fuyumi» si presentò non appena si accorse di Ali-sia. «Lui invece è Yato, il mio vampiro». «Io sono Alisia Archer e lui è Aitan». Le due ragazze si strinsero la mano, Yato la salutò con cortesia e rispetto, Aitan… Aitan sembrava non mostrare il minimo interesse per nulla. Alisia e Fuyumi seguirono gli altri nei sotterranei della villa, passando per un passaggio segreto. Si ritrovarono in una stanza circolare, come circolare era il grande tavolo a cui si accomodarono seguendo l’ordine che preferiva-no. Alisia era incuriosita, ma anche tesa. I membri anziani presero a discute-re animatamente, persino Fuyumi sembrava a conoscenza di parecchie cose, anche se non le era ancora permesso di andare a caccia con il suo vampiro, sembrava raccogliere informazioni in molti modi, dimostrando di essere uti-le anche così. Solo Alisia ascoltava in silenzio, cercando di recepire il più possibile, seccata di essere l’unica all’oscuro di tutto. Sentì che il numero dei vampiri era aumentato, perché avevano preso a trasformare tutti gli esse-ri umani che attaccavano, cosa che prima non usavano fare. Continuavano a scambiarsi informazioni e opinioni, ma nessuno di loro badava a lei o Aitan. «Ci dispiace davvero che lei non possa ancora entrare in discussione, signo-rina Archer. Di quest’incresciosa situazione, deve ringraziare il suo subordi-nato» disse dopo un po’ il panciuto Gustavo Degli Angeli. Alisia si sorprese nell’udire quelle parole e lanciò una rapida occhiata al suo vampiro, che le sedeva accanto. Fissava un punto indistinto con aria torva. «Dall’espressione che ha sul volto, immagino che lei non sappia niente, si-gnorina». «No, infatti» dovette ammettere. Jessica gettò dietro le spalle la chioma ros-sa con un gesto di civetteria e fissò i suoi occhi verdi su di lei, trattenendo un sorriso divertito. Lo stesso fecero Vladimir e Mina, i loro lunghi capelli scuri oscillarono sulle teste, quando le inclinarono per nascondere l’espressione dei loro volti. Solo Edmund, Yato e l’impassibile Andrea non fecero alcun commento. «Lasci allora che la illumini…». «Preferirei che fosse Aitan a illuminarmi, quando saremo a casa. Ma è stato davvero gentile».

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La cortesia delle sue parole non nascose una vena tagliente. Non sapeva per-ché, ma il tono che aveva usato quell’uomo anziano e pienotto nell’alludere a quel qualcosa che il suo vampiro aveva fatto, non le era piaciuto per nien-te. Il desiderio che aveva visto sul suo viso, all’idea di riferirle tutto, l’aveva infastidita, come pure la reazione degli altri vampiri. Prima che la riunione terminasse, Alisia e Fuyumi furono avvisate che pre-sto sarebbe stata fissata la data della loro Cerimonia di Transizione. Dopo tornarono ai piani superiori, dove era stato allestito un buffet di prelibatezze. Alisia prese qualcosa e si allontanò dalle pietanze, trascinando Aitan un po’ più distante dagli altri. Non sapeva perché, ma non sopportava come lo guardavano. Jess le si avvicinò con un largo sorriso, senza badare al vampiro e le disse: «Spero che ti ambienterai presto. Ad eccezione di Degli Angeli, noi cerchiamo di farci gli affari nostri». «Bene», rispose lei, abbozzando un sorriso. Voleva poter parlare con Aitan in santa pace, ma il giovane Wilkins aveva tutta l’aria di voler attaccar bot-tone. In quel momento, la cameriera arrivò portando un vassoio con dei col-telli disposti in fila, erano d’argento e sembravano parecchio affilati. Si sor-prese quando ciascun membro delle famiglie ne prese uno, si ferì un dito e ne fece bere il sangue che fuoriuscì al rispettivo vampiro. Jess sembrò notar-la. «Tu non lo fai mai?» le chiese con un sorriso scettico. «Dare un po’ del mio sangue al mio vampiro?». Percepì uno strano movimento di Aitan, che fingeva di non ascoltare, re-stando appoggiato al muro, a qualche passo da loro. «Già. Non gliene fai mai bere un po’?». «No… perché dovrei farlo?». Il giovane la guardò come se non credesse sul serio alle sue parole. «Serve a migliorare l’intesa con il proprio vampiro. Se Edmund beve ogni tanto un po’ del mio sangue, sono in grado di comunicare a distanza con lui, in modo da essere sicuro che sappia quando ho bisogno del suo aiuto. Mi basta pensarlo e imprimere nella mia mente quello che voglio comunicargli. Ed è da me in pochi secondi». Alisia si sentì una stupida. Lei tutte quelle cose non le sapeva. Jess si allon-tanò per compiere quel rito insieme agli altri. Ma lei non lo fece. Magari a-vrebbe provato a casa. Era troppo imbarazzante. Il suo sguardo fu catturato da Andrea. Il suo volto sembrava immutabile e aveva l’aria di essere il più maturo fra tutti. I suoi corti capelli castano chia-ro erano pettinati in modo impeccabile e i suoi occhi castano scuro erano freddi e inespressivi. Dava i brividi, più di Aitan. «Quello che sembra un marmocchio è in realtà il più anziano tra tutti i vam-piri qui presenti. Più vecchio persino di me».

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Alisia guardò la sua guardia del corpo. «Sì, lo avevo immaginato… Ai-tan…». «Se vuoi chiedermi della cosa a cui ha cortesemente accennato Degli Ange-li, ti prego di attenerti a ciò che hai detto e di aspettare quando saremo a casa tua». «Come vuoi, però, perché non mi hai detto nulla riguardo a questa cosa del sangue?». «Tanto non me lo avresti dato». «Non è un comportamento da te». «Cosa ne sai di me?». Si guardarono negli occhi. Lui era… innervosito? Seccato? Non riuscì a ca-pirlo. E si rese conto che, in fondo, non sapeva niente di lui. «Quando saremo a casa, parleremo». Non le rispose. Si limitò a tornare come una statua contro il muro.

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10 Durante tutto il viaggio di ritorno in macchina, Alisia pensò a quello che a-vrebbe dovuto chiedere. Aitan però, si dileguò nella sua stanza non appena arrivati e lei esitò, non sapendo se seguirlo o no. Poi si fece coraggio e andò da lui. «Non ti dai tempo, eh?» le disse seccato, mentre lei entrava nella camera. «Eravamo rimasti d’accordo che avremmo parlato». «Ok allora, parliamo» rispose sedendosi davanti a lei. «Perché sei così nervoso? Credo di avere il diritto di sapere cos’è successo quando lavoravi per mio padre. Non voglio sapere le cose da estranei… non mi è piaciuto sentirmi…». «Ignorante?» terminò lui per lei. «Non era esattamente quello che volevo dire, ma sì», rispose Alisia turbata. «Ovvio» esordì lui tagliente, «ora che invece sei stata messa in difficoltà da un estraneo che ne sa più di te su tuo padre, finalmente ti sei decisa a parlare di cose che avresti dovuto chiedermi fin dall’inizio» continuò con un sorriso compiaciuto. «Ok, vuol dire che rimedierò adesso. Dimmi cosa intendeva Degli Angeli con quello che ha detto». «Intendeva che è colpa mia se non sai nulla di vampiri e Alleanza». «Ed è vero?». «No, non lo è. Il fatto che tu non sappia nulla è solo una decisione di tuo pa-dre». «Perché allora ti ritiene responsabile? E perché tutti i vampiri ti tenevano lontano?». «Non mi hai fatto la domanda più importante». Alisia lo guardò negli occhi e, dopo averci pensato pochi secondi, chiese: «Perché sei stato sigillato nella cella scarlatta?». «Per via di tua madre» rispose lui. «Mia madre? Cosa c’entra mia madre?». «Di solito i cacciatori si imparentano con altri membri dell’Alleanza per meglio preservare il segreto e per meglio garantire la già difficile trasmis-sione del gene che permette a un umano di sviluppare la forza e il potere ne-cessari a combattere i vampiri» cominciò Aitan. «Tuo padre, invece, si in-

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namorò di una donna comune e volle sposarla a ogni costo. A me la cosa non interessava, ma i vertici dell’Alleanza fecero pressioni affinché la donna non venisse mai a conoscenza del segreto. Rupert assicurò che la presenza di Catherine non avrebbe dato alcun problema, e la cosa si rivelò fondata dato che lei credeva sul serio che io fossi una semplice guardia del corpo». «Cos’è accaduto poi?» chiese curiosa Alisia quando lui fece una pausa, esor-tandolo a continuare. «Accadde che si sposarono e lei venne a vivere qui. Io non mi facevo vedere mai, quindi non aveva idea che abitassi nei sotterranei, e Charles era molto discreto quando veniva a portarmi da bere. Un giorno però, tua madre vide Charles prepararmi la razione di sangue e lo seguì». «Ti ha visto mentre ti nutrivi». «Sì. La cosa non le è piaciuta molto. Mi sarei potuto accorgere di lei, ma ero reduce da un combattimento con un membro della mia razza che mi aveva debilitato molto». Sbuffò a quel ricordo. «In ogni caso, tuo padre mi ordinò di cancellarle il ricordo di ciò che aveva visto, ma non ne fui in grado». «Cosa vuoi dire?». «Che non ci sono riuscito. E ancora non ho idea del motivo. Ha resistito al mio comando mentale come se le avessi fatto il solletico…». Aitan aggrottò la fronte, perdendosi nei ricordi di quella sera. «In ogni caso, non potevamo permettere che l’Alleanza scoprisse la cosa, e le dicemmo di tacere. Non le piacque sapere la verità sul suo maritino e gli impose di tirarsi fuori. Cercai di farlo ragionare, ma… finì che la rabbia m’indusse ad attaccarlo, il sigillo si attivò e gli presentai un pretesto per liberarsi di me su di un piatto d’argento». Alisia lo guardò allibita. «Non fare quella faccia, ragazzina. Ho sempre avu-to un caratteraccio, e anche tuo padre. Lo rispettavo, ma non lo sopportavo, come non ho mai sopportato neanche gli altri padroni. A quell’epoca non avevo ancora sperimentato il castigo del sigillo… però, diciamo pure che ho avuto parecchio tempo per rifletterci su». «Da quanto lavori per gli Archer?». «Da quando il fratello di tuo nonno, il capofamiglia che ha preceduto tuo padre, fece ammazzare l’allora vampiro servitore per incompetenza. Era un uomo crudele, il vecchio Tony, con lui sì che andavo d’accordo. Tuo padre era troppo gentile». «E prima cosa facevi?». «Servivo semplicemente l’Alleanza. A dire il vero, mi piaceva così, avevo molti meno problemi». «Cos’hai combinato per indurre i cacciatori a sigillarti?».

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Aitan la guardò intensamente negli occhi e, con una serietà disarmante, ri-spose: «Puoi anche immaginarlo da sola, no?». «Hai ucciso molte persone?». «Mi piace uccidere, piccola Alis» disse passandosi il pollice sulle belle lab-bra. «E, ancor di più, mi piace il sangue ma, in fondo, sono quello che so-no». Alisia continuò a fissarlo e deglutì lentamente, intimorita. All’improvviso, lui cambiò atteggiamento e sembrò rilassarsi. «È stata la mia forza a indurli a lasciarmi in vita. Credevano sarei stato utile, e così è stato». «Come sei diventato così?». «Come sono diventato vampiro? Avevo circa vent’anni, e una donna bellis-sima mi ha stregato. E mi sono risvegliato così». «Come ti sei sentito?». Aitan la guardò con una strana espressione, come se si stesse chiedendo per quale motivo le interessassero quelle cose, poi però rispose: «Uno schifo. Non sapevo cosa diavolo mi fosse successo, avevo una percezione delle cose più ampia, avevo sete, ma niente sembrava dissetarmi, tutto aveva un sapore pessimo e, finché l’istinto non mi ha spiegato cosa do-vevo fare, stavo quasi per impazzire». «Ma poi ti è piaciuto…». «No, non subito. Quando ti senti ancora umano, certe cose ti segnano. Poi però, la vampira che mi aveva trasformato è tornata a cercarmi e mi ha por-tato con sé, insegnandomi i piaceri della caccia. E mi è piaciuto, tanto… l’adrenalina, il terrore della mia vittima… il sangue che scorreva nella mia gola dalla ferita che avevo procurato…». Alisia fu percorsa da un brivido freddo al solo pensarci. «Come lavorano i cacciatori?» chiese per cambiare discorso. «Croci, acqua santa…» Non ter-minò neanche di dirlo che Aitan cominciò a ridere come se avesse fatto la più divertente delle battute. «Che c’è? Perché ridi?». «Non mi hai mai chiesto nulla perché pensavi che ciò che sapevi sui vampiri fosse sufficiente? A me sembra che tu non sappia proprio niente!». Alisia arrossì per la vergogna, sentendosi una stupida. «Ok… niente croci o acqua santa… cosa serve allora?». «Nell’antichità i cacciatori attendevano solo il sole». «Bene, almeno la faccenda del sole è vera allora». «Sì, ma non come la conosci tu. Non ci polverizziamo alla luce del sole, semplicemente ci indeboliamo tanto che persino un comune umano potrebbe nuocerci. Neanche i vampiri più forti rischiano senza un buon motivo». «Quindi, al principio si aspettava il momento della vostra vulnerabilità. E ora?».

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«Ora è diverso, i cacciatori ci stanano di notte perché è più facile, dato che i nostri nascondigli diurni sono sempre meno facili da trovare. Nel corso dei secoli l’Alleanza ha sviluppato delle armi in grado di ferirci utilizzando il nostro stesso sangue». «Il vostro stesso sangue?». «Già… i comuni proiettili non ci scalfiscono neanche, ma i proiettili con la punta intrisa di sangue di vampiro, riescono a penetrare nella nostra carne. Questo di per sé non ci uccide, ma la rigenerazione ci toglie energie: più è grave la ferita, più energia spendiamo, più ci indeboliamo ed è facile decapi-tarci per renderci inoffensivi e poi bruciarci. Il fuoco, quando siamo a pezzi, è l’unico modo per ucciderci». «Non morite neanche se vi decapitano?» chiese scioccata la ragazza. «No, neanche se il nostro corpo viene ridotto in poltiglia. Siamo capaci di rigenerarci sempre e comunque. Ma se ogni cellula del nostro corpo viene distrutta, la rigenerazione non può avvenire e moriamo». «Be’… in fondo, siete già morti». Aitan sorrise, ma questa volta senza divertimento. «Ancora con queste no-zioni da film e libri horror? Noi non siamo morti». Non erano morti? Questo sì che la lasciò di stucco. «Quando diventiamo vampiri, avviene solo una trasformazione fisica che ci rende quello che siamo, ci fortifica, ci rende immuni alle malattie, e si bloc-ca il processo d’invecchiamento grazie alla capacità superiore delle nostre cellule di rigenerarsi. Per questo siamo eterni… anche se possiamo morire». In quel momento calò il silenzio. E dire che lei aveva sempre pensato di non volerne sapere niente… Quindi la storia dei non morti era tutta un’invenzione? «Perché esistono i vampiri?». «Perché esiste l’uomo? Perché esiste il mondo? Perché esiste l’universo?». Alisia sorrise, si sistemò con la schiena contro la spalliera della sedia e si portò le mani in grembo. «Mia madre è morta durante il parto… non l’ho mai conosciuta» disse… E non seppe neanche perché. «Avevo intuito che fosse morta». «Mio padre mi diceva sempre che le somiglio moltissimo». «Non è vero» esordì, sorprendendola, «tua madre era una donna insignifi-cante». Probabilmente avrebbe dovuto offendersi per quell’insulto alla madre che non aveva mai conosciuto, ma la sorpresa di aver ricevuto una sorta di com-plimento, ebbe il sopravvento. Quindi lui non la reputava insignificante. Era già qualcosa. Alisia si alzò per andare via. «Grazie», disse, per poi avvici-

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narsi alla porta. Non appena la raggiunse però, si bloccò, voltandosi di nuo-vo verso di lui. «Ancora una cosa». Esitò un momento prima di continuare. «Qual è la vera ragione per cui non mi hai detto che, bevendo con regolarità il mio sangue, affiniamo il nostro legame?». Aitan la guardò negli occhi: «Perché il tuo sangue mi piace troppo, Alis». La ragazza abbassò lo sguardo. Tornò verso il tavolo, guardandosi intorno. La sua attenzione fu catturata dal calice rimasto lì da prima che uscissero, lo afferrò e, sotto lo sguardo sorpreso del vampiro, lo scaraventò per terra. Il cristallo si frantumò e Alisia ne prese un pezzo in mano, per poi procurarsi un taglio sul dito indice della mano sinistra. Esagerò e si tagliò troppo. Una goccia di sangue cadde ma, prima che toccasse il pavimento, Aitan si mosse come un fulmine, eccitato dall’odore, e la raccolse con la lingua, inginoc-chiandosi ai piedi di lei. La ragazza lo guardò un po’ spaventata, aveva gli occhi scarlatti, le zanne in mostra… ma non si tirò indietro. Con un gesto lento, gli posò il dito sulle labbra calde. Sembrò esitare, la guardò come a chiederle se ne fosse vera-mente convinta. Non notando alcun cambiamento, il vampiro le prese la mano nelle sue e si infilò in bocca il dito sanguinante della sua padrona. Ali-sia restò senza fiato… Si sorprese a sentire un brivido di piacere e il suo vol-to avvampò di vergogna ed eccitazione. Aitan tolse il suo dito dalla bocca e, senza guardarla, disse: «Grazie. Era davvero delizioso». «Ora devo andare». Alisia andò via, travolta da un turbinio di emozioni.

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11 Aitan si portò distrattamente le dita alle labbra, sfiorandole pensieroso. Il sangue della ragazzina era davvero buono… se non si fosse già nutrito, a-vrebbe anche potuto rischiare di perdere il controllo, come stava per accade-re la prima volta che lo aveva assaggiato dopo essere stato liberato. La prima lieve sorsata era stata una vera sorpresa, una sorpresa che lo aveva rinvigori-to parecchio. Dopo alcuni minuti, Charles lo raggiunse riferendogli che il dottor Wilkins lo voleva sul campo. «Vado subito», disse alzandosi e preparandosi ad andare. «Credo sia il caso di procurarti un cellulare» commentò il vecchio. «Un cosa?». «Un cellulare. Almeno sarà più facile rintracciarti». «Ok…» Trascurando il fatto di non avere la più pallida idea di cosa potesse essere un cellulare, uscì e, seguendo le indicazioni fornitegli da Charles, raggiunse il gruppo di cacciatori di turno quella sera. Localizzare la loro e-satta posizione non fu un problema, dato che conosceva ormai l’odore di ognuno di loro. Il caposquadra era Jess Wilkins e gli si avvicinò per segnala-re la sua presenza. Edmund fu il primo ad accorgersi di lui e avvisò subito il suo padrone. «Aitan» lo salutò il giovane Wilkins con un gesto del capo. «Jess» replicò lui, «come siamo messi?». «Un mortorio. Non si vede nessuna testa calda in giro. Per ora». «Per ora» ripeté Aitan con un sorriso carico di aspettative. Aveva voglia di menare le mani. Una gran voglia. Jess fece un cenno al suo vampiro, e subi-to Edmund fornì ad Aitan un comunicatore Wireless. Dopo averlo indossato, partì insieme agli altri vampiri del gruppo per perlustrare la zona con i loro sensi superiori, muovendosi talmente veloce che gli umani neanche si ac-corgevano di loro. «Allora, Aitan». La voce del giovane Wilkins gli arrivò un po’ distorta nell’auricolare. «Come te la passi con la nuova padrona?» domandò con un tono malizioso nella voce. «È molto carina» aggiunse «e sembra essere un bel “bocconcino”». «Non mi posso lamentare».

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«Avanti Aitan! Con me puoi aprirti, lo sai». L’insistenza del giovane Wilkins di trattare tutti come fossero dei suoi gran-di amiconi, compresi i vampiri, lo irritava. Non aprì bocca e il capo squadra non ne sembrò contento, ma non insistette. Alisia non riuscì a concentrarsi a nessuna lezione. La sera prima le era arri-vata una comunicazione dai vertici dell’Alleanza che l’avvisava che la Ce-rimonia di Transizione sarebbe stata proprio la sera del ballo di Halloween. Non sapeva se essere tesa o felice di avere una scusa per disertare quell’inutile evento scolastico. Non appena la campanella trillò annunciando la fine della lezione e l’inizio della tanto attesa pausa pranzo, cominciò a si-stemare le sue cose con pigrizia finché qualcuno non la chiamò dalla porta dell’aula. La sorpresa s’impadronì di lei non appena vide la piccola Fuyumi. «Ciao!» la salutò raggiungendola. Aveva la divisa scolastica, quindi fre-quentava la Mildrheed. Questo la sorprese ancora di più. «Ciao… ehm… non sapevo frequentassi questo istituto». «Sì, lo so. Sono molto brava a passare inosservata. Sai, non è facile avere degli amici quando… be’, lo sai». Già, non era facile avere degli amici quando avevi un segreto da custodire. «Ora che ho scoperto che anche tu sei come me, sarà diverso, non trovi? Avere qualcuno con cui parlare senza dover mentire». «Già, è vero». «Andiamo a pranzo insieme?». «Certo». Si allontanò con lei verso la sala mensa e si sedettero allo stesso tavolo. Fuyumi parlava molto, ma le piaceva ascoltarla. Discussero anche del messaggio dell’Alleanza. «Sono davvero tesa ed eccitata allo stesso tempo! Nessuno può dirci cosa ci aspetta, finché non saremo lì» disse Fuyumi e Alisia annuì, sentendosi a di-sagio. La sua nuova amica pareva elettrizzata all’idea della Cerimonia. Ali-sia invece… non era sicura di niente. Continuarono a parlare e poi si scam-biarono i numeri di cellulare. Proprio in quel momento, qualcuno si avvicinò a loro e le due alzarono il capo. Mark. «Ciao» salutò il giovane. «Ciao Mark, lei è Fuyumi». Il ragazzo accennò un altro saluto con un gesto del capo, abbozzando un sorriso, poi si rivolse di nuovo ad Alisia. «Senti… posso parlarti un attimo? Da solo?». La ragazza si sorprese di quel comportamento, ma decise di accontentarlo e, scusandosi con Fuyumi, si allontanò con il compagno. Raggiunto un corridoio vuoto, si fermarono. Mark si guardò attorno, piantò per bene i piedi per terra e si passò una mano tra i capelli. Sembrava nervo-

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so. «Senti… ehm… volevo chiederti…» fece una pausa, ma lei non gli portò fretta. «Sì, insomma… ti va di… di venire al ballo con... me?». Era consapevole di aver spalancato la bocca per la sorpresa e, con uno sfor-zo immane, riuscì a darsi un contegno. Aveva sentito bene? Mark l’aveva invitata al ballo? Porca miseria! La sua euforia però andò scemando non ap-pena ricordò il piccolo particolare della Cerimonia di Transizione. «Ma di solito non ci vai con MaryLu?». Si diede mentalmente della stupida. «S… sì, ma lei è solo un’amica. Per una volta vorrei… vorrei andarci con la ragazza che mi piace». La guardò dritto negli occhi, mettendola a disagio. Quanto avrebbe voluto dirgli di sì… abbassò gli occhi e si preparò a dirgli di no. «Mi dispiace, Mark, ma non posso». «Te l’ha già chiesto qualcun altro?» domandò lui, la cui risolutezza comin-ciava a mostrare segni di cedimento. «No… è che ho un impegno per quella sera, non verrò al ballo». «Oh… non è che è solo un modo gentile per dirmi che non ti piaccio?» cer-cò di scherzare lui. «No! No, cosa dici? Tu… mi piaci Mark e ti direi di sì, se potessi». Eccome se gli direbbe di sì. «Ok. Be’, allora niente ballo». «Mi dispiace». «Però, potremmo… potremmo uscire insieme, qualche volta». Grande! «Certo, mi farebbe molto piacere». L’umore di lui parve rialzarsi un po’ e le fece un bellissimo sorriso. Giunse un gruppetto di ragazzi e Mark le si avvicinò ancora di più per lasciar passa-re. Se lo ritrovò vicinissimo e arrossì. «La pausa sta per finire, meglio se torniamo indietro», disse il giovane prendendole una ciocca di capelli tra le mani, giocandoci quasi senza badarci. Lei annuì e lui si allontanò, per poi camminare al suo fianco verso l’aula. Intercettò Charles prima che portasse la razione di sangue ad Aitan e gli rife-rì che gliel’avrebbe portata lei. Dovevano ancora parlare della Cerimonia. Giunta davanti alla porta della camera del vampiro, cercò di destreggiarsi per bussare, ma la porta si schiuse prima ancora che potesse toccarla. «Entra» disse Aitan dall’interno. Di sicuro aveva percepito l’odore del san-gue e l’attendeva ansioso. Lo trovò steso su un fianco sopra il letto, i capelli ancora umidi, la camicia sbottonata, mentre accarezzava il pancino di un gattino tutto bianco che sembrava apprezzare largamente quelle coccole. Non appena vide il conteni-tore termico, gli occhi del vampiro si colorarono di rosso, si alzò e si avvici-nò alla ragazza. Il cucciolo si raddrizzò e spalancò due occhi verdi simili a

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quelli di Aitan quando era calmo, contrariato che le carezze fossero termina-te. «Lui chi è?» domandò Alisia con un sorriso, continuando a fissare l’animale. «L’ho trovato nel giardino quando sono tornato all’alba» rispose Aitan ver-sandosi il sangue nel calice. La ragazza si avvicinò al letto e ci si sedette so-pra, allungando la mano verso il gattino che, dopo un attimo di diffidenza, si lasciò toccare, felice di aver trovato un sostituto che lo coccolasse. «Che ca-rino! Gli hai già dato un nome?». «Ehm… gatto?». Alisia scosse il capo. «Che fantasia… devi trovare un nome carino». «Palla di pelo?». «Ma è maschio o femmina?». «Femmina». «Cosa ne dici di… Neve? È così bianca e carina». «Chiamala come ti pare». «Ciao, Neve» concluse lei afferrando con dolcezza la minuscola testa della gattina tra le mani e avvicinandola al viso, quasi volesse darle un bacio. Un suono profondo e gutturale la sorprese, facendola voltare verso Aitan, che però pareva non badare a loro, troppo occupato a bere. Si alzò dal letto e, non appena lui ebbe terminato la sua razione, gli chiese: «Ne vuoi anche un po’ del mio?». Aitan la guardò per un momento. I suoi occhi erano tornati normali. «Da quando sei entrata, ho percepito l’odore distinto di un’altra persona». «Cosa?». «Un maschio. Hai l’odore di un giovane uomo addosso». Alisia era sorpresa. «Deve essere l’odore di Mark. Mi ha chiesto di andare al ballo di Halloween con lui». «E per chiedertelo ti si è strusciato contro?». Lo guardò allibita. «Ma che hai? E comunque no, siamo stati vicini, ma non…». «Hai intenzione di andare a questo ballo?». «Mi sarebbe piaciuto andarci, specie con lui, ma non posso: c’è la Cerimo-nia di Transizione quella sera». «Bene». «Bene? Mi spieghi cos’hai?». «Non mi piace sentire l’odore di un altro mischiato al tuo». «Questo vuol dire che non vuoi il mio sangue?». «Non finché sentirò quell’odore rivoltante». Ok, doveva essersi alzato con il piede sbagliato. Cos’era tutta quell’ostilità?

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«Come ti pare» disse stizzita. «Però ora cerca di darti una calmata e parlia-mo della Cerimonia». «Lo sai che non posso dirti nulla». «Lo so. Volevo solo sapere… dovrò affrontarla da sola?». «Io sarò sempre presente». Non sapeva se essere sollevata o no. «Ok» rispose, per poi distrarsi a osser-vare Neve che sonnecchiava sul letto di Aitan. «La porto di sopra con me» disse, per poi prenderla in braccio e dirigersi verso la porta. «Aspetta». Udendo quella semplice parola, pronunciata con autorità, Alisia si irritò e si voltò a guardarlo seccata. «Cosa vuoi?». «Ho cambiato idea. Vieni qui». «Ma davvero? Adesso però non va a me, perciò ciao». Non appena si voltò per andarsene, Aitan la bloccò circondandola con le braccia, stringendola forte a lui. Le si mozzò il fiato in gola per la sorpresa, mentre la schiena premeva contro il petto del vampiro e le sue braccia la stringevano forte. Percepì il suo fiato caldo sulla guancia e il cuore partì a tutta velocità, bat-tendo come le ali di un colibrì. «Vorrebbe la mia padrona essere tanto gentile da concedermi il suo san-gue?» le sussurrò in un orecchio. Non riuscì a dirgli di no. Non seppe per-ché, ma proprio non ci riuscì. Annuì con un cenno del capo e, in quel mo-mento, non lo sentì più al suo fianco. Si voltò, sentendosi come se si fosse staccata una parte di sé. Aitan era di nuovo seduto sulla sedia e la guardava in modo indecifrabile, con le iridi che si coloravano lentamente di rosso. A-lisia lasciò il gattino per terra, gli andò vicino e gli mise un dito su quelle bellissime labbra... Aitan con un movimento veloce la fece sedere sulle sue ginocchia, con le gambe raccolte tutte da un lato, tenendola stretta alla vita col braccio destro. Le prese la mano nella sua, aprì la bocca e lasciò che lei gli sfiorasse i lunghi denti bianchi per un po’, poi la graffiò con la punta di un canino e ne assaporò il fluido caldo che ne uscì. E, ancora una volta, Ali-sia provò delle sensazioni che la fecero arrossire. Nascose il viso timidamen-te nell’incavo tra la testa e la spalla di lui e, con la mano libera, si aggrappò forte al suo braccio muscoloso. Mentre lui le succhiava il sangue dal dito indice lei, con cautela, prese a sfiorargli il mento liscio con il polpastrello del medio. Sperava di non innervosirlo e, notando che non si scostava, con-tinuò a toccarlo con dolcezza finché non ebbe terminato. Quando le lasciò andare la mano, lei continuò ad accarezzarlo, per poi po-sargli la mano sul petto e restare così, immobile. Il vampiro la lasciò stare, ma poi: «È meglio se vai ora» le disse. Non se lo fece ripetere ancora, sen-tendosi a un tratto piena di vergogna.

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Nonostante l’odore estraneo mischiato a quello della ragazzina lo avesse in-spiegabilmente innervosito, la voglia di assaggiarla era stata più forte e alla fine aveva ceduto. «Aitan?» solo in quel momento si rese conto che il dottor Wilkins stava par-lando con lui. Non gli aveva proprio prestato attenzione, troppo occupato a perdersi nel ricordo del gusto inebriante di Alis. «Sì?». «Come sta andando con Alisia? Sembra si stia abituando a te». «Sì, ma non sembra ancora essersi abituata a ciò che la mia presenza com-porta». «Cosa vuoi dire?». «Sembra interessata a me solo per la novità, diciamo. Non credo si sia resa del tutto conto di cosa voglia dire essere una cacciatrice. Ancora non è pre-parata correttamente sul nostro mondo, ma è raro che faccia domande. È come se non si sbilanciasse più di tanto perché non si sente davvero parte dell’Alleanza, come se fosse solo una specie di visitatrice di passaggio». Wilkins annuì pensieroso. «Credo sia normale. È ancora confusa…». A quel punto Aitan lo interruppe dicendo: «Ascolti, dottore. Confusa o no, se non è pronta per affrontare la Cerimonia, cosa crede che accadrà?». «Lo vedremo, Aitan». Il vampiro osservò la marea di gente che passeggiava per le vie della città, ignara che tra loro i vampiri li osservassero pronti a scegliersi il prossimo pasto. «Già… vedremo». «Aitan… comprendo che lei sia una… come dire… una seccatura, per te, dato che è ancora inesperta. Ma gradirei che tu le stessi vicino e la sostenes-si». «Ci proverò». “Sempre che impari una buona volta a darmi ordini”. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...