Attrazione di sangue

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Attrazione di sangue ATTRAZIONE DI SANGUE Victory Storm

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Romance vampire story for young adult

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ATTRAZIONE DI SANGUE

Victory Storm

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PROLOGO

16 novembre 2011

«Vera Campbell».

Annuii.

«Diciassette anni. Capelli e occhi castani, viso pallido, non particolarmente alta, fin troppo esile… Insomma, insignificante» osservò la madre superiora con un tono carico di disprezzo, facendo scorrere lo sguardo sul mio corpo in piedi davanti a lei, teso come una

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corda di violino.

L’ennesima accoltellata nei confronti del mio fisico poco appariscente. Già lo sapevo, ma sentirselo dire rendeva la cosa ancora più ovvia e brutale.

«Dai voti della tua ultima pagella mi sembra di notare che c’è ben poco anche sotto l’aspetto fisico» continuò la suora con voce severa e maligna, sfogliando il mio fascicolo personale che riempiva la sua possente scrivania.

«Veramente non ho mai avuto un’insufficienza in pagella e cerco d’impegnarmi…» protestai. Va bene che ero inguardabile, ma anche ignorante no!

Inoltre mica era colpa mia se spesso ero stata assente alle lezioni a causa della mia salute.

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«Ti ho forse detto che potevi parlare?» urlò la donna al colmo dell’indignazione.

Mi sentii mancare. Era da quasi venti minuti che restavo lì, in piedi, in tensione, davanti alla rettrice del collegio cattolico, dove avrei passato sicuramente almeno i prossimi due mesi, lontano da mia zia Cecilia, l’unico mio vero punto di riferimento. Senza contare tutto quello che avevo passato negli ultimi giorni, nonché il vero motivo di quel soggiorno forzato!

«Orfana di madre. Padre sconosciuto. Affidata a Cecilia Campbell, una suora che ha abbandonato l’abito per prendersi cura della nipote. Mmh… Qui dice anche che sei malata… Una forma molto rara di anemia» lesse la madre

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superiora su un altro foglio con un tono di puro disprezzo.

Mi sembrò di ricevere un schiaffo in pieno viso. Non ero abituata a suscitare disgusto quando si parlava della mia salute. In genere venivo spesso circondata da affetto e comprensione.

«C’è addirittura una raccomandazione riguardo alla tua dieta. Ricca di proteine e molta carne di maiale o bovino, poco cotta. No pollame» commentò la donna, come se fosse sul punto di vomitare.

Non riuscii ad annuire. Mi sentivo brutalmente presa di mira da quegli occhi grigi, che sembravano volermi trafiggere come pugnali.

«Come se non bastasse qui c’è scritto anche che devi bere almeno una volta

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al mese 50 cl di liquido prelevato dal sistema arterio-venoso di suini o bovini… Inaudito! Devi bere sangue animale? Questo è scandaloso!» sbottò la rettrice, tutta rossa in volto dal disgusto, continuando a leggere il mio dossier, sul quale, a quanto pareva, qualcuno si era preso la briga di scrivere tutto su di me e sulla mia vita.

Avrei voluto ribattere che era l’unico modo per tenermi in vita e che mia zia aveva fatto mille sacrifici per salvarmi, dopo che le fui affidata in seguito alla morte di mia madre, che mancò poco dopo avermi partorito.

Inoltre mia zia diceva sempre che bere sangue non era poi così scioccante, perché in certi paesi dell’Oriente, era usanza bere il sangue caldo di serpente contro i

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reumatismi, quindi non era una cosa così strana.

«Il tuo medico non lo sa che oggigiorno esistono le trasfusioni?».

«Si, ma purtroppo è stato riscontrato che per avere dei benefici più immediati e prolungati nel tempo, il mio organismo reagisce meglio quando viene coinvolto anche l’apparato digerente» sussurrai, incespicando nelle parole. Nemmeno io avevo mai capito veramente il motivo del perché le trasfusioni non mi rinvigorissero abbastanza, come bere la mia “emodose”, come la chiamavamo mia zia ed io.

A volte la mia anemia riusciva ad indebolirmi a tal punto da perdere i sensi.

Mi bastava la mia “medicina” e

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subito riacquistavo il mio udito e la mia vista perfetti e il senso di affaticamento che percepivo prima svaniva del tutto.

La madre superiora emise un lungo sospiro, lasciandosi sprofondare nella dura e nera poltrona, su cui era comodamente seduta, mentre io non avevo neanche avuto il permesso di sedermi.

«Se tu sei qua, è solo perché me l’ha chiesto il cardinale Siringer in persona, ma voglio che sia chiaro che questo non è un rifugio per disadattati, ma un illustre collegio, che segue e rispetta le volontà del Signore»

Padre Dominick mi aveva già parlato di quel prestigioso collegio, antico castello di Melmore, che si ergeva sulle rovine sacre della Melmore

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Abbey, una delle abazie più antiche e sopravvissute alle varie guerre in Irlanda. Sapevo che lì sarei stata al sicuro, ma ora mi sentivo in una prigione buia e fredda. Anche il clima mi era avverso. Ormai l’inverno era alle porte e sapevo che per molto tempo non avrei più rivisto il sole.

Inoltre quella zona era piuttosto soggetta a precipitazioni e banchi di nebbia.

Se volevo sopravvivere, avrei dovuto trovare qualcosa di bello, altrimenti sarei impazzita.

«Bene. Puoi andare. Troverai Suor Agatha che ti guiderà alla tua stanza, dove troverai due divise da indossare sempre, una tuta da ginnastica e l’orario delle lezioni, che dovrai cominciare a seguire a partire da domattina. Hai tempo un’ora per

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sistemare le tue cose e dirigerti in chiesa per la messa. Sii puntuale» mi congedò la madre superiora con un cenno della mano.

Mi sembrava di aver messo radici, talmente feci fatica a muovermi e girare i tacchi.

Non dissi nulla. Mi voltai, aprii la pesante porta e uscii.

Avevo appena varcato l’uscita dell’ufficio, quando mi si avvicinò nervosamente una monaca di mezza età, rimasta seduta fuori tutto il tempo ad aspettarmi su una sedia in noce scuro.

«Sono suor Agatha. Tu devi essere Vera Campbell, la nuova arrivata. Vieni. Ti accompagno nella tua nuova stanza, che dividerai con Maria Kelson, una tua coetanea. È un po’

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timida, ma molto devota al Signore… Non mi stupirei se un domani decidesse di prendere i voti» spiegò la religiosa assorta nei suoi pensieri.

Intorno a me si aprirono corridoi e scale in pietra freddi e umidi. Il silenzio, che regnava in quel posto, era raggelante.

Udivo solo il rumore dei nostri passi.

Mi sembrava di essere stata improvvisamente catapultata in un’altra epoca.

Sinceramente non credevo che posti come quello potessero essere ancora abitati o addirittura adibiti a collegio per ragazzi.

Continuavo a guardarmi intorno esterrefatta.

Sul lato destro vi erano molte finestre

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strette e alte, dall’aspetto gotico, che rendevano l’atmosfera ancora più sinistra. Rimasi talmente colpita dall’austerità del luogo, che ascoltai a malapena le parole della suora, che continuava a parlare meccanicamente: «Dopo le nuove leggi sull’integrazione, anche il nostro collegio ha dovuto adattarsi, così ora questa istituzione è aperta sia ai maschi, sia alle femmine. Al pian terreno ci sono le aule, la palestra e la mensa, mentre al secondo piano c’è il dormitorio. L’ala ovest è riservata ai maschi e l’ala est alle fanciulle. Al terzo piano, come hai potuto constatare ci sono i vari uffici e le stanze private degli insegnanti, oltre a un’immensa biblioteca, a cui potrai accedere solo tramite l’autorizzazione di suor Elizabeth. La cappella occupa l’intera

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ala a nord, proprio di fronte agli orti e alle stalle. Per accedervi è necessario uscire e fare il giro del collegio».

Suor Agatha continuava a parlare con il suo tono piatto ma svelto. Anche lei non sembrava particolarmente gentile o calorosa. Possibile che nessuno mostrasse un po’ di compassione di fronte alle nuove recluse?

«Ti ricordo anche che nei corridoi non si urla, non si corre e si devono rispettare gli orari. Si fa colazione alle h 7.00, pranzo alle h 12.00 e cena alle h 19.00 dopo la messa delle h 18.00. Ricordati di indossare sempre la divisa della scuola quando esci dalla tua stanza e non lasciare mai i tuoi affetti personali in giro per la camera, altrimenti ti verranno

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sequestrati e buttati via».

Quella non era una prigione, ma peggio!

Scendemmo le scale, percorremmo un lungo passaggio per poi girare a sinistra e infilarci in un altro tetro corridoio dalle pareti umide e scure.

Sentivo l’umidità penetrarmi nelle ossa e un odore di muffa mi riempì i polmoni, facendomi venire la nausea.

«Questo è il dormitorio. Troverai la tua stanza alla terza porta a destra. In fondo c’è il bagno. Preparati che tra cinquanta minuti si va a pregare» concluse la suora, prima di andarsene.

«Grazie» sussurrai, ma dalla mia bocca uscì solo un debole soffio inconsistente.

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Percorsi da sola gli ultimi metri e aprii quella terribile porta di legno scuro con la maniglia nera, che nascondeva la mia stanza.

Mi bastò una rapida occhiata: due letti, due comodini, due armadi per contenere il minimo indispensabile, due piccoli tavoli con due sedie e un enorme crocifisso in mezzo.

Sul letto a sinistra c’era la mia valigia e alcuni indumenti, mentre seduta sulla sedia accanto al letto a destra c’era una ragazza intenta a leggere il libro “Nelle mani di Dio”.

«Ciao, sono Vera Campbell, la tua nuova compagna di stanza. Tu devi essere Maria?» provai a dialogare.

La ragazza sollevò gli occhi dal libro e annuì sorridente.

Aveva il viso rotondo e lentigginoso. I

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capelli castano chiari erano raccolti in una coda di cavallo e gli occhi verdi sembravano gentili.

Indossava la divisa che avrei dovuto a breve mettere anch’io: un tailleur blu dal taglio molto sobrio e con il disegno dell’abbazia ricamato sul taschino sul petto e una camicia bianca.

Il mio primo pensiero fu: il blu non mi donava, ma ero troppo stanca per preoccuparmene.

Con lentezza aprii il borsone. Conteneva giusto quel minimo indispensabile che ero riuscita a portar via da casa prima di quell’improvvisa fuga disperata che dovetti fare.

In cima alla pila di vestiti, avevo messo anche una foto di me e zia

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Cecilia abbracciate davanti al cancello della fattoria.

Vedere quell’immagine mi fece pizzicare gli occhi.

Quanto mi mancava!

Avrei voluto che fosse lì con me!

Sicuramente non avrebbe mai permesso che qualcuno si rivolgesse a me in quel modo, come aveva appena fatto la madre superiora.

Posai la foto sul comodino. La volevo avere vicino, per quanto possibile.

«Scusa, ma quella foto è meglio se la tieni dentro il cassetto del comodino, altrimenti domani verrà buttata» mi disse Maria, avvicinandosi a me.

«Ma io…».

«Lo so, lo so. È successo anche a

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me… e il mattino seguente la foto di mia nonna non c’era più. Dammi retta» mi rassicurò lei con voce candida.

Con un sospiro sconsolato, misi via la foto. Era troppo preziosa per permettere a qualcuno di buttarla nell’immondizia.

Ordinai i vestiti e gli oggetti personali.

Stavo per mettere via la valigia, quando mi resi conto che mancava qualcosa.

L’astuccio dei trucchi!

«Il mio rossetto, il mio mascara, i miei ombretti… Sono spariti!» strillai sdegnata.

Guardai Maria.

Lei si limitò ad alzare le spalle e mi

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spiegò: «Persi! Le suore ti avranno controllato la borsa, come fanno sempre alle nuove arrivate e ti avranno messo via ciò che qui non ti serve».

Avrei voluto urlare! Non tanto per i cosmetici buttati, ma perché detestavo le persone che curiosavano nelle mie faccende private!

Ormai allo stremo delle forze, mi cambiai davanti allo sguardo imbarazzato di Maria, che riprese a leggere seduta sulla sua sedia.

Avevo ragione: il blu non mi donava particolarmente!

Guardai l’orologio. Avevo ancora venti minuti prima della messa. Diedi ancora un’ultima occhiata alla stanza.

Aveva le pareti ingrigite e i mobili

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erano in noce scuro.

Insomma, deprimente. Come tutto il resto.

Buttai per terra la valigia e mi tuffai sul letto.

Volevo solo dimenticare. Chiusi gli occhi.

L’immagine di due occhi color ghiaccio che mi trafiggevano si fece subito vivida nella mia mente.

Una sfrecciata di brividi mi percorse tutta la schiena.

Sobbalzai dalla paura.

Ancora lui! Era un tormento. Era colpa sua se mi trovavo là.

Ero così sfiancata! Avrei tanto voluto sentire la voce di mia zia Cecilia che mi rassicurava, come faceva sempre

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quando qualcosa andava storto.

Provai a pensare a lei e a vedere con la mente il suo viso sorridente, ma non riuscii a scacciare quei terribili occhi azzurri.

Infine senza rendermene conto, mi addormentai.

Ero esausta e incapace di vedere il mio futuro.

La mia vita si era infranta solo un mese prima e ora non sapevo più chi ero e cosa fare.

Tutto era cambiato.

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Parte prima

QUARANTA GIORNI PRIMA

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VISITE

4 ottobre 2011

Quattro in biologia.

Non potevo portare quel brutto voto a zia Cecilia.

Era da un mese che continuavo a ripeterle che avrei recuperato l’insufficienza dell’altra volta e invece…

Sapevo che non si sarebbe arrabbiata, ma non volevo darle un dispiacere, dato che era stata proprio

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lei ad aiutarmi a studiare per il compito in classe.

L’autobus si fermò davanti alla fattoria, poco prima della fine del Viale delle Quattro Croci, che terminava ai piedi della folta pineta di Landskare.

«Capolinea» mi urlò Joshua, l’autista dal posto di guida, distogliendomi dalle mie preoccupazioni.

«Grazie. Ci vediamo domani» lo salutai distratta.

«A domani, Vera».

Pochi metri e varcai il cancello della fattoria.

Vidi Ahmed, il nostro vecchio tuttofare tunisino, intento a radunare le galline nel pollaio.

«Ahmed, ciao! Com’è andata oggi?»

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gli chiesi gentilmente.

L’uomo grugnì.

«Freddo umido e mal di schiena» rispose Ahmed.

Era sempre stato uno di poche parole. Dopo dieci anni di convivenza ormai avevo capito che amava stare con me e la zia, ma detestava il clima piovoso irlandese, che gli causava spesso qualche fastidioso dolore alle ossa.

«Dai, dico alla zia di prepararti il solito impacco, che ti dà sempre tanto sollievo» lo confortai.

Ahmed mi sorrise riconoscente.

Senza aggiungere altro varcai la porta d’ingresso della casa.

Profumo di torta alle mele. La mia preferita.

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Questo significava due cose: la prima era che non potevo dire alla zia del mio brutto voto per non rovinarle la giornata e la seconda era che in casa doveva esserci anche padre Dominick, il prete più simpatico e generoso del mondo.

Anche lui adorava la torta di mele, così zia Cecilia la preparava sempre quando lui veniva a farci visita.

Posai scarpe, giacca e zaino nell’ingresso e mi diressi verso il salotto, dove la zia chiacchierava divertita con padre Dominick.

«Ciao».

«Vera, tesoro, vieni. Ti abbiamo aspettato per il tè» m’invitò la zia con la sua voce morbida e dolce, che metteva sempre tutti a proprio agio.

«Vera, ciao. È passato solo un mese

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dall’ultima volta, ma mi sembra di vederti più cresciuta» mi salutò il prete.

«Se fossi cresciuta anche solo di un centimetro tutte le volte che me lo dici, a quest’ora sarei alta quasi tre metri» risposi io ridendo.

Anche Dominick scoppiò in una fragorosa risata.

Lui non si offendeva mai di fronte alle mie battute e la zia ormai non ci faceva più caso.

Poi arrivò la merenda. La zia servì il tè e la torta di mele.

Appena affondai i denti nel dolce profumato, mi sentii subito meglio, almeno finché non mi andò di traverso il boccone a causa della domanda della zia.

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«Com’è andata a scuola?» mi chiese.

«Bene».

«Il professor Hupper ti ha consegnato il compito di biologia?».

Possibile che mia zia non si dimentichi mai di niente?

Come faceva sempre ad avere sotto controllo ogni singola cosa?

«No» mentii, cercando di concentrarmi sull’aroma del tè.

Stavamo ancora finendo la merenda, quando il telefono squillò.

«Vado io. Sarà sicuramente Duncan McDowell per la storia del bestiame che ho comprato l’altro ieri» pensò la zia ad alta voce.

Appena la zia si allontanò (era proprio Duncan McDowell al

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telefono), padre Dominick mi dedicò tutta la sua attenzione.

«Allora, come stai?» mi chiese con sguardo serio.

«Bene».

«Hai pensato a quello che ti ho detto la scorsa volta sull’amore di Dio?».

«Si, ma ti ho già detto che ho dei dubbi sulla giustizia del Signore. Troppe cose in questo mondo vanno storte. Tutto questo amore di cui parli non lo vedo».

«È dentro di noi».

«Sì, però allora perché tante persone commettono peccati? Senza contare che spesso i più fortunati sono anche i meno meritevoli» m’infervorai.

Arreso il prete scosse il capo. Era da mesi ormai che mi parlava di amore,

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misericordia e giustizia divina e io continuavo a tirargli fuori episodi d’ingiustizia quotidiana o di guerre.

«Invece tu non commetti mai dei peccati?».

Ecco, era arrivato il momento della confessione.

«No, mai» lo sfidai io.

«È peccato anche solo dire una frase del genere» mi rimproverò lui.

«Già. Almeno adesso posso dirti che ho detto una bugia, quindi ho peccato» lo presi in giro io.

Il prete mi guardò un attimo confuso.

«Tutto qui?».

«In realtà ho anche rubato dei soldi alla zia per comprarmi le sigarette, poi ho picchiato una mia compagna e

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infine ho anche copiato il compito di biologia in classe» conclusi io divertita nel vedere l’espressione scioccata sul viso di Dominick.

Non potei fare a meno di scoppiare a ridere e questo tranquillizzò non poco il vecchio prete.

«Hai fatto tutto questo?» mormorò incerto.

«Ma ti pare che io possa fumare dopo tutti i problemi che ho a causa della mia anemia? Inoltre non potrei mai rubare i soldi alla zia, che fa già mille sacrifici per mantenerci. La rendita che riceve mensilmente ci basta a malapena e siamo in ritardo sulla paga per Ahmed di due settimane» chiarii io con voce ferma.

«Ma hai picchiato veramente una tua compagna?».

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«Figurati, anche se non ti nego che lo vorrei fare. Patty Shue è la persona più disgustosa del mondo. Solo perché è bella e simpatica si crede di essere chissà chi» sbottai.

«Ti ho già detto che devi ignorare quella ragazza».

«Si, ma non ci riesco dato che mi sfotte sempre. Dice che sono cadaverica. Ti lascio immaginare il comportamento dei miei compagni maschi quando mi vedono in sua presenza. Un fantasma farebbe meno schifo!».

«Lasciala perdere».

Sbuffai seccata. Mi bastava parlare di Patty Shue per mettermi di cattivo umore.

«Piuttosto dimmi se è vero che hai copiato il compito» mi chiese lui,

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cercando di cambiare discorso.

«No, infatti ho preso un quattro» confessai affranta.

«La zia lo sa?»

«Non so come dirglielo. Credo che per questa volta, farò finta di niente» escogitai.

«Vera» mi reguardì con lo sguardo carico di rimprovero.

«Sto scherzando».

«Hai combinato altro, per caso?».

«In effetti, sì» sussurrai con un filo di voce.

«Cosa?».

«L’altro ieri mi sono fatta un’emodose di nascosto».

Padre Dominick rimase pietrificato dallo shock.

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«Non ti basta più una dose ogni venti giorni?» mi chiese preoccupatissimo.

«Sì, ma ultimamente ho sforzato troppo il mio organismo, così mi sono ritrovata con le energie a terra. A scuola abbiamo avuto un supplente di motoria, che non conosce il mio problema, così mi ha fatto fare un sacco di esercizi faticosi».

«Ma perché non gliel’hai detto?».

«L’avrei fatto, ma poi quell’idiota di Patty Shue ha cominciato a urlare all’insegnante che la ‘malatina’, cioè io, non poteva fare questo e quello, così mi sono arrabbiata. Volevo dimostrare che ce la potevo fare!».

«Hai fatto una sciocchezza!».

«Tu non capisci! Comunque la colpa del mio indebolimento è anche stata mia, perché l’altro ieri mattina ho

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perso l’autobus e dato che la zia era già partita con Ahmed verso la fattoria dei McDowell per comprare del bestiame, mi sono fatta a piedi circa cinque chilometri. Sono arrivata a scuola con un’ora di ritardo, ma non mi hanno fatto storie perché ho raccontato che mi ero sentita poco bene strada facendo».

«Immagino che la zia non sappia nulla di tutta questa storia» commentò il prete addolorato.

«No. Lo sa solo Ahmed, perché mi ha visto che stavo male e gli ho raccontato quello che mi era successo» terminai.

Intanto la zia tornò in salotto con un gran sorriso stampato sul viso.

«Di cosa stavate parlando?».

«Niente» esclamammo in coro.

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«Bene, invece io ho una splendida notizia per Vera. Parlando con il signor McDowell, ho saputo che suo figlio, Ron, è molto bravo in scienze, così gli ho chiesto se era disposto a darti ripetizioni» rivelò soddisfatta la zia.

«Che cos’hai fatto?» sbottai io furiosa. Ron era, sì, un cervello della matematica e delle scienze, ma era spocchioso e inavvicinabile a causa del suo alito all’essenza di topi morti.

«Hai sentito benissimo e poi a quanto pare ne hai un gran bisogno, dato che mi ha detto che dopo il compito di ieri, ora hai una media del tre e mezzo» sibilò la zia.

Spocchioso, inavvicinabile e traditore! Maledetto.

Come si era permesso di dire alla zia

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del mio voto?

Io mica ero andata da suo padre a dirgli che suo figlio aveva un assoluto bisogno di mentine rinfresca-alito.

Ero furiosa.

«Quando pensavi di dirmi che anche l’ultimo compito era andato male?».

«Non saprei. Forse in un’altra vita» cercai di scherzare, ma la zia non sembrava affatto in vena di umorismo.

Non potei fare a meno di guardare padre Dominick, che se la rideva sotto i baffi con la tipica espressione “Te l’avevo detto!”.

Mi resi conto che era giunta l’ora di battere in ritirata.

«Allora io vado a studiare» mi congedai timidamente.

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«Direi» sibilò di nuovo mia zia minacciosa.

«Bene. Allora, ciao e buona continuazione senza di me» mi rivolsi a Dominick.

«Alla prossima. Ciao, Vera» mi salutò il prete, abbracciandomi.

Presi il mio zaino e un’altra fetta di torta, poi mi avviai in camera mia al piano di sopra a riflettere.

Posai la sacca sulla scrivania spoglia.

Quanto avrei voluto riempirla con un bel computer, ma purtroppo non potevamo permettercelo.

Mi cambiai, cercando di aprire delicatamente l’anta rotta dell’armadio, aspettando che Ahmed riuscisse a ripararla e poi mi sedetti sul letto pensierosa, mangiucchiando

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le ultime briciole della torta.

La relazione di storia che dovevo fare per il giorno dopo poteva aspettare. In quel momento dovevo assolutamente trovare un sistema per liberarmi di Ron. Sarei morta piuttosto che fare un’ora di biologia con lui.

Avrei potuto dirgli che la mia malattia era contagiosa.

Sicuramente una cosa di questo tipo l’avrebbe fatto scappare a gambe levate.

Mi stravaccai sul letto e cominciai ad ingegnarmi a trovare mille soluzioni per evitare Ron e per distruggere quella strega di Patty, dato che c’ero.

Alla fine mi addormentai e non pensai più a niente.

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Quando mi svegliai era quasi ora di cena.

Avevo la gola arsa, così decisi di andare in cucina a bere un po’ del succo di pompelmo che avevo aperto la mattina per colazione.

Feci per scendere le scale quando udii la voce di padre Dominick.

«…emodose?».

«Si, lo sapevo. Ahmed me l’ha raccontato. Si è solo sentita male, ma non credo sia nulla di grave. A te è sembrata cambiata?» commentò la zia.

«No, assolutamente, ma l’Ordine ormai le sta addosso. Continuano a chiedermi relazioni su relazioni e spesso qualcuno passa di qua a vedere come prosegue la situazione. A quanto pare, mi sembra di aver

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capito che a volte si spacciano pure per supplenti della sua scuola. È vergognoso!».

«L’importante è che Vera non si accorga di nulla! Lei deve continuare a vivere la sua vita qui con me. Una vita tranquilla» mormorò zia Cecilia con voce rotta dall’emozione.

«Stai calma! Finché il cardinale Montagnard sarà in vita, non le succederà nulla. Nonostante i solleciti del cardinale Siringer, l’Ordine non può far nulla senza un comando di Montagnard e lui non permetterebbe mai che possa accadere qualcosa a Vera» la rassicurò padre Dominick.

«Già».

Scese il silenzio tra i due.

Alla fine si congedarono e il prete se

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ne andò.

Rimasi bloccata in cima alle scale.

Era la prima volta che sentivo parlare di cardinali e di quest’Ordine. Chi erano? Cosa volevano?

Ma soprattutto, perché erano interessati a me?

Avrei voluto chiedere spiegazioni alla zia, ma sapevo che questa volta avrei dovuto tenermi questa cosa per me.

Nessuno doveva sapere che avevo sentito quella conversazione. Né la zia, né Ahmed, né padre Dominick.

La mattina seguente mi alzai con fatica. Avevo lavorato fino alle h 2,00 del mattino alla relazione di storia e poi non ero riuscita a chiudere occhio, a causa della conversazione che avevo ascoltato di nascosto tra la

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zia e padre Dominick.

Per l’ennesima volta fui in ritardo e non riuscii a fare colazione. Corsi fuori di casa, nonostante i rimproveri della zia che non voleva che mi affaticassi e presi l’autobus per un soffio.

Non avevo ancora messo piede in classe, che subito Patty Shue, seguita dalle sue due amiche, Claire e Martha, si avvicinò a me ondeggiando i suoi sensuali fianchi, messi in risalto da una minigonna mozzafiato e mi rivolse il broncio più malizioso e dispettoso che potesse fare con quelle labbra a canotto, rosse scarlatte.

«Vera, dicci, come stai oggi? Prevedi qualche svenimento? Beh, in caso dovessi perdere i sensi, sapremo chi chiamare. Sono sicura che Ron non

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esiterebbe a farti la respirazione bocca a bocca! Soprattutto dopo le sue ripetizioni, sono sicura che ne avrai un gran bisogno!» ghignò quella strega.

E così, si era già sparsa la voce su di me e Ron.

Chi altro poteva essere, se non lui, a umiliarmi davanti a tutti?

Per fortuna mi ero fatta un’emodose da pochissimo, quindi la vista era bella reattiva.

In un lampo il mio sguardo inceneritore corse ad individuare il colpevole.

Eccolo!

Ron se ne stava tranquillo al suo banco a ricopiare dei disegni su un foglio.

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Mi avvicinai.

«Ron» pronunciai con il tono più gelido possibile.

«Vera, ciao. Guarda un po’, stavo giusto pensando a te».

«Ah si?».

Ovvio, dopo quello che aveva combinato!

«Sì, ti stavo proprio trascrivendo degli esercizi facili facili su questo foglio, così la prima volta che ci vediamo, anche domani se vuoi, possiamo vederli insieme. Qui per esempio devi scrivere come si chiamano le varie parti del corpo che ti ho disegnato» mi disse tutto emozionato, mostrandomi il foglio.

Ero rimasta basita. Possibile non si rendesse conto di quello che aveva

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combinato?

Prima di quella sera, tutti avrebbero pensato che io e Ron, soprannominato “Alito Marcio”, stavamo insieme.

Senza ombra di dubbio, avrei dovuto ringraziare Patty per tutto quello.

Non seppi bene il quando e il come, ma finite le lezioni del mattino, tutti si riunirono in mensa, dove c’era un gran vociare.

Nel pomeriggio cominciarono i primi sguardi e risolini.

Sull’autobus di ritorno a casa, ero già fidanzata da un mese con Ron, secondo le voci che circolavano nei paraggi.

Ancora un po’ e avrebbero attaccato dei manifesti: “La storia d’amore tra

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la Pallida Vera e Alito Marcio”.

Ero disgustata.

Tornata a casa, trovai zia Cecilia con i capelli legati in una morbida treccia dorata e un enorme grembiule verde, intenta a preparare le conserve di pomodoro per l’inverno.

Mi tolsi le scarpe nervosamente, scaraventai lo zaino per terra, prima di avventarmi su mia zia e ricoprirla con i miei problemi.

«Qui ci vuole pane e miele» mi disse, ascoltando quanto astio c’era nella mia voce parlando di Patty e Ron.

«Mica penserai davvero che mi farò dare ripetizioni da quel cretino?» sbottai.

Intanto la zia mi preparò la merenda.

«Mangia, così ti calmi» mi disse

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porgendomi la fetta di pane e ignorando le mie parole.

Divorai il pane, continuando a parlare, sputacchiando briciole qua e là. Tuttavia, alla fine mi calmai. Era il miele. Il sapore del miele aveva sempre un effetto rilassante su di me, quando ero nervosa o arrabbiata.

«Grazie» mormorai infine.

«Bene, allora adesso che hai fatto merenda e che ti sei sfogata, ti consiglio di correre in camera tua a studiare biologia, se vuoi farmi cambiare idea riguardo alle lezioni con Ron» esclamò zia Cecilia.

«Oh, grazie!».

Corsi ad abbracciarla. Sapevo che avrebbe capito!

«Sei la mia zia preferita!» aggiunsi.

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«Ovvio, sono la tua unica zia».

Scoppiammo a ridere insieme e dopo filai a studiare.

Mi ripromisi di migliorare la mia media in scienze. Studiai biologia per tre giorni di seguito e alla fine mi feci interrogare.

Sette.

Quel voto bastò per convincere mia zia ad annullare l’impegno preso con Ron.

Ero al settimo cielo.

Non m’interessava se Ron l’aveva presa male, perché si era sentito rifiutato. Quasi stessimo insieme per davvero.

Anche Patty non gradì, perché nel giro di due giorni la mia storia d’amore con Alito Marcio cominciò a

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scemare, fino ad essere accantonata del tutto.

Un giorno, tornando da scuola, varcai il solito cancello, che da qualche giorno aveva cominciato a cigolare più del solito e mi avviai verso casa.

«Dovrò aggiungere olio» mi disse Ahmed, riferendosi al cancello, mentre riparava un pezzo di steccato, poco lontano da me.

«Ciao Ahmed. Come va?» gli chiesi.

«Oggi c’è il sole, quindi tutto bene» mi rispose lui.

Gli sorrisi comprensiva.

«Finisco di riparare questo e poi vado a fare delle commissioni» aggiunse.

«Posso venire con te?».

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Quando c’era il sole, non era possibile stare a casa a studiare.

«Meglio di no. È appena arrivato padre August e penso voglia vederti» mi rispose, allontanandosi con delle assi in mano.

Padre August, quel vecchio nanerottolo tarchiato con lo sguardo maligno.

Sia io, sia la zia, non potevamo vederlo, tuttavia una volta al mese ci veniva a far visita.

Zia Cecilia mi spiegò che padre August era un brav’uomo in fondo e che le era stato molto vicino, quando io ero piccola.

Aveva contribuito a finanziare i costi sanitari a cui aveva dovuto far fronte quando mi avevano diagnosticato quella terribile anemia, quindi

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doveva sempre essere il benvenuto, nonostante a pelle mi sembrasse un essere viscido e spregevole.

A malincuore entrai in casa.

In salotto, c’erano la zia e padre August seduti sul divano a bere un caffè.

«Tesoro, sei arrivata» mi salutò la zia con lo stesso calore di sempre, anche se notai subito una vena di tensione nella sua voce.

«Ciao, zia. Buongiorno, padre August».

«Vera, come stai?» mi chiese con voce sospettosa, mentre continuava a fissarmi da capo a piedi, come se fosse alla ricerca di qualche indizio su un possibile peggioramento della mia salute o qualcos’altro.

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Lui mi dava sempre l’impressione che avessi qualcosa fuori posto, anche se cercava di non darlo a vedere.

Tuttavia in tanti anni di frequentazione, non mi aveva mai dimostrato affetto, come padre Dominick.

«Bene, grazie».

«Tua zia mi stava dicendo che continui a prendere le tue emodosi una volta ogni tre settimane» .

«Si, certo».

«Brava. Mi raccomando segui sempre quello che ti dice la zia e se non ti senti bene, diglielo subito».

«Lo farò».

«Bene. Stai continuando a seguire le lezioni di catechismo di padre

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Dominick, vero?».

Sospirai, ormai irritata dall’interrogatorio.

Ogni volta era la stessa storia.

Detestavo che la mia salute diventasse una questione di stato.

«Guarda che io mi preoccupo solo per te».

«Si, però io sto bene, quindi non vedo il motivo di tutte queste domande» sbottai nervosa.

Il prete corrugò la fronte.

«Tanta gente si prende cura di te e fa di tutto per tenerti in vita. Molte persone importanti come i cardinali Montagnard e Siringer si occupano della tua salute. Dovresti essere un po’ più riconoscente!» sussurrò lui con tono minaccioso.

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Montagnard e Siringer? Di nuovo questi nomi.

Non era proprio il caso di perdere un’occasione simile.

«Mi deve scusare. Non sapevo di aver attirato l’attenzione di gente così importante, ma… chi sono i cardinali Montagnard e Siringer?» provai a chiedere con voce ingenua.

La zia Cecilia aveva il viso pallido e tirato, ma alla fine riuscì ad aprire bocca.

«È colpa mia. Vedi, Vera, in realtà non ti ho mai detto una cosa. Quando mia cugina Annie, cioè tua madre, venne a cercarmi era già verso gli ultimi mesi di gravidanza. Purtroppo io in quel periodo ero in un convento in Portogallo e non seppi nulla di lei. Erano anni ormai che non ci

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sentivamo. Fu proprio il cardinale Montagnard a metterci in contatto e fu lui a prendersi cura di te alla tua nascita, prima del mio ritorno in Irlanda. Sfortunatamente quando giunsi nella clinica, dove eravate state ricoverate, tua madre era già stata sepolta. Nessuno seppe mai il nome di tuo padre, nonostante le ricerche che svolse il cardinale Siringer» spiegò zia Cecilia con affanno.

Ero sconvolta.

«Perché non me l’hai mai detto?» chiesi con un sussurro.

«Ti chiedo scusa, ma non volevo arrecarti altro dolore, piccola mia» mi sussurrò la zia, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.

Capii quanto quell’argomento la

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facesse soffrire.

L’abbracciai intensamente e le sorrisi.

«Non ti preoccupare».

Intanto padre August terminò il suo caffè.

Era nervoso. Probabilmente si era reso conto di essersi lasciato scappare qualcosa di troppo, così decise di andarsene, soprattutto per evitare altre domande.

Senza aggiungere altro, si avvicinò alla porta.

«Si è fatto tardi. Devo andare» ci salutò.

Contraccambiammo il saluto e ci mettemmo a preparare la cena, senza più toccare l’argomento relativo a mia madre e alla mia nascita, anche

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se la zia sembrava essere ancora piuttosto scossa per quello che aveva dovuto rivelare.

Passò una settimana senza particolari novità.

Si era alzato un vento gelido e tutti stavano chiusi in casa.

Anche Patty sembrava essersi calmata.

Intanto io avevo preso un altro bel voto di biologia.

Nel week end il vento si calmò e il sole riprese a scaldare con i suoi ultimi raggi autunnali.

Trascorsi tutto il sabato ad aiutare Ahmed a fare i soliti lavori nella fattoria. Più che altro gli facevo da assistente.

Mettemmo l’olio al cancelletto,

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riparammo l’anta del mio armadio e finimmo di aggiustare il recinto.

«Vieni a prendere il mangime per le galline da Kevin?» mi chiese Ahmed ad un certo punto, cercando di stuzzicarmi.

Sapeva che avevo una terribile cotta per Kevin Moore, l’apprendista che lavorava nell’Agricenter di John McKaine.

Biondo, occhi azzurri, sorriso smagliante e intelligente. Insomma, bello da morire.

Aveva sei anni più di me ed era anche fidanzato, fedele alla sua bella Clara Shue, sorella meno antipatica di Patty.

E questa sarebbe la giustizia nel mondo?

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Nonostante questo, io continuavo a morirgli dietro, aspettando che lui, un giorno, si accorgesse di me.

Era per lui che avevo deciso di conservare il mio primo bacio. Mi rendevo conto di essere patetica ma non riuscivo a farne a meno.

Stavo per salire in macchina con Ahmed, quando arrivò con l’autobus padre Dominick.

A fatica scese dal mezzo e ciondolando si avvicinò a noi.

Mi fece sorridere. Quando camminava sembrava proprio un pinguino.

«Buongiorno. Dove state andando di bello?» ci chiese con occhi vispi.

«A comprare il mangime per le galline» risposi io subito.

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«Immagino che tutto questo desiderio di andare all’Agricenter sia dovuto al fatto che ti preoccupi del benessere dei tuoi animali e non a un certo belloccio di nome Kevin».

Diventai rossa fino alla radice dei capelli.

Perché gliene avevo parlato? Possibile che io non riesca mai ad avere dei segreti per qualcuno?

«Invece di pensare a queste cose, perché non vai in casa a far compagnia alla zia che sta preparando le conserve, mentre noi andiamo in paese? Di’ alla zia che torniamo subito, ok?».

«A proposito, come sta la zia? Quando mi ha telefonato per venire, era un po’ strana».

«Già. Non si è ancora ripresa bene

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dalla discussione con padre August».

«Padre August?».

«Sì. Tutta la storia sulla mia nascita e i cardinali Siringer e Montagnard» tagliai corto per poter partire il prima possibile.

Al suono di quelle parole padre Dominick impallidì visibilmente. Non feci a tempo a chiedergli se stava bene, che era già partito di tutta fretta verso casa.

Ero indecisa se seguirlo o andare da Kevin.

Optai per la seconda proposta con la promessa di tornare presto a casa per capire cosa stava succedendo.

Un quarto d’ora di macchina ed eccolo lì, a pochi passi da me, intento a caricare dei pacchi di legna

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pressata sul camioncino di un vecchio signore.

Scesi dalla macchina e mi avvicinai a lui con il sorriso più smagliante che riuscii a fare.

«Ciao Kevin» esclamai con la voce più alta di un’ottava.

«Vera, che piacere! Come stai?» mi salutò lui, fissandomi con i suoi due occhi azzurri, che mandarono in tilt il mio sistema nervoso.

Che carino! Era sempre così gentile!

«Bene, e tu?» chiesi io in preda alla solita euforia che mi riempiva il cuore quando stavo vicino a lui.

«Splendidamente. Ho una notizia bomba e voglio che tu sia la prima a saperla, dato che sei una cara amica per me» mi rispose lui, mentre mi

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arruffava i capelli, come faceva quando avevo dieci anni. Era sempre stato così coccolone nei miei confronti e questo non aveva fatto altro che alimentare il mio amore per lui.

Si avvicinò ancora di più a me e mi sussurrò vicino all’orecchio, facendomi venire i brividi per tutta la schiena: «Ieri il signor McKaine mi ha detto che è molto soddisfatto del lavoro che svolgo presso di lui da ormai cinque anni, così mi ha chiesto se a maggio, alla fine del mio apprendistato, voglio diventare suo socio. In questo modo potrei guadagnare molto di più e iniziare seriamente a fare dei progetti per il futuro. Sai, una casa, una famiglia…».

«Ma è fantastico!» .

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«Già… ed è qua che arriva la seconda e più importante notizia bomba…».

Ero così emozionata e felice per lui, che non stavo più nella pelle!

«…ho chiesto a Clara di sposarmi!»

Più che una notizia bomba, questa mi era sembrata una mina antiuomo, su cui avevo appena appoggiato il piede.

Quel poco di rossore che mi colorava le guance in sua presenza mi defluì e sentii gli angoli della bocca toccare terra.

«Stai bene? Sei diventata così pallida» si preoccupò subito lui.

«È solo la mia anemia. Dicevi che vuoi sposarti?» riuscii a mormorare in uno stato di costante apnea.

«Si, ma ovviamente non prima di maggio! Clara dice che l’inizio di

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giugno sarebbe il periodo perfetto, con tutti gli alberi in fiore e il primo sole caldo a scaldarci» si perse lui.

In quel momento mi veniva solo da augurarle una tempesta con lampi e fulmini. Aveva appena distrutto il mio sogno!

Inoltre sembrava che nessuno se ne fosse accorto.

Cercai di rivolgergli un sorriso, ma mi uscì solo una sorta di smorfia.

«Kevin, dove hai messo i sacchi di avena, che sono arrivati stamattina?» urlò vicino a me John McKaine con la sua solita voce baritonale.

In quel momento odiai anche lui.

Se lui non gli avesse proposto di diventare socio, Kevin non avrebbe mai commesso una simile follia!

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Ero così presa dai miei lugubri pensieri, che non mi accorsi nemmeno che Kevin si stava allontanando seguito dal suo datore.

«Vera, ciao. Torna presto a trovarci».

«Ciao, Kevin».

Addio.

Rimasi lì a lungo a guardare la sua schiena allontanarsi, prima che Ahmed mi chiamasse per tornare a casa.

«Vera. A casa».

«Sì, arrivo».

Mi avvicinai alla macchina e salii con lo sguardo fisso sull’Agricenter.

Quando fummo ormai lontano, mi sembrò di aver ripreso a respirare o piuttosto di sospirare affranta.

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«Si sposa, eh?» pronunciò Ahmed.

Meno male che dovevo essere la prima a saperlo.

Guardai Ahmed alla ricerca di un indizio su una possibile telepatia.

«McKaine».

McKaine gliel’aveva detto.

Ora mi sentivo anche presa in giro da Kevin, ma continuai a sperare in un cambiamento.

«Si, ma fino a maggio tante cose possono cambiare» ipotizzai.

«Loro si sposeranno» profetizzò lui convinto.

«Vedremo».

Ahmed scosse la testa e non aprì più bocca fino a casa.

Trascorsi gli ultimi chilometri di

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strada, pensando a mille cose che potevano accadere nel giro di sei mesi.

Nel frattempo la zia ci stava aspettando a casa con un bel tè fumante e due grosse fette di torta alle mele.

In casa c’era un profumo di dolci e mele, che riempiva tutto l’ambiente.

In salotto si era acquattato sul divano padre Dominick, ancora intento a finire il suo pezzo di torta. Sicuramente si trattava della seconda o terza fetta. Era davvero goloso.

«È andato tutto bene?» chiese la zia, preoccupata per l’acquisto e per la mia espressione funebre.

«Mangime preso. Kevin si sposa con Clara» sintetizzò Ahmed, prima che potessi aprir bocca.

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«A maggio e fino ad allora molte cose potrebbero accadere!» specificai io convinta.

«Vera, non devi dire queste cose! È ovvio che Kevin sia molto innamorato» mi rimproverò subito la zia contenta per la futura unione dei due ragazzi.

«Non m’interessa! Prima Patty e ora anche sua sorella! Quelle due esistono solo per rovinarmi la vita!» sbottai io furiosa.

«Invece della torta preferiresti un po’ di pane e miele?» mi propose candidamente la zia, sapendo quanto questo mi calmasse, ma io non intendevo lasciarmi corrompere.

«Non voglio niente!» esplosi prima di correre in camera mia e sbattere la porta, mentre due grossi lacrimoni

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scivolarono sulle mie guance.

Ero disperata! Il mio bellissimo sogno d’amore si era infranto! Volevo essere io a sposare Kevin a maggio.

Perché la vita doveva essere così ingiusta?

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CAMBIAMENTI

Passai due settimane d’inferno.

Dentro di me si agitavano emozioni, quali la rabbia, la frustrazione, la tristezza e la vendetta, mentre esternamente sembravo apatica e prossima al suicidio.

Non mangiavo, non parlavo e non dormivo più.

M’indebolii molto facilmente e quando mi rifiutai di assumere un’emodose, zia Cecilia si preoccupò a tal punto da chiamare padre

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Dominick.

«Per quanto tempo pensi di continuare così?» mi chiese Dominick, sfinito dal mio silenzio.

«Per sempre» sussurrai.

«Allora sei una sciocca. Certo Kevin ha le sue colpe perché ti ha sempre illusa con i suoi gesti teneri e gentili, però sei tu che ti sei costruita un castello in aria. Lui non ha mai detto di amarti o tanto meno di voler stare con te, quindi se tu hai scambiato un’infatuazione da ragazzina immatura per amore, la responsabilità è solo tua. Vedi di crescere, perché l’amore è un’altra cosa» sbottò Dominick furioso.

Era la prima volta che si rivolgeva a me in quel modo e proprio non me l’aspettavo.

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Lo guardai sconvolta.

«Allora, dimmi tu cos’è l’amore?» lo provocai io acida.

«È un sentimento molto più profondo, che si costruisce con il tempo e stando insieme all’altro nei momenti gioiosi e in quelli difficili. Se tu amassi davvero Kevin, saresti felice della sua scelta, perché desidereresti solo la sua felicità e il suo benessere. L’amore vero non è un desiderio egoistico, come lo è il tuo!».

Pensai spesso a quelle parole così dure e forti.

Alla fine mi resi conto che padre Dominick aveva ragione. Del resto io cosa sapevo veramente di Kevin, a parte il fatto che era sempre gentile con i clienti?

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Ad essere sincera non sapevo nulla di lui.

Non sapevo qual era il suo piatto preferito, quale genere di musica ascoltasse, cosa gli piaceva fare nel tempo libero, a parte stare con Clara, se era disordinato oppure pignolo...

Tuttavia non potei dimenticare tutti quegli anni dedicati a fantasticare su di lui e su una possibile storia d'amore tutta nostra.

Nel giro di pochi giorni tornai a mangiare, dormire e parlare.

Zia Cecilia fu tremendamente sollevata nel rivedermi di nuovo in forma, soprattutto dopo aver assunto la mia emodose, e chiacchierona come prima. Per giorni aveva tentato di farmi mangiare, preparandomi ogni sorta di manicaretto, ma io

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avevo desistito. Anche il mio continuo rifiuto a rivolgerle la parola l'aveva fatta ammattire.

Alla fine anch'io fui contenta di ritornare la Vera di una volta.

Un giorno, verso sera, il telefono squillò.

Io ero alle prese con l'ennesimo film d'amore strappalacrime, così non ci prestai attenzione. Andò a rispondere la zia.

Non riuscivo a capire quello che stava dicendo la zia, ma mi resi conto che doveva essere accaduto qualcosa di grave, poiché il suo tono cambiò e divenne molto preoccupato.

Fu una telefonata breve.

«Tutto bene?» le chiesi, quando la

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vidi tornare dalla cucina, dove tenevamo il telefono.

«Purtroppo è mancato il cardinale Montagnard, stroncato da un infarto».

«Mi dispiace. Lo conoscevi bene?».

«Si. Ero molto legata a lui e lo stimavo sia come uomo, sia come ecclesiastico» mi spiegò la zia con le lacrime agli occhi.

Era la prima volta che vedevo la zia triste per la perdita di qualcuno e non pensavo potesse soffrire così tanto.

Per giorni restò apatica e silenziosa, tormentata nel suo dolore.

Alla fine decisi di aspettare il lunedì della settimana seguente.

A scuola avevano indetto uno

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sciopero contro la legge sulla riduzione degli insegnanti, così avrei avuto tutto il giorno libero ed ero decisa a portare la zia in centro a fare shopping.

Anche se non avevo chissà quanti soldi da parte, data la mia magra paghetta settimanale, ero intenzionata a spendere anche tutti i miei risparmi per farle un regalo.

Volevo portarla per negozi e comprarle un profumo, una maglia o un libro.

Qualsiasi cosa pur di farle tornare il sorriso sulle labbra.

Per mia fortuna, quel lunedì arrivò presto.

Mi alzai alla solita ora, ma scesi con calma a fare colazione, solo dopo essermi lavata e vestita con cura.

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«Vera, è tardissimo! Perderai sicuramente l’autobus!» mi rimproverò la zia, appena misi piede in cucina.

«Oggi non devo andare a scuola! C’è sciopero» le spiegai subito con un mega sorriso sulle labbra.

«Ah, si. Forse me l’avevi detto… non ricordo» mi rispose la zia con voce assente.

«Già. Per di più ho deciso di andare in città, perché devo comprarmi un libro per la scuola. Mi puoi accompagnare, per favore?» mentii. Sapevo che se dicevo a mia zia che volevo portarla a fare shopping, non avrebbe mai accettato di venire, mentre se si trattava di materiale scolastico era subito pronta.

«Certo, ma non adesso. Ho promesso

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ad Ahmed che avremmo discusso sul nuovo bestiame, che arriverà verso le h 11, però oggi pomeriggio sicuramente ti posso portare in libreria» mi rammentò.

Progetto rimandato.

Detestavo posticipare i miei piani, perché poi arrivava sempre l’ennesimo inghippo a far saltare tutto.

Avrei dovuto anticiparglielo il giorno prima.

Così mi ritrovai a non saper cosa fare.

Alla fine optai per la televisione.

Mi era passata la voglia di uscire.

Feci per tornare in camera mia per cambiarmi, quando all’improvviso il campanello squillò.

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Andai ad aprire.

Era Dominick, accompagnato da due uomini alti e massicci, vestiti di nero con il disegno di una croce bianca con al centro una goccia rossa, ricamata sul taschino della giacca.

Ero rimasta così incuriosita da quei due energumeni, mai visti prima, immobili davanti alla mia porta di casa, che non feci caso alla voce sconvolta di padre Dominick, che mi spinse bruscamente dentro casa, urlando il nome di mia zia.

«Cecilia, dovete andarvene! Adesso!» strillò padre Dominick terrorizzato.

«Cosa sta succedendo?» gli chiese la zia, cercando di non lasciar trapelare la sua angoscia.

«Loro sanno tutto e stanno arrivando!» gridò ancora padre

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Dominick.

«Loro chi?» m’intromisi, ormai allarmata.

Nessuno mi rispose, ma capii che la zia sapeva a chi il prete si stava riferendo, perché si portò la mano destra alla bocca, cercando di soffocare un grido.

«Ma come è possibile?» sussurrò la zia con un filo di voce.

«L’hanno ucciso! Hanno ucciso il cardinale Montagnard, dopo averlo fatto confessare! Ora loro sanno tutto e voi non siete più al sicuro. Verranno a cercarvi e quando lo faranno, prenderanno Vera e la uccideranno».

Io? Ma io cosa c’entravo in tutto questo?

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Ero talmente scioccata, che non riuscii ad aprir bocca.

«Gli hanno sparato, invece di usare il loro solito modo di colpire. Per questo l’Ordine ci ha messo tanto a capire chi era il colpevole dell’omicidio. Sicuramente è stato Blake. Solo lui e la sua banda sono capaci di un simile delitto. Nessuno sa cosa sia successo veramente, ma a quanto pare il cardinale ha rivelato tutto a Blake, probabilmente sotto tortura» continuò padre Dominick.

«Ma è terribile!».

«Già e ora dovete scappare. Vi ho già prenotato una stanza in un albergo di Dublino. Una volta arrivati là, riceveremo nuovi ordini dal cardinale Siringer, che ci vuole incontrare».

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«Ma come facciamo?» sospirò la zia scossa.

In quella fattoria c’era la sua casa, la sua vita.

E anche la mia.

«Dobbiamo partire subito. Viaggeremo anche tutta la notte, se necessario. Sotto disposizione del cardinale Siringer, verremo scortati da due membri fidati dell’Ordine, che ci porteranno prima in albergo, poi al luogo prefissato per l’incontro. Quindi muovetevi! Prendete lo stretto indispensabile e andiamo!» riprese a urlare padre Dominick.

Per alcuni secondi, che a me parvero ore, la zia e il prete si guardarono intensamente negli occhi, dopodiché, come animata da un’inspiegabile forza, la zia mi afferrò per un braccio

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e mi trascinò su per le scale verso la mia camera.

Davanti alla porta, mi abbracciò e mi sussurrò dolcemente nell’orecchio: «Non ti preoccupare. Ci sarò sempre io a difenderti. Non permetterò a nessuno di farti del male. È stato così per diciassette anni e lo sarà per sempre, finchè avrò vita».

«Zia, cosa sta succedendo?» riuscii a chiedere con un filo di voce.

«Stai tranquilla. Ora vai nella tua stanza. Hai tre minuti di tempo per prendere la sacca che c’è sotto il tuo letto e riempirla di ciò che ti possa essere utile per i prossimi giorni. Una volta lontane di qua, ti spiegherò tutto. Te lo prometto».

Non ebbi altra scelta.

Corsi in camera mia, aprii l’armadio

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e cominciai a riempire la sacca, presa da sotto il letto, con maglie e pantaloni. Qualche intimo, l’astuccio dei trucchi e i miei risparmi. Stavo per chiudere la valigia, quando notai la foto che tenevo sempre sul mio comodino vicino al letto. Era la foto di me e la zia abbracciate davanti al cancello della fattoria.

Adoravo quella foto scattata un paio di anni fa da Ahmed.

Presi anche quella e chiusi la zip del borsone.

Uscii dalla mia camera, guardandola ancora una volta. Quella era stata la mia cameretta dell’infanzia, il mio rifugio.

Sperai, un giorno, di poterci tornare, ma qualcosa mi diceva che quello era un addio.

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Chiusi la porta della mia camera dietro di me con un velo di tristezza.

Appena scesi al piano inferiore, padre Dominick mi afferrò per le spalle e mi trascinò fuori di casa, verso una macchina nera, parcheggiata davanti al cancello della fattoria.

Appena mi videro arrivare, i due uomini sconosciuti entrarono in macchina e il più grosso si mise al volante.

«Chi sono quei due?» chiesi.

«Non c’è tempo per le spiegazioni» tagliò corto il prete, facendomi entrare in macchina, per poi correre ad aiutare la zia, ormai a due passi dalla vettura, quando arrivò Ahmed.

«Ahmed, è giunto quel momento di cui abbiamo spesso parlato. Addio»

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lo salutò la zia, poco prima di salire in macchina spinta da padre Dominick.

«Chiudere la casa e partire. Addio, Cecilia. Vera, mi mancherai» ci salutò Ahmed con aria triste.

«Addio, però forse ci rivedremo» lo rincuorai io, ma lui scosse il capo e se ne andò, nello stesso momento in cui partì anche la BMW nera.

Sentii un’ondata d’infelicità dilagarmi nel cuore.

Al confronto quello che avevo provato per Kevin, dopo aver saputo del suo futuro matrimonio, mi sembrava un’inezia.

Volevo molto bene ad Ahmed e non avevo mai pensato che un giorno mi sarei ritrovata sola.

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Appena la macchina partì a tutta velocità, sentii i sospiri di sollievo della zia e di Dominick.

Solo io rimasi tesa come una corda di violino.

«Ahmed non viene con noi?» provai a chiedere.

«No, Vera. Ahmed deve rimanere a sistemare i nostri affari. Donerà la casa ad un ente caritatevole, avviserà la scuola della tua partenza, informandola del tuo trasferimento improvviso per problemi di salute e infine partirà per la Tunisia con il denaro che gli avevo lasciato su un conto corrente particolare, da utilizzare solo in caso di necessità. In realtà è da anni che viene organizzato tutto questo» mi spiegò la zia, accarezzandomi la testa.

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Tutto ciò era ancora incomprensibile per me. Mille pensieri e frasi dette vorticavano nella mia mente a una velocità incontrollabile. Non riuscivo a fissare un dettaglio, che poi svaniva per lasciar posto a qualcos’altro.

Ahmed. La scuola. Kevin. Patty Shue. Ron. La fattoria. Loro.

Il cardinale Montagnard. Dublino. Il cardinale Siringer.

Tanti, troppi pensieri scorrevano impetuosi nella mia mente.

Pensavo alla scuola. Stavo recuperando in biologia e dovevo ancora ricevere il voto sulla relazione di storia.

Inoltre ero ancora arrabbiata con Patty per aver detto a tutti che mi ero fidanzata con Ron.

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Che senso aveva tutto questo, se tanto il giorno dopo sarei stata chissà dove?

Non avrei più rivisto Kevin. Perché prendersela tanto per il suo matrimonio con Clara, se tanto io non ci sarei stata più.

Forse per maggio sarei morta. Non avevo dimenticato che qualcuno voleva me, dopo aver ucciso un uomo. Era ovvio che a me avrebbe riservato la stessa fine crudele.

Loro.

Loro, chi?

Nessuno mi aveva ancora voluto spiegare chi era questa gente e cosa voleva da me.

Ci riprovai per l’ennesima volta.

«Vi prego, spiegatemi perché sta

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accadendo tutto questo e chi sono Loro?».

Mia zia mi guardò con gli occhi pieni di tristezza e disperazione. Anche padre Dominick mi guardò angosciato.

«Vedi, tu sei una ragazza speciale» iniziò a fatica la zia.

«In che senso?».

«Sei nata in circostanze particolari, inaspettate e ancora in parte sconosciute. Solo il cardinale Montagnard sapeva la verità e quando tua madre è morta, aveva deciso di prendersi cura di te. Fin dalla nascita hai mostrato gravi problemi di salute a causa della tua anemia, ma lui si è dato molto da fare per aiutarti a sopravvivere e facendo questo aveva notato che

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c’era qualcosa in te di meravigliosamente inaspettato. Non disse a nessuno cosa fosse, ma decise di farti crescere in un ambiente protetto. In seguito rivelò al cardinale Siringer, a capo dell’Ordine della Croce Insanguinata, della tua nascita e disse solo che tu eri la soluzione al suo problema».

«Quale problema?».

«Ti verrà detto a tempo debito, però sappi che la tua nascita ha portato non poco scompiglio nell’Ordine. Il cardinale Montagnard richiamò dallo Zimbawe Cecilia, vecchio membro dell’Ordine, incaricandola di allevarti, mentre il cardinale Siringer pretese un controllo esterno, padre August. Io arrivai solo più tardi, quando Cecilia chiese un aiuto amico in grado di sostenerla» intervenne il

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prete.

Quindi non era vero che alla morte di mia madre, la zia si trovava in Portogallo, pensai.

«Sai, non avevo mai avuto una figlia e avevo paura di sbagliare con te, inoltre padre August criticava ogni mia scelta e sosteneva che era stato un errore averti affidata a me, perché io mi ero affezionata troppo a te e questo non mi avrebbe permesso di essere oggettiva. Dominick era un mio vecchio amico e di lui mi fidavo ciecamente. Inoltre conosceva l’Ordine e le sue leggi, così decise di lasciarsi coinvolgere con lo scopo di darti una certa educazione religiosa» raccontò la zia.

Adesso capivo perché non mi era mai piaciuto padre August.

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Mi aveva sempre dato la sensazione di controllarmi e la zia non mi era mai sembrata a suo agio con lui presente.

Al momento, però, la cosa che mi lasciava più perplessa era il motivo di tanta riservatezza, soprattutto nei confronti della zia, che dopotutto era la cugina di mia madre.

Lo feci presente alla zia, che mi guardò con un’espressione ancora più addolorata.

«Mi bastò tenerti in braccio per un solo minuto, che già capii quanto ti adoravo. Eri la creatura più dolce e bella del mondo. Ogni volta che mi sorridevi, rendevi sempre meno sofferente la scelta di aver dovuto abbandonare i voti per stare con te. Mi resi conto che potevo essere felice così, anche servendo il Signore

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diversamente. Tuttavia…» iniziò la zia, ma le parole le morirono in gola.

«Tuttavia lei non è veramente tua zia, anche se ti ama come una madre ama il proprio figlio» terminò per lei la frase padre Dominick con aria sofferta.

Rimasi pietrificata.

Zia Cecilia non era mia zia?

Tutto ma non questo.

Questo era troppo.

Non riuscii a dire neanche mezza parola.

Ero sconvolta.

Guardai mia zia, accanto a me nel sedile posteriore della macchina, che piangeva sommessamente, continuando a ripetere:

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«Perdonami».

Mi sembrò di entrare in trance, in uno stato di semicoscienza.

Tutte le mie certezze erano crollate.

Passarono ore.

Rimasi in quello stato finché non arrivammo a Dublino nel tardo pomeriggio.

Ricordo solo che la macchina si fermò proprio davanti a un albergo, Jolly Hotel.

Il tipo della reception non ci chiese nemmeno i documenti, ma ci consegnò semplicemente le chiavi delle stanze.

Io e la zia fummo guidate verso la camera 112, mentre padre Dominick si avviò da solo verso la porta 115.

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La stanza era piuttosto piccola con la carta da parati gialla, come le tende e le coperte.

C’erano due letti singoli. Io mi sedetti su quello in fondo, vicino alla finestra.

Posai il mio borsone per terra e fissai la strada illuminata dai lampioni, fuori dalla finestra.

«Hai fame?» mi chiese la zia, facendomi trasalire dallo spavento. Dopo avermi rivelato di non essere mia zia, non mi aveva più rivolto la parola.

«No, grazie».

«Sei sicura? Non hai mangiato niente neanche all’autogrill dove ci siamo fermati a pranzo» rammentò lei preoccupata.

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Avrei voluto chiederle perché s’interessava tanto a me dato che io per lei non ero nessuno, ma non lo feci.

Scossi il capo.

Entrambe senza cena, ci buttammo sotto le coperte, anche se era ancora molto presto.

Non avevo per niente sonno.

La mia mente era affollata di pensieri, ma quello che più mi martellava nella mente era: la zia, o meglio suor Cecilia.

Se poi quello era il suo vero nome.

Passai un’ora a scervellarmi alla ricerca di un nesso, di una logica su tutta quella faccenda.

Ventiquattr’ore fa ero a far zapping stravaccata sul divano della sala,

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mentre la zia riassettava la cucina e ora ero in uno scomodissimo letto in una ridicola stanza d’albergo insieme a una donna forse sconosciuta.

Tutto ciò non aveva senso.

Rivolevo la mia casa e mia zia.

Mi rendevo conto che era stato più bello vivere nella completa ignoranza e illusione, piuttosto che sbattere il muso contro la cruda e ingiusta realtà.

Se padre Dominick osava ancora parlarmi di giustizia divina, me lo sarei mangiato vivo!

Tuttavia ormai ero lì. Costretta in quell’assurda realtà, vicino alla persona che fino a poco tempo prima adoravo alla follia, mentre ora temevo di non conoscere affatto.

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Non ce la feci più a star zitta.

«Perché ti sei presa cura di me per tutti questi lunghi anni?» le chiesi con un filo di voce.

Ero convinta che non avesse sentita. Non perché dormisse. Sapevo che non dormiva, dato che durante il sonno la zia russava parecchio, ma sentivo la gola bruciare e il petto pesante, che mi soffocava e le parole mi uscirono flebili e incerte.

«Non lo immagini?» mi rispose lei con la sua solita e famigliare dolcezza.

«Perché ti era stato ordinato, giusto?».

«No, sciocchina. Perché ti voglio un bene dell’anima. Anche se di fatto non lo sei, tu per me sei la mia bambina. Sei la cosa più importante

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della mia vita. Speravo di essere riuscita a comunicarti tutto ciò in questi anni insieme».

Sì, lo sapevo che mi voleva bene. Mi aveva sempre aiutato nei momenti di difficoltà, era sempre stata pronta a venirmi incontro e non mi aveva mai fatto mancare niente, nonostante le varie ristrettezze economiche. In tutto quello che faceva permeava sempre il suo amore nei miei confronti e io l’avevo sempre percepito e accolto a braccia aperte.

Era stata una madre, ma anche un’amica, dato che a causa della mia salute, non ero mai riuscita a farmi degli amici. Tutti i miei compagni avevano sempre mostrato una certa diffidenza nei miei confronti, per il fatto che vivevo con una zia ed ero spesso malata, oltre al fatto che ero la

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nemica numero uno di Patty Shue, l’amica numero uno di tutti gli altri.

«Lo so che mi vuoi bene e anch’io te ne voglio, però tutte queste novità mi hanno mandato in tilt il cervello. Non so più chi sono, chi sei tu…» sbuffai.

«Hai ragione. Io avrei voluto dirti tante volte la verità, ma l’Ordine me l’aveva tassativamente proibito».

«Me lo potevi dire di nascosto. Io avrei fatto finta di non sapere nulla con padre August e Dominick».

La zia scoppiò a ridere.

Anch’io sorrisi e capii che tutto era rimasto come prima.

Cecilia era sempre la mia cara zia, che ascoltava le mie stupidaggini e ci rideva sopra.

«Ascolta, Vera. Mi dispiace tanto non

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averti detto la verità, ma l’ho fatto per il tuo bene. Ti prometto, che quando incontreremo il cardinale Siringer, gli chiederò il permesso di poterti raccontare ogni cosa. Arrivati a questo punto, è giusto che tu sappia l’intera storia» tornò seria la zia.

«Già, dovrò pur sapere chi mi vuole morta» cercai di sdrammatizzare.

«Non permetterò a nessuno di farti del male» affermò risoluta la zia.

Quella sera, la zia non volle più dirmi altro.

Continuammo a chiacchierare per tutta la notte, ma solo a proposito della nostra ormai vecchia vita nella fattoria, cercando consolazione almeno nei ricordi.