Lean production; nuovi suoni per antiche pratiche

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E3 Group di Enrico Espinosa www.e3group.eu P.I 03021250166 Lean Production: nuovi suoni per antiche pratiche Di Enrico Espinosa Nel 1995 Rifkin descriveva efficacemente nel suo famoso libro “La fine del Lavoro” – il modello fordista ed il suo superamento, la “Lean Production” di Toyota, senza però avere interesse ad approfondire le origini di esso. Quello che in ogni caso riportava era il periodo in cui nacque tale pratica: gli anni 50. Era il periodo in cui il Giappone incominciava a ricostruire il paese disastrato dalla guerra ed il contesto economico sociale postbellico costituiva la base di un modello produttivo che più tardi sarà chiamato appunto “Lean Production”. Dopo la guerra, il Giappone era povero, sovrappopolato, senza infrastrutture e senza impianti, con pochissime materie prime. Occorreva importarle ed esportare prodotti finiti verso i mercati ricchi i paesi che avevano vinto la guerra poiché la domanda interna tecnologica era in sostanza nulla. Le esportazioni d’altro canto pagavano il dazio della cattiva reputazione delle merci giapponesi ritenute di bassa qualità. I giapponesi dunque costruirono un modello industriale basandosi sulle poche possibilità di fare scorte sia per lo scarso credito sia per la mancanza di spazi dove immagazzinare. La stessa Toyota si trovò a fronteggiare la sfida rappresentata dal dover competere con la produzione di massa occidentale avendo solo la possibilità di produrre su piccoli volumi e dovendo seguire la forte richiesta di varietà del prodotto che proveniva dal mercato interno. I giapponesi si rivolsero ai mercati degli Stati Uniti e dell'Europa, dapprima imitando le tecnologie occidentali, poi riuscendo a sviluppare progetti avanzati anche da soli. La mancanza di spazi per lo stoccaggio e la penuria di materia prima fecero nascere il“Just In Time”. Contemporaneamente i giapponesi rafforzarono l’impegno per eliminare tutti i difetti dal prodotto al fine di guadagnare credibilità internazionale, in quel periodo nasceva il “Total Quality Management”, parte integrante dei programmi che ora vediamo descritti nei manuali della “Lean 6 sigma”. Non è quindi azzardato concludere che un paese distrutto dalla guerra creò le regole della “Lean Production”. L’Italia postbellica non era poi così lontana dalla situazione giapponese, ma agli alti livelli di disoccupazione, alla mancanza di materie prime e alle infrastrutture distrutte, si contrapponeva la volontà della nuova classe dirigente di uscire dal protezionismo del ventennio fascista liberando quindi le energie vitali, ingegnose ed operose del paese. A riguardo Giovanni Demaria riportava l’evidenza di una contrapposizione tra «l’organizzazione consortile e monopolistica, in gran parte accentrata nelle grandi imprese industriali» e «la grande maggioranza degli industriali piccoli e medi che faticano ogni giorno, […] lavorano ad majorem industriae gloriam e creano la più cospicua parte del reddito nazionale» [1] . Ma parallelamente al lavoro della costituente che si apriva all’economia di mercato e alle esportazioni, il piccolo o nuovo imprenditore lavorava gomito a gomito con l’operaio [1] G. Demaria, Il problema industriale italiano in «Giornale degli economisti», 1941 pp. 516 52

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Lean Production: nuovi suoni per antiche pratiche

Di Enrico Espinosa

Nel 1995 Rifkin descriveva efficacemente nel suo famoso libro – “La fine del Lavoro” – il modello

fordista ed il suo superamento, la “Lean Production” di Toyota, senza però avere interesse ad

approfondire le origini di esso. Quello che in ogni caso riportava era il periodo in cui nacque tale

pratica: gli anni 50.

Era il periodo in cui il Giappone incominciava a ricostruire il paese disastrato dalla guerra ed il

contesto economico sociale postbellico costituiva la base di un modello produttivo che più tardi sarà

chiamato appunto “Lean Production”. Dopo la guerra, il Giappone era povero, sovrappopolato, senza

infrastrutture e senza impianti, con pochissime materie prime. Occorreva importarle ed esportare

prodotti finiti verso i mercati ricchi – i paesi che avevano vinto la guerra – poiché la domanda interna

tecnologica era in sostanza nulla. Le esportazioni d’altro canto pagavano il dazio della cattiva

reputazione delle merci giapponesi ritenute di bassa qualità.

I giapponesi dunque costruirono un modello industriale basandosi sulle poche possibilità di fare

scorte sia per lo scarso credito sia per la mancanza di spazi dove immagazzinare. La stessa Toyota si

trovò a fronteggiare la sfida rappresentata dal dover competere con la produzione di massa

occidentale avendo solo la possibilità di produrre su piccoli volumi e dovendo seguire la forte

richiesta di varietà del prodotto che proveniva dal mercato interno. I giapponesi si rivolsero ai

mercati degli Stati Uniti e dell'Europa, dapprima imitando le tecnologie occidentali, poi riuscendo a

sviluppare progetti avanzati anche da soli. La mancanza di spazi per lo stoccaggio e la penuria di

materia prima fecero nascere il“Just In Time”. Contemporaneamente i giapponesi rafforzarono

l’impegno per eliminare tutti i difetti dal prodotto al fine di guadagnare credibilità internazionale, in

quel periodo nasceva il “Total Quality Management”, parte integrante dei programmi che ora

vediamo descritti nei manuali della “Lean 6 sigma”. Non è quindi azzardato concludere che un paese

distrutto dalla guerra creò le regole della “Lean Production”.

L’Italia postbellica non era poi così lontana dalla situazione giapponese, ma agli alti livelli di

disoccupazione, alla mancanza di materie prime e alle infrastrutture distrutte, si contrapponeva la

volontà della nuova classe dirigente di uscire dal protezionismo del ventennio fascista liberando

quindi le energie vitali, ingegnose ed operose del paese. A riguardo Giovanni Demaria riportava

l’evidenza di una contrapposizione tra «l’organizzazione consortile e monopolistica, in gran parte

accentrata nelle grandi imprese industriali» e «la grande maggioranza degli industriali piccoli e medi

che faticano ogni giorno, […] lavorano ad majorem industriae gloriam e creano la più cospicua parte

del reddito nazionale»[1]. Ma parallelamente al lavoro della costituente che si apriva all’economia di

mercato e alle esportazioni, il piccolo o nuovo imprenditore lavorava gomito a gomito con l’operaio

[1] G. Demaria, Il problema industriale italiano in «Giornale degli economisti», 1941 pp. 516 52

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sulla macchina per trovare nuove soluzioni o nuovi prodotti (i guru aziendali ora lo chiamano

“Concurrent Engineering”) e produceva bene e velocemente solo quando c’era richiesta dai clienti –

la tecnica “Pull” del “Lean Manufacturing” – sopperendo così alla mancanza di spazi, di magazzini e

di credito. Le competenze molteplici e la negazione della separazione del lavoro intellettuale da

quello manuale nell’organizzazione era il modello applicato, lo stesso modello sostenuto da Taiichi

Ohno teorico della “Lean Production”.

Oggi, nel proporre alle piccole aziende la “Lean Production” si sente spesso nominare la distanza

culturale che ci separa dal mondo del sol levante come altresì si pensa che tali modelli possano

funzionare solamente nelle grandi aziende. Nella stessa maniera, un professionista della consulenza

aziendale opta per un linguaggio ostico ed estraneo alla nostra cultura industriale per esporre o

proporre un modello che vorrebbe essere rivoluzionario per il piccolo imprenditore ma che in realtà

fa parte già della nostra cultura industriale e sopravvive in maniera ancestrale nello spirito

dell’azienda. Ora, nel XXI secolo, da quei modelli sembra dividerci un’era geologica come dai quei

animal spirits che hanno contribuito al boom economico tra gli anni ‘50 e ’60. Spesso le impostazioni

aziendali che all’apparenza sembrano portatrici di modernità in realtà sono modelli legati al fordismo

puro. Lo sforzo primario dei professionisti d’azienda è proporre od applicare la “Produzione Snella”

non la “Lean Production”, nel senso di riformulare la comunicazione e la strategia in fabbrica

riconoscendo per prima cosa che quello che viene proposto nei manuali del moderno organizzatore

aziendale già era applicato nel 1950 nelle fabbriche tessili della Valle Seriana o in uno dei efficienti

calzaturifici del maceratese.