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LEADER Lavoro e occupazionE senzA Discriminazioni Etniche e Religiose PS IT-S2-MDL-272 MACROFASE 1 IL DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE NEL DIRITTO COMUNITARIO A cura di Chiara Favilli Indice 1. I divieti di discriminazione nel Trattato sulla Comunità europea ................... 2 2. Il divieto di discriminazione per motivi di nazionalità ...................................... 2 3. Il divieto di discriminazione per motivi di sesso ............................................... 6 4. L'articolo 13 T CE ................................................................................................ 8 5. Le direttive 2000/43 e 2000/78 ............................................................................ 10 5.a. La nozione di discriminazione ....................................................................... 10 5.b. Le giustificazioni oggettive ........................................................................... 14 5.c. Le azioni positive ........................................................................................... 18 5.d. L'onere della prova ......................................................................................... 19 5.e. La protezione delle vittime ............................................................................. 21 6. La direttiva 2000/43 sulla parità di trattamento per ragioni connesse alla razza o all'origine etnica in particolare ....................................................................... 22 6.a. L'ambito di applicazione ................................................................................ 22 6.b. La questione del trattamento dei cittadini di Paesi terzi ................................ 24 6.c. L'istituzione dell'organismo di promozione della parità di trattamento ......... 27 7. Il Programma d'azione ....................................................................................... 28 BIBLIOGRAFIA .................................................................................................... 31

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LEADERLavoro e occupazionE senzA Discriminazioni Etniche e

Religiose

PS IT-S2-MDL-272

MACROFASE 1

IL DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE NEL DIRITTO COMUNITARIO

A cura di Chiara Favilli

Indice

1. I divieti di discriminazione nel Trattato sulla Comunità europea ................... 2

2. Il divieto di discriminazione per motivi di nazionalità ...................................... 23. Il divieto di discriminazione per motivi di sesso ............................................... 64. L'articolo 13 T CE ................................................................................................ 85. Le direttive 2000/43 e 2000/78 ............................................................................ 10 5.a. La nozione di discriminazione ....................................................................... 10 5.b. Le giustificazioni oggettive ........................................................................... 14 5.c. Le azioni positive ........................................................................................... 18 5.d. L'onere della prova ......................................................................................... 19 5.e. La protezione delle vittime ............................................................................. 21

6. La direttiva 2000/43 sulla parità di trattamento per ragioni connesse alla razza o all'origine etnica in particolare ....................................................................... 22 6.a. L'ambito di applicazione ................................................................................ 22 6.b. La questione del trattamento dei cittadini di Paesi terzi ................................ 24 6.c. L'istituzione dell'organismo di promozione della parità di trattamento ......... 27

7. Il Programma d'azione ....................................................................................... 28

BIBLIOGRAFIA .................................................................................................... 31

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1. I divieti di discriminazione nel Trattato sulla Comunità europeaIl Trattato sulla Comunità europea all’art. 12 dispone che “nel campo di applicazione delpresente trattato, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dallo stesso previste, èvietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”1. Il concetto di nazionalità èstato interpretato nel senso di includervi oltre alla cittadinanza delle persone fisiche anche lasede sociale delle persone giuridiche o l’origine dei prodotti, dei servizi o dei capitali. Non èstata inclusa invece la cittadinanza di un Paese terzo. A questa affermazione generale deldivieto di discriminazione sulla base della nazionalità fanno seguito divieti specificienunciati nella parte terza del Trattato sulle politiche della Comunità. In particolare il titolo Isulla libera circolazione delle merci impone il divieto dei dazi doganali all’importazione eall’esportazione e di qualsiasi tassa di effetto equivalente (art. 23 T CE) così come il divietodi restrizioni quantitative all’importazione e all’esportazione nonché qualsiasi altra misura dieffetto equivalente (art. 28 e 29 T CE). Il titolo II, sulla politica agricola, dispone all’art. 34,par. 3, che l’organizzazione comune dei mercati agricoli “deve limitarsi a perseguire gliobiettivi enunciati nell’articolo 33 e deve escludere qualsiasi discriminazione fra produttori oconsumatori della Comunità”. Il titolo III sulla libera circolazione delle persone, dei servizi edei capitali sancisce all’art. 39 che la libera circolazione dei lavoratori “implica l’abolizionedi qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri”mentre gli articoli 43 e 49 sanciscono il divieto di restrizioni alla libera prestazione deiservizi e alla libertà di stabilimento. L’art. 56 contiene il divieto di restrizioni allacircolazione dei capitali e pagamenti. Gli artt. 81 e ss. sono volti a garantire il correttodispiegarsi della concorrenza tra i soggetti economici. Infine l’art. 95 vieta qualsiasidiscriminazione attuata attraverso trattamenti fiscali diversi applicati a prodotti simili. Talidisposizioni sono volte complessivamente a garantire che i fattori di produzione e di scambiopossano competere e circolare nel mercato europeo senza ostacoli dovuti a differenze ditrattamento in ragione dello Stato d’origine. Il divieto di discriminazione, in questo contesto,non costituisce un fine dell’azione comunitaria, ma svolge una funzione strumentale allarealizzazione del mercato comune e si caratterizza per avere una natura spiccatamenteeconomica.Accanto a queste norme, nel Trattato CE è stato inserito all’art. 141 il principio della paritàdi retribuzione in ragione del sesso. Come vedremo si tratta di una norma destinata asvolgere un ruolo diverso rispetto ai divieti di discriminazione in base alla nazionalitàconfigurandosi sin dalle origini come norma dalla duplice natura, economica e sociale.La Corte ha poi riconosciuto ai divieti di discriminazione efficacia diretta, sia verticale cheorizzontale, così che l’effetto utile delle disposizioni del Trattato non sia pregiudicato da attidiscriminatori compiuti da privati o dalla inadeguata attuazione da parte del legislatorenazionale2. Essa ha, inoltre, precisato il contenuto delle norme sia primarie che secondarie inmateria di discriminazione.Infine con il Trattato di Amsterdam è stato inserito nel Trattato CE l’art. 13 riguardante ilconferimento di poteri al Consiglio per contrastare la discriminazione per i motivi di sesso,razza e origine etnica, religione e convinzioni personali, età, handicap e orientamentosessuale. Si tratta di una norma a vocazione sociale volta a tutelare tutte le persone che sitrovino nel territorio della Comunità.

1 Il concetto di nazionalità è stato interpretato nel senso di includervi oltre la cittadinanza dellepersone fisiche anche la sede sociale delle persone giuridiche o l’origine dei prodotti, dei servizi o deicapitali. Non è stata inclusa invece la cittadinanza di un Paese terzo.2 Una norma comunitaria può produrre effetti diretti quando è chiara, precisa e incondizionata; quandosi verifichino tali condizioni chiunque può agire nei confronti delle autorità pubbliche (effetto direttoverticale; sentenza van Gend & Loos, 5 febbraio 1963, causa 26/62, in Raccolta, 1963, p. 1) o neiconfronti dei privati (effetto diretto orizzontale; sentenza Walrave, 12 dicembre 1974, causa 36/74, inRaccolta, 1974, p. 1405) per far valere un diritto derivante dal diritto comunitario senza necessità chevi sia una specifica attuazione ad opera di altra norma comunitaria o nazionale. La Corte di giustiziaha sinora escluso che le direttive possano produrre effetti diretti orizzontali (Sentenza Marshall, 26febbraio 1986, causa 152/84, in Raccolta, 1986, p. 723); analoga esclusione si può estendere peranalogia alle decisioni rivolte agli Stati. Si veda G. Gaja, Introduzione al diritto comunitario, Bari,2005, p. 101, 110 e 113.

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2. Il divieto di discriminazione per motivi di nazionalitàL’art. 12 del Trattato CE recita: “Nel campo di applicazione del presente Trattato, e senzapregiudizio delle disposizioni particolari dallo stesso previste, è vietata ogni discriminazioneeffettuata in base alla nazionalità. Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cuiall’articolo 251, può stabilire regole volte a vietare tali discriminazioni”. Si tratta di undivieto di discriminazione generale rispetto alla cittadinanza che opera “nel campo diapplicazione del Trattato” e salvo le disposizioni specifiche contenute nello stesso. Ognifattispecie che ricada nell’ambito di applicazione del diritto comunitario è soggetta alprincipio di non discriminazione in base alla cittadinanza3. La Corte di Giustizia haaffermato che il divieto contenuto nell’art. 12 T CE “richiede la perfetta parità ditrattamento, negli Stati membri, tra i soggetti che si trovano in una posizione disciplinata daldiritto comunitario e i cittadini dello Stato membro in questione”4. Ma l’ambito diapplicazione dell’art. 12 e delle norme che ne costituiscono specificazione, è stato definitosoprattutto dalla Corte di Giustizia che lo ha esteso interpretando sempre più estensivamentele nozioni rilevanti di lavoratore, prestatore di servizi e le disposizioni sulla cittadinanzaeuropea. Poiché infatti il divieto di discriminazione in base alla cittadinanza si applica aqualsiasi situazione rientrante nell’ambito di applicazione del diritto comunitario,all’estensione delle situazioni comunitariamente rilevanti corrisponde un’analoga estensionedell’ambito di operatività del divieto di discriminazione.A questo proposito rileva la sentenza Luisi e Carbone con la quale la Corte ha interpretato lenorme sulla libera circolazione dei servizi in modo da aumentarne in maniera considerevole isoggetti destinatari5. Il caso riguardava due cittadini italiani che erano stati sanzionati peraver acquisito valuta estera superiore al massimo consentito dalla legge italiana, al fine diesportarla per motivi di turismo e di cure mediche. La Corte ha affermato che le attività diturismo e di cure mediche devono essere considerate come attinente alla prestazione di unservizio ai sensi dell’art. 60 del Trattato sia per quanto riguarda i prestatori che i fruitori, valea dire gli stessi turisti. Restrizioni in materia di pagamenti, come quella oggetto della causa aqua, si configuravano come limiti all’ esercizio della libertà di fruire servizi, vietati dall’art.59 del Trattato. L’estensione delle norme del Trattato sulla libera circolazione dei servizi aituristi ha evidentemente ampliato l’ambito di applicazione materiale di tali norme e, quindi,posto le premesse affinché si potesse avere un ampliamento dell’ambito di applicazionedell’art. 12 T CE. Ciò è avvenuto la prima volta con la sentenza Cowan, concernente ildiniego di un indennizzo da parte dell’amministrazione francese ad un turista britannico cheaveva subito un’aggressione a Parigi da parte di ignoti6. La Corte afferma che “allorché ildiritto comunitario garantisce la libertà per le persone fisiche di recarsi in un altro Statomembro, la tutela dell’integrità personale in detto Stato membro costituisce alla stessastregua dei cittadini e dei soggetti che vi risiedano, il corollario della libertà di circolazione.Ne consegue che il principio di non discriminazione va applicato ai destinatari dei servizi aisensi del Trattato quanto alla protezione contro i rischi di aggressione ed il diritto di ottenereuna riparazione pecuniaria contemplata dal diritto nazionale allorché un’aggressione si siaverificata”7. Un’altra sentenza recente della Corte si caratterizza per l’interpretazioneparticolarmente estensiva delle norme sulla libertà di circolazione dei servizi. La sentenzaCarpenter concerne un provvedimento di espulsione emesso nei confronti di una cittadinafilippina coniuge di un cittadino britannico8. La signora Carpenter impugna il provvedimentodi espulsione sostenendo che esso pregiudica la possibilità del sig. Carpenter di svolgere lapropria attività di fornire e ricevere servizi così limitando una delle libertà fondamentaliriconosciute dall’art. 49 T CE. Secondo la Corte in effetti il sig. Carpenter esercita un’attivitàche rientra nella prestazione dei servizi come disciplinata dall’art. 49 T CE che tutela sia neiconfronti dello Stato di destinazione sia nei confronti del proprio Stato d’origine quandol’imprenditore offre i servizi a destinatari stabiliti in un altro Stato membro. Inoltre il dirittocomunitario garantisce la tutela della vita familiare dei cittadini comunitari in funzionedell’esercizio delle libertà fondamentali riconosciute nel Trattato. La separazione dei coniugi

3 Sentenza del 26 settembre 1996, Data Delecta, C-43/95, in Raccolta, 1996, p. I-4661.4 Sentenza Data Delecta, cit., par. 16.5 Sentenza 31 gennaio 1984, Luisi e Carbone, C-286/82 e C-26/83, in Raccolta, 1984, p. 377 e ss.6 Sentenza del 2 febbraio 1989, Cowan, c-186/87, in Raccolta, 1989, p. 195 e ss.7 Sentenza Cowan, cit., par. 17.8 Sentenza del 11 luglio 2002, Carpenter, C-60/00, in Raccolta, 2002, p. I-6279.

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Carpenter nuocerebbe alla loro vita familiare e, conseguentemente, alle condizioni diesercizio di una libertà fondamentale da parte del sig. Carpenter. Infatti tale libertà nonpotrebbe esplicare pienamente i suoi effetti se il sig. Carpenter fosse dissuaso dall’esercitarlaa causa degli ostacoli frapposti, nel suo Paese di origine, all’ingresso e al soggiorno di suamoglie. La Corte precisa che le deroghe all’esercizio di una libertà fondamentale devonorispettare i diritti fondamentali9. Secondo la Corte l’espulsione della sig. Carpentercostituisce un’ingerenza nella vita privata e familiare del sig. Carpenter tutelata dall’art. 8della CEDU che fa parte dei diritti fondamentali tutelati nell’ordinamento giuridicocomunitario10. La Corte, riconosciuta la situazione in oggetto come rilevante per il dirittocomunitario, applica la giurisprudenza tradizionale in materia di deroghe all’esercizio dellelibertà fondamentali. Esse per essere ammissibili devono rispettare il diritto comunitariocompresi i principi generali e i diritti fondamentali che la Corte trae soprattutto dallaConvenzione europea dei diritti umani. La Corte ha così ammesso che le norme sui servizipossono essere invocate nei confronti del proprio Stato da parte dei fornitori di servizi di“dimensione comunitaria”, così sindacando un atto statale incidente sulla vita privata efamiliare di un cittadino comunitario pur residente e soggiornante con la famiglia nel proprioPaese di cittadinanza. La sentenza Carpenter pur non direttamente concernente il divieto didiscriminazione è tuttavia rilevante in quanto la Corte, ampliando le categorie di situazionialle quali deve essere applicato il diritto comunitario, amplia anche l’ambito di applicazionedel divieto di discriminazione. Si tratta di una giurisprudenza di notevole importanza anche aproposito del fenomeno delle discriminazioni al rovescio di cui parleremo più avanti al par.II.4.a.Gli artt. 39-55 del Trattato disciplinano la libera circolazione delle persone sia che svolganoattività di lavoro subordinata (artt. 39-42) sia che svolgano attività autonoma (artt. 43-48)11.L’art. 39 T CE prevede “l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità,tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altrecondizioni di lavoro”12. Sono stati così emanati tra gli anni ‘60 e ‘70 alcuni atti volti asopprimere le restrizioni all’accesso all’occupazione ed a garantire il godimento paritario didiritti in capo ai lavoratori comunitari13.

9 ERT, del 18 giugno 1991, C-260/89, in Raccolta, 1991, p. I-2925; n. 25; sentenza Familiapress, del26 giugno 1997, C-368/95, in Raccolta, 1997, p. I-3689.10 La Corte esamina poi le eccezioni di ordine pubblico e pubblica sicurezza, per escludere che sisiano verificate nel caso in esame, e accerta che il matrimonio è autentico e che i coniugi conduconouna vita familiare effettiva.11 La Corte ha riconosciuto che tali disposizioni producono effetti diretti sia verticali che orizzontaliSentenza del 4 aprile 1974, Commissione c. Francia, C-163/73, in Raccolta, 1974, pp. 359 e ss.;sentenza del 4 dicembre 1974, Van Duyn, C-41/74, in Raccolta, 1974, p. 1337; sentenza del 12dicembre 1974, Walrave, C-36/74, in Raccolta, 1974, p. 1405 e ss.; e, C-281/98; sentenza del 6giugno 2000, Angonese, C-281/98, in Raccolta, 2000, p. 4139; sentenza del 7 maggio 1998, CleanCar, C-350/96, in Raccolta, 1998, p. I-02521. La Corte di Giustizia ha provveduto a fornire unadefinizione “comunitaria” di lavoratore che comprende qualsiasi attività economica ossia un’attivitàsvolta in cambio di una remunerazione. Essa si applica anche a coloro che cercano lavoro, ma non incaso di perdita di lavoro salvo la concessione di un periodo di tempo per la ricerca di una nuovaoccupazione (minimo tre mesi). Sentenza del 31 maggio 1989, Bettray, C-344/87, in Raccolta, 1989,p. 1621 e ss.; sentenza del 3 giugno 1986, Kempf, C-139/85, in Raccolta, 1986, p, 1741 e ss.12 Ciò comporta “il diritto: a) di rispondere a offerte di lavoro effettive, b) di spostarsi liberamente atal fine nel territorio degli Stati membri, c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine disvolgervi un’attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari eamministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali, d) di rimanere, a condizioniche costituiranno l’oggetto di regolamenti di applicazione stabiliti dalla Commissione, sul territorio diuno Stato membro, dopo aver occupato un impiego. Gli artt. 40-42 T CE prevedono poi normespecifiche per la realizzazione di tale libertà.13 Regolamento n. 1612/68 del 15 dicembre 1968 sulla circolazione dei lavoratori all’interno dellaComunità europea (in GUCE L 257 del 19/10/1968, pp. 2-12); direttiva sulla soppressione dellerestrizioni all’ingresso e al soggiorno dei lavoratori e dei loro familiari (direttiva 68/360 del 15 ottobre1968, in GUCE L 257 del 19/10/1968, pp. 13-16); direttiva sui limiti all’ingresso e al soggiorno(direttiva 64/221 del 25 febbraio 1964, in GUCE L 056 del 04/04/1964, pp. 850-857). Si ricorda ancheil regolamento n. 1251/70 sul diritto a trattenersi nel Paese nel quale il lavoratore ha esercitato attivitàlavorativa (regolamento 1251/70 del 21 giugno 1970, in GUCE L 142 del 30/06/1970, pp. 24-26) e ilregolamento 1408/71 sull’armonizzazione dei sistemi di sicurezza sociale (regolamento n. 1408/71 del

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In particolare il regolamento n. 1612/68 vieta tutte le discriminazioni fondate sullacittadinanza al fine di consentire al lavoratore di potersi stabilire in un altro Stato membrocon la propria famiglia e di essere integrato senza alcuna differenza di trattamento rispetto aicittadini dello Stato ospite. Il titolo II del regolamento concerne l’uguaglianza di trattamentodei lavoratori che si realizza in ogni condizione dell’occupazione e del lavoro ed inparticolare rispetto alla retribuzione, al licenziamento, alla ricerca di un nuovo lavoro, altrattamento fiscale e al godimento degli stessi vantaggi sociali goduti dai lavoratorinazionali14. La Corte ha interpretato in maniera estensiva il concetto di vantaggio sociale,affermando che esso comprende qualsiasi forma di vantaggio concessa ad un lavoratorenazionale per il fatto di essere lavoratore od anche per il solo fatto di essere residente nelterritorio nazionale e che siano tali da poter incentivare la circolazione dei lavoratori15.Rientrano in tale nozione tutti i vantaggi che, legati o meno al contratto di lavoro, sonoriconosciuti al cittadino nazionale in ragione della sua qualità di lavoratore o per il semplicefatto della residenza sul territorio nazionale per cui la loro estensione ai cittadini di altri Statimembri può costituire un incentivo ed un’agevolazione all’esercizio della libertà dicircolazione16. L’art. 11 del regolamento n. 1612/68 estende alcuni diritti di cui beneficia illavoratore migrante anche ai familiari, siano cittadini comunitari o di Stati terzi. I familiari,una volta ammessi nel territorio dello Stato ospite in conformità all’art. 10 del regolamento,hanno il diritto di godere dei vantaggi sociali al pari dei cittadini di tale Stato e di esercitarequalsiasi attività lavorativa. In particolare i figli possono accedere a qualsiasi forma diistruzione anche usufruendo delle agevolazioni che quello Stato garantisce ai propricittadini17.Analoghe considerazioni possono essere svolte circa le altre due componenti della libertà dicircolazione dei lavoratori vale a dire la libertà di stabilimento e di circolazione dei servizi.Recentemente la Corte con la sentenza Baumbast ha cambiato il proprio orientamento circal’efficacia diretta dell’art. 18 T CE. Si tratta di una importante innovazione che, comeavvenuto nella sentenza Carpenter, può determinare una estensione dei beneficiari del dirittoalla circolazione e al soggiorno e, quindi, anche del divieto di discriminazione ai sensidell’art. 12 T CE. Il caso riguarda un cittadino tedesco che, dopo aver lavorato comedipendente e poi come autonomo nel Regno Unito, inizia a lavorare come dipendente diimprese tedesche in Stati terzi mantenendo la residenza nel Regno Unito. Il Baumbast erasposato con una cittadina colombiana con la quale aveva avuto una figlia. La signoraBaumbast aveva, inoltre, una figlia di nazionalità colombiana. Nel 1995 il Regno Unitorifiuta il permesso di soggiorno al sig. Baumbast, alla moglie e alle figlie. Conformementeall’art. 12 del regolamento n. 1612/68 le figlie della signora Baumbast godono del diritto disoggiorno nel Regno Unito al fine di ivi seguire i corsi di insegnamento generale: “infatti,non consentire ai figli di un cittadino dell’Unione che si trovino in una situazione comequella dei figli del sig. Baumbast di proseguire le scuole nello Stato membro ospitante se nonnel caso in cui fosse loro impossibile proseguirle nello Stato membro di origine non siporrebbe solamente in contrasto con la lettera dell’art. 12 del regolamento n. 1612/68, cheprevede il diritto di accesso ai corsi di insegnamento per i figli di un cittadino di uno Statomembro che sia o sia stato occupato sul territorio di un altro Stato membro, bensì anche conlo spirito di tale disposizione”18. Ciò determina anche il diritto di soggiorno della signoraBaumbast, in quanto genitore affidatario, in modo da agevolare l’esercizio del diritto deifigli, indipendentemente dal fatto che il matrimonio tra i genitori sia stato medio temporesciolto o che il genitore cittadino dell’Unione europea non sia più lavoratore migrante nelloStato membro ospitante e indipendentemente dalla cittadinanza del genitore19. Quanto ai 14 giugno 1971 in GUCE L 149 del 05/07/1971, p. 2-50).14 Si vedano in particolare gli artt. 7-8 e 9.15 Sentenza del 30 settembre 1975, Cristini, C-32/75, in Raccolta, 1975, p. 1085, par. 12; sentenza del27 maggio 1993, Schmid, C-310/91, in Raccolta, 1993, p. I-3011, par. 18; sentenza del 27 novembre1997, H. Meints, C-57/96, in Raccolta, 1997, p. I-6689, par. 39; sentenza del 27 settembre 1988,Matteucci, C-235/87, in Raccolta, 1988, p. 5589.16 Sentenza del 31 maggio 1979, Even, C-207/78, in Raccolta, 1979, p. 2019.17Sentenza del 15 marzo 1989, Echternach and Moritz, C-390/87, in Raccolta, 1989, p. 723; sentenzadel 3 luglio 1974, Casagrande, C-9/74, in Raccolta 1974, p. 773; sentenza del 13 novembre 1990, DiLeo, C-308/89, in Raccolta 1990, p. I-4185.18 Ivi, par. 54.19 Ivi, par. 73.

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signori Baumbast la Corte afferma che l’istituzione della cittadinanza europea, cherappresenta lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri, ha implicato per tutti icittadini il diritto di circolare e soggiornare liberamente negli Stati europeiindipendentemente dall’esercizio di un’attività economica; da nessuna norma del Trattato sipotrebbe ricavare che i cittadini stabilitisi in uno Stato membro per svolgervi un lavoroperdano il diritto di soggiorno una volta che l’attività lavorativa sia cessata. In particolare ildiritto di soggiorno sul territorio degli Stati membri “sancito dall’art. 18, n. 1, CE, èriconosciuto direttamente ad ogni cittadino dell’Unione da una disposizione chiara e precisadel Trattato. Per effetto del solo status di cittadino di uno Stato membro, e quindi di cittadinodell’Unione, il sig. Baumbast può quindi legittimamente invocare l’art. 18, n. 1, CE”20. Perla prima volta con questa sentenza la Corte riconosce effetto diretto all’art. 18, par. 1,ritenendola una disposizione chiara e precisa. Come è noto, affinché una norma comunitariaproduca effetti diretti occorre anche che sia incondizionata mentre l’art. 18, par. 1,espressamente recita che “tale diritto è riconosciuto alle condizioni e secondo i limiti stabilitidal Trattato e dalle norme di attuazione”. È a causa di questo inciso che la norma era stataritenuta, almeno fino a questa sentenza, come se non avesse innovato circa la portata deldiritto di circolazione e di soggiorno21. Nella sentenza Baumbast la Corte, invece, affermache “l’applicazione delle limitazioni e delle condizioni indicate dall’art. 18, n. 1, è soggetta asindacato giurisdizionale. Per questo le eventuali limitazioni e condizioni relative a talediritto non impediscono che le disposizioni dell’art. 18, n. 1, CE, attribuiscano ai singolidiritti soggettivi che essi possono far valere in giudizio e che i giudici nazionali devonotutelare”. Per quanto riguarda le limitazioni e le condizioni stabilite dalla normativa derivatarileva la direttiva 90/364/CEE relativa al diritto di soggiorno, che richiede alle personesoggiornanti, non lavoratori, di possedere risorse sufficienti e di una assicurazione contro lemalattie22. La Corte precisa che le limitazioni derivanti dall’art. 18 del Trattato e dalladirettiva 90/364/CEE si ispirano all’idea che l’esercizio del diritto di soggiorno dei cittadinidell’Unione può essere subordinato ai legittimi interessi degli Stati membri ed in particolarealla condizione che i cittadini di altri Stati membri ospiti non divengano un “onere”eccessivo per lo Stato ospitante. La Corte continua affermando che “l’applicazione di talilimitazioni e le condizioni deve essere operata nel rispetto dei limiti imposti a tal riguardodal diritto comunitario e in conformità ai principi generali del medesimo, in particolare alprincipio di proporzionalità. Ciò significa che i provvedimenti nazionali adottati a tal finedevono essere appropriati e necessari per l’attuazione dello scopo perseguito”23. La Corte haimplicitamente affermato che le limitazioni e condizioni previste dall’art. 18, n. 1, e dallanormativa derivata, non sono tali da rendere lo stesso art. 18 norma condizionata ai fini delriconoscimento dell’effetto diretto. I limiti all’esercizio del diritto di circolazione e disoggiorno, riconosciuto direttamente ad ogni cittadino europeo indipendentementedall’esercizio di un’attività economica, devono essere interpretati restrittivamente, nelrispetto dei principi generali e, in particolare, del principio di proporzionalità.La sentenza Baumbast estende così il diritto alla parità di trattamento ai cittadini comunitariche esercitino il diritto di circolazione e di soggiorno in un altro Stato membroindipendentemente dallo svolgimento di un’attività economica. Il riconoscimento dell’effettodiretto dell’art. 18 T CE rappresenta la vera novità della sentenza. Lo status del cittadinoeuropeo è riconosciuto come status effettivo, anzi, fondamentale e i diritti di circolazione edi soggiorno ne rappresentano la dimensione tipica e fortemente simbolica. Questagiurisprudenza amplia la portata del divieto di discriminazione in base alla cittadinanzaalmeno per coloro che abbiano esercitato il diritto di circolazione e di soggiorno. Ognicittadino dell’Unione potrà invocare nel territorio di un altro Stato membro il divieto didiscriminazione in base alla cittadinanza rispetto a situazioni disciplinate dal dirittocomunitario. Come già precisato il punto sarà ripreso più avanti al par. III.2.a in quantoquesto orientamento della Corte, pur non risolvendo il problema delle discriminazioni alrovescio diminuisce comunque le probabilità che esse si verifichino.

20 Par. 84.21 Wijsenbeek, cit., nota n. 13.22 Direttiva 90/364/CEE, del 28 giugno 1990, relativa al diritto di soggiorno, in GUCE L 180 del13/07/1990 pp. 26-27.23 Par. 91.

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3. Il divieto di discriminazione per motivi di sessoL’art. 141, par. 1, T CE, ora modificato dal Trattato di Amsterdam, sancisce il principio dellaparità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per unostesso lavoro o per un lavoro di pari valore, che la Corte di Giustizia ha riconosciuto comeuno dei principi fondamentali della Comunità. Nella nota sentenza Defrenne II la Corte haaffermato che “l’art. 119 [ora art. 141] si propone un duplice scopo. In primo luogo, tenutoconto del diverso grado di sviluppo della legislazione sociale nei vari Stati membri, essoserve ad evitare che, nella competizione intracomunitaria, le aziende degli Stati che hannodato pratica attuazione al principio della parità di retribuzione siano svantaggiate, dal puntodi vista della concorrenza, rispetto alle imprese degli Stati che non hanno ancora eliminato ladiscriminazione retributiva a danno della manodopera femminile”24. È stata la Francia, insede di negoziazione del Trattato, a volere che tale norma vi fosse inserita, preoccupata chele proprie imprese, già obbligate al rispetto del principio della parità di retribuzione,subissero uno svantaggio concorrenziale rispetto alle imprese degli altri Paesi membri. Lasentenza però continua affermando che “in secondo luogo, detta disposizione rientra negliscopi sociali della Comunità, dato che questa non si limita all’Unione economica, ma devegarantire al tempo stesso, mediante un’azione comune, il progresso sociale e promuovere ilcostante miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei popoli europei, come vieneposto in rilievo nel preambolo del Trattato. […] Da questo duplice scopo economico esociale, deriva che il principio della parità di retribuzione è uno dei principi fondamentalidella Comunità”25. Con la medesima sentenza la Corte di Giustizia ha riconosciuto all’art.141 T CE efficacia diretta sia verticale che orizzontale e vincolante tanto l’autorità pubblicaquanto l’autonomia privata e collettiva26. La Corte ha poi avuto occasione di affermare che,oltre a costituire un principio fondamentale della Comunità, la parità di retribuzionecostituisce un diritto umano fondamentale27. Nel vigore del testo originario dell’art. 141 TCE, l’ambito di applicazione, tuttavia, era determinato dalla limitata competenza dellaComunità, e, quindi, la disposizione non era applicabile ad elementi del rapporto di impiegodiversi dalla retribuzione28. La portata dell’art. 141 T CE è stata tuttavia ampliata dalla Corteinterpretando in maniera estensiva il concetto di remunerazione e facendovi rientrarequalsiasi tipo di vantaggio riconosciuto ai lavoratori29. In seguito alle modifiche apportate

24 Sentenza del 8 aprile 1976, Defrenne, C-43/75, in Raccolta, 1976, p. 445, par. 7/15.25 Sentenza Defrenne, cit., par. 7/15.26 “Dato che l’art. 119 [ora 141] è di natura imperativa, il divieto di discriminazione tra lavoratori disesso maschile e di sesso femminile riguarda infatti non solo le pubbliche autorità, ma vale del pariper tutte le convenzioni che disciplinano in modo collettivo il lavoro subordinato, come pure icontratti tra i singoli”. Così sent. Defrenne, cit., parr. 38-39.27 Sentenza del 15 giugno 1978, Defrenne II, C-149/77, in Raccolta, 1978, p. 1365, par. 27: “[…]l’eliminazione delle discriminazioni fondate sul sesso fa parte di tali diritti fondamentali”. Come èstato osservato: “Il concreto operare del divieto di discriminazione sulla base del sesso sta tutto dentroquesto quadro frutto di una tensione tra la natura originaria dell’art. 141, rispondente ad una logicapropriamente economica da una parte, e la vocazione a porsi come valore sociale fondamentaledall’altra. Le contraddizioni e il concreto operare di queste tensioni sono evidenti in alcune sentenzedella Corte di Giustizia chiamata sempre più spesso ad intervenire e prendere posizioni su casi limite iquali si presentano spesso come la logica conseguenza del facile utilizzo del linguaggio dei dirittiumani che proprio alla prova dell’applicazione concreta mostra tutti i suoi limiti”. Così M. Barbera,Discriminazioni ed uguaglianza nel rapporto di lavoro, Milano, 1991.28 Sent. Defrenne II, cit., par. 20: “non si può estendere la portata di detto articolo ad elementi delrapporto di impiego diversi da quelli cui esso espressamente si riferisce”. La Corte in questa stessasentenza risolve in maniera apodittica e senza approfondire la questione se la tutela della parità nelrapporto di lavoro al di là della retribuzione possa fondarsi sul principio generale di nondiscriminazione sulla base del sesso.29 Sulla nozione di retribuzione si vedano le sentenze: Freers e Speckmann, C-278/93, in Raccolta, I,p. 1165 ss; 9 febbraio 1982, Garland, C-12/81, in Raccolta, I, p. 359 ss.; sentenza del 17 maggio1990, Barber, C-262/88, in Raccolta, I, p. 1889; sentenza del 9 febbraio 1999, Seymour-Smith, inRaccolta, I, p. 623 ss.; sentenza del 28 settembre 1994, Corollor Pension Trustees LTD C-200/91, inRaccolta, I, p. 4389. Nella sentenza Defrenne II la Corte aveva riconosciuto l’effetto direttoorizzontale solo nei casi di discriminazione diretta ma nella successiva giurisprudenza, a partire dallasentenza Johnston, la Corte abbandona tale distinzione per riconoscere l’effetto diretto in ogni caso didiscriminazione, diretta o indiretta; sentenza del 15 maggio 1989, Johnston, C-222/84, in Raccolta, p.1651 e ss.

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con il Trattato di Amsterdam, l’art. 141, par. 3, conferisce espressamente al Consiglio ilpotere di adottare misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità edella parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, compresala retribuzione.Il Trattato di Amsterdam, oltre a modificare l’at. 141 T CE, ha emendato il Trattatoinserendo l’uguaglianza tra uomini e donne come uno degli obbiettivi e delle attività dellaComunità. L’art. 2 T CE, infatti, ora recita che “la Comunità ha il compito di promuoverenell’insieme della Comunità, mediante l’instaurazione di un mercato comune e di un’Unioneeconomica e monetaria e mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cuiagli articoli 3 e 4, […] la parità tra uomini e donne”. L’art. 3 prevede che ai fini enunciatiall’art. 2, par. 2, “l’azione della Comunità a norma del presente articolo mira ad eliminare leinuguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne”. Infine l’art. 13 T CE tra imotivi di discriminazione contempla anche il sesso. Vedremo successivamente come l’art.13 T CE abbia influito sulla normativa in tema di discriminazione per motivi di sessoadottata prima della sua entrata in vigore.A partire dagli anni ’70 si è avuta un’intensa attività, sia normativa sia operativa, che haesteso il principio della parità tra uomini a donne a tutte le relazioni di lavoro e di sicurezzasociale confermando e, anzi, accentuando la vocazione sociale dell’art. 141 T CE. Questovasto corpus di norme, al quale vanno aggiunti i programmi d’azione e gli atti di soft lawadottati dalle istituzioni europee, ha portato ad un ampliamento della portata del divieto dinon discriminazione sulla base del sesso che è stato applicato all’accesso all’occupazione ealle condizioni di lavoro, ai regimi legali e professionali di sicurezza sociale, ai lavoratoriindipendenti e agli agricoltori30. In mancanza di un’espressa base giuridica, alcune delledirettive sopra menzionate sono state adottate sulla base dell’art. 308 T CE31. Il preambolodella direttiva 76/207/CE, dopo aver affermato che il Consiglio ha adottato la direttiva75/117/CEE sul ravvicinamento delle legislazioni in materia di parità di retribuzioni,continua sostenendo “che un’azione della Comunità appare altresì necessaria per attuare ilprincipio della parità di trattamento tra uomini e donne sia per quanto riguarda l’accesso allavoro, alla formazione e promozione professionali, sia per quanto riguarda le altrecondizioni di lavoro” in quanto la parità di trattamento costituisce uno degli obiettivi dellaComunità pur in mancanza di poteri di azione specifici necessari a tale scopo”32. Come giàrilevato, l’attuale art. 141, par. 3, conferisce ora tale “potere di azione specifico”.Recentemente sono state adottate tre direttive. La 2002/73/CE che adegua le “direttive sesso”a quanto disposto dalle direttive del 2000 adottate in attuazione dell’art. 13 T CE (v. infra);la direttiva 2004/113/CE che, in attuazione dello stesso art. 13 T CE, ha come ambito diapplicazione l’accesso ai beni e ai servizi che sono disponibili al pubblico e alla lorofornitura, compreso l’alloggio, sia per il settore pubblico sia per quello privato, compresi gliorganismi pubblici; infine la direttiva 2006/54/CE del 5 luglio 2006 riguardante l’attuazionedel principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materiadi occupazione e impiego e volta ad abrogare le direttive adottate in base all’art. 141 T CEper trasporre il loro contenuto in unico testo aggiornato e organico.

4. L’art. 13 T CEDopo la conclusione del Trattato di Maastricht nel 1992 sono andate aumentando le richieste

30 La direttiva 75/117/CEE sulla parità di retribuzione, in GUCE L 45 del 19 febbraio 1975, pp. 19-20;la direttiva 76/207/CEE sulla parità di trattamento nell’accesso al lavoro, formazione professionale,promozione e condizioni di lavoro, in GUCE L 39 del 14 febbraio 1976, pp. 40-42; direttiva 79/7/CEEsull’attuazione progressiva della parità di trattamento in materia di sicurezza sociale obbligatoria, inGUCE L 6 del 10 gennaio 1979, pp. 24-25; direttiva 86/378/CEE sull’attuazione del principio diparità di trattamento nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale, emendata dalla direttiva96/97, in GUCE L 225, del 12 agosto 1986 pp. 40-42; direttiva 86/613/CEE sulla parità di trattamentodi uomini e donne che svolgono lavoro autonomo compresa l’agricoltura, in GUCE L 359 del 19dicembre 1986, pp. 56-58; direttiva 92/85/CEE sul miglioramento della sicurezza e della salute sullavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, in GUCE L 348 del 28novembre 1992 pp. 1-8; direttiva 96/34/CE sui congedi parentali; direttiva 97/80/CE sull’onere dellaprova nei casi di discriminazioni in base al sesso, in GUCE L 14 del 20 gennaio 1998, pp. 6-8.31 Sul rapporto tra tale articolo e l’art. 13 T CE si veda infra par. II-3.32 Direttiva 76/207/CEE, cit., 3° considerando.

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per un maggior riconoscimento dei diritti sociali nell’Unione europea anche attraversol’adozione di iniziative volte a contrastare le discriminazioni33. Tra le istituzioni è senz’altroil Parlamento europeo ad avere svolto un’attività, pressoché costante negli anni, di analisi deifenomeni di discriminazione invocando corrispondenti iniziative da parte delle altreistituzioni politiche34. Nella società civile ha preso corpo un vero e proprio movimento dilobby sostenuto dalle reti di associazioni impegnate nella lotta alla discriminazione permotivi di razza, handicap, orientamento sessuale ed età per l’adozione di strumenti normativispecifici e l’inserimento nel Trattato di clausole che facessero espresso riferimento a talimotivi di discriminazione35. Tale movimento ha senz’altro contribuito a creare un fertilehabitat nel quale si è innestata la Conferenza intergovernativa del 1996 incaricata diriformare i Trattati. Il risultato di queste molteplici iniziative è stato l’inserimento nelTrattato sulla Comunità europea dell’art. 13 in base al quale “fatte salve le altre disposizionidel Trattato e nell’ambito delle competenze da esso conferite alla Comunità, il Consiglio,deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione delParlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere lediscriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzionipersonali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”. Dopo il Trattato di Amsterdam ilsistema di tutela contro le discriminazioni si arricchisce, quindi, di una nuova normaprimaria destinata ad incidere profondamente su quel sistema di tutela che si è tentato didelineare nelle pagine precedenti. Per la prima volta sono stati aumentati i motivi espressiche la Comunità europea ritiene debbano essere contrastati. Non più solo nazionalità e sessoma anche razza, religione o convinzioni personali, età, handicap e tendenze sessuali36. Perquesto l’art. 13 T CE rappresenta anche un ulteriore passo verso la costruzione di un’Europaimpegnata nella difesa dei diritti sociali di tutte le persone a prescindere dal fatto cheesercitino un’attività economica rilevante per il diritto comunitario. Tale articolo si inseriscein quel processo che si è tratteggiato a proposito del divieto di discriminazione in base allanazionalità che, originariamente concepito come strumento di realizzazione del mercatointerno, è divenuto il predicato imprescindibile dello status di cittadino europeo, a sua voltainterpretato estensivamente stemperando la vocazione economica dei Trattati originari37.Il Trattato di Nizza ha modificato l’art. 13 T CE aggiungendo un secondo paragrafo in baseal quale “il Consiglio delibera secondo la procedura di cui all’articolo 251 quando adottamisure di incentivazione comunitarie, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delledisposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, destinate ad appoggiare le azioni

33 Nella Comunicazione della Commissione europea, “Politica sociale europea – la stradadell’Unione”, COM (1994) 333 del 27 luglio 1994, la necessità di contrastare fenomeni didiscriminazione è vista in funzione della piena realizzazione della libera circolazione delle persone nelmercato comune. Come vedremo meglio analizzando i singoli motivi di discriminazione già negli anni’80 sono stati numerosi gli atti di soft law adottati dalle istituzioni comunitarie e, in particolare dalParlamento europeo, volti a denunciare determinati fenomeni di discriminazione (in particolare permotivi di razza e handicap) invocando corrispondenti azioni di contrasto.34 Si vedano le risoluzioni del Parlamento europeo del 17 maggio 1995 e del 13 marzo 1996 (doc.A40068-96) nella quale chiedeva che fosse inserito nel Trattato il riferimento espresso al principio diuguaglianza e all’obbligo da parte dell’Unione di agire per contrastare l’esclusione sociale,l’ingiustizia sociale e la discriminazione, in GUCE C 151 del 19 giugno 1995, p. 56, C151 e GUCE C96, p. 77. La Commissione nella comunicazione COM (96) 90, del 28 febbraio 1996, “Rafforzarel’Unione e preparare l’ampliamento”, affermava che la conferenza “dovrebbe includere nel Trattatodisposizioni sul divieto di qualsiasi discriminazione, in particolare per quanto concerne l’uguaglianzatra uomini e donne al di là delle disposizioni relative alla parità di retribuzione, nonché la condannadel razzismo e della xenofobia”, ivi, p. 3.35 Si ricorda in particolare l’attività dello “Starting Line group” che ha dato vita alla campagna diemendamento del Trattato denominata “Starting point” alla quale hanno aderito più di 250organizzazioni non governative di tutti e 15 gli Stati membri impegnati nella lotta alla discriminazioneper motivi di razza, religione ed origine etnica. Analoghe campagne sono state condotte da altre reti diassociazioni impegnate nella lotta alla discriminazione per motivi di handicap e di orientamentosessuale.36 Come si dirà nel prossimo capitolo anche prima dell’art. 13 T CE la Comunità aveva adottatoalcune azioni rispetto a tali discriminazioni in particolare rispetto alla razza e all’handicap. Propriol’impossibilità di adottare disposizioni di più largo respiro e maggiormente incisive, a causa dellamancanza di competenza, ha indotto ad optare per l’inserimento di una norma ad hoc nel Trattato.37 Si veda supra par. 2.

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degli Stati membri volte a contribuire alla realizzazione degli obiettivi di cui al paragrafo 1”.Questa disposizione non altera la natura dell’art. 13 T CE che rimane evidentemente normasui poteri.In attuazione dell’art. 13, la Commissione ha adottato un pacchetto di proposte di attuazionedell’articolo 13 che è approvato in tutte le sue parti il 27 novembre 2000. Si tratta delladirettiva che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentementedalla razza e dall'origine etnica 2000/43/CE del 29 giugno 2000, in GUCE, L 180, del9/07/2000 pp. 22–26, della direttiva che stabilisce un quadro generale per la parità ditrattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro 2000/78/CE del 27 novembre2000, in GUCE, L 303 del 02/12/2000, pp. 16-22 e della decisione del Consiglio2000/750/EC del 27 novembre 2000 che istituisce un Programma d’azione di lotta alladiscriminazione (2001-2006) in GUCE, L 303, del 02/12/2000, pp. 23-28.

5. Le direttive 2000/43 e 2000/78Le direttive del 2000 hanno un’impostazione identica. Entrambe sono articolate in tre capi: ilprimo dedicato alle disposizioni generali nel quale si trovano la definizione didiscriminazione, le giustificazioni espressamente ammissibili, l’articolo sulle azioni positivee sulla clausola di salvaguardia; il secondo - mezzi di ricorso ed esecuzione - riguarda ilsistema di tutela legale e le attività di dialogo con le parti sociali e con le ONG che i Governisono obbligati ad instaurare; il terzo – disposizioni finali – contiene le disposizioni relativeall’entrata in vigore e all’attuazione della direttiva negli Stati membri.Alcune disposizioni possono quindi essere esaminate congiuntamente mentre nei successiviparagrafi sarà effettuata l’analisi delle disposizioni particolari di ciascuna direttiva tenendopresente che le direttive contengono dei requisiti minimi che, da una parte, non impedisconoagli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli e, dall’altra, nonpossono in alcun caso costituire motivo di riduzione del livello di protezione contro ladiscriminazione già predisposto dagli Stati membri nei settori di applicazione della presentedirettiva.

5.a. La nozione di discriminazioneLe direttive opportunamente forniscono una definizione compiuta della nozione didiscriminazione. Si tratta di un presupposto necessario affinché sia realizzato l’obiettivoperseguito dalle direttive di definire uno standard minimo comune in tutti gli Stati membri.Precedentemente solo nella direttiva sull’onere della prova in materia di discriminazione permotivi di sesso vi era una definizione di discriminazione indiretta molto simile a quella poifornita dalle direttive in esame. In mancanza di un riferimento testuale, la nozione didiscriminazione è stata elaborata dalla Corte di Giustizia che ha sin dalle prime pronunce neidiversi settori interessati dal divieto di discriminazione, chiarito che i divieti contenuti nelTrattato tutelano nei confronti sia della discriminazione diretta sia della discriminazioneindiretta. Così la definizione che troviamo nelle direttive del 2000 recepisce in gran partequella giurisprudenza apportando, però, alcune significative innovazioni ispirate dagliordinamenti degli Stati membri dotati di una specifica tutela contro le discriminazioni. Nerisulta una definizione composita articolata in quattro fattispecie: la discriminazione diretta,la discriminazione indiretta, la molestia e l’ordine di discriminare. L’aver fornito unapuntuale e completa definizione di discriminazione contribuisce senz’altro a fare chiarezzadato che, comunque, la giurisprudenza sia in tema di libera circolazione dei lavoratori sia intema di discriminazione per motivi di genere contiene aspetti differenti e si è evoluta neltempo con una giurisprudenza non sempre del tutto consolidata.La nozione di discriminazione è costruita dalle direttive in funzione strumentale alladefinizione del principio della parità di trattamento. Ai sensi dell’art. 1, infatti, lo scopo delledirettive è di creare un quadro giuridico comune per la lotta alle discriminazioni al fine direndere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento. Quest’ultimo poicomporta secondo la formulazione della direttiva razza “che non sia praticata alcunadiscriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica”. La formulazioneè preferibile rispetto a quella della direttiva lavoro nella quale si afferma che per principiodella parità di trattamento si intende “l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta oindiretta”. L’assenza di discriminazione è, infatti, l’effetto dell’applicazione del principiodella parità di trattamento dal quale correttamente deriva il divieto di discriminare. Si noti

anche che il divieto di discriminazione non è probabilmente il solo effetto del principio dellaparità di trattamento come anche le altre disposizioni, in particolare quelle sulle azionipositive e sulle misure di esecuzione della direttiva dimostrano. Per questo è opportunopreferire quelle definizioni che non presuppongono la coincidenza del principio con ildivieto o l’assenza di discriminazione ma considerano la discriminazione come una delleimplicazioni del principio38.Il legislatore ha evitato così di fornire in maniera articolata la definizione del principio dinon discriminazione ed ha limitato la definizione del principio della parità di trattamentofacendola coincidere con l’assenza di discriminazioni. Il legislatore è stato molto prudentenel fornire le definizioni dei concetti chiave avendo cura di parlare il linguaggio dei dirittisolo in riferimento al principio della parità di trattamento. Anche nel preambolo, 4°considerando, si legge che “il diritto di tutti all’uguaglianza davanti alla legge e allaprotezione contro le discriminazioni costituisce un diritto universale”. Questo a confermareche nel diritto comunitario il principio di non discriminazione esiste in quanto principiogenerale se si intende tale espressione come coincidente con il principio della parità ditrattamento intesa nel senso di uguaglianza dinanzi alla legge e non nella legge. L’autonomiadel principio di non discriminazione rispetto a quella nozione è ancora lungi dal realizzarsied il legislatore, nonostante si stia lentamente muovendo verso tale traguardo, non ha volutocompiere il passo decisivo verso tale opzione.Una volta intesa la discriminazione come implicazione logica del principio della parità ditrattamento il legislatore fornisce la nozione di discriminazione (artt. 2, parr. 2, 3 e 4, dientrambe le direttive). Si tratta di una nozione composita e articolata in quattro fattispeciediverse: la discriminazione diretta, la discriminazione indiretta, la molestia e l’ordine didiscriminare.Si ha discriminazione diretta quando una persona sia trattata meno favorevolmente diquanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”. Alla base delladefinizione di discriminazione si ha la comparazione tra due situazioni simili alle quali siapraticato un trattamento diverso che produce uno svantaggio. In altri termini non interessache le situazioni siano trattate bene o male, o che sia stata compiuta una determinataallocazione di risorse quanto che le situazioni non siano trattate diversamente provocandouno svantaggio per i motivi elencati nell’art. 1. Non interessa la distribuzione di risorseprevista dal legislatore quello che interessa è che chi applica una certa legge non pratichidifferenze basate su uno dei motivi enunciati dall’art. 13 con ciò trattando le persone inmodo meno favorevole. In base a quanto detto sopra a proposito della discriminazione permotivi di sesso e di nazionalità dei lavoratori, è particolarmente importante che il tertiumcamparationis non occorre che sia concretamente individuato e contemporaneamente alverificarsi del trattamento discriminatorio. Esso infatti può anche collocarsi nel passato oaddirittura nel futuro ipotetico. Si è visto come la scelta del tertium comparationis siadeterminante ai fini del riconoscimento o meno dell’esistenza di una discriminazione. Illegislatore ha quindi optato per una definizione ampia di discriminazione in quanto lacomparazione può essere effettuata con chiunque si sappia sia, sia stato o sarebbe trattato inmaniera (più) favorevole così come avviene in ambito di discriminazione dei lavoratori. Edinfatti la stessa Commissione ha affermato che la definizione riprende la giurisprudenza dellaCorte di Giustizia in materia di libera circolazione dei lavoratori come precisata nella causaO’Flynn.Ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. a, della direttiva razza “sussiste discriminazione indirettaquando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono metterepersone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggiorispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamentegiustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento sianoappropriati e necessari”. La definizione è innovativa in quanto i soggetti che vengono inrilievo sono individuati come “persone” senza alcun riferimento alla quantità di personecoinvolte. Nella direttiva sull’onere della prova prima citata, invece, le persone coinvoltedevono costituire una “quota nettamente più elevata di individui di uno dei due sessi”. Comevedremo si tratta di un aspetto che ha immediati effetti sul piano della prova del trattamentodiscriminatorio in quanto non è necessario dimostrare il pregiudizio subito da più soggetti,

38 P. Chieco, Le nuove direttive comunitarie sul divieto di discriminazione, in Rivista italiana di dirittodel lavoro, 2002, pp. 75-117.

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quindi dal gruppo, essendo sufficiente dimostrare il pregiudizio subito da una sola persona.Più precisamente e proprio in riferimento alla discriminazione per motivi di sesso viene inrilievo la questione dell’ammissibilità o necessità di allegare dati statistici per dimostrarel’esistenza di una discriminazione indiretta. Con la definizione fornita dalle direttive inesame non vi è più la necessità di provare che un certo atto o comportamento produce unosvantaggio su un numero maggiore di persone contraddistinte per l’appartenenza ad unarazza, origine etnica e così via. Le proposte originarie addirittura prevedevano che ladiscriminazione potesse prodursi su una persona o su un gruppo di persone. Questaformulazione aveva provocato la reazione di alcuni Stati. In particolare è nota la posizionedel Parlamento britannico che vivamente caldeggiava il Consiglio a cambiare questa partedella proposta in quanto il concetto di discriminazione indiretta così come contenuto nellaloro legislazione nazionale è strettamente connesso a quello di discriminazione di gruppo. Sinoti che la formulazione della Commissione con l’esplicito riferimento a gruppi di personeutilizzava un’espressione propria del dibattito mai sopito, sia in Europa che oltre Oceano, sulmulticulturalismo. Il Consiglio, utilizzando la nozione più neutra di persone, ha quindievitato di fare riferimento alla persona singola e al gruppo di persone. Certo che, anche percome è formulata la definizione, il riferimento generico a persone sembrerebbe nonimplicare necessariamente la pluralità di persone effettivamente colpita dallo svantaggio.Analogamente a quando il legislatore utilizza il termine cittadini, intesi più come i destinataripotenziali della norma o del trattamento verificabile in concreto anche in capo ad un singolosoggetto. La definizione è innovativa anche quando precisa che tali atti o comportamenti“possono” produrre lo svantaggio. In effetti gli atti di discriminazione indiretta sono di per séapplicabili ad una pluralità di persone in quanto riguardano atti, comportamenti o prassi cheun soggetto pubblico o privato adotta spesso in maniera sistematica e che, purapparentemente neutri, sono tali da produrre nei fatti una discriminazione per i motivielencati dall’art. 13 TCE. Si tratta di un aspetto particolarmente significativo econtraddistingue il diritto comunitario da altri ordinamenti che pur hanno una lunga storia dilegislazione antidiscriminatoria. È quindi verosimile che proprio con il divieto delladiscriminazione indiretta sarà possibile eliminare quelle pratiche che determinanosistematiche discriminazioni. Secondo la definizione ciò sarà possibile anche quando i criterio le prassi semplicemente possano mettere persone di una determinata razza o origine etnicain una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone. Anche solo la misurapotenzialmente indirettamente discriminatoria deve quindi essere considerata illegittima. Èevidente dunque che in questi casi la prova risulta molto più semplice rispetto ai casi didiscriminazione per motivi di sesso. In altre parole la discriminazione subita non sarà piùnecessaria per contestare la discriminatorietà di una misura. Questo consentirà agli organismiper la promozione della parità di trattamento di svolgere un ruolo attivo volto a individuarequelle disposizioni potenzialmente discriminatorie. Quanto ai singoli dovranno sempredimostrare per agire in giudizio di avere subito una discriminazione sia per il necessariointeresse ad agire sia perché poi la dimostrazione della discriminazione e del danno subito ènecessaria per la determinazione delle sanzioni e dell’eventuale risarcimento del danno.Con l’art. 2, par. 3, per la prima volta la tutela contro le molestie è disciplinata in un attogiuridico vincolante. Ispirandosi alla legislazione ed alla prassi di alcuni Stati membri ledirettive prevedono che le molestie sono da considerarsi, ai sensi del paragrafo 1, unadiscriminazione. Le istituzioni comunitarie si erano precedentemente occupate della materiama solo in riferimento al sesso e solo in atti c.d. di soft law39. In tali atti la molestia èconsiderata come atto che viola la dignità della persona senza alcun riferimento al fatto chela molestia possa essere configurata come una discriminazione. Vi si afferma soltanto chetale atto può “in determinate circostanze, costituire una violazione del principio della paritàdi trattamento ai sensi degli artt. 3, 4 e 5 della dir. 76/207/CEE”. Ed in effetti la definizionefornita dalle direttive si discosta fortemente dalla nozione di discriminazione propria deldiritto comunitario e dalla nozione di discriminazione diretta e indiretta come formulata nei 39 Risoluzione del Consiglio del 29 maggio 1990 sulla protezione della dignità di uomini e donne nellavoro, in GUCE C 157, 27/06/1990, pp. 3–4; Raccomandazione della Commissione 92/131/EEC del27 novembre 1991 sulla protezione della dignità delle donne e degli uomini nel lavoro, in GUCE L49, 24/02/1992, pp. 1- 8; Dichiarazione del Consiglio del 19 dicembre 1991 sull’attuazione dellaraccomandazione del Consiglio sulla protezione della dignità di uomini e donne nel mondo dellavoro, compreso il codice di condotta per combattere l’orientamento sessuale, in GUCE C 27,04/02/92, p. 1.

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paragrafi 1 e 2. La molestia è infatti definita come “comportamento indesiderato adottato permotivi di razza o di origine etnica [o per uno dei motivi elencati nell’art. 1 della direttiva2000/78] e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un climaintimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”. La prima differenza è che qui nonsi ha una comparazione tra situazioni simili e il trattamento negativo non è inteso in quantosvantaggio rispetto ad altri soggetti ma coincide con la violazione della dignità della personae con la creazione di un clima avverso. Questo stravolge il concetto di discriminazione cheha nella comparazione, se pur con un soggetto ipotetico, il suo elemento chiave. La normaqualifica la discriminazione nella forma di molestia, come un diritto assoluto ad un ambientenon ostile e a non subire trattamenti lesivi della dignità. Il solo fatto che la molestia avvengaper uno dei motivi individuati dall’art. 13 TCE è stato ritenuto sufficiente dal legislatorecomunitario per qualificarla come discriminazione. In altre parole poiché le vittime dimolestie sono più frequentemente i soggetti appartenenti ad una delle categorie individuatedall’art. 13 TCE si è ritenuto che ciò fosse sufficiente per qualificare la fattispecie come unadiscriminazione. La scelta del legislatore è giustificabile considerando che quando unamolestia è praticata per uno dei motivi contenuti nell’art. 13 TCE essa si inserisce nellacategoria di atti che vengono sistematicamente perpetrati nei confronti di tali categorie acausa del pregiudizio che le caratterizza e che si manifesta anche attraverso tali atti.Probabilmente analoga tutela poteva essere garantita attraverso uno strumento giuridicoapposito. Certo che sarebbe stato problematico individuare la corretta base giuridica e,soprattutto, tutelare le categorie di soggetti individuate dall’art. 13 TCE. Inoltre attraversol’art. 13 è ora possibile estendere la protezione oltre al settore del lavoro, come avvenuto conla direttiva 2000/43 e con la proposta di direttiva COM(2003)657. Per provare che si è avutauna molestia non occorre dimostrare che ad altri viene riservato un trattamento diverso. Inpratica ciò significa che un soggetto leso potrà dimostrare il pregiudizio subito anche soloallegando riferimenti alla propria storia personale senza dover allegare dati o riferimentirelativi ad altri che si trovano in una situazione analoga. Da questo punto di vista è piùsemplice dimostrare l’avvenuta lesione considerando anche che, laddove presenti, nullaimpedisce che elementi di raffronto con altre situazioni analoghe potranno essere strumentiefficaci al fine di dimostrare la veridicità delle denunce allegate. È stato acutamenteosservato che, trovatosi di fronte alla definizione del modello comunitario di lotta alladiscriminazione, il legislatore ha optato per una combinazione dei modelli di tutelaantidiscriminatoria tradizionalmente esistenti che chiamano la Corte di giustizia a svolgereun ruolo diverso rispetto a quello sino ad oggi coperto40.Per costituire una molestia il comportamento lesivo della dignità deve essere connesso allacreazione di un ambiente ostile intimidatorio, degradante, umiliante od offensivo. L’utilizzodella disgiunzione consente di affermare senza alcun dubbio che sia sufficiente che una soladi tali circostanze si verifichi. La creazione di un ambiente sgradevole rappresenta un indicedi gravità del comportamento lesivo come si deduce dalla relazione di presentazione delleproposte di direttive dove, dopo aver precisato che la condotta costituente una molestia “puòassumere varie forme, da quelle verbali e gestuali fino alla produzione, esibizione ocircolazione di testi scritti, immagini o altro materiale”, è scritto che “deve trattarsi di uncomportamento di natura grave, tale da creare un ambiente di lavoro sgradevole od ostile”.Poiché tra l’altro risulta praticamente impossibile che tale ambiente sia determinato dasingoli atti risultano concretamente vietati comportamenti complessivi e, soprattutto, ripetutinel tempo. Nonostante questa interpretazione, se vogliamo restrittiva della nozione dimolestia, il Consiglio ha aggiunto una frase alla proposta della Commissione in base allaquale “in questo contesto, il concetto di molestia può essere definito conformemente alleleggi e prassi nazionali degli Stati membri”. Si capisce che con questa precisazione gli Statimembri potranno ridurre la portata innovativa dell’articolo adattando la definizione a quantogià previsto dal proprio ordinamento. Sulla molestia si tornerà più avanti sia per analizzarnel’impatto negli ordinamenti interni sia per considerare l’impatto che può avere sul concettodi discriminazione nel diritto comunitario.Infine secondo l’art. 2, par. 4, l’ordine di discriminare persone a causa della razza odell’origine etnica (o a causa di uno dei motivi contemplati dall’art. 1 della dir. 2000/78) è daconsiderarsi una discriminazione ai sensi del par. 1. Opportunamente il legislatore ha voluto

40 M. Barbera, Not the same?: the judicial role in the new Community anti-discrimination law context,in Industrial law journal, 2002, p. 82 ss.

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che fosse inequivocabilmente considerata discriminazione anche l’ordine di compiere l’attodiscriminatorio. Il dubbio sarebbe potuto sorgere poiché essendo la definizione didiscriminazione strettamente legata alla realizzazione di uno svantaggio tecnicamente sipotrebbe sostenere che tale svantaggio non sia determinato dall’ordine di discriminare madalla condotta che pone in essere il trattamento sfavorevole. Con la formulazione utilizzatadella direttiva non solo tale interpretazione, peraltro eccessivamente restrittiva, non puòessere accettata ma si pone l’interrogativo di capire se l’ordine di discriminare sia perseguitodi per sé senza che sia necessario che una discriminazione effettivamente si sia realizzata. Adesempio si pone il caso del datore di lavoro che ordina di discriminare e ciò non si verifica operché i subordinati si rifiutano o perché di fatto il comportamento adottato non producealcuno svantaggio.Aspetto comune alle nozioni descritte dall’art. 2 è la irrilevanza della volontà dell’autoredella discriminazione. Ciò si desume dalla definizioni di discriminazione diretta e indirettadove la condotta è contraddistinta per lo svantaggio che produce senza alcun riferimento allavolontarietà della condotta. Invece per quanto riguarda la molestia vi è un espressoriferimento al fatto che la molestia si a quando un comportamento “avente lo scopo ol’effetto”. Questa precisazione potrebbe essere interpretata nel senso che anche laddove nonsia stata realizzata la molestia ma solo tentata si ha discriminazione. Mentre negli altri casioccorre che vi sia uno svantaggio arrecato ad una o più persone senza però dover ricostruireanche la posizione psicologica dell’autore. Quanto alla quarta ipotesi di discriminazione,ossia all’ordine di discriminare, la volontà di discriminare è generalmente insita in un ordine.Ciò che è rilevante è che non è necessario procedere alla dimostrazione della volontà didiscriminare quanto della volontà di far compiere una certa azione che a sua volta provoca ladiscriminazione.

5.b. Le giustificazioni oggettiveSecondo l’art. 2, par. 2, lett. b, della direttiva 2000/43 e, analogamente, l’art. 2, par. 2, lett. i,della direttiva 2000/78, la discriminazione indiretta è esclusa quando la disposizione, ilcriterio o la prassi produttivi del particolare svantaggio siano “oggettivamente giustificati dauna finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati enecessari”. Già la Corte di Giustizia con giurisprudenza costante ha affermato che nel casodelle discriminazioni indirette occorra anche valutare se sussista una giustificazioneoggettiva che legittimi il comportamento contestato. La giustificazione oggettiva consente diprendere in esame gli interessi contrapposti: quello della vittima e quello dell’autore dellamisura onde verificare se la ragione di quest’ultimo sia tale da giustificare lo svantaggiocausato al primo. Si tratta di una categoria non tipizzata nella quale possono essere incluseuna pluralità di circostanze alle quali è richiesto solo che rispettino due condizioni: l’essererivolte a perseguire una finalità legittima ed essere realizzate con mezzi appropriati enecessari. Quanto alla legittimità della finalità si tratta evidentemente di una espressionemolto ampia tale da essere soddisfatta in molti casi. In particolare occorrerà che la Corte siesprima circa la possibilità che il perseguimento di una finalità economica da parte diun’impresa ma anche di una pubblica amministrazione o di un ente pubblico sia consideratasufficiente a fondare una giustificazione oggettiva. L’altra condizione prevista dalla norma èche i mezzi perseguiti siano appropriati e necessari. Questa richiama il principio diproporzionalità più volte ribadito dalla Corte in materia di eccezioni alle libertàfondamentali. Anche in questo caso non si tratta di una condizione restrittiva: se la finalitàperseguita è considerata legittima ben può accadere che lo svantaggio praticato nei confrontidi alcuni soggetti sia prodotto da un comportamento “appropriato” perché idoneo aconseguire lo scopo. Esso deve però essere anche necessario ossia costituire l’unico mezzoper raggiungere il risultato perseguito. La portata concreta di questa clausola sarà rimessaall’interpretazione degli organi giurisdizionali. Trattandosi di un aspetto che incideconcretamente sulla portata della tutela contro le discriminazioni anche la Corte di giustiziadovrà chiarirne l’interpretazione.L’art. 4 di entrambe le direttive prevede un’altra categoria di giustificazioni che, anche nelcaso della direttiva razza, si applicano solo al settore del lavoro. Si tratta delle esenzioni chegli Stati possono praticare nei confronti di alcune professioni rispetto alle quali il trattamentodifferenziato per uno dei motivi indicati dalle direttive non costituisce discriminazione.Questa tipologia di esenzioni è prevista anche nella direttiva 76/207 oltre che nellelegislazioni di alcuni Paesi membri come Danimarca, Irlanda, Paesi Bassi e Regno Unito.

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Nella proposta originaria la rubrica e il testo dell’art. 4 utilizzava l’espressione“qualificazioni professionali effettive”. Successivamente l’espressione è stata modificata dalConsiglio in “requisiti essenziali e determinanti per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.La rubrica dell’art. 4 della direttiva 2000/78 risulta nella versione finale “requisiti per losvolgimento dell’attività lavorativa”. Nella rubrica, ma non nel testo dell’art. 4, par. 1, sonostati soppressi gli aggettivi essenziali e determinanti volti evidentemente a rendere piùrestrittiva la possibilità di introdurre tali esenzioni. Secondo l’art. 4, par. 1, con testo ugualeper entrambe le direttive, “in deroga all’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possonostabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata alla razza oall'origine etnica [a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 dir. 2000/78] noncostituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto incui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinanteper lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e il requisitoproporzionato”. Sono gli Stati membri ad avere la facoltà di escludere alcune attivitàlavorative dall’applicazione del divieto di discriminazione. È stato affermato che rispettoall’art. 2 della direttiva 76/207 in questo caso non sono ammesse esenzioni per categoria (adesempio le professioni dello spettacolo) ma vi dovrà essere una distinzione specificariguardante ogni singola attività lavorativa (ad esempio l’attore che deve impersonare unaparte per la quale è richiesto che siano presenti o non siano presenti una delle caratteristichemenzionate nelle direttive). Invero il confronto delle disposizioni non fornisce elementisufficienti per una tale interpretazione. Si deve quindi ammettere che il legislatore nazionalepotrà scegliere se optare per un sistema di esenzioni per categoria o si esenzioni individualirelative cioè ai singoli posti di lavoro. In ambedue i casi sarà comunque sempre ammissibileun intervento delle autorità giurisdizionali sia nella valutazione della corretta interpretazionee applicazione delle eccezioni individuate sia nella valutazione della legittimità delleesenzioni individuate dal legislatore nazionale. A questo riguardo si noti che non ècontemplato nelle direttive in esame un sistema analogo a quello previsto dall’art. 9, par. 2,della direttiva 76/207 in base al quale “gli Stati membri esaminano periodicamente le attivitàprofessionali di cui all’articolo 2, paragrafo 2, al fine di valutare se sia giustificato, tenutoconto dell’evoluzione sociale, mantenere le esclusioni in questione. Essi comunicano allaCommissione i risultati di tale esame”. Si deve però ritenere che l’utilizzo della facoltàprevista dall’art. 4 rientri nelle informazioni che gli Stati devono trasmettere, ai sensi degliart. 17 direttiva razza e 19 direttiva quadro, alla Commissione per consentirle di redigere unarelazione sull’applicazione della direttiva. Anche a questo proposito si è affermato che ledirettive prevedono un requisito più stringente rispetto alla direttiva 76/207 in quanto nelleinformazioni trasmesse è implicita un’argomentazione ragionata circa le giustificazioni chehanno determinato l’adozione delle eccezioni. In realtà mi pare azzardato considerare piùstringente un onere implicito, quale quello delle direttive 2000/43 e 2000/78, rispetto ad unobbligo espresso quale quello della direttiva 76/207, anche volendo riconoscere a quellaattività di informazione alcuni attributi coerenti e logici quale quello della necessità diargomentare eventuali esclusioni dal divieto di discriminazione.Ai sensi dell’art. 4, l’eccezione può essere concessa quando la caratteristica costituisca unrequisito determinante, vale a dire sia un elemento qualificante della stessa attivitàlavorativa, ed essenziale, ossia necessario per il conseguimento di tali obbiettivi. Taliobiettivi devono poi essere legittimi e il requisito deve essere proporzionato rispetto ad essi.La proporzionalità del requisito richiesto rispetto all’attività lavorativa da svolgere richiamala stessa definizione di giustificazione oggettive fornita dall’art. 2, par. 2, laddove si richiedeche i mezzi impiegati siano necessari e appropriati. Così il requisito della proporzionalitàdeve essere inteso nel senso che non devono essere richiesti requisiti ulteriori rispetto aquelli necessari al raggiungimento dello scopo. Il comune principio della proporzionalitàconferma che l’eccezione contemplata dall’art. 4 costituisce una specie della categoria dellegiustificazioni oggettive. Anche in questo caso occorre quindi precisare che la portata dellapresente eccezione è tale da condizionare la portata del divieto di discriminazione sancitodall’art. 2, par. 1. Una verifica dell’applicazione di questa clausola da parte dellaCommissione e da parte degli organi giurisdizionali è quindi necessaria al di là del sistema ditrasmissione delle informazioni alla Commissione al fine di redigere la relazione. Lamaggiore o minore estensione della portata dell’eccezione può compromettere la correttaapplicazione della direttiva e così richiedere una modifica della legislazione interna edeventualmente comportare una responsabilità dello Stato.

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Quanto all’ordine di discriminare contemplato dell’art. 2, par. 4, anch’esso deve ritenersiimplicitamente derogato dall’art. 4 altrimenti l’eccezione non potrebbe produrre gli effettiche si propone. Se un’impresa è esentata dal divieto di discriminazione per motivi dihandicap in relazione ad un posto di lavoro ciò deve riguardare anche le istruzioni impartitedai dirigenti.Sebbene le direttive non lo esplicitino si deve ritenere che l’art. 4 renda legittimi non solotrattamenti differenti in relazione alla fase di reclutamento ma anche relativamente altrattamento del lavoratore. L’art. 4 può infatti legittimare differenze di trattamento nelrapporto di lavoro ad esempio relative alla progressione in carriera. Dubbi vi sono semmairelativamente alla possibilità di risolvere il rapporto di lavoro.La proposta originaria di direttiva quadro prevedeva un secondo comma dell’art. 4 che avevasin dalla presentazione della proposta suscitato molte critiche. In base ad esso “gli Statimembri possono disporre che, nel caso di organizzazioni pubbliche o private che perseguonodirettamente ed essenzialmente uno scopo di guida ideologica nel campo della religione odelle convinzioni personali relativamente all’istruzione, all’informazione e all’espressionedelle opinioni, nonché per le attività lavorative particolari svolte nel loro seno che vi sianodirettamente ed essenzialmente collegate, una differenza di trattamento basata su unacaratteristica pertinente collegata alla religione o alle convinzioni personali non costituiscadiscriminazione laddove, in ragione della natura di tali attività, la caratteristica rappresentiuna qualificazione professionale effettiva”. Questa norma permetteva di far salve tutte quelleorganizzazioni di stampo religioso o politico che, più o meno esplicitamente, richiedono aipropri dipendenti adesione alle finalità dell’organizzazione stessa. L’esempio classico èquello delle scuole cattoliche. Come era prevedibile questo paragrafo aveva suscitato variecritiche di diverso contenuto e di segno opposto. Da una parte vi era evidentemente il rischioche la disposizione aprisse un varco verso la legittimazione di situazioni di discriminazioneodiose in quanto basate sulle convinzioni personali delle persone e, dall’altra, alcuni Statimembri hanno voluto assicurarsi che le disposizioni nazionali in materia, in particolarequelle relative all’insegnamento da parte di istituti privati, fossero fatte salvedall’applicazione della direttiva. Tali disposizioni costituiscono spesso il frutto di delicatiequilibri che uno Stato è comprensibilmente riluttante a ridiscutere. Esse inoltrepresuppongono un determinato assetto dei rapporti tra cittadino e Stato e riflettono valorifondamentali di una comunità di diritto. Il dibattito quindi su tale articolo è stato in seno alConsiglio molto acceso. Come vedremo meglio più avanti la determinazione dellaPresidenza di giungere alla definizione del negoziato assieme alla necessità di decidereall’unanimità ha creato una situazione tale per cui gli Stati hanno forzato affinché alcuneistanze fossero inserite nella norma. In questo modo si spiega l’attuale art. 4, par. 2, in baseal quale “gli Stati membri possono mantenere nella legislazione nazionale in vigore alla datad’adozione della presente direttiva o prevedere in una futura legislazione che riprenda prassinazionali vigenti alla data d’adozione della presente direttiva […]”. Gli Stati membri che nonhanno al momento dell’approvazione della direttiva né una normativa né una prassi chepermetta tali differenze di trattamento gli Stati non possono introdurre o legittimare talidifferenze di trattamento. Si tratta quindi di una clausola di salvaguardia volta a preservare lostatus quo di alcuni ordinamenti rispetto ad un punto cruciale della normativa rispetto allaquale la Comunità ha rinunciato a individuare un livello comune di tutela delle persone. Laparte seguente della disposizione risulta particolarmente tortuosa e ambigua: le disposizionistatali possono infatti stabilire che “nel caso di attività professionali di chiese o di altreorganizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzionipersonali, una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personalinon costituisca discriminazione laddove, per la natura di tali attività, o per il contesto in cuivengono espletate, la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisitoessenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell'attività lavorativa, tenuto contodell’etica dell’organizzazione”. Innanzitutto l’eccezione si applica alle chiese o altreorganizzazioni la cui etica sia fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. La parolachiave qui è etica la cui definizione risulta tutt’altro che univoca all’interno di un singoloStato figuriamoci tra i diversi Stati europei. Tale parola viene ribadita alla fine della frasequando si considera non discriminatoria la differenza di trattamento basata sulla religione osulle convinzioni personali in quanto queste rappresentano un requisito essenziale, legittimoe giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa tenuto conto dell’eticadell’organizzazione. In altre parole l’etica dell’organizzazione, rispetto alla quale non vi

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sono riferimenti utili di definizione, è considerata alla stregua della finalità legittima dell’art.2, par. 2, e dell’art. 4, par. 1. Rispetto ad essa la religione o la convinzione personale devonorappresentare un requisito essenziale, legittimo e giustificato. Si ha qui una diversaqualificazione del requisito rispetto al primo paragrafo. Non essenziale e determinante maessenziale, legittimo e giustificato. Mi pare però, salvo non volersi esercitare ininterpretazioni filologiche di dubbia utilità pratica, che tali qualificazioni non siano stateinserite volendo dare ad esse un significato preciso e diverso da quelle del primo paragrafo.Inoltre ammettere la giustificazione del divieto di discriminazione quando il “requisito siagiustificato” sembra addirittura costituire una tautologia. In altre parole sebbene ci si possasforzare di dare a ciascuna di tali qualifiche un preciso significato risulta difficile pensare adun requisito che risponda alle tre caratteristiche richieste dal secondo paragrafo e non invecea quelle dell’essenzialità e determinatezza. Non è neanche possibile ritenere che l’averprevisto il requisito ulteriore della giustificazione della caratteristica discriminatoria possadeterminare una interpretazione più restrittiva della norma. Basti pensare che in essa non èrichiamata la proporzionalità del mezzo utilizzato. La disposizione si chiude affermando che“la differenza di trattamento si applica tenuto conto delle disposizioni e dei principicostituzionali degli Stati membri, nonché dei principi generali del diritto comunitario, e nonpuò giustificare una discriminazione basata su altri motivi”. La prima parte è superflua inquanto richiama i principi generali del diritto comunitario che sono sempre sovraordinati allanormativa derivata. Quanto alle disposizioni e ai principi costituzionali degli Stati membri,premesso che per disposizioni devono intendersi quelle costituzionali, la norma nonsorprende dal punto di vista dell’ordinamento interno dato che la Corte costituzionale haaffermato chiaramente nella sentenza n. 70 del 1984 che la prevalenza delle normecomunitarie sulle norme interne anche successive non può pregiudicare i diritti fondamentalidell’ordinamento italiano. Tale prospettiva non si trova invece sancita in alcuna sentenzadella Corte di Giustizia tant’è che l’eventuale disapplicazione del diritto comunitario, pur sebasata sulla difesa di principi fondamentali dello Stato, porrebbe irrimediabilmente unproblema di responsabilità dello Stato per violazione del Trattato. Sarà quindi interessanteverificare come, quando la Corte si troverà a interpretare queste disposizioni, terrà contodelle disposizioni costituzionali dei singoli Stati membri e come questo potrà essereconciliato con il principio fondamentale della uniformità di interpretazione e applicazionedel diritto comunitario non derogabile da alcuna normativa derivata. L’ultima parte dell’art.4, par. 2, afferma che “la differenza di trattamento non può giustificare una discriminazionebasata su altri motivi”. Si tratta di una precisazione opportuna, sebbene fosse comunqueimplicita, che è stata inserita per evitare che attraverso questa eccezione possano esserepraticate discriminazioni anche per altri motivi vietati dalla direttiva. Sulla base di questaeccezione una Chiesa cattolica potrebbe essere legittimata a non assumere un insegnante noncattolico ma non potrebbe ad esempio non assumere un insegnante cattolico perchéomosessuale. Occorre quindi verificare se vi sia una discriminazione indiretta sulla base diuno dei motivi che la direttiva non consente però di legittimare.Sempre nelle negoziazioni in seno al Consiglio è stato aggiunto una seconda parte al secondoparagrafo in base alla quale “A condizione che le sue disposizioni siano d’altra parterispettate, la presente direttiva non pregiudica pertanto il diritto delle chiese o delle altreorganizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzionipersonali, e che agiscono in conformità delle disposizioni costituzionali e legislativenazionali, di esigere dalle persone che sono alle loro dipendenze un atteggiamento di buonafede e di lealtà nei confronti dell’etica dell’organizzazione”. Si tratta di una disposizione disignificato alquanto dubbio. Dubbia è innanzitutto l’espressione “a condizione che ledisposizioni della direttiva siano d’altra parte rispettate” e l’utilizzo dell’avverbio “pertanto”come se quello che segue fosse una conseguenza logica di quanto sopra affermato. In realtàcon questa ultima parte della norma si afferma che, indipendentemente dall’accertamentodelle condizioni sopra affermate le chiese e le organizzazioni possono esigere unatteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti dell’etica dell’organizzazione dallepersone che sono alle loro dipendenze. Che rapporto ha questa disposizione con il divieto didiscriminazione e con l’eccezione contenuta nel paragrafo che la precede? La disposizionedeve essere intesa nel senso che implicitamente l’esigenza di un atteggiamento di buona fedee di lealtà nei confronti dell’etica dell’organizzazione può costituire una giustificazionelegittima di una differenza di trattamento dato che qui non sono disciplinati i poteri delleorganizzazioni di tendenza o delle Chiese nei confronti dei propri dipendenti. Ma la norma

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suscita perplessità comunque anche perché non è chiaro perché esigenze di lealtà e di buonafede siano consentite solo alle organizzazioni di tendenza e alle chiese e non anche aqualsiasi impresa privata o pubblica: ogni impresa infatti si basa sulla lealtà e sulla buonafede dei propri dipendenti. In base all’art. 2, par. 5, la “direttiva lascia impregiudicate lemisure previste dalla legislazione nazionale che, in una società democratica, sono necessariealla sicurezza pubblica, alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione dei reati e alla tuteladella salute e dei diritti e delle libertà altrui”. Con tale aggiunta gli Stati hanno volutochiarire che disposizioni nazionali volte a contrastare organizzazioni religiose pericoloseperché violente, crimini come la pedofilia o pericolose malattie mentali non costituisconouna discriminazione. In realtà l’eccezione è formulata in modo ampio così da poterpermettere deroghe al divieto di discriminazione anche più estese. Probabilmente ladisposizione deve essere interpretata nel senso che non tutti i provvedimenti volti a tutelarel’ordine pubblico, la sanità pubblica ed i diritti e le libertà altrui sono esenti ma solo quellivolti a reprimere quelle forme odiose di devianza criminale connesse con l’orientamentosessuale, la pedofilia o la religione. È auspicabile che la Corte adotti una nozione più ristrettadi ordine pubblico rispetto a quella riconosciuta sufficiente nella sentenza Van Duyn41. Ivi laCorte riconosce che il divieto di ingresso da parte del Regno Unito alla cittadina olandese peressere impiegata nell’organizzazione Scientology fosse giustificabile nonostante non sitrattasse di un’organizzazione vietata né fosse vietato ai propri cittadini di prendervi parte.La mera considerazione della pericolosità dell’organizzazione, pur non grave al punto daessere vietata per legge, è considerata sufficiente per limitare il diritto alla libera circolazionedi un cittadino comunitario. Le limitazioni ad una libertà fondamentale come quella dellacircolazione dei lavoratori comunitari devono rispettare i diritti fondamentali tra i qualirientra anche la libertà di religione e di non subire discriminazioni a causa della propriareligione. Questo diritto è tutelato in base all’art. 9 della CEDU che ammette solo lerestrizioni necessarie ad una società democratica. È rispetto a tale contesto che deve esserevalutata la legittimità delle restrizioni alla libera circolazione ma anche i limiti al divieto didiscriminazione sanciti dalle direttive. La direttiva non può, nell’ambito della propriacompetenza, limitare l’esercizio di un diritto sancito anche dalla Convenzione europeamentre potrebbe conferire ad esso una protezione più ampia. In questo caso poiché il divietodi non discriminazione è strumentale al pieno godimento del diritto, una sua restrizione olimitazione si tradurrebbe in una limitazione del diritto alla libertà di religione e quindi ècorretto riferirsi anche all’art. 9 della CEDU e non solo all’art. 14 sul divieto didiscriminazione.

5.c. Le azioni positiveNella Comunicazione COM(1999)564 la Commissione, nell’illustrare le proposte presentateper “rendere effettivi i nuovi poteri conferiti alla comunità dall’articolo 13”, afferma chel’esperienza maturata nel campo della discriminazione sessuale “mostra che, […],l’intervento legislativo non basta di per sé a sconfiggere il fenomeno delle discriminazioni[...]. Uno dei modi più efficaci per lottare contro la discriminazione è rappresentato dallapromozione della parità di trattamento lasciando agli Stati la possibilità di intraprendereun’azione positiva per compensare le ineguaglianze che da lungo tempo affliggono gruppi dipersone storicamente discriminate”42. Si tratta della disposizione che tra tutte piùesplicitamente si ricollega ad una nozione non meramente formale di uguaglianza e cheprospetta una concezione del principio della parità di trattamento perseguito dalle direttive inesame che non si esaurisce nel divieto di discriminazione. Con le azioni positive siamo,infatti, nell’ambito delle attività di promozione della parità di trattamento volte a rimuoverele cause della discriminazione o a rimediarne gli effetti attraverso la previsione di misurespeciali nei confronti di soggetti appartenenti a categorie considerate svantaggiate.L’art. 7 della direttiva quadro non utilizza però il linguaggio tradizionale che qualifica

41 Sentenza del 4 dicembre 1974, Van Duyn c. Home Hoffice, in Raccolta, 1974, p. 1337.42 COM (1999) 564, 25 novembre 1999, in GUCE C 2/12/1999, pp. 7-8. È interessante notare comenella comunicazione e nelle proposte (ora rispettivamente direttive e programma d’azione) non si parlimai di principio di non discriminazione ma di lotta alla discriminazione in ordine alla realizzazione di“un quadro generale per la parità di trattamento” in modo da “integrare e rafforzare le disposizioninazionali preposte all’attuazione del principio di uguaglianza”.

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l’uguaglianza come formale o sostanziale. La parità è infatti qualificata semplicemente comecompleta e viene specificato che l’obiettivo è il raggiungimento della parità nella vitaprofessionale. Le proposte della Commissione prevedevano due articoli identici in base aiquali “la presente direttiva fa salvo il diritto degli Stati membri di mantenere o adottaremisure intese a prevenire o compensare gli svantaggi che subisca un gruppo di persone diuna determinata razza o origine etnica [le persone cui si applica una qualunque delle causedi discriminazione di cui all’articolo 1]”. L’attuale formulazione è da preferire in quantoopportunamente l’inciso iniziale chiarisce espressamente che le azioni positive noncostituiscono una deroga al principio della parità di trattamento ma anzi sono necessarie perassicurare una effettiva e completa parità. Questa definizione può contribuire a superare latuttora prevalente concezione duale dell’uguaglianza articolata in uguaglianza formale euguaglianza sostanziale. In base a tale concezione le azioni positive sono dirette a realizzarel’uguaglianza sostanziale mentre i divieti di discriminazione sono pienamente conformi alprincipio della parità di trattamento inteso in senso formale. E difatti nella relazione diaccompagnamento alla direttiva lavoro si legge che “la parità di trattamento può ancheimplicare il riconoscimento di diritti speciali per gruppi specifici di persone” in quanto “laparità di trattamento può non bastare di per sé se non porta a una reale uguaglianza”. Non sivuole qui affrontare l’annoso dibattito che vede confrontarsi i sostenitori dell’una o dell’altraconcezione. Anche perché spesso vengono utilizzate categorie logiche diverse al fine disostenere medesime conclusioni oppure si utilizzano categorie logiche non corrispondenti néa quelle del legislatore né a quelle della giurisprudenza con la sola finalità quindi di operareclassificazioni illustrative ma che non hanno alcuna corrispondenza sul piano giuridico.Inoltre lo stesso legislatore utilizza in maniera disinvolta i concetti di uguaglianza, parità ditrattamento, effettiva parità. Mi pare però che l’articolo 7 delle direttive possa svolgere unruolo positivo conferendo alcuni elementi di certezza giuridica nel dibattito.Il diritto comunitario persegue l’obiettivo della parità di trattamento e della parità effettiva ecompleta. Nonostante che vi siano affermazioni nel senso che sia lo stesso principio dellaparità di trattamento ad implicare azioni volte a realizzare l’effettiva parità, vi è la prevalentepercezione che la parità di trattamento sia connessa ad una concezione di uguaglianzameramente formale e contrapposta al principio della parità di opportunità connessa invecealla concezione di uguaglianza sostanziale43. La normativa e la giurisprudenza in materia didiscriminazione sessuale ha esercitato una significativa influenza su questo articolo cherisulta molto simile all’art. 141, par. 4, del Trattato CE come modificato dal Trattato diAmsterdam. Come la stessa relazione alla direttiva quadro precisa “le misure di azionepositiva costituiscono una deroga al principio di uguaglianza, esse dovrebbero essereinterpretate in modo rigoroso alla luce dell’attuale giurisprudenza in materia didiscriminazione sessuale”. Tale giurisprudenza espressa nelle sentenze Kalanke, Marshall,Badeck e Abrahamsson ha finito con l’accogliere una concezione non rigida di azionepositiva44. Il medesimo orientamento dovrebbe quindi essere ripetuto nei confronti deimotivi di discriminazione considerati dalle direttive. Occorrerà vedere nella pratica qualitipologie di azioni positive effettivamente gli Stati intenderanno adottare. Difficilmente gliStati introdurranno azioni positive cosiddette forti nei confronti delle categorie individuatedalle direttive sia per le critiche e i dubbi circa l’efficacia di tali misure contestate anche daisoggetti che a tali categorie appartengono ma anche per la diversa percezione dei motivi didiscriminazione tutelati dalle direttive rispetto alla discriminazione per motivi di sesso.Mentre per tali motivi è generalmente considerato doveroso proibire trattamenti cheproducano svantaggi, più contrastata è l’opinione circa l’ammissibilità di misure positivevolte a intervenire normativamente sulle situazioni individuali per rimuovere discriminazionisistematiche del gruppo cui tali individui appartengono. Ancora più esplicitamente siritengono ammissibili misure che intervengono sulle condizioni di partenza per conferire a 43 In questo senso si consideri il testo dell’art. 2, par. 4, della direttiva 76/207 in base al quale “lapresente direttiva non pregiudica le misure volte a promuovere la parità di opportunità per gli uominie le donne, in particolare ponendo rimedio alle disparità di fatto che pregiudicano le opportunità delledonne […]”.È lo stesso pensiero che nel nostro Paese ha visto la dottrina scomporre l’art. 3 dellaCostituzione come espressivo nel primo comma dell’uguaglianza formale e nel secondo commadell’uguaglianza sostanziale. Poiché ritengo che tali contrapposizioni derivino più da una volontà divedere necessariamente due visioni del mondo si concorda con quella isolata voce che in dottrina hadato una lettura omogenea dei due commi dell’art. 3 Cost.44 Sentenza del 6 luglio 2000, Abrahamsson, C-407/98, in Raccolta, 2000, p. I-5539.

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tutti le medesime opportunità ma non le misure volte ad intervenire sui risultati della“competizione”.

5.d. L’onere della provaPrincipio generale del diritto civile è che ciascuno deve allegare le prove dei fatti cheasserisce. Nel caso di atti di discriminazione significa che la pretesa vittima deve dimostraredi aver subito uno svantaggio e che esso è stato procurato dal comportamento dell’accusato.Occorrerà dimostrare anche il danno subito a seguito di tale comportamento. Esso noncoincide necessariamente con lo svantaggio procurato dato che il danno si compone sia deldanno emergente quanto del lucro cessante. Nei casi di discriminazione possono venire inrilievo anche altri profili della responsabilità civile e in particolare il risarcimento del dannobiologico o del danno dell’immagine. Come l’esperienza della legislazione in materia didiscriminazione per motivi di sesso dimostra nelle cause in materia di discriminazione puòessere estremamente problematico ottenere prove, in quanto le informazioni pertinenti sonospesso in possesso della parte convenuta. Per questo motivo, e ispirandosi alla direttiva97/80/CE sull’onere della prova in materia di discriminazione per motivi di sesso, gli art. 10e 8 delle direttive prevedono che “gli Stati membri prendono le misure necessarie,conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone chesi ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità ditrattamento espongono, dinanzi ad un tribunale o a un’altra autorità competente fatti daiquali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba allaparte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità ditrattamento”. Gli Stati sono comunque liberi di introdurre disposizioni più favorevoli. Conriferimento a questa disposizione si è subito parlato di un’inversione dell’onere della prova.In verità le direttive, così come anche la direttiva 97/80/CE, non introducono un’inversionedell’onere della prova che, tecnicamente si ha quando la parte asserisce l’esistenza di un attoo di un fatto senza doverne provare i fatti costitutivi secondo la regola generale primarichiamata ma spettando alla parte convenuta di provarne l’inesistenza. La stessa direttiva97/80/CE in tema di onere della prova dispone che “Gli Stati membri, secondo i loro sistemigiudiziari, adottano i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provarel’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene lesodalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad unorgano giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto inbase ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta”. Questenorme stabiliscono che per dimostrare l’esistenza di una discriminazione sia sufficiente ladimostrazione della presunzione. Quindi le direttive richiedono un livello di prova attenuatorispetto alle regole generali del diritto civile in base alle quali è difficile che un giudiceconsideri accertato un fatto sulla base di mere presunzioni. Le direttive in altre parolepermettono una diversa valutazione delle presunzioni da parte del giudice nel senso chel’apprezzamento delle presunzioni dovrà essere più “libero” e, soprattutto, nonnecessariamente ancorato alla dimostrazione del fatto in termini gravi, precisi e concordanti.L’attore basterà che dimostri il fumus in presenza del quale spetta al convenuto dimostrarel’inesistenza del fatto. Nella discriminazione indiretta per motivi di sesso questo èstrettamente connesso al fatto che si considera esistente una presunzione di discriminazionequando vi sono dati statistici che dimostrano l’esistenza di uno svantaggio provocato ad unnumero considerevole di persone. Nel caso delle direttive qui esaminate non è richiesto chesia dimostrato il pregiudizio subito da un numero considerevole di persone e, quindi, anche ilrilievo dei dati statistici è attenuato. A proposito dei dati statistici il considerando 15 delladirettiva razza prevede che “la valutazione dei fatti sulla base dei quali si può argomentareche sussiste discriminazione diretta o indiretta è una questione che spetta alle autoritàgiudiziarie nazionali o ad altre autorità competenti conformemente alle norme e alle prassinazionali. Tali norme possono prevedere in particolare che la discriminazione indiretta siastabilita con qualsiasi mezzo compresa l’evidenza statistica”. Questo considerando è statoinserito in modo da permettere agli Stati che raccolgono sistematicamente dati relativi allepersone in relazione ai motivi disciplinati dalle direttive di permetterne l’utilizzo nei casi didiscriminazione. D’altro canto avendo inserito una definizione di discriminazione indirettache prescinde dallo svantaggio provocato su un considerevole numero di persone si permetteche la discriminazione possa essere dimostrata anche a prescindere dall’uso dei dati statistici.In questo modo il Consiglio ha accolto l’opposizione espressa da parte di quei Paesi, in

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primis la Francia, che storicamente ritengono illegittima la raccolta di dati relativi allecaratteristiche delle persone. In questo modo i dati statistici saranno utilizzabili laddoveesistenti ma non costituiscono una prova necessaria per dimostrare la discriminazione. Lapresunzione dell’esistenza della discriminazione potrà essere fornita con qualsiasi mezzo sianel caso della discriminazione diretta che nel caso della discriminazione indiretta, compresoil fatto notorio. Una interpretazione restrittiva dell’art. 10 e dell’art. 8 è fornitarispettivamente dai considerando 31 e 21 in base ai quali “le norme in materia di onere dellaprova devono essere adattate quando vi sia una presunzione di discriminazione e, perl’effettiva applicazione del principio della parità di trattamento, l’onere della prova debbaessere posto a carico del convenuto nel caso in cui siffatta discriminazione sia dimostrata”.Questo considerando è particolarmente significativo di come si sia voluto formalmentesostenere l’introduzione dell’inversione dell’onere della prova ma sostanzialmente lo si siaprivato di significativa efficacia.Nella direttiva lavoro il considerando 31 specifica che non incombe tuttavia al convenutoprovare la religione di appartenenza, le convinzioni personali, la presenza di un handicap,l’età o l’orientamento sessuale dell’attore. Ciò significa che tali caratteristiche debbonoessere provate o desunte dalle allegazioni dell’attore. Ciò si spiega se si considera che laratio dell’inversione dell’onere della prova, anche nella limitata forma della condivisioneprevista dalle direttive è quello di far sì che sia il soggetto titolare delle informazioni oavente un più facile accesso ad esse a fornirle a provare i fatti. Nel caso invece dellecaratteristiche menzionate nel considerando si tratta di caratteristiche proprie dell’attore che,evidentemente, spetta a lui dimostrare, posto che ciò sia necessario. È più probabile che siasufficiente dichiarare l’appartenenza ad una di tali categorie e eventualmente, in caso dicontestazione, sarà necessario provarla. Nel rapporto annuale 2003 sull’uguaglianza la regolaprevista dall’art. 10 e 8 è qualificata come condivisione dell’onere della prova. L’esempiofornito è quello della legislazione belga che “espressamente stabilisce che dati statistici o testsituazionali possono essere utilizzati per stabilire se esista una prova prima facie ditrattamento iniquo in casi di discriminazione. In particolare il test situazionale si ha quandosi confrontano i comportamenti adottati nelle diverse circostanze quando, ad esempio, ilconfronto è attuato da parte di un individuo appartenente ad una minoranza etnica o unindividuo di origine europea”45. Il test situazionale preso ad esempio non è altro che unraffronto tra il trattamento di un individuo di origine europea con un individuo appartenentead una minoranza etnica che ha, evidentemente, subito uno svantaggio. Dall’esempio fattonon si comprende quali siano gli elementi sui quali si deve basare il confronto. In altreparole, è sufficiente che si denunci un diverso trattamento oppure occorre provare taletrattamento basandosi su altri elementi?La norma sulla condivisione dell’onere della prova espressamente prevede che gli Stati nonsono tenuti ad applicarla ai procedimenti in cui spetta al giudice o all’organo competenteindagare sui fatti46.

5.e. La protezione delle vittimeEntrambe le direttive prevedono una norma volta a “proteggere le persone da trattamenti oconseguenze sfavorevoli, quale reazione a un reclamo o a un’azione volta a ottenere ilrispetto del principio della parità di trattamento”. Si tratta di una norma necessaria affinché lepersone che si ritengono vittime di una discriminazione non siano dissuase dal presentare unricorso per timore delle possibili azioni di rappresaglia o vittimizzazione che questo puòdeterminare. La norma sebbene non lo contempli espressamente deve essere interpretata nelsenso di estendere la protezione non solo alla vittima dell’atto discriminatorio ma anche aitestimoni che intervengono nel procedimento a sostegno della vittima. Altrimenti verrebbemeno la possibilità di utilizzare la prova testimoniale che invece in molti casi è l’unica provasu cui è possibile basarsi proprio al fine di fondare quel fumus necessario per far scattarel’inversione dell’onere della prova sul convenuto. Nella direttiva quadro è specificato che iltrattamento sfavorevole può essere costituito dal licenziamento o da altro trattamentosfavorevole da parte del datore di lavoro. Queste disposizioni recepiscono la giurisprudenzadella Corte in materia di discriminazione per motivi di sesso già richiamata sopra a proposito

45 Rapporto annuale 2003 Verso la diversità, Direzione generale Occupazione e affari sociali dellaCommissione europea, p. 17.46 Art. 8 e considerando 22 direttiva 2000/43.

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della possibilità di far valere un atto discriminatorio anche dopo la cessazione del rapportoche lo ha originato. Rispetto a quella giurisprudenza non si ha la necessità di qualificarel’atto come discriminazione ma come quello che propriamente è vale a dire un atto di rivalsanei confronti di colui che ha esercitato un proprio diritto. Opportunamente nella direttivaquadro si specifica che è vietato il licenziamento ed ogni altro trattamento sfavorevole.Anche questo era già stato affermato dalla Corte di Giustizia che nella sentenza Enderby haritenuto contrario alla direttiva 76/207 che pure espressamente menziona solo illicenziamento anche il rifiuto da parte di una impresa di fornire referenze alla sig.ra Enderbyconsiderato un atto adottato come reazione al ricorso in precedenza presentato dalla sig.raEnderby contro il licenziamento illegittimo. La norma deve senz’altro essere interpretata inmodo estensivo proprio per far sì che il soggetto leso non sia dissuaso dal proporre ricorsoper timore di atti di rappresaglia. È evidente che se vi sono state denunce di discriminazioneo di rappresaglie a seguito di discriminazione il rapporto di lavoro potrà essere incrinato alpunto da interrompersi. Questo è un fenomeno usuale nel caso di licenziamento ingiustificatoquando il lavoratore comunque sebbene abbia diritto al reintegro non prosegue poi ilrapporto di lavoro. Questo rende evidente la necessità che si intervenga in via preventiva,attraverso codici di condotta, che le parti siano informate dei rispettivi diritti e doveri. Inquesti casi solo un’azione preventiva può garantire un’effettiva protezione dei soggetti.

6. La direttiva 2000/43 sulla parità di trattamento per ragioni connesse alla razza oall’origine etnica in particolare6.a. L’ambito di applicazioneAi sensi dell’art. 3, par. 1, della direttiva 2000/43 il principio della parità di trattamento fra lepersone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica si applica a tutte le persone siadel settore pubblico sia del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico.Aspetto principale della direttiva è che si caratterizza per disciplinare solo uno dei motividell’art. 13 TCE vale a dire la razza e l’origine etnica. La duplice espressione è volta aconferire una nozione ampia e soprattutto a consacrare il compromesso raggiunto rispettoalla Francia che tradizionalmente rifiuta l’impiego del termine razza per non attribuire adesso significato e così istituzionalizzare in un atto normativo l’esistenza di una suddivisionedell’umanità in razze diverse. Così il considerando n. 6 precisa che “l’Unione europearespinge le teorie che tentano di dimostrare l’esistenza di razze umane distinte. L’uso deltermine “razza” nella presente direttiva non implica l’accettazione di siffatte teorie”. Lamedesima opposizione all’uso del termine razza è stata sostenuta dall’Unione europeanell’ambito della Conferenza di Durban sulla discriminazione razziale. In tale contesto laposizione dell’Unione venne aspramente contestata dalle delegazioni dei Paesi in via disviluppo che sostenevano invece l’esigenza di inserire tale termine trattandosi di unostrumento di difesa delle vittime di discriminazione e premessa imprescindibile ai fini delriconoscimento dei soggetti legittimati a beneficiare degli strumenti di tutela edeventualmente di compensazione.Per la difficoltà che spesso sussiste a scindere la discriminazione razziale da quella religiosasarebbe stato preferibile includere nella direttiva anche la discriminazione per motivi direligione. Ma come spiegato all’inizio di questo capitolo la volontà di procedere con unadirettiva specifica relativa alla discriminazione razziale deve essere ricondotta da una partealla lobby costituitasi negli anni precedenti e alla particolare situazione politica favorevoleall’approvazione di uno strumento di contrasto della discriminazione razziale. Includervi lareligione avrebbe potuto compromettere l’adozione rapida della direttiva inserendo questioninon del tutto risolte relative alla discriminazione religiosa47.Oltre ad essere rivolta ad un unico motivo di discriminazione la direttiva 2000/43 sicaratterizza per avere un ambito di applicazione materiale più ampio. Per la prima volta unanormativa contro la discriminazione è stata estesa al di là del settore del lavoro ed inparticolare alla protezione sociale, comprese la sicurezza sociale e l’assistenza sanitaria; leprestazioni sociali, l’istruzione e l’accesso ai beni e servizi e alla loro fornitura, inclusol’alloggio. Questi ambiti di applicazione richiamano la normativa e la giurisprudenza inmateria di libera circolazione dei lavoratori che, onde garantire piena integrazione deilavoratori migranti in un altro Stato membro, ha richiesto che ad essi sia praticato un 47 House of Lords, Ninth Report, 2000, par. 73.

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trattamento uguale ai cittadini degli Stati membri. In effetti nella relazione illustrativa dellaproposta di direttiva la Commissione precisa che “gli Stati membri sono già tenuti ai sensidel regolamento n. 1612/68 sulla libera circolazione dei lavoratori migranti, a garantirebenefici sociali a prescindere dalla nazionalità. In materia, i benefici sociali sono stati definitidalla Corte di Giustizia europea come benefici di natura economica o culturale garantiti negliStati membri dalle autorità pubbliche o da organizzazioni private. La stessa definizione siapplica nella materia qui trattata”. Alcuni Stati avevano sollevato alcune obiezioni circa lapossibilità di applicare il concetto di vantaggio sociale ad una situazione puramente interna.Nonostante questo la proposta non è stata modificata così permettendo che la direttiva possaapplicarsi ad una pluralità di aspetti che possono facilitare l’integrazione delle persone comeavvenuto con i lavoratori migranti. Occorre però criticare nella versione italiana l’usodell’espressione “prestazione sociale” a differenza della versione inglese che recita socialadvantages e dell’art. 7, par. 2, del regolamento n. 1612/68 secondo il quale il lavoratoremigrante “gode degli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali”. Poiché erastato anche dibattuto e accettato che si applicasse il medesimo concetto utilizzato in ambitodi libera circolazione dei lavoratori sarebbe stato opportuno, per evitare problemi diinterpretazione, utilizzare la formula vantaggio sociale. Quanto alla protezione sociale inseguito ad un emendamento del Parlamento europeo è stato specificato che essa comprendela sicurezza sociale e l’assistenza sanitaria. Si tratta anche in questo caso di una notevoleestensione dato che in molti Paesi l’organizzazione sanitaria non tiene conto della particolariesigenze delle popolazioni appartenenti a minoranze razziali o di origine etnica.Ancora la direttiva prevede che si applichi anche al settore dell’istruzione ed all’accesso aibeni e servizi, alla loro fornitura, incluso l’alloggio. Casi di discriminazioni da parte diagenzie immobiliari o di locali aperti al pubblico non sono quindi ammessi dalla direttiva.Va da sé che la sanità, i sistemi di sicurezza sociale, l’istruzione sono settori di competenzadegli Stati. La direttiva, infatti, non riguarda la disciplina di tali settori ma, analogamente aquanto affermato in materia di libera circolazione dei lavoratori, richiede solo che talecompetenza non produca una discriminazione in base alla razza o all’origine etnica. Edinfatti l’art. 3, par. 1, precisa che la direttiva si applica ai settori elencati “nei limiti dei potericonferiti alla comunità”. Tale precisazione non è contenuta nella direttiva quadro poichéquesta applicandosi al settore del lavoro riguarda un settore di chiara competenzacomunitaria. Quanto al settore del lavoro l’art. 3 precisa che si applica alle condizioni diaccesso all’occupazione e al lavoro sia indipendente che autonomo, compresi i criteri diselezione e le condizioni di assunzione, indipendentemente dal ramo d’attività e a tutti ilivelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione, all’accesso a tutti i tipi e livellidi orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazioneprofessionale, inclusi i tirocini professionali, all’occupazione e alle condizioni di lavoro,comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione. Inoltre prevede che si applichianche all’affiliazione e all’attività in un’organizzazione di lavoratori o di datori di lavoro o inqualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, nonché alleprestazioni erogate da tali organizzazioni. Il divieto di discriminazione si applica quindi atutte le organizzazioni comprese quelle sindacali. La precisazione è opportuna sebbene lagaranzia della applicazione è rimessa non al controllo dello Stato quanto all’autodisciplinacon, ad esempio, l’adozione di codici di condotta come già avvenuto in alcuni Paesi membri.Quanto all’applicazione ratione personae la direttiva 2000/43 così come la direttiva 2000/78si applica a tutte le persone presenti nel territorio comunitario. Il Parlamento europeo con unemendamento aveva proposto che si esplicitasse l’applicazione alle persone giuridiche.Poiché però in alcuni Stati le persone giuridiche non possono agire in giudizio contestandouna discriminazione nei loro confronti, l’emendamento è stato recepito nel considerando n.16 in base al quale “è importante proteggere tutte le persone fisiche contro ladiscriminazione per motivi di razza o di origine etnica. gli Stati membri dovrebbero inoltre,se del caso e conformemente alle rispettive tradizioni e prassi nazionali, prevedere unaprotezione per le persone giuridiche che possono essere discriminate per motivi di razza oorigine etnica dei loro membri”. Questo considerando accoglie un’interpretazione restrittivain quanto consente agli Stati che non prevedano la protezione nei confronti delle personegiuridiche di non modificare la propria normativa. L’emendamento sarebbe forse statomeglio recepito senza alcuna precisazione dato che comunque il termine persone, nonqualificato, si presta ad essere interpretato come riferito sia alle persone fisiche che allepersone giuridiche.

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6.b. La questione del trattamento dei cittadini di Paesi terziLa notevole estensione dell’ambito di applicazione della direttiva richiama lo statuto delcittadino comunitario che ha diritto ad un trattamento paritario rispetto agli altri cittadinicomunitari. Proprio questa notevole estensione può spiegare l’esclusione dell’applicazionedella direttiva alle differenze di trattamento basate sulla nazionalità lasciando impregiudicate“le disposizioni e le condizioni relative all’ingresso e alla residenza di cittadini di Paesi terzie di apolidi nel territorio degli Stati membri, né qualsiasi trattamento derivante dallacondizione giuridica dei cittadini dei Paesi terzi o degli apolidi interessati”. La disposizione èrafforzata dal considerando n. 13 in base al quale il “divieto di discriminazione dovrebbeapplicarsi anche nei confronti dei cittadini di Paesi terzi, ma non comprende le differenze ditrattamento basate sulla nazionalità e lascia impregiudicate le disposizioni che disciplinanol’ingresso e il soggiorno di cittadini dei Paesi terzi e il loro accesso all’occupazione eall’impiego”.Come precisato nel considerando la direttiva si applica anche ai cittadini di Paesi terzi. Suquesto mi pare che non vi debba essere alcun dubbio dato che altrimenti il problema diescludere la discriminazione basata sulla cittadinanza non si sarebbe neanche posto. Lenorme quindi non sono volte ad escludere l’applicazione ai cittadini di Paesi terzi ma adescludere che essi possano invocare di essere stati discriminati in base alla cittadinanza. Lagiustificazione formale di una tale esclusione è che lo stesso art. 13 T Ce non contempla talemotivo di discriminazione che, come noto, è invece considerato nell’art. 12 T Ce. A questoproposito si noti che il divieto dell’art. 12 T Ce è sempre stato inteso come divieto delladiscriminazione in base alla cittadinanza e limitato dalla Corte di Giustizia ai soli cittadinicomunitari. Ora poiché l’art. 13 T Ce fa salve le altre disposizioni del Trattato si è detto cheil divieto di discriminazione in base alla nazionalità è disciplinato dall’art. 12 T Ce e quindiqualsiasi atto giuridico deve essere basato su di esso. Ciò è sicuramente vero per quantoriguarda i cittadini comunitari. Il problema è che attraverso questa interpretazione restrittivadell’art. 13 e dell’art. 12 si considera la Comunità non competente a disciplinare ladiscriminazione per motivi di cittadinanza dei cittadini di Paesi terzi. Questa conclusione nonè accettabile soprattutto dopo che il Trattato di Amsterdam ha comunitarizzato la politica inmateria di visti, immigrazione e asilo. L’esclusione è inoltre formulata in modo così ampio ecategorico da legittimare interpretazioni estensive con il pericolo di svuotare gran parte delsignificato della stessa direttiva. Questo è evidente se si pensa a come sia spesso difficiledistinguere se una discriminazione è effettivamente basata sulla cittadinanza o sulla razza ol’origine etnica. La situazione è forse meno evidente in Paesi storicamente di immigrazioneper non parlare del Regno Unito che ha sempre avuto regole speciali per i cittadini delCommonwealth. In questi Paesi infatti le discriminazioni per motivi di razza o origine etnicasono più facilmente distinguibili da quelle a motivo della cittadinanza poiché le persone dirazza o origine etnica diversa da quella della maggioranza della popolazione sono anchecittadini di tali Paesi. Ma in Paesi come l’Italia, la Spagna o la Germania che ha una politicatendente a non facilitare l’acquisto della cittadinanza, discriminazione a motivo della razza odell’origine etnica sono facilmente mascherabili dietro a discriminazioni in base allacittadinanza. Questo ci porta a concludere che la norma debba essere interpretata come tuttele eccezioni ad una regola generale in modo restrittivo così da escludere che essa riguardianche le discriminazioni indirette per motivi di razza o origine etnica determinata da untrattamento basato sulla cittadinanza che è rispetto alla direttiva una caratteristicaapparentemente neutra ai sensi dell’art. 3, par. 2, lett. b).L’esclusione dell’applicazione della direttiva alla discriminazione per motivi di cittadinanzacomporta anche un ulteriore problema di rapporto tra il sistema previsto dalle stesse direttivee quello previsto dall’art. 12 T CE. Infatti le direttive prevedono che gli Stati predisponganoun sistema di protezione contro le discriminazioni anche di tipo giurisdizionale efficace chenon esiste in relazione alla discriminazione per motivi di nazionalità. È vero che in questocaso si tratta di una norma del Trattato aventi effetti diretti che i singoli possono come spessohanno fatto far valere di fronte alle autorità giudiziarie nazionali rivendicando il diritto allaparità di trattamento. Ma le direttive prevedono qualcosa in più se non altro per l’obbligo diprevedere adeguate sanzioni nei confronti di chi compie una discriminazione, compreso ilrisarcimento del danno, e per la richiesta agli Stati di adottare misure volte a realizzare laparità di trattamento sia incoraggiando il dialogo con le parti sociali che eventualmente conl’adozione di misure ad hoc. È probabilmente vero che i casi di discriminazione in base alla

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nazionalità sono diversi rispetto a quelli che si creano per motivi di razza o origine etnica inquanto spesso è il valore che tali divieti di discriminazione tutelano ad esser diverso. Nelsecondo caso si tratta della dignità delle persone così che il divieto viene a rappresentare undiritto fondamentale della persona umana mentre nel primo caso nel diritto comunitario ildivieto di discriminazione per motivi di nazionalità ha facilitato l’integrazione dei cittadini eprima ancora dei lavoratori nel mercato. Il lavoratore che denuncia il mancatoriconoscimento di un diritto fiscale o dell’indennizzo delle spese di trasporto chiede ilriconoscimento di un diritto economico che gli è concesso in quanto la parità di trattamento èfunzionale al rafforzamento dell’integrazione europea. Tant’è che quando la parità ditrattamento non è funzionale a tale obiettivo la Corte ha deciso di non occuparsenetollerando l’esistenza di palesi discriminazioni tra lavoratori o imprese a meno che nonintervenga a rimuoverle il legislatore nazionale. Questa differenza non riguarda però ildivieto sancito dall’art. 12 T CE ma le sue specificazioni nel Trattato e la sua interpretazioneda parte della Corte di Giustizia. Con l’affermazione dell’istituto della cittadinanza europeasoprattutto dopo i recenti sviluppi della giurisprudenza è legittimo ipotizzare ancora nuoviambiti di applicazione dell’art. 12 T CE sempre più connesso alla protezione di diritti dellapersona in quanto tale piuttosto che dei fattori di produzione. L’esclusione quindi del divietodi discriminazione in base alla nazionalità dal sistema di protezione delle direttive fermarimanendo la giurisprudenza e la normativa in vigore per tale motivo di discriminazioneevidenzia ancora una volta la “differenza di trattamento” tra i motivi di discriminazione giàpresente nel Trattato rispetto alla nazionalità e al sesso e accentuata dalle direttive a dispettodell’orizzontalità dell’art. 13 T CE. Il paradosso è che il divieto di discriminazione in basealla nazionalità che costituisce un principio fondamentale del diritto comunitario basato suuna norma del Trattato avente effetti diretti potrebbe avere una tutela inferiore rispetto aquella predisposta dalle direttive che pur riguardano divieti che non costituiscono principifondamentali del diritto comunitario, contenuti in una norma non avente effetti diretti. Essipossono essere ricondotti alla categoria dei principi generali in quanto ciascuno di essicorrisponda ad un diritto fondamentale. Si vedrà che per quanto riguarda il divieto didiscriminazione in base al sesso sancito dall’art. 141 T CE e non trattato dalle direttive oltread esserci già molte normative specifiche è stata adottata una direttiva che modifica ladirettiva 76/203 così adeguando gli strumenti di tutela (definizioni e mezzi di ricorso) ed è infase di negoziazione una proposta di direttiva volta ad estendere l’applicazione del divieto exart. 141 T CE anche al di là del settore del lavoro. L’unico motivo di discriminazione chenon è disciplinato da direttive specifiche è quello della nazionalità dei cittadini comunitari aprescindere dal loro svolgimento di un’attività economica. Il legislatore comunitariodovrebbe quindi intervenire disciplinando la materia con un atto normativo che sarebbequanto mai auspicabile considerando lo sviluppo della giurisprudenza in questo settore.Si consideri come esempio un caso portato alla cronaca recentemente relativamente allaprassi delle compagnie assicurative di esigere premi assicurativi diversi a seconda dellanazionalità delle persone. È da ritenere che non si tratti di una discriminazione per motivi dirazza o origine etnica in quanto è estesa a una pluralità di persone di origini etniche diverseanche molto distanti geograficamente (asiatici, africani ecc.). Ciò che accomuna questepersone è l’essere stranieri non comunitari. Situazioni come questa rischiano di non esseretutelate dalle direttive in quanto non risulta provata la discriminazione a motivo della razza oorigine etnica. Sia chiaro che non si tratta di provare il movente razzista ma che la differenzadi trattamento è basata sulla razza o sull’origine etnica a prescindere dalle intenzionidell’autore.Si consideri che l’esclusione prevista dall’art. 3 è precisato che non pregiudica ledisposizioni e le condizioni relative all’ingresso e alla residenza di cittadini di Paesi terzi eapolidi nel territorio degli Stati membri, né qualsiasi trattamento derivante dalla condizionegiuridica dei cittadini di Paesi terzi o degli apolidi interessati. La direttiva precisa quindi chela normativa che disciplina l’immigrazione e il soggiorno dei cittadini di Paesi terzi non puòessere impugnata per motivi di discriminazione in base alla nazionalità. Si tratta di unaprecisazione comprensibile e meno sorprendente dell’altra. La distinzione tra cittadini estranieri e il differente trattamento degli uni e degli altri fa parte delle prerogative di unoStato sovrano. Sebbene vi siano regole di diritto internazionale che sono volta a limitare ipoteri di uno Stato rispetto al trattamento degli stranieri rimane indiscussa la norma di dirittointernazionale generale in base al quale lo Stato è obbligato ad ammettere solo i propricittadini. Forse un limite potrebbe essere riconosciuto proprio nel principio generale di non

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discriminazione in base al quale sarebbe contestabile la prassi di uno Stato voltosistematicamente a discriminare l’ingresso di alcune persone in quanto ad esempioappartenenti ad una determinata razza o origine etnica o ad una religione. Ma anche laddovequesto limite possa essere riconosciuto lo Stato è sempre legittimato a trattare in mododiverso i cittadini dagli stranieri prevedendo regimi diversi quanto alle condizioni disoggiorno, di ricongiungimento familiare, di accesso al lavoro. Il potere dello Stato giungefino a poter allontanare lo straniero indesiderato cosa non possibile nei confronti del propriocittadino. Se quindi la direttiva si fosse limitata a escludere dall’applicazione della direttivala normativa sull’ingresso, il soggiorno e il trattamento degli stranieri avremmo avuto forsemeno da discutere e criticare. Sebbene anche in questo caso si sarebbe dovuto precisare chele uniche differenze di trattamento ammissibili sono quelle previste dalla legge la quale a suavolta deve essere conforme alle norme internazionali rilevanti e in particolare alle norme suidiritti umani, in primis la Convenzione europea dei diritti umani. Questo perché in base anumerose convenzioni internazionali tra cui quelle dell’OIL sul trattamento dei lavoratorinon tutte le differenze di trattamento dei lavoratori sono ammissibili. Un esplicito richiamodi tali convenzioni sarebbe stato auspicabile. Inoltre se si ammettono che discriminazione inbase alla cittadinanza possono essere praticate dagli Stati se rispettano gli standardinternazionali non si capisce perché sia ammissibile una differenza di trattamento in base allanazionalità da parte di privati. È possibile nel quadro delle direttive che un’assicurazionepratichi trattamenti diversi a seconda della nazionalità dell’assicurato o che un locale nonammetta l’ingresso di cittadini non comunitari?Sebbene tali discriminazioni non potrebbero essere tollerate negli ordinamenti interni in virtùdegli obblighi internazionali e dei principi fondamentali sanciti nelle Costituzioni o nelletradizioni costituzionali comuni, la direttiva avrebbe dovuto essere chiara così evitando chetra le maglie dell’ambiguità essa legittimi certe odiose forme di discriminazione.È pur vero però che la Corte ha in varie occasioni considerato normative che pur si situano aldi fuori del suo ambito di applicazione perché contrastanti o preclusive di un dirittoriconosciuto dall’ordinamento comunitario. È quanto avvenuto per le regole processualinell’ambito della libera circolazione dei lavoratori. Recentemente, come vedremo, la Corteha dichiarato, forte di una precedente sentenza della Corte europea, la discriminatorietà dellalegge britannica che regola il matrimonio in quanto presupposto del godimento del dirittoalla parità di retribuzione tra uomo e donna. Nonostante che in questo caso si abbia unespresso divieto di applicazione della direttiva mi pare che questi precedenti possanoconsentire alla Corte di intervenire sul punto in via pregiudiziale superando il dettato delledirettive.L’esclusione della discriminazione per motivi di nazionalità rappresenta il punto di maggiorecontrasto con l’art. 14 della Convenzione europea dei diritti umani48. Tale norma contienel’espresso riferimento all’origine nazionale peraltro contemplata in un elenco di motivi didiscriminazione non esaustivo. Eventuali discriminazioni in base alla nazionalità ammessedalla direttiva sarebbero facilmente contestabili di fronte alla Convenzione europea dei dirittiumani soprattutto dopo l’entrata in vigore del Protocollo n. 12 che consentirà di applicarel’art. 14 indipendentemente dalla violazione di un diritto tutelato dalla Convenzione.Non solo ma rispetto alle leggi disciplinanti l’ingresso e il soggiorno degli stranieri la Corteeuropea ha espressamente affermato che sebbene gli Stati siano sostanzialmente liberi neldefinire tali regole ciò non toglie che esse debbano rispettare i diritti garantiti dallaConvenzione europea compreso il divieto di discriminazione. Così nella sentenza Abdulaziz,Cabales e Balkandali i ricorrenti contestavano la legge britannica sull’immigrazionesostenendo che essa costituisse una discriminazione per motivi di razza. La Corte rigettal’argomento precisando che sebbene la legge sull’immigrazione necessariamente comportiuna distinzione in base alla nazionalità essa non può considerarsi come indirettamentediscriminatoria per motivi di razza. Il fatto che “the mass immigration against which therules were directed consisted mainly of would-be immigrants from the New Commonwealthand Pakistan, and that as a result they affected at the material time fewer white people thanothers, is not a sufficient reason to consider them as racist in character: it is an effect which

48 Art. 14: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essereassicurato senza distinzione di alcuna specie, come di sesso, di razza, di colore o di lingua, direligione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza ad unaminoranza nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”.

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derives not from the content of the 1980 Rules but from the fact that, among those wishing toimmigrate, some ethnic groups outnumbered others. The Court concludes from theforegoing that the 1980 Rules made no distinction on the ground of race and were thereforenot discriminatory on that account”. Sulla base di questa argomentazione sarà molto difficileche una legge sull’immigrazione possa essere contestata perché discriminatoria per motivi dirazza. Ma ciò che è importante è che questo sia ammissibile sul piano della Convenzioneeuropea. Questa potrebbe ad esempio riscontrare una discriminazione diretta per motivi dinazionalità e indiretta per motivi di razza se una particolare popolazione o etnia siasistematicamente esclusa dall’ingresso comparandola rispetto ad altre persone pur stranierema di nazionalità od origine etnica diversa senza che vi siano giustificazioni ammissibili.Si consideri anche che analoga esclusione di applicabilità è prevista dall’art. 3, par. 2, delladirettiva 2000/78. In questo caso l’esclusione non ha quegli effetti negativi circal’interpretazione e la qualificazione di alcuni atti discriminatori e proprio per questo risultameno comprensibile la ragione di un’esplicita esclusione ad eccezione forse delladiscriminazione per motivi religiosi.

6.c. L’istituzione dell’organismo di promozione della parità di trattamentoL’art. 13 della direttiva 2000/43 recita: “Gli stati membri stabiliscono che siano istituiti unoo più organismi per la promozione della parità di trattamento di tutte le persone senzadiscriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica. Tali organismi fanno eventualmenteparte di agenzie incaricate, a livello nazionale, della difesa dei diritti umani o dellasalvaguardia dei diritti individuali. 2. … tra le competenze di tali organismi rientrano:l’assistenza indipendente alle vittime di discriminazioni …; lo svolgimento di inchiesteindipendenti ….; la pubblicazione di relazioni indipendenti…”.Il testo originario della proposta di direttiva, elaborato dalla Commissione, definivaespressamente l’organismo come indipendente. In fase di negoziazione tale termine è statosoppresso soprattutto per le preoccupazioni in merito alle implicazioni finanziarie sollevateda alcune delegazioni. Con una soluzione pragmatica si è allora optato per omettere taleattributo sottolineando che ciò che è essenziale è che l’organismo sia in grado di svolgere lefunzioni ad esso attribuite in modo indipendente, lasciando quindi al legislatore nazionale ilcompito di stabilire come questo possa essere garantito. Se si considera che, in base all’art. 3della direttiva, l’organismo in oggetto può svolgere inchieste indipendenti rivolte sia alsettore pubblico sia al settore privato, risulta chiaro come la garanzia dell’indipendenza siaun requisito necessario anche se solamente implicito. In questo senso dispone anche l’art. 8bis della direttiva 2002/73 che modifica la direttiva 76/207 sulla parità di trattamento trauomini e donne, e che richiede l’istituzione di “un organismo indipendente per l’attuazionedel principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne”.L’istituzione di organismi di questo tipo è prevista in alcuni documenti internazionali che liqualificano come indipendenti. Così la General policy recommendation n. 2 “Specialisedbodies to combat racism, xenophobia, antisemitism and intolerance at national level”adottata dalla European Commission against Racism and Intolerance del Consiglio d’Europae richiamata espressamente dalle conclusioni generali della conferenza europea contro ilrazzismo tenutasi a Strasburgo il 13 ottobre 2000, “All different all equal, from principle topractice”. Tale raccomandazione indica i principi che gli Stati devono rispettarenell’istituzione degli organismi in oggetto. Tra questi vi è il principio n. 5, “Independenceand accountability”, secondo il quale gli organismi “should function without interferencefrom the State and with all guarantees necessary for their independence including thefreedom to appoint their own staff, to manage their resources as they think fit and to expresstheir views publicly”. Analogamente le stesse conclusioni generali della conferenza diStrasburgo dichiarano, al par. 21, che “the European Conference underlies the essentialcontribution of independent specialised bodies at national, regional or local levels”.Anche il programma d’azione approvato dalla Conferenza delle Nazioni Unite di Durbanprevede, al par. 90, che gli Stati debbano “establish, strengthen, review and reinforce theeffectiveness of independent national human rights institutions, particularly on issues ofracism, racial discrimination, xenophobia and related intolerance” richiamando i Principlesrelating to the status of national institutions for the promotion and protection of humanrights”, i c.d. principi di Parigi, annessi alla risoluzione dell’Assemblea generale n. 48/134del 20 dicembre 1993.L’attribuzione ad un unico organismo delle funzioni di promozione delle pari opportunità

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comprendente, oltre alla lotta alla discriminazione per motivi di razza od origine etnica,anche il genere, presenta alcuni aspetti positivi. Altri Stati hanno preferito questo tipo diorganismi che, anzi, hanno una competenza estesa anche ad altri motivi di discriminazionequali la religione, l’orientamento sessuale, l’età e l’handicap; si pensi alla Equality Authorityin Irlanda, l’Equality Commission for Nothern Ireland o all’analoga commissione nei PaesiBassi. La stessa direttiva ha previsto espressamente la possibilità di attribuire le funzioni dipromozione delle pari opportunità ad un’agenzia incaricata del rispetto dei diritti umani.Anche l’art. 13 Trattato CE induce ad adottare un approccio orizzontale nella lotta alladiscriminazione, approccio che, infatti, costituisce il perno centrale del programma d’azionedi lotta contro le discriminazioni 2001-2006 (GUCE L 303, del 2 dicembre 2002, pp. 23-28).Inoltre, la costituzione di un organismo unico per la promozione delle pari opportunitàsarebbe rilevante in ordine al recepimento della direttiva 2000/78 anche se, in questo caso, lacreazione di un organismo non sia contemplata fra le disposizioni della direttiva. È vero chela stessa Unione ha creato l’Osservatorio europeo sul razzismo e la xenofobia, quale agenziaesterna ed indipendente, optando quindi per la creazione di un ente specializzato(Regolamento n. 1035/97/CE, in GUCE, L 151, del 10/07/1997, pp.1-7). Ma proprio aquesto riguardo vi è un dibattito in corso sull’opportunità di creare un'unica agenzia europeadi tutela dei diritti umani eventualmente anche trasformando lo stesso Osservatorio diVienna49.

7. Il Programma d’azionePrincipio ispiratore del sistema comunitario di lotta alla discriminazione è che le misurenormative non sono sufficienti se non accompagnate da misure di incentivazione e disostegno al cambiamento delle prassi e dei comportamenti mobilitando tutti i soggetti attivinel settore e incoraggiando lo scambio di informazioni e di buone pratiche. Così accanto alledue direttive e contemporaneamente alla direttiva quadro, il Consiglio ha adottato ladecisione 2000/750 che istituisce un programma comunitario per combattere lediscriminazioni (2001-2006). Il programma riguarda tutti i motivi di discriminazione eccettoil sesso per il quale esiste un programma d’azione specifico. Come precisato dallaCommissione tra i diversi motivi di discriminazione considerati nel programma non esisteuna scala di priorità così che esso affronta la discriminazione a tutto campo anziché disporreazioni separate per i diversi tipi, e ove opportuno terrà conto anche della dimensione digenere50. Secondo l’art. 1 il programma è “volto a promuovere misure di lotta alladiscriminazione dirette o indirette fondate sulla razza o l’origine etnica, la religione o leconvinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”. Sebbene vi sia ilriferimento solo alla discriminazione diretta e indiretta il programma deve essere consideratocome riguardante la discriminazione definita dagli artt. 1 e 2 delle direttive e quindicomprensiva anche delle molestie.In base all’art. 2 le finalità perseguite dal programma sono le seguenti: migliorare lacomprensione dei fenomeni connessi con la discriminazione attraverso una miglioreconoscenza del fenomeno e attraverso la valutazione dell’efficacia delle politiche e delleprassi; sviluppare la capacità di prevenire e affrontare efficacemente il fenomeno delladiscriminazione, in particolare rafforzando i mezzi d’azione delle organizzazioni esostenendo lo scambio di informazioni e buone prassi e la costituzione di reti a livelloeuropeo, tenendo nel contempo conto degli aspetti specifici delle diverse forme didiscriminazione; promuovere e divulgare i valori e le prassi che animano la lotta allediscriminazione, anche attraverso attività di sensibilizzazione. Per la realizzazione di taliobiettivi il programma individua le seguenti azioni: studi e analisi del fenomeno nonchévalutazione dell’efficacia e dell’impatto della legislazione e delle prassi antidiscriminatorie;cooperazione transnazionale e promozione di una rete europea dei soggetti che operano perla prevenzione e la lotta alla discriminazione; promozione e sensibilizzazione delle attivitàdel programma. L’attuazione del programma è assicurata dalla Commissione assistita da unComitato, secondo la procedura di gestione ai sensi degli artt. 4 e 7 della decisione

49 Il Consiglio europeo di dicembre 2003 ha deciso di trasformare l’Osservatorio di Vienna in Agenziaeuropea di tutela dei diritti umani. Tale trasformazione era espressamente auspicata da EuropeanUniversity Institute, Leading by example: a Human Rights Agenda for the European Unione for theYear 2000, Firenze, 1998, p. 7 e pp. 89-96.50 Relazione illustrativa par. 4.

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1999/468/CE per le materie indicate dall’art. 5, par. 1, e in via residuale secondo laprocedura di consultazione prevista dagli artt. 3 e 7 della decisione sopra richiamata. Inparticolare l’art. 5, par. 1, sottopone alla procedura di gestione le seguenti materie:orientamenti generali per l’attuazione del programma; il piano di lavoro annuale perl’attuazione delle azioni del programma compresa la possibilità di adattare o completare itemi del programma; il sostegno finanziario comunitario; il bilancio annuale e la ripartizionedei finanziamenti tra le varie azioni del programma; le modalità di selezione delle azioni edelle organizzazioni sostenute dalla Comunità nonché il progetto di elenco delle azioni edorganizzazioni da sostenere, presentato dalla Commissione; i criteri di controllo e divalutazione del programma, in particolare il rapporto costo/efficacia, nonché le modalità didivulgazione e di trasferimento dei risultati. La maggior parte delle decisioni relative alprogramma e tutte quelle di natura sostanziale sono quindi rimesse alla procedura delcomitato di gestione.Non vi sono esclusioni circa i soggetti ammissibili. Come esplicitato nell’allegato alladecisione essi possono essere gli Stati membri, enti locali e regionali, organismi chepromuovono la parità di trattamento, le parti sociali, le organizzazioni non governative, leuniversità e gli istituti di ricerca, gli uffici statistici nazionali e i media. Sono i singoli bandi aeventualmente prevedere restrizioni relativamente alle caratteristiche dei soggetti, alla lorocapacità a condurre le azioni richieste o a riservare un bando ad un’unica categoria disoggetti come sino ad ora avvenuto per gli Stati membri51.L’art. 8 della decisione istitutiva del programma è volto a realizzare la complementarietà e lacoerenza dell’azione della Comunità così da ottimizzare le risorse e non finanziare azioni cherientrano in altre politiche e altri programmi della Comunità. Tali attività sono quelle cheriguardano la ricerca, l’occupazione, la parità uomo-donna, l’integrazione sociale, la cultura,l’istruzione, la formazione e la politica in materia di gioventù e nel campo delle relazioniesterne della Comunità. Espressamente l’art. 8, par. 2, richiede che sia realizzatacomplementarietà con le azioni avviate nell’ambito dei fondi strutturali e dell’iniziativacomunitaria Equal. Tant’è che il Programma d’azione comunitario 2001-2006 non sosterràazioni ammissibili al finanziamento nel quadro di Equal. Già nella Comunicazione relativa amisure comunitarie di lotta alla discriminazione COM(1999)564 la Commissione avevaespressamente richiamato i programmi comunitari rispetto ai quali è necessaria lacomplementarietà e occorre evitare qualsiasi discriminazione: gli Orientamenti in materia dioccupazione, i Fondi strutturali, il programma Equal, il Fondo Sociale europeo, ilprogramma Istruzione, formazione e gioventù, il programma specifico per combatterel’esclusione sociale volto a sostenere gli sforzi degli Stati membri per combattere e prevenirel’esclusione sociale52. Alla complementarietà tra azioni e programmi comunitari si affiancala complementarietà dell’azione comunitaria rispetto a quella degli Stati effettuata a livellolocale, regionale o nazionale.La partecipazione al programma è stata sin dall’inizio estesa ai Paesi EFTA/SEE nonché aiPaesi in via di adesione compresi Cipro, la Turchia e Malta, sebbene sulla base di 51 Nell’ambito delle azioni relative allo scambio di buone prassi ed al rafforzamento della capacità deisoggetti sono finanziati soprattutto progetti presentati da organizzazioni non governative generalmentedotate di una flessibilità organizzativa congeniale alla gestione amministrativa dei progetti comunitari.Ma sono stati finanziati anche progetti di Università, Stati, Regioni o enti locali, organizzazioniinternazionali. In questa tipologia di attività sono generalmente esclusi i soggetti che perseguono scopidi lucro.52 Gli Orientamenti in materia di occupazione esortano già gli Stati membri a dare la massima prioritàalla lotta contro la discriminazione delle donne in tutti i loro interventi sul mercato del lavoro. Essiinvitano gli Stati membri a prestare un’attenzione particolare alle necessità dei disabili, delleminoranze etniche e di altri gruppi e individui che, anche a causa della discriminazione, potrebberotrovarsi in una situazione di svantaggio sul mercato del lavoro. Inoltre i medesimi gruppi possonobeneficiare dell’assistenza ordinaria dei Fondi strutturali. Inoltre, attraverso il programma Equal, ilFondo Sociale europeo affronta i problemi connessi con l’esclusione, la discriminazione el’ineguaglianza nella misura in cui essi interagiscono con l’occupazione. L’azione è incentrata sullepriorità tematiche concordate fra gli Stati membri e la Commissione che si riconnettono ai quattropilastri della Strategia europea sull’occupazione. Ancora il nuovo programma Istruzione, formazione egioventù continuerà a promuovere l’integrazione delle categorie svantaggiate, comprese le personeesposte ai vari tipi di discriminazione: si tratta infatti di una priorità di tipo orizzontale delprogramma. Infine la Commissione ha adottato un programma specifico per combattere l’esclusionesociale, volto a sostenere gli sforzi degli Stati membri per combattere e prevenire l’esclusione sociale.

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stanziamenti addizionali. Per finanziare le azioni previste dal Programma sono stati stanziati98,4 milioni di EURO per il periodo che va dal 2001 al 2006. La ripartizione dei fondi perciascun anno e per ciascuna attività è decisione che compete al Comitato di gestione il qualeopera attraverso un programma generale e con programmi specifici relativi a ciascun anno.Nei quattro anni di vigore del programma sono state finanziate numerose attività.Nell’ambito della primo gruppo di azioni è stato condotta la valutazione dell’attivitàdell’osservatorio europeo di Vienna; sono stati istituiti gruppi di esperti indipendenti inmateria di razza e origine etnica, religioni e convinzioni personali, handicap e orientamentosessuale. Questi gruppi assistono la Commissione nella verifica dell’attuazione delle direttivee annualmente redigono un rapporto sullo stato dell’arte. Sempre nell’ambito delle attività distudio e di raccolta dati, la Commissione ha finanziato una ricerca condottadall’Eurobarometro sulla discriminazione in Europa ed ha iniziato un dibattito con gli Statimembri sulla raccolta dei dati. Sono stati realizzati alcuni studi specifici per facilitarel’attuazione delle direttive negli Stati membri ed in adesione53. Nell’ambito dell’attivitàrelativa alla rafforzamento dei soggetti sono stati finanziati progetti di vario genereaccomunati generalmente dallo scambio di buone prassi tra soggetti appartenenti ad almenotre Stati diversi e sono state finanziate reti di organizzazioni non governative54. Nell’ambitodelle attività di aumento della consapevolezza sono state finanziate numerose campagne diinformazione e organizzate alcune conferenze nell’ambito dei programmi semestrali dellePresidenze di turno.Le attività condotte dalla Commissione nell’ambito del Programma sono soggette avalutazione esterna periodica e la Commissione dovrà presentare una relazione divalutazione sull’attuazione del programma entro il 31 dicembre 2005.

53 Uno studio specifico riguarda la valutazione dell’impatto delle condizioni non discriminatorie negliappalti pubblici di tutta l’Unione europea; studio sugli organismi indipendenti nei diversi PaesiPromoting Diversity, uno studio sulla normativa contro la discriminazione nei Paesi in adesione, unostudio sugli organismi indipendenti, uno studio di fattibilità sulla individuazione di indicatori e unostudio sull’uso della condizione di uguaglianza negli appalti pubblici e uno studio comparativo sugliostacoli all’accesso alla tecnologia.54 Si tratta di AGE, EDF, ILGA e ENAR e cinque organizzazioni europee minori: Action europèennedes handicapès, Autisme-Europe, European Blind Union, European Union of the Deaf e InclusionEurope.

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