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RAPPORTO DI RICERCA / DICEMBRE 2013 Lean production e territorio. Opportunità per le imprese e competitività del sistema torinese. A cura di Gian Carlo Cerruti, Aldo Enrietti, Andrea Signoretti, con Annalisa Magone. FSE per il futuro UN PROGETTO DI SOSTENUTO DA

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RAPPORTO DI RICERCA / DICEMBRE 2013

Lean production e territorio.

Opportunità per le imprese e competitività del sistema torinese.

A cura di Gian Carlo Cerruti, Aldo Enrietti, Andrea Signoretti, con Annalisa Magone.

FSE per il futuro

UN PROGETTO DI SOSTENUTO DA

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Il disegno della ricerca i

CAPITOLO 1.

Il settore automotive in Italia e in Piemonte. Quadro di lungo periodo e imprese analizzate

1.1 La crisi nel settore automotive nel mondo e in Italia 1

La produzione e il mercato internazionale 1

La produzione e il mercato italiano 5

1.2 Il settore della componentistica automotive in Italia 7

La mortalità delle imprese 9

1.3 Le imprese della ricerca e le loro principali caratteristiche 12

Le caratteristiche strutturali 12

Le caratteristiche economiche in base ai bilanci 13

1.4 La strategia di lean production e la Fiat 15

HIGHLIGHTS 17

CAPITOLO 2.

Innovazione, organizzazione della produzione e del lavoro e coinvolgimento dei lavoratori

2.1 Cambiamenti organizzativi, sistemi di gestione delle relazioni di lavoro e competitività 18

2.2 Nuove forme di razionalizzazione produttiva, competenze professionali e qualità del lavoro 21

2.3 Innovazione di prodotto, di processo e nell’organizzazione della produzione 23

2.4 Spinte innovative e incertezza manageriale 27

2.5 La lean production e i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro 34

2.6 Le resistenze e il coinvolgimento diretto dei lavoratori 37

HIGHLIGHTS 41

CAPITOLO 3.

Lean production e nuove esigenze di formazione

3.1 Innovazione e nuovi tipi di competenze professionali 42

3.2 Esiste un modello lean della formazione? 53

3.3 I principi della formazione lean 55

La formazione come azione integrata 55

La formazione come leva di miglioramento continuo 58

La formazione formale come pratica esperienziale di lavoro 60

La formazione come pratica di responsabilizzazione 63

La formazione come risposta flessibile ai bisogni di competenze 66

La formazione come fattore di trasparenza organizzativa 67

3.4 Due varianti del modello lean di formazione 68

3.5 I dualismi della formazione lean e il ruolo delle parti sociali 70

HIGHLIGHTS 81

APPENDICI – BIBLIOGRAFIA 82

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i

Il disegno della ricerca

La ricerca Lean production e territorio ha iniziato a prendere forma nel gennaio 2012, durante un semi-

nario organizzato da Torino Nord Ovest sul World Class Manufacturing (WMC), il sistema introdotto in

Italia nel 2005, che punta al miglioramento rapido realizzabile in azienda attraverso due veicoli principali:

la riduzione degli sprechi in ogni area funzionale e il pieno coinvolgimento del personale operativo che si

occupa di tutte le problematiche della produzione. Secondo i suoi sostenitori, il sistema permette alle

aziende che lo applicano di conseguire significativi risultati, principalmente in termini di aumento della

produttività, riduzione delle scorte e dei tempi di produzione, riduzione degli errori per il cliente e degli

scarti per il processo, ottimizzazione del time to market. Ma come vengono gestiti, nella prassi, l’attuazione

del sistema, i problemi che nascono e le ricadute sulle relazioni industriali di questa innovativa organizza-

zione del lavoro? Ponendosi questi interrogativi, il seminario affrontava il complesso degli aspetti del

WMC, coinvolgendo imprese, osservatori esterni, studiosi ed esperti del settore, istituzioni locali, per av-

viare un confronto alla luce delle innegabili opportunità contenute nell’innovazione di processo e di altret-

tanti potenziali rischi insiti nel mutamento dei rapporti in fabbrica e nello sviluppo dell’attività negoziale.

Suggestionata dall’argomento e dalle potenzialità che la produzione snella esprime sul piano delle politi-

che pubbliche, la Provincia di Torino si è posta l’obiettivo di stimolare il distretto dell’automotive ad in-

traprendere azioni formative (poi indicate in uno specifico bando) per lo sviluppo di una cultura lean utile

a migliorare dall’interno il processo produttivo, considerando questo un passo essenziale per qualificare le

imprese e, con esse, il territorio. La ricerca si è incardinata su questa linea di lavoro, con l’obiettivo di

comprendere meglio i fabbisogni formativi delle imprese dell’automotive sotto il peculiare aspetto

dell’innovazione organizzativa, verificandone gli interessi e la consapevolezza verso questi temi per com-

porre uno quadro utile alla pianificazione di una offerta formativa mirata per quello che resta il settore più

importante del manifatturiero torinese.

L’indagine esplorativa sul campo ha coinvolto quindici imprese della componentistica, avviate da più o

meno tempo ad una revisione organizzativa in chiave lean production. I casi aziendali sono stati ricostruiti

per mezzo di diverse fonti e strumenti, al fine di leggere i processi d’innovazione intrapresi, individuare

bisogni, carenze di sistema, errori, motivazioni, opportunità, costi, risultati attesi, motivi di soddisfazione

e motivi di frustrazione. Cuore del lavoro è il set di interviste in profondità al management aziendale, in-

cardinate su quattro focus: la situazione dell’impresa e le sue strategie competitive; l’organizzazione della

produzione e del lavoro; il cambiamento tecnologico di prodotto e di processo e trasformazioni delle strut-

ture organizzative; la formazione in azienda e la gestione del personale.

Allo studio dei casi è stata associata una campagna di interviste ai principali stakeholder del territorio,

che ha consentito di fare una ricognizione dello stato dell’arte, mappare le relazioni, mettere a fuoco speci-

fici aspetti del tema di ricerca, identificare i casi del campione con un meccanismo a cascata. Sono così

entrate a far parte dello studio imprese di natura diversa: multinazionali (per le quali si è indagato a livello

di stabilimento), imprese medie fortemente internazionalizzate, imprese piccole e assai radicate sul terri-

torio. Nella composizione del campione si è prestata dunque più attenzione alla poliedricità delle storie

aziendali che alla loro uniformità: interessava accedere a esperienze e approcci diversi e specifici a un te-

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ma, l’innovazione organizzativa sistemica, che, se per un verso deve rispondere a regole e linguaggi condi-

vise, per l’altro deve saper vestire come un abito di sartoria ciascuna azienda, con le sue qualità e le sue de-

bolezze. Procedendo in questo modo, l’analisi dei fabbisogni è stata condotta attraverso un processo di

astrazione: analizzando le vicende delle imprese intervistate, così differenti al punto di partenza eppure

così simili al punto di arrivo della trasformazione organizzativa, si è inteso descrivere un complesso di bi-

sogni, vincoli, rischi e opportunità, applicabili con le dovute cautele a tutto il comparto.

LE IMPRESE DEL CAMPIONE

PRODUZIONE

Allmag Commercio forniture industriali.

Autoblock Mario Pinto Mandrini di diverse dimensioni e porta utensili.

Brc Impianti di energia alternativa (Gpl e metano).

Cf Gomma Supporti motore, supporti sospensione, profili in plastica raschiavetri, guarnizioni, tubi freno.

Dayco Componenti rigidi (pulegge, tendi cinghie, galoppini).

Itt Pastiglie per freni.

Johnson Controls Sedili.

Molle Balestra Molle a balestra.

Proma Strutture sedili auto.

Samec Produzione di sistemi automatici asservimento macchine operatrici.

Sinterleghe Ravvivatori. Cambio elettrodi automatici e utensili per la ravvivatura.

Skf Cuscinetti.

Spesso Guarnizioni per motori e kit di guarnizioni.

Teseo Sistemi di test e collaudo e miglioramento produttivo.

Valeo Fanali.

Concentrando l’attenzione su un aspetto particolare dell’impresa (la spinta, controversa, a rinnovarsi),

e ad uno strumento specifico (le politiche formative), la ricerca ha potuto avvicinare i tanti meccanismi

dell’impresa nel sistema territoriale, considerandone le interazioni reciproche. Riflettere sull’innovazione

organizzativa consente in questo senso di risalire tutta la filiera territoriale, incontrando punti d’eccellenza

e punti deboli, comprendendo quali azioni intraprendere per migliorarne il posizionamento competitivo

dell’impresa e del territorio nel suo complesso. Quando si affronta il vasto argomento dell’automotive,

l’importanza dei processi di innovazione organizzativa consiste nel riconoscere che l’auto è anche un pro-

dotto di persone, con competenze che si possono arricchire per far fronte a un’esplicita domanda, da parte

delle imprese, di risolvere di volta in volta un’inedita tensione fra specializzazione e polivalenza. Sembra

sempre più questo il bagaglio professionale necessario nel settore dell’automotive, per continuare ad inno-

vare un prodotto così connaturato alla nostra storia.

Alcune indicazioni operative per l’operatore pubblico emergono dalle interviste. Un primo elemento

da rilevare fa riferimento alla complementarità tra innovazione di prodotto, di processo e organizzativa.

Gli incrementi di produttività conseguiti dalle imprese intervistate corroborano l’idea che, per le aziende,

puntare esclusivamente su una tipologia di innovazione piuttosto che sull’integrazione fra le diverse com-

ponenti dell’innovazione non consenta di sfruttare appieno i vantaggi che si profilano. Ne deriva che, per

promuovere la formazione innovativa, occorre sostenere l’innovazione dell’impresa e non le iniziative for-

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mative in sé. Si tratta, in altri termini, di sostenere progetti innovativi sistemici e costumizzati sulle singo-

le imprese e non tanto politiche di diffusione dell’innovazione generali, realizzate tramite il trasferimento

di best or good practices. Ne segue anche che l’incentivazione mediante risorse pubbliche delle politiche di

learning by integration (l’interazione tra soggetti portatori di competenze e responsabilità diverse, finaliz-

zata al raggiungimento di obiettivi condivisi) dovrebbe dipendere dalla numerosità delle dimensioni tocca-

te dalle politiche innovative, in chiave di complementarietà, e dalla varietà e diffusione delle azioni inno-

vative all’interno di ciascuna dimensione: la dimensione tecnologica, l’organizzazione della produzione,

l’organizzazione del lavoro, il sistema di gestione delle competenze, di regolazione collettiva del rapporto

tra incentivi e risultati, di analisi e valutazione e gestione delle competenze del personale, eccetera.

L’integrazione ha però anche un carattere inter-imprese e non solo intra-impresa: le interviste alle

PMI, soprattutto, mettono in evidenza come esse ricevano un forte stimolo dalla rete di aziende in cui so-

no inserite. Si tratta allora di incentivare progetti di networking, cioè azioni volte a creare reti cooperative

tra imprese, in particolare tra imprese locali e imprese straniere, tra imprese e enti di ricerca; per contro, la

presenza di elementi qualificanti in termini di networking può essere a sua volta considerato un criterio di

premialità nell’erogazione dei sostegni pubblici.

Un secondo elemento che emerge dall’indagine è la criticità della tradizionale distinzione tra forma-

zione generale e formazione specifica, a cui sono connessi differenti livelli di sostegno pubblico. La regola

corrente di far coincidere la formazione specifica con i corsi monoaziendali e la formazione generale con i

corsi pluriaziendali risponde più ad esigenze di classificazione e controllo amministrativi che non alla real-

tà dei contenuti professionali in gioco. La distinzione appare particolarmente critica alla luce del fatto che

i corsi tendono ad essere sempre più tagliati, nei contenuti e nei tempi, sulle specifiche necessità della sin-

gola impresa, il che rende particolarmente problematico pensare che la formazione generale debba seguire,

soprattutto nelle PMI, la strada dei corsi pluriaziendali. Un possibile nuovo criterio di distinzione tra le

due fattispecie, che appare più funzionale, è considerare la formazione d’aula o in contesti non produttivi

o di produzione simulata come formazione generale, mentre la formazione on the job, formalmente strut-

turata, sarebbe formazione specifica. Tutto ciò ha naturalmente un riflesso sulla struttura dei costi della

formazione, in quanto occorre prevedere, soprattutto nella formazione on the job un rapporto discen-

ti/docenti molto più basso di quello rintracciabile nella forme tradizionali di formazione, oltre a un costo

di struttura per allestire le cosiddette isole di apprendimento con lavoro simulato. Infine sembra opportu-

no ripensare al criterio, ormai anacronistico, di assegnare lo stesso contributo orario ad attività formative

che comportano costi di produzione delle competenze assai diversi.

Un terzo elemento è l’allentarsi del ruolo specialistico e separato del formatore: emerge piuttosto il

suggerimento alle politiche pubbliche di premiare e sostenere quelle iniziative che assumono come obiet-

tivo la creazione di una rete diffusa di formatori nell’impresa, intesi non già come figure specialistiche, ma

come nuove figure polifunzionali che incorporano fisiologicamente, nelle proprie attività di ruolo, anche

l’arricchimento strutturale del sistema formativo aziendale. Ma il ruolo del formatore appena indicato ri-

chiede un’impresa fortemente orientata ai processi formativi: allora, se una finalità dell’operatore pubblico

è far crescere nelle imprese un sistema di formazione e non tanto di sostenere attività formativa in sé pre-

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sa, si dovrebbe porre attenzione particolare ai progetti che prevedono modalità strutturate e continuative

di gestione della formazione.

Un altro fattore di rilievo riguarda l’intervallo di tempo tra l’emersione di fabbisogni formativi e la pos-

sibilità di darvi risposta, tramite il sostegno di risorse pubbliche: esso appare oggi troppo ampio, incon-

gruente con il nuovo assetto temporale della fabbrica. L’accorciamento del tempo di risposta comporta

una maggiore dinamicità, sia dell’organizzazione aziendale nell’identificare i fabbisogni formativi, prende-

re le decisioni conseguenti e darvi attuazione, sia delle strutture e delle procedure dei soggetti erogatori dei

cofinanziamenti e delle agenzie fornitrici del servizio. In particolare, dal punto di vista delle imprese, la

capacità delle politiche pubbliche di rispondere alla domanda di formazione in “tempo reale” appare un

requisito irrinunciabile di buon funzionamento dei processi di ammodernamento dell’azienda. Un dato di

tutta evidenza è la criticità rappresentata dalla frammentazione dei Fondi Interprofessionali e dalla man-

cata integrazione tra le politiche formative dei Fondi con le politiche dell’attore pubblico (Regione e Pro-

vince); ma appare altrettanto chiaro che l’iniziativa per sbloccare la situazione non può che venire dal sog-

getto pubblico.

Un ultimo punto riguarda la necessità di strumenti organizzativi pubblici o pubblici/privati che posso-

no rendere più efficace l’intervento a sostegno dell’innovazione organizzativa delle imprese. potrebbe forse

tornare all’attenzione dei governi locali e dei molti attori collettivi pubblici e privati del territorio coinvolti

la possibilità di proporre una “agenzia per l’innovazione”, con l’obiettivo di incentivare un cooperative lear-

ning tra le imprese, cioè un laboratorio di sviluppo dell’innovazione e diffusione non di singole misure di

cambiamento, ma di approcci innovativi; un laboratorio inteso soprattutto come un’arena cooperativa nel-

la quale interagiscano imprese bisognose e vogliose di innovazione, ma anche imprese “esperte”, enti di

ricerca, rappresentanti delle parti sociali. Alcune piccole imprese intervistate hanno espresso con forza il

bisogno di un attore, sul territorio, disponibile ad accompagnarle verso l’impiego di modelli organizzativi

più evoluti e competitivi, specificamente automotive. Si pone così l’accento su un punto debole del “di-

stretto dell’auto”: il Piemonte rappresenta, infatti, una delle poche aree europee a forte specializzazione

nell’automotive a non essersi dotata di una struttura di coordinamento, di stimolo, di promozione esplici-

tamente rivolta alle imprese appartenenti in generale alla filiera automobilistica, e più in particolare alle

piccole e medie imprese.

***

La ricerca è stata resa possibile dalla collaborazione di molte persone: dirigenti d’azienda, responsabili di

agenzie formative, funzionari della Provincia di Torino, rappresentanti di istituzioni locali, dirigenti di associa-

zioni datoriali e organizzazioni sindacali. A loro va il ringraziamento del gruppo di ricerca per l’impegno e

l’intelligenza con cui hanno partecipato al lavoro, offrendo informazioni ed elementi di analisi ricchi e interessan-

ti, di cui il rapporto riesce solo in parte a dar conto. La ricerca è frutto del lavoro collettivo degli autori, tuttavia la

stesura del rapporto é stata così ripartita: cap. 1, Aldo Enrietti; cap. 2, Andrea Signoretti; cap. 3, Gian Carlo

Cerruti.

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CAPITOLO 1.

Il settore automotive in Italia e in Piemonte.

Quadro di lungo periodo e imprese analizzate.

Il settore della componentistica automotive, sul quale si è operativamente concentrata la ricerca, da sei

anni vive in una situazione di crisi che si è andata aggravando nel tempo. Offrire una rappresentazione

dettagliata di tale crisi è uno degli obiettivi di questo primo capitolo, insieme alla presentazione della

struttura della componentistica italiana e alla descrizione breve delle caratteristiche economiche delle im-

prese coinvolte nella ricerca.

1.1 La crisi nel settore automotive nel mondo e in Italia

Qual è la reale dimensione della crisi per quanto riguarda l’industria dell’autoveicolo? Per rispondere a

questa domanda occorre ragionare a cerchi concentrici, partendo da quello più estremo – il mondo – per

arrivare al dettaglio di cui ci occupiamo – il Piemonte – passando dall’Europa e dall’Italia e utilizzando

due variabili cruciali: la produzione e le vendita di autoveicoli.

La produzione e il mercato internazionale

Se consideriamo la dinamica della produzione mondiale di autoveicoli – auto, veicoli industriali, auto-

bus – negli ultimi dodici anni il dato che emerge è che la crisi si manifesta solo nei primi due anni della

crisi finanziaria innescata dal fallimento della Leman Brothers, ovvero il 2008 e il 2009; nel complesso del

periodo, la produzione mondiale è salita al contrario dai 58,2 milioni (del 2000) agli 84,1 (del 2012), cioè

del 44% (TAB 1).

Ma il fenomeno più significativo all’interno del trend in crescita è il cambiamento del peso delle diver-

se aree e dei paesi di produzione. I cambiamenti intervenuti nel giro del secolo riguardano la crescita del

peso di Asia-Oceania e Sud America, con incrementi che superano il 50%, e la complementare perdita di

quota di NAFTA ed Europa, rispettivamente del 38% e del 32% (TAB 2). I cambiamenti intervenuti nella

classifica dei primi dodici paesi produttori negli ultimi dodici anni (TAB 3) mettono in netta evidenza la

crescita dei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa): la Cina passa dall’ottavo posto del 2000

al primo già nel 2010; il Brasile sale dal dodicesimo al settimo nel 2011; l’India, fuori classifica nel 2000,

sale al sesto posto nel 2011. L’altra faccia di questi dati è la perdita di posizioni dei paesi europei: in parti-

colare l’Italia, undicesima nel 2000, esce di classifica già nel 2005.

TAB. 1 - ANDAMENTO DELLA PRODUZIONE MONDIALE DI AUTOVEICOLI

2000 2001 2002 2003 2004 2005

58.270.105 56.285.409 58.646.815 60.633.994 64.339.935 66.439.616

2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

69.155.171 73.183.335 70.657.242 61.791.868 77.629.127 79.880.028 84.141.209

Fonte: OICA

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TAB. 2 - ANDAMENTO DELLA PRODUZIONE MONDIALE DI AUTOVEICOLI PER AREE

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Mondo 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100

Europa 34.7% 35.6% 33.8% 33.0% 32.4% 31.3% 30.9% 31.2% 30.8% 27.6% 25.5% 26.3% 23.6%

Nafta 30.1% 28.1% 28.5% 26.8% 25.1% 23.7% 23.0% 21.1% 18.3% 14.2% 15.7% 16.8% 18.8%

Sud America 3.6% 3.8% 3.4% 3.4% 4.1% 4.5% 4.5% 5.0% 5.5% 6.1% 5.4% 5.4% 5.0%

Asia-Oceania 31.1% 31.9% 33.6% 36.2% 37.7% 38.8% 40.7% 41.9% 44.5% 51.4% 52.7% 50.7% 51.9%

Africa 0.6% 0.7% 0.6% 0.7% 0.7% 0.8% 0.8% 0.7% 0.8% 0.7% 0.7% 0.7% 0.7%

Fonte: Oica

TAB. 3 - ANDAMENTO DELLA PRODUZIONE MONDIALE DI AUTOVEICOLI PER I PRINCIPALI PAESI

PAESE 2000 PAESE 2005 PAESE 2012

1 Usa 12.799.857 Usa 11.946.653 Cina 19.271.808

2 Giappone 10.140.796 Giappone 10.799.659 Usa 10.328.884

3 Germania 5.526.615 Germania 5.757.710 Giappone 9.942.711

4 Francia 3.348.361 Cina 5.708.421 Germania 5.649.269

5 Sud Corea 3.114.998 Sud Corea 3.699.350 Sud Corea 4.557.738

6 Spagna 3.032.874 Francia 3.549.003 India 4.145.194

7 Canada 2.961.636 Spagna 2.752.500 Brasile 3.342.617

8 Cina 2.069.069 Canada 2.687.892 Messico 3.001.974

9 Uk 1.813.894 Brasile 2.530.840 Canada 2.463.732

10 Messico 1.777.383 Uk 1.803.109 Russia 2.231.737

11 Italia 1.738.315 Messico 1.684.238 Spagna 1.979.179

12 Brasile 1.691.240 India 1.638.674 Francia 1.967.765

58.270.105 66.439.616 84.141.209

Fonte: Oica

La FIG 1 rappresenta bene le diverse velocità fatte segnare dai differenti paesi in questi ultimi dodici

anni: tra quelli che hanno segno più non si trova un solo paese dell’America Settentrionale e dell’Europa

Occidentale, anche la Germania mostra un decremento minimo. Sono, invece, in forte crescita i “paesi

emergenti”, in particolare Cina, India, Sud Corea, Brasile, Russia. Questi dati mostrano come, per i pro-

duttori di componenti, siano profondamente cambiati i mercati sbocco: i tradizionali riferimenti dei paesi

occidentali devono necessariamente essere integrati dai paesi che hanno fatto registrare una forte crescita e

che presentano ancora ulteriori prospettive tanto della produzione che delle vendite.

Anche relativamente alle vendite di veicoli, l’analisi del passato e le previsioni sul medio termine mo-

strano le differenze geografiche già indicate per la produzione. Secondo AlixPartners, fatto 100 il volume

di vendita del 2007 dei veicoli leggeri (auto e veicoli commerciali leggeri) a livello mondiale, nel 2017 do-

vremmo trovarci di fronte a questi dati (FIG 2): a livello complessivo le vendite si dovrebbero collocare con

un incremento di oltre il 44% ma con una netta crescita di Cina (240%), Sud America (173%) ed Europa

dell’Est (21%); al contrario, i paesi tradizionali dovrebbero trovarsi poco sopra al livello del 2000 (Nord

America +4%) oppure sotto (Giappone e Sud Corea -5%, Europa Occidentale -11%).

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FIG. 1 - CRESCITA DELLA PRODUZIONE DI AUTOVEICOLI PER PAESE TRA IL 2000 ED IL 2012

Fonte: Step 2013

FIG. 2 - ANDAMENTO DELLE IMMATRICOLAZIONI

Fonte: Nostra elaborazione da dati AlixPartners 2013

Prendendo in considerazione più nello specifico i paesi europei (TAB 4) e suddividendoli in due parti, i

paesi occidentali e quelli di nuova adesione alla Ue, si vede che nel complesso la produzione dei quindici

paesi tradizionali diminuisce del 25%, contro una crescita di oltre il 180% per i paesi nuovi membri. Con-

siderando invece i singoli paesi, emerge con evidenza il dato della Germania che, fatta eccezione per gli

anni 2002 e 2009, presenta una produzione costantemente superiore ai livelli del 2000. Tutti gli altri paesi

sono in perdita, anche se con diminuzioni di diversa entità: in Uk la produzione 2012 è stata pari

all’86,9% rispetto a quella del 2000; la Spagna si attesta al 65,3%; la Francia al 58,8%; l’Italia al 38,6%. Al

contrario, tutti i paesi nuovi membri Ue hanno quasi triplicato la produzione, soprattutto grazie agli inve-

stimenti delle case automobilistiche, europee e non solo; nel complesso dei paesi dell’Europa Orientale gli

stabilimenti produttivi sono passati da 14 (nel 1990), a 27 (nel 2007), fino a 31 nel 2011 (Klier, Ruben-

stein 2011).

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TAB. 4 - PRODUZIONE DI AUTOVEICOLI PER PAESE IN EUROPA (UNITÀ)

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006

UE 15 17.105.532 17.218.932 16.871.105 16.778.252 16.851.240 16.468.923 16.276.103

Germania 5.526.615 5.691.677 5.469.309 5.506.629 5.569.954 5.757.710 5.819.614

Francia 3.348.361 3.628.409 3.691.930 3.620.056 3.665.990 3.549.003 3.174.260

Spagna 3.032.874 2.849.888 2.855.239 3.029.826 3.012.174 2.752.500 2.777.435

Uk 1.813.894 1.685.238 1.817.402 1.846.429 1.856.539 1.803.109 1.649.789

Italia 1.738.315 1.579.696 1.427.081 1.321.631 1.142.105 1.038.352 1.211.594

Nuovi membri - - - 1.195.069 1.479.672 1.896.130 2.208.168

Rep. Ceca 455.492 465.268 447.088 441.717 448.360 602.237 854.817

Polonia 504.972 347.875 311.132 322.061 601.000 613.200 714.600

Slovacchia - - - - 223.542 218.349 295.391

2007 2008 2009 2010 2011 2012

UE15 16.691.210 15.174.690 12.242.621 13.825.846 14.309.332 12.827.181

Germania 6.213.460 6.045.730 5.209.857 5.905.985 6.311.318 5.649.269

Francia 3.015.854 2.568.978 2.047.693 2.229.421 2.294.889 1.967.765

Spagna 2.889.703 2.541.644 2.170.078 2.387.900 2.353.682 1.979.179

Uk 1.750.253 1.649.515 1.090.139 1.393.463 1.463.999 1.576.945

Italia 1.284.312 1.023.774 843.239 838.186 790.348 671.768

Nuovi membri 3.033.563 3.264.389 3.047.371 3.281.504 3.388.880 3.413.295

Rep. Ceca 937.648 946.567 983.243 1.076.384 1.199.834 1.178.938

Polonia 792.703 945.959 878.998 869.474 837.132 647.803

Slovacchia 571.071 575.776 461.340 561.933 639.763 900.000

PRODUZIONE DI AUTOVEICOLI PER PAESE IN EUROPA (2000 O 2003 BASE 100)

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006

UE15 100 100,7 98,6 98,1 98,5 96,3 95,2

Germania 100 103,0 99,0 99,6 100,8 104,2 105,3

Francia 100 108,4 110,3 108,1 109,5 106,0 94,8

Spagna 100 94,0 94,1 99,9 99,3 90,8 91,6

Uk 100 92,9 100,2 101,8 102,4 99,4 91,0

Italia 100 90,9 82,1 76,0 65,7 59,7 69,7

2007 2008 2009 2010 2011 2012

UE15 97,6 88,7 71,6 80,8 83,7 75,0

Germania 112,4 109,4 94,3 106,9 114,2 102,2

Francia 90,1 76,7 61,2 66,6 68,5 58,8

Spagna 95,3 83,8 71,6 78,7 77,6 65,3

Uk 96,5 90,9 60,1 76,8 80,7 86,9

Italia 73,9 58,9 48,5 48,2 45,5 38,6

2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Nuovi membri 100 123,8 158,7 184,8 253,8 273,2 255,0 274,6 283,6 285,6

Rep. Ceca 100 101,5 136,3 193,5 212,3 214,3 222,6 243,7 271,6 266,9

Polonia 100 186,6 190,4 221,9 246,1 293,7 272,9 270,0 259,9 201,1

Slovacchia 100 97,7 132,1 255,5 257,6 206,4 251,4 286,2 402,6

Fonte: OICA

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5

La produzione e il mercato italiano

In Italia, la produzione di autoveicoli del 2012 è stata pari a quasi il 39% di quella del 2000, passando

da 1.738.000 unità a 671.000 (TAB 5), con una diminuzione del 60%. Differenziando per tipo di veicoli, si

giunge a risultati significativi: la produzione di auto nel 2012 è pari a solo il 28% del dato del 2000

(396.000 auto contro 1.422.000), mentre quella dei veicoli industriali (comprensiva dei veicoli commer-

ciali leggeri) si è attestata all’87,7%. Il dato degli autobus, peggiore di quello dell’auto, deve peraltro scon-

tare che, nel 2012, è stato chiuso lo stabilimento Iveco di Grottaminarda dedicato a questa produzione.

TAB. 5 - PRODUZIONE NAZIONALE DI AUTOVEICOLI

AUTO VEICOLI INDUSTRIALI BUS TOTALE

No. Indice No. Indice No. Indice No. Indice

2000 1.422.284 100 312.868 100 3.163 100 1.738.315 100

2001 1.271.780 89,4 305.710 97,7 2.206 69.7 1.579.696 90,9

2002 1.125.769 79,2 298.715 95,5 2.597 82.1 1.427.081 82,1

2003 1.026.454 72,2 292.327 93,4 2.850 90.1 1.321.631 76,0

2004 833.578 58,6 305.451 97,6 3.076 97.2 1.142.105 65,7

2005 725.528 51,0 309.365 98,9 3.459 109.4 1.038.352 59,7

2006 892.502 62,8 316.225 101,1 2.867 90.6 1.211.594 69,7

2007 910.860 64,0 372.003 118,9 1.449 45.8 1.284.312 73,9

2008 659.221 46,3 363.209 116,1 1.344 42.5 1.023.774 58,9

2009 661.100 46,5 181.135 57,9 1.004 31.7 843.239 48,5

2010 573.169 40,3 263.952 84,4 1.065 33.7 838.186 48,2

2011 485.606 34,1 303.919 97,1 823 26.0 790.348 45,5

2012 396.817 27,9 274.466 87,7 489 15.6 671.768 38,6

Fonte: Anfia

In tema di produzione di auto, l’andamento descritto riflette in parte la crisi più generale dell’industria

automobilistica europea1 ma, soprattutto, esprime le specificità italiane:

• La debolezza della gamma produttiva di Fiat auto in Italia, nel senso della non sostituzione di vetture

giunte a fine vita (ad esempio Fiat Croma, Fiat Idea, Fiat Multipla, Fiat Punto Classic, Lancia Musa,

Lancia Thesis).

• La chiusura dello stabilimento di Termini Imerese, con la produzione trasferita in Polonia da dove è

però ritornata in Italia la produzione della nuova Panda.

• La drammatica caduta delle vendite di auto sul mercato nazionale: da 2.495.115 vetture vendute nel

2007 (anno di massimo in assoluto) si passa a 1.402.986 nel 2012, un calo del 44% (TAB 6). Confron-

tando i dati dell’andamento del mercato in Italia con quelli della produzione nazionale si vede (TAB 7)

come per l’Italia il trend di questo rapporto negli ultimi sei stato, negli ultimi sei anni, negativo e in

continuo peggioramento. Se la Germania e la Spagna producono circa il doppio delle relative imma-

1 La produzione di auto dell’Europa a 15 è diminuita del 16,3% tra il 2000 ed il 2012.

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6

tricolazioni, se la Francia copre quasi il 90% e la Gran Bretagna, pur in assenza di un costruttore na-

zionale, oltre il 70%, in Italia si produce meno del 30% dell’immatricolato, cioè poco più di una vettu-

ra su quattro viene prodotta in Italia.

• La ridotta propensione all’export delle vetture prodotte in Italia, per cui la debolezza del mercato ita-

liano non è stata compensata da un aumento dell’export in quanto anch’esso è diminuito del 53,4%

(TAB 8), contro il -56% della produzione in Italia.

• Il forte sottoutilizzo degli impianti europei nel 2012 (TAB 9) e relativa cassa integrazione per i lavora-

tori italiani: in Italia, in particolare, Mirafiori lavorava al 17%, Cassino al 46%, Pomigliano al 74%

con la nuova Panda.

Unica nota in controtendenza la riapertura dello stabilimento ex Bertone di Grugliasco (Torino) da

parte della Fiat, come sito dedicato alla produzione di vetture Maserati.

TAB. 7 - PRODUZIONE E VENDITE DI AUTOVETTURE PER PAESE

GERMANIA FRANCIA SPAGNA UK ITALIA

PROD VEND P/V PROD VEND P/V PROD VEND P/V PROD VEND P/V PROD VEND P/V

2007 5.709 3.148 181% 2.551 2.110 121% 2.196 1.615 136% 1.535 2.404 64% 911 2.494 37%

2008 5.532 3.090 179% 2.146 2.091 103% 1.943 1161 167% 1.447 2.132 68% 659 2.161 31%

2009 4.965 3.807 179% 1.819 2.302 79% 1.813 953 190% 999 1.995 50% 661 2.160 31%

2010 5.552 2.916 190% 1.924 2.252 85% 1.914 982 195% 1.270 2.031 63% 573 1.962 29%

2011 5.872 3.174 185% 1.931 2.204 88% 1.839 808 228% 1.344 1.941 69% 486 1.749 28%

2012 5.388 3.083 175% 1.683 1.899 89% 1.540 700 220% 1.465 2.045 72% 397 1.403 28%

Fonte: Ferrari 2013

PROD = produzione VEND = vendite P/V = rapporto tra produzione e vendite per 100

TAB. 9 - LIVELLO DI UTILIZZO DELLA CAPACITÀ PRODUTTIVA DI STABILIMENTI FIAT

STABILIMENTO MARCHI PRODUZIONE UTILIZZO CAPACITÀ

PRODUTTIVA

Cassino, Italia Alfa, Fiat, Lancia 91.809 46%

Melfi, Italia Fiat 106.857 36%

Mirafiori, Italia Alfa, Lancia 46.809 17%

Pomigliano, Italia Fiat 155.822 74%

Tychy, Polonia Fiat, Lancia, Ford 293.890 65%

Kragujevac, Serbia Fiat 23.830 13%

Bursa, Turchia Fiat, PSA 189.680 63%

Fonte: Ciferri L., Marchionne's big gamble, Automotive News Europe, 7 marzo 2013

TAB. 6 - IMMATRICOLAZIONE DI AUTO IN ITALIA

ANNI AUTO %

2007 2.494.115 100,0%

2008 2.161.359 86,7%

2009 2.159.924 86,6%

2010 1.962.042 78,7%

2011 1.749.294 70,1%

2012 1.402.986 56,3%

Fonte: Anfia

TAB. 8 – ANDAMENTO EXPORT AUTOVETTURE

ANNI AUTO %

2007 374.177 100%

2008 279.670 74.7%

2009 251.038 67.1%

2010 231.557 61.9%

2011 203.769 54.5%

2012 174.514 46.6%

Fonte: Anfia

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7

1.2 Il settore della componentistica automotive in Italia

Secondo Step (2013) i produttori italiani di componenti, circa 2500 imprese, nel 2012 hanno fatturato

37,98 miliardi di euro, contro i 41,8 miliardi del 2011 (-9,2%); in totale hanno impiegato 166.086 addetti

rispetto ai 179.101 del 2011, con una perdita del 7,3% (TAB 10). I dati del Piemonte sono migliori (nel

senso del meno peggio) attestandosi su un fatturato -5,25 e addetti -4%. Il Piemonte rappresenta nel

complesso il 47% del fatturato e il 54% degli addetti in un settore caratterizzato dalle ridotte dimensioni

delle imprese: segnala Step che nel 2012 le imprese sotto i 50 addetti rappresentano circa il 75% del totale

italiano (in Piemonte una quota minore, il 67%), ciò rappresentando un elemento di debolezza soprattut-

to in termini di capacità innovativa.

TAB. 10 - LA FILIERA AUTOMOTIVE ITALIANA AL 2012

IMPRESE DIPENDENTI

2012

DIPENDENTI

2011

FATT. TOT.

2012 (MLD €)

FATT. TOT.

2011 (MLD €)

VAR % FATT.

2012/11

FATT. AUTO

2012

Italia

Totali 2.427 166.086 179.101 37,96 41,80 - 9,2% 32,60

Piemonte 872 90.437 94.303 17,95 18,93 -5,2% 15,01

Resto d’Italia 1.555 75.650 84.798 20,01 22,87 -12,5% 17,59

Engineering & Ddesign 241 11.899 14.132 2,24 2,85 - 21,4% 2,05

Sistemisti e modulisti 57 24.309 25.322 5,88 6,17 - 4,7% 4,79

Specialisti 793 69.791 74.012 17,31 18,68 - 7,3% 14,52

Subfornitori 1.336 60.087 65.635 12,53 14,10 - 11,2% 11,23

Piemonte

Totali 872 90.437 94.303 17,95 18,93 -5,2% 15,01

Engineering & Design 125 9.568 9.662 1,88 1,85 - 1,6% 1,73

Sistemisti e modulisti 32 16.101 16.580 3,87 4,02 - 3,7% 3,28

Specialisti 251 33.710 34.711 6,76 7,15 - 5,5% 5,21

Subfornitori 464 31.297 33.350 5,43 5,91 - 8,1% 4,79

Fonte: Step 2013

La diversificazione merceologica è limitata, in quanto l’84% del fatturato è diretto al settore automoti-

ve, valore che diminuisce al crescere della dimensione aziendale. La diversificazione è inoltre differenziata

a livello regionale: risulta più alta in Emilia-Romagna dove le imprese sono focalizzate non solo

sull’automotive ma anche sui motocicli, sulle macchine per l’agricoltura e altri settori (Bardi, Calabrese,

2007), e inferiore in Piemonte dove le imprese sono più dedicate al Gruppo Fiat (Enrietti et Alii, 2010).

Infatti, se la dipendenza dal Gruppo Fiat è ancora elevata, anche se in diminuzione nel tempo, a livello

nazionale (40,7%), in Piemonte essa è del 46,4% (Step 2013). L’export totale è stimato intorno al 50% del

fatturato (48,7% per il Piemonte) ed è costantemente in crescita negli ultimi anni: nel campione intervi-

stato da Step gli esportatori sono ormai più numerosi di coloro che forniscono il gruppo torinese, sia in

Piemonte (80% delle imprese) che nel resto d’Italia (70% delle imprese).

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8

L’Osservatorio Step del 2011 (pag. 60) così descrive l’articolazione funzionale del settore:

“L’Osservatorio della filiera analizza il cluster nazionale non solo come corpo unico ma trasformato in una

“arancia” composta da diversi “spicchi”: fornitori di moduli e sistemi (OEM, costituito soprattutto da gran-

di imprese multinazionali italiane ed estere), engineering and design (E&D), specialisti (produttori di parti

e componenti con un contenuto di innovazione e specificità tale da costituire un vantaggio competitivo) e

subfornitori (parti e componenti più semplici, facilmente replicabili dalla concorrenza)”. La TAB 11 mo-

stra la composizione del 2012 per quanto riguarda il Piemonte: le imprese più numerose sono quelle di

subfornitura (53%), che però, essendo le più piccole per dimensione, pesano intorno al 30% in termini di

fatturato e addetti; al contrario, i fornitori di primo livello di moduli e sistemi sono numericamente pochi

(4%) ma con elevata dimensione media (503 addetti), per cui il loro peso su fatturato (21,6%) e addetti

(17,8%) è decisamente più alto.

Se quello sopra tracciato costituisce un quadro della struttura dell’industria dei componenti in Italia

possiamo affrontare un punto centrale di questo capitolo: come hanno reagito queste imprese di fronte

alla crisi di Fiat e dell’auto europea più in generale? I dati Istat sul commercio estero e alcune recenti ricer-

che di carattere nazionale e regionale (Step vari anni; Enrietti et Alii, 2010) hanno infatti evidenziato una

notevole capacità di tenuta di questo settore. I dati del commercio estero (TAB 12) indicano come alla ca-

duta dell’export nel 2009 sia seguita una forte ripresa negli anni successivi, tale da più che recuperare il li-

vello del 2007 – ripresa che, di fronte alla caduta delle importazioni, ha condotto a un aumento del saldo

commerciale che ha superato i sette miliardi di euro nel 2012.

TAB. 11 - LA STRUTTURA DEL SETTORE COMPONENTI

IMPRESE FATTURATO ADDETTI ADDETTI MEDI

Moduli, sistemi 4% 21,60% 17,80% 503,2

Specialisti 29% 37,70% 37,00% 133,3

Subfornitori 53% 30,30% 34,60% 67,5

Engineering & Design 14% 10,50% 10,60% 76,5

Totale 100 100 100 103,7

Fonte: Step, 2013

TAB. 12 - ANDAMENTO DEL COMMERCIO ESTERO DI COMPONENTI

IMPORT EXPORT SALDO

2007 12.053.628.806 18.810.757.764 6.757.128.958

2008 11.748.249.439 18.556.695.690 6.808.446.251

2009 9.096.752.061 13.091.537.777 3.994.785.716

2010 10.663.844.408 16.466.904.961 5.803.060.553

2011 11.799.217.583 19.104.518.929 7.305.301.346

2012 10.640.753.412 18.107.589.127 7.466.835.715

Fonte: elaborazioni Anfia su dati Istat

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In effetti, i rapporti annuali di Step sull’Osservatorio sulla filiera autoveicolare italiana hanno costan-

temente sottolineato come la tenuta del settore dipendesse in buona misura dall’export: riportiamo alcuni

commenti apparsi nel rapporto Step del 2012, relativo al 2011: “Con una produzione finale nazionale

complessivamente in flessione, i risultati positivi sono in gran parte dovuti alla capacità che le nostre im-

prese hanno di esportare”(pag. 37-38). Recentemente AlixPartners ha sostenuto che: “Negli ultimi dodici

anni il peso della componente di fatturato estero rispetto a quella nazionale è cresciuto in modo significa-

tivo […] la filiera italiana dei fornitori automotive si è quindi orientata verso l’export per compensare il

calo del mercato interno” (FIG 3).

Se verifichiamo la capacità di reazione con i sotto-comparti produttivi descritti in precedenza “si osser-

va come a soffrire maggiormente del calo della produzione nazionale siano state (sia in Piemonte, che nel

resto d’Italia) le imprese che fabbricano moduli o sistemi per auto, che sono tradizionalmente più dipen-

denti dalla produzione di prossimità. Anche le società che forniscono servizi di ingegneria e design incon-

trano difficoltà legate al rallentamento della progettazione di nuovi prodotti o all’insourcing della stessa

[...] Infine, si registra il successo di quei produttori di componenti specifici o subfornitori che negli ultimi

anni sono riusciti a vincere la concorrenza diversificando i propri mercati di sbocco” (Step 2012, pag. 53).

Emerge quindi un quadro in cui la debolezza della produzione nazionale di auto viene, per i componenti-

sti, in parte compensata dalla crescita dell’export, contrariamente a quanto accaduto nella produzione au-

tomobilistica.

FIG. 3 - COMPOSIZIONE FATTURATO COMPONENTISTI ITALIANI (2005 = 100)

Fonte: Aversa F. (AlixPartners) 2013

La mortalità delle imprese

Di fronte a un quadro a tinte fosche della produzione automobilistica di Fiat in Italia (oltre alla più

generale crisi europea) ci si può legittimamente interrogare su quali siano stati gli effetti sulle imprese di

componentistica, tenendo conto della loro storica dipendenza dalla casa torinese. Come abbiamo visto, i

dati Istat sul commercio estero e alcune ricerche hanno evidenziato una notevole capacità di tenuta del

settore; non hanno invece messo n luce una pesante realtà che ha accompagnato questi anni: la chiusura di

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impianti e di imprese, soprattutto per fallimento2. Di questa realtà si ha invece sentore negli articoli della

stampa quotidiana, in particolare di quella a carattere regionale, ma senza che sia possibile una visione sto-

rica e d’insieme del fenomeno. Volendo coprire questa lacuna, Calabrese e Enrietti (2013) hanno analiz-

zato – utilizzando la banca dati Aida – le imprese della componentistica che hanno cessato la loro attività

nel periodo 2007-2012, per chiusura volontaria, fallimento, liquidazione o incorporazione. Dalla ricerca

emerge come circa il 15,9% delle imprese del campione esistente al 2007 è diventata inattiva nell’arco di

un lustro, con una media annua del 3-4% di chiusure, mentre l’81,1% delle imprese risulta essere ancora

attiva. Il rimanente 3% del campione ha subito un processo di concentrazione finanziario e quindi di au-

mento delle dimensioni economiche e/o finanziarie. Due sono i risultati che qui assumono maggior signi-

ficato: la diffusione territoriale e la diffusione dimensionale.

Se si considera la diffusione territoriale, si nota che l’impatto della crisi sulla localizzazione delle impre-

se del settore si presenta diversa da quanto atteso (TAB 13). Infatti, rispetto al dato medio del 15,9% di

cessazioni, la maggiore incidenza del fenomeno riguarda non tanto il Piemonte (le imprese inattive sono il

14,4%), certamente la regione più colpita dal punto di vista quantitativo dalla crisi produttiva di Fiat con

lo stabilimento di Mirafiori, ma il Sud d’Italia (22,6%) che ha visto il cambio di produzione nello stabili-

mento Fiat di Pomigliano (con la fine della produzione delle Alfa e l’avvio di quella della Fiat Panda) e la

chiusura dello stabilimento di Termini Imerese, seguito dal Centro Italia (18,8% delle imprese inattive)

dove è presente lo stabilimento di Cassino della Fiat. Al contrario, è significativo che regioni come il Ve-

neto (13,8%) e soprattutto l’Emilia-Romagna (10,7%) registrino il minore livello di cessazioni. Sono in-

fatti regioni che hanno sviluppato una produzione di componentistica che, per il Veneto, è prevalente-

mente al di fuori della fornitura a Fiat Auto mentre, per l’Emilia-Romagna, presenta un carattere duplice:

da un lato, pur in ambito Fiat, è al di fuori sia delle vetture di massa (con la fornitura a Ferrari e Maserati)

sia dell’autoveicolo stesso (come per i trattori); dall’altro, una parte importante della produzione si colloca

al di fuori del Gruppo Fiat3.

Per considerare la diffusione dimensionale, è stata adottata la normativa comunitaria che prevede tre

raggruppamenti con riferimento al fatturato: micro imprese (meno di 2 milioni di euro; 35% del campio-

ne); piccole imprese (da 2 a 10 milioni di euro; 36,4% del campione); medie imprese (da 10 a 50 milioni

di euro; 21% del campione). A questi sono stati aggiunti quello delle imprese medio-grandi (da 50 a 300

milioni di euro; 6,4% del campione) e delle grandi imprese (superiori a 300 milioni di euro; 1,1% del

campione). Dal punto di vista dimensionale si possono osservare comportamenti significativamente diffe-

renti (TAB 14): emerge con nettezza come la crisi, almeno fino al 2012, abbia colpito più duramente so-

prattutto le micro imprese (qui le imprese inattive sono il 21,1%), mentre per le altri classi dimensionali la

2 Nel rapporto dell’Osservatorio del 2012 si ha per la prima volta una notazione in questo senso: “Un'altra conseguenza della fase di

difficoltà sui mercati è la spinta al ricambio della base produttiva. L’Osservatorio ha svolto una revisione delle imprese contenute nel

database, registrato la cessazione dell’attività di 299 imprese (su di un universo di circa 2700 imprese) nell’arco di tre anni. Queste

imprese, ancora nel 2007, avevano un fatturato pari a due miliardi di euro” (pag. 44). Anche in un ricerca realizzata nel 2010

dall’Istituto di Ricerca Economico Sociale della Regione Piemonte sulle PMI piemontesi del settore automobilistico poneva in evidenza

come i dati si riferissero alle imprese sopravvissute alla crisi. 3 Secondo dati Istat, Veneto e Emilia-Romagna rappresentavano nel 2007 circa il 23% delle esportazioni italiane del settore, mentre

il Sud Italia meno del 3%.

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11

percentuale è inferiore alla media e si riduce progressivamente al crescere della dimensione, fino ad azze-

rarsi per le imprese con un fatturato maggiore di 300 milioni di euro e “solo” il 4,5% delle medio-grandi

ne è coinvolta. L’altra faccia della medaglia è che sono le imprese maggiori, a partire da quelle di media

dimensione, ad essere maggiormente coinvolte nei processi di fusione e incorporazione (7,1% delle grandi

imprese).

Siamo pertanto di fronte a un processo abbastanza netto di selezione: le micro imprese, che possiamo

definire marginali e che contengono soprattutto imprese di subfornitura, per oltre un quinto sono espulse

dal mercato; le imprese da medie a grandi, non solo sopravvivono ma si rafforzano in termini finanziari,

con la costituzione o l’allargamento dei gruppi industriali o finanziari.

TAB. 13 - DISTRIBUZIONE PER REGIONI DELLE IMPRESE DELLA COMPONENTISTICA

ATTIVE INCORPORATE INATTIVE TOTALE

Piemonte 82,1 3,5 14,4 100

Lombardia 79,4 3,1 17,5 100

Veneto 84,4 1,8 13,8 100

Emilia-Romagna 86,5 2,8 10,7 100

Resto Nord Italia 80,0 - 20,0 100

Italia Centrale 78,6 2,6 18,8 100

Sud Italia 74,8 2,6 22,6 100

Totale 81,1 3,0 15,9 100

Fonte: Calabrese, Enrietti 2013

TAB. 14 - DIMENSIONE DELLE IMPRESE DELLA COMPONENTISTICA

ATTIVE INCORPORATE INATTIVE TOTALE

Micro 77,0 1,9 21,1 100

Piccole 82,5 2,5 15,0 100

Medie 82,4 4,6 13,0 100

Medio-Grandi 89,8 5,7 4,5 100

Grandi 92,9 7,1 0,0 100

Totale 81,1 3.0 15,9 100

Fonte: Calabrese, Enrietti 2013

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12

1.3 Le imprese della ricerca e le loro principali caratteristiche

Diamo qui una breve descrizione delle principali caratteristiche delle imprese coinvolte nello studio, in

modo da fornire un quadro di riferimento quantitativo alle interviste che hanno carattere qualitativo.

Le caratteristiche strutturali

La distribuzione dimensionale (TAB 15) vede una netta prevalenza delle imprese medio-grandi, da 100

a 250 addetti (53,4% del campione), seguite dalle imprese di piccola dimensione, da 10 a 50 addetti

(33,3%), infine due imprese piccole-medie, da 50 a 100 addetti (13,3%). Di conseguenza, la dimensione

media del campione è decisamente alta, 269 addetti, in quanto le imprese medie occupano il 18% degli

addetti e quelle grandi ben il 75%. È stato accennanto in introduzione, ma vale qui la pena ribadirlo, che

il campione di questo studio non ha caratteri di rappresentatività statistica dell’universo.

La netta maggioranza delle imprese è fortemente legata al mercato automotive (TAB 16), con il 73%

che dipende totalmente da questo mercato e un altro 13% che vi dipende tra il 50 ed il 75%. La dipenden-

za da Fiat è piuttosto differenziata, andando dallo zero al 100% per una sola impresa. Stante l’elevata con-

centrazione sul mercato automotive, ma la bassa (in media) dipendenza da Fiat, la conseguenza è

un’elevata propensione all’export, con tre imprese che superano il 50%. Inoltre, una sola impresa ha inizia-

to il percorso lean su sollecitazione di Fiat, tutte le alte hanno proceduto in modo autonomo. Le imprese

nazionali sono la maggioranza con il 60%, mentre le imprese appartenenti a gruppi esteri sono il rimanen-

te 40%. Come risulta dalla TAB 15, sono queste le imprese di maggiore dimensione.

L’approccio alla strategia lean appare molto distribuito nel tempo, in quanto si va dal 1990 al 2013

(TAB 17). Le due imprese che iniziano nel 1990 sono però due filiali italiane di grandi multinazionali

estere, e seguono la strategia di gruppo di investire in questa direzione; tutte le altre imprese si avvicinano

all’approccio lean solo a partire dalla seconda metà del primo decennio del secolo. Un dato significativo è

che poco più del 50% delle imprese del campione ha iniziato durante l’attuale crisi: essa appare quindi uno

stimolo per intraprendere il percorso lean piuttosto che un freno.

TAB. 15 - DISTRIBUZIONE DIMENSIONALE DELLE IMPRESE

CLASSI ADDETTI IMPRESE ADDETTI DIM. MEDIA

10-50 5 33,3% 133 3,3% 26,6

50-100 2 13,3% 157 3,9% 78,5

100-250 4 26,7% 730 18,1% 182,5

500-1000 4 26,7% 3020 74,8% 755

15 100,0% 4040 100,0% 269,3

Fonte: Serie storiche conto economico da Camera di Commercio

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13

Le caratteristiche economiche in base ai bilanci

In questa sezione prendiamo in considerazione le principali variabili del conto economico delle impre-

se4, così come sono rese disponibili dalla Camera di Commercio per gli anni dal 2002 al 2011: poiché ci

interessa l’andamento delle variabili stesse nel periodo considerato, le tabelle riporteranno solo i numeri

indici con il 2002 come anno base. Abbiamo inoltre escluso le sei imprese multinazionali in quanto, per la

loro dimensione e la natura proprietaria, non sarebbero state coerenti con le imprese nazionali e di piccola

e media dimensione, oggetto principale di questa ricerca.

Occorre sottolineare che le valutazioni qui fornite, in ragione del numero limitato di imprese conside-

rate nello studio, non possono essere generalizzate all’universo del settore.

Prendendo in considerazione il valore della produzione5, la TAB 18 evidenzia come cinque imprese su

nove registrino un valore crescente nel periodo e con tassi di incremento superiori al tasso di inflazione; in

alcuni casi la crescita assume ordini di grandezza decisamente significativi. Per le imprese che fanno regi-

strare un calo di questo valore occorre considerare che, in termini reali, la diminuzione è maggiore in

quanto occorre tenere conto dell’inflazione.

Se si considera invece il risultato operativo6 su valore della produzione (TAB 19), le evidenze sottoli-

neate nel punto precedente trovano conferma in questa variabile: tranne un’impresa con risultati in negati-

vo soprattutto negli anni della crisi, tutte le altre fanno registrare una redditività positiva e in alcuni casi

crescente anche nel periodo di crisi.

Il fatto che si tratti di imprese “robuste” economicamente è anche dimostrato dall’andamento degli

addetti (TAB 20): cinque imprese su nove incrementano l’occupazione, una è sostanzialmente stabile e tre

registrano un calo occupazionale.

4 Poiché la fonte dei dati sono i bilanci delle imprese, mentre per la nostra ricerca oggetto di analisi sono stati gli stabilimenti, questo

tipo di analisi non si sovrappone esattamente a quella delle interviste per quanto riguarda il valore del fatturato e l’ammontare degli

addetti. 5 Contabilmente, questa variabile rappresenta la somma dei Ricavi delle vendite e delle prestazioni, delle Variazioni delle rimanenze

dei prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti, delle Variazioni dei lavori in corso su ordinazione e degli Incrementi di

immobilizzazioni per lavori interni. L’ammontare è generalmente superiore a quello del fatturato. 6 Il risultato operativo esprime il risultato aziendale prima delle imposte e degli oneri finanziari.

TAB. 16 - DIPENDENZA DAL MERCATO AUTOMOTIVE

DIPENDENZA IMPRESE

% N. %

100% 11 73,3%

50-75% 2 13,3%

0 2 13,3%

15 100,0%

Fonte: Interviste

TAB. 17 - ANNO DI INIZIO DELLA STRATEGIA LEAN

ANNO IMPRESE %

1990 2 13,3%

2005-2007 5 33,3%

2009 1 6,7%

2011 4 26,7%

2012 2 13,3%

2013 1 6,7%

15 100,0%

Fonte: Interviste

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TAB. 18 - ANDAMENTO DEL VALORE DELLA PRODUZIONE

2011 2010 2009 2008 2007 2006 2005 2004 2003 2002

IMPRESA 1 68,7% 74,0% 64,2% 112,7% 123,0% 136,2% 123,3% 115,3% 0,1% 100%

IMPRESA 2 157,7% 102,0% 91,9% 188,8% 173,3% 152,4% 130,6% 119,8% - 100%

IMPRESA 3 95,6% 105,9% 77,8% 124,5% 146,3% 133,5% 123,6% 108,8% 100,2% 100%

IMPRESA 4 432,9% 592,2% 763,9% 579,1% 320,2% 327,1% 247,9% 154,9% 103,4% 100%

IMPRESA 5 86,8% 93,5% 105,4% 111,3% 142,8% 163,0% 140,7% 116,1% 133,5% 100%

IMPRESA 6 156,7% 112,0% 109,3% 148,0% 98,3% 103,5% 135,1% 117,8% 86,2% 100%

IMPRESA 7 175,8% 74,1% 105,5% 141,0% 145,4% 121,3% 119,0% 114,3% 75,2% 100%

IMPRESA 8 149,0% 138,6% 103,2% 126,5% 130,2% 105,0% 106,2% 100,0% - -

IMPRESA 9 80,3% 95,4% 72,1% 93,8% 62,4% 56,4% 77,4% - 100%

Fonte: Serie storiche conto economico da Camera di Commercio

TAB. 19 - ANDAMENTO DELLA REDDITIVITÀ

2011 2010 2009 2008 2007 2006 2005 2004 2003 2002

IMPRESA 1 4,8% 0,1% -0,6% 2,6% 3,1% 4,1% 2,0% -1,5% 0,7% 1,1%

IMPRESA 2 8,9% 5,0% -0,6% 8,4% 12,4% 9,0% 2,1% 7,2% - 5,7%

IMPRESA 3 5.8% 12,0% 4,9% 3,9% 9,0% 9,5% 16,1% 12,8% 14,4% 18,3%

IMPRESA 4 4,3% 22,3% 30,3% 22,0% 13,9% 15,9% 13,2% 8,5% 1,8% 2,5%

IMPRESA 5 4,7% 2,4% 2,6% 5,1% 4,4% 2,1% 4,2% 2,4% 4,5% 4,5%

IMPRESA 6 5,1% 4,1% 1,1% 2,4% -2,0% 4,9% 6,6% 4,0% 4,0% 5,7%

IMPRESA 7 4,7% -2,9% -5,4% 7,5% 3,9% 17,8% 6,3% 11,4% 10,4% 5,5%

IMPRESA 8 -7,9% -4,9% -15,0% -3,3% 0,2% -0,4% 3,4% 1,6% - -

IMPRESA 9 2,0% -1,9% -1,0% 3,2% 3,1% 0,9% 1,7% - 18,9%

Fonte: Serie storiche conto economico da Camera di Commercio

TAB. 20 - ANDAMENTO DELL’OCCUPAZIONE

2011 2010 2009 2008 2007 2006 2005 2004 2003 2002

IMPRESA 1 76,7% 93,3% 93,3% 100% 106,7% 110,0% 103,3% 113,3% 3,3% 100%

IMPRESA 2 97,0% 97,0% 109,1% 122,2% 110,1% 105,1% 93,9% 84,8% - 100%

IMPRESA 3 61,6% 62,3% 63,0% 71,7% 72,5% 72,5% 71,0% 69,6% 105,8% 100%

IMPRESA 4 343,8% 411,2% 431,8% 327,9% 151,5% 151,5% 151,5% 118,9% 103,0% 100%

IMPRESA 5 115,4% 121,6% 127,3% 133,1% 161,2% 160,0% 158,5% 152,2% 128,1% 100%

IMPRESA 6 800,0% 650,0% - 650,0% - - - - 150,0% 100%

IMPRESA 7 122,2% 122,2% 111,1% 100% - - - - 77,8% 100%

IMPRESA 8 135,6% 108,9% 113,3% 108,9% 113,3% 111,1% 106,7% 100% - -

IMPRESA 9 - 60,0% 61,5% 60,0% 56,9% 64,6% 60,0% 61,5% - 100%

Fonte: Serie storiche conto economico da Camera di Commercio

Dalle interviste emerge poi un elemento, più di carattere qualitativo, che rafforza l’immagine di “ro-

bustezza” appena indicata, ossia l’attività innovativa. Occorre una premessa di carattere definitorio: spesso

l’innovazione viene ridotta alle sole innovazioni di prodotto e di processo, e poi si effettua una ulteriore

riduzione concentrandosi sulla Ricerca e Sviluppo (R&S) in questo modo “dimenticando” altre forme di

attività innovativa, in particolare quella di carattere organizzativo. Ora, la strategia lean si configura esat-

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Lean production e territorio / RAPPORTO DI RICERCA / DICEMBRE 2013

15

tamente come una innovazione organizzativa7 e, analizzando le interviste, emerge come per tutte sia netta

l’esigenza di tale innovazione per fronteggiare la crisi e i mutamenti intervenuti negli ultimi anni

nell’ambiente economico; riportiamo alcune dichiarazioni al proposito:

Tutti i vari comparti che costituiscono la realtà aziendale dovevano essere riorganizzati.

La crisi ha portato a un cambiamento di marcia, bisognava cambiare metodo di lavoro, bisognava di-

ventare molto più professionali.

Necessità di correggere alcune nostre procedure per poter lavorare in modo più efficiente.

Bisogna essere più bravi internamente e lavorare meglio sull’ottimizzazione […] necessità di costruire

una mentalità nuova volta al miglioramento continuo.

Abbiamo bisogno di crescere e cambiare mentalità; l’altra parola d’ordine è: se c’è da fare formazione,

lavorare sull’aspetto organizzativo, non lesiniamo.

Alcune imprese associano poi all’innovazione organizzativa, direttamente rivolta alla ricerca e sviluppo:

La lean tende a ridurre gli sprechi e ad eliminare tutte quelle risorse che non danno valore, (ma anche)

la società ha depositato diversi brevetti premiati dal mercato.

La crisi è strutturale, non ciclica, se continuiamo a lavorare e pensare come ieri facciamo prima a

chiudere, dobbiamo cambiare radicalmente il nostro modo di essere, e non si cambia senza gli stru-

menti adeguati (ma anche) Fino al 2011 investivamo come media annua il 4% del fatturato in ricerca e

sviluppo, e nel 2012-13-14 abbiamo aumentato.

Un elemento va ancora ricordato: la strategia della lean production rappresenta un investimento di lun-

go periodo cioè non condizionato dalla congiuntura economica.

1.4 La strategia di lean production e la Fiat.

Occuparsi della strategia lean da parte delle imprese della componentistica non può non tirare in ballo

la politica Fiat in questa direzione. Come è noto, Fiat ha introdotto recentemente presso i suoi stabili-

menti il World Class Manufacturing (WCM) e intende estendere progressivamente tale sistema organizza-

tivo della produzione anche ai suoi fornitori (FIG 4).

7 Senza scomodare Schumpeter è sufficiente riportare la definizione di innovazione organizzativa utilizzata dalla Rilevazione statisti-

ca sull’innovazione nelle imprese curata con cadenza biennale dall’Istat: “Le innovazioni organizzative comportano mutamenti signifi-

cativi nelle procedure operative aziendali, nella organizzazione del lavoro o nelle relazioni con l’esterno e sono finalizzate a migliora-

re la capacità innovativa o le prestazioni dell’impresa”.

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FIG 4 - PROGRAMMA FIAT DI ESTENSIONE DEL WCM AI FORNITORI

Fonte: Massone L., World Class Manufacturing, Presentazione al seminario TNO su World Class Manufacturing, Torino 31 gennaio 2012

Ma l’interesse di Fiat all’estensione ai propri fornitori delle proprie pratiche di innovazione organizza-

tiva di carattere lean risale agli anni ’90 con due successive iniziative di Crescita guidata (Folli et alii 2003).

Nel 1990 Fiat Auto lanciò un progetto volto ad aiutare un buon numero dei propri fornitori a sviluppare

nuove competenze per abbattere i costi e strutturare l’azienda secondo criteri di efficienza e di rapidità di

risposta alle esigenze del mercato. Il progetto venne denominato Sviluppo e integrazione del sistema fornito-

ri, meglio conosciuto come Crescita guidata, ed era rivolto alle imprese definite co-leader, ovvero quei for-

nitori che, pur non avendo livelli di qualità e affidabilità sufficienti, avevano però buone potenzialità di

miglioramento: in tutto, nell’arco di quattro anni, furono coinvolti 304 componentisti, pari al 55% delle

imprese fornitrici. Questa iniziativa, però, essendo rivolta ai fornitori di primo livello, non affrontava di-

rettamente il problema della ridotta efficienza dei fornitori di secondo e terzo livello, livello si annidavano

buona parte dei problema di qualità.

Pertanto, nel 1998 Fiat Auto decise di assumere un ruolo attivo nei confronti di questa tipologia di

imprese rilanciando l’iniziativa della Crescita guidata ma, questa volta, verso i fornitori di secondo e terzo

livello, attraverso il coinvolgimento dei fornitori di primo livello. Infatti, il progetto di Fiat si basava sul

fatto che i fornitori di primo livello potevano giocare, verso i fornitori di secondo e terzo, lo stesso ruolo

che Fiat aveva svolto nei loro confronti con la prima Crescita guidata: ad essi veniva affidato il compito di

seguire la crescita dei loro fornitori e di assicurare l’implementazione pratica di quanto appreso nella parte

di formazione relativa alla regolamentazione del processo produttivo, alla qualità in produzione e tecniche

preventive per il processo, alle metodologie per il miglioramento della qualità – si tratta di alcuni aspetti

che caratterizzano il processo lean. L’iniziativa venne presentata ad oltre 130 fornitori di primo livello e a

circa 700 loro subfornitori: vi parteciparono poi concretamente 102 fornitori di primo livello e 428 di se-

condo livello, prevalentemente di piccola dimensione. In sintesi, “questa iniziativa ha permesso di rendere

più solida la struttura organizzativa dei fornitori di secondo livello e, per questa via, di aumentare il livello

di autonomia da Fiat Auto” (Enrietti, Whitford, 2006). L’attività di formazione all’interno della Crescita

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guidata terminò nel novembre 2000, in contraddizione con uno dei suoi obiettivi qualificanti, ovvero

l’ulteriore allargamento dell’iniziativa ad altri fornitori di primo e secondo livello: la fine dell’iniziativa è

legata alla ridefinizione delle priorità all’interno di Fiat stessa a seguito dell’alleanza con GM siglata in

quell’anno. Nonostante la fine anticipata, l’iniziativa contribuì a diffondere presso la platea dei fornitori di

secondo e terzo livello, cioè piccole-medie imprese, le tematiche dell’organizzazione lean.

Ciò che è mancato in questi tredici anni è la presenza di un attore pubblico/privato che portasse avanti

in modo collettivo una iniziativa che fino ad allora era stata opera di una impresa: “In Europa, il Piemonte

rappresenta una delle poche aree a forte specializzazione nell’auto a non essersi dotata da tempo di una

struttura di coordinamento, di stimolo, di promozione esplicitamente rivolta alle imprese appartenenti in

generale alla filiera automobilistica, e più in particolare alle piccole e medie imprese” (Enrietti, Pichierri,

Vercelli, 2003). Tale mancanza è stata anche sottolineata da alcuni interlocutori del nostro studio, come si

vedrà nel CAP 2, alcune piccole aziende hanno proprio lamentato la mancanza di un attore, nel territorio,

che sia disponibile ad accompagnarli verso l’utilizzo di modelli organizzativi più evoluti e competitivi.

HIGHLIGHTS

• Se si considera la dimensione mondiale, l’industria autoveicolistica non manifesta segni di crisi, an-

zi la produzione e le vendite sono in crescita continua, tranne il 2008 e il 2009. A livello di aree re-

gionali, la crisi si concentra esclusivamente nel Nord America e in Europa. Ma l’Europa presenta

una duplice faccia: quella Occidentale con calo della produzione delle vendite e quella Orientale

che procede in direzione opposta.

• La nuova direzione geografica dello sviluppo mondiale chiede ai componentisti la ridefinizione

delle proprie strategie di mercato. L’Italia è il paese, in Europa, nella posizione peggiore: la produ-

zione di autoveicoli del 2012 è stata pari a quasi il 39% di quella del 2000, ma per l’auto siamo al

29%. Nonostante il calo delle vendite, in Italia la produzione di auto rappresenta meno del 30% del

mercato.

• In questo quadro, il settore della componentistica italiana ha tenuto meglio di quello dell’auto gra-

zie alle esportazioni che hanno compensato la diminuzione del mercato nazionale. La miglior te-

nuta del settore della componentistica non elimina la realtà delle chiusure di imprese, circa il 3-4%

l’anno negli ultimi cinque anni. Tale fenomeno pare aver colpito maggiormente da un lato le im-

prese delle regioni del Centro e del Sud Italia e, dall’altro, le imprese di più piccola dimensione.

• In estrema sintesi, due sono gli elementi di rilievo: la tenuta delle imprese dipende dalla capacità di

stare sull’export; le difficoltà maggiori sono delle piccole imprese.

• La strategia lean non si presenta come uno strumento per uscire dalla crisi in termini congiunturali

ma come una strategia di lungo periodo in grado di sostenere un progetto impegnativo come la

riorganizzazione dell’impresa: infatti essa coinvolge sia imprese con un giro d’affari in diminuzione,

che imprese in forte crescita

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CAPITOLO 2.

Innovazione, organizzazione della produzione e del lavoro

e coinvolgimento dei lavoratori.

2.1 Cambiamenti organizzativi, sistemi di gestione delle relazioni di lavoro e competitività.

Innovazione focalizzata o sistemica?

Nel CAP 1 si è fatto riferimento al fatto che le imprese tendono a considerare come innovazione i cam-

biamenti introdotti in termini di processo e prodotto, trascurando gli interventi di tipo organizzativo.

Tuttavia, quest’ultimi rappresentano uno degli elementi fondamentali del modello produttivo lean, la cui

adozione viene da molti considerata necessaria per garantire la competitività delle imprese, essendo tale

sistema organizzativo in grado di garantire una maggiore efficienza interna e una più elevata produttività,

elementi fondamentali nell’attuale situazione di concorrenza internazionale, rispetto al tradizionale mo-

dello taylor-fordista.

Più in generale, nei nuovi modelli aziendali il concetto di complementarità assume una rilevanza cen-

trale per massimizzarne le potenzialità innovative, partendo dall’assunto che l’impiego di una determinata

pratica aumenta il valore aggiunto di un’altra pratica ad essa collegata (Milgrom e Roberts, 1995). Una

complementarità che deve realizzarsi, innanzitutto, tra le diverse forme di innovazione, vale a dire di pro-

cesso, di prodotto e a livello organizzativo, sebbene ciascuna di esse possa rivestire un’importanza maggio-

re in funzione del mercato di riferimento, con una particolare attenzione da riservare all’interazione tra

innovazione tecnologica (che può assumere diverse forme, di processo, di prodotto, ecc.) e organizzativa

(Labory et al., 2008). È il caso, per esempio, degli scarsi aumenti di produttività portati dalle tecnologie di

information technology (IT), spesso legati, secondo diversi autori (Leoni, 2008), al mancato sviluppo di cor-

rispondenti pratiche organizzative in grado di mettere i lavoratori nella condizione di utilizzare al meglio

le potenzialità dei nuovi strumenti informatici. La mancanza di tale integrazione conduce a risultati sub-

ottimali, come dimostra lo stesso caso italiano. Il nostro paese, infatti, è stato interessato, negli ultimi an-

ni, da un debole incremento della produttività, largamente inferiore rispetto a quello registrato in altri

paesi europei come la Germania, pur avendo effettuato un volume di investimenti nelle nuove tecnologie

ICT rispetto al Pil comparativamente non dissimile rispetto a questi paesi. Ciò che sembra mancare è la

corrispondente innovazione organizzativa, in termini di formazione, autonomia, spazio decisionale, che

possa mettere i lavoratori nella condizione di sfruttare appieno i vantaggi offerti dalle nuove tecnologie.

Analogamente, il concetto di complementarità esercita un’importanza centrale anche sotto il profilo

intra-organizzativo, ovvero nel rapporto tra metodi e tecniche produttive, da un lato, e le relazioni di lavo-

ro che disegnano le modalità di erogazione delle prestazioni degli operatori all’interno del nuovo modello

organizzativo, dall’altro. Ciò vale anche per la tipologia di innovazione produttiva e organizzativa esami-

nata in questo studio, la produzione snella.

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Prima di avviare la discussione sulla lean production è fondamentale descriverne, in modo dettagliato

seppur idealtipico, i caratteri principali, iniziando da alcuni cardini tecnici e organizzativi, mentre altri

verranno enucleati nelle pagine successive quando ne emergerà la rilevanza sul piano empirico.

Dal punto di vista dei processi, il primo fattore da sottolineare riguarda il passaggio dal modello per

funzioni al modello per processi. Nel primo modello, tipico della tradizione taylor-fordista, le diverse aree

funzionali operanti nell’ambito di una determinata realtà aziendale (marketing, amministrazione, produ-

zione, ecc.) sono organizzate come entità autonome, dotate di propri processi e livelli gerarchici. Tale lo-

gica si capovolge nel modello della lean production, poiché l’attività aziendale è considerata sulla base dei

processi che attraversano in modo trasversale le diverse unità organizzative, permettendo di meglio distin-

guere le attività che producono valore aggiunto per il cliente rispetto a quelle superflue (Coriat, 1993).

Un secondo elemento organizzativo della produzione snella consiste nel concetto di just-in-time, che

denota un’organizzazione della produzione collegata in tempo tendenzialmente reale alla domanda di

mercato, in base alla quale si produce solo quanto è già stato richiesto dal mercato. Un simile concetto

implica, all’interno dell’azienda, tempi produttivi tesi, in grado di rispondere prontamente alle richieste

del mercato, così come l’attivazione di complessi sincronismi con il sistema della fornitura.

In terzo luogo, le singole postazioni di lavoro, incluse le attrezzature e i componenti ad essa relativi,

vengono progettati in base ad un preciso layout, che implica un’organizzazione in grado di limitare i mo-

vimenti faticosi e poco produttivi del lavoratore, con il duplice obiettivo di incrementare il tempo di satu-

razione degli addetti alla produzione e di migliorarne il benessere ergonomico. Per esempio, dover cam-

minare parecchio per prelevare un componente necessario alla produzione rappresenta uno spreco da eli-

minare, poiché non produce valore aggiunto e stanca inutilmente l’operatore col passare delle ore. In alcu-

ni casi, l’adozione di un preciso layout si estende alle intere linee di produzione, progettate o modificate

secondo il modello ad U, che consente agli operatori di adeguare il proprio numero in base alle esigenze

produttive del momento.

Se questi sono alcuni fra i più importanti principi organizzativi della produzione snella, altrettanto ri-

levanti risultano le caratteristiche delle pratiche di gestione delle risorse umane e delle relazioni industriali

teoricamente previste dal modello. Sotto tale profilo, innanzitutto, il lavoro viene organizzato per squadre

di ridotta consistenza numerica (Durand et al., 1999), spesso chiamate a presidiare singole linee di produ-

zione che assumono il carattere di mini-fabbriche, poiché ricomprendono le fasi dell’intero processo pro-

duttivo. Tali squadre sono responsabilizzate in termini di obiettivi di produzione, sia quantitativi che qua-

litativi, e sono autonomamente chiamate a organizzarsi per l’espletamento delle proprie attività. Questo

decentramento delle responsabilità avviene attraverso il coordinamento esercitato da un team leader il cui

compito diventa guidare, e non più di comandare, il lavoro degli addetti, sostituendo il principio di autori-

tà con il principio di sostegno e supporto (coaching).

In secondo luogo, le conoscenze tacite degli operatori, sviluppate attraverso il loro concreto operare

sulle linee produttive e radicate quindi nell’esperienza degli individui (Polanyi, 1966), diventano fonda-

mentali e sono perciò richieste dal management, al fine di apportare cambiamenti incrementali ma conti-

nui al flusso produttivo per aumentarne l’efficienza. Infatti, elemento costitutivo della produzione snella è

la convinzione che il contributo degli addetti possa dare un apporto decisivo per il miglioramento delle

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linee produttive, integrando le conoscenze più sistemiche e formali degli ingegneri e dei tecnici di produ-

zione. L’apporto degli operai deve essere quindi costantemente stimolato favorendo un loro consenso atti-

vo agli obiettivi aziendali (Bonazzi, 1993) e massimizzato nella sua produttività inserendolo in sistemi co-

dificati di analisi e risoluzione di problemi. Ciò sulla base dell’assunto che, a differenza di quanto si rite-

neva nel modello produttivo taylor-fordista, non esiste una one best way di organizzare un certo lavoro, ma

un sistema che può evolvere e migliorare continuamente (Ravelli, 1993).

Un terzo fattore è rappresentato dalla polivalenza e policompetenza degli operatori, da sviluppare in-

segnando loro a svolgere diverse postazioni in più isole o linee di produzione, così aumentando in modo

considerevole il livello di flessibilità funzionale di un’azienda. La maggior professionalità dei lavoratori

viene raggiunta sia attraverso appropriati processi di formazione, anche continua, sia attraverso una rota-

zione strategica della manodopera, che permetta di apprendere tutte le postazioni, da monte a valle, che

nell’insieme costituiscono uno o più processi produttivi. Nell’ambito di questo processo di rotazione, per

evitare il rischio infortuni connesso al fatto di operare su differenti stazioni di lavoro (Askenazy, 2001), è

fondamentale che si preveda sempre un affiancamento iniziale dell’operatore fino all’acquisizione di una

completa e verificata autonomia.

In quarto luogo, la partecipazione e l’apprendimento di maggiori o nuove competenze da parte degli

operai va sostenuta con adeguati strumenti di incentivazione, sia a breve che a lungo termine, che sappia-

no identificare e valorizzare il contributo fornito dalle singole squadre di lavoro e dalle persone che le

compongono.

Da ultimo, le relazioni industriali di fabbrica dovrebbero connotarsi per un carattere collaborativo, con

il coinvolgimento delle rappresentanze sindacali nella vita aziendale, che assumerebbero il compito sia di

sostenere e verificare la corretta implementazione delle programmate pratiche di partecipazione diretta dei

lavoratori sia di prendere parte ai processi decisionali di rilevanza strategica.

Le pratiche di lavoro illustrate rappresentano uno specifico bundle che identifica un modello innovati-

vo di organizzazione del lavoro la cui adozione è stata raccomandata anche in ambito europeo per sostene-

re la competitività delle imprese (Commissione Europea, 1998). Con il termine bundle si indica il fatto

che tali strumenti, affinché possano realizzare i benefici promessi, siano accompagnati e supportati l’un

l’altro (Huselid e Becker, 1995, Ichniovski et al., 1997), per cui il concetto di complementarità assume va-

lenza strategica anche in ambito di pratiche di gestione delle risorse umane e delle relazioni industriali.

Per fare un esempio pratico, supponiamo che un’azienda abbia deciso di delegare agli operatori di linea il

compito, e la responsabilità, di risolvere in prima persona eventuali difetti di produzione attraverso riu-

nioni di reparto da periodiche. Se gli addetti non sono stati adeguatamente formati per analizzare con un

certo approccio i problemi, è probabile che lo strumento introdotto non produca gli effetti sperati.

Come detto, quest’insieme di pratiche di gestione delle risorse umane e dell’organizzazione del lavoro

è un complemento indispensabile per fare in modo che i processi e le tecniche produttive del modello lean

(organizzazione per processi, just-in-time, ecc.) possano dispiegare la propria potenzialità innovativa. Il

rapporto tra componente tecnica e sociale della lean production è controverso, poiché diverse ricerche em-

piriche, condotte sia in ambito nazionale che internazionale, hanno evidenziato quanto gli spazi di coin-

volgimento e partecipazione dei lavoratori che il modello lean teoricamente prevedrebbe non siano suffi-

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cientemente colti dal management (Green e Yanarella, 1996, Stewart et al., 2009, Richardson et al., 2010,

Cerruti, 2012, Signoretti, 2012) e nemmeno adeguatamente valorizzati nella letteratura specialistica ri-

spetto alla sua componente tecnica (Pettersen, 2009).

In ogni caso, si è visto come siano molteplici le pratiche che costituiscono il modello organizzativo

della produzione snella; data la sua importanza per la competitività delle imprese, risulta cruciale com-

prendere in base a quali processi e secondo quali modalità applicative tale paradigma possa sortire gli ef-

fetti sperati. Sotto questo profilo, un primo elemento da sottolineare, affinché il processo di cambiamento

possa avere successo superando le inevitabili diffidenze e resistenze che esso implica, è l’importanza

dell’impegno, determinato e costante, del top management o della proprietà aziendale. In assenza di tale

spinta è molto difficile che la lean production diventi davvero il nuovo sistema produttivo aziendale – sono

del resto statisticamente numerose le imprese che hanno tentato di applicare la produzione snella, ma

molte meno quelle che sono riuscite (Industry Week, 2007).

Una ricerca che si ponga l’obiettivo di diffondere best practices, come è quella condotta, deve verificare

quali siano i meccanismi (Elster, 1993) che portano le imprese ad attuare, con successo, il paradigma della

produzione snella. Diventa allora fondamentale analizzare empiricamente le motivazioni che possono

spingere le aziende e le relative direzioni a percorrere la strada dell’innovazione produttiva e organizzativa,

facendo riferimento alle dinamiche che si verificano tanto all’interno che all’esterno delle imprese, incluso

il possibile ruolo ispiratore esercitato dalla Fiat come dalle altre case costruttrici che rappresentano il

cliente finale. Il censimento degli ostacoli che si frappongono alle spinte innovative rivestono altrettanta

importanza, e si possono ritrovare nei comportamenti tenuti dai diversi attori sociali. Per esempio, il ma-

nagement intermedio rappresenta notoriamente uno snodo cruciale per la riuscita dei processi di cambia-

mento, ma è anche il segmento che si dimostra solitamente più diffidente verso le modifiche stesse.

Questi aspetti sono uno degli argomenti più importanti affrontati dalla ricerca sul campo che intende-

rebbe offrire indicazioni utili ai diversi attori, incluse le istituzioni pubbliche, circa i meccanismi e le poli-

tiche formative che possono favorire, o bloccare, i processi innovativi.

Ricapitolando, la teoria e le analisi empiriche evidenziano quanto proficuo sia per le imprese adottare

una visione sistemica multi-livello rispetto ai campi e ai processi di innovazione; multi-livello perché

l’auspicata complementarità riguarda le diverse forme di innovazione e, in particolare, l’innovazione tec-

nologica e organizzativa, nonché il rapporto tra componente tecnica e sociale della produzione snella, e le

stesse pratiche di lavoro. A sua volta, vista la sua rilevanza per la competitività delle imprese, la produzio-

ne snella va innanzitutto considerata nei fattori che possono favorirne la concreta e piena attuazione.

2.2 Nuove forme di razionalizzazione produttiva, competenze professionali e qualità del lavoro

La lean production ha come obiettivo costitutivo principe l’idea che un processo produttivo, di qualsiasi

tipo, dall’officina agli uffici, possa essere razionalizzato meglio per “fare di più con meno”, ovvero che sia

possibile produrre quantità di prodotto maggiori e migliori utilizzando meno risorse umane, tecnologiche,

spazi produttivi. Tale obiettivo viene conseguito individuando, ed eliminando, tutti i flussi, le operazioni e

i movimenti che non producono un valore aggiunto, secondo la logica che il cliente non sia disposto re-

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munerare le inefficienze, la cui persistenza provocherebbe un prezzo di vendita eccessivo. Per cancellare

tutto il superfluo, la produzione snella richiede la progettazione di una fabbrica pulita, luminosa e ordina-

ta, considerandoli elementi che, oltre a garantire ai lavoratori di operare in un ambiente confortevole, con-

sentono di individuare flussi o operazioni anomale, non previste dal processo produttivo teso.

Concentrandoci sul piano dell’organizzazione del lavoro, l’aspetto che in questa sede maggiormente

interessa, la razionalizzazione produttiva propria del modello lean si accompagna a una progettazione del

flusso produttivo fondata sulla combinazione dei principi della razionalità assoluta e limitata. Nella prima

dimensione, l’attività lavorativa è predeterminata in modo minuzioso nei tempi e nei contenuti, mentre

con la seconda dimensione si prende atto che quanto programmato può essere sempre migliorato, soprat-

tutto attraverso il coinvolgimento e il contributo attivo degli operatori di linea. Le conoscenze formali dei

programmatori delle linee di produzione necessitano perciò di un’integrazione costituita dal sapere pratico

e tacito degli addetti. Nel contempo, tale conoscenza operativa dovrebbe essere arricchita canalizzandola

in approcci formalizzati di analisi e di risoluzione di problemi, incluse brevi attività formative che spieghi-

no agli addetti l’importanza degli interventi richiesti e le modalità per attuarli (Lundvall e Johnson, 1994).

Ma come si configura, concretamente, il coinvolgimento diretto e il contributo dei lavoratori?

Innanzitutto, gli operatori debbono essere in grado di auto-attivarsi per assorbire le varianze che un

determinato processo produttivo comporta; ovvero, devono essere in grado di identificare un difetto e

porvi rimedio. L’intervento diretto dell’operatore è importante poiché consente di eliminare i controlli di

qualità posti a fine linea, molto costosi da diversi punti di vista, in quanto implicano la presenza di un

maggior numero di lavoratori e, in secondo luogo, se un difetto viene scoperto alla fine o comunque ad

uno stadio avanzato del processo produttivo, occorrerà smontare il pezzo e ricominciare dall’inizio, con

forti danni alla produttività. Ma per poter efficacemente intervenire in modo diretto e immediato

sull’attività produttiva è necessario che l’operaio conosca a fondo il processo e sia quindi polivalente, una

professionalità che può acquisire solo imparando a eseguire tutte le lavorazioni incluse all’interno di diffe-

renti reparti o squadre. Infatti, conoscendo le postazioni di lavoro precedenti, un operatore acquisisce una

conoscenza della situazione produttiva standard, priva di difetti, per cui sarà in grado di comprendere, a

vista, se qualcosa non ha funzionato a dovere nel processo. Anche l’apprendimento delle postazioni suc-

cessive è importante, poiché il lavoratore sviluppa in tal modo una sensibilità rispetto alle operazioni che

dovrebbero essere svolte con particolare attenzione, per evitare difetti. Di qui il carattere strategico delle

pratiche di rotazione.

Il coinvolgimento diretto dei lavoratori si attua anche stimolando, da parte aziendale, i loro suggeri-

menti per risolvere i problemi che si presentano o per incrementare l’efficienza delle linee produttive. Tale

contributo può essere esercitato direttamente dai singoli lavoratori o attraverso apposite riunioni di reparto

che possono aver luogo all’inizio o al termine di un turno di lavoro, sotto il coordinamento di un team lea-

der che dovrebbe assumere soprattutto un ruolo di coordinamento, anche tecnico, nella discussione.

I lavoratori sono inoltre coinvolti nei processi aziendali tramite il lavoro autonomo di squadra, nel qua-

le sono chiamati a gestire, in modo in parte autonomo, i rapporti con i colleghi, sia all’interno che

all’esterno della propria squadra. Infatti, l’autonomia relazionale si estende anche ai rapporti da gestire con

gli addetti indiretti, per esempio i manutentori o i responsabili della qualità. Si tratta quindi di ruoli lavo-

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rativi che implicano la presenza di un’importante dimensione relazionale, che richiedono una competenza

professionale in termini di saper essere oltre che saper fare, con un sostanziale decentramento delle respon-

sabilità (Negrelli, 2005).

Quanto enunciato in termini di partecipazione e lavoro di squadra sembrerebbe indicare come con la

produzione snella migliori sensibilmente la qualità del lavoro, ma la questione è più controversa. Indubi-

tabilmente, da un lato, il decentramento delle responsabilità, la rotazione dei lavoratori tra le diverse po-

stazioni e il loro coinvolgimento nei processi di cambiamento aziendali dovrebbero effettivamente valoriz-

zare il contributo del lavoratore e migliorare la qualità del suo lavoro (Adler, 1995). Dall’altro lato, ci sono

elementi che possono rendere più complicata e difficile la giornata lavorativa. Il rigido controllo e indiriz-

zo dei suggerimenti avanzati dagli addetti ad opera del management, accettati solo qualora volti a saturare

la prestazione lavorativa, la forte pressione aziendale per una produzione veloce e di qualità, la standardiz-

zazione delle mansioni che rende la rotazione poco rilevante ai fini di un reale arricchimento del lavoro,

sono tutti fattori che rappresenterebbero un peggioramento della vita di fabbrica rispetto ai precedenti de-

cenni taylor-fordisti (Stewart et al., 2010). A ciò si aggiunge il rischio, come detto, che la componente so-

ciale della produzione snella sia poco o per nulla implementata.

2.3 Innovazione di prodotto, di processo e nell’organizzazione della produzione

Iniziando l’illustrazione della parte empirica dello studio, un primo elemento da sottolineare fa riferi-

mento alla complementarità tra innovazione di prodotto, di processo e organizzativa (Cook e Brown,

1999), la cui importanza è stata spiegata in precedenza e che viene realizzata, pur in forme e con modalità

differenti, da tutte le imprese analizzate. Sotto questo profilo, gli incrementi di produttività conseguiti

dalle fabbriche analizzate corroborano l’idea che, per le aziende, puntare esclusivamente su una tipologia

di innovazione piuttosto che su un’altra non consenta di sfruttare pienamente i vantaggi che una determi-

nata innovazione può comportare. Per esemplificare l’importanza economica dei processi multi-livello di

complementarità dell’innovazione si possono prendere in esame tre casi paradigmatici.

Nella prima impresa, a partire dall’anno scorso, si è iniziato a progettare e implementare un radicale

processo di innovazione organizzativa, in ottica lean ma non solo. Anziché organizzare il processo produt-

tivo per compartimenti stagni come avveniva in precedenza, che fra l’altro porta alla formazione di magaz-

zini intermedi inutilmente costosi, si è deciso di istituire una serie di piccole fabbriche nelle quali racchiu-

dere l’intero processo produttivo. Ciò consentirà di rendere il personale più polivalente e consapevole del

flusso produttivo sul quale interviene, attraverso una gestione del personale che non sarà più solo tecnica,

ma anche di dialogo e di supporto al fine di facilitarne e renderne più produttivo il coinvolgimento. Tale

esigenza di riorganizzazione si è manifestata nel momento in cui la direzione di stabilimento ha verificato

che l’innovazione di prodotto e di processo, per le quali l’azienda investe ingenti somme di denaro e si tro-

va all’avanguardia nel mercato, non portava a quegli incrementi di produttività del lavoro che, invece, si

ritiene possibile raggiungere col nuovo modello organizzativo.

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Nella seconda, la complementarità tra innovazione di prodotto, di processo e organizzativa ha una sto-

ria più lunga. L’impresa è suddivisa in quattro business group, tutti caratterizzati da forti investimenti in

ricerca e innovazione, in particolare tecnologica, per le quali l’impresa punta a raggiungere l’eccellenza.

Tuttavia, l’organizzazione del lavoro si rivela altrettanto importante. Infatti, a livello di Gruppo, sono sta-

te stabilite precise procedure per incoraggiare la partecipazione del personale alle attività aziendali, pro-

duttive in particolare, rafforzando tale obiettivo mediante un processo costante di formazione continua.

L’idea alla base di questo modello, rivelatasi vincente, è che i processi produttivi debbono essere analizzati

con dati reali dal personale, il quale deve poi trovare le soluzioni adeguate per porre rimedio ai difetti ri-

scontrati. Lo stesso management – è interessante notarlo – deve operare con un approccio concreto alla

risoluzione dei problemi di produzione e, per tale motivo, è richiesto ai responsabili aziendali di portare

fisicamente in ruinione i pezzi difettosi, affinché tutti i partecipanti si abituino a ragionare in modo prag-

matico, prestando particolare attenzione alla produzione:

L’azienda ha adottato la filosofia giapponese del realismo, e si tratta di un’ideologia, di un’ossessione

aziendale. In base a tale filosofia, si dice che il manager deve stare sul campo e, quando riporta, deve

riportare dal campo. Per questo, nelle riunioni vige la regola tassativa che le persone portino i pezzi,

che vanno posati su una parte rossa (difetto) e verde (buon pezzo), anche per capire il processo di

eventuale risoluzione.

Particolare il terzo caso, che si distingue dai precedenti perché si tratta di una realtà produttiva locale

di piccole dimensioni. Nel 2006, anno in cui il proprietario ha deciso di rivoluzionare l’organizzazione

aziendale, si è iniziato ad investire contemporaneamente in diversi ambiti, con l’obiettivo di delegare

maggiori responsabilità, anche decisionali, ai livelli organizzativi sottostanti, seguendo quindi una logica

non più piramidale ma orizzontale che necessariamente richiedeva ai diversi dipartimenti aziendali di es-

sere più autonomi e agire in forte collaborazione tra loro. Innanzitutto, è stato introdotto un software ac-

cessibile da tutti i reparti e uffici, che possono così dialogare ed essere aggiornati in modo più automatico

e continuo sulle attività in corso. In secondo luogo, al fine di salvaguardare un fondamentale elemento di

competitività aziendale ovvero la diversificazione della produzione, sono stati sostituiti i macchinari pre-

cedenti, rigidi sia in termini di capacità di produzione che di programmazione, con nuovi strumenti

estremamente flessibili, affidabili e precisi. In terzo luogo, sotto il profilo più propriamente organizzativo,

è stato internalizzato l’ufficio tecnico mettendolo in stretto contatto con la produzione, attraverso

l’integrazione dei software CAD (programma di disegno tecnico assistito dal computer) e CAM (processo

di produzione assistita dal computer). La modifica ha implicato un forte processo di formazione per i la-

voratori e una maggiore professionalizzazione, oltre a operazioni di revisione del layout. Oggi, l’impresa è

impegnata a proseguire l’attuazione del progetto di innovazione organizzativa, rivolto in questa fase a

prendere in modo puntuale i diversi tempi di produzione per standardizzare per quanto possibile le proce-

dure, e individuare ed eliminare tutti i tempi morti dell’attività produttiva.

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I dati empirici testimoniano quanto la complementarità nell’innovazione rappresenti un aspetto cru-

ciale affinché si possano massimizzare le utilità dei singoli interventi, ma ciò non toglie che le diverse im-

prese, indipendentemente dalle dimensioni, abbiano privilegiato una forma di innovazione piuttosto che

un’altra in base al mercato e alla produzione di riferimento.

Iniziando dalle aziende che hanno dedicato particolare attenzione all’organizzazione del lavoro e della

produzione, in una impresa del nostro campione, azienda primariamente commerciale, l’elemento compe-

titivo è rappresentato dalla velocità e flessibilità nel soddisfare le richieste dei clienti. Così la proprietà, per

recuperare efficienza in un periodo di forte crisi, ha deciso di implementare i principi della produzione

snella, peraltro utili per comprendere meglio le finalità di alcuni prodotti commercializzati, specifici per la

produzione lean. La ristrutturazione ha portato alla revisione e razionalizzazione del layout, ponendo fine

alla confusione che in precedenza regnava in officina e in magazzino, attraverso un’organizzazione del la-

voro e della produzione non più in ottica push ma pull, quindi trainata dal cliente. La differenza tra pro-

cessi produttivi push e pull rappresenta uno dei capisaldi del modello lean, ed è quindi opportuno esplici-

tarla. In un’ottica produttiva push, tradizionalmente utilizzata nelle fabbriche fordiste, vi è un anticipo

dell’ingresso dei materiali in fabbrica allo scopo di garantire il tempo di consegna richiesto dal mercato.

Questo viene fatto utilizzando delle previsioni di vendita che, qualora scorrette, generano scorte di magaz-

zino all’interno della fabbrica. In questo modello, l’avanzamento della produzione non è quindi legato ai

fabbisogni a valle, ma alla previsione di tali fabbisogni. Nell’ambito di un sistema produttivo ancorato alla

logica pull, al contrario l’ingresso dei prodotti in produzione non è anticipato rispetto agli ordini, in quan-

to regolato da valle del processo produttivo sulla base degli effettivi ordinativi arrivati e incardinato sul

principio di produzione just-in-time. Per soddisfare il mercato, in tale modello si lavora pertanto

sull’accorciamento dei tempi di consegna.

Tornando al nostro caso aziendale, la nuova logica pull di produzione e di servizio al mercato ha perciò

implicato che, mentre prima le commesse scendevano in officina tutte assieme, ora scendono nei tempi

giusti prima della consegna. Con l’ulteriore vantaggio che, adesso, l’azienda conosce esattamente il tempo

ciclo di una produzione, e lo può comunicare al cliente mostrandosi più organizzata e professionale

all’esterno. Un processo simile si è verificato anche in una seconda impresa, questa volta industriale, dove,

sia per il fatto che il prodotto ha una ridotta marginalità, sia per i costi dei nuovi macchinari, importanti

per un’impresa di tale dimensione, è stato messo in campo un intenso processo di efficienza in termini di

organizzazione del lavoro e della produzione che ha prodotto ottimi risultati, per esempio sul piano della

riduzione degli spazi utilizzati e delle scorte di magazzino, così come del servizio al cliente.

In altri contesti, è stata invece l’innovazione di processo ad aver assunto il ruolo più significativo. È il

caso di una impresa del nostro campione, dove c’è una continua evoluzione dei macchinari, in particolare

di quelli legati alla saldatura. Per svolgere tali operazioni, l’azienda ha recentemente acquistato dei robot

molto sofisticati, in grado di adattarsi alle diverse dimensioni e tipologie di lamiera utilizzate nel processo

produttivo e di eseguire le approfondite verifiche richieste dal cliente. Comunque anche sotto il profilo del

processo nell’organizzazione della produzione sono state introdotte misure significative, migliorando

l’ambiente e la pulizia della fabbrica, introducendo macchinari come i carrelli automatici in luogo di quelli

manuali, che riducono considerevolmente la fatica dell’addetto per spostare i materiali da una postazione

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all’altra. Interessante è anche quanto avvenuto, in materia di innovazione di processo, a un fornitore Fiat,

dove, con il supporto del costruttore, sono stati comprati alcuni macchinari ad alta tecnologia a controllo

non più manuale ma tramite software, che consente di gestire meglio il componente prodotto, la sua

struttura e le varie fasi del processo, nonché di eseguire controlli in base a parametri più sofisticati.

L’innovazione di prodotto riveste un ruolo fondamentale in altre imprese, e può essere utile prendere

in esame al riguardo una piccola e una grande impresa. Nel primo caso, l’impresa soffriva il fatto che il

proprio prodotto, utilizzato per le saldature delle carrozzerie delle auto e dei loro componenti, fosse sensi-

bile ai parametri utilizzati dai costruttori, risultando così inadeguato per alcuni mercati. La realizzazione,

attraverso importanti e prolungate attività di ricerca e sviluppo in collaborazione con istituti di ricerca, di

un utensile non sensibile ai cambiamenti dei parametri impostati sulle linee di saldatura o alla differenzia-

zione dei materiali, ha eliminato il problema e ha portato al deposito di un brevetto specifico. Nel secon-

do, dove ci sono nel solo stabilimento visitato circa 70 persone impegnate nella ricerca e sviluppo, è molto

importante l’attività innovativa di prodotto per ridurne l’impatto ambientale. In questo caso, l’attività di

ricerca è riuscita a diminuire in modo significativo l’emissione di CO2 del prodotto, il che implica il van-

taggio di dissipare meno energia e avere un maggior risparmio nell’utilizzo di un’autovettura.

Infine, dopo la spiegazione dei processi di integrazione delle diverse forme possibili di innovazione, è

utile notare un aspetto, relativo all’organizzazione della produzione in ottica lean, che riguarda soprattutto

le piccole imprese esaminate. In esse sono stati conseguiti buoni risultati in termini di efficienza produtti-

va passando da una produzione in serie, che i manager convintamente seguivano ritenendola la migliore,

ad una logica di un pezzo alla volta, la cosiddetta logica one-piece-flow, propria della lean production. Tale

sistema implica l’organizzazione della produzione mediante l’avanzamento del materiale un pezzo alla vol-

ta, con un flusso continuo. In questo modo, i singoli pezzi passano da una fase produttiva all’altra senza

accumuli tra le macchine, contribuendo alla riduzione dei tempi di produzione, alla massima flessibilità e

possibilità in caso di errore di procedere alla ri-lavorazione di singoli pezzi, all’abbattimento delle costose

scorte intermedie. Per concretizzare anche in questo caso il principio illustrato, si può descrivere quanto

avvenuto all’interno di due imprese.

Nel primo caso, prima dell’intervento innovativo suggerito e poi guidato da una società di consulenza,

quando si trattava di montare uno dei prodotti aziendali, i mandrini, questi venivano messi tutti in linea

su un banco e montati in serie. Si è poi scoperto, raffrontando i rispettivi tempi di produzione, che in real-

tà era meglio lavorare su 2-3 mandrini per volta; un risultato che metteva in discussione un principio dato

per assodato dalla direzione, vale a dire che il montaggio in serie fosse il metodo di lavoro più produttivo,

come evidenziato da un dirigente aziendale:

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Abbiamo collaborato con il Kaizen8 Institute di Bologna tramite un progetto nato con l’Api nel 2007.

Si era deciso di fare un progetto pilota su tre aziende per verificare la messa in pratica della teoria [...]

È stato interessante perché tende a farti capire che, molte volte, hai dei pre-concetti, degli schemi

mentali, e smontandoli riesci a ottenere buoni risultati. Se hai sempre fatto così, non è necessariamen-

te una buona cosa. Da noi si trattava di ottimizzare le operazioni di montaggio dei cilindri. Sono ve-

nuti, hanno analizzato il nostro modo di lavorare, hanno preso i tempi, ci hanno fatto capire che, ba-

nalmente, una persona quando doveva montare tot cilindri li metteva in linea sul banco e li montava

tutti. Si è visto che, in realtà, non era il modo di lavorare ottimale, che era meglio montarne due o tre

per volta. Va un pò contro il concetto del montaggio in serie, però hanno provato le due diverse mo-

dalità e hanno confrontato i tempi.

Nella seconda impresa si è verificato il medesimo cambiamento dopo l’implementazione della logica

lean di produzione. Inizialmente, i responsabili aziendali ritenevano che fosse più efficiente, nel caso si

dovessero produrre 50 macchine, fare 50 motori, poi 50 carter e così via. Tuttavia, tale logica comportava,

ad esempio, che ci fosse parecchio materiale fermo in attesa di essere lavorato e, soprattutto, poteva acca-

dere che ci si accorgesse, arrivati al 50% del processo di assemblaggio, che un pezzo non era stato adegua-

tamente filtrato, per cui tutti e 50 quei prodotti sub-assemblati dovevano essere smontati e mandati nuo-

vamente in produzione, ricominciando dall’inizio il processo produttivo. L’applicazione della logica one-

piece-flow, con i conseguenti cambiamenti in termini di organizzazione degli spazi e del lavoro, ha consen-

tito di eliminare un problema che, in situazioni di forte pressione produttiva, causava inefficienze e spre-

chi non trascurabili.

2.4 Spinte innovative e incertezza manageriale

Prima di analizzare quali sono i fattori che possono facilitare o, viceversa, ostacolare i processi mana-

geriali di innovazione organizzativa, è opportuno sottolineare due elementi la cui importanza per

un’attuazione positiva del paradigma della produzione snella trova piena conferma da tutti i casi esaminati

che, va ricordato, sono casi di successo.

Affinché un processo di introduzione della lean production possa avere successo, è pre-condizione indi-

spensabile l’impegno del top management, per evitare che gli inevitabili ostacoli nell’attuazione del pro-

getto non riportino l’impresa alla situazione organizzativa preesistente (Swank, 2003). Infatti, ogni pro-

cesso di cambiamento richiede di essere attuato con determinazione, costanza e consapevolezza degli

obiettivi strategici che si stanno perseguendo. In secondo luogo, il processo di innovazione organizzativa,

una volta deciso, dev’essere perseguito in modo continuativo, pur con la gradualità necessaria affinché non

ne risentano le normali attività produttive. Il progetto lean richiede l’apprendimento, da parte dei manager

innanzitutto e poi a cascata degli altri livelli organizzativi aziendali, di un complesso insieme di competen-

8 I processi di kaizen, che sono parte integrante dei sistemi di produzione snella, sono volti ad aumentare

l’efficienza e a ridurre gli sprechi delle linee produttive attraverso l’introduzione di cambiamenti continui e

incrementali.

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ze manageriali, tecniche e di coinvolgimento dei collaboratori. Il processo di apprendimento risulta per-

tanto lungo, per questa ragione è opportuno dilazionarlo nel tempo, per permettere al management di

metabolizzarne i principi e fare in modo che l’azienda, nel frattempo, possa continuare ad operare in mo-

do adeguato sul mercato. Un metodo che vale soprattutto per le piccole imprese, come osservato da un

dirigente di una di queste:

Purtroppo noi essendo una piccola realtà dobbiamo conciliare queste nuove esigenze [legate alla pro-

duzione snella, n.d.r.] con quelle di lavoro. Io, come dicevo, faccio diverse cose, e anche la nostra so-

cietà di consulenza non è di grandi dimensioni. Non è facile conciliare tutto, se ci fosse una persona

dedicata solo a questo probabilmente si andrebbe molto più veloci con l’implementazione del modello.

Per quanto concerne le motivazioni che spingono i manager ad avviare la ristrutturazione aziendale in

un’ottica di lean production, uno dei temi più rilevanti approfonditi nella parte di ricerca sul campo, il pa-

norama si presenta più diversificato. Una prima distinzione si può tracciare tra le aziende che fanno parte

di un Gruppo multinazionale e le piccole e medie imprese radicate sul territorio locale. Nel primo caso,

trattandosi di società già da parecchi anni attive nel settore automotive, la lean production rappresenta un

paradigma produttivo ampiamente sperimentato e consolidato nei suoi caratteri principali, che ha dato

luogo all’elaborazione di sistemi specifici aziendali variamente denominati, ma tutti impegnati nella decli-

nazione concreta dei principi generali della produzione snella. I singoli stabilimenti dislocati in giro per il

mondo sono quindi chiamati ad attuare linee guida e procedure definite a livello di Gruppo, con diversi

livelli di controllo dalla sede centrale e differenti risultati. La trasmissione delle politiche di Gruppo nei

singoli stabilimenti è il frutto di un processo particolarmente complesso, i cui esiti dipendono

dall’intreccio di molteplici variabili (Heidenreich, 2012).

Consideriamo tre multinazionali del nostro campione. Nel primo caso la produzione snella è stata im-

plementata in modo organico fin dagli anni ’90, in un sistema aziendale che non prevede un controllo di-

retto da parte della sede centrale nei confronti delle politiche attuate nelle singole fabbriche, risultando

così il frutto della lungimiranza dei manager locali e di relazioni industriali collaborative. Anche alla se-

conda impresa l’applicazione della lean production risale agli stessi anni, tuttavia in questo caso il controllo

esercitato dalla sede centrale sulle singole unità produttive è più stringente, e vengono effettuati audit in

tutte le fabbriche per verificare, dall’integrazione dei fornitori fino alla formazione di tutti i lavoratori, la

corrispondenza tra quanto dettagliatamente previsto a livello di Gruppo e quanto riscontrabile negli stabi-

limenti. Come osservato da un suo dirigente, anche queste verifiche operate dalla sede centrale sono state

nel tempo modificate per renderle più rapide ed efficienti, valorizzando l’autovalutazione effettuata dal

management di stabilimento:

Fino a sei mesi fa, tramite gli audit, ti veniva dato un giudizio per asse e complessivamente per plant.

Oggi, invece, l’audit si basa sul self-assesment che ogni stabilimento si fa, l’obiettivo è diventato spinge-

re lo stabilimento a fare un self-assesment accurato. Infatti, gli auditor, quando vengono, scelgono, in

modo casuale cinque-dieci roadmap [linee guida aziendali in diverse aree, n.d.r.] e se c’è una differen-

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za, in positivo o in negativo, del 10% rispetto alla auto-valutazione fatta dallo stabilimento, tornano

dopo sei mesi a ri-verificarti solo sugli assi rispetto ai quali non è stata fatta una valutazione accurata.

Alla terza multinazionale la situazione è ancora differente, in quanto la fabbrica di Torino applica in

via sofisticata la produzione snella, soprattutto sotto il profilo tecnico, ma senza monitoraggio diretto da

parte dell’headquarter di Gruppo.

La spinta innovativa per l’adozione della lean production è, invece, di natura diversa nel caso delle pic-

cole e medie imprese locali, le quali ricevono un forte stimolo dai network (Granovetter, 1985) di aziende

in cui sono inserite; ovvero è il sentire, e vedere, che altri imprenditori stanno utilizzando con successo i

principi della produzione snella a convincere soprattutto le piccole aziende a intraprendere la strada

dell’innovazione organizzativa. Quindi, il concetto esplicativo centrale per l’implementazione dei processi

lean nel caso delle piccole e medie imprese si rivela la fiducia nell’interlocutore (Mutti, 1998) e, minori

sono le dimensioni aziendali, maggiore è l’importanza dei rapporti personali. Per esempio, una delle PMI

esaminate ha deciso di iniziare il proprio progetto di cambiamento organizzativo nel momento in cui il

proprietario di un’azienda fornitrice, anch’essa di piccole dimensioni e parte nel campione qui analizzato,

ha illustrato i vantaggi ottenuti nella propria azienda in seguito all’applicazione della produzione snella. Il

meccanismo è ben descritto da un dirigente dell’azienda:

La lean tende a ridurre gli sprechi e ad eliminare tutte quelle risorse che non danno valore aggiunto al

cliente. L’amministratore delegato girando il mondo ha visto aziende dove viene applicata. Lui si è

molto informato sul tema lean, poi, avendo deciso di acquistare delle strutture nuove, abbiamo incon-

trato la ***, impresa di Torino che da tempo ha iniziato il processo di cambiamento lean e che fornisce

queste strutture, che ci ha detto di aver ottenuto ottimi risultati solo dopo un anno e mezzo dall’inizio

dell’applicazione […] Così abbiamo deciso.

Un percorso in parte simile ha interessato una seconda azienda, la cui attenzione verso la produzione

snella ha conosciuto un forte impulso per via di una collaborazione con un produttore giapponese, da anni

impegnato nello sviluppo della lean production. In questo caso, l’azienda ha iniziato ad attuare alcune pra-

tiche della lean dopo averne osservato il funzionamento, e soprattutto il risultato, negli stabilimenti giap-

ponesi del partner, proseguendo nel tempo tale implementazione con una forte accelerazione nel 2005,

proprio grazie all’impulso e ai suggerimenti provenienti dall’impresa giapponese.

Quando invece le imprese locali iniziano a crescere di dimensione, sono i rapporti sviluppati all’interno

delle associazioni datoriali a divenire più rilevanti, com’è mostrano almeno tre casi del nostro campione. Si

è già detto dell’impresa che ha attuato uno specifico ma profondo processo kaizen nell’ambito di

un’iniziativa dell’Api, decisa a implementare tre progetti pilota co-finanziati in altrettante imprese asso-

ciate, per verificare se i benefici derivanti da tali interventi corrispondessero realmente a quelli indicati

dalla teoria.

Tuttavia, ci sono altri fattori che possono spingere i manager a perseguire l’innovazione della produ-

zione snella, che riguardano trasversalmente tutte le aziende, indipendentemente dalla loro dimensione, e

che si intersecano con quelli già descritti. Si tratta innanzitutto della necessità di recuperare efficienza per

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essere competitivi sul mercato; un obiettivo rintracciabile in tutte le imprese intervistate ma che, in caso di

incertezze manageriali, può diventare decisivo per superarle, tanto più in questa fase di forte e prolungata

crisi economica. Dice un dirigente di una PMI:

La crisi ci ha portato a una riduzione dell’organico, siamo passati da 50 a 30 persone, si sono ridotti i

margini, si corre più di prima, abbiamo detto che se non recuperavamo efficienza da qualche parte

non ne uscivamo più. Da giugno 2011 ci siamo attivati per un processo di riorganizzazione lean

all’interno della nostra azienda.

Talvolta, la soluzione rappresentata dalla lean production viene seriamente analizzata dal management

nel momento in cui le misure tradizionali per fronteggiare la crisi, come la riduzione del personale, si rive-

lano inadeguate, anche perché, superata una certa soglia, la diminuzione della forza lavoro crea ulteriore

perdita di competitività (Negrelli, 2000). Questo è stato, per esempio, il caso di chi, di fronte alla forte

riduzione del fatturato, si è registrato solo un limitato processo di ristrutturazione della forza lavoro, man-

tenendo pur tra molte difficoltà gran parte del personale, un risultato reso possibile proprio grazie ai con-

siderevoli recuperi di efficienza e dalla eliminazione di sprechi.

Un altro fattore tradizionalmente considerato positivo per incoraggiare le imprese all’innovazione, an-

che organizzativa, è legato al ruolo esercitato dai produttori finali, ma tale influenza appare complessa.

Nel campione di imprese esaminate alcune politiche proprie della produzione snella sono state adottate in

un caso su esplicita richiesta di alcuni clienti stranieri, ma solo nel caso del fornitore Fiat sopra citato, la

casa ha posto l’applicazione del World Class Manufacturing, come condizione per la fornitura, accompa-

gnandolo nel processo innovativo e rafforzandone la volontà modernizzatrice:

Siamo partiti nel 2011 con il processo chiamato Wcm Light; Fiat ha chiesto a tutti i fornitori di inte-

grarsi in questo sistema dando anche un supporto tecnico, nel senso che vengono delle persone di Fiat

a fare delle giornate di formazione/feedback [...] Noi volevamo farlo, ma a tutti gli effetti Fiat lo ha

chiesto ai fornitori perché nelle prossime valutazioni per l’assegnazione di nuovi prodotti, se non riu-

sciamo a qualificarci all’interno del sistema, a raggiungere un punteggio minimo, saremmo in teoria

fuori dalla possibilità di avere nuove commesse. L’innovazione è voluta da loro e da noi. Noi eravamo

già partiti dal nostro punto di vista a fare qualcosa.

In altre esperienze, l’influenza di Fiat è stata differente e meno intensa, sostanziandosi nell’esecuzione

di audit di verifica o nel sensibilizzare in modo generico il fornitore al WCM. Quindi, complessivamente,

Fiat sembra svolgere un ruolo propulsivo rispetto ai principi della produzione snella verso i fornitori di

primo livello, mentre la restante catena di fornitura non beneficia ancora di supporti significativi dal lato

dell’innovazione organizzativa. Sebbene ulteriori approfondimenti sarebbero utili, da ciò si deduce come il

progetto di Crescita guidata dei supplier attuato da Fiat in passato, che prevedeva, dopo l’istruzione dei

fornitori di primo livello, che fossero quest’ultimi ad effettuare la stessa operazione nei confronti della

propria catena di fornitura (Whitford e Enrietti, 2005), non si sia concretizzato ancora in modo diffuso.

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In questa ottica va letto il bisogno espresso da alcune piccole aziende di un attore, sul territorio, sia dispo-

nibile ad accompagnarli verso l’impiego di modelli organizzativi più evoluti e competitivi:

Io vedo che, quando giriamo in altri stati, le aziende di piccole dimensioni sono trainate dal commit-

tente che insegna una filosofia, un’organizzazione. Qua invece questi input non arrivano [...] Questa è

una premessa commerciale importantissima per capire come si può sviluppare un tessuto industriale,

perché diventa difficilissimo sviluppare un tessuto industriale se non c’è un’azienda delle dimensioni di

Fiat, o qualche altro attore, che può dare delle indicazioni da seguire.

Infine, ci sono situazioni particolari, legate a specifici avvenimenti, che inducono le aziende a modifi-

carsi, anche in modo radicale, sotto il profilo organizzativo. È il caso, per esempio, dell’impresa dove è

stato il cambiamento della proprietà aziendale, rimasta ad uno solo dei due fratelli che prima la gestivano,

a indurre il proprietario a razionalizzare l’organizzazione. Ciò sia delegando compiti ai collaboratori e

mettendo in comunicazione i diversi uffici con interventi di informatizzazione, sia introducendo una stan-

dardizzazione delle procedure, e, nel tempo, una loro misurazione. Un notevole e coraggioso processo in-

novativo dunque, che, sebbene non definito dalla proprietà come applicazione della produzione snella, in

realtà contiene molti elementi che rientrano nel funzionamento tipico di tale paradigma organizzativo, la

cui attuazione, come descritto, è derivata da eventi inaspettati.

Passiamo ora, invece, alle incertezze che possono caratterizzare i responsabili aziendali di fronte alla

decisione se intraprendere o meno il percorso. Per la maggior parte, si tratta di indecisioni relative al pe-

riodo antecedente l’implementazione del processo di ristrutturazione organizzativa poiché, nei casi esami-

nati, una volta iniziato il percorso le resistenze non hanno fermato la strategia aziendale. Tuttavia, è inte-

ressante comprendere le motivazioni frenanti l’innovazione produttiva e organizzativa espresse dalle

aziende intervistate, poiché, presumibilmente, riguarderanno anche altre imprese che non sono ancora

riuscite ad attuare con successo i propri progetti di cambiamento.

In primo luogo, e si tratta di un problema che affligge le piccole e medie imprese locali, il dubbio

maggiore è relativo all’utilità del paradigma. Molti piccoli imprenditori, è stato notato dalle persone inter-

vistate, ritengono che sistemi organizzativi sofisticati come la lean production siano adatti esclusivamente

per aziende di grandi dimensioni:

Nel processo di attuazione della lean non bisogna spaventarsi, non si riuscirà mai a cambiare il proces-

so dall’oggi al domani, ma sono i piccoli passi che porteranno al successo. Questo è uno sforzo che do-

vete fare nei confronti delle piccole aziende, dirgli di non spaventarsi ma di addentrarsi nel processo

che, inizialmente, va calato su un team al massimo di 15-20 persone, perché oltre le 20 persone lei non

riesce più ad applicarlo. Poi le grandissime strutture si suddividono sulle aree. Si pensa sempre che so-

lo le grandi imprese abbiano le risorse per attuare al lean, e le piccole no; in realtà non è vero.

In secondo luogo, le piccole aziende hanno spesso la percezione che l’impegno di capitale umano da

destinare all’attività d’innovazione sia eccessivo per le proprie forze. Sotto questo profilo, è certamente ve-

ro che il processo innovativo legato alla lean production richiede un impegno importante delle risorse uma-

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ne aziendali, in particolare quelle apicali, per l’apprendimento dei relativi metodi e tecniche. In termini di

tempo, i responsabili aziendali dovranno sganciarsi dai compiti gestionali quotidiani in modo significati-

vo, ma il problema non appare insormontabile, poiché è sufficiente prevedere una graduale, ma costante,

applicazione della lean per far sì che, anche in aziende di piccole dimensioni, risulti possibile contempera-

re processi innovativi e svolgimento delle attività produttive, come avviene nei casi esaminati. In effetti,

nelle piccole e medie aziende si registra una gradualità attuativa dei progetti innovativi maggiore rispetto

alle grandi imprese. Per esempio, in una azienda del nostro campione, dove la produzione snella è giudi-

cata strategica e dove sono stati già raggiunti ottimi risultati in seguito alla sua implementazione, vi sono

due aree che non sono state ancora coinvolte dal cambiamento, proprio per evitare che la riorganizzazione

aziendale comportasse problemi dal lato della sua operatività, ma la cui partecipazione al progetto è già

stata prevista per i prossimi mesi. Tuttavia, anche le grandi imprese non sono immuni dal problema legato

alla carenza di risorse umane da destinare ai programmi lean. Può infatti accadere che i sistemi di lean pro-

duction definiti a livello aziendale prevedano persone ad essi dedicate di cui l’unità locale, per motivi legati

soprattutto all’attuale crisi del mercato che impone un rigido controllo dei costi, non dispone:

C’è una figura per ***, il lean implementer, che in questo momento noi non abbiamo, perché c’è una si-

tuazione difficile nel settore. Il problema è che questa figura si dovrebbe occupare sempre di lean, al

100%. Probabilmente quando avremo nuove commesse ci saranno delle figure dedicate completamen-

te alla lean; non è che adesso le attività non vengono fatte, ma vengono distribuite con le altre attività

che ci sono da fare e con le risorse che ci sono a disposizione..

Una terza questione che si può frapporre tra la volontà manageriale d’innovare e la concreta intrapresa

del progetto fa riferimento alle risorse economiche da investire. Un aspetto di portata non indifferente,

soprattutto in considerazione della crisi attuale, che interessa tutte le aziende esaminate. Ma anche tale

ostacolo può essere risolto, come dimostrano i casi in esame, se c’è la convinzione che la lean production

rappresenti un elemento competitivo di rilevanza strategica. Al riguardo, è utile fare riferimento ai costi

delle società di consulenza, di cui tutte le imprese, incluse le grandi multinazionali, hanno dovuto avvalersi

in misura più o meno intensa e costante. La scelta dei consulenti si rivela quindi centrale per la buona riu-

scita del progetto, ed è necessario orientarsi in modo attento sul mercato poiché, è emerso dalle interviste,

ci sono anche società non molto competenti che offrono servizi in ambito lean. Tuttavia, una volta inda-

gata in modo oculato la situazione del mercato, si possono individuare diverse società di consulenza pre-

parate in materia di produzione snella, che richiedono investimenti differenti. Ovvero, esistono società

competenti il cui costo risulta compatibile con le capacità economiche delle piccole imprese. Dichiara un

dirigente di una PMI:

Secondo me i soldi che abbiamo investito per la lean sono stati ben spesi. Poi devo dire la verità, non

ci siamo affidati a società di consulenza esose, abbiamo trovato qualcosa che andasse bene con le no-

stre esigenze, che potessimo permetterci [...] Noi con quest’azienda ci siamo trovati benissimo. Sono

tre ragazzi giovani, dinamici, con cui si può parlare schiettamente; è una filiera molto corta perché

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siamo noi e loro, non si tirano indietro come orari, non è il consulente che si piazza qua, per me lavo-

rano concretamente.

Va poi considerato che parte delle risorse economiche investite nell’attuazione dei progetti innovativi

può essere recuperata, per quanto attiene alle attività formative, facendo ricorso ai fondi interprofessionali,

per le imprese ad essi associate.

Un quarto problema per un’implementazione complessiva della produzione snella, questa volta diffi-

cilmente superabile, riguarda la mancata investitura dall’alto, dal top management e dall’amministratore

delegato o proprietario in particolare, il che rappresenta un’argomentazione speculare alla necessità di tale

sostegno per un’applicazione proficua della lean, illustrata in precedenza. Due casi del nostro campione,

che presentano sfumature diverse, possono essere citati a titolo d’esempio. Nel primo sono stati imple-

mentati, con successo, diversi principi e progetti di efficientamento delle linee in ottica lean, richiesti in

alcuni casi dai clienti esteri, ma il paradigma della produzione snella non è stato abbracciato in modo or-

ganico proprio perché il top management ha autorizzato i singoli interventi, senza tuttavia spingere per

un’adozione complessiva del nuovo modello produttivo. Nel secondo, invece, il risultato è il medesimo,

ma il mancato commitment è più che altro dovuto all’incertezza del mercato in un periodo di crisi. Come

osservato da dirigenti aziendale delle due imprese:

Noi in azienda non abbiamo mai fatto un programma di lean manufacturing strutturato come invece

hanno fatto aziende più grandi,9 abbiamo provato, partendo noi manager dal basso, ad applicare al-

cune parti della lean manufacturing alla produzione [...] Sarebbe utile, ma non essendoci una volontà

del top management non avevamo forse il commitment giusto per farlo.

Noi siamo partiti autonomamente senza consulenze esterne, mi lasci dire che nessun stabilimento è

venuto a darci una mano. Io e il mio predecessore abbiamo visto come funziona il WCM in altre im-

prese [...] Non abbiamo ancora fatto corsi e attività specifiche di consulenza [...] È chiaro che adde-

strare le persone con i costi attuali diventa complicato.

Peraltro le due aziende menzionate rappresentano gli unici due casi in cui la consulenza esterna, neces-

saria perlomeno all’inizio del processo di innovazione, è stata limitata, e quanto attuato è stato soprattutto

frutto della partecipazione dei manager a corsi interaziendali sulla lean o alle competenze da loro maturate

sull’argomento in precedenti esperienze lavorative.

In definitiva, dal lato dei fattori che possono spingere le imprese ad adottare modelli organizzativi in-

novativi, i manager che operano in realtà multinazionali possono essere variamente indotti in tale direzio-

ne dalle policy del Gruppo, mentre coloro che gestiscono aziende locali di dimensioni più ridotte ricevono

uno stimolo in tal senso dalle reti di imprese in cui sono inseriti oppure dalle esperienze vissute e comuni-

9 In realtà l’impresa in questione è di grandi dimensioni, per cui l’ostacolo ad un’implementazione organi-

ca della produzione snella sembrerebbe risiedere più che altro nella mancata attribuzione, da parte della

direzione, di una rilevanza strategica al progetto di cambiamento.

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cate da colleghi imprenditori. Non appare invece organico il ruolo propulsivo all’innovazione esercitato

dai produttori finali. Per quanto riguarda invece gli elementi che possono frenare il cambiamento organiz-

zativo, il timore che si tratti di cambiamenti non adatti a imprese di piccole dimensioni va detto che

l’ingente investimento di risorse umane ed economiche richiesto, e il mancato commitment della direzione,

si configurano come gli ostacoli maggiori da affrontare. Tuttavia, solo quest’ultimo problema risulta diffi-

cilmente superabile, portando a un’applicazione meno organica delle tecniche della produzione snella.

2.5 La lean production e i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro

Sul piano dei cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, un primo elemento comune a tutti i casi

analizzati riguarda il legame tra lean production ed ergonomia, poiché i progetti lean prevedono il miglio-

ramento delle condizioni lavorative degli addetti in virtù dell’eliminazione di quegli sforzi ergonomica-

mente gravosi, ma spesso inutili e quindi non pagati dal cliente visto il loro ridotto valore aggiunto, che

sono tenuti a svolgere per eseguire le operazioni loro assegnate. Si tratta di un risultato che corrobora pie-

namente quanto indicato dal modello idealtipico lean descritto nella parte introduttiva di questo capitolo.

Sul piano della sicurezza in senso stretto, invece, la produzione snella può aiutare a seguire un approccio

sistemico nella sua analisi, che non prenda in considerazione solo le innovazioni tecnologiche per la ridu-

zione dei rischi ma anche il comportamento delle persone che operano sui macchinari. Tuttavia va detto

che, nel complesso, nelle aziende considerate, l’approccio della lean production non ha comportato cam-

biamenti significativi sul piano della tutela dei lavoratori dal rischio infortuni, né in termini di contenuti

né di procedure, anche perché esistono altri strumenti in grado di garantire l’implementazione di un buon

sistema di sicurezza, come la certificazione OHSAS 18001.

Un secondo importante aspetto di organizzazione del lavoro afferisce ai processi di standardizzazione e

misurazione dei tempi che la produzione snella comporta. Sotto questo profilo, le situazioni di partenza

delle imprese erano differenti, poiché si andava da contesti in cui i tempi di produzione non erano ben de-

finiti a contesti in cui le nuove metodologie hanno consentito una maggiore sofisticazione delle misura-

zioni già stabilite in precedenza. Ancora differente la situazione in altre fabbriche, generalmente apparte-

nenti a un Gruppo multinazionale, dove le operazioni di misurazione e standardizzazione risalgono agli

albori degli stabilimenti. In altri contesti ancora il lavoro era già standardizzato, ma era il flusso, soprattut-

to riguardo al collegamento tra le attività dei diversi uffici, a richiedere un intervento di razionalizzazione.

Peculiare, e interessante, quanto riscontrato nell’impresa del nostro campione dove le operazioni produtti-

ve sono organizzate per isole e non lungo la catena di montaggio. In questo caso, i tempi ciclo sono stati

definiti e messi a sistema sulla base dell’idea che sia la macchina, poiché il lavoro è organizzato per isole, a

dettare in definitiva i tempi di produzione del pezzo. Tuttavia, una simile definizione non prende in con-

siderazione, come previsto dal modello d’analisi lean, che in realtà sia l’isola, in alcuni momenti, ad aspet-

tare il lavoro dell’uomo, la cui operatività può quindi essere quindi soggetto a processi di razionalizzazione

e maggior saturazione.

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La misurazione e standardizzazione delle operazioni lavorative, che si accompagnano solitamente a

una spiegazione visuale con appositi cartelloni, non sono ovviamente fini a se stesse, ma mirano a due

obiettivi fondamentali. In primo luogo, a eliminare tutti quei movimenti a non valore aggiunto, in virtù

dell’assunto fondamentali della lean production ovvero che si possa migliorare solo ciò che è misurabile

(Cerruti, 2012). In una delle imprese analizzate, per esempio, si è ridotto, in modo significativo, il percor-

so che un addetto deve compiere durante il giorno, riorganizzando i sistemi di stoccaggio intermedi:

Prenda la workplace organization. Se guardiamo l’organizzazione del posto di lavoro, se risparmiamo

cinque minuti perché una volta l’operatore non trova la pinza, una volta non trova il cacciavite, perché

sono messi male oppure buttati a casaccio, quei cinque minuti non remunerano l’operaio che sta usan-

do lo strumento. Se risparmio venti minuti del magazziniere, che prima faceva dieci giri mentre oggi

con cinque ha fatto tutto, probabilmente quel lavoratore si sentirà più gratificato, perché non è che

trovasse maggiore soddisfazione nel fare più giri.

In secondo luogo, le attività di misurazione e standardizzazione cercano di uniformare l’azione delle

diverse squadre di lavoro o dei singoli operatori sulle macchine o in determinati ambiti, stabilendo una

procedura valida e vincolante per tutti attraverso un confronto tra i risultati raggiunti dai diversi metodi

seguiti. Per esempio, in una delle imprese analizzate le operazioni di set up dei macchinari erano eseguite

in modo diverso da differenti squadre di lavoro. Successivamente, grazie alle tecniche d’analisi lean, sono

state raccolte le idee e i tempi di tutte le squadre, facendo la miglior sintesi possibile e definendo una pro-

cedura uguale per tutti, cosicché ora chiunque vada a compiere quelle operazioni deve seguire un certo

metodo ed evidenziarne gli scostamenti qualora si verifichino.

In linea generale, queste attività di misurazione e standardizzazione restringono la discrezionalità asse-

gnata all’operatore nell’esecuzione della propria attività, per cui, sotto tale profilo, riducono

l’arricchimento del lavoro (Mintzberg, 1985), infatti come già rilevato e come verrà illustrato anche nel

CAP 3, la lean production è compatibile, e anzi richiede, la predeterminazione e standardizzazione delle

operazioni lavorative. Dall’altro lato, va detto che eliminare le operazioni e i movimenti a scarso valore ag-

giunto, sostituendoli con altre attività sempre standardizzate, non implica nemmeno un impoverimento

del lavoro dell’addetto. La discrezionalità del lavoratore viene anche erosa dalla progressiva automatizza-

zione delle operazioni riscontrata in diverse imprese, spesso tramite strumenti informatici che però,

dall’altro lato, conferiscono maggiore sicurezza al lavoratore rispetto alla correttezza delle proprie opera-

zioni e richiedono lo sviluppo di competenze maggiori nell’uso di software e nella lettura e interpretazione

dei dati. In altri termini, non sembrano emergere risultati univoci sul piano del miglioramento o del peg-

gioramento della qualità del lavoro rispetto allo spazio autonomo d’azione del lavoratore nel decidere quali

operazioni eseguire e come.

Ma la qualità del lavoro va valutata in base ad altre dimensioni e non limitatamente alla discrezionalità

dell’operatore. Per esempio, sul piano dell’allargamento delle mansioni, in seguito al processo di attivazio-

ne della produzione snella la rotazione degli addetti tra diverse postazioni di lavoro è aumentata, anche

per ragioni ergonomiche, in quasi tutte le aziende. In alcuni contesti, la sua attuazione segue una logica

strategica, volta a far sì che il lavoratore apprenda il funzionamento dell’intero processo produttivo, acqui-

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sendo competenze diversificate che rafforzano il suo livello di flessibilità funzionale e le sue capacità

d’intervento in caso di errore. È interessante fare due esempi al riguardo, tratti da una piccola e da una

grande impresa.

Per quanto concerne la prima, essa svolge un’attività formativa per gli operatori per addestrarli a utiliz-

zare al meglio le macchine utensili recentemente acquistate, programmandole in modo adeguato e facen-

doli ruotare tra diverse postazioni, anche al di fuori della produzione in senso stretto. Tale polivalenza

rappresenta una necessità per l’azienda, come sottolineato dal proprietario, poiché l’attività produttiva è

diversificata per prodotto e per processo, e si richiedono quindi operai allineati a tali caratteristiche. Per-

dere tale flessibilità, e le conseguenti opportunità di mercato che essa presenta, significherebbe rinunciare

a un fattore fondamentale di competitività aziendale.

Per ciò che attiene al secondo esempio, l’impresa ha recentemente attuato un ampio e ambizioso pro-

cesso di innovazione organizzativa, che, per quanto ancora implementato in forma parziale, inizia a forni-

re i primi risultati positivi. L’idea di creare tante piccole fabbriche risponde anche all’esigenza di avere

operatori che imparino a svolgere più mansioni, aumentando la flessibilità funzionale delle linee, e metter-

li in grado di apprendere una logica di processo che permetterà di coordinarsi meglio e riconoscere più

prontamente eventuali difetti di produzione. Ciò testimonia anche empiricamente l’importanza della rota-

zione strategica del personale tra le varie postazioni e fasi del processo produttivo, un aspetto che certa-

mente rende perlomeno meno ripetitiva e noiosa l’attività lavorativa:

Fino a ieri, potrei dire anche oggi perché, in realtà, la nostra organizzazione in questo momento è a

meta tra il nuovo e il vecchio, avevamo una fabbrica divisa in due. Tutta la prima parte del processo,

che per noi termina alla verniciatura, e poi tutta la seconda fase, l’attività di finitura e collaudo. Adesso

stiamo cercando di creare delle mini-fabbriche, delle aree più piccole, quindi di ridurre il perimetro,

per avere persone che siano consce di quello che succede dall’ingresso della materia prima all’uscita del

prodotto finito [...] Tra l’altro, noi normalmente abbiamo uomini nella prima parte del processo e

donne nella seconda parte, di finitura e collaudo. Quello che stiamo cercando di cambiare è

l’approccio, ovvero essere tutti consapevoli di quello che sta succedendo su un perimetro limitato, co-

stituito da un numero ridotto di macchine e persone.

Per valutare in modo appropriato la qualità del lavoro, è necessario anche analizzare i processi di auto-

nomia e decentramento delle responsabilità in favore degli addetti di linea, chiamati a eseguire diretta-

mente attività di problem solving. Nelle imprese esaminate tali processi si rivelano diffusi in diversi contesti

ed è utile, anche in quest’ambito, procedere ad alcune esemplificazioni.

In una delle imprese analizzate, il processo di integrazione dei compiti ha ridotto i tempi di cambio set

up delle macchine da cinque-sei ore a 45 minuti; un cambiamento radicale reso possibile dal fatto che,

mentre in precedenza erano il capo turno e il team leader a dover provvedere da soli al cambio, ora i singoli

addetti sono stati formati per modificare autonomamente ciascuno la propria postazione con una forma-

zione on the job.

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In un’altra, multinazionale, è in atto un secondo progetto di sviluppo di polivalenza, policompetenza e

decentramento delle responsabilità nelle linee di produzione. L’obiettivo addestrare i lavoratori ad operare

su tutti i processi nell’ambito delle micro fabbriche create all’interno dello stabilimento agli inizi degli anni

’90, affidando a ciascun addetto la responsabilità di presidiare una determinata area (qualità, sicurezza,

manutenzione, ecc.). Il processo di decentramento delle responsabilità appare invece meno intenso nelle

imprese in cui l’innovazione organizzativa non è sostenuta a livello di sistema dal top management, pur

essendo un obiettivo dichiarato dei manager di fabbrica, che, gradualmente, stanno adottando alcuni

strumenti tipici della produzione snella al suo interno.

Il panorama presentato induce a ritenere che la produzione snella comporti, nel complesso, una mag-

giore valorizzazione della professionalità del lavoratore, con un suo marcato coinvolgimento e attribuzione

di responsabilità e autonomia che parrebbe quindi contraddire le ricerche che hanno evidenziato il preva-

lere della sua componente tecnica. Tuttavia, è opportuno sottolineare che, oltre a non registrarsi cambia-

menti univoci sul piano dell’autonomia e della discrezionalità assegnati all’operatore, quanto riportato

proviene esclusivamente da fonti manageriali, per cui non disponiamo di dati rappresentativi di tutti gli

attori sociali. Inoltre, rimane aperta la questione dell’intensità di lavoro, generalmente maggiore nei siste-

mi di produzione snella proprio a causa della costante della diminuzione degli sprechi che saturano mag-

giormente i tempi di lavoro. Tale tema non è stato indagato in questo studio, che non prevedeva il coin-

volgimento di rappresentanti sindacali e lavoratori, la cui voce, assieme a quella di altri responsabili azien-

dali, è importante per comprendere quanto l’attività lavorativa sia stata effettivamente saturata. Ma, nel

complesso, i dati raccolti consentono di affermare che la lean production apre concreti spazio di partecipa-

zione e coinvolgimento dei lavoratori, per quanto di natura e qualità non precisamente definibili in questo

contesto.

2.6 Le resistenze e il coinvolgimento diretto dei lavoratori

Si è detto come il coinvolgimento diretto degli addetti dovrebbe rappresentare una caratteristica fon-

damentale dei sistemi produttivi snelli, la cui assenza provocherebbe difficoltà nel trovare ed attuare tutte

quelle modifiche incrementali che, in virtù della razionalità limitata dei processi produttivi e di chi li pro-

getta, sono cruciali per migliorare l’efficienza e la competitività del sistema nel lungo termine.

Iniziando dalle possibili resistenze provenienti dal personale, va innanzitutto rilevato come in nessun

caso, tra quelli esaminati, si ravvisino opposizioni tali da ostacolare i processi di innovazione organizzativa.

Anche nei contesti dove gli operai non sembrano ancora manifestare una piena adesione al modello della

lean production, due sono i casi incontrati, la diffidenza non risulta tale da pregiudicare la validità

dell’operazione di ristrutturazione organizzativa. Peraltro, le due aziende citate, sebbene fortemente impe-

gnate in tale direzione, non sono ancora riuscite per motivi diversi a coinvolgere in modo organico i lavo-

ratori nei processi aziendali, per cui potrebbe trattarsi delle fisiologiche incertezze iniziali legate al cam-

biamento delle attività. Tali diffidenze sono state registrate in molti altri contesti, ma superate una volta

che gli addetti hanno potuto verificare i risultati conseguibili con le nuove tecniche produttive.

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Maggiori ostacoli per l’implementazione dei cambiamenti previsti dalla produzione snella provengono

invece dalla forza lavoro impiegatizia e sono stati segnalati da entrambe le aziende che hanno esteso

l’applicazione dei metodi lean agli uffici. In un caso la resistenza al cambiamento ha comportato un rallen-

tamento nel processo di attuazione delle nuove tecniche di lavoro in alcuni uffici; un comportamento che

appare in parte legato alle caratteristiche della popolazione impiegatizia la quale, essendo più preparata e

con uno titolo di studio più elevato rispetto ai lavoratori di officina, è più propensa a voler dire la propria

opinione e meno permeabile ai cambiamenti organizzativi quando innescati da altri:

Gli uffici sono un pò la parte che ci ha dato più difficoltà, mentre con magazzino e logistica avevamo

a che fare con persone che, bene o male, siamo riusciti a convincere in questo anno e mezzo in cui ab-

biamo fatto tantissima formazione [...] È proprio una categoria di persone diverse, sono meno pre-

suntuosi. Non credo sia una cosa che avviene solo da noi. Gli impiegati hanno una preparazione di-

versa, si aspettano più di dire la loro. Gli operai, in particolare all’inizio, sono stati più disponibili ad

accettare, probabilmente perché non sapevano cosa controbattere.

Anche nella seconda impresa la contrarietà al cambiamento organizzativo da parte degli impiegati è

stata maggiore rispetto a quanto riscontrabile a livello operaio, con i membri di alcuni uffici che si sono

rivelati i più scettici, probabilmente perché si tratta di dipartimenti in cui le persone devono rispettare

precise procedure nell’esecuzione del proprio lavoro, legate a obblighi normativi ben definiti. Quanto det-

to riguardo all’atteggiamento della forza lavoro impiegatizia rappresenta solo un input, data l’esiguità nu-

merica dei casi esaminati, ma sarebbe interessante valutarne la consistenza in successive ricerche empiri-

che, sia qualitative che quantitative. Infatti, i vantaggi derivanti dall’applicazione dei principi della lean

production a livello impiegatizio, per quanto meno visibili, sono ugualmente se non più utili di quelli che si

realizzano in ambito produttivo, per la complessità e sovrapposizione di procedure che si può generare a

livello di uffici e per l’organizzazione stessa del lavoro.

Tornando per un momento alla prima impresa citata, ad esempio, l’ufficio commerciale prima

dell’implementazione del progetto lean raccoglieva tutti gli ordini, li caricava in brutta al computer, poi li

correggeva, li stampava quindi in bella, mandava le conferme d’ordine al cliente, verificava se c’era il mate-

riale necessario a soddisfare l’ordine ricevuto oppure se occorreva fare degli acquisti. Tutto questo lavoro

veniva, quindi, svolto per fasi. Oggi, al contrario, gli impiegati svolgono il processo descritto dall’inizio

alla fine per ogni ordine che arriva sul loro tavolo, col risultato di dimezzare il tempo di lavoro richiesto e

la possibilità, per il management, di assegnare al personale nuove attività che prima non avevano il tempo

di espletare. Si tratta dell’applicazione del principio one-piece-flow, prima illustrato in ambito di produzio-

ne, a livello di ufficio.

Le maggiori resistenze all’applicazione della produzione snella, in ogni caso, provengono dal manage-

ment intermedio (Batt, 2004) che complica in alcuni contesti la diffusione dei processi di innovazione or-

ganizzativa, soprattutto rispetto alle pratiche di partecipazione dei lavoratori e al decentramento delle re-

sponsabilità. La diffidenza di tale livello manageriale è legata a motivi diversi, alcuni dei quali peculiari ai

singoli contesti aziendali, ma sono individuabili alcuni tratti comuni. In primo luogo, il ruolo del capo re-

parto dovrebbe cambiare con la produzione snella, passando da modalità gestionali direttive a modalità di

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confronto con gli addetti nel momento di prendere decisioni, adottando un comportamento di dialogo e

supporto. Capita così che molti manager intermedi si sentano minati nel proprio ruolo, non lo riconosca-

no più, e spesso non dispongono nemmeno delle competenze adeguate per l’esercizio dei nuovi compiti

assegnati, soprattutto se hanno alle spalle parecchi anni di anzianità aziendale.

È una questione di mentalità dei capi. Da trent’anni sono abituati a comandare, è difficile fargli cam-

biare mentalità, far sì che svolgano il proprio ruolo più come coach che non in modo autoritario.

In secondo luogo, il dialogo e la delega di responsabilità all’operatore di linea viene vissuto con timore

da diversi capo reparto i quali, insicuri delle proprie capacità, temono che gli addetti, partecipando più di-

rettamente ai processi decisionali aziendali, possano dimostrare di avere conoscenze superiori alle proprie,

mettendone in discussione il ruolo:

Mettersi in gioco con le persone non è sempre facile. Riuscire a fare un problem solving ben fatto, fare

del miglioramento coinvolgendo le persone non è facile. Le persone mettono in gioco la loro reputa-

zione in un certo senso, se tu hai qualche dubbio sulla tua leadership in termini di competenza, il mo-

do più facile è non fare proprio la partecipazione. In quel caso, è meglio dare degli ordini esecutivi che

non fare un lavoro di analisi congiunto. Da noi, in parte, succede questo, però con miglioramenti ri-

spetto al passato forti, ma il punto dove vogliamo arrivare è ancora molto lontano.

Di conseguenza, l’importanza dell’attività formativa soft, anche d’aula, per esempio in termini di lea-

dership, non scompare nei sistemi di produzione snella, ma assume invece un importante ruolo di suppor-

to e accompagnamento all’innovazione.

Spostandosi dalle resistenze dei lavoratori al tema del loro coinvolgimento diretto, emergono, in ter-

mini generali, due diverse modalità nel processo di attuazione della lean production, che dividono il cam-

pione di aziende analizzate in due gruppi di numerosità simile. Nel primo modello vengono formati i

primi livelli aziendali, che partecipano assieme alle sessioni formative, sempre rigorosamente pratiche, ri-

guardanti le tecniche produttive lean, come ad esempio le attività di miglioramento continuo. Dopodiché,

una volta applicate e interiorizzate le procedure di analisi e di risoluzione dei problemi, compito loro è

istruire, sempre con forme di training on the job, i livelli organizzativi sottostanti, secondo un processo a

cascata. L’altro modello prevede, parimenti, la formazione alle tecniche lean dei livelli apicali aziendali,

ma, successivamente, gli operatori di linea partecipano direttamente ai processi di cambiamento, in parti-

colare alle attività di miglioramento continuo, assieme ai primi livelli e agli altri responsabili aziendali

formati in precedenza. Qualora correttamente applicati, entrambi i modelli possono avere successo, ma

occorre segnalare come il primo sia più soggetto alle resistenze provenienti dal management intermedio e

quindi abbia maggiori difficoltà di implementazione. Ciò potrebbe essere in parte legato, ma si tratta solo

di un’ipotesi che richiederebbe approfondimenti specifici, dalla più debole idea di squadra e di valorizza-

zione degli operai, nel modello a cascata, dati dalla separazione dei momenti formativi tra le diverse cate-

gorie della forza lavoro

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Infine, è opportuno segnalare quali sono gli strumenti quotidiani di coinvolgimento diretto degli ope-

ratori più ricorrenti nelle aziende esaminate; da questo punto di vista, non si ravvisano novità particolari

rispetto a quanto contenuto in letteratura. Infatti, tali pratiche consistono nelle riunioni di reparto e nella

cassetta dei suggerimenti. A quest’ultima, nei contesti più piccoli, viene preferita una modalità informale

per la ricezione delle idee dei lavoratori, che partendo dall’addetto va al responsabile di reparto fino ai

primi livelli. Tale scelta appare logica, al fine di non impegnare in procedure formali contesti che farebbe-

ro fatica a sopportarne il peso, ma, per eliminare il problema della discrezionalità del capo reparto nel rife-

rire i suggerimenti propostigli, può essere utile segnalare il caso di una impresa analizzata che combina in

modo originale elementi informali e formali di coinvolgimento. In tale impresa, composta da dodici di-

pendenti, una cassetta non avrebbe alcun senso. Tuttavia, per incoraggiare i lavoratori ad avanzare idee di

miglioramento, si è istituito un premio mensile destinato alla persona che ha proposto la soluzione mi-

gliore per ovviare a un certo problema. Interessante notare che i suggerimenti avanzati dai lavoratori,

com’è emerso dalle interviste effettuate in imprese con dimensioni e caratteristiche molto differenti tra

loro, siano tanto più efficaci quanto più valutati con attenzione dai responsabili aziendali. Il premio eco-

nomico, al contrario di quanto si potrebbe comunemente pensare, non sembra incidere in modo significa-

tivo sull’impegno degli operai al miglioramento dell’efficienza delle linee di produzione, per quanto in tut-

ti i casi i lavoratori siano premiati in modo simbolico con gadget aziendali oppure con inviti gratis per una

cena. Secondo i manager intervistati sembra pertanto che la possibilità per gli operai di sentirsi ascoltati, e

quindi essere valorizzati nel proprio lavoro, possa fare la differenza nel determinare il successo degli stru-

menti di coinvolgimento del personale:

A volte noi pensiamo, e sbagliamo, che il lavoratore si aspetti per ogni cosa che fa una remunerazione,

ma in realtà non è così, è un approccio sbagliato. Le persone vogliono dire la loro, ma non trovano

mai qualcuno che li ascolta, noi invece abbiamo un modello in cui l’azienda ti ascolta. Le persone, se

non fanno un prodotto di qualità, non sono contente. Poi è giusto che ci sia anche l’euro, ma le perso-

ne si aspettano che qualcuno li ascolti, che gli dia anche fiducia se sanno come risolvere un problema.

Sul piano delle riunioni, interessanti sono i casi di due grandi impresi analizzate, dove si tengono quo-

tidianamente tre tipologie di riunioni per la risoluzione dei problemi di produzione che coinvolgono pro-

gressivamente differenti livelli organizzativi. La prima tipologia riunisce gli addetti e il team leader, la se-

conda i capo reparto e la terza i primi livelli, e in ogni riunione si affrontano i problemi che non sono stati

risolti, o che non si potevano esaminare, nelle precedenti tipologie. Diversa è la loro durata: le riunioni

degli addetti sono definite in una di queste “riunioni 5 minuti”, per la loro rapidità, in quanto rivolte alla

risoluzione dei problemi più operativi, ma che attestano il continuo e costante coinvolgimento degli operai

nel miglioramento del processo produttivo sul quale operano.

In conclusione, le resistenze dei lavoratori, più forti nel caso della forza lavoro impiegatizia e soprat-

tutto del management intermedio, non risultano mettere in pericolo o bloccare la positiva attuazione del

processo di innovazione organizzativa, ma ne possono rallentare il processo o ridurne i benefici. Il coin-

volgimento diretto dei lavoratori in fase di implementazione del cambiamento, invece, sembra seguire due

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modelli differenti, uno a cascata e uno che riunisce di più tutte le diverse categorie del personale. Sul pia-

no degli strumenti di coinvolgimento, il ricorso è a mezzi tradizionali, rappresentati in particolare dalla

cassetta dei suggerimenti e dalle riunioni di reparto, con l’interessante osservazione che i suggerimenti de-

gli operai risultano positivamente correlati al grado di attenzione manageriale nei confronti delle idee

avanzate, e non dal loro eventuale premio economico.

HIGHLIGHTS

• La complementarità dell’innovazione è fondamentale, e interessa le diverse forme (prodotto, pro-

cesso, produzione), la componente tecnica e sociale della lean production, le pratiche di lavoro da

adottare nei nuovi modelli organizzativi.

• La produzione snella adotta una razionalizzazione produttiva che richiede nuove competenze pro-

fessionali ai lavoratori, in termini di intervento diretto in linea per la risoluzione dei problemi, di

suggerimento per migliorare le linee di produzione, di predisposizione al lavoro di squadra.

• Le aziende privilegiano le forme innovative più utili, secondo del mercato di riferimento e della ti-

pologia di produzione in cui sono impegnate.

• Le spinte innovative nei confronti dei manager per l’attuazione dei principi della produzione snella

si differenziano tra grandi aziende multinazionali e PMI locali. Nel primo caso sono le politiche de-

cise a livello di Gruppo l’elemento esogeno più rilevante, mentre nel secondo sono i network rela-

zionali ad esercitare la principale influenza.

• Il ruolo guida di Fiat per l’innovazione organizzativa sembra riguardare i fornitori di primo livello,

mentre nella restante catena di fornitura non si è ravvisata la presenza di attori che possano guidare

l’innovazione organizzativa.

• Gli ostacoli principali che si frappongono all’implementazione della lean production sono

l’incertezza che si tratti di un sistema utile per le proprie dimensioni (nel caso delle piccole impre-

se), i forti investimenti richiesti in termini di risorse umane ed economiche, il debole sostegno del

top management all’innovazione.

• La produzione snella non sembra comportare cambiamenti univoci sul piano della qualità del lavo-

ro in termini di discrezionalità assegnata all’operatore, mentre la sua implementazione favorisce un

processo di allargamento delle mansioni, decentramento decisionale e coinvolgimento.

• Il processo di attuazione della lean production comporta alcune resistenze al cambiamento, soprat-

tutto da parte della forza lavoro impiegatizia e del management intermedio, comunque superabili

se il progetto lean è perseguito con convinzione. Il coinvolgimento dei lavoratori nel processo di at-

tuazione della produzione snella segue due modelli: a cascata oppure in contemporanea con le altre

categorie di lavoratori.

• I suggerimenti degli operatori sono tanto più numerosi ed efficaci quanto più il management si

dimostra disposto ad ascoltarli e analizzarli, e non in relazione alle ricompense economiche ad essi

associate.

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CAPITOLO 3.

Lean production e nuove esigenze di formazione.

3.1 Innovazione e nuovi tipi di competenze professionali

A partire dalla fine degli anni ’80 si è sviluppato in Italia, come in tutti i paesi industriali occidentali,

un intenso dibattito sulle nuove forme di organizzazione della produzione adottate dalle imprese per ri-

spondere alla crisi del modello taylor-fordista. L’attenzione si è concentrata, in particolare, sul modello

produttivo giapponese (modello della lean production, secondo la fortunata formula utilizzata da Womack,

Jones, Ross nella loro ricerca del 1990) e sulla sua trasferibilità nei paesi occidentali, in virtù del successo

dei suoi prodotti sui mercati internazionali. La lean production è apparsa a molti come il nuovo paradigma

organizzativo a cui le imprese, pur con i necessari adattamenti, avrebbero dovuto conformarsi per racco-

gliere la sfida della flessibilità e della competitività. In realtà, il dibattito scientifico e l’evidenza empirica

hanno dimostrato l’emergere di diversi modelli di organizzazione dell’impresa, tra i quali vi è, appunto,

quello della produzione snella, il quale, a sua volta, si presenta in diversi varianti, influenzate soprattutto

dalle caratteristiche del settore produttivo, dalla dimensione d’impresa e dai contesti istituzionali e sociali

dei singoli paesi (Kochan, Lansbury, MacDuffie, 1997; Boyer, Freyssenet, 2000). Hanno anche dimostra-

to che le forme postfordiste di organizzazione della produzione utilizzano spesso alcuni dei tradizionali

principi tayloristici, in particolare la predeterminazione dei tempi e dei metodi, ma li inseriscono in un

orizzonte più ampio di nuovi concetti di produzione (Coriat, 1991; Belanger, Giles, Murray, 2004). In

altri termini, la lean production è ampiamente compatibile con la linea di montaggio, con il lavoro parcel-

lizzato e ripetitivo, secondo i dettami dell’organizzazione scientifica del lavoro.

Una importante ricerca, condotta nel 2005 su un ampio campione di imprese di 31 paesi dell’area eu-

ropea dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e pubblicata nel 2009

(Valeyre et al., 2009), sostiene, con un ben costruito sistema di analisi, che è possibile ricondurre le diverse

soluzioni di organizzazione della produzione e del lavoro a quattro modelli idealtipici: learning organisa-

tion, lean production, taylorismo, struttura semplice. I primi due modelli hanno caratteristiche simili, ciò che

li differenzia è un minor grado di autonomia del lavoro, un più basso livello medio di qualificazione dei

lavoratori, una minor diffusione e efficacia dei meccanismi di apprendimento organizzativo, un ricorso più

limitato a politiche di sviluppo del personale del secondo modello rispetto al primo. I quattro modelli or-

ganizzativi sopra richiamati hanno una diversa diffusione: si stima che le learning organisation coinvolgano

il 38% dei lavoratori, le imprese lean il 26%, le imprese che si richiamano al taylorismo classico o ad un

neotaylorismo flessibile il 20% e le imprese a struttura semplice il 16%. Un aspetto importante dello stu-

dio è l’ipotesi che le due forme di impresa più tradizionali – quella tayloristica o neotayloristica e quella a

struttura semplice – non siano reliquie di un passato che non vuole passare, destinate, però, ad una inevi-

tabile e progressiva scomparsa, ma forme di organizzazione del lavoro dotate di una loro vitalità e adatta-

bilità nelle nicchie di mercato in cui operano. Le forme organizzative più tradizionali sono particolarmen-

te diffuse in settori quali il tessile, l’abbigliamento, il commercio, l’alberghiero, i servizi alla persona. Le

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learning organisation sono presenti prevalentemente nei settori del credito, delle assicurazione, dei servizi

avanzati, ma anche in settori industriali come la fabbricazione di macchine elettriche. La produzione snel-

la è diffusa soprattutto nelle imprese industriali impegnate nella produzione di massa diversificata e di

qualità, rintracciabili soprattutto nei settori degli elettrodomestici, dell’automobile, della lavorazione dei

metalli, delle apparecchiature meccaniche, della gomma-plastica. In questi settori rappresenta il paradig-

ma organizzativo di riferimento di gran parte dei processi di razionalizzazione.

Anche la presente indagine, nei limiti della sua significatività, sembra corroborare questi risultati: le

aziende esaminate del settore automotive collocano, in modo più o meno intenzionale, i loro progetti e

programmi di innovazione nella cultura manageriale della lean production. Al di là del tipo e della numero-

sità delle nuove pratiche organizzative adottate dal modello della learning organisation rispetto al modello

della lean production, il criterio distintivo tra le due forme organizzative è rappresentato dal diverso modo

con cui vengono prodotte, impiegate, accumulate le competenze, considerate come la forza produttiva, in

grado di generare i differenziali di rendimento organizzativo tra un’impresa e l’altra, a parità di altre con-

dizioni. In entrambi i casi il potenziale di apprendimento di un’organizzazione è considerato come una

risorsa chiave della strategia competitiva dell’impresa. Nel modello della learning organisation questo po-

tenziale appare più sviluppato in ragione della particolare combinazione di tecnologie, forme di organizza-

zione del lavoro, sistemi di gestione del personale, rispetto al modello della produzione snella. Ne conse-

gue che le politiche formative potranno assumere una diversa caratterizzazione in relazione al potenziale

di apprendimento, proprio di una particolare configurazione organizzativa.

Sulla scorta dei dati empirici raccolti nelle interviste possiamo ritenere che il potenziale di apprendi-

mento dell’impresa possa svilupparsi lungo due dimensioni. La prima è legata a variabili interorganizzati-

ve, vale a dire alla collaborazione tra imprese, tra imprese enti di ricerca, tra imprese italiane e imprese

straniere (Nielsen, Lundvall, 2003). È nell’ambito di queste relazioni cooperative che si sviluppa

all’interno dell’impresa una forma di learning by network. I saperi e le competenze scorrono lungo le ma-

glie della rete e nei nodi si ricombinano e si ispessiscono; la rete facilita, poi, i cosiddetti fenomeni di pro-

pagazione “virale” dell’innovazione. Un esempio di diffusione reticolare dell’organizzazione lean nelle im-

prese é rintracciabile nelle dichiarazioni di un dirigente di una PMI:

Le aziende delle nostre dimensioni sono trainate dal committente perché vedono una filosofia,

un’organizzazione […] Questa è una premessa commerciale importantissima per capire come si può

sviluppare un tessuto industriale, perché diventa difficilissimo sviluppare un tessuto industriale se non

c'è un'azienda di grandi dimensioni che può dare delle indicazioni da seguire. In Italia c’è la ***,

l’azienda più grande che esiste qua, e che utilizza la lean e certamente tutti i fornitori che lavorano con

loro iniziano con l’approccio della lean. Noi abbiamo un’azienda ad *** che è fornitrice della ***, dove

hanno iniziato ad utilizzare la lean nella catena di fornitura. Per la nostra azienda abbiamo impostato

il discorso in modo diverso, perché saremo noi a trainare i piccoli fornitori che abbiamo.

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Gli elementi qualificanti il networking sono la durata delle politiche, il tipo di relazioni (orizzontali vs

verticali) che si stabiliscono tra le imprese, l’ampiezza della rete di collaborazione e la varietà dei soggetti

che la compongono.

La seconda dimensione è legata alle variabili intraorganizzative, cioè all’adozione di particolari forme

di organizzazione del lavoro e di gestione del personale, come il lavoro di gruppo, la riduzione dei livelli

gerarchici con i collegati processi di empowerment, le pratiche di knowledge management, lo sviluppo della

polifunzionalità del personale, i team di miglioramento, la presenza di metodi dinamici e diffusi di miglio-

ramento continuo, l’adozione di sistematici interventi di miglioramento ergonomico e ambientale, la for-

mazione diffusa e tendenzialmente continua, il ricorso ad incentivi collettivi, lo sviluppo di relazioni indu-

striali a ridotta asimmetria informativa, l’impiego di politiche ispirate ad equità procedurale, oltre che so-

stantiva (Leoni R., 2006). Si tratta di un disegno organizzativo teso a sviluppare un learning by integration.

È attraverso l’interazione tra soggetti portatori di competenze e responsabilità diverse, finalizzata al rag-

giungimento di obiettivi condivisi, tra misure riconducibili alle diverse componenti in cui si specifica la

realtà d’impresa che prende corpo una crescita del potenziale di razionalizzazione dell’apparato produttivo.

Ogni soggetto può essere concepito come un agente di razionalizzazione, proprio perché interagisce con

altri soggetti in un quadro di responsabilità reciproca. La cooperazione attorno a obiettivi condivisi appare

come l’esito di un processo sociale, spesso irto di contraddizioni e tensioni, tra i vari soggetti coinvolti, in

cui ciascun attore ridefinisce il proprio comportamento organizzativo alla luce dei criteri di equità adottati,

nelle condizioni sociali date, nel valutare il rapporto tra benefici ottenuti e costi sostenuti e alla probabilità

di conseguire tali benefici (Porter, Lawler, 1968). Per il lavoratore i costi sono riconducibili essenzialmen-

te alla prestazione lavorativa fornita (alla sua qualità, durata, intensità) e, alle volte, all’aumento del rischio

di perdita del posto di lavoro a seguito dei risparmi di manodopera generati dalla razionalizzazione, men-

tre i benefici sono gli incentivi materiali e immateriali che egli ottiene nella relazioni contrattuale; per

l’impresa i benefici sono rappresentati soprattutto da una modalità di erogazione della prestazione di lavo-

ro che ottimizza la combinazione dei fattori produttivi, comparativamente alla concorrenza, mentre i costi

sono l’insieme degli oneri legati all’erogazione dei benefici materiali e immateriali forniti ai lavoratori e ai

costi di transazione legati alle attività di governo delle relazioni di lavoro. Gli elementi qualificanti i pro-

getti di learning integration sono la numerosità delle dimensioni toccate dall’innovazione, la varietà e la

diffusione delle azione all’interno di ciascuna dimensione.

L’incrocio tra le due dimensioni (FIG 5), ciascuna delle quali distinta in due “stati” – alto e basso –

consente di individuare quattro situazione idealtipiche.

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FIG. 5 - POTENZIALE INNOVATIVO DELL’IMPRESA

Potenziale di apprendimento basato

su variabili intraorganizzative

(logica learning by integration)

alto

basso

IMPRESA A INNOVAZIONE

ENDOGENA

1

IMPRESA A INNOVAZIONE

SISTEMICA

2

4

IMPRESA STATICA

3

IMPRESA A INNOVAZIONE

GUIDATA

O ETERODIRETTA

basso alto

Potenziale di apprendimento basato

su variabili interorganizzative

(logica learning by network)

Nella casella 1 troviamo le imprese che avviano con forza e convinzione processi di riorganizzazione

della produzione e del lavoro, facendo leva essenzialmente su nuove combinazioni delle risorse interne; qui

il potenziale innovativo dipende dalla cultura organizzativa dell’impresa, dalla sua storia, dal modo cui il

management analizza i vincoli e le opportunità poste dall’ambiente esterno. Il punto forte di questo ap-

proccio è l’elevata propensione a cercare soluzione tagliate sulle particolarità dell’azienda, sui suoi specifici

obiettivi, sulle sue strategie di business, sulle caratteristiche delle sue relazioni sociali; il punto debole è

una tendenza a percorrere i nuovi sentieri dell’innovazione secondo le mappe cognitive delle passate espe-

rienze di successo, si tende a interpretare il cambiamento riproponendo le logiche d’azione che hanno avu-

to successo nel passato, ma che potrebbero non essere adeguate nel presente. Il rischio è rappresentato da

un approccio in cui il successo (del passato) può creare fallimento (Whetten, 1980).

Nella casella 3 troviamo le imprese che promuovono il cambiamento in ragione delle interdipendenze

organizzative e di business intrattenute con soggetti esterni e delle spinte che provengono da tali soggetti

o della cooptazione di nuovi top manager (solitamente come risposta a uno stato di crisi aziendale) che

portano all’interno dell’azienda spinte innovative maturate in altri contesti d’impresa o d’attività economi-

ca. Si tratta di una sorta di adattamento alle pressioni ambientali, di una loro internalizzazione nel mana-

gement tramite meccanismi di cooptazione, di solito provenienti da clienti “forti” o da assetti istituzionali

del mercato (vedi, ad esempio, la massiccia diffusione dei sistemi di qualità nelle imprese), per introdurre

discontinuità in situazioni di crisi. I rischi maggiori di questa situazione sono essenzialmente due. Innan-

zitutto, realizzare un adattamento mimetico, di superficie, con deboli radici all’interno dell’impresa, capa-

ce pur tuttavia di migliorare le prestazioni del sistema, ma in una misura sub-ottimale, e in cui spesso coe-

sistono due strati organizzativi: quello ufficiale modellato sui nuovi principi di organizzazione, quello “na-

scosto” che segue nella pratica quotidiana vecchie pratiche produttive e gestionali. Il secondo rischio è

quello di suscitare resistenze al cambiamento, più o meno esplicite, nel personale il quale tenderà a reagire

non tanto adottando le classiche risposte di lealtà, fuga o protesta (anche se tali comportamenti possono

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essere fenomeni presenti), quanto la risposta dell’apatia (Bajoit, 1988), cioè l’erogazione di una prestazio-

ne poco improntata ad una cooperazione attiva e più ad una cooperazione passiva. Appena la pressione

“esterna” si affievolisce, per qualche ragione, solitamente il processo di cambiamento tende ad arrestarsi o

ad andare in deriva. Tuttavia, questa situazione ha un punto forte: è quello di ottenere un cambiamento

rapido, capace di portare risultati, preziosi ancorché non ottimali, nel breve periodo, di rompere vecchie e

sedimentate incrostazioni che impediscono all’organizzazione di evolvere, tematizzare con forza la neces-

sità di un cambiamento e introdurre un elemento di discontinuità con l’assetto organizzativo tradizionale.

Nella casella 4 troviamo le imprese statiche, non inserite in network organizzativi capaci di sollecitarne

l’evoluzione, e neppure dotate al proprio interno di sufficienti risorse in grado di sospingerle lungo la stra-

da del cambiamento e dell’innovazione. Si tratta di imprese ad alto rischio, progressivamente incapaci di

competere e destinate pertanto alla marginalizzazione. In questo caso, l’unica possibilità evolutiva delle

imprese sembra risiedere, almeno di quelle che possiedono comunque un potenziale innovativo su cui far

leva, nel loro inserimento in network di sostegno, affinché siano sollecitate ad accedere a beni collettivi di

innovazione, che per definizione non possono che essere messi a disposizione dalla mano pubblica.

Nella casella 2 troviamo le imprese innovative, dinamiche. Qui si combinano spinte innovative prove-

niente dai network con altri soggetti: si pensi alle forme di cooperazione pragmatiche tra assemblatori fi-

nali e fornitori nel campo della progettazione di nuovi componenti, alla collaborazione tra impresa e enti

di ricerca per lo sviluppo di nuovi prodotti, alle reti di imprese impegnate a cercare nuovi sbocchi in mer-

cati nuovi e non facilmente “penetrabili” (Helper, MacDuffie, Sabel, 2000). È nello scambio cooperativo,

basato sulla mutua convenienza tra le parti, che scorrono i saperi innovativi, l’interazione per personalizza-

re il cammino dell’innovazione, per adottare forme innovative integrate, cioè congruenti con

l’organizzazione del business di tutti i soggetti in gioco. Spesso la rete è frutto di una strategia intenziona-

le di costruzioni di relazioni, altre volte è il frutto di circostanze casuali, di cui il management ha saputo

trarre profitto con l’atteggiamento del bricoleur creativo. Ecco quel che racconta un dirigente di una PMI:

Un amico che lavorava in Teksid mi ha detto: ci sono dei giapponesi che mi fanno diventare pazzo,

mi hanno dato un “pezzo” strano, te la faccio vedere… io ho visto questo oggetto. In realtà era com-

pletamente diverso dai “pezzi” che avevano la stessa funzione, erano costruite in modo diverso e con

materiali diversi, allora mi sono incuriosito, ho mandato una lettera in Giappone a questa società.

Non ho ricevuto risposta, allora ne ho mandata una seconda, a quel punto mi hanno risposto e mi

hanno detto sarebbero stati a Torino di lì a poco e che avrebbero voluto visitarci. Da lì è partita una

relazione lunga e anche impegnativa come tempo e investimento, che ha contribuito almeno alla so-

pravvivenza dell’azienda, se non al suo successo che è ancora una parola grossa. Una mossa determi-

nante, anche perché ha introdotto una cultura che poi è quella di cui stiamo parlando. Io sono andato

una decina di volte in azienda in Giappone, anche una decina di miei colleghi più di una volta […]

Con un’azienda statunitense, ma molto meno strategica, sono fornitori che da più di vent’anni ci for-

niscono dei materiali, con i quali abbiamo ottimi rapporti e qualche collaborazione a livello tecnologi-

co per cercare di sviluppare insieme prodotti e collocarli sul mercato italiano: non è stato di grande

successo, però la relazione continua come fornitura […] [Di rapporti con l’Università e il Politecnico,

n.d.r.] ne abbiamo avuti, ma non sul core business, rapporti con Politecnico su tentativi di diversifica-

zione, di aggiunta di business. Poi abbiamo fatto dei progetti nel campo delle fuel cell, progetto tuttora

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in piedi, non solo con il Politecnico ma anche con il polo idrogeno di *** […] I giapponesi ci hanno

detto “voi avete acquisito tecnologia di prodotto e di processo tecnologico, però se tutte queste cose

non le mettete in un sistema di management efficace e chiaro, dove di fatto le persone alla fine sono

oltre che orientate al fare anche al migliorare, non andrete tanto lontano”. Ci hanno presentato dei

consulenti giapponesi, che hanno una sede qua in Italia, e abbiamo cominciato a lavorare con loro nel

2005.

Nella rete scorre la spinta economica e culturale al cambiamento e le idee ed esperienze che lo sostan-

ziano (Rullani, 2004). In queste imprese l’innovazione avviene in forma sistemica, cioè come processo in

cui le diverse misure innovative si sviluppano nelle diverse dimensioni in cui si specifica la realtà tecnica e

sociale dell’impresa e sotto il vincolo della congruenza. È proprio quest’ultimo elemento che sembra carat-

terizzare le soluzioni di maggior successo: la capacità non tanto di fare molte innovazioni, ma di proget-

tarle, implementarle e adattarle alla luce dell’interdipendenze esistenti tra le varie misure, in particolare

delle interdipendenze che collegano la dimensione sociale dell’impresa con quelle tecnico-economica

(Grandori, 1999).

Occorre osservare che le imprese possono far parte di diversi tipi di network. È possibile distinguere

due tipi di reti tra le imprese (FIG 6). Vi sono le reti orizzontali tra imprese collocate nel medesimo seg-

mento del processo produttivo. Tali reti saranno poco sviluppate o molto sviluppate a seconda che coin-

volgano pochi soggetti, con caratteri simili, o molti soggetti differenziati lungo la traiettoria

dell’innovazione. Secondo un dirigente di una PMI la tessitura di una rete orizzontale tra imprese consimili

ha consentito inediti sbocchi di mercato e un uso più razionale delle risorse sia tecnologiche che umane:

All’inizio del 2000 abbiamo generato un sistema modulare […] è diventato un sistema esclusivo che

ha trovato un ottimo riscontro nel mercato […] La crescita di questo prodotto è stata legata molto alla

compartecipazione con il cliente, le sue esigenze hanno trovato delle risposte. Questo sistema è stato

poi condiviso con la casa spagnola, che la propone in quelli che sono i suoi mercati. Si è sviluppata una

partnership di questo tipo […] Si, per poterci rivolgere a un mercato più ampio dove possiamo fornire

un servizio e un prodotto più completo, dove possiamo condividere delle risorse, anche quelle umane,

interscambiandocele per raggiungere degli obiettivi di rete. Vuol dire utilizzare gli stessi strumenti

tecnologici tra aziende partner […] Le nostre lavorazioni meccaniche vanno a completarsi […], non

siamo concorrenti, ma anche laddove lo siamo, la concorrenza non influisce, si cercano più le parti di

condivisione di certi obiettivi che non la concorrenza in sé. Tra di noi c’è lo scambio di lavori. Dove io

sono più competitivo e strutturato su certe lavorazioni le faccio io, dove lo sono loro lo fanno loro.

[…] Adesso cercheremo di avere maggiori risultati presentandoci proprio come rete, faremo la nostra

prima fiera come rete ad Hannover, ad aprile […] Il nostro responsabile qualità è una figura impor-

tante, e in un’azienda come la nostra sarebbe stato un costo eccessivo a tempo pieno, e tutto sommato

non avrebbe saturato il suo tempo. Così abbiamo pensato di condividerlo con tre aziende, tutte nel gi-

ro dell’isolato, ci conosciamo, e lo utilizziamo tutti e tre. Lui ha tre contratti part time, e dedica tre

mezze giornate ciascuno. Così abbiamo una figura professionale qualificata con un costo ridotto.

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È importante osservare che lo sviluppo della rete citata è stata favorita da politiche pubbliche promosse

dalla Provincia e dalla Regione, tuttavia una condizione cruciale per il suo successo sembra risiedere in

rapporti di fiducia che si stabiliscono tra i partner:

La prima rete l’abbiamo fatta anche con lo stimolo della Provincia, con il bando reti 20-20 nato pro-

prio per favorire la forma di aggregazione tra piccole imprese […] La stessa cosa è stata fatta anche

dalla Regione, ma in maniera meno efficiente. Secondo me questi strumenti sono importanti perché

cominciano a farti ragionare su questi aspetti, e l’aggregazione è l’opportunità migliore per crescere in

questo momento storico […] Bisogna avere fiducia. Abbiamo costruito reti con un rapporto di fidu-

cia, da molti anni. Ci si fida l’uno dell’altro. Abbiamo fatto rete in questo senso, già 5 anni fa.

Vi sono le reti verticali che si stabiliscono tra imprese disposte in punti diversi della filiera verticale di

produzione del bene o del servizio: possiamo considerarle poco sviluppate se coinvolgono pochi segmenti

della filiera e un numero limitato di soggetti; oppure molto sviluppate se integrano numerosi soggetti di-

sposti lungo molti segmenti del ciclo produttivo. Lo stesso dirigente aziendale osserva che la sua impresa è

inserita anche in questo secondo tipo di rete:

Oltre alla rete con tre imprese di cui parlavo, l’altra rete è legata al sistema della meccatronica. Noi

realizziamo componenti particolari per l’asservimento alle macchine utensili robotizzate. Anche lì

siamo tre aziende, però sono di filiera, è una rete verticale, mentre la prima è orizzontale. Le altre due

aziende sono un ufficio tecnico di progettazione e una che si occupa di software e hardware. Partiamo

dal progetto alla messa in servizio dell’impianto. L’obiettivo è fare massa critica, anche rispetto alle ri-

sposte da dare al cliente e all’efficienza dei costi. L’altro è generare sistemi e prodotti standardizzati in

modo da poter risparmiare […] Abbiamo costituito due reti, una nel 2012, una quest’anno. Una lega-

ta all’ambito della meccatronica, l’altro della subfornitura.

La presenza o l’assenza di imprese straniere nei due tipi di rete concorre a renderle più o meno svilup-

pate, così come la presenza vs assenza di enti di ricerca e dei correlati processi di trasferimento tecnologi-

co. A seconda del tipo di rete in cui è inserita l’impresa, ne discenderà un certo profilo innovativo e un di-

verso fabbisogno di competenze e di conseguenza una diversa domanda di formazione. Lo stretto rappor-

to tra l’innovazione generata dalla rete e l’evoluzione delle competenze e delle necessità formative è sotto-

lineata da un dirigente di PMI:

Siamo stati contattati nel 2010 da grossi istituti di ricerca inglesi, tedeschi e finlandesi che ci hanno

prospettato la realizzazione di un prodotto che sarà completamente innovativo nel settore dell'auto

[…] Con questi istituti di ricerca e con altre quattro aziende europee stiamo quindi sviluppando que-

sto nuovo prodotto che uscirà nel 2014 […] Questo progetto congiunto ha anche prodotto una cresci-

ta incredibile in termini di formazione personale e di approccio.

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FIG. 6 – TIPI DI NETWORKING DELL’IMPRESA

Reti verticali tra imprese

della filiera verticale

molto sviluppate

poco sviluppate

IMPRESA CON NETWORK

VERTICALIZZATO

1

IMPRESA CON RETI

LUNGHE E DIFFERENZIATE

2

4

IMPRESA DISCONESSA

3

IMPRESA CON NETWORK

ORIZZONTALE

molto sviluppate poco sviluppate

Reti orizzontali tra imprese

dello stesso segmento della filiera

Le imprese del quadrante 4, le cosiddette imprese “disconnesse”, saranno poco sollecitate dal loro rela-

zioni interorganizzative al cambiamento: di conseguenza la loro domanda di formazione sarà debole e di

tipo tradizionale. Per contro le imprese del quadrante 2, quelle inserite in reti lunghe e differenziate, in

forti e variegate dinamiche di apprendimento interorganizzativo, genereranno fabbisogni diffusi e profon-

di di formazione: da quelli più ovvi, ma importanti, legati alle conoscenze delle lingue straniere, a quelli

hard veicolati dall’innovazione delle tecnologie di prodotto e di processo, a quelli suscitati dalle nuove

forme di organizzazione dei processi produttivi, per arrivare a quelli legati ai nuovi modi di lavorare e di

gestire le relazioni di lavoro.

Le imprese del quadrante 3 solitamente costruiscono forme di collaborazione per gestire in condizioni

di maggior convenienza il rapporto con il mercato oppure per realizzare trasferimenti di saperi e soluzioni

su piattaforme tecnologiche comuni. Nel primo caso la rete può avere più finalità, non necessariamente

combinate tra loro: è volta a creare vantaggi di scala negli acquisti, a sviluppare azioni di penetrazione in

nuovi mercati ove la singola impresa non avrebbe realistiche possibilità di ingresso, a sviluppare posizioni

di forza in quelli in cui già operano (si pensi agli accordi locali tra imprese di uno stesso settore per co-

struire un brand territoriale intorno ad un determinato tipo di prodotto). Nel secondo caso le imprese

spesso si organizzano attorno ad un “polo tecnologico” che faciliti un innalzamento di fondo del livello

innovativo di un certo comparto, localmente collocato. Si tratta di forme di networking che generano spe-

cifici fabbisogni di competenze a cui la formazione può rispondere solo se è in grado di ridefinire la pro-

pria offerta in modo idiosincratico ai saperi che scorrono lungo le relazioni cooperazione: si pensi ai biso-

gni di competenze legate al marketing, alla comunicazione commerciale, al diritto commerciale interna-

zionale suscitate dalle politiche di internazionalizzazione delle attività commerciali.

Infine, le imprese del quadrante 1 costruiscono solitamente forme di collaborazione attraverso politiche

di co-design, contratti di fornitura di lunga durata, sviluppo congiunto dei reciproci prodotti, progetti di

R&S di medio lungo periodo con enti di ricerca. Qui le competenze messe in gioco spaziano da quelle

tecniche legate all’innovazione dei prodotti a quelle legate alle gestione dei flussi produttivi, ai sistemi di

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qualità, alle nuove forme di organizzazione della produzione e del lavoro, a quelle cosiddette extra-

funzionali, come la capacità di problem solving, di gestire i conflitti, di interagire con diverse funzioni

aziendali, di comunicare.

Anche il ruolo giocato dalle variabili intraorganizzative nei processi innovativi può essere meglio com-

preso qualora si distingua tra la dimensione della pratiche di innovazione organizzativa e la dimensione

delle pratiche di gestione del personale. Vi possono essere imprese che sviluppano nuove forme di organizza-

zione del lavoro, come ad esempio il lavoro di gruppo, la polivalenza, la polifunzionalità, la riduzione dei

livelli gerarchici, i gruppi di miglioramento, il decentramento delle responsabilità, e altre che si limitano

ad introdurne solo alcune, in modo circoscritto. Allo stesso modo è possibile trovare imprese che promuo-

vono un’ampia applicazione di nuove forme di gestione del personale come l’informazione diffusa, gli in-

centivi di gruppo e individuali legati ai risultati (non solo ricorrendo a metodi di tipo algoritmico, ma an-

che situazionale o misto), incentivi legati allo sviluppo delle competenze, la mappatura delle competenze,

la formazione diffusa, formazione su competenze extra funzionali (relazionali e cognitive), lo sviluppo di

sentieri di carriera, metodi e strumenti di valutazione delle competenze, miglioramenti ergonomici ed

ambientali, misure di welfare aziendale, flessibilità dell’orario di lavoro, indagini di clima, così come vi so-

no imprese che preferiscono muoversi nel solco delle tradizionali politiche di governo delle relazioni di

lavoro.

Per comprendere meglio il livello di innovazione rintracciabile nelle due dimensioni non è sufficiente

osservare quante misure vengono adottate, sebbene la loro numerosità possa essere considerato un suo in-

dicatore, seppur grossolano, occorre analizzare anche l’estensione di ciascuna misura e il suo grado di in-

novatività, aspetto quest’ultimo assai problematico in quanto non è facile definire indicatori attendibili e

condivisi. Nella dimensione della gestione delle risorse umane occorrerebbe inserire, poi, la variabile “rela-

zioni industriali” che, sempre nell’ambito di una rappresentazione stilizzata, potrebbe essere contraddi-

stinta – sulla base dello schema analitico di Guest e Conway (1999), riproposto e molto efficacemente ap-

plicato da Bordogna e Pedersini (2001) nell’analisi delle piccole imprese – da due polarità: priorità delle

politiche di human resources management bassa/alta e priorità delle relazioni industriali bassa/alta.

L’impostazione dell’indagine non prende in esame il ruolo delle relazioni industriali nell’ambito delle poli-

tiche di gestione del personale e delle politiche di innovazione, ma si limita a cogliere alcuni aspetti del

ruolo delle parti sociali nelle politiche formative. Pertanto, in questa sede, ci si limita a tematizzare, sep-

pur a grandi linee, il nesso tra nuove forme di organizzazione e nuove pratiche di gestione del personale,

senza soffermarsi sul ruolo delle relazioni industriali, ruolo che può influenzare significativamente i conte-

nuti, i metodi e gli esiti dei processi di change management.

La connessione tra le due dimensioni identifica quattro opzioni di innovazione derivanti dalle mano-

vre sulle variabili intraorganizzative (FIG 7).

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FIG. 7 – TIPI DI INNOVAZIONE ORGANIZZATIVA E GESTIONALE DELL’IMPRESA

Nuove forme

di organizzazione

del lavoro

molto sviluppate

poco sviluppate

IMPRESA

TECNOCENTRICA

1

IMPRESA AD ALTO

POTENZIALE INNOVATIVO

2

4

IMPRESA

STATICA

3

IMPRESA

SOCIALE

molto sviluppate poco sviluppate

Nuove pratiche di gestione del personale

Nella casella 4 abbiamo l’impresa statica, non collocata lungo alcuna traiettoria di cambiamento; essa

vive nelle nicchie di mercato a basso valore aggiunto, punta sul contenimento del costo del lavoro e

sull’impiego di manodopera dequalificata, realizza uno scarso coinvolgimento dei lavoratori, probabilmen-

te ricorre a forme di incentivazione paternalistiche e a stili di leadership che oscillano tra l’autoritarismo e

la benevolenza. In questo contesto la domanda di formazione è ridotta, se non nulla, e proviene solita-

mente da circoscritti vincoli tecnologici (ad esempio, acquisto di nuovi macchinari, utilizzo di semplici

applicativi informatici standard) o istituzionali (ad esempio, corsi sull’ambiente e sicurezza).

Nella casella 3 è possibile collocare quelle imprese che non intervengono sulla loro organizzazione del

lavoro, cioè sugli aspetti strutturali che influenzano la prestazione lavorativa, ma si limitano a promuovono

nuovi metodi di gestione del personale, cioè puntano più su cambiamenti nelle relazioni sociali tra lavora-

tori e impresa e tra i lavoratori stessi (di qui l’etichetta “imprese sociali”). È un approccio che potrebbe es-

sere utilizzato, ad esempio, nelle aziende di servizi, dove la qualità della performance è fortemente legata

alla relazione cliente/lavoratore e al gioco di squadra tra i lavoratori oppure nelle aziende a struttura sem-

plice che utilizzano, però personale molto professionalizzato, in cui l’organizzazione del lavoro è disegnata

dalle competenze e dal senso di responsabilità del lavoratore, cioè dal modo con cui egli interpreta il suo

ruolo. Il fabbisogno formativo manifestato da questo tipo di imprese va soprattutto nella direzione dello

sviluppo delle competenze “sociali”, quelle legate al cosiddetto “saper essere” (Negrelli, 2013).

Le imprese della casella 1 sono impegnate in significativi progetti di cambiamento organizzativo, soli-

tamente sia della struttura che della micro-organizzazione del lavoro, però con pochi e superficiali inter-

venti di riaggiustamento del sistema di governo delle relazioni di lavoro. Il progetto organizzativo può

prevede formalmente il ruolo attivo del lavoratore, il suo coinvolgimento, la trasparenza informativa,

l’attivazione di diffusi circuiti di comunicazione tra lavoratori e line, tuttavia le misure introdotte per so-

stenere tali intenti sono limitate, parziali e solitamente non investono gli aspetti più hard della gestione del

personale, come i sistemi retributivi, le politiche di sviluppo professionale e di carriera, la trasparenza dei

metodi e strumenti di valutazione del lavoro. Sembra prevalere una vecchia impostazione tecnocentrica:

così come nel taylorismo-fordismo erano le tecnologia della catena e delle procedure dei tempi e metodi

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che plasmavano la conformità del comportamento lavorativo, allo stesso modo le tecnologie e le forme or-

ganizzative dei concetti di produzione post-fordisti dovrebbero suscitare nuovi comportamenti lavorativi,

ispirati a cooperazione attiva, creatività, ecc. In queste imprese vi è molta intelligenza nel progettare le

tecnologie materiali e immateriali della produzione, ma scarsa attenzione alla “progettazione sociale”. La

domanda di formazione che proviene da queste imprese è ampia e tendenzialmente continuativa; inoltre,

necessita di risposte rapide dal lato dell’offerta, proprio perché legata alle nuove modalità di funzionamen-

to dell’apparato produttivo. Le competenze in gioco riguardano prevalentemente i metodi e gli strumenti

della nuova razionalizzazione produttiva e possono essere apprese soprattutto attraverso la loro applicazio-

ne sul campo.

Le imprese della casella 2 sono quelle che innovano sia sul versante organizzativo che su quello sociale.

Il tratto che le caratterizza maggiormente non è tanto l’elevato grado di innovatività delle singole misure,

ma l’attenzione posta nella ricerca di combinazioni congruenti tra misure organizzative e misure di gestio-

ne del personale. In sostanza. viene posta molta attenzione a progettare le condizioni sociali che possano

sostenere la motivazione dei lavoratori ad erogare la prestazione di lavoro richiesta dai nuovi disegni di

organizzazione del lavoro. In queste imprese si manifesta una domanda di formazione diffusa sia sugli

aspetti più tecnici (ad esempio, strumenti e metodi del miglioramento continuo, tecniche di TPM, ecc.)

che su quelli gestionali (ad esempio, organizzazione dei flussi produttivi, ambiente e sicurezza del lavoro)

e sociali (ad esempio, attività di problem solving, lavorare in gruppo, gestione della comunicazione, ecc.)

In termini di politiche pubbliche da questa caratterizzazione dei macro fabbisogni di formazione di-

scendono due conseguenze rilevanti, tra loro collegate. Per promuovere la formazione innovativa occorre

promuovere l’innovazione dell’impresa, non le iniziative formative in sé. Si tratta, in altri termini, di so-

stenere progetti innovativi sistemici e personalizzati sulle singole imprese e non tanto politiche di diffu-

sione dell’innovazione, realizzate tramite il trasferimento di best or good practice. Individuare le good practice

e cercare di applicarle all’interno di un contesto aziendale può essere un approccio fecondo purché sia con-

cepito come parte di un progetto generale e customizzato di cambiamento, in caso contrario rischia di

condurre l’impresa sulla strada dell’imitazione rituale: si applica ciò che altrove ha dato buoni risultati sen-

za cogliere le complesse interazione tra la singola pratica e l’insieme del sistema aziendale, con la conse-

guenza di percorre strade innovative sub-ottimali o di giungere a situazioni di stallo e di fallimento del

progetto. Un dirigente di agenzia formativa afferma con convinzione:

Fiat ha un sistema, il WCM, estremamente strutturato. Ben si adatta a realtà di quelle dimensioni: cioè

lì è un lavoro stupendo. Nella piccola realtà va cambiato l’approccio, perché quella è la soluzione al

problema della grande azienda. Per la piccola, l’approccio è diametralmente opposto. Quindi, in quei

termini, sicuramente il piccolo che guardi a Fiat o al WCM può avere difficoltà, perché per mettere in

piedi un impianto del genere, non ne ha la capacità e la forza. Ma questo non vuol dire che non sia

applicabile al piccolo […] i principi sono sempre gli stessi, non cambiano. Poi, che io adotti una solu-

zione e sia diversa da quella che adotta un altro, è come quando si va dal dottore con una malattia ap-

parentemente simile e si esce con due medicine diverse.

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L’incentivazione, mediante risorse pubbliche, delle politiche di learning by integration dovrebbe dipen-

dere dalla numerosità delle dimensioni toccate dalle politiche innovative, in chiave di complementarietà, e

dalla varietà e diffusione delle azioni innovative all’interno di ciascuna dimensione: la dimensione tecnolo-

gica, quelle dell’organizzazione della produzione, dell’organizzazione del lavoro, del sistema di gestione

delle competenze, di regolazione collettiva del rapporto tra incentivi e risultati, di analisi e valutazione e

gestione delle competenze del personale, ecc. Per sviluppare il potenziale innovativo delle imprese occorre

premiare le diverse forme con cui si sviluppa il potenziale di apprendimento dell’impresa. In questo caso si

tratta di incentivare i progetti di networking, cioè le azioni volte a creare arene o reti cooperative tra im-

prese, in particolare tra imprese locali/nazionali e imprese straniere, tra imprese e enti di ricerca. Il grado

di presenza degli elementi qualificanti, sopra richiamati, dell’appredimento by networking può essere con-

siderato un criterio di premialità nell’erogazione dei sostegni pubblici

Queste considerazioni ripropongono ai governi locali, agli attori collettivi pubblici e privati del territo-

rio il tema della promozione di un soggetto che sappia indirizzare e sostenere una tale prospettiva innova-

tiva. È la questione, già dibattuta nel passato, della promozione di una “agenzia per l’innovazione”, come

soggetto volto allo sviluppo di un cooperative learning tra le imprese sul territorio, cioè un laboratorio di

sviluppo dell’innovazione e diffusione sul territorio di approcci innovativi, non tanto di singole misure di

cambiamento, un laboratorio inteso soprattutto come un’arena cooperativa nelle quale interagiscono im-

prese bisognose e vogliose di innovazione, imprese “esperte”, enti di ricerca, rappresentanti delle parti so-

ciali, Anche la rappresentanza degli interessi può fornire un contributo fondamentale per sviluppare la

dimensione sociale dell’innovazione, spesso negletta o sottovalutata nei progetti di cambiamento, ed evita-

re di cadere in approcci troppo “ingegneristici”, poveri di determinazioni sociali, incapaci di definire rela-

zioni sociali di lavoro in grado di sostenere l’attivazione di comportamenti di cooperazione attiva.

3.2 Esiste un modello lean della formazione?

Gli studi e le ricerche degli ultimi vent’anni sulle trasformazioni postfordiste dell’impresa hanno porta-

to a individuare, in modo sostanzialmente concorde, alcune caratteristiche del modello produttivo giappo-

nese o della lean production, modello che ha trovato diffusa applicazione soprattutto in quei settori impe-

gnati nella produzione di massa, come l’industria automobilistica, in cui era stata dominante

l’organizzazione taylor-fordista.

Il richiamo ad un medesimo corpus di principi non significa che essi siano implementati nella realtà

dell’impresa nello stesso modo, con gli stessi strumenti e con la medesima intensità. Vi è una sostanziale

convergenza tra gli studiosi nel ritenere che i dati strutturali dell’impresa, le caratteristiche del prodotto, la

sua cultura organizzativa giochino un ruolo rilevante nella ricezione dei nuovi concetti di produzione e

possano dar vita a diversi varianti dello stesso modello. La concordanza su alcuni tratti salienti di questo

nuovo paradigma di organizzazione delle imprese, si è accompagnata, però, ad analisi differenti o addirit-

tura divergenti su altri aspetti cruciali di tale modello, in particolare sui sistemi aziendali di controllo del

lavoro, sugli effetti sulla salute derivanti da forme di management by stress e dall’aumento della saturazione

del tempo di lavoro, sugli effetti sociali della flessibilità numerica (Bourgeois, Roart, Davezies, Valeyre,

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2012). Mentre una consistente letteratura di impronta manageriale associa alla nuova fase di razionalizza-

zione la crescita di una maggior autonomia e professionalità del lavoro, un miglioramento dell’ambiente di

lavoro, una flessibilità del lavoro come sinonimo di progettualità imprenditoriale di sé,

l’individualizzazione delle politiche di gestione individuale del personale, più o meno combinate con rela-

zioni industriali a “partecipazione subordinata”, una letteratura critica, corroborata da una consistente evi-

denza empirica, insiste molto sulla diffusione di forme asimmetriche di autonomia controllata, dove il se-

condo termine dell’espressione sembra prevalere sul primo, sullo sviluppo di nuove malattie del lavoro,

sull’aumento della precarietà del lavoro e sulla corrosione dell’identità lavorativa dei lavoratori, sulle ambi-

valenze dei sistemi di gestione del personale oscillanti tra tendenze non-union e all’individualizzazione

delle relazioni d’impiego e tendenze in cui vi è un maggior equilibrio tra il potere regolativo delle relazioni

industriali e quello delle relazioni interne.

Se, malgrado queste importanti differenze di analisi, si ritiene che esista un modello organizzativo lean

dell’impresa, possiamo affermare che esiste anche un modello formativo lean? Sulla scorta delle evidenze

empiriche raccolte in questa ricerca ci pare che si possa rispondere affermativamente alla domanda. Tutta-

via, occorre osservare che non sempre vi è una corrispondenza tra modello organizzativo e modello forma-

tivo: possiamo avere imprese lean che adottato politiche formative coerenti con i nuovi assetti organizzati-

vi e altre che continuano ad impostare la formazione con metodi tradizionali, così come abbiamo imprese

di stampo neotayloristico che promuovono le azioni formative secondo criteri riconducibili ad un approc-

cio lean.

Innanzi tutto, il modello formativo lean idealtipico è caratterizzato da una specifica finalità strategica:

lo sviluppo all’interno dell’impresa di un sistema di formazione continua, non di singole azioni o politiche,

vale a dire di meccanismi socio-organizzativi che producano intenzionalmente, con continuità e in modo

diffuso competenze professionali, correlate a un aumento delle prestazioni dell’impresa e dell’occupabilità

dei lavoratori. La domanda da cui muove questo orientamento strategico non è “quanta e quale formazio-

ne ha svolto l’impresa” (logica output oriented), ma “quale capacità ha l’impresa di promuovere formazione

per conseguire obiettivi di miglioramento continuo dell’efficienza e della qualità del lavoro?” (logica input

oriented). Secondo questo orientamento ciò che qualifica la politica formativa non è tanto la capacità di

promuovere azioni per colmare i gap tra competenze richieste e competenze agite, così come vengono di

volta in volta evidenziati, capacità che pur tuttavia l’impresa deve possedere per gestire in modo efficiente

il personale, quanto l’attitudine a sviluppare in modo più veloce, diffuso e continuo i processi di appren-

dimento rispetto ai concorrenti. L’obiettivo strategico è la creazione e lo sviluppo dell’ “azienda formativa

strutturata”; i percorsi per raggiungere il risultato possono essere diversi, da quelli più pianificati a quelli

che procedono per approssimazione successive, per prova ed errori. È a quest’ultima prospettiva che sem-

bra alludere la dichiarazione di un dirigente di una PMI:

Abbiamo fatto un po’ di formazione da autodidatti, non siamo stati seguiti da consulenti, abbiamo se-

guito corsi e seminari tenuti da enti formativi con cui siamo in contatto, proprio sugli strumenti mirati

che ci interessavano di più. Poi ci è stata fatta un po’ di formazione interna sulle 5S da parte di una so-

cietà di consulenza che ci ha seguiti l’anno scorso su un progetto che si chiamava MLS, fatto partire per

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il miglioramento della logistica e della supply chain […] Poi siamo andati avanti con le nostre forze

formando un team che, lavorando sul campo, ha imparato. È solo facendo che si impara. Abbiamo

imparato molte cose sul campo e oggi, su 5S e automanutenzione, siamo abbastanza esperti […] Rien-

tra in quella visione non organica di adozione della lean, essendoci necessità di avere un momento pi-

lota, molto pragmatico, sono state coinvolte le figure di riferimento, che hanno anche le competenze

di base per una comprensione di base del processo globale. Poi, a cascata, sono stati formati gli altri

lavoratori con un sistema di training on the job. La formazione è stata fatta all’interno del reparto di

produzione alla catena gerarchica che abbiamo impostato, ogni reparto ha tre-quattro figure di riferi-

mento che tirano le file: capi reparto, capi turno e controllori di processo. Noi abbiamo formato que-

ste figure in modo polivalente tra loro in modo tale che possano sostituirsi, e queste figure a loro volta

vanno a formare gli operatori.

3.3 I principi della formazione lean

Il modello formativo lean sembra essere caratterizzato da sei principi: 1) formazione come azione in-

tegrata con l’innovazione tecnologica, l’innovazione organizzativa, i sistemi di regolazione delle relazioni

di lavoro, la gestione delle competenze e politiche formative; 2) formazione come leva del miglioramento

continuo; 3) formazione come pratica esperienziale di lavoro; 4) formazione come pratica di responsabi-

lizzazione; 5) formazione come risposta flessibile ai bisogni di competenze; 6) formazione come fattore di

trasparenza organizzativa.

La formazione come azione integrata

La gestione in chiave sistemica delle politiche formative è un principio di natura metodologica, cioè

esso postula la necessità che le diverse politiche di innovazione debbano essere progettate e implementate

secondo combinazioni congruenti: solo la loro “ricombinazione chimica” permette di ottenere un nuovo

“composto produttivo” innovativo (Milgrom, Roberts, 1997). Ne consegue che le politiche formative sono

concepite come parte di un più generale progetto innovativo, volto ad accrescere la competitività e la pro-

duttività dell’impresa. È il progetto innovativo che fa da traino allo sviluppo di sistemi formativi dinamici.

All’interno del progetto, poi, la formazione può svolgere una funzione propulsiva di produzione di compe-

tenze professionali, concepite sia come forza produttiva in atto che come potenziale produttivo, che di-

schiude nuove possibilità al processo di razionalizzazione (Vivarelli, Piga, Piva, 2004; Leoni, 2008). Tra

innovazione e formazione si viene a stabilire un processo circolare: il cambiamento produce un scarto tra

competenze possedute e competenze richieste e genera, di conseguenza, una domanda di formazione; le

nuove competenze sviluppate tramite i processi di apprendimento trovano un contesto favorevole al loro

impiego e all’utilizzo del loro potenziale di produttività. L’analisi dei fabbisogni formativi,

l’individuazione delle priorità degli interventi formativi, l’impostazione delle modalità di apprendimento,

la definizione del feedback tra azioni formativi e risultati sono, dunque, articolazioni di un più generale

progetto di cambiamento. Il forte e circolare legame tra progettazione dell’innovazione, individuazione dei

nuovi fabbisogni formativi, formazione, utilizzo delle competenze così sviluppate per ridefinire il progetto

formativo è ben delineato dal responsabile di una piccola impresa:

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Quando abbiamo iniziato la ristrutturazione in ottica lean, i nostri consulenti prima di iniziare ogni

progetto facevano formazione vera e propria. Gruppo per gruppo siamo stati formati sul lean, a cosa

serve, quali sono gli sprechi, le tecniche, cosa sono le 5S. Siccome ogni gruppo viene coinvolto, il coin-

volgimento è alla base di tutto, le cose devono partire dal basso, è una formazione continua. Queste

riunioni è come se fossero delle lezioni […] La lean secondo me ci ha portato a fare formazione-

analisi sulle esigenze reali. In base alla esigenze che tirano fuori le persone si prende spunto per fare

della formazione su quelle cose. La formazione poi è spaziata dal lean alle tecniche di vendita, a come

devo presentarmi [...] È stata una formazione reale, molto più concreta.

Secondo il principio della gestione sistemica della formazione, la progettazione e l’attuazione delle

azioni formative avvengono congiuntamente e coerentemente con l’investimento in nuove tecnologie, la

modifica del layout di un reparto, il ridisegno della struttura dei compiti lavorativi e delle responsabilità, la

revisione della configurazione ergonomica dei posti di lavoro, la ridefinizione dei sistemi di incentivazione

del personale, ecc. Qui si manifesta una prima difficoltà. Sembra ancora poco diffusa nelle strutture diri-

genti della PMI la consapevolezza che la formazione innovativa per raggiungere buoni risultati debba es-

sere progettata nel quadro di un approccio integrato all’innovazione. Ciò sembra dipendere da un deficit

più generale: dalla presenza di una cultura organizzativa poco dotata delle competenze organizzative di

base per comprendere le finalità, le logiche di funzionamento e le potenzialità dei high performance work

systems. La crisi economica in corso pare acuire le difficoltà: più che suscitare in molte imprese energie

imprenditoriali nell’esplorare nuove piste di innovazione strategica indirizza spesso gli sforzi verso

l’adozione di misure e iniziative emergenziali, di tamponamento delle “falle”. In termini di politiche pub-

bliche non si tratta di finanziare la formazione in sé, come abbiamo già osservato, ma progetti sistemici di

innovazione, al cui interno sono collocate le azioni formative.

Il che ha una importante conseguenza: così come i progetti d’innovazione sono “grappoli” integrati di

azioni di innovazione e razionalizzazione, collocate in dimensioni diverse dell’impresa, allo stesso modo le

politiche pubbliche di sostegno alla formazione non possono che essere integrate nelle loro finalità, nella

strumentazione applicativa e nelle modalità di finanziamento con le politiche che si occupano della ricer-

ca, del trasferimento tecnologico, degli investimenti tecnologici, delle ristrutturazioni aziendali, ecc. A

questo riguardo i dati empirici della ricerca evidenziano una forte criticità: le politiche pubbliche seguono

logiche di specializzazione funzionale (si potrebbe dire che l’architettura istituzionale delle politiche pub-

bliche opera nell’epoca del post-taylorismo con un’organizzazione tayloristica): vi sono quelle rivolte

all’innovazione tecnologica, quelle rivolte alla ricerca e sviluppo di nuovi prodotti, quelle per la formazio-

ne, quelle per sostenere i miglioramenti dell’ambiente di lavoro, ecc. Non solo, i diversi soggetti operanti

nel campo della promozione delle attività di formazione (Fondi Interprofessionali, da un lato, Regione e

Province, dall’altro) non sembrano seguire una logica di integrazione delle politiche e delle iniziative,

quella stessa logica che si vuole affermare nelle imprese. Sono, poi, poco diffuse le politiche di promozione

congiunta dell’innovazione organizzativa con nuove pratiche di gestione del personale, sia di tipo indivi-

duale che collettivo, come risulta da più dichiarazioni dei nostri intervistati. Un dirigente sindacale:

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C’è un sistema premiante ma lo ritengo assolutamente insufficiente. Tutto è molto discrezionale, la

gestione dipende dagli stabilimenti ed è lasciata ai vari capi di personale, non c’è una linea guida diret-

tiva sul sistema premiante che vale per tutti, trovo sia troppo discrezionale e del tutto insufficiente.

Anche il responsabile di una piccola impresa molto impegnata nell’introduzione della lean production,

quando accenna alle politiche di incentivazione del personale, sia di tipo professionale che salariale, ri-

chiama i tradizionali metodi gestionali:

Impegno e disponibilità, la collaborazione, la buona volontà, non essere uno che ti mette il bastone tra

le ruote. Sono più fattori umani, poi gli obiettivi si possono raggiungere o non raggiungere, noi non

siamo un’azienda così strutturata, non ho degli indicatori reali, però vediamo il comportamento,

l’interesse verso le cose, quanto si impegnano. Te ne rendi subito conto. Non c’è un sistema di valuta-

zione formalizzato, nasce dall’interazione e dalla conoscenza diretta.

Eppure da almeno un ventennio si stanno accumulando studi e ricerche che corroborano la tesi secon-

do la quale il vantaggio competitivo di medio e lungo periodo delle imprese dipende essenzialmente dalla

capacità di sviluppare organizzazioni dinamiche, dotate di forte capacità di apprendimento, di una robusta

attitudine ad incorporare nei processi e nei prodotti conoscenza e intelligenza, di sviluppare politiche di

gestione delle relazioni di lavoro che creino le condizioni sociali affinché tale prospettiva prenda corpo e si

affermi (Pfeffer, 1994; Pini, 2002, 2004; Colombo, Delmastro, Rabbiosi, 2007). Per intendersi con alcuni

esempi, è sicuramente intelligente quell’impresa i cui progettisti sono stati in grado di sviluppare un nuovo

prodotto, apprezzato dal mercato, ma è anche intelligente quel processo produttivo che ha saputo intro-

durre un miglioramento ergonomico del posto del lavoro raccogliendo e applicando il suggerimento di un

lavoratore; è intelligente quel metodo di organizzare il lavoro che attribuisce ai lavoratori autonomia e ca-

pacità per prevenire e regolare tempestivamente le varianze di processo produttivo; è intelligente quel si-

stema di incentivazione salariale che, in contesti con processi produttivi fortemente integrati, si allontana

dalle vecchie pratiche di sollecitazione dello sforzo individuale a vantaggio di sistemi di incentivazione a

sostegno di comportamenti cooperativi, e si potrebbe continuare. L’attività di sviluppo delle competenze

è, a tutti gli effetti, “lavoro organizzato” che fornisce migliori risultati se opportunamente incentivato sotto

il profilo materiale e immateriale. Purtroppo non sembrano molti i casi di politiche di incentivazione del

personale a sostegno dello “sforzo cognitivo”. Tuttavia, quando accade i risultati sembrano molto positivi.

Osserva un dirigente di un’impresa che da anni ha introdotto un interessante sistema, contrattato colletti-

vamente, per valutare e riconoscere le competenze degli operai e per incentivarli a svilupparne di nuove:

La remunerazione è una conseguenza dell’attribuzione dell’inquadramento, come stabilito dal contrat-

to aziendale (sul nuovo inquadramento); è evidente che quando tu hai la categoria attribuita hai anche

un minimo contrattuale che ti sale, che non è la parte meritocratica […] Sempre in questo sistema ap-

plicato dal 1997, c’è l’aspetto dello sviluppo delle competenze, che oltre a portare dei soldi vuole anche

portare a sviluppare le competenze che servono là dove servono. Le persone vengono premiate, otte-

nendo l’aspetto retributivo, se si impegnano anche personalmente a sviluppare le proprie competenze

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nella direzione di cui abbiamo bisogno […] Questo aspetto serviva a far capire alle persone quale era

la direzione che si stava intraprendendo. Abbiamo inventato questo sistema di attribuzione delle cate-

gorie che era collegato alla lean.

L’ipotesi di formulare progetti integrati in cui siano presenti assi di interventi riconducibili alle diverse

dimensioni dell’innovazione e alle diverse fonti di finanziamento pubblico non appare estranea alla cultura

di alcune agenzie formative, come afferma un loro responsabile:

Sono cose così diverse che, se ci si riuscisse, secondo me, sarebbe l’ideale. Dove veramente tu, con il

Fondo Sociale, fai formazione e con il resto fai tutto il resto. Le incroci, per cui l’azienda prende un

pezzettino da una parte, magari anche dai finanziamenti per gli investimenti più strutturali; fa un pro-

getto complessivo e poi dice: “Io, di questo progetto complessivo che vale 100, ne prendo 20 per fare

l’intervento di questo tipo, 70 di là e 10”. Ideale, però ci vuole una regia forte... Sarebbe un esperimen-

to fantastico.

La formazione come leva di miglioramento continuo

L’ipotesi soggiacente è che la competenza dei lavoratori e le condizioni per un loro impiego efficiente

siano risorse chiave per migliorare e innovare il sistema produttivo. Secondo questo principio (spesso pro-

clamato, ma non altrettanto frequentemente applicato) la politica formativa è la risultante di una analisi

dei fabbisogni formativi condotta su due piani: la mappatura delle competenze e l’identificazione degli

specifici obiettivi di miglioramento delle prestazioni produttive, anche a livello micro. Riguardo al primo

piano, il carattere di “sistema” della politica formativa aziendale richiede che essa sia considerata un ingre-

diente della più ampia politica di gestione del personale e, più in particolare, del suo sviluppo, pertanto

essa non può che appoggiarsi su una mappatura delle competenze di tutti gli addetti, realizzata mediante

sistemi altamente gestibili a livello decentrato, al fine di individuare i gap di competenze, derivanti dal

confronto tra competenze attese e competenze agite, nonché la loro dinamica. Alle volte questi sistemi

vengono sviluppati progressivamente: le direzioni aziendali partono con semplici registrazioni di dati del

curriculum professionale e progressivamente le trasformano in procedure formalizzate di mappatura delle

conoscenze e capacità. Osserva il responsabile di una media impresa:

C’è un profilo del cv scolastico, della persona, delle competenze che ha, ha sviluppato e magari non sta

utilizzando in azienda. C’è anche la valutazione dei capireparto sulle potenzialità, se può ricoprire po-

sizioni simili o se può decisamente migliorare. Lo stiamo finendo per tutto il personale, sono due anni

che ci lavoriamo. “La mansione che cosa richiede? La persona che cosa sa fare? Il responsabile valuta

che la persona potrà evolversi?” […] L’analisi delle necessità e della formazione è svolta dal responsa-

bile della qualità […] Intanto siamo svincolati dalla memoria di qualcuno. Se il mio caporeparto mi da

le dimissioni io so chi c’è in quel reparto. Noi abbiamo preso la qualità molto sul serio sotto certi

aspetti […] Poi abbiamo visto che effettivamente poteva essere utile sapere i corsi che uno aveva fatto,

diciamo che è una cosa nata un po’ utilizzandola. Poi secondo me dipende molto dalla sensibilità delle

persone che ci lavorano su queste cose, come detto abbiamo responsabili della qualità che sono dei

mastini. Così ci vincoliamo a più pareri, è anche un modo per renderlo più oggettivo.

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In questo campo si segnalano alcune possibili criticità. Innanzi tutto, l’esigenza di mettere a punto si-

stemi di mappatura delle competenze, semplici ed affidabili, in sostanza facilmente gestibili non tanto da-

gli specialisti della funzione human resources quanto dai responsabili della line, a partire dai capi di livello

inferiore, e facilmente comprensibili da tutti i lavoratori a cui è applicato. Un eccesso di complicazione di

tali sistemi può provocare atteggiamenti di rigetto o di sottoutilizzazione, sia tra i valutatori che tra i valu-

tati, con effetti negativi sulla corrispondenza tra fabbisogno formativo e azione formativa e sul livello di

legittimazione delle azioni intraprese. In secondo luogo, le PMI manifestano solitamente significative dif-

ficoltà a sviluppare sistemi gestibili, proceduralizzati e personalizzati di analisi delle competenze, sistemi

che rappresentino un miglioramento gestionale rispetto ai tradizionali metodi empirici, non privi di una

loro efficacia ma ormai inadeguati nella nuova fase di razionalizzazione, di identificazioni dei fabbisogni

formativi. La piccola impresa solitamente non dispone delle competenze interne e delle risorse organizza-

tive per sviluppare in proprio tali sistemi di analisi. Di qui un possibile ruolo di sostegno delle politiche

pubbliche nel far crescere approcci più sistematici e customizzati, che non siamo, però, la semplice ripro-

posizione di soluzioni standard adottate altrove. In terzo luogo, le imprese si trovano di fronte alla scelta

di mappare le competenze di tutti i lavoratori o solo di alcuni (solitamente coloro che hanno ruoli gerar-

chici e i professionals). Come abbiamo potuto verificare nell’indagine, l’orientamento formale è procedere a

una mappatura generalizzata delle competenze, in realtà per ragioni di costo, per difficoltà gestionali, per

incertezza manageriale la mappatura delle competenze tocca frequentemente solo il segmento più profes-

sionalizzato delle popolazione lavoratrice dell’impresa. Ne consegue una riduzione dell’efficienza e

dell’efficacia delle azione formativa rivolta alle fasce di popolazione esclusa, con il conseguente rischio di

un loro progressivo indebolimento professionale. Infine, lo sviluppo delle competenze, anche nell’ottica

lean, può essere concepito dall’impresa in senso restrittivo e di breve periodo: l’analisi può privilegiare, ad

esempio, le competenze richieste per fronteggiare circoscritte varianze, per raggiungere obiettivi immedia-

ti di miglioramento, per aumentare la polivalenza di un numero limitato di lavoratori, ecc. Viene così in-

debolito quel processo di sviluppo “allargato” delle competenze caratterizzato dal saper apprendere e non

solo dall’apprendimento di uno specifico aggregato di capacità.

Riguardo il secondo piano, quello dell’orientamento dell’analisi dei fabbisogni formativi al raggiungi-

mento di obiettivi di miglioramento, occorre osservare che l’analisi dei fabbisogni coincide sostanzialmen-

te con l’analisi organizzativa dei difetti, delle inefficienze e dei metodi per porvi rimedio, nonché delle

specifiche competenze che si ritiene i lavoratori debbano possedere per realizzare gli interventi. In questo

caso l’azione formativa e la sua valutazione sono strettamente correlate alla capacità di raggiungere obietti-

vi di miglioramento, ben circoscritti e spesso ben misurabili. In altri termini, il processo di analisi del fab-

bisogno formativo è essenzialmente un processo di diagnosi tecnologica ed organizzativa, volto ad indivi-

duare i difetti, le inefficienze, i rischi del processo produttivo, nonché le priorità con cui affrontarli. Ne

deriva sia un allargamento della nozione di “analisi dei fabbisogni formativi”, che ricomprenda al suo in-

terno l’attività di analisi del funzionamento della struttura tecnologico-organizzativa, sia, di conseguenza,

un ampliamento del perimetro delle attività da sostenere attraverso le politiche pubbliche della formazio-

ne. I due piani di analisi dei fabbisogni formativi sono potenzialmente in tensione tra loro, tensione di cui

la cultura manageriale non sembra essere sempre consapevole: mentre l’analisi dei fabbisogni in termini di

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confronto tra competenze possedute e competenze richieste rispetto al ruolo presente e, in una prospettiva

più dinamica, futuro, sospinge la politica formativa a sviluppare competenze a “banda larga”, con un ciclo

di vita medio-lungo, quella legata alla ricerca dei saving nell’organizzazione della produzione è più orien-

tata a sviluppare competenze ristrette, ad elevato tasso di obsolescenza, idiosincratiche allo specifico ambi-

to produttivo. Governare in modo equilibrato questa potenziale tensione è uno dei problemi delle politi-

che formative. Nel contempo, pensare la formazione come leva per realizzare il miglioramento continuo e

la qualità totale significa concepirla come azione continuativa e di lungo periodo, poco soggetta agli alti e

bassi, agli stop and go legati alle congiunture di business dell’impresa e ai cambi di management, non mo-

dellata principalmente sulla straordinarietà dei processi di ristrutturazione o di investimento tecnologico,

sulla variabilità del day by day. Se il processo di razionalizzazione lean prevede un’azione continua di eli-

minazione di sprechi, inefficienze, attività senza valore aggiunto, tramite un coinvolgimento il più esteso

possibile dei lavoratori, allora la formazione non può che configurarsi come un’attività ricorrente, conti-

nuamente ricalibrata sull’identificazione dei fabbisogni di competenze necessari alla realizzazione delle

azioni di miglioramento. Anche in questo ambito l’azione pubblica può intervenire sostenendo e pre-

miando le politiche formative realizzate con continuità, disegnate su orizzonti di lungo periodo, poco se-

gnate da scelte momentanee.

La formazione formale come pratica esperienziale di lavoro

Le esperienze di maggior successo nella formazione sembrano essere quelle in cui si realizza un forte

intreccio tra formazione formale off the job e formazione on the job, cioè su un processo di apprendimento

basato sul movimento circolare e ininterrotto che congiunge la teoria alla pratica e la pratica alla teoria.

Alla base di questa constatazione empirica, largamente condivisa dai testimoni privilegiati della nostra ri-

cerca, vi sono ragioni di ordine generale. Un apprendimento generato dalla sola esperienza lavorativa pro-

duce saperi empirici preziosi, soprattutto nell’ottica di mantenere le competenze distintive di

un’organizzazione e di migliorarle in modo incrementale, tuttavia appare inadeguato ad elaborare e fron-

teggiare forti discontinuità nelle core competence di un mestiere o, più in generale, di un’organizzazione.

Quando si realizzano salti qualitativi nel patrimonio professionale necessario alla gestione di un processo

produttivo perché si sono verificati mutamenti di paradigma tecnologico (si pensi, ad esempio,

all’introduzione dell’automazione integrata nei processi produttivi al posto delle singole postazioni auto-

matizzate) oppure “rovesciamenti nei principi di organizzazione del lavoro” oppure sistemi di incentiva-

zione collettiva basati su obiettivi controvarianti, allora i saperi empirici accumulati nel passato risultano

inadeguati a fronteggiare il cambiamento, in quanto troppo specifici ed idiosincratici alla precedente tec-

nologia e organizzazione. Occorre innestare nuovi saperi formali che forniscano gli strumenti concettuali e

operativi per gestire il cambiamento, saperi la cui pregnanza può essere colta appieno solo nel momento in

cui sono impiegati nella pratica lavorativa. Per semplificare: tra il lavoro d’aula e l’apprendimento sul lavo-

ro si stabilisce un movimento pendolare continuo che trasforma il contesto di lavoro in un contesto di ap-

prendimento, formalmente deputato a questo fine, e la formazione formale in un momento di produzione

di saperi specificamente applicabili nel lavoro. Il legame tra i due momenti può risultare così forte che le

ore di formazione non vengono più contabilizzate come tali, essendo considerate a tutti gli effetti tempo

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di “lavoro cognitivo” che produce miglioramenti produttivi, come traspare dalle parole di un dirigente di

una grande impresa che ha adottato, peraltro, un sistema molto articolato di Key Performance Indicators:

Chiediamo alle persone di fare cose diverse e in più. Mi ha sempre stupito, e la leggo quasi in un mo-

do positivo, il fatto che noi in mezzo a questa marea di scientificità, di indicatori che abbiamo (parec-

chi anche all’avanguardia) non abbiamo quasi mai misurato la formazione fatta. Non la sua efficacia,

che lo facciamo per quanto possibile, ma le ore di formazione fatte. Qualcuno lo fa, ma come un suo

“vezzo”; noi questo dato non ce lo siamo mai filato. E non ce lo chiediamo nemmeno. Forse perché

per noi è talmente nel dna e talmente importante che non andiamo neanche a metterlo in discussione.

Si fa quello che serve. Noi non misuriamo la quantità di formazione fatta.

Questo cambia anche la “topografia” dell’azione formativa: non tanto concentrata fisicamente nelle

agenzie formative o in grandi sedi di formazioni, ma distribuita all’interno delle imprese. Il che richiede

anche un ripensamento del layout delle imprese, nel momento in cui vengano concepite formalmente co-

me soggetti produttori non solo di beni e servizi ma anche di saperi e competenze. La testimonianza di un

dirigente di un’agenzia formativa sembra indicare che si tratta di una tendenza già in atto:

Abbiamo mantenuto fede a un’attività formativa sul campo, dove noi facciamo formazione sulla quali-

tà, sulla sicurezza e sulle tecniche produttive. Quando si tratta di fare formazione sulle tecniche pro-

duttive: poche persone, piccoli gruppi, seguiti da un docente che fa vedere, poi fa fare, poi controlla

che facciano nel modo giusto. Questo cambia le abitudini […] Le attività formative teoriche sulle par-

ti pratiche, con gruppi di 20-30 persone in aula, con dei bei filmini, noi non li abbiamo mai fatti. Mai.

Per noi la formazione è sempre stata la parte frontale, se vogliamo in aula, quando è necessario farla in

aula, altrimenti si fa in officina, con una lavagna in officina.

L’apprendimento anche attraverso la pratica di lavoro favorisce uno sviluppo dei saperi, in chiave in-

terfunzionale, secondo modalità di cooperative learning proprio perché i nuovi ruoli lavorativi incorporano,

più del passato, una struttura polifunzionale dei compiti e le nuove struttura organizzative rafforzano le

relazioni di interdipendenza tra funzioni e ruoli diversi. Ad esempio, il dirigente di una grande impresa

sottolinea l’importanza di sviluppare team interfunzionali per gestire gli impianti di produzione, in cui non

si tratta solo di aumentare le tradizionali competenze:

Questi sono i nostri cinque addetti sul canale. Tradizionalmente questa persona gestiva una parte,

questa un’altra […] Abbiamo detto alla persone che a noi interessa il risultato complessivo, e ciascuno

di loro deve diventare il riferimento per l’intero team su una competenza trasversale, come la sicurezza,

il TMP, la supply chain (ovvero assicurarsi che tutti i componenti che servono al canale siano presenti).

La formazione quindi serve a dare queste competenze trasversali, che prima non avevano mai preso in

considerazione. Prima erano solo del manager, adesso pretendiamo che siano più diffuse. Per creare la

logica del miglioramento continuo.

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Formare sul lavoro e attraverso il lavoro significa anche strutturare diversamente la modalità formativa:

hanno largo spazio piccoli gruppi di lavoro, in qualche caso anche l’interazione one to one, in cui vi è una

relazione diretta tra soggetto esperto (il formatore) e soggetti in apprendimento, la polivalenza attraverso

una mobilità programmata tra postazioni di lavoro. In qualche caso si giunge a sostenere, come fa un diri-

gente di una grande impresa, che la nuova modalità formativa, soprattutto per gli operai, si basi sulla tria-

de formazione d’aula, formazione sul lavoro e polivalenza:

È un mix. C’è formazione on the job, in aula, c’è con uno spostamento delle persone da un posto

all’altro. In questi giorni, ad esempio, stiamo togliendo persone della produzione e li stiamo mettendo

a lavorare per un mese e mezzo o due alla squadra montatori, per diventare loro stessi degli addetti al

cambio tipo. Il cambio tipo significa montare tutta una serie di attrezzature e rimontarle, verificare

l’allineamento di tutte le parti, e si tratta di macchine complesse per cui è un’attività non da poco.

Quindi facciamo formazione in aula, dove si comincia a insegnare la teoria della qualità, con un’aula

attrezzata con tutti gli strumenti di controllo, poi c’è la formazione sul posto di lavoro [mentre stanno

lavorando una persona affianca l’operatore e mostra come tutti questi strumenti devono essere utiliz-

zati, n.d.r.], oppure, come è in questo momento, la persona viene tolta dal suo posto di lavoro e abbi-

nata ad un’altra squadra per imparare delle competenze che poi porterà alla sua squadra. Le modalità

di formazione, per il personale di officina, quindi sono almeno tre. Un mese e mezzo in un settore di-

verso e poi ritornano; aula; on the job.

Trovano anche maggior spazio le modalità di formazione tramite “contesti di lavoro simulato”, cioè

strutture organizzative che, per un verso, riproducono le condizioni di lavoro e, per un altro, sono re-

ingegnerizzate con un layout e una strumentazione didattica particolarmente propizi all’apprendimento

anche tramite la pratica. Si tratta di un approccio giudicato positivamente da un dirigente sindacale:

Formazione un po’ in aula e poi nel cosiddetta “isola pilota”, una sorta di area di produzione-

laboratorio, dove si simula abbastanza concretamente quello che avverrà in linea di montaggio, quindi

si possono prevedere problematiche prima di andare nella sede di produzione.

Sfuma, almeno in parte, anche la tradizionale distinzione tra formazione generale e formazione speci-

fica, cui sono connessi differenti livelli di sostegno pubblico. Il criterio corrente di far coincidere la forma-

zione specifica con i corsi monoaziendali e la formazione generale con i corsi pluriaziendali risponde più

ad esigenze di classificazione e controllo amministrativi che non alla realtà dei contenuti professionali in

gioco. La distinzione appare particolarmente inadeguata alla luce della considerazione che i corsi tendono

ad essere sempre più tagliati, come contenuti e tempi, sulle specifiche necessità della singola impresa, il

che rende particolarmente problematico pensare che la formazione generale debba seguire, soprattutto

nelle PMI, la strada dei corsi pluriaziendali. Un possibile nuovo criterio di distinzione tra le due fattispecie

di formazione è considerare la formazione d’aula e quella in contesti non produttivi o di produzione simu-

lata come formazione generale e la formazione on the job, formalmente strutturata, come formazione spe-

cifica. Tutto ciò ha anche un riflesso sulla struttura dei costi della formazione in quanto occorre prevedere,

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soprattutto nella formazione on the job, un rapporto discenti/docenti molto più basso di quello rintraccia-

bile nelle altre forme e un costo di struttura, proprio per allestire le isole di apprendimento con lavoro si-

mulato. Inoltre, sarebbe opportuno ripensare al criterio, assai anacronistico, di assegnare lo stesso “contri-

buto orario” ad attività formative che comportano costi di produzione delle competenze assai diversi: for-

mare, ad esempio, un operatore di macchine a controllo numerico ha un costo orario maggiore che forma-

re un acconciatore. Si tratta di un problema segnalato anche nel passato da molte agenzie, ma che sinora

non ha trovato soluzione, come afferma un responsabile di agenzia formativa:

Il costo standard è ingiusto perché non tiene conto delle differenti tipologie di attività formativa […].

I pezzi saldati, si buttano. Noi compriamo gli elettrodi, il materiale di base, facciamo le lavorazioni di

preparazione, compriamo il gas, paghiamo la luce, li vestiamo e li proteggiamo con ghette, grembiuli,

guanti, occhiali, tappi, tutto: poi prendiamo quei pezzi e li buttiamo nel bidone. E paghiamo chi ce li

smaltisce. Se non ci sono più scuole di saldatura, come mai? Non serve più? Serve eccome, però non si

può mantenere questo sistema. Il corso di saldatura è un corso carissimo, come la parte di controllo

numerico […] I ragazzi che imparano sbagliano, scheggiano gli utensili, li rompono, li consumano

perché, viva Dio, ci lavorano dell’acciaio. Perché è facile lavorare la resina, ma se devo lavorare

l’acciaio, devo fargli lavorare l’acciaio, non posso fargli lavorare l’aria, come ho visto fare […] Per cui,

questa semplificazione che c’è stata, ed è uno sforzo non indifferente che è stato fatto, purtroppo pe-

nalizza ulteriormente i corsi di questo tipo, dell’area tecnica.

Una possibile conseguenza della particolare impostazione dei costi standard è il palesarsi di un deficit

non solo quantitativo, ma anche qualitativo dell’offerta formativa, relativa ad alcuni ceppi di competenze.

Osserva un dirigente di una impresa con personale impegnato nelle lavorazioni meccaniche:

È molto difficile trovare dei corsi abbastanza specializzati, quelli che si trovano sono su macchine tra-

dizionali che noi non abbiamo praticamente più, su controlli obsoleti. [L’offerta formativa che viene

dalle agenzie di formazione, n.d.r.] per quello che ci riguarda non è rispondente. O la facciamo inter-

namente o la organizzano i nostri fornitori. Io sto cercando da sei mesi due figure di fresatori fatti e

finiti… ne ho trovato uno ma non fatto finito, iniziato. Non-si-trovano. Non sto dicendo che ci sa-

rebbe posto per 50 mila fresatori… ne sto cercando due, è assurdo che non riesca a trovarli.

La formazione come pratica di responsabilizzazione

Questo principio muove dalla considerazione che la struttura gerarchica dell’impresa lean dovrebbe

fondare la sua legittimazione non tanto sull’autorità formale, ma sul possesso di competenze adeguate al

ruolo ricoperto e sull’assunzione di responsabilità rispetto agli obiettivi. Leadership fondata sulla compe-

tenza e leadership fondata sull’autorità è un classico dualismo delle organizzazioni: il modello della lean

production opta, a livello formale, per il primo corno dell’alternativa. Ne discende un’importante conse-

guenza per le politiche formative: esse tendono ad organizzare la diffusione delle competenze attraverso

un processo “a cascata” lungo la linea gerarchica e attraverso lo sviluppo della figura di team leader, inteso

come trainer. Così illustra il processo un dirigente di una PMI:

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Partirei dall’addetto macchina e risalirei. Premessa: non sono ancora soddisfatto del livello di coinvol-

gimento e di formazione che siamo riusciti a portare a livello di addetto macchina. Non per responsa-

bilità dell’addetto, più per responsabilità/tempistica nostra. Il problema sostanzialmente è che le cose

devono “perforare giù”, e ciascuno nel suo livello gerarchico deve essere in grado di fare squadra con

quelli che gli stanno sotto: non solo fare una riunione, deve avere veramente una capacità di cura della

persona come individuo che deve crescere. Questa non è una cosa facile. Noi adesso stiamo lavorando

duro. Abbiamo un livello di direzione che può essere un’impresa famigliare, abbiamo un team di ma-

nagement di cinque persone, poi abbiamo alcune persone di management intermedio, e poi ci sono i

capi squadra e gli operai-addetti. Il discorso è che per arrivare fin giù bisogna che tutti quelli sopra

siano stati formati, non solo in modo formale con il corso ma che abbiamo assorbito un certo modo di

fare. Altrimenti non riescono. Non è che non vogliono, non riescono […] Devono avere un’adeguata

formazione di base, sentire il supporto dall’alto: è una catena di supporto, non di comando, che si deve

creare. Tu hai il dovere, una volta che sei supportato, di supportare quello sotto di te. Chiaro che ci

sono dei tempi in cui le persone si sentono sufficientemente forti per farlo, tempi di maturazione. È

un grande problema. Abbiamo un coach psicologo che viene ogni tanto, che parla con me e con le per-

sone. La vera sfida è dare il coraggio alle persone di andare in supporto agli altri. Dare il coraggio, non

convincerli e obbligarli a fare.

La formazione parte dai livelli più elevati della gerarchia aziendale, avvalendosi prevalentemente di

competenze esterne, e discende a cascata, seguendo il criterio che i componenti formati di un determinato

livello gerarchico formano il personale del livello inferiore. Quindi, ogni componente della gerarchia è un

capo e, nel contempo, un trainer, sino a prevedere al livello più basso della gerarchia una figura di team

leader, spoglio di una vera autorità gerarchica formale ma investito di compiti di formatore e facilitatore.

La creazione di una struttura reticolare di “normali” lavoratori, posti ai vari livelli dell’organizzazione

aziendale, con funzioni di trainer è una realtà già presente in imprese da tempo impegnate

nell’implementazione della produzione snella. Dichiara in proposito un dirigente di una grande impresa:

[Per la formazione sulla lean, n.d.r.] abbiamo usato tantissimi soggetti interni, e quando è servito an-

che personale esterno. Ma soprattutto su questi temi la preferenza è avere le nostre risorse, avere qual-

cuno che le persone poi continuano a vedere in azienda. Dipende, a volte è un mix perché non riesci a

fare tutto. Ma questo tipo di formazione, al 90%, è stato fatta con nostre risorse interne.

Questa impostazione intende far assolvere al processo formativo più funzioni. Innanzi tutto, come ab-

biamo già osservato, quella di legittimazione della gerarchia sulla base delle competenze. I sottoposti as-

sumono una disposizione all’obbedienza nei confronti della gerarchia perché ritengono che capi siano sog-

getti in grado di impartire comandi sulla base della competenza, di fornire sostegno professionalmente

qualificato nella risoluzione delle varianze, di vagliare e recepire i suggerimenti e le proposte che vengono

dal basso. In secondo luogo, si tenta di ricomporre la tradizionale frattura tra il dire e il fare nei processi

innovativi: il responsabile gerarchico che si fa sostenitore nella formazione di nuovi comportamenti lavo-

rativi è anche colui che deve praticarli nell’esercizio della sua attività. Si instaura così una pressione dal

basso per far aderire il comportamento della gerarchia ai dettati formali dell’organizzazione. Aspetto que-

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sto dotato di una certa salienza proprio perché la gerarchia intermedia spesso è lo strato organizzativo più

resistenze, in via di fatto, ai cambiamenti organizzativi e gestionali. L’affermazione, spesso ripetuta come

un mantra nel linguaggio manageriale, che le competenze dei lavoratori sono la base del vantaggio compe-

titivo delle imprese, assume un senso se accompagnata dal criterio, molto citato ma non sempre praticato,

dell’integrità dei comportamenti organizzativi, cioè dal fare quel che si dice di voler fare, dall’eliminare o

ridurre lo scarto tra il dire e il fare. Si tratta di una questione assai complessa che rimanda al tema di come

si possano promuovere meccanismi sociali che aumentino la propensione dei soggetti a far corrispondere i

comportamenti organizzativi alle attese formali, tuttavia una formazione correttamente impostata può

fornire un contributo al raggiungimento di questo fine. Infine, il capo/trainer dovrebbe svolgere la funzio-

ne di punto di connessione e mediazione tra i fabbisogni professionali che discendono dal progetto gene-

rale di cambiamento e quelli che si manifestano a livello del singolo lavoratore, come punto di incontro tra

logiche top down e logiche bottom up di definizione delle azioni formative.

Si tratta di una impostazione che suggerisce alle politiche pubbliche di premiare e sostenere quelle ini-

ziative che assumono come obiettivo la creazione di una rete diffusa di formatori nell’impresa, intesi non

già come figure specialistiche, ma come nuove figure polifunzionali che incorporano fisiologicamente tale

funzione nelle proprie attività di ruolo, cioè l’arricchimento strutturale del sistema formativo aziendale.

Così come ciascun lavoratore tendenzialmente è un punto di presidio della qualità, allo stesso modo ogni

componente della “gerarchia” professionale è un punto di sviluppo di competenze. Anche la nostra ricerca

ha confermato che un conto sono i modelli organizzativi in book e un conto sono quelli in action: accade

non infrequentemente che la gerarchia intermedia non sia in grado di assumere questo nuovo ruolo, con le

inefficienze e le tensioni organizzative che ne derivano. La creazione di una rete di operatori-formatori

può presentare specifiche difficoltà nelle PMI, dove la possibilità di selezionare personale idoneo a svolgere

questo ruolo interfunzionale é minore. In questo caso, l’agenzia formativa può svolgere un ruolo di coa-

ching della struttura dei formatori, di accompagnamento alla crescita all’interno dell’impresa di autonome

risorse formative. Osserva un responsabile di agenzia formativa:

Conosciamo aziende che hanno del personale che sa fare bene il suo lavoro, ma è assolutamente ina-

deguato a tirar su altri, per una forma mentis, non so come dire. E nelle piccole e medie, sono tante le

persone così, perché ti manca l’aspetto manageriale. Quando introduci un aspetto di innovazione, devi

far fare a loro innanzitutto un percorso. Che loro poi, a loro volta, facciano ricadere […] Si può im-

maginare una formazione, che non è più formazione e si deve invece parlare di coaching: ti dò un

esterno che viene da te una volta la settimana un’ora, ti imposta, valida, verifica eccetera, per cui sei

guidato. Tanto il coaching non lo paghi, perché è difficile farsi pagare questo tipo di attività che, inve-

ce, secondo me, è quella che permette veramente uno sviluppo perché ti verifica sull’esperienza. Cioè,

ti da l’input e poi sei tu che sperimenti, quindi metti le mani in pasta in prima persona e riporti.

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La formazione come risposta flessibile ai bisogni di competenze

Questo principio interessa prevalentemente due dimensioni della flessibilità dell’apparato produttivo:

quella funzionale e quella temporale. Le esigenze di flessibilità funzionale sono in gran parte fronteggiate

con l’applicazione dei principi sopra richiamati. In questo ambito la questione centrale è sviluppare appro-

priate competenze in chiave sia reattiva (adeguare in modo puntuale conoscenze e capacità dei lavoratori

ai cambiamenti in corso o di prossima implementazione) che proattiva (sviluppare un potenziale di saperi

professionali che possa fronteggiare i cambiamenti futuri, i cui contorni non sono ancora completamente

delineati). Che la flessibilità funzionale dell’impresa sia un potente motore di cambiamento del professio-

nalità dei lavoratori in direzione di una maggior polivalenza e polifunzionalità è sottolineato da un diri-

gente di una PMI:

Chi lavora alle macchine utensili, prevalentemente lavora alle macchine utensili. Nel senso che deve

poter operare su quelle macchine un po’ chiunque […] La nostra attività è diversificata come prodotto

e come processo, e anche flessibile. Non possiamo perdere queste caratteristiche […] Altrimenti pos-

siamo diventare grandissimi specialisti ma molto a rischio [L’operaio, n.d.r.] sa usare diverse macchine

e fare diversi prodotti. Questo è importante.

Le esigenze di flessibilità temporale nel campo della formazione discendono dalla particolare conce-

zione del tempo del modello della produzione snella. Il tempo viene considerato, a tutti gli effetti, sia co-

me una variabile organizzativa sia come una risorsa da economizzare. Non si tratta di una concezione

nuova: prima il taylorismo con la predeterminazione dei tempi, poi il fordismo con la cadenza meccanica

della linea di montaggio e la sincronizzazione dei flussi produttivi avevano utilizzato il tempo come una

variabile per organizzare il lavoro e la produzione. Non a caso i “tempi e metodi” sono stati considerati la

funzione emblematica della fabbrica fordista. Inoltre, l’organizzazione scientifica del lavoro ha fatto del

risparmio del tempo un suo imperativo categorico: l’efficienza di sistema era la sommatoria delle efficienze

individuali dei lavoratori, l’efficienza individuale dipendeva, tra le altre cose, dal livello di saturazione del

tempo di lavoro. Possiamo dire, però, che il fordismo trattava in termini statici la variabile tempo: si trat-

tava di ottimizzarne e predeterminarne quantitativamente l’uso, sia che si trattasse di orario di lavoro che

di tempo interno di lavoro. La produzione snella tende, invece, a farne un uso dinamico. Rimane inaltera-

ta, anzi si acuisce, la spinta a saturare il tempo con le attività lavorativa, ad riassorbire i pori temporali di

inattività, in particolare mediante un intervento più sistematico del passato sui metodi di lavoro per elimi-

nare progressivamente le attività che non producono valore. Tuttavia, i tratti distintivi dell’organizzazione

temporale lean sono una maggiore compressione e reattività del tempo rispetto all’andamento dei parame-

tri produttivi e di mercato. Comprimere il tempo significa accorciare tutti i tempi che strutturano

l’apparato produttivo: il tempo di sviluppo di un nuovo prodotto, il tempo di attraversamento di un pro-

dotto nel processo produttivo, il tempo di evasione dell’ordine di un cliente, il tempo per svolgere un in-

sieme di compiti lavorativi, ecc. La reattività temporale di un’organizzazione è la capacità rispondere ai

mutamenti tecnologi, organizzativi, di mercato, sociali riadeguando la propria struttura produttiva e socia-

le. La competizione tra le aziende si gioca anche sulla velocità con cui sanno reagire ai cambiamenti, tanto

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che si può parlare dell’impresa lean come una high speed company. Si tratta di una concezione e di un corre-

lato uso del tempo che suscitano molteplici dualismi nel fabbrica snella, non facili da governare in modo

economicamente e socialmente accettabile, come, ad esempio, la saturazione del tempo di lavoro vs il be-

nessere lavorativo, la velocità di reazione vs la qualità dell’esecuzione, i ritmi produttivi vs ritmi di vita, la

velocità del cambiamento tecnologico vs la velocità del cambiamento sociale. Il tempo, come la qualità,

risponde, per un verso, a esigenze di certezza e prevedibilità (ad esempio, il just in time richiede che le for-

niture siano consegnate al tempo prestabilito) e, per un altro, ad esigenze di variabilità e mutamento (ad

esempio, ridurre il tempo di intervento su una varianza, riadattare un orario di lavoro in relazione ai mu-

tamenti della domanda). Certezza e incertezza temporale sono due facce della stessa medaglia.

Proprio perché il modello lean richiede una maggiore velocizzazione dei processi di cambiamento e

una maggior reattività e velocità di esecuzione nel governo delle varianze, le azioni formative soggiacciono

agli stessi vincoli temporali. Esse richiedono di essere progettate, attuate e verificate in tempi rapidi. Inve-

ce, il processo di produzione della formazione ha normalmente tempi lunghi, propri di assetti produttivi

relativamente stabili, di strutture delle competenze a basso tasso di obsolescenza, tempi che vengono ulte-

riormente dilatati dalla lentezza procedurale con cui l’azione pubblica interviene in tale processo.

L’intervallo di tempo tra l’emersione di fabbisogni formativi e la possibilità di darvi risposta, tramite il so-

stegno di risorse pubbliche, appare troppo ampio, incongruente con il nuovo assetto temporale della fab-

brica. L’accorciamento del tempo di risposta comporta una maggiore dinamicità sia dell’organizzazione

aziendale nell’identificare i fabbisogni formativi e di prendere le decisioni conseguenti e di darvi attuazio-

ne sia delle strutture e delle procedure dei soggetti erogatori dei cofinanziamenti e delle agenzie erogatrici

del servizio. In particolare, dal punto di vista delle imprese la capacità delle politiche pubbliche di rispon-

dere alla domanda di formazione in tempi “reali” risulta ormai un requisito irrinunciabile di buon funzio-

namento dei processi di ammodernamento dell’azienda. Un requisito che, peraltro, può diventare una ca-

ratteristica generale del territorio e della sua capacità di mantenere e attrarre investimenti. Ancora una

volta si tratta di trovare le soluzioni per un corretto bilanciamento tra le esigenze di velocità delle imprese

e le esigenze di certezza della pubblica amministrazione nell’uso appropriato delle risorse.

La formazione come fattore di trasparenza organizzativa

È la traduzione in campo formativo della cosiddetta “fabbrica trasparente”, postulata dalla lean produc-

tion. La “gestione a vista”, l’essenzialità della tecnologia, l’ordine e la pulizia dell’ambiente e del luogo di

lavoro, la riduzione degli stock di componenti e materiali lungo il processo produttivo, la diffusa parame-

trazione e misurazione delle attività, il decentramento della microregolazione delle varianze, il largo im-

piego delle tecnologie informatiche, ecc. sono tutti elementi che puntano a rendere informativamente più

trasparente e, quindi, conoscitivamente più controllabile il processo produttivo sia a livello centralizzato

che decentrato. La maggior trasparenza, da un lato, rende difficile l’occultamento dei problemi, favorisce

l’emersione delle criticità e crea una pressione organizzativa affinché vengano risolti, dall’altro lato, rende

sistematicamente confrontabili le prestazioni di processi, tecnologie, comportamenti organizzativi simili,

e, quindi, per questa via, introduce una spinta concorrenziale tra le “parti” dell’organizzazione e favorisce

la standardizzazione dei processi, attraverso la diffusione delle soluzioni più performanti. Allo stesso mo-

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do la varie articolazioni del sistema formativo dovrebbero realizzare trasparenza rendendo noti, nelle for-

me più opportune, gli obiettivi dell’azione formativa, i metodi e strumenti di mappatura delle competenze,

i risultati dell’analisi delle competenze e dei fabbisogni formativi, l’offerta formativa, i risultati delle inizia-

tive formative sul piano sia dello sviluppo professionale che dell’efficienza produttiva, i rischi ambientali

ed ergonomici cui connettere le azioni formative, le mappe di polivalenza, nonché certificando le compe-

tenze acquisite. La possibilità di costruire una “casa di vetro” della formazione si può avvalere delle inedite

opportunità offerte dalle tecnologie informatiche, dai cambiamenti nei metodi di gestione della relazione

tra capo e collaboratore in direzione di stili di leadership “trasformazionali” (Bass, Avolio, 1996), dalla

diffusa tendenza a negoziare tra le parti sociali i programmi di formazione.

Sulla scorta dei dati della ricerca, l’attuazione di questo principio sembra procedere tra molte incertez-

ze manageriali, dovute, probabilmente (ma su questo aspetto la ricerca fornisce solo alcuni indizi, da in-

terpretare con cautela) sia ad una scarsa consapevolezza delle funzioni assolte dalla trasparenza nelle poli-

tiche formative sia ai timori di una perdita di discrezionalità nel controllare le relazioni di lavoro. Nel con-

tempo, l’indagine ha rilevato la presenza di sistemi formativi aziendali molto innovativi nell’applicazione

di questo principio, realizzati mediante soluzioni di informatica distribuita che consentono, ad esempio, a

ciascun dipendente di accedere all’intera offerta formativa dell’impresa, di candidarsi per partecipare alle

iniziative formative, di consultare il proprio profilo di competenza in rapporto al profilo di competenza

atteso, di consultare l’ “archivio” delle proprie attività formative.

Anche da questo principio della formazione lean discendono alcune implicazioni per le politiche pub-

bliche: se la loro finalità è far crescere nelle imprese un sistema di formazione e non tanto di sostenere at-

tività formativa in sé presa, esse dovrebbe sostenere particolarmente quei progetti che prevedono modalità

strutturate di gestione della formazione trasparente delle politiche formative.

3.4 Due varianti del modello lean di formazione

Nella realtà delle imprese, i percorsi di applicazione dei principi della formazione lean sono assai diffe-

renziati e danno luogo a soluzioni assai diverse. L’eterogeneità delle soluzioni sembra oscillare tra due va-

rianti stilizzate del modello della formazione lean: la variante della formazione a specializzazione snella e la

variante della formazione a sviluppo snello.

La logica di fondo della prima variante – formazione a specializzazione snella – è rappresentata dalla

diretta finalizzazione dello sviluppo delle competenze all’eliminazione degli errori, delle inefficienze che

derivano da inadeguati o erronei comportamenti lavorativi. In questa impostazione viene posta una forte

enfasi su un duplice nesso: quello tra l’individuazione delle perdite e delle inefficienze e gli “errori” umani;

e quello tra gli “errori” umani e le azioni formative “situate”, volte ad una migliore conoscenza sia dei me-

todi e degli strumenti lean per la realizzazione della qualità totale (il catalogo di tale strumentazione, come

è noto, è molto ampio e variegato) sia delle attrezzature, tecnologie, procedure impiegate in quel segmen-

to di processo produttivo. Sono molto sviluppate le attività di parametrazione e misurazione dei risultati

delle azioni formative, in termini di rapporto tra benefici e costi, e l’azione formativa sembra legittimarsi

solo quando tale rapporto è superiore ad 1, già in tempi brevi. Questa variante ha un significativo punto di

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forza: solitamente è in grado di realizzare nel breve periodo e nel contesto dato un rapporto certo e positi-

vo tra benefici e costi dell’azione formativa. Si può così dimostrare empiricamente, innanzi tutto

all’interno del management aziendale, che la formazione “paga” e in tal modo dare continuità all’azione

formativa e ai relativi investimenti. È una impostazione a cui sembrano richiamarsi preferenzialmente le

grandi imprese che applicano modelli molto formalizzati di produzione lean e metodi di implementazione

altrettanto proceduralizzati. Osserva il dirigente di una grande impresa:

Una volta le ore di formazione le andavi ad imputare in quel centro spesa. Questo incideva positiva-

mente sulla produttività, le ore lavorate si riducevano. Ma tu ora dici: la formazione dovete farla, ma

ve le pagate con il vostro risultato migliorato. Quindi in qualche modo le ore vanno computate nor-

malmente nelle ore lavorate. Il che non ci impedisce di contarle, ma a quel punto è poco interessante,

qualcosa si perde infatti. Credo che è stata una scelta del tipo “va bene la formazione, dovete farla, ma

sappiate che dovete anche pagarvela con i vostri risultati”. La formazione fa parte della vita fisiologica

dell’azienda.

Vi è, però, un punto di debolezza di questo orientamento: esso sembra poco adatto a sviluppare il po-

tenziale di innovazione al di fuori dei metodi e degli strumenti predefiniti, cioè a sviluppare competenze

che possano produrre soluzioni innovative al di fuori di schemi di apprendimento prestabiliti. È un orien-

tamento che appare poco adeguato alle PMI, dove le soluzioni di miglioramento sono molto specifiche e

spesso frutto di conoscenze integrate del contesto di lavoro e dell’interazione sociali all’interno di “comu-

nità di pratica” più che da applicazioni analitiche di singoli strumenti di miglioramento (che pur è oppor-

tuno conoscere e saper applicare). Nelle PMI i processi formativi sembrano più legati all’esistenza di “co-

munità di pratica”, piuttosto che “comunità di apprendimento”.10

La seconda variante del modello della formazione lean – formazione a sviluppo snello – non rinuncia a

finalizzare la formazione al raggiungimento di obiettivi di miglioramento della produttività, qualità, sicu-

rezza sul lavoro, tuttavia si caratterizza per l’intento di sviluppare competenze ridondanti, rispetto a quelle

puntualmente necessarie per realizzare specifici obiettivi di miglioramento individuati a livello shop floor, e

fortemente trasversali. Lo scopo è trasformare ogni lavoratore in un agente attivo di miglioramento, in

grado di ricombinare le proprie conoscenze sia per identificare i punti critici da migliorare sia per ricercare

le soluzioni da adottare. Il processo di razionalizzazione punta su una minore formalizzazione delle proce-

dure e dell’uso degli strumenti di miglioramento continuo e su una maggiore capacità di iniziativa dei la-

voratori, a livello singolo e di gruppo, e una maggior capacità propositiva in contesti di cooperative learning

in virtù dello slack di competenze in possesso del singolo lavoratore. Questa sembra essere la soluzione

adottata preferenzialmente dalle PMI dinamiche ed innovative. Con una avvertenza: le piccole e medie

imprese hanno grandi difficoltà a metterla in pratica in quanto soggiacciono a forti vincoli sul versante

delle risorse finanziarie, produttive, organizzative. Osserva un dirigente di una PMI:

10 Sulla distinzione tra “comunità di pratica e “comunità di apprendimento”, vedi Mattalucci L, Sarati E., 2006

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Volendo noi innovare l’organizzazione e la gestione dell’azienda, solo in pochi casi è influente che le

persone abbiano competenze forti. È molto più importante che abbiano un potenziale forte di adat-

tamento a una nuova cultura. Di avere un manager stile americano che lavora in un certo modo non

mi interessa, anzi cerco proprio di rifuggire. Per riuscire a portare avanti questo deployment di diffu-

sione culturale, si tratta di diffondere una cultura aziendale a tutti i livelli […] l’unica strada è avere

delle persone che hanno una capacità di base (di problem solving, di logica, di intelligenza) una forma-

zione di base (mi va bene che sia anche un filosofo, non per forza un ingegnere), abbiamo bisogno di

gente che abbia una potenzialità di ragionamento e una disponibilità culturale di adattamento a qual-

cosa di diverso rispetto a quello che ha fatto fino a quel momento. Tendenzialmente di solito sono

giovani.

Il punto di forza di questo approccio (spesso non intenzionalmente adottato, ma praticato in via di fat-

to) è la possibilità di attivare nei lavoratori un potenziale innovativo in chiave idiosincratica all’impresa, il

che consente alle imprese di sviluppare delle core competence di tipo distintivo. Il punto di debolezza per

l’impresa è rappresentato dalla maggiore incertezza nel breve periodo del rapporto tra benefici e costi della

formazione e nel rischio che la formazione “ridondante” del lavoratore aumenti la propensione a compor-

tamenti di exit dall’impresa, con conseguente perdita dell’investimento formativo.

3.5 I dualismi della formazione lean e il ruolo delle parti sociali

È un dato consolidato della ricerca e degli studi che la formazione continua in Italia sia solcata da una

molteplicità di dualismi sociali che ne riducono l’efficienza e l’equità (Isfol 2011, 2012, 2013). Anche gli

altri paesi europei sperimentano fenomeni simili, ma nella gran parte dei casi in misura minore; solo i pae-

si economicamente più arretrati dell’area mediterranea hanno prestazione peggiori di quelle italiane (Ocse,

2003; Pellegrini, Frigo, 2006; Eurofound, 2013). La situazione in Piemonte e in Provincia di Torino non

è molto dissimile da quella nazionale (Ires Piemonte, 2010a, 2010b, 2011). Ci pare interessante verificare

se l’introduzione di modalità di formazione lean alteri, e in che direzione, il tradizionale assetto dei duali-

smi formativi. Ovviamente con la presente ricerca, di tipo squisitamente qualitativo, non si può compiere

questa verifica in modo robusto (occorrerebbe una apposita indagine quantitativa, condotta su un campio-

ne rappresentativo di imprese, e l’utilizzo di data base che consentano una comparazione diacronica delle

variabili), tuttavia è possibile cogliere nelle dichiarazione dei soggetti intervistati indizi di cambiamenti, da

utilizzare, però, con grande cautela analitica e da sottoporre a successiva verifica empirica.

Il primo grande dualismo è tra molta vs poca formazione continua, dove i generici termini “molta” o

“poca” rinviano alle situazione in cui le imprese e i lavoratori effettuano un investimento efficiente in for-

mazione oppure un sottoinvestimento. Si tratta di una questione centrale delle politiche formative: un vo-

lume di formazione inadeguato non consente all’impresa di raggiungere il livello di output considerato ef-

ficiente e ai lavoratori di mantenere o aumentare la probabilità di rimanere occupati e di aumentare le op-

portunità di dinamica salariale e di mobilità professionale (Paolucci, Neirotti, 2001, 2011). Inoltre, un

sottoinvestimento in formazione può celare una specifica criticità: un possibile disallineamento tra inve-

stimenti in innovazione tecnologica e produttiva e investimenti in capitale umano. Poiché gli investimenti

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per realizzare sistemi produttivi avanzati comportano solitamente la generazione di migliori posti di lavo-

ro, con un aumento della qualificazione professionale richiesta, un inadeguato investimento in formazione

riduce il potenziale di produttività di tali posti. Per contro, un adeguato investimento formativo aumenta

la disponibilità di lavoro qualificato rendendo conveniente per l’impresa le scelte innovative e di creazione

di buoni posti di lavoro, cosicché la spinta a creare innovazione produttiva e quella a migliorare la qualità

delle competenze del personale si rafforzano a vicenda (Croce, 2006). Le valutazioni raccolte tra gli inter-

vistati sembrano confermare una previsione propria del modello della lean production: effettivamente au-

menta la propensione dell’impresa a effettuare maggiori investimenti in formazione e a stabilire un più

stretto ed equilibrato rapporto tra investimento nel sistema di produzione e investimento nello sviluppo

delle competenze del personale. Ad esempio, un dirigente di una PMI dichiara:

Su questo abbiamo fatto investimenti molto superiori che non sui macchinari, abbiamo investito più

su consulenza e docenti, che sono poi formatori on the job, che sulle macchine. Il consulente non è che

veniva qua e dare una ricetta da implementare; di fatto questa consulenza è un training on the job,

l’affiancamento del manager nello studio dei processi e nel miglioramento dei processi […] È stata

fatta a tutti i livelli, io personalmente ho fatto molta formazione in Italia e fuori. E forse mi sono an-

che un po’ viziato, sono il più formato dell’azienda, forse è meglio distribuire un po’. Abbiamo fatto il

deployment della formazione, abbiamo cercato mano a mano di interessare tutti: i numeri infatti cre-

scono. Dal 2005 si è cominciato a fare il lavoro di formazione con questa azienda giapponese; direi

che già dal 2005-2006 quello che noi chiamano management team (5 persone) e i loro sottoposti (altri

5 o più) sono stati coinvolti soprattutto in area operation (produzione). Poi c’è tutta l’area degli uffici,

servizi amministrativi, commerciali, sviluppo prodotto.

In sostanza, sembrerebbe che le nuove forme di organizzazione del lavoro attenuino questo tradiziona-

le dualismo. Tuttavia, occorre tenere presente che il dualismo molta vs poca è la risultante della combina-

zione di altri due dualismi: quello tra formazione estesa vs poco estesa e quello tra formazione intensa vs poco

intensa. Il primo dilemma ruota attorno alla domanda “le politiche formative toccano molti (tutti, al limi-

te) lavoratori di un’azienda oppure pochi?”, il secondo dilemma riguarda l’intensità (misurata attraverso le

ore di formazione) della formazione a cui il singolo partecipa. Dall’indagine emergono molti e concordan-

ti segnali che le politiche di formazione lean tendano a coinvolgere platee di lavoratori molto più ampie

del passato. Sono frequenti i piani aziendali di formazione, alle volte programmati nell’arco di due-tre an-

ni, che coinvolgono tendenzialmente tutti o la gran parte dei lavoratori a prescindere dagli interventi for-

mativi generalizzati che derivano dagli obblighi di legge sui temi dell’ambiente e della sicurezza del lavoro,

a conferma del carattere tendenzialmente pervasivo di questo modello di riorganizzazione della produzio-

ne e del lavoro. Un dirigente di una PMI, in cui il lavoro di produzione è abbastanza ripetitivo, rileva come

il passaggio dalla fase delle politiche di qualità, legate alle certificazioni ISO, all’introduzione della produ-

zione snella abbia comportato un più ampio coinvolgimento dei lavoratori nelle iniziative formative:

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[Vogliamo coinvolgere tutto il personale, n.d.r.] a partire dal direttore, tutti i primi livelli, ma anche

tutti i 96 operatori, a livelli diversi, con modi diversi ma tutti […] Sostanzialmente nello stabilimento,

negli anni precedenti so che hanno fatto formazione diversa, non a tutti gli operatori ma a una buona

parte legata al discorso qualitativo […] per questi corsi rispetto alle esigenze del WCM, noi vorremmo

partire da zero, coinvolgere tutto dalla logistica in avanti; per capire cos’è e a cosa serve, capire che an-

che una cosa molto semplice può portare benefici.

L’analisi sull’intensità della formazione rinvia, invece, all’ulteriore domanda “tra chi viene distribuita la

risorsa della formazione”? Come è noto la risposta a questa domanda deriva in larga misura dalla configu-

razione dei seguenti dualismi: formazione per i lavoratori giovani vs anziani, per i lavoratori qualificati vs

poco qualificati, per i lavoratori molto istruiti vs poco istruiti, per i lavoratori maschi vs femmine, per i lavora-

tori full time vs part time, per i lavoratori stabili vs precari, per i lavoratori delle grandi imprese vs piccole im-

prese, per i lavoratori del Nord vs Sud del paese. Ora l’indagine sembra suggerire che il modello della for-

mazione lean, mentre genera un’estensione della formazione, concentra in modo molto marcato, forse più

del passato, le azioni formative sulle figure di lavoratori giovani, maschi, con media e alta qualificazione,

con un buon livello di istruzione, con un contratto a tempo pieno e full time, occupati nelle grandi impre-

se. Più in particolare, sono, come già accadeva nei tradizionali assetti produttivi, le variabili dell’età, del

livello di istruzione e qualificazione, della dimensione aziendale, dell’orario e del rapporto di lavoro che

influiscono in modo più accentuato sull’intensità con cui i soggetti partecipano ai processi formativi.

Vi sono ragioni “teoriche”, ampiamente dibattute dagli economisti del lavoro, che possono dar conto

di questo fenomeno (Checchi, 2001; Garibaldi, 2005; Borjas, 2010). In estrema sintesi, si può dire che un

investimento in capitale umano ha un rendimento tanto più elevato quanto più il lavoratore destinatario è

istruito, qualificato, impiegato a tempo pieno e con una lunga vita lavorativa davanti a sé. La produzione

snella sembra addirittura accentuare questo processo di segmentazione professionale tra lavoratori sostan-

zialmente agganciati alla locomotiva professionale della razionalizzazione e lavoratori che salgono e scen-

dono dal treno, percorrendo pochi e limitati tratti. La formazione si intensifica tra i lavoratori inseriti ne-

gli snodi cruciali dell’organizzazione snella e si diffonde in modo più superficiale tra gli altri. La principale

ragione di questo dualismo risiede nella distribuzione segmentata dell’autonomia operativa tra le diverse

posizioni di lavoro. È sostanzialmente vero che nel modello della lean production ciascun lavoratore è pen-

sato come punto di assorbimento dell’incertezza e di generazione di miglioramento continuo e, pertanto, è

dotato di un margine di autonomia e di un correlato stock di competenze, tuttavia tale margine è distri-

buito in modo assai ineguale tra le diverse posizioni organizzative. La lean production ricerca la massima

efficienza, la quale si può ottenere in condizioni di stabilità e certezza operativa, dove si applica il lavoro

proceduralizzato e standardizzato; il margine di autonomia serve, allora, a “sigillare” questo nucleo lavora-

tivo altamente razionalizzato e, nel contempo, a ricercare nuove soluzioni per ampliarlo. Il lavoro può di-

ventare più proceduralizzato e, nel contempo più autonomo, come osservato in molti studi sulle fabbriche

postfordiste (Adler, 1995; Durand, Stewart, Castillo, 1998; Gollac, Volkoff, 2000). Osserva molto acuta-

mente un dirigente di una media impresa:

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Sicuramente abbiamo aumentato la standardizzazione, più per aver seguito il lean che per le ISO […]

Una cosa è avere lo standard, che è già un buon passo avanti, un’altra è avere il lavoro standardizzato.

Molte volte noi ci fermiamo e ci chiediamo: abbiamo lo standard? Sì, ma il lavoro è standardizzato?

Questo è il vero check da fare. Se la risposta è no, la reazione normale è ci vuole più disciplina; in real-

tà c’è qualcosa che non va nello standard. Il processo non può funzionare nel modo in cui l’hai scritto

nello standard, non l’hai analizzato abbastanza bene, devi andare più a fondo; scrivere uno standard

che sia rispettabile è difficile. La standardizzazione per gli addetti è stata un cambiamento, adesso

hanno più istruzioni e un lavoro in un certo senso sicuramente più ripetitivo. Ma al tempo stesso noi

abbiamo diminuito moltissimo la dimensione dei lotti, e il lavoro è divenuto più ripetitivo ma sis vi-

luppa su oggetti diversi, che appartengono alla stessa famiglia ma non sono esattamente la stessa cosa:

nessuno in questa azienda è mai impegnato per più di tre-quattro ore sullo stesso lavoro […] Per il

tempo ciclo negli assemblaggi, nella parte “multi” parliamo di 30-35 secondi, nella parte “mono” se

hai macchine automatiche può essere 1-2-3 secondi e se è semimanuale o manuale puoi arrivare a 10-

15-20 secondi. Nel confezionamento il tempo ciclo può essere variabile, dovendo confezionare da die-

ci a 150 pezzi, puoi impiegare tre secondi al pezzo, quindi da trenta secondi fino qualche minuto se è

un oggetto grosso con tante cose da mettere insieme.

Logica della proceduralizzazione e logica dell’autonomia del lavoro sono interdipendenti, alle volte si

sostengono a vicenda, altre volte entrano in tensione. Ad esempio, un lavoratore, grazie all’autonomia

professionale e alle competenze, formula un suggerimento per migliorare ergonomicamente una procedura

di lavoro; esso viene accolto e consente di migliorare contemporaneamente sia la qualità che la produttivi-

tà del lavoro. Può darsi il caso, invece, in cui il lavoro proceduralizzato tende a saturare quasi tutto il tem-

po di lavoro lasciando all’operaio pochi margini di autonomia; in questo caso i vincoli crono-organizzativi

tendono a ridurre il suo impegno nella gestione delle varianze e la sua disponibilità alla polivalenza. Os-

serva al riguardo un dirigente sindacale:

Le cose più “macro” – ordine, pulizia, il liberare le aree e il bordo linea, ottimizzare la tempistica

avendo i pezzi a ridosso della linea – si stanno facendo. Ma quelle un po’ più difficili – il coinvolgi-

mento dei lavoratori, avere lavoratori polivalenti – non si stanno facendo. Su questo punto c’è anche

una responsabilità dei lavoratori, molti preferiscono fare sempre la stessa cosa, si sono abituati a quel

movimento e a montare quel certo pezzo e cambiare vuol dire toglierli qualche libertà che si prendono

con la mente o con la velocità di esecuzione. Se imparo bene a fare quella mansione, ho meno proba-

bilità di imbarcarmi. Quando iniziano ad imbarcarsi [termine usato dagli operai, significa “sforare” la

loro postazione, n.d.r], non riescono a stare dietro ai ritmi di produzione e lì impazziscono, diventa

una cosa insostenibile, rischiano di essere in affanno tutta la giornata. Molte volte per mettersi a posto

non fanno la pausa. Magari finiscono di montare bene un pezzo su una vettura, durante la pausa van-

no in quelle prima della loro postazione per iniziare sul processo produttivo. Questo teoricamente non

si potrebbe fare, ma piuttosto che stare sette ore e mezza in catena di montaggio senza riuscire a star

dietro al flusso, fanno anche questo. Si portano avanti del lavoro andando nelle altre postazioni […]

Dipende dal soggetto: per alcuni è come fumo negli occhi, si sono così specializzati a fare quella man-

sione che la fanno abbastanza agevolmente. Molti altri invece preferiscono cambiare, oggi una cosa,

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domani un’altra, anche se poi il lavoro è sempre il montaggio di parti che stanno sempre tra il minuto

e il minuto e mezzo.

Ora, nella lean production vi sono molti i lavori con un’area di compiti predeterminati, nei modi e nei

tempi: qui la formazione è addestramento quando si tratta di far apprendere al lavoratore i compiti stan-

dardizzati, è, nel contempo, formazione in senso proprio quando è rivolta a sviluppare le competenze ri-

chieste dall’esercizio dello spazio di autonomia. Se lo strato di lavoro autonomo è sottile, sarà anche sotti-

le, poco intensa, la formazione e, viceversa, laddove il margine di autonomia è ampio e caratterizzato da

compiti complessi essa sarà più intensa. Nella lean production tendenzialmente tutti i lavoratori diventano

più autonomi, tuttavia sembra aumentare il divario tra lavoratori che eseguono lavori prevalentemente

predeterminati e lavoratori che svolgono lavori variati. Tra i molti esempi rintracciabili nelle interviste, ne

citiamo uno tratto dalle dichiarazione di un dirigente di una PMI:

È stata fatta una formazione sul campo, non a livello di aula. Sono macchine che per la parte software

fanno qualcosa in più, e per la parte finale sono un po’ più tecnologiche […] Non si sviluppano com-

petenze nei dettagli, si preferisce non andare oltre quello che gli viene richiesto. Se vai in deriva c’è un

allarme, gli operatori non possono intervenire, non possono fare attività di ripristino. Devono chiama-

re il responsabile che poi è addetto a chiamare l’assistenza […] In questo caso formazione significa

aumentare marginalmente la sua conoscenza, in modo da poter usare l’interfaccia informatica che

permette di intervenire sui parametri in relazione all’output. Al momento è solo questo.

Per attenuare questo dualismo che produce una distribuzione non equa della risorse formative e delle

opportunità ad essa collegate, con il rischio di accentuare i processi di marginalizzazione professionale,

forieri di successivi elevati costi sociali, sembra opportuno operare sia a livello di politiche pubbliche che

del sistema di relazioni industriali (e, in maniera più incisiva, sull’impostazione dell’organizzazione dl la-

voro). Proprio perché il soggetto pubblico ha interesse (almeno in astratto) a limitare le esternalità negati-

ve generate dai processi di marginalizzazione socio-professionali interni all’impresa e il sindacato ha inte-

resse a ridurre il livello di non equità nella distribuzione delle risorse formative, sembra possibile ipotizzare

che la politica concertata di formazione continua possa realizzare, adottando opportune misure, un equili-

brio sostenibile tra esigenze di efficienza aziendale ed esigenze di equità sociale.

Anche il classico dualismo tra formazione generale vs specifica viene in qualche misura ridefinito dal

modello della lean production. Come abbiamo già osservato, per un verso, vengono rimessi in discussione i

tradizionali criteri con cui distinguere la formazione generale dalla formazione specifica, per un altro, la

formazione tende ad avere sempre più una caratterizzazione specifica, il che spiega anche la maggior pro-

pensione delle imprese ad investire maggiormente in formazione. La più accentuata specificità della for-

mazione, accompagnata da una sua maggiore diffusione e intensità, ha effetti ambivalenti sia per i lavora-

tori che per l’impresa. Da un lato, l’impresa ha maggiore convenienza a trattenere i lavoratori formati, se

vuole realizzare il guadagno atteso dall’investimento formativo, pertanto per i lavoratori aumenta la stabi-

lità del posto di lavoro; dall’altro lato, i lavoratori acquisiscono competenze spendibili solo nell’impresa e

diventano, pertanto, più deboli, meno occupabili nel mercato esterno del lavoro e, dal canto suo, l’impresa

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rischia di non sviluppare nel presente una adeguata flessibilità funzionale delle sue forze di lavoro e in pro-

spettiva un sufficiente potenziale a sostegno dell’innovazione continua. È difficile stabilire in modo esatto

quali contenuti siano specifici all’impresa e quali siano generali, quale sia il mix migliore tra i due tipi di

competenze. Forse una politica pubblica che sostenga scelte manageriali d’innovazione di non breve pe-

riodo e un sistema di relazioni industriali che sappia collocare le misure di razionalizzazione e le relative

azioni formative non nel quadro della singola impresa ma in quello del sistema delle imprese, possono

fornire un utile contributo per stabilire un nuovo equilibrio tra formazione generale e formazione specifi-

ca.

Un altro tradizionale dilemma delle politiche formative aziendali è legato al dualismo tra redditività di

breve vs lungo periodo. È molto diffusa nella proprietà e nel top management delle imprese, una spinta a

realizzare una elevata redditività a breve termine o, nella situazione di crisi attuale, una forte e immediata

riduzione dei costi. La realizzazione di programmi di innovazione porta con sé, invece, nell’immediato

costi di formazione che, in ragione della continuità con cui devono essere realizzate le iniziative, si confi-

gurano come costi fissi, in parte ripagabili solo in tempi medi o medio-lunghi. Di qui la propensione delle

imprese, al sorgere di difficoltà economiche o di qualunque incertezza manageriale, a interrompere le atti-

vità formative, a ridimensionarle pesantemente oppure a concentrarle prevalentemente su modalità forma-

tive molto specifiche che danno ritorni immediati in termini di benefici, ma che sviluppano nelle persone

capacità e potenziali professionali ristretti. Il modello lean, per le ragioni che abbiamo già visto, può so-

spingere le scelte dell’impresa in questa direzione. Il circolo vizioso è così avviato: l’innovazione produttiva

è una risposta alla crisi (o un modo per mantenere o addirittura aumentare la redditività dell’impresa), la

crisi (o le esigenze del management di acquisire benefici immediati) spinge a tagliare sui costi, segnata-

mente quelli sulla formazione, i tagli riducono la portata innovativa del cambiamento, la riduzione

dell’innovatività riduce le possibilità di una risposta efficace alla crisi o di realizzare le condizioni di reddi-

tività attese e così via. Non è facile uscire da questo situazione in assenza di incentivi istituzionali che so-

spingano l’impresa ad assumere una visione di lungo periodo nell’attuazione dei programmi di cambia-

mento e, quindi, di formazione. Anche in questo caso, in combinazione con le politiche pubbliche di in-

centivazione, può essere utile un intervento regolativo del sistema di relazioni industriali affinché siano

mantenuti gli investimenti formativi previsti, intervento che può trovare nel sindacato un sostenitore, in

quanto in concordanza con gli interessi dei suoi rappresentati.

Le osservazioni sinora svolte hanno più volte richiamato il possibile contributo che possono fornire le

relazioni industriali nel trovare rimedi ai dualismi della formazione lean. Il ruolo delle parti sociali in quale

modo può essere effettivamente utile nel governare i dualismi della formazione continua, anche di quella

lean? Sull’ipotesi che sia utile vi è una ampia concordanza di opinioni (Mip Politecnico di Milano, 1998;

Mazzanti, Pini, Tortia, 2005). Del resto già da molti anni le parti sociali sono soggetti istituzionalmente e

operativamente presenti nei processi di definizione delle politiche pubbliche territoriali (a livello di Re-

gione e Province) di formazione continua, alimentate con le risorse finanziarie provenienti dal FSE, da

quota parte della legge 236/1993, dalla legge 53/2000; inoltre, gestiscono i Fondi Interprofessionali, as-

sumendo così la responsabilità diretta della programmazione, promozione e controllo delle attività forma-

tive finanziate.

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Il coinvolgimento e il ruolo diretto delle parti sociali nella governance delle politiche formative sono

considerati utili per più ragioni, di ordine generale (Croce, 2006; Nielsen, Lundvall, 2007). Innanzi tutto,

le associazioni datoriali, in quanto espressione delle imprese associate conoscono in modo approfondito,

più di quanto possa fare il solo attore pubblico, le esigenze delle imprese, in relazione alle diversità setto-

riali, dimensionali e territoriali, possono cogliere con tempestività i fabbisogni, al mutare delle dinamiche

di mercato e dell’intensità degli investimenti tecnologici e in innovazione. La logica che guida i compor-

tamenti della rappresentanza delle imprese dovrebbe essere quella dell’efficienza, cioè la ricerca e afferma-

zione di politiche volte ad aumentare, intervenendo sul capitale umano, la produttività e l’innovatività del-

le imprese. L’equità non è il criterio guida delle loro azioni, ma è piuttosto un vincolo da tenere presente

in quanto situazioni di iniquità possono riflettersi negativamente sull’efficienza. In ragione del fatto che

rappresentano gli interessi non delle singole imprese, ma del sistema aggregato delle imprese, le loro scelte

dovrebbero essere guidate non tanto da istanze di efficienza “locale”, ma generale. Nel contempo, il lega-

me con le singole imprese e l’esperienza della contrattazione decentrata dovrebbero consentire alle asso-

ciazioni datoriali di elaborare e proporre provvedimenti generali in grado di ricomprendere le specificità

particolari delle singole aziende.

Dal canto loro, i sindacati possono cogliere in modo più diretto e immediato, rispetto all’attore pub-

blico, le diverse esigenze formative dei lavoratori e la loro diversa collocazione nei processi di inclusio-

ne/esclusione nelle attività di formazione continua, diversità che discendono, come abbiamo visto, da una

molteplicità di variabili: da quelle socio-anagrafiche, a quelle economico-strutturali, a quelle soggettive,

legate alle diverse strategie d’azione dei soggetti nel mercato del lavoro interno ed esterno. La logica che

guida, innanzi tutto, l’azione del sindacato é la realizzazione di una maggiore equità nella distribuzione

delle risorsa formazione, sia sostenendo appropriate misure di ordine generale sia favorendo, soprattutto

tramite la contrattazione decentrata l’adozione di misure in grado di rispondere alle diverse necessità dei

lavoratori. La logica dell’efficienza è un vincolo a cui deve sottostare l’azione sindacale, pena riflessi nega-

tivi sulla stessa azione di tutela dei lavoratori. Ora, le parti sociali con la negoziazione decentrata – a livello

aziendale in alcuni settori, a livello territoriale in altri o quando si tratti di promuovere azioni formative

collegate ad obiettivi di sviluppo locale – dovrebbero essere in grado di ben individuare le azioni formative

tagliate sulle esigenze delle singole imprese e dei loro lavoratori e realizzare degli accettabili compromessi

tra le esigenze delle une e quelle degli altri, qualora esse non siamo collimanti. La contrattazione decen-

trata dovrebbe introdurre, dunque, un carattere di qualità nell’elaborazione delle azioni di formazione

continua, qualità che attiene sia agli aspetti di efficienza che di equità. Infine, l’azione delle parti sociali e

soprattutto la loro interazione negoziale, proprio perché volta a cercare soluzione condivise, possono dar

luogo a “buone” azioni sotto il profilo della legittimazione, in quanto creano un consenso, sia tra le impre-

se che tra i lavoratori attorno alle misure adottate, utile per realizzarle con successo. Inoltre, la ripetizione

dei “giochi” negoziali e delle interazioni tra le parti sociali sviluppa in ciascuna di esse una maggior cono-

scenza degli interessi, delle ragioni e della forza dell'altra e rende più calcolabile e razionale il processo di

definizione delle azioni formative.

Occorre sottolineare che la logica dell’equità e la logica dell’efficienza non sono necessariamente oppo-

ste, anzi nel campo della formazione spesso l’una sostiene l’altra (il che, non a caso, rende più facile, ri-

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spetto ad altri temi, la negoziazione tra le parti sociali): se un gruppo di lavoratori, ad esempio, di donne

part-time, riceve una quantità e qualità della formazione minori di quelle fruite da un corrispondente

gruppo, al fine di renderlo efficiente, allora un intervento correttivo in nome dell’equità realizza, in realtà,

anche una maggiore efficienza. I benefici vanno tanto all’impresa quanto ai lavoratori. Non sempre, però,

la situazione è così “armonica” e vi possono essere situazioni nelle quali efficienza e equità sono conciliabi-

li solo sulla base di un compromesso: si pensi, ad esempio, al caso di un gruppo lavoratori anziani, a bassa

qualificazione, che un’impresa in prospettiva non intende più utilizzare in quanto prevede di attuare una

ristrutturazione con riduzione del personale e impiego di lavoratori con nuove e più elevate competenze:

in questo caso la logica dell’efficienza aziendale suggerisce di non inserirli in attività formative, la logica

dell’equità sostiene che occorra riqualificarli per renderli comunque impiegabili, se non nel mercato inter-

no del lavoro, in quello esterno. La logica dell’equità può avvalersi anche di un argomento proprio della

nozione di responsabilità sociale dell’impresa: in estrema sintesi, si può dire che, come vi è una responsa-

bilità dell’impresa nel creare condizioni di lavoro favorevoli al mantenimento della salute psico-fisica del

lavoratore, allo stesso modo vi è una responsabilità dell’impresa nel mantenere impiegabili nel tempo le

competenze professionali di un lavoratore.

Quello che possiamo constatare è che il modello della produzione snella e la correlata politica formati-

va sembrano non solo confermare, ma rafforzare le ragioni sopra richiamate, secondo le quali le parti so-

ciali possano giocare un ruolo utile nella governance delle politiche formative. In particolare, la negozia-

zione a livello aziendale favorisce la ricerca di soluzioni efficienti ed eque, proprio perché i giochi negoziali

possono svolgersi, ancor più del passato, secondo una logica a somma positiva, infatti nelle nuove forme di

organizzazione della produzione la formazione assolve un ruolo cruciale: essa serve all’impresa per miglio-

rare la sua produttività e la redditività dell’impresa, nel contempo, rafforza le opportunità di stabilità oc-

cupazionale, di miglioramento salariale e di progressione professionale e di carriera dei lavoratori. Inoltre,

poiché la partecipazione per i lavoratori comporta spesso anche un costo immateriale significativo, in ter-

mini di impegno intellettuale, sforzo psicologico e stress cognitivo, a fronte di risultati percepiti come in-

certi, il carattere concordato delle iniziative può aumentare la loro “reputazione” di utilità e favorire, quin-

di, una partecipazione più attiva ai processi di apprendimento, aumentandone, di conseguenza l’efficienza.

Le osservazioni sopra richiamate fanno riferimento ad una interpretazione stilizzata del ruolo delle

parti sociali, nella realtà si osservano alcuni scostamenti rispetto al modello atteso e alcune criticità nel

funzionamento del sistema di relazioni industriali. È necessario precisare che, anche in questo ambito te-

matico la ricerca, in ragione della sua impostazione – ricorso ad interviste rivolte prevalentemente a re-

sponsabili aziendali e solo in misura molto limitata a sindacalisti e in nessun caso a lavoratori –, non è in

grado di analizzare in modo empiricamente fondato il ruolo delle parti sociali nelle politiche di formazio-

ne continua, ma si limita a trarre alcuni spunti interpretativi dalle dichiarazione raccolte, che possono es-

sere considerati indizi, non certo prove, di una situazione.

La prima criticità è rappresentata dalla frammentazione dei Fondi Interprofessionali e dalla sostanziale

mancata integrazione tra politiche formative dei Fondi e le politiche dell’attore pubblico (Regione e Pro-

vince). Ne deriva un uso non razionalizzato delle risorse, a causa delle possibili duplicazioni delle linee di

intervento e all’eterogeneità delle procedure amministrative di utilizzo dei fondi di finanziamento, che

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sconcerta le imprese. La pesantezza delle procedure amministrative aumenta, poi, la propensione ad ab-

bandonare le iniziative dell’attore pubblico. È una situazione, a cui abbiamo già accennato, di cui tutti gli

attori in gioco sono consapevoli (governi locali, associazioni datoriali, sindacati), tuttavia ben poco è stato

fatto per cambiarla: sembra essersi creata una tipica situazione di stallo, sebbene vengano segnalati alcuni

positivi esempi di cambiamento come i Piani d’area, le Azioni speciali, l’esperienza dell’apprendistato.

Appare plausibile che l’iniziativa per sbloccare la situazione, al di là delle molteplici cause che ne stanno

alla base, debba venire dal soggetto pubblico, in ragione del ruolo istituzionale ricoperto e delle “risorse

politiche” che può mobilitare, creando un quadro di convenienza su cui possano convergere tutti gli attori.

Una seconda criticità è rappresentata dal ruolo spesso qualitativamente poco incisivo svolto dalle rap-

presentanze sindacali nella definizione concordata delle iniziative formative a livello aziendale. Semplifi-

cando un poco la descrizione possiamo osservare che é assai diffusa la situazione in cui l’impresa elabora

un progetto formativo, lo sottopone alla rappresentanza sindacale che lo sottoscrive, senza fornire partico-

lari contributi. La debole propositività del sindacato è richiamata in molte dichiarazioni di dirigenti

aziendali, sebbene spesso l’interazione con la rappresentanza sindacale avvenga nella dimensione informale

delle relazioni industriali; informalità che non sembra essere necessariamente sinonimo di debolezza sin-

dacale, ma modalità con cui il ruolo sindacale viene esercitato giorno dopo giorno: forzando forse un poco

l’interpretazione, possiamo dire che anche l’azione sindacale sul luogo di lavoro diventa più lean. Afferma

un dirigente di una media impresa:

I sindacati non ci sollecitano, bene o male abbiamo sempre un piano formativo abbastanza corposo. Se

riusciamo a ottenere il finanziamenti lo mettiamo in atto tutto, altrimenti facciamo quello che si può.

Suggerimenti non ne arrivano molti dal sindacato, neanche sul tema dell’ambiente di lavoro. Non ci

hanno mai chiesto cose particolari. Forse perché tutti i corsi previsti sulla sicurezza, ambiente, li ab-

biamo fatti. Devo dire che abbiamo un rapporto abbastanza buono, discorsivo, si cerca di capire quali

sono i problemi e risolverli. [Il sindacato, n.d.r.] ha fatto osservazioni su determinati macchinari, sulla

gestione della mensa, sulla sala infermeria. Sull’organizzazione del lavoro non più di tanto. È anche

vero che magari lo fa, ma in maniera informale. Se ci sono delle problematiche ci si parla senza richie-

dere degli incontri formali; si risolve. Da quel punto di vista abbiamo una struttura da piccola azienda,

molto colloquiale, che probabilmente è risolutiva.

Non molto diversa la sintetica dichiarazione di un dirigente di una PMI:

[Il sindacato, n.d.r.] non è belligerante, ma proattivo assolutamente no.

Nel campo della formazione sui temi dell’ambiente e della sicurezza del lavoro i sindacati dimostrano

una maggiore capacità di progettazione e di proposta, e solitamente sono considerati interlocutori impor-

tanti e competenti dalle direzioni aziendali. A questo proposito un osserva un dirigente sindacale:

Su salute e sicurezza abbiamo realizzato, attraverso un accordo sindacale e la costituzione di un orga-

nismo bilaterale, un progetto: sono state realizzate parecchie attività in questi ultimi tre anni per riu-

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scire a intervenire sui comportamenti all’interno degli stabilimenti e migliorare l’attenzione, la sensibi-

lità, e anche poi i risultati per tutelare l’assoluta sicurezza delle persone. È stato un aspetto innovativo

anche per le modalità, si sono fatti dei canteri pilota mettendo in relazione il lavoratore con il direttore

dello stabilimento, con il medico competente, facendo dei gruppi che con una certa libertà esprimes-

sero i problemi.

In generale, sembra debole quel rapporto virtuoso e circolare tra istanze di efficienza e istanze di equi-

tà, realizzato per via negoziale, che dovrebbe fornire un valore aggiunto alla qualità della iniziative forma-

tive. Gli stessi sindacati sembrano rendersi conto della scarsa incisività del loro ruolo, sebbene la firma de-

gli accordi, quindi il loro consenso, sia una condizione di ammissibilità del progetto al finanziamento. Af-

ferma un dirigente sindacale:

Noi sindacati cerchiamo di non accontentarci solo della firma, l’obiettivo dovrebbe essere quello di es-

sere propositivi: provare a fornire opportunità a tutti, presidiare con attenzione la non discriminazione

rispetto alla formazione […] L’azienda comunque realizza dei propri momenti ovviamente a prescin-

dere dal rapporto con i sindacati e con i rappresentanti in azienda.

È possibile ipotizzare più spiegazioni di questa situazione. Ne richiamiamo alcune che sembrano par-

ticolarmente pertinenti ad una riflessione sulla politiche di formazione. Innanzi tutto, è possibile che i

sindacati esperiscano un’asimmetria informativa sull’insieme del processo di innovazione: obiettivi, inve-

stimenti, modalità attuative, cronoprogramma, ricadute professionali e salariali, ecc. Ciò rende più diffici-

le alla rappresentanza sindacale cogliere le interdipendenze tra programma di innovazione in generale e

azioni formative in particolare, con la conseguente difficoltà a intervenire con cognizione di causa. Un se-

condo elemento è riconducibile alla cultura manageriale e all’impostazione delle politiche di gestione del

personale: accanto ad aziende che puntano su un forte coinvolgimento del sindacato, soprattutto sulle te-

matiche che riguardano gli operai, vi sono altre aziende che sembrano assumere un orientamento opposi-

tivo che rende difficile alle rappresentanze sindacali di insediarsi o di svolgere un ruolo significativo, come

testimonia, ad esempio, la risposta di un dirigente di PMI alla domanda se nella sua azienda vi sia una rap-

presentanza sindacale:

No, parliamo con le persone. Il dialogo è vivo e non necessita di intermediari.

Le difficoltà del sistema di relazioni industriali a intervenire sui processi di’innovazione sono così rac-

contate da un sindacalista:

La mentalità è: “Noi come manager abbiamo individuato un percorso, abbiamo preso delle decisioni,

tu sindacato ti devi adeguare, devi accompagnare quel processo, spiegare ai lavoratori che bisogna fare

per forza così, ma non sei più, non lo sei mai stato, un interlocutore. Non rappresenti un punto di vi-

sta dei lavoratori”. Se provi a rappresentare quel punto di vista non viene preso in considerazione. Pur-

troppo è la storia cruda di questi ultimi anni. [Perché non riuscivate a contrattare?, n.d.r] Per i rappor-

ti di forza. Noi le proposte le abbiamo sempre fatte rispetto alla formazione, che cosa metterci dentro,

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magari anche per dei percorsi di incentivazione alla formazione che abbiano uno sbocco per il lavora-

tore, banalmente un passaggio di livello. Molte volte ci siamo accontentati di mediazioni di più basso

profilo: decidere quali tematiche della formazione, quali e quanti lavoratori devono far parte della

formazione. L’azienda in alcuni casi ha un occhio di riguardo verso le figure che hanno più responsa-

bilità, e non all’operaio di terzo livello.

Un terzo elemento che indebolisce l’azione sindacale è legato ad una inadeguata competenza negoziale

della rappresentanza. Il confronto tra parti sociali sulla formazione continua richiede conoscenze e capaci-

tà specifiche che non sempre sono possedute dai negoziatori sindacali: poiché la formazione continua vie-

ne considerata, comunque, una risorsa di cui beneficiano i lavoratori appare meno urgente, in una scala di

priorità degli interventi, attrezzarsi per intervenire efficacemente. E così, la situazione si perpetua.

Infine, occorre segnale un’ultima criticità di ordine generale, non strettamente riconducibile, seppur

collegata, alla questione del rapporto tra innovazione e formazione: il possibile uso della cassa integrazione

per fare formazione. Gli elementi raccolti dall’indagine non solo confermano il noto fenomeno dello scar-

so utilizzo dei periodi di cassa integrazione a fini formativi (salvo i casi della CIGS per crisi aziendale con

cessazione di attività e la CIG in deroga, contrassegnato da specifiche problematiche), ma evidenziano che

neppure l’aumento delle esigenze formative legate all’innovazione modifica questo stato di fatto. La cassa

integrazione, salvo casi abbastanza limitati, continua a non essere colta come un’opportunità, necessitata e

non certo gradita, per organizzare la formazione, in assenza del vincolo del costo delle ore di mancata

produzione. Eppure il fenomeno della cassa integrazione negli ultimi anni è stato massiccio in Piemonte,

ancor più che a livello nazionale, e non di rado si è intrecciato, almeno nelle aziende più dinamiche, sep-

pur colpite dalla crisi economico-finanziaria, con progetti di ammodernamento dell’apparato produttivo e

dell’organizzazione del lavoro. Le esperienze formative condotte con lo strumento della CIG in deroga ap-

paiono interessanti e meritevoli di riflessione, così come alcune esperienze di uso “attivo” dei contratti di

solidarietà anche a fini formativi. Dichiara in proposito un dirigente di PMI:

Il contratto di solidarietà era solo per gli impiegati. Oggettivamente c’è stata un’adesione molto buo-

na, anche perché è stato apprezzato il fatto che la solidarietà fosse unita alla formazione. Di fatto è

una grande opportunità di presa di coscienza maggiore delle persone e dei processi sui quali operano.

Veniva fatta di venerdì, nella giornata di solidarietà in cui nessuno lavorava.

Tuttavia, in generale si è assistito ad un processo di “passivizzazione” delle politiche passive di cui oc-

correrebbe analizzare più a fondo le cause per trovare possibili rimedi. Tali cause sono in parte riconduci-

bili alla normativa sugli aiuti di stato e alle modalità di calcolo del cofinanziamento delle imprese alle atti-

vità formative finanziate tramite il Fondo Sociale Europeo [normativa che forse richiederebbe di essere

ripensata, n.d.r], tuttavia in parte potrebbero derivare anche da deficit nelle politiche del lavoro e della

formazione concertate tra parti sociali e governi locali. Purtroppo, le dichiarazioni raccolte tra i dirigenti

delle imprese interpellati non offrono molte indicazioni sui possibili rimedi, tuttavia, sembrano indicare

un apprezzamento per la prospettiva di utilizzare la CIG per la formazione:

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Si, siamo in un regime di cassa da diversi anni. Chi più chi meno siamo tutti coinvolti, facciamo pa-

recchie ore di cassa. Se uno potesse fare formazione sarebbe una bella cosa.

È auspicabile che gli attori della governance locale delle politiche della formazione e del lavoro possa

individuare in futuro efficaci misure per meglio “attivizzare” le politiche passive del lavoro e sostenere, an-

che per questa via, l’innovazione delle imprese.

HIGHLIGHTS

• Sostenere i progetti innovativi di tipo sistemico che combinino misure di sviluppo di reti di colla-

borazione tra imprese, tra imprese ed enti di ricerca (di processi di learning by network) e misure di

riorganizzazione della produzione e del lavoro (di processi di learning by integration); che rafforzi-

no congiuntamente le reti di collaborazione tra imprese di tipo sia verticale che orizzontale.

• Sostenere progetti innovativi che combinino in modo congruente misure di innovazione tecnologi-

ca, riorganizzazione del lavoro e nuove forme di gestione del personale.

• Sostenere i progetti formativi collegati ai progetti sistemici di innovazione, anziché singole misure

di formazione, ancorché innovative in sé.

• Favorire l’integrazione tra le politiche di formazione dei soggetti pubblici e le politiche dei Fondi

Interprofessionali; velocizzare l’evasione delle richieste di finanziamento delle attività formative,

snellire e rendere più efficaci i sistemi di controllo sull’uso delle risorse.

• Sostenere i progetti formativi che sappiamo coniugare esigenze di efficienza con esigenze di equità

sociale attraverso idonee misure.

• Sostenere i progetti formativi che integrino la filiera innovativa del processo di formazione: attività

consulenziale sulla riorganizzazione di produzione e lavoro, analisi dei fabbisogni, erogazione della

formazione, valutazione dei risultati in termini sia di apprendimento che di risultati produttivi.

• Sostenere progetti formativi che favoriscano lo sviluppo di sistemi aziendali strutturati di gestione

delle competenze: mappatura delle competenze, valutazione dei fabbisogni, misure a sostegno della

motivazione ad apprendere.

• Sostenere l’intreccio tra formazione off the job e la formazione on the job e i progetti che prevedano

attività strutturate di formazione tramite il lavoro.

• Rivedere i parametri del costo orario della formazione in relazione alle macro-tipologie di corsi.

• Rivedere la distinzione tra formazione generale e formazione specifica, in modo da favorire lo svi-

luppo di progetti formativi personalizzati sulle esigenze delle singole imprese.

• Sostenere i progetti formativi che favoriscano la creazione all’interno delle imprese di strutture di

formazione e di trainers.

• Sostenere un uso più attivo della cassa integrazione tramite lo svolgimento di attività formative.

• Promuovere iniziative per aumentare il livello di expertise dei rappresentanti delle parti sociali nella

negoziazione decentrata della formazione.

• Promuovere interventi formativi per diffondere tra gli imprenditori e i manager delle PMI le com-

petenze di base sui high performance work systems.

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Torino Nord Ovest srl impresa sociale è il centro fondato dall’Associazione Torino

Internazionale per svolgere attività di studio, consulenza, valutazione e proposta nel

campo della ricerca socioeconomica. Luogo di elaborazione di saperi applicabili e circo-

lazione di idee, Torino Nord Ovest si propone di accrescere l’informazione e favorire il

dibattito qualificato sui principali temi dell’agenda locale, ancorandoli a una produzione

originale di dati, analisi, visioni.

Il centro fotografa e approfondisce una pluralità di aspetti e settori – dall’economia al

lavoro, dalle reti territoriali allo sviluppo locale e urbano, dalle rappresentanze alla cultu-

ra – con due punti fermi: la specializzazione territoriale nel nordovest italiano, dove si

trovano le realtà più produttive e le forze più innovatrici del paese, e l’indagine dei fe-

nomeni sociali ed economici nella loro reciproca relazione.

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