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Università Telematica Pegaso Le misure cautelari
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Indice
1 LE MISURE CAUTELARI -------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2 LE MISURE CAUTELARI PERSONALI -------------------------------------------------------------------------------- 4
3 L’AUTONOMIA DEL PROCEDIMENTO CAUTELARE ---------------------------------------------------------- 11
4 LA COMPETENZA ---------------------------------------------------------------------------------------------------------- 12
5 PRESUPPOSTI E CONDIZIONI ------------------------------------------------------------------------------------------ 14
6 CRITERI DI SCELTA ------------------------------------------------------------------------------------------------------- 28
7 LA VICENDA CAUTELARE: SOSTITUZIONE, REVOCA, ESTINZIONE E RINNOVAZIONE DELLA
MISURA. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 32
8 LA DURATA DELLA CUSTODIA CAUTELARE E DELLE ALTRE MISURE. ------------------------------ 38
9 LE MISURE CAUTELARI REALI --------------------------------------------------------------------------------------- 46
10 L’APPLICAZIONE DELLE MISURE CAUTELARI REALI. ------------------------------------------------------ 48
11 LE VICENDE SUCCESSIVE: REVOCA E PERDITA DI EFFICACIA. ----------------------------------------- 50
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1 Le misure cautelari
Le misure cautelari sono provvedimenti che si adottano, nel corso del procedimento
penale, per limitare le libertà individuali o l'esercizio di diritti e facoltà oppure la disponibilità
di beni della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato.
La loro adozione vuole scongiurare le conseguenze pregiudizievoli che possono scaturire
da situazioni di pericolo. Può trattarsi di un pericolo d'inquinamento o di dispersione delle fonti
di prova, di reiterazione di condotte criminose, di sottrazione all'esecuzione della condanna, in
caso di affermazione di penale responsabilità, così come può paventarsi la sottrazione del
patrimonio al soddisfacimento, ad esempio, delle pretese maturate per effetto della condanna.
Stante la stretta correlazione con la situazione di pericolo che le giustifica, le misure
cautelari hanno l'ulteriore carattere della provvisorietà: sono destinate ad estinguersi nel
momento in cui viene meno l'esigenza che con esse si è inteso salvaguardare e, in ogni caso, si
estinguono con la definizione del procedimento penale.
In considerazione della diversità dell'oggetto, le misure cautelari si distinguono in personali
e reali: le prime incidono sulle libertà dell'indagato o dell'imputato, mentre le reali limitano la libera
disponibilità del patrimonio.
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2 Le misure cautelari personali
Le misure cautelari personali sono suscettibili di ulteriore ripartizione in misure
interdittive e misure coercitive, in considerazione della natura del diritto che vanno a limitare.
Le misure interdittive comprimono l'esercizio di facoltà o diritti connessi allo status o alla
professione. Esse incidono sulla libertà di agire, risolvendosi in mere sospensioni o in meri
divieti temporanei dall'esercizio di attività o potestà.
Le misure coercitive comportano limitazioni della sfera delle libertà individuali.
Nella sfera delle libertà individuali rientrano, oltre alla vera e propria libertà personale,
intesa come libertà di autodeterminarsi nelle scelte di vita, tutte le altre libertà che fungono da
corollario, come, ad esempio, la libertà di movimento, la libertà di circolazione e la libertà di
soggiorno.
Le misure coercitive possono raggiungere livelli di afflittività differenziati, nel senso che
possono incidere sulle libertà collaterali, limitando, ad esempio, la libertà di movimento e di
circolazione, oppure intaccare direttamente la libertà fondamentale, vale a dire la libertà
personale, impedendo al soggetto di goderne pienamente.
Le misure limitative delle libertà collaterali alla libertà personale sono dette misure di
mera coercizione, mentre le misure incidenti sulla libertà personale sono definite misure di
coercizione custodiale.
Le « misure interdittive » sono:
1) la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori;
2) la sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio;
3) il temporaneo divieto di esercizio di attività professionali o imprenditoriali.
Le « misure coercitive » sono:
1) il divieto di espatrio;
2) l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria;
3) il divieto di dimora;
4) l'obbligo di dimora;
5) l'allontanamento dalla casa familiare.
6) gli arresti domiciliari;
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7) la custodia in carcere;
8) la custodia in luogo di cura.
Vediamo, in concreto, in cosa consiste ciascuna misura cautelare.
La sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori è la privazione, in tutto o in parte,
dei poteri ad essa inerenti, inflitta alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato, con
provvedimento del giudice.
La sospensione dura per un periodo di tempo limitato che, di regola, non può superare i due
mesi, a meno che la misura non sia disposta per salvaguardare le fonti di prova da pericoli di
dispersione o d'inquinamento (art. 288).
La sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio è l'interdizione, in tutto o in
parte, dalle attività inerenti all'ufficio o al servizio, imposta alla persona sottoposta alle indagini
o all'imputato, con provvedimento del giudice.
L'interdizione ha luogo per un periodo di tempo limitato che, di regola, non può superare i
due mesi, a meno che la misura non sia disposta per salvaguardare le fonti di prova da pericoli di
dispersione o d'inquinamento.
L'interdizione non può riguardare uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare
(art. 289).
Il divieto di esercitare determinate professioni, imprese o uffici direttivi delle persone
giuridiche e delle imprese consiste nell'ordine, imposto con provvedimento del giudice, alla
persona sottoposta alle indagini o all'imputato di non svolgere, in tutto o in parte, le attività ine-
renti alla professione, all'impresa o all'ufficio direttivo.
Il divieto è fissato per un periodo di tempo limitato che, di regola, non può superare i due
mesi, a meno che la misura non sia disposta per salvaguardare le fonti di prova da pericoli di
dispersione o d'inquinamento (art. 290).
L'interdizione ripropone, nel contenuto, le previsioni del codice penale relative
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all'interdizione da una professione o da un'arte o a quella temporanea dagli uffici direttivi delle
persone giuridiche o delle imprese (artt. 30 e 32-bis c.p.).
Il divieto di espatrio è la prescrizione che il giudice impone alla persona sottoposta alle
indagini o all'imputato di non uscire dal territorio nazionale.
Non si tratta, tuttavia, di un divieto assoluto, ma di un condizionamento all'esercizio del
diritto di lasciare il territorio nazionale. Il giudice che procede può autorizzare, infatti, il soggetto
all'espatrio, quante volte ne ritenga valide le ragioni.
Con il provvedimento che impone il divieto sono impartite le disposizioni necessarie,
anche allo scopo d'impedire l'utilizzazione del passaporto e degli altri documenti d'identità validi
per l'espatrio (art. 281).
Nulla esclude che la misura sia applicata in luogo di altra più restrittiva o congiuntamente
ad altre, ma sempre che sussistano specifiche esigenze che ne consiglino l'adozione.
L'obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria è la prescrizione che il giudice impone
alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato di recarsi periodicamente presso un
determinato ufficio di polizia giudiziaria.
Il provvedimento che dispone la misura fissa i giorni e le ore di presentazione, tenendo
conto dell'attività lavorativa e del luogo di abitazione del soggetto.
La prescrizione comporta inevitabilmente anche una limitazione della libertà di
movimento. Chi è vincolato a presentarsi, in giorni ed ore determinati, alla polizia giudiziaria
deve tenere conto di tali adempimenti nell'organizzazione dei suoi spostamenti che finiscono per
esserne condizionati.
Scopo della misura non è tanto quello di porre la polizia giudiziaria in grado di vigilare
sulla condotta del soggetto, quanto, piuttosto, l'altro d'impedire al soggetto di allontanarsi dalla
sua dimora per lunghi periodi di tempo (art. 282).
Il divieto di dimora è la prescrizione che il giudice impone alla persona sottoposta alle
indagini o all'imputato di non trattenersi in via continuativa in un determinato luogo.
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Il divieto ha ad oggetto la permanenza per un periodo di tempo in un certo luogo, ma può
anche estendersi alla facoltà di accesso. Al soggetto può essere inibito, infatti, non solo di dimorare
in una località, ma pure di accedervi senza l'autorizzazione del giudice che procede.
La misura si specifica, a ben vedere, in due distinti divieti: accedere in un luogo senza
autorizzazione e dimorare in quel luogo. I due divieti possono essere imposti singolarmente, nel
senso che o si vieta al soggetto di accedere senza autorizzazione o gli si impone di non dimorare
oppure congiuntamente, perché non deve accedere di sua iniziativa e non deve dimorare.
Il provvedimento che dispone la misura è comunicato immediatamente all'autorità di polizia
competente, che vigila affinché sia osservato e, per ogni infrazione che constata, redige rapporto per
l'ufficio del pubblico ministero (art. 283).
Nulla esclude che questa misura – nell'una e nell'altra dimensione – possa essere applicata
insieme con quella del divieto di espatrio e con l'altra, dell'obbligo di presentarsi alla polizia
giudiziaria.
L’obbligo di dimora è la prescrizione che il giudice impone alla persona sottoposta alle
indagini o all’imputato di non allontanarsi senza autorizzazione, dal territorio del comune di
abituale dimora.
Non è una misura di coercizione in senso stretto, impositiva di un divieto assoluto di lasciare
la dimora, bensì una misura di controllo. Il soggetto può lasciare la dimora, ma solo dopo aver
chiesto ed ottenuto l’autorizzazione del giudice che procede.
Il provvedimento del giudice che impone la misura è comunicato all’autorità di polizia
competente, incaricata di vigilare che le prescrizioni siano eseguite e di fare rapporto di ogni
inadempienza all’ufficio del pubblico ministero (art. 283).
L'allontanamento è disposto dal giudice, il quale prescrive all'imputato (o indagato) di
lasciare immediatamente la casa familiare oppure di non rientrarvi e di non accedervi senza
autorizzazione.
L'eventuale autorizzazione può contenere la prescrizione di determinate modalità di visita.
Se sussistono esigenze di tutela dell'incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi
congiunti, il giudice, inoltre, prescrive all'imputato (o indagato) di non avvicinarsi a determinati
luoghi, che sono frequentati abitualmente dalla persona offesa (luogo di lavoro, domicilio della
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famiglia di origine, domicilio dei prossimi congiunti). Quando l'interdizione non è possibile per
motivi di lavoro, il giudice prescrive le modalità di frequentazione, imponendo, se del caso, delle
limitazioni.
Gli arresti domiciliari consistono nell'ordine che il giudice impartisce alla persona
sottoposta alle indagini o all'imputato di non allontanarsi da un determinato luogo.
Il luogo di arresto può essere l'abitazione o un'altra privata dimora oppure una struttura
pubblica di cura o di assistenza.
La scelta dipende naturalmente dalle condizioni di salute del soggetto, che è ristretto in un
luogo pubblico di cura, invece che nella sua abitazione, quando abbia bisogno di assistenza sanitaria
non suscettibile di essere somministrata nella dimora privata.
I soggetti affetti da aids conclamata o da grave deficienza immunitaria, accertate con le
prescritte procedure diagnostiche e medico-legali, e quelli afflitti da altra malattia che renda le
condizioni di salute incompatibili con la detenzione carceraria o non curabili adeguatamente in stato
di detenzione sono ristretti agli arresti domiciliari in un luogo di cura o di assistenza o di
accoglienza. Se è diagnosticata affezione da aids conclamata o grave deficienza immunitaria, il
luogo di arresto può essere anche un'unità operativa di malattie infettive, una residenza collettiva o
una casa alloggio.
Quanto alle modalità esecutive, va detto che la forma ordinaria di applicazione della misura
prevede l'obbligo di non allontanarsi dal luogo prescritto. Ad essa può sostituirsene una più
rigorosa, ogni volta sia necessario imporre ulteriori restrizioni, consistenti in limiti o divieti alla
facoltà del soggetto di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che gli
prestano assistenza.
Gli arresti domiciliari possono essere disposti anche in maniera meno afflittiva, quando il
giudice ritenga che il soggetto non possa provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita oppure
versi in situazione di assoluta indigenza. Può, in tal caso, autorizzarlo ad assentarsi nel corso della
giornata dal luogo di arresto, per il tempo strettamente necessario per provvedere alle suddette
esigenze o per esercitare un'attività lavorativa.
La custodia cautelare è la detenzione carceraria che il giudice dispone, impartendo agli
ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria l'ordine di catturare l'indagato (o l'imputato) e di
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condurlo immediatamente in un istituto di custodia, per rimanervi a disposizione dell'autorità
giudiziaria.
Delineandosi come massimamente afflittiva, la custodia cautelare in carcere è misura che
richiede lo scrupoloso impegno del giudice che l'applica, tenuto a motivare adeguatamente la scelta
che compie.
È significativa, al riguardo, la distinzione che il legislatore opera tra « esigenze cautelari »
ed « esigenze cautelari di eccezionale rilevanza », per vincolare il giudice ad una motivazione più
approfondita quando il soggetto, nei cui confronti deve essere eseguita la misura, si trovi in una
particolare condizione di età, fisica o familiare.
Nei confronti di chi ha superato i settanta anni, della donna incinta, della madre di prole di
età inferiore a tre anni con lei convivente – o del padre, se la madre è deceduta o è assolutamente
impossibilitata a dare assistenza alla prole – può essere disposta la custodia cautelare in carcere solo
se sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
Anche le condizioni di salute possono essere ostative alla detenzione carceraria cautelare. La
persona affetta da aids conclamata o da grave deficienza immunitaria, accertate con le prescritte
procedure diagnostiche e medico-legali, o da altra grave malattia, che non possa essere curata
adeguatamente nel luogo di detenzione o che si riveli addirittura incompatibile con lo stato di
detenzione, non può essere ristretta in carcere.
Solo se occorre salvaguardare esigenze particolarmente gravi (ad esempio, pericolo concreto
ed attuale di reiterazione della condotta criminosa), viene disposta la custodia cautelare in carcere,
sempre che, però, la permanenza in strutture sanitarie penitenziarie non rechi pregiudizio alla salute
dell'imputato (o dell'indagato) e a quella degli altri detenuti.
Il giudice può, comunque, disporre la custodia in carcere – in un istituto dotato di reparto
attrezzato per la cura e l'assistenza necessarie – di chi sia imputato – o sia stato sottoposto ad altra
misura cautelare – per uno dei delitti per i quali è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza e i fatti
risultino commessi dopo che gli siano stati applicati, per ragioni di salute, gli arresti domiciliari,
anche presso unità operative di malattie infettive ospedaliere o universitarie o altre unità operative
impegnate nei programmi di assistenza ai casi di aids, oppure presso residenze collettive o case
alloggi.
Ovviamente, la custodia cautelare in carcere non può essere disposta o mantenuta se la
malattia è in una fase così avanzata da non rispondere più ai trattamenti disponibili ed alle terapie
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curative. La certificazione dello stato terminale della malattia può essere rilasciata dal servizio
sanitario penitenziario o dal servizio sanitario esterno (artt. 275 e 286-bis).
Quando si procede per reati diversi da quelli di criminalità organizzata, infine, la custodia
cautelare in carcere non può essere applicata all'imputato (o all'indagato) tossicodipendente o
alcooldipendente che sia sottoposto ad un programma di trattamento presso struttura pubblica o
privata autorizzata e l'interruzione del programma possa pregiudicare la disintossicazione del
soggetto. Anche in questa ipotesi il divieto di detenzione carceraria non opera in presenza di
esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e, comunque, con lo stesso provvedimento o con altro
successivo, il giudice stabilisce i controlli necessari per accertare che prosegua il programma tera-
peutico di recupero (art. 89 comma 1 d.p.R. 9 ottobre 1990, n. 309).
La custodia in luogo di cura è il ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio
psichiatrico ospedaliero che il giudice dispone, quando la persona nei cui confronti deve essere
applicata la misura della custodia in carcere si trova in stato d'infermità di mente che ne esclude o
diminuisce grandemente la capacità d'intendere e di volere.
Il ricovero è ordinato per il tempo in cui il soggetto è in stato d'infermità e comporta, da
parte del giudice, l'adozione dei provvedimenti necessari per prevenire il pericolo di fuga (art. 286).
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3 L’autonomia del procedimento cautelare
Il procedimento per l'imposizione di misure restrittive o limitative delle libertà individuali,
sinteticamente definibile « procedimento cautelare », dà conto dell'esigenza di legalità dei casi e dei
modi d'intervento nella sfera di libertà di chi è indagato o imputato.
Il procedimento cautelare è un segmento di giurisdizionalità che ben può inserirsi anche
nella fase delle indagini preliminari, che è, com'è noto, per definizione, momento non
giurisdizionale.
Anzi, l'occasione di più frequente ricorso alle misure è offerta proprio dalle indagini
preliminari, quando, cioè, si delineano quelle situazioni – individuate nell'esigenza di salvaguardare
le fonti di prova da manovre inquinanti o dispersive, nel pericolo di fuga e nel pericolo di
reiterazione di condotte illecite – in presenza delle quali soltanto può essere limitata la libertà del
soggetto.
Si tratta di un procedimento del tutto autonomo rispetto a quello principale, che ha ad
oggetto l'imputazione.
Continuamente presidiato dall'intervento giurisdizionale, che si esprime in funzione di
garanzia della libertà personale, il procedimento cautelare sollecita un'attenta analisi e il costante
richiamo dei principi che governano l'intero assetto della vicenda personale nel procedimento
penale.
L'adozione di misure cautelari, sia personali che reali, rappresenta uno sviluppo meramente
eventuale del procedimento penale, nel senso che quest'ultimo non deve necessariamente
comportare la privazione ante iudicium della libertà della persona sottoposta alle indagini o
dell'imputato, così come non richiede che in ogni caso siano imposti vincoli di indisponibilità su
cose o beni.
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4 La competenza
Competente ad applicare una misura cautelare, personale o reale, è soltanto il giudice.
L'attribuzione all'organo giurisdizionale della competenza esclusiva ad intervenire sulle
libertà della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato è scaturita dalla constatazione della
necessità di sottrarre poteri coercitivi a chi, gestendo l'accusa, è naturalmente portato a formulare
prognosi di gravità del fatto e di pericolosità dell'imputato.
Ciò non tanto perché si è negato che il magistrato del pubblico ministero sia portatore solo
dell'interesse pubblico all'accertamento della verità o si è ritenuto che ad ogni costo debba
perseguire pure colui che è al fatto estraneo, ma probabilmente perché si è mostrata consapevolezza
che chi inquisisce e ricerca le fonti di prova ha, più di ogni altro, necessità di sottrarle ad
inquinamenti ed è, più di tutti, indotto ad adottare cautele, sfuggendogli una diversa prospettazione
del fatto, in termini d'ininfluenza o di oggettiva irrilevanza.
Competente è il « giudice che procede »: l'espressione è attributiva una specifica
competenza funzionale e designa la legittimazione di chi in quel determinato momento, è titolare
della funzione giurisdizionale.
Il giudice che procede è, a seconda dei casi, il giudice per le indagini preliminari, il giudice
dell'udienza preliminare, il giudice del dibattimento (tribunale ordinario, tribunale per i minorenni,
corte di assise), il giudice dell'impugnazione di merito (corte di appello, corte di assise di appello)
(art. 279).
Applicando come criterio di competenza funzionale quello della disponibilità giuridica degli
atti, s'individua, di volta in volta, il giudice competente, nel passaggio dall'una all'altra fase o
dall'uno all'altro grado del procedimento penale. Così, ad esempio, nel procedimento per reati di
competenza del tribunale ordinario in composizione monocratica, quando non è prevista l'udienza
preliminare, il giudice per le indagini preliminari provvede sulle misure cautelari fino a quando il
decreto di citazione a giudizio non è trasmesso, unitamente al fascicolo, al giudice del dibattimento
(art. 554). Nella fase degli atti preliminari al dibattimento di primo grado i provvedimenti in materia
sono adottati, secondo la rispettiva competenza, dal tribunale ordinario, dal tribunale per i
minorenni, dalla corte di assise, e, nel corso degli atti preliminari al dibattimento di secondo grado,
dalla corte di appello o dalla corte di assise di appello. Dopo la pronuncia della sentenza di primo
grado, provvede il giudice che l'ha emessa, fino a quando gli atti non sono trasmessi al giudice
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dell'appello. Quest'ultimo – e il giudice di primo grado, se la sua sentenza è impugnata, per saltum,
per cassazione – provvedono anche durante la pendenza del ricorso (art. 91 disp. a.c.t.).
Legittimato all'esercizio del potere è tanto il giudice competente quanto quello
incompetente.
In presenza delle condizioni e dei presupposti di ordine generale che consentono
l'applicazione di una cautela personale, anche il giudice che si riconosce incompetente per qualsiasi
causa, ma, nel contempo, ritiene di provvedere, dispone la misura « con lo stesso provvedimento
con il quale dichiara la propria incompetenza » (art. 291). Le misure, così imposte, hanno valenza
provvisoria: cessano di avere effetto se, entro venti giorni dall'ordinanza di trasmissione degli atti,
l'organo competente non provvede a ratificare l'operato di chi ha agito in via provvisoria (art. 27).
È ovvio che il termine di venti giorni individua il tempo entro cui deve intervenire l'autorità
competente.
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5 Presupposti e condizioni
La previsione costituzionale della possibilità di limitare la libertà personale di un soggetto
nei soli casi previsti dalla legge ha imposto una rigorosa determinazione di regole per l'uso di un
potere troppo delicato per essere rimesso alla sola soggettività di chi è chiamato ad avvalersene.
Nell'indicare le concrete modalità di esercizio della potestà cautelare, il legislatore ha
individuato criteri ben precisi, atti a vincolare la discrezionalità del giudice, e le esigenze al cui
soddisfacimento, soltanto, ritiene debba tendere l'emissione di provvedimenti cautelari.
Vincolano la legittimazione del giudice all'esercizio del potere cautelare determinati
«presupposti» e ben precise «condizioni» normative.
Sottoposizione a misure cautelari sta a significare, pertanto, avvio di una procedura intesa ad
accertare la presenza di un'articolata serie di elementi, che, globalmente recepiti dal giudice, ne
orientino la decisione nel senso della limitazione della libertà o della salvaguardia del relativo
diritto.
La distinzione tra « presupposti » e « condizioni » delle misure cautelari personali dà
concreto contenuto alla duplice garanzia della riserva di legge e della riserva di giurisdizione.
I presupposti – che il codice chiama « condizioni generali di applicabilità delle misure » (art.
273) o « condizioni di applicabilità delle misure coercitive » (art. 280) o « condizioni di
applicabilità delle misure interdittive » (art. 287) - sono i limiti normativi al di sotto dei quali non
può essere esercitato il potere cautelare e sono individuati:
1) nella pena edittale;
2) nell'esistenza di gravi indizi di colpevolezza;
3) nell'utilità delle misura in rapporto al prevedibile esito del processo.
Le condizioni – definite dal codice « esigenze cautelari » – sono, invece, le singole
situazioni che debbono essere salvaguardate mediante l'esercizio del potere e s'identificano:
1) nel pericolo d'inquinamento o di dispersione delle fonti di prova;
2) nella fuga o nel pericolo di fuga;
3) nella prevedibile reiterazione di condotte rivelatrici di pericolosità sociale.
Perché possa impostarsi un discorso cautelare è necessario che si proceda per un reato di
consistente gravità, per un reato, cioè, che abbia un regime sanzionatorio al di sopra di determinati
limiti. Questi variano secondo che la misura cautelare da applicare sia coercitiva o interdittiva.
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Per quel che concerne le misure coercitive, i delitti che consentono una limitazione o una
restrizione della libertà personale sono quelli per i quali la legge stabilisce la pena:
a) dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, se deve essere applicata una
misura diversa dalla custodia cautelare in carcere;
b) dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, se deve essere
applicata la misura della custodia cautelare in carcere.
Questo secondo limite è assoluto in fase d'imposizione della misura, mentre può essere
superato quando il soggetto, raggiunto da una diversa, meno afflittiva, misura cautelare, abbia
violato le prescrizioni imposte dal giudice (art. 280).
Il vincolo del limite di pena edittale non è assoluto per il giudice. Se è chiamato a
pronunciarsi su una richiesta, presentata dal magistrato del pubblico ministero in sede di convalida
dell'arresto, può, infatti, applicare la misura anche al di fuori dei limiti di pena previsti.
Le categorie di reati rispetto ai quali è possibile derogare al limite di pena edittale sono due.
Nella prima rientrano alcuni delitti espressamente richiamati (art. 380 comma 2). La seconda
categoria è quella dei reati per i quali la polizia giudiziaria ha facoltà di procedere all'arresto anche
al di fuori dei casi di flagranza.
La deroga può essere duplice. In primo luogo, può essere applicata una misura di
coercizione o di custodia non carceraria anche se il reato è punito con la pena della reclusione non
superiore nel massimo a tre anni e può essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere,
pure se la pena della reclusione prevista non è pari o superiore nel massimo a quattro anni. In
secondo luogo, l'applicazione di una misura di custodia cautelare, giustificata dall'esigenza di
salvaguardare il pericolo di commissione di delitti della stessa indole di quello per cui si procede,
può aver luogo anche se trattasi di delitti puniti con la pena della reclusione inferiore nel massimo a
quattro anni (art. 391 comma 5).
Ulteriori eccezioni alla regola del rispetto dei limiti di pena edittale sono previste per il
procedimento di revisione (art. 635) e in materia di estradizione (artt. 714-715).
Le misure interdittive, poi, sono applicabili solo quando si procede per delitti per i quali la
legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo ad anni tre (art. 287).
È consentito prescindere dal limite edittale per la misura della sospensione dall'esercizio
della potestà di genitore qualora si proceda per i delitti di corruzione di minorenni (art. 609-
quinquies c.p.) o di abuso dei mezzi di correzione e di disciplina (art. 571 c.p.), commessi in danno
di prossimi congiunti (art. 288).
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Allo stesso modo, può non tenersi conto del limite edittale di pena per la misura della
sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio, quando si proceda per un delitto contro
la pubblica amministrazione a carico del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio
(art. 289).
Il limite edittale non è vincolante, infine, qualora la misura interdittiva del divieto
temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali debba essere applicata
ad un soggetto nei cui confronti si proceda per un delitto contro l'incolumità pubblica, l'economia
pubblica, l'industria e il commercio oppure per qualcuno dei delitti previsti in materia di società e di
consorzi o per uno dei delitti di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.), inadempimento di
contratti di pubblica fornitura (art. 355 c.p.), falsa perizia o interpretazione (art. 373 c.p.), patrocinio
o consulenza infedele (art. 380 c.p.), altre infedeltà del patrocinatore o del consulente tecnico (art.
381 c.p.) (art. 290).
Sia per le misure coercitive che per quelle interdittive, deve essere presa in considerazione la
pena prevista per ciascun delitto consumato o tentato, tenuto conto delle circostanze per le quali la
legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e delle circostanze che
comportano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo.
Non concorrono a determinare il limite edittale l'aumento di pena previsto per il reato
continuato, per la recidiva o per le circostanze aggravanti comuni, ad eccezione della circostanza
consistente nell'aver approfittato di condizioni di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la
difesa pubblica o privata (art. 61 n. 5 c.p.).
Anche le circostanze attenuanti comuni non vengono prese in considerazione, a meno che,
nei delitti contro il patrimonio o che, comunque, offendono il patrimonio, il presunto autore abbia
agito per conseguire un lucro di speciale tenuità ed abbia cagionato, in ogni caso, alla persona
offesa, un danno particolarmente lieve (art. 62 n. 4 c.p.) (art. 278).
Il secondo presupposto è costituito dall'esistenza di gravi indizi: la persona non può essere
destinataria di provvedimenti limitativi o restrittivi della libertà o interdittivi di facoltà o diritti se, a
suo carico, non si rilevi, nella forma prescritta, un fumus di colpevolezza.
La legge non dice in cosa debbano consistere gli indizi e quale sia il metro per misurarne la
gravità: ci si rimette al prudente apprezzamento del giudice, preoccupandosi, il legislatore,
unicamente di vincolarne le valutazioni a parametri che, se insuscettibili di una rigorosa definizione
normativa, sono, certamente, enucleabili alla luce delle « ragioni » dell'esperienza.
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Sulla portata del richiamo alla « gravità » degli indizi, come presupposto per l'adozione di
una misura cautelare personale, ci si deve intendere.
L'indizio, in senso tecnico, è una circostanza certa, un dato oggettivo, una traccia sensibile
che, pur non rappresentando direttamente il thema probandi, consente che si giunga ad esso per via
inferenziale. Diversamente dalla c.d. « prova rappresentativa » (detta altrimenti «storica» o
«diretta»), che ha per oggetto proprio il fatto-reato descritto nell'imputazione la prova indiziaria
(detta altrimenti « critica » o « logica » o « indiretta »), verte su un fatto diverso dal quale, mediante
un procedimento logico, si può risalire all'illecito penale contestato all'imputato, nel senso che, una
volta provato il possesso della cosa rubata da parte dell'imputato, bisognerà risalire alla
commissione, da parte sua, del furto.
Nel sistema processuale penale l'esistenza di un fatto non può essere provata per indizi, nel
senso che, in linea di principio, gli indizi non hanno dignità probatoria, perché suscettibili di
interpretazioni diverse e contrastanti e, quindi, inidonei a fondare la penale responsabilità del
soggetto, per l'eccessivo margine d'incertezza che, comunque, lasciano.
In via eccezionale, il codice prevede che un fatto possa essere provato per indizi, quando
essi abbiano precise qualificazioni, individuate nella pluralità, nella gravità, nella precisione e nella
concordanza (art. 192 comma 2).
Questa puntualizzazione, operata in tema di enunciazione dei criteri di valutazione della
prova, potrebbe indurre a ritenere che gli indizi necessari per l'adozione della misura cautelare sono
solo gravi e non anche « precisi » e « concordanti », nel senso che la prova indiziaria del fatto, per
l'affermazione di responsabilità, deve essere più consistente della « prova indiziaria », sufficiente
per l'adozione di misure cautelari.
Ora, è indubbio che ci muoviamo su due livelli diversi: quando viene richiesta una misura
cautelare, il giudice, per applicarla, non deve certamente disporre della prova certa della
colpevolezza del soggetto, ma deve essere in grado di formulare un giudizio cautamente e
seriamente probabilistico in ordine alla colpevolezza. Gli elementi di cui dispone devono essere tali
da consentire, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori
elementi, saranno idonei a dimostrare la responsabilità, e di fondare, nel frattempo, una qualificata
probabilità di colpevolezza.
I « gravi indizi » sono tali quando si configurano come prognosi sul merito e non come
valutazione di fondatezza del merito, assumendo una valenza sintomatica della colpevolezza, al pari
del fumus boni iuris civilistico.
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Il legislatore detta i criteri che il giudice deve seguire nel valutare la gravità degli indizi, ai
fini dell'applicazione di una misura cautelare.
In primo luogo, se gli indizi consistono in dichiarazioni rese dal coimputato (o coindagato)
nel medesimo procedimento penale o da persona imputata (o indagata), in separato procedimento
penale, per fatti connessi o collegati, esse vanno valutate unitamente agli altri elementi di prova che
ne confermano l'attendibilità (art. 192 commi 3 e 4).
Non può essere utilizzata, in secondo luogo, la dichiarazione di chi si rifiuta o non è in grado
di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame o di
sommarie informazioni (art. 195 comma 7).
In terzo luogo, le notizie fornite da informatori di polizia non possono essere utilizzate, se
questi non sono esaminati come testimoni, né interrogati o assunti a sommarie informazioni (art.
203).
Infine, i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati, qualora si tratti di
intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o non autorizzate o non trasfuse in
verbale o non compiute per mezzo degli impianti installati presso gli uffici giudiziari o compiute
mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria, ma senza
l'autorizzazione, concessa con provvedimento motivato, del magistrato del pubblico ministero (art.
271 comma 1) (art. 273).
Ulteriore presupposto è l'utilità della cautela, che va misurata in base ad una serie di
parametri.
Il potere cautelare, in linea di principio, non può essere esercitato dal giudice:
1) se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione;
2) se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di non punibilità;
3) se sussiste una causa di estinzione del reato;
4) se sussiste una causa di estinzione della pena che si ritiene possa essere
irrogata (art. 273).
In presenza di alcuna di tali situazioni non può essere applicata la misura cautelare, sia
interdittiva che coercitiva. Il giudice, a fronte di una richiesta del magistrato del pubblico ministero,
deve compiere la verifica e se accerta che la misura, una volta applicata, risulterebbe inutiliter data,
rigetta la richiesta.
Un ulteriore accertamento deve essere compiuto dal giudice se la richiesta è di adozione
della misura della custodia cautelare: l'utilità va verificata, in tal caso, in rapporto al prevedibile
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esito del processo, nel senso che la misura non può essere disposta se il giudice ritiene presumibile
che, con la sentenza di condanna, possa essere concessa la sospensione della pena alle condizioni di
legge (art. 275).
La valutazione dei presupposti va compiuta dal giudice nell'ordine che si è seguito
nell'esposizione e precede quella relativa all'esistenza delle condizioni per l'esercizio del potere
cautelare.
Preliminare è la constatazione della riconducibilità dell'ipotesi di reato per cui si procede in
una delle fasce di reati sanzionati con quella pena edittale per la quale sono ammesse le misure.
Segue l'apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza come fumus commissi delicti e va
controllata, infine, l'utilità della misura.
Solo se questa triplice verifica ha esito positivo, il giudice passa a valutare le esigenze
cautelari, al fine d'individuare quella che deve essere salvaguardata ed apprestare, mediante la scelta
tra le misure, la tutela adeguata.
L'imposizione di misure cautelari tende a soddisfare esigenze, definite « cautelari » e che
trovano nella legge la loro specifica enunciazione come condizioni per l'esercizio del potere
cautelare. Di esse il giudice può tener conto, per apprezzarne la consistenza, solo dopo aver
riscontrato la presenza dei presupposti per l'applicabilità della misura. Ciò vale per la generalità dei
casi, rispetto ai quali l'esistenza delle esigenze cautelari deve emergere dalla fattispecie concreta ed
orientare il giudice nell'individuazione della misura adeguata.
Anche se configurate in una duplice, contrapposta, prospettazione, le esigenze cautelari
costituiscono il punto di riferimento obbligato, cui il giudice deve attenersi nell'esercitare il potere
cautelare e ne vincolano la discrezionalità.
Sembra che, con il disciplinarle in separata sede, il legislatore abbia inteso sottrarre loro
quella connotazione di « condizioni generali » di applicabilità delle misure riservata ad altri
elementi. Ed invece, sono proprio le esigenze le reali condizioni di applicabilità delle misure.
Il dato normativo è, al riguardo, chiaro: le misure cautelari sono disposte quando sussistono
inderogabili esigenze attinenti alle indagini o quando occorre scongiurare determinati pericoli.
La norma vuole che, a prescindere dagli indizi gravi di colpevolezza nella specifica vicenda
all'esame del giudice, si configuri proprio il bisogno di salvaguardare un'esigenza o di scongiurare
un pericolo.
Mentre i gravi indizi danno contenuto ad una valutazione preliminare intesa a vagliare se
ricorrano i presupposti di legge che consentono l'adozione di una misura, le esigenze cautelari
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valgono a verificare se essa debba essere applicata. Quando sussistono i gravi indizi – e ricorrono
anche gli altri presupposti – è consentito ritenere che la legittimazione cautelare, in astratto dal
legislatore conferita al giudice, possa essere esplicitata. Solo con le esigenze cautelari, però, il
discorso si completa: al vaglio preliminare segue quel giudizio di doverosità di comportamento, che
unicamente in via successiva può venire effettuato.
In altri termini, riscontrati i presupposti, che valgono a legittimarlo all'esercizio del potere, il
giudice passa a verificare se debbano essere adottate cautele: il riscontro delle esigenze cautelari
attesta l'esistenza delle condizioni per l'imposizione delle misure.
Le esigenze cautelari, quindi, nella loro specifica funzione di condizioni per l'imposizione di
ogni misura, sono individuate in inderogabili ragioni di tutela, attinenti, per quanto concerne le
indagini, a situazioni di concreto pericolo per l'acquisizione e la genuinità della prova, per quanto
riguarda l'eventuale esecuzione della sentenza di condanna, alla fuga o al concreto pericolo di fuga
dell'indagato o dell'imputato e, infine, per quanto riguarda la pericolosità del soggetto, al concreto
pericolo di commissione di gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o
diretti contro l'ordine costituzionale ovvero di delitti di criminalità organizzata o della stessa specie
di quello per cui si procede.
Salvaguardare l'acquisizione probatoria, suscettibile di essere compromessa da manovre
dispersive o inquinanti, è necessità tipicamente processuale, in quanto ha stretta attinenza con la
finalità del processo. Quest'ultimo tende, infatti, alla ricostruzione dell'episodio destinato a formare
oggetto dell'imputazione e la ricostruzione è possibile nella misura in cui l'attività di ricerca,
acquisizione ed assicurazione delle fonti di prova non sia ostacolata da iniziative volte ad occultarle
o ad alterarne la genuinità.
La c.d. cautela probatoria viene definita come sussistenza di « specifiche ed inderogabili
esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per cui si procede, in relazione a situazioni di
concreto ed attuale pericolo per l'acquisizione e la genuinità della prova, fondate su circostanze di
fatto » [art. 274 comma 1 lett. a)].
La formula è piuttosto contorta e, per potere essere compiutamente intesa, deve essere
scomposta nei suoi elementi essenziali.
In primo luogo, occorre che emergano specifiche « circostanze di fatto ». Ciò vuol dire che
non basta un timore, un'impressione, una preoccupazione, una congettura, una più o meno
attendibile previsione, ma occorre un dato di fatto, inequivocabilmente indicativo di una manovra
dispersiva o inquinante.
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In secondo luogo, le circostanze di fatto debbono denunciare una « situazione di pericolo
concreto ed attuale ». Il pericolo non è la mera eventualità che si ponga in essere una condotta volta
a turbare la corretta acquisizione probatoria. Non è sufficiente, ad esempio, ritenere che l'indagato
possa concordare la strategia difensiva con gli altri coindagati. Occorre qualcosa di più: la
manifestazione dell'intento di interferire sulle fonti di prova. Non basta, per rimanere nell'esempio
fatto, affermare che l'indagato ha un concreto interesse a concertare con altri linee difensive
comuni. L'interesse può esservi, ma non per questo il soggetto deve essere privato della libertà, se
non ha, per lo meno, tentato di farlo valere.
Concretezza ed attualità danno contenuto alla situazione di pericolo, nel senso che ne
attestano l'esistenza.
In terzo luogo, il pericolo deve essere apprezzato in relazione alla « acquisizione » e alla «
genuinità » della « prova ». Evidentemente, il termine « prova » sta qui per « fonti di prova », vuole
indicare, cioè, i veicoli probatori che, in fase di indagini preliminari, vanno individuati ed assicurati.
Tutelare l'acquisizione significa impedire manovre dispersive, tese, in altri termini, ad occultare le
fonti, mentre tutelare la genuinità vuol dire scongiurare contatti mirati ad alterare la fonte.
Il pericolo può configurarsi non solo per esigenze investigative in senso stretto, ma pure con
riguardo all'acquisizione della prova in dibattimento e, quindi, alla sua genuinità. Può essere attuale,
pertanto, anche se le indagini preliminari sono concluse. A nulla rileva, infatti, la circostanza che
nel corso del dibattimento può farsi ricorso a strumenti – le contestazioni – utili per far emergere
contrasti con quanto dichiarato durante le indagini, perché la contestazione presuppone che una
manovra inquinante si sia già compiuta.
Poiché all'indagato o all'imputato va riconosciuto il diritto di scegliere liberamente la propria
linea difensiva, anche avvalendosi della facoltà di non rispondere e di non collaborare con l'autorità
giudiziaria, il rifiuto di rendere dichiarazioni e la mancata ammissione degli addebiti non possono
mai costituire una situazione di concreto ed attuale pericolo d'inquinamento delle fonti di prova.
La fuga è il trasferimento o la permanenza in un paese estero per sottrarsi al concreto
esercizio della giurisdizione italiana.
Il pericolo di fuga è la ragionevole probabilità che l'indagato o l'imputato, ove non si
intervenisse, farebbe perdere le proprie tracce.
Sulla fuga v'è poco da dire: è una situazione di fatto, l'allontanamento dal territorio
nazionale, di cui non si può non prendere atto.
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Più delicato è il discorso relativo all'individuazione di un pericolo di fuga. La norma, in
proposito, è chiara: il pericolo deve essere concreto, vale a dire oggettivo ed effettivo, nel senso che
deve trovare uno stretto legame con la realtà di fatto. Non basta, certamente, la mera supposizione,
desunta dalla natura degli addebiti o dalla vicenda processuale. La condanna ad una grave pena
detentiva non può, di per sé, indurre il giudice che l'abbia inflitta a ritenere ragionevolmente
probabile, e quindi concreto e non immaginario, il pericolo che l'imputato si dia alla fuga. Se a
questo dato di fatto si aggiungono ulteriori elementi, come ad esempio, l'esistenza di collegamenti
con persone residenti all'estero, una pregressa assiduità di viaggi, una disponibilità economica,
anche indiretta, si può concretamente ipotizzare il pericolo di fuga.
La fuga o il pericolo di fuga è rilevante se ed in quanto, oltre ai gravi indizi di colpevolezza,
si accerti anche l'utilità del ricorso alla cautela. Si precisa, infatti, che la fuga o il pericolo di fuga si
prefigurano solo qualora si preveda, dal giudice, la possibilità che venga inflitta, all'esito del
processo, una pena superiore a quella che può non essere eseguita: se si rientra nei limiti della
concedibilità del beneficio della sospensione condizionale della pena, l'allontanamento non è fuga,
perché il soggetto non si sottrae ad alcuna esecuzione, posto che tale non è quella che non può aver
luogo, e non vi è necessità di scongiurare alcun pericolo [art. 274 comma 1 lett. b)].
Più delicata da definire è la necessità di tutela della collettività, che si delinea come pericolo
che l'indagato o l'imputato commetta ulteriori reati.
Nello stabilire che l'esigenza di difesa sociale si configura « quando, per specifiche modalità
e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato,
desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto pericolo
che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti
contro l'ordine costituzionale o delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per
cui si procede » [art. 274 comma 1 lett. c)], la norma ripropone, come abbiamo osservato, quanto
già previsto dal codice pre-vigente, allorché, nel disciplinare alcuni casi di c.d. cattura obbligatoria,
richiamava la «pericolosità dell'imputato desunta dalla sua personalità e dalle circostanze del fatto».
Superando definitivamente le incertezze interpretative, che, per il passato, avevano
caratterizzato la definizione delle esigenze cautelari, il codice afferma l'autonomia di ciascuna,
escludendo che l'una possa essere sussidiaria o complementare rispetto all'altra ed ancorando la
situazione di fatto a dettati normativi più rigidi.
Gli elementi di cui il giudice deve tenere conto sono quelli concernenti la gravità del fatto e
la capacità a delinquere (art. 133 c.p.). Da tali elementi, a carattere oggettivo, il giudice deve
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formulare la prognosi di pericolosità sociale dell'indagato o dell'imputato, a salvaguardia della
collettività. La prognosi deve tradursi nella dichiarazione di una concreta probabilità che il soggetto
commetta ulteriori reati, così come elencati nella norma.
Il pericolo di reiterazione di condotte illecite può riguardare anche delitti della stessa specie
di quello per cui si procede. In tal caso, le misure della custodia cautelare – e non le altre misure –
sono disposte solo se per i suddetti delitti è prevista la pena della reclusione non inferiore nel
massimo a quattro anni, sempre che il giudice non proceda in sede di convalida dell'arresto e sia
chiamato a pronunciarsi in relazione a determinati reati.
Il procedimento cautelare si avvia, come accennato, con la richiesta di applicazione della
misura, che il magistrato del pubblico ministero formula al giudice che procede, supportata dagli
elementi su cui la richiesta si fonda, nonché da tutti gli elementi a favore dell'indagato (o imputato)
e dalle eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate (art. 291).
Il procedimento cautelare approda, in ogni caso, ad un'ordinanza del giudice che procede, sia
che accolga sia che respinga la richiesta.
Nel primo caso, l'ordinanza, impositiva della misura, deve contenere:
1) le generalità della persona, sottoposta alle indagini o imputata, o quanto altro valga a
identificarla;
2) la descrizione sommaria del fatto con la indicazione delle norme di legge che si
assumono violate;
3) l'esposizione dei gravi indizi e delle specifiche esigenze cautelari che giustificano in
concreto il provvedimento, con l'indicazione degli elementi di fatto da cui sono
desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza, tenuto conto anche del
tempo trascorso dalla commissione del reato;
4) l'esposizione delle ragioni per le quali sono stati ritenuti non rilevanti gli eventuali
elementi forniti dalla difesa, nonché l'esposizione, nel caso di applicazione della
custodia cautelare in carcere, degli specifici motivi per i quali si ritiene che le
esigenze cautelari non possano essere soddisfatte con altre misure;
5) la fissazione della data di scadenza della misura, in relazione alle indagini da
compiere, allorché sia disposta per scongiurare il pericolo di dispersione o
inquinamento delle fonti di prova.
Va ricordato, a questo proposito, che se non si procede per reati di maggiore allarme sociale
o per un reato per il cui accertamento sono richieste investigazioni particolarmente complesse – per
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la molteplicità di fatti tra loro collegati o per l'elevato numero di indagati o di persone offese – o è
richiesto il compimento di atti di indagine all'estero, la custodia cautelare disposta per il pericolo
d'inquinamento o dispersione delle fonti di prova non può avere durata superiore ai trenta giorni
(art. 301).
Questi requisiti – unitamente alla data e alla sottoscrizione del giudice – sono richiesti a
pena di nullità, rilevabile anche d'ufficio. L'ordinanza è, ancora, nulla se non contiene la valutazione
degli elementi a carico e a favore dell'indagato o dell'imputato.
Sul provvedimento – sottoscritto dall'ausiliario che assiste il giudice – deve essere impresso
il sigillo dell'ufficio. Se v'è incertezza circa il giudice che ha emesso il provvedimento oppure circa
la persona nei cui confronti è applicata la misura, gli ufficiali o agenti incaricati sono esonerati dal
darvi esecuzione (art. 292).
Nel secondo caso, il giudice rigetta la richiesta, perché non ravvisa l'esistenza dei
presupposti – gravi indizi di colpevolezza e utilità della misura – oppure non condivide la
prospettazione del magistrato del pubblico ministero circa i pericula in libertate.
L'ordinanza cautelare, una volta emessa, viene consegnata, per l'esecuzione, all'ufficio del
pubblico ministero, che si avvale, ovviamente, della collaborazione della polizia giudiziaria.
Quanto alle modalità di esecuzione dell'ordinanza di custodia carceraria (o in luogo di cura),
è prescritto che l'ufficiale o l'agente incaricato di eseguirla:
a) consegni alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato copia del
provvedimento, avvertendolo della facoltà di nominare un difensore di fiducia;
b) informi immediatamente il difensore di fiducia eventualmente nominato oppure
quello d'ufficio;
c) rediga verbale di tutte le operazioni compiute;
d) trasmetta immediatamente il verbale al giudice che ha emesso l'ordinanza e al
magistrato del pubblico ministero.
Le ordinanze che dispongono misure diverse dalla custodia cautelare in carcere (o in luogo
di cura) sono, invece, notificate all'imputato o alla persona sottoposta alle indagini.
In ogni caso, l'ordinanza è depositata nella cancelleria del giudice che l'ha emessa,
unitamente alla richiesta del magistrato del pubblico ministero e agli atti con la stessa presentati,
con facoltà per il difensore – al quale va notificato l'avviso del deposito – di prenderne visione ed
estrarne copia.
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Se è imposta una misura interdittiva, una copia dell'ordinanza è trasmessa all'organo
eventualmente competente a disporre l'interdizione in via ordinaria (art. 293).
L'esecuzione della misura è sospesa se la persona nei cui confronti è adottata la cautela sia
già privata della libertà per effetto di un ordine di carcerazione esecutivo di una sentenza di
condanna a pena detentiva passata in giudicato per altro reato, a meno che la pena sia espiata in
regime di misure alternative alla detenzione. La sospensione non ha luogo se gli effetti della misura
disposta sono compatibili con l'espiazione della pena (art. 298).
Nei confronti degli indagati o imputati per determinati, gravi, delitti [art. 407 comma 2, lett.
a), n. 4; artt. 73 e 74 d.p.R. 9 ottobre 1990, n. 309; artt. 600-bis, 600-ter commi 1, 2 e 3, 600-
quinquies, 629, 630, 644, 648-bis, 648-ter c.p.], infine, l'esecuzione dell'ordinanza impositiva della
misura cautelare può essere sospesa, con decreto motivato, dal magistrato del pubblico ministero,
quando sia necessario per acquisire rilevanti elementi probatori o per procedere all'individuazione o
alla cattura di eventuali concorrenti. Se vi è urgenza, la disposizione può essere impartita anche
oralmente, ma il relativo provvedimento deve essere emesso, secondo i casi, entro le ventiquattro o
le quarantotto ore successive (art. 98 d.p.R. 9 ottobre 1990, n. 309; art. 7 d.l. 15 gennaio 1991, n. 8;
art. 10 d.l. 31 dicembre 1991, n. 419; art. 14 1. 3 agosto 1998, n. 269; art. 4 1. 15 dicembre 2001, n.
438).
Se la persona, nei cui confronti la misura è applicata, non viene rintracciata e non è possibile
procedere all'esecuzione o alla notificazione dell'atto, nei modi indicati, l'ufficiale o l'agente di
polizia giudiziaria incaricato redige apposito verbale, indicando, in forma specifica, le indagini
svolte. Il verbale è trasmesso senza ritardo al giudice che ha emesso l'ordinanza. Questi, se ritiene le
ricerche esaurienti, dichiara lo stato di latitanza.
È latitante chi volontariamente si sottrae alla custodia cautelare, agli arresti domiciliari, al
divieto di espatrio, all'obbligo di dimora.
La stessa qualifica è attribuita pure al condannato che, in fase di esecuzione, si sottrae
all'esecuzione dell'ordine del magistrato del pubblico ministero che ne dispone la carcerazione.
Lo stato di latitanza produce effetti soltanto nel procedimento penale nel quale è stato
dichiarato e permane fino a quando il provvedimento che vi ha dato causa non sia revocato o perda
altrimenti efficacia oppure sino a quando non sia estinto il reato (o la pena) per cui il provvedimento
è stato emesso.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Con il provvedimento che dichiara la latitanza, il giudice designa un difensore d'ufficio al
latitante che ne sia privo e ordina che sia depositata in cancelleria copia dell'ordinanza che ha
imposto la misura rimasta ineseguita. L'avviso dell'avvenuto deposito è notificato al difensore.
Al fine di agevolare le ricerche del latitante, il giudice o il magistrato del pubblico ministero,
nei limiti e con le modalità previsti dalla legge, può disporre l'intercettazione di conversazioni o
comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione.
Se il latitante è ricercato in relazione ad un delitto di criminalità organizzata o ad un delitto
commesso per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale – per il quale la
legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a
dieci – o, infine, per il delitto di partecipazione ad associazione sovversiva o di partecipazione a
banda armata, il giudice o il magistrato del pubblico ministero può disporre l'intercettazione anche
di comunicazioni tra presenti (artt. 295 e 296).
È fatto, comunque, salvo il divieto d'intercettare conversazioni o comunicazioni di difensori,
consulenti tecnici, investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento e loro
ausiliari, nonché quelle tra i predetti soggetti e le persone assistite (art. 103).
Il primo adempimento cui è tenuto il giudice, una volta eseguita l'ordinanza impositiva di
una misura cautelare, è l'interrogatorio dell'indagato o dell'imputato, a meno che non vi abbia già
provveduto, in fase di convalida dell'arresto o del fermo.
L'obbligo di interrogatorio incombe, fino all'apertura del dibattimento, sul giudice che ha
deciso in ordine all'applicazione della custodia cautelare. Se la misura è stata disposta dalla corte di
assise o dal tribunale ordinario, all'interrogatorio procede il presidente del collegio (o uno dei
componenti) o il giudice monocratico.
Precisato ciò, va detto che il giudice deve procedere all'interrogatorio immediatamente e,
comunque, non oltre cinque giorni dall'inizio dell'esecuzione della custodia in carcere, salvo il caso
in cui la persona sia assolutamente impedita. Il magistrato del pubblico ministero – che non può
interrogare la persona in custodia cautelare prima del giudice – può chiedere, per esigenze
d'indagine, che l'interrogatorio abbia luogo entro le quarantotto ore dall'esecuzione dell'ordinanza.
L'interrogatorio della persona sottoposta ad altra misura cautelare – coercitiva o interdittiva
– deve aver luogo entro dieci giorni dall'esecuzione del provvedimento o dalla sua notificazione.
Nel caso di assoluto impedimento del soggetto, il giudice ne dà atto con decreto motivato e il
termine decorre nuovamente dalla data in cui gli viene comunicato che è cessato l'impedimento o
dalla data in cui direttamente ne accerta la cessazione.
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Al magistrato del pubblico ministero e al difensore è dato tempestivo avviso del
compimento dell'atto: il primo ha facoltà d'intervenire; il secondo ha l'obbligo di partecipare.
L'interrogatorio – condotto secondo modalità espressamente indicate (artt. 64 e 65) — è
l'atto con cui, anche in relazione ad una misura precedentemente disposta, il giudice valuta il
permanere dei presupposti di applicabilità e delle esigenze cautelari sussistenti al momento
dell'imposizione.
Se l'atto deve essere assunto nella circoscrizione di altro tribunale, il giudice vi può
provvedere personalmente o può delegare il giudice per le indagini preliminari – o il presidente del
collegio, in caso di misura adottata da organo collegiale – del luogo (art. 294).
La documentazione dell'interrogatorio della persona che si trovi in stato di detenzione, a
qualsiasi titolo, a meno che non si svolga in udienza, deve aver luogo, a pena d'inutilizzabilità, con
mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva.
Si procede con le forme della perizia – o della consulenza tecnica, se l'interrogatorio è
assunto dal magistrato del pubblico ministero – quando non vi sia disponibilità di strumenti di
riproduzione o di personale.
In ogni caso, la documentazione si completa con verbale redatto in forma riassuntiva. Le
parti possono chiedere la trascrizione della riproduzione (art. 141-bis disp. a.c.t.).
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6 Criteri di scelta
L'indagine che il giudice deve compiere è abbastanza complessa. Essa deve riguardare, in
primo luogo, le modalità e le circostanze del fatto, così come ricostruibili dagli atti esibiti dal
magistrato del pubblico ministero. Non si può, poi, fare a meno di enucleare, dalla condotta posta in
essere dalla persona sottoposta alle indagini o dall'imputato, gli elementi concreti di valutazione da
porre a fondamento del provvedimento e tenere conto della personalità del soggetto, desunta dai
precedenti penali e giudiziari, dell'ambiente in cui il delitto è maturato, della vita anteatta e di ogni
altro elemento di giudizio.
L'analisi deve, ancora, avere ad oggetto la qualificazione giuridica del fatto rappresentato
dall'accusa, per la verifica dell'esatta determinazione della pena agli effetti dell'applicazione della
misura.
La valutazione si estende, poi, all'apprezzamento dell'esistenza dei gravi indizi di
colpevolezza e dell'utilità della misura. Solo all'esito di questa articolata verifica, il giudice –
sempre che non sia vincolato dalla natura del reato incluso nella categoria dei delitti di criminalità
organizzata – deve soffermarsi sulle esigenze cautelari rappresentate e stabilire se effettivamente
sussistano i pericula prospettati, individuando, la misura, per essi, adeguata.
La valutazione è normativamente orientata secondo parametri differenziati, che vanno
opportunamente tenuti distinti. La disciplina, infatti, pone:
1) i criteri che debbono guidare, in linea di massima, la decisione del giudice e che si
propongono come valevoli per la generalità dei casi;
2) i criteri che debbono essere seguiti in presenza di gravi indizi di reati di particolare
natura;
3) i criteri valevoli per l'ipotesi che l'indagato o l'imputato abbia superato un certo
limite di età o versi, comunque, in determinate condizioni.
Individuando precisi criteri per la scelta della misura da applicare nel caso concreto, il
legislatore ha inteso vincolare il giudice, in fase di esercizio del potere cautelare, e, quindi, di
opzione tra le alternative che astrattamente si delineano, all'applicazione della misura che abbia la
specifica capacità di soddisfare l'esigenza del caso concreto.
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Improntate a ben precisi valori di tipicità, le norme offrono quella particolare prospettazione
del tema, che può essere definita come idoneità della misura imposta in relazione alla vicenda
all'esame del giudice.
Nell'esaminare la richiesta il giudice deve soffermarsi sulla natura e sul grado dell'esigenza
cautelare di cui si chiede, mediante l'emissione della misura, la tutela e formula una valutazione che
deve risultare congrua rispetto a determinati parametri.
Deve esservi, innanzitutto, corrispondenza tra la misura prescelta e l'esigenza evidenziata nel
caso concreto, nel senso che il sacrificio che si chiede a chi è destinato a subire la misura deve
trovare giustificazione nell'interesse che s'intende tutelare (criterio di adeguatezza) (art. 275 comma
1).
È necessario, poi, che vi sia proporzione tra la misura prescelta e l'entità del fatto, da un lato,
e tra la misura prescelta e la sanzione che si ritiene possa essere irrogata, dall'altro. Se il giudice
ritiene che, con la sentenza, possa essere concessa la sospensione condizionale della pena, non può
essere disposta la misura della custodia cautelare (criterio di proporzionalità) (art. 275 commi 2 e
2-bis).
La custodia cautelare in carcere, infine, deve essere applicata solo quando nessuna altra
misura risulti idonea a soddisfare le esigenze che si debbono salvaguardare (criterio del « minor
sacrificio ») (art. 275 comma 3).
Nel fissare questi criteri per la scelta della misura idonea, nel caso concreto, a scongiurare i
pericula libertatis, il legislatore ha avuto riguardo essenzialmente alle fasi anteriori al giudizio di
primo grado.
Certo, non v'è alcuna preclusione all'adozione di una misura cautelare in un momento
successivo, ma è indubbio che la prognosi richiesta al giudice si prospetta con riferimento ad una
decisione di merito che non è ancora intervenuta e, quindi, può essere formulata solo nelle fasi
antecedenti a quella dibattimentale.
Basta por mente alla previsione secondo cui ogni misura deve essere proporzionata all'entità
del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata. È evidente che la valutazione
prognostica investe il possibile esito di un giudizio che non è stato ancora formulato dal giudice di
merito.
Se la misura cautelare deve essere applicata anche in conclusione del primo grado di
giudizio o in grado di appello, essa, oltre che all'entità del fatto, deve essere proporzionata non solo
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alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, ma anche a quella che è stata irrogata. Il
riferimento è, evidentemente, alla sentenza di condanna in primo grado.
La misura che si applica contestualmente ad una sentenza di condanna, esige che l'esame
delle esigenze cautelari sia condotto tenendo conto pure dell'esito del procedimento, delle modalità
del fatto e, soprattutto, degli elementi sopravvenuti, dai quali possa emergere che, a seguito della
sentenza, si è concretizzato il pericolo di fuga oppure sussiste una reale esigenza di difesa che non
può non essere salvaguardata in maniera adeguata (art. 275 comma 1-bis).
Nel caso di condanna in grado di appello, le misure cautelari personali sono sempre
disposte, contestualmente alla sentenza, quando, all'esito dell'esame condotto tenendo conto pure
dell'esito del procedimento, delle modalità del fatto e, soprattutto, degli elementi sopravvenuti,
risultano esigenze cautelari e la condanna riguarda uno dei delitti per i quali è previsto l'arresto
obbligatorio in flagranza, commesso da soggetto condannato nei cinque anni precedenti per delitti
della stessa indole (art. 275 comma 2-ter).
La regola di giudizio scaturente dall'applicazione dei tre criteri enunciati non può essere
seguita dal giudice, quando la richiesta di misura afferisce a particolari reati.
Se l'ufficio dell'accusa procede per il delitto di associazione per delinquere di stampo
mafioso o per uno dei delitti commessi avvalendosi delle condizioni dell'associazione o per
agevolarne le attività (c.d. reati di criminalità organizzata), il criterio del « minor sacrificio » non
governa più la scelta tra le misure, nel senso che la custodia carceraria non rappresenta, come negli
altri casi, l'extrema ratio.
Neppure il criterio dell'adeguatezza trova più spazio alcuno: ritorna in giuoco soltanto il
criterio dell'utilità della misura.
Non è possibile graduare l'intensità della misura in ragione di una specifica esigenza da
salvaguardare, ma è la situazione di fatto che deve dimostrare la non indispensabilità del ricorso alla
misura e, quindi, la sua inutilità (art. 275 comma 3).
Le esigenze cautelari da salvaguardare, attesa la gravità del reato, sono presunte dalla legge.
Si tratta, tuttavia, di una presunzione superabile dal giudice, quante volte accerti elementi che
escludono qualsiasi situazione di pericolo.
Il legislatore indica, infine, il percorso che deve essere seguito dal giudice, nell'ipotesi in cui
l'indagato (o l'imputato) abbia raggiunto un determinato limite di età o versi in particolari
condizioni di salute.
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È previsto che non può essere applicata la custodia in carcere se la persona ha superato l'età
di settanta anni, è affetta da aids conclamata o da grave deficienza immunitaria o altra malattia –
che sia particolarmente grave e renda le condizioni di salute incompatibili con lo stato di detenzione
o insuscettibili di cura nell'ambiente carcerario – è donna incinta o madre di prole di età inferiore a
tre anni con lei convivente, è padre di detta prole e la madre è deceduta o impossibilitata
assolutamente a dare assistenza alla prole.
In ogni caso, il divieto non opera se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza,
così come non opera se la persona affetta da aids o da grave deficienza immunitaria o da altra
malattia, particolarmente grave, risulta imputata o destinataria di altra misura cautelare per uno dei
delitti per i quali è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza, relativamente a fatti commessi dopo
l'applicazione della misura alternativa alla custodia intra moenia, scelta per esigenze diagnostiche o
terapeutiche, o ha trasgredito alle prescrizioni imposte con la misura applicata in luogo della
custodia in carcere per esigenze terapeutiche o diagnostiche.
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7 La vicenda cautelare: sostituzione, revoca, estinzione e rinnovazione della misura.
Il principio di tassatività attiene anche alle modalità di esecuzione del provvedimento
cautelare e si pone come principio applicabile tanto nel momento della scelta in favore della
restrizione o della limitazione della libertà, quanto nel momento della decisione sulla necessità di
mantenere in vita una misura già imposta, adottabile in alternativa all'opposta decisione di revoca,
quanto, infine, nel momento successivo dell'opzione per una misura in luogo di un'altra.
Alla sostituzione il giudice è ovviamente legittimato fuori dei casi nei quali, per la gravità
del fatto contestato (art. 275 comma 3), è vincolato alla richiesta dell'organo dell'accusa e il suo
potere discrezionale non si estende all'apprezzamento delle esigenze cautelari, ma è circoscritto alla
valutazione dei soli gravi indizi di colpevolezza e dell'utilità della misura (art. 299).
La sostituibilità della misura originariamente imposta o dei suoi modi di esecuzione è
consentita, se le esigenze cautelari rilevate all'atto dell'adozione del provvedimento impositivo
risultano attenuate o se la misura applicata non appare più proporzionata alla entità del fatto o alla
sanzione che si ritiene possa essere irrogata.
La sostituzione ha contenuti diversi e variabili: basata necessariamente sul permanere delle
condizioni legali di adottabilità del provvedimento, consegue ad una loro diversa valutazione,
sfociando in una conversione della misura in altra meno rigorosa o più afflittiva, secondo che si
registri l'attenuazione o l'aggravamento delle esigenze cautelari, così come originariamente
considerate.
L'aggravamento può scaturire come sanzione irrogabile al soggetto, ristretto o limitato nella
libertà, che abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti alla misura impostagli e produttiva della
sostituzione della cautela originariamente adottata con altra più grave o del cumulo con altra più
grave, secondo l'entità, i motivi e le circostanze della violazione.
I provvedimenti che possono essere adottati dal giudice, in caso di trasgressione delle
prescrizioni inerenti a una misura cautelare, hanno natura discrezionale, nel senso che il giudice può
disporre la sostituzione della misura o il suo cumulo con altra più grave, ma deve dare conto della
scelta, la quale deve risultare, comunque, proporzionata ai motivi e all'entità della violazione.
Valutazioni discrezionali non sono consentite se la trasgressione è alle prescrizioni degli
arresti domiciliari concernenti il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo
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di privata dimora. Preso atto della trasgressione, così come riferita dall'organo di controllo, il
giudice dispone la revoca della misura e la sua sostituzione con la custodia cautelare in carcere. La
sostituzione è automatica e nessun apprezzamento è concesso al giudice, in ordine all'entità della
trasgressione ed ai motivi che l'hanno determinata (art. 276).
Oltre che in tale specifica ipotesi, quando le esigenze cautelari risultano aggravate, il
giudice, su richiesta del magistrato del pubblico ministero, sostituisce la misura applicata con
un'altra più grave o ne dispone l'applicazione con modalità più gravose.
Se, viceversa, le esigenze cautelari appaiono attenuate oppure la misura applicata non è più
proporzionata all'entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, il giudice
interviene sulla vicenda cautelare e, secondo i casi, sostituisce la misura imposta con altra meno
grave oppure ne dispone l'applicazione con modalità meno gravose. Trattandosi di sostituzione in
melius, è consentito l'intervento ex officio del giudice, negli stessi casi in cui è possibile disporre,
d'ufficio, la revoca della misura.
Una disciplina particolare è dettata per la sostituzione – così come per l'imposizione – della
misura della custodia domiciliare in luogo della custodia carceraria, nel senso che il giudice è
vincolato a specifici divieti o dispone di una maggiore discrezionalità, a seconda della situazione di
fatto che si presenta al suo esame.
Così, ad esempio, non può operare la sostituzione in melius, quando l'imputato (o l'indagato)
sia stato condannato per il reato di evasione nei cinque anni precedenti rispetto all'epoca del fatto
per il quale si procede: il giudice assume, in proposito, le relative notizie nelle forme più rapide (art.
284 comma 5-bis).
Può, invece, disporre, anche in sostituzione della custodia cautelare in carcere, la misura
degli arresti domiciliari, se ritiene che il ricorso a determinati meccanismi di controllo sia
sufficiente a soddisfare le esigenze cautelari che debbono essere salvaguardate nel caso concreto. Se
si orienta in quest'ultima direzione, adotta procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri
strumenti tecnici, sempre che la polizia giudiziaria ne abbia la disponibilità.
Ovviamente, l'indagato (o l'imputato) deve accettare i mezzi e gli strumenti di controllo –
potendo anche negare il consenso alla loro applicazione – con dichiarazione resa all'ufficiale o
all'agente incaricato di eseguire l'ordinanza che ha disposto la misura. La dichiarazione di
accettazione è trasmessa al giudice che ha emesso l'ordinanza ed al magistrato del pubblico
ministero.
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Una volta accettata l'applicazione dei mezzi e strumenti di controllo, l'indagato (o
l'imputato) è tenuto ad agevolare le procedure d'installazione e ad osservare le altre prescrizioni
impostegli.
Va da sé che, negato il consenso all'adozione di mezzi e strumenti di controllo, l'imputato o
l'indagato non può sottrarsi all'applicazione della misura della custodia cautelare in carcere (art.
275-bis).
In definitiva, la sostituzione della misura e la modifica delle sue modalità esecutive sono
indicative di differenti valutazioni, operate alla luce dei criteri di adeguatezza e di proporzionalità,
sempre che il giudice non sia normativamente vincolato nella sua scelta (art. 299).
Il giudice che procede è competente non solo ad applicare la misura, ma anche a disporne la
revoca, quando risultino mancanti, anche per fatti sopravvenuti, i presupposti o le esigenze
cautelari.
La revoca è provvedimento di contenuto antitetico rispetto a quello dell'ordinanza impositiva
della misura. Viene ordinata quando, anche per fatti sopravvenuti, non siano più riscontrabili i
presupposti o non si apprezzino più esigenze cautelari da soddisfare.
Ricordando che i presupposti del potere cautelare s'identificano nella presenza di gravi indizi
di colpevolezza, nell'utilità della misura e in determinati limiti di pena edittale, è agevole
argomentare che la revoca della misura è disposta quando:
1. risultino mancanti i gravi indizi;
2. si accerti che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione o di
non punibilità;
3. si rilevi una causa di estinzione del reato o della pena presumibilmente irrogabile;
4. il fatto appaia al giudice meno grave e, come tale, non ricollegabile ad alcuna delle
ipotesi per le quali è consentito il ricorso al potere cautelare.
A questi casi va aggiunto, naturalmente, quello del venir meno di esigenze cautelari da
salvaguardare.
Il giudice provvede alla revoca di sua iniziativa o su sollecitazione di chi vi abbia interesse.
Le occasioni d'intervento d'ufficio sono varie e possono coincidere con:
a. l'interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare;
b. l'esame di una richiesta di proroga del termine per le indagini preliminari;
c. l'esame di una richiesta di assunzione di un mezzo di prova con l'incidente
probatorio;
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d. lo svolgimento dell'udienza preliminare;
e. lo svolgimento del giudizio dibattimentale.
Quando la revoca è chiesta da una delle parti – magistrato del pubblico ministero, indagato
(o imputato) o difensore – il giudice deve provvedere entro cinque giorni.
Sulla richiesta avanzata dall'indagato (o imputato) o dal suo difensore, deve essere acquisito
il parere del magistrato del pubblico ministero, il quale, tuttavia, deve esprimerlo nel termine di due
giorni.
Il giudice, prima di provvedere, può assumere l'interrogatorio dell'indagato (o imputato).
La richiesta di revoca fondata su elementi nuovi o diversi da quelli già valutati, obbliga il
giudice ad effettuare l'interrogatorio, se ne è fatta richiesta.
Quando non sia in grado di provvedere allo stato degli atti, il giudice dispone, anche
d'ufficio e senza formalità, accertamenti – da eseguirsi al più presto e, comunque, entro quindici
giorni dalla richiesta – sulle condizioni di salute o su altre condizioni o qualità personali
dell'indagato (o imputato).
Accertamenti ancora più rapidi – da espletarsi nel termine di cinque giorni dal deposito della
richiesta, mediante un perito – sono svolti quando la richiesta di revoca della custodia cautelare è
giustificata dalle condizioni di salute particolarmente gravi dell'indagato (o imputato) e il giudice
ritiene di non poter procedere alla revoca sulla base degli atti (art. 299).
Diversamente dalla revoca e dalla sostituzione – che riflettono il potere-dovere di controllo
sulla legalità del permanere di una misura già imposta – l'estinzione della misura si collega al mero
verificarsi di avvenimenti caducativi, individuabili nell'inosservanza di termini perentori o nel
mancato compimento di determinate attività.
L'estinzione, per perdita di efficacia della misura, ha luogo a seguito di:
1) archiviazione o pronuncia della sentenza di non luogo a procedere o di
proscioglimento;
2) pronuncia di una sentenza di condanna, se la pena irrogata è dichiarata estinta o
condizionalmente sospesa;
3) pronuncia di una sentenza di condanna, ancorché sottoposta a impugnazione, se la
durata della custodia già subita non è inferiore all'entità della pena irrogata (art. 300);
4) scadenza del termine di durata della cautela imposta per esigenze cautelari motivate
dal bisogno di salvaguardare le fonti di prova da pericoli di dispersione o
inquinamento (art. 301);
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5) omesso interrogatorio – nel termine di dieci giorni per l'indagato o l'imputato al
quale sia stata applicata una misura coercitiva o una misura interdittiva e nel termine
di cinque giorni per l'indagato o l'imputato in stato di custodia cautelare in carcere –
anche se, dopo la liberazione, la misura può essere nuovamente disposta dal giudice,
sempre su richiesta del magistrato del pubblico ministero, previo interrogatorio,
qualora sussistano ancora le condizioni di legge (art. 302);
6) decorso del termine fissato per legge e posto a pena di « liberazione automatica »,
senza che sia stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio ovvero senza che
sia stata pronunciata la sentenza che definisce il giudizio abbreviato o quella che
applica la pena concordata tra le parti, o, ancora, la sentenza di condanna in primo
grado o in grado di appello o la sentenza irrevocabile di condanna (art. 303).
Non appena si è verificata la causa di estinzione, il giudice deve adottare provvedimento
d'immediata liberazione del soggetto (art. 306 comma 1).
Quando la misura cautelare è imposta al fine di garantire l'acquisizione o la genuinità delle
fonti di prova, il giudice deve fissarne la durata e l'indicazione deve essere contenuta nell'ordinanza,
pena la nullità dell'intero provvedimento (art. 292).
Per l'effetto, la misura perde immediatamente efficacia alla scadenza del termine. È previsto,
tuttavia, che, su richiesta del magistrato del pubblico ministero, inoltrata prima della scadenza di
detto termine, il giudice ne possa ordinare la rinnovazione, anche per più di una volta, entro gli
spazi temporali costituenti i termini massimi di durata delle misure interdittive e delle misure
coercitive non custodiali e i termini parziali di durata della custodia cautelare (carceraria, in luogo
di cura o domiciliare) aumentati fino alla metà.
La misura della custodia cautelare in carcere, disposta nell'ambito di procedimenti per reati
comuni, non richiedenti investigazioni particolarmente complesse o da eseguirsi all'estero, può
essere rinnovata per non più di due volte ed entro il limite complessivo di novanta giorni.
La rinnovazione presuppone, ovviamente, che non sia cessato il pericolo di dispersione o
inquinamento delle fonti di prova, pericolo che deve essere sufficientemente motivato dal
magistrato del pubblico ministero.
Prima di disporre la rinnovazione, il giudice deve valutare le ragioni che hanno impedito il
compimento degli atti d'indagine per i quali è stata disposta la misura e deve sentire il difensore
dell'indagato.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Se la rinnovazione concerne la misura della custodia in carcere disposta nel corso di un
procedimento per reati diversi sia da quelli di maggiore allarme sociale sia da quelli per il cui
accertamento sono richieste indagini di particolare complessità o indagini all'estero, il giudice,
prima di disporla, deve altresì interrogare l'indagato (o l'imputato) (art. 301).
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8 La durata della custodia cautelare e delle altre misure.
Il codice recepisce il precetto costituzionale, secondo cui la carcerazione preventiva non può
essere sofferta sine die (art. 13 Cost.) e provvede ad indicare la durata non solo della custodia in
carcere, ma anche di ogni altra misura, sia coercitiva che interdittiva, individuando parametri, che,
pur se connotati d'inevitabile elasticità, tendono, comunque, a contenere in limiti indispensabili la
privazione o la limitazione delle libertà individuali e la sospensione dall'esercizio di facoltà e diritti.
Preliminare è l'individuazione del dies a quo: solo dopo aver stabilito quando comincia a
decorrere la misura, è possibile calcolarne la durata.
La durata delle misure interdittive, delle misure coercitive non custodiali e della misura
degli arresti domiciliari inizia a decorrere dalla notificazione dell'ordinanza che le dispone, mentre
quella della custodia cautelare in carcere (o in luogo di cura) inizia a decorrere dal momento della
cattura dell'indagato o dell'imputato. Se è stato eseguito il fermo o l'arresto, la decorrenza
retroagisce al momento di applicazione della pre-cautela personale.
Esaurita l'elencazione dei criteri di computo del termine iniziale di decorrenza della misura,
per calcolarne la durata occorre prendere le mosse dalla ripartizione delle misure cautelari nelle due
categorie delle misure custodiali e delle misure non custodiali, ricomprendendo in queste ultime
tanto le misure di mera coercizione quanto le misure interdittive.
Le misure interdittive perdono efficacia, in via ordinaria, quando sono decorsi due mesi
dall'inizio della loro esecuzione; se sono disposte per esigenze probatorie, il giudice può rinnovarle
anche al di là dei due mesi, salvo il limite previsto per le misure di mera coercizione. La loro
estinzione non pregiudica l'esercizio dei poteri che la legge attribuisce al giudice penale o ad altre
autorità per l'applicazione di pene accessorie o di altre misure interdittive.
Le misure di mera coercizione – o coercitive non custodiali – per il loro limitato valore
afflittivo, perdono efficacia quando, dall'inizio della loro esecuzione, sia decorso un periodo di
tempo pari al doppio dei termini di durata delle misure custodiali (art. 308).
Questi ultimi sono commisurati alla gravità del reato e sono calcolati secondo differenti
parametri, distinguendosi in parziali, complessivi e massimi.
Prima, però, di descrivere le regole generali per il calcolo di tali termini, occorre precisare
che tali regole valgono, sempre, per la misura degli arresti domiciliari e per quella della custodia in
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luogo di cura, mentre rispetto alla custodia in carcere valgono solo quando si proceda per un delitto
di maggiore allarme sociale o per un delitto il cui accertamento richieda indagini particolarmente
complesse – per la molteplicità dei fatti tra loro collegati o per l'elevato numero di persone
sottoposte alle indagini o di persone offese – o il compimento di indagini all'estero, o quando, pur
procedendosi per un reato comune non implicante accertamenti di particolare complessità o indagini
all'estero, la custodia carceraria sia stata disposta per scongiurare la fuga dell'indagato (o
dell'imputato) o per esigenze di difesa sociale. Se, invece, la misura in questione è stata disposta
esclusivamente per esigenze di salvaguardia delle fonti di prova da pericoli di dispersione o
inquinamento, le regole sono diverse, essendo previsto che essa non può avere durata superiore a
trenta giorni e, se rinnovata (per non più di due volte), non può comunque superare il limite
complessivo di novanta giorni (art. 301 commi 2-bis e 2-ter).
Fatta questa doverosa precisazione, passiamo ad esaminare la disciplina dei termini parziali,
complessivi e massimi di durata della custodia cautelare (carceraria, in luogo di cura o domiciliare).
I termini parziali sono fissati con riguardo ai singoli momenti del procedimento penale.
Assumendo come punto di riferimento l'articolazione per fasi del primo grado di giudizio e
per gradi d'impugnazione dell'intero procedimento, il legislatore fraziona la vicenda cautelare in
cinque distinti periodi, per ciascuno dei quali indica quella che può essere la durata della custodia,
per singoli segmenti temporali rapportati, per il primo grado di giudizio, alla distinta gravità dei
reati e, per i gradi d'impugnazione, alla quantità di pena irrogata con la sentenza di condanna.
È stabilito, così, che dall'inizio dell'esecuzione della misura custodiale fino all'emissione del
decreto che dispone il giudizio (artt. 429 e 455) o dell'ordinanza con la quale il giudice dispone il
giudizio abbreviato (art. 438) o della sentenza che applica la pena su richiesta delle parti (art. 444),
possono decorrere:
a) tre mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della
reclusione non superiore nel massimo a sei anni;
b) sei mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della
reclusione superiore nel massimo a sei anni;
c) un anno, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena
dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a venti anni o per uno dei
delitti di maggiore allarme sociale [art. 407 comma 2 lett. a)], sempre che la legge
preveda la pena della reclusione superiore nel massimo a sei anni.
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Una previsione specifica riguarda la durata della custodia cautelare nel periodo che va
dall'emissione dell'ordinanza con la quale il giudice dispone il giudizio abbreviato o dalla
sopravvenuta esecuzione della custodia e sino alla pronuncia di condanna, conclusiva del giudizio
abbreviato. Per tale attività processuale, possono decorrere i seguenti termini:
a) tre mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della
reclusione non superiore nel massimo a sei anni;
b) sei mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della
reclusione non superiore nel massimo a venti anni;
c) nove mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena
dell'ergastolo o la pena della reclusione superiore nel massimo a venti anni.
Se non si procede a giudizio abbreviato, ma si avvia la fase del dibattimento, dall'emissione
del provvedimento che dispone il giudizio – o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia – sino
alla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado, la custodia può durare:
a) sei mesi, se per il delitto per il quale si procede la legge stabilisce la pena della
reclusione non superiore nel massimo a sei anni;
b) un anno, se per il delitto per il quale si procede la legge stabilisce la pena della
reclusione non superiore nel massimo a venti anni;
c) un anno e sei mesi, se si procede per un delitto per cui la legge stabilisce la pena
dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a venti anni.
Quando si procede per delitti di grave allarme sociale, i termini di questa fase possono
essere aumentati fino a sei mesi e, pertanto, la durata della custodia può raggiungere, per tale fase,
rispettivamente, un anno, un anno e sei mesi e due anni, a seconda che la pena edittale prevista sia
la reclusione non superiore nel massimo a sei anni, la reclusione non superiore nel massimo a venti
anni, l'ergastolo o la reclusione superiore nel massimo a venti anni.
La previsione si struttura secondo il duplice criterio del recupero e dell'anticipazione. La
protrazione della custodia cautelare, infatti, recupera la porzione temporale che non sia stata
utilizzata nella fase precedente e, per la parte eventualmente residua, attinge alla porzione temporale
prevista per la fase che va dalla pronuncia della sentenza di condanna in grado di appello alla
definizione del processo con sentenza divenuta irrevocabile. Di conseguenza, quest'ultima fase sarà
ridotta della parte che dovesse essere prestata alla fase del giudizio.
Naturalmente, la modifica non incide sulla durata dei termini massimi di custodia cautelare,
nel senso che quando si calcola il limite invalicabile del doppio dei termini di fase, non si deve
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computare l'eventuale protrazione dovuta all'utilizzazione del residuo della fase precedente o del
prestito dalla fase successiva.
Nel caso in cui sia intervenuta sentenza di condanna di primo grado, da questo momento – o
dalla sopravvenuta esecuzione della custodia – alla pronuncia della sentenza di condanna in appello,
possono decorrere:
a) nove mesi, se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a tre anni;
b) un anno, se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a dieci anni;
c) un anno e sei mesi, se vi è stata condanna alla pena dell'ergastolo o della reclusione
superiore a dieci anni.
Infine, dalla pronuncia della sentenza di condanna in grado di appello – o dalla sopravvenuta
esecuzione della custodia – fino al passaggio in giudicato di tale decisione, vale a dire fino alla
pronuncia di sentenza irrevocabile di condanna, a conclusione del grado di legittimità, possono
decorrere termini corrispondenti a quelli previsti per il passaggio dal primo al secondo grado del
procedimento. Da tali termini va, tuttavia, detratto il periodo eventualmente utilizzato nel corso del
giudizio di primo grado, per evitare la scarcerazione dell'imputato quando si procede per reati di
particolare allarme sociale.
I termini di durata della custodia cautelare previsti per il grado di legittimità, diversamente
da ciò che avviene per il grado di appello, non decorrono automaticamente, ma sempre che
ricorrano determinate condizioni. È necessario che la sentenza di condanna in appello abbia
riformato una sentenza assolutoria emessa a conclusione del primo grado e che il ricorso per
cassazione non sia stato proposto esclusivamente dall'ufficio del pubblico ministero. Se il grado di
legittimità è attivato solo su ricorso del rappresentante della pubblica accusa oppure se vi è stata
condanna in primo grado, i termini di durata della custodia cautelare sono quelli complessivi, dei
quali ci occuperemo tra breve.
Nell'ipotesi di regressione del procedimento penale – per annullamento con rinvio da parte
della corte di cassazione o per altra causa – ad una fase o a un grado di giudizio diverso e nel caso
di rinvio ad altro giudice, i termini di custodia cautelare, fissati per ciascuna fase, decorrono
nuovamente dalla data del provvedimento che dispone il regresso o il rinvio o dalla sopravvenuta
esecuzione della custodia cautelare.
Ovviamente, se l'imputato evade nel corso dell'esecuzione della custodia cautelare – o della
misura degli arresti domiciliari che è, ad essa, equiparata – i termini decorrono di nuovo,
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relativamente a ciascuno stato e grado del procedimento penale, dal momento in cui viene
ripristinata la custodia (art. 303 commi 1-3).
Nel computo dei termini parziali – sia quelli relativi alla fase del giudizio di primo grado sia
quelli relativi ai gradi d'impugnazione – non si calcolano i giorni in cui sono tenute le udienze e
quelli impiegati per la deliberazione della sentenza (art. 297 comma 4).
La durata della custodia cautelare può allungarsi ulteriormente, per effetto di determinate
situazioni di fatto, che il legislatore individua come ipotesi di « proroga » e come casi di «
sospensione ».
Le proroghe possono essere concesse quando – nel corso delle li indagini preliminari –
sussistono gravi esigenze cautelari che, in rapporto ad accertamenti particolarmente complessi o a
nuove indagini disposte a seguito di richiesta dell'indagato (art. 415-bis comma 4), rendono
indispensabile il protrarsi della custodia e quando – in ogni stato e grado del processo di merito –
deve essere disposta perizia sullo stato di mente dell'imputato.
Nel primo caso, il magistrato del pubblico ministero chiede la proroga dei termini che siano
prossimi a scadere ed il giudice, sentiti il magistrato e il difensore, provvede con ordinanza
appellabile innanzi al tribunale della libertà.
La proroga è rinnovabile, per una sola volta, e, comunque, i distinti termini parziali previsti
per la fase del procedimento per le indagini preliminari – tre mesi, sei mesi, un anno – non possono
essere superati di oltre la metà e, quindi, non possono andare oltre, rispettivamente, i quattro mesi e
mezzo, i nove mesi e l'anno e sei mesi.
Il secondo caso si verifica quando è disposta perizia sullo stato di mente dell'imputato nel
corso del processo di merito, vale a dire nel giudizio di primo grado e in appello. Il giudice, su
richiesta del magistrato del pubblico ministero e sentito il difensore, con ordinanza soggetta a
ricorso per cassazione, dispone la proroga dei termini per il tempo assegnato per l'espletamento
della perizia (art. 305), che, per la presentazione della relazione scritta, non può andare oltre i
novanta giorni e, anche quando venga prorogato, non può, comunque, superare i sei mesi (art. 227).
L'eventuale concessione di proroghe concorre a formare i termini complessivi, che non
possono superare:
a) due anni, quando si procede per delitto per il quale la legge stabilisce la pena della
reclusione non superiore nel massimo a sei anni;
b) quattro anni, quando si procede per delitto per il quale la legge stabilisce la pena
della reclusione non superiore nel massimo a venti anni;
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c) sei anni, se si procede per delitto per cui la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o la
pena della reclusione superiore nel massimo a venti anni (art. 303 comma 4).
Si ricordi che i giorni occorsi per la celebrazione delle udienze e quelli impiegati per la
deliberazione della sentenza, anche se non vanno computati nei singoli termini parziali, concorrono,
tuttavia, a formare i termini complessivi (art. 297 comma 4).
I termini sinora considerati possono anche non essere definitivi, perché subiscono
interruzioni dovute a provvedimenti di sospensione.
La sospensione, che comporta il mancato computo, ai fini della durata parziale e
complessiva della privazione ante iudicium della libertà, di determinati spazi di tempo, con
l'inevitabile conseguenza che la custodia finisce per avere una durata maggiore di quella prevista, in
via ordinaria, per ciascuna fase, per ciascun grado o per l'intero procedimento penale, può essere
obbligatoria o facoltativa e deve, comunque, essere deliberata dal giudice.
I casi di sospensione obbligatoria sono individuati con riguardo sia alla fase dell'udienza
preliminare che alla fase del giudizio.
Nella fase dell'udienza preliminare, i termini di durata della custodia cautelare previsti per
l'emissione del provvedimento che dispone il giudizio sono sospesi:
a) durante il tempo in cui l'udienza è sospesa o rinviata, per impedimento
dell'imputato;
b) durante il tempo in cui l'udienza è sospesa o rinviata, su richiesta dell'imputato o
del suo difensore, per ragioni diverse da quelle che motivano la sospensione o il
rinvio per esigenze di acquisizione probatoria o per concessione di termini per la
difesa;
c) durante il tempo in cui l'udienza è sospesa o rinviata per l'allontanamento o la
mancata partecipazione di uno o più difensori che rendano privo di assistenza
uno o più imputati.
Nel caso sia disposto il giudizio abbreviato, i termini – sia parziali che complessivi – di
durata della custodia cautelare sono sospesi:
durante il tempo in cui l'udienza è sospesa o rinviata, per impedimento
dell'imputato o del suo difensore;
durante il tempo in cui l'udienza è sospesa o rinviata, su richiesta dell'imputato o
del suo difensore, per ragioni diverse da quelle che motivano la sospensione o il
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rinvio per esigenze di acquisizione probatoria o per concessione di termini per la
difesa;
durante il tempo in cui l'udienza è sospesa o rinviata per la mancata
presentazione, l'allontanamento o la mancata partecipazione di uno o più
difensori che privino di assistenza uno o più imputati;
durante la pendenza dei termini previsti dalla legge – quindici giorni – o fissati
dal giudice – entro il novantesimo giorno da quello della pronuncia – per la
stesura e il deposito della motivazione.
Nella fase del giudizio dibattimentale, i termini – sia parziali che complessivi – di durata
della custodia cautelare sono sospesi:
a) durante il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato, per impedimento
dell'imputato o del suo difensore;
b) durante il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato, su richiesta
dell'imputato o del suo difensore, per ragioni diverse da quelle che motivano la
sospensione o il rinvio per esigenze di acquisizione probatoria o per concessione
di termini per la difesa;
c) durante il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato per la mancata
presentazione, l'allontanamento o la mancata partecipazione di uno o più
difensori che privino di assistenza uno o più imputati;
d) durante la pendenza dei termini previsti dalla legge – quindici giorni – o fissati
dal giudice – entro il novantesimo giorno da quello della pronuncia – per la
stesura e il deposito della motivazione.
La sospensione, sia nella fase dell'udienza preliminare sia nella fase del giudizio (abbreviato
o dibattimentale), non opera nei confronti degli imputati ai quali non si riferiscano i casi di
sospensione e che chiedano si proceda nei loro confronti, previa separazione dei processi, salva
l'ipotesi in cui la sospensione sia stata disposta per la pendenza dei termini per il deposito della
motivazione della sentenza.
La sospensione dei termini – sia parziali che complessivi – può essere disposta, poi, per il
tempo occorrente per lo svolgimento delle udienze e la deliberazione della sentenza – nel giudizio
di primo grado e nei gradi d'impugnazione – nel caso di dibattimenti o di giudizi abbreviati
particolarmente complessi relativi ai reati di maggiore allarme sociale. Il giudice provvede con
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ordinanza – che può formare oggetto di appello innanzi al tribunale della libertà – su richiesta del
magistrato del pubblico ministero.
I termini massimi costituiscono il tetto invalicabile della custodia cautelare, oltre il quale
non è possibile privare ulteriormente il soggetto della sua libertà: una volta decorsi i termini
massimi, se ne impone l'immediata liberazione, quale che sia lo stato o il grado del procedimento
penale.
Essi sono determinati in ragione:
a) del doppio dei termini parziali, tenuto conto della nuova decorrenza per effetto di
regressione del processo o di rinvio ad altro giudice o conseguente ad evasione;
b) dell'aumento della metà dei termini complessivi;
c) di due terzi del massimo della pena edittale temporanea – e, a tal fine, la pena dell'ergastolo
è equiparata alla pena massima temporanea – prevista per il reato contestato o ritenuto in
sentenza, se il computo è più favorevole.
Salvo che per il limite relativo alla durata complessiva della custodia cautelare, nel computo
del termine massimo non si tiene conto dei periodi di sospensione del dibattimento per la mancata
presentazione, l'allontanamento o la mancata partecipazione di difensori che rendano privi di
assistenza uno o più imputati (art. 304).
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9 Le misure cautelari reali
Cautela reale è il vincolo d'indisponibilità che, in forza di ben precise esigenze e in
presenza delle condizioni di legge, sottrae, in virtù di apposito provvedimento impositivo, sia pure
provvisoriamente, un bene alla libera gestione di chi ne è il proprietario o il possessore.
Il codice conosce un'unica categoria di misura cautelare reale, che individua nel sequestro.
Imposto per finalità distinte, il sequestro acquisisce, di volta in volta, differenti
qualificazioni rispondenti alla diversità del fine che lo connota.
Nella relazione al progetto preliminare del codice si dà conto delle ragioni che hanno
consigliato il raggruppamento delle misure reali e di quelle personali nell'unico genus delle misure
cautelari. Il vincolo al quale, attraverso l'adozione di una cautela reale, s'intende sottoporre la cosa o
il bene che ne forma oggetto, comporta limitazioni, di natura patrimoniale, incidenti ancora su
libertà costituzionalmente protette. La misura reale – si precisa – crea l'indisponibilità di cose o beni
con incisività analoga a quella che nasce dalla custodia cautelare e da altre misure cautelari
personali.
Il perseguimento degli scopi che qualificano il sequestro, identificantisi nell'esigenza di
garantire l'esecuzione della sentenza che può essere pronunciata a conclusione del procedimento
penale o di impedire, prima ancora della pronuncia definitiva, che l'uso della cosa possa aggravare
le conseguenze del reato o agevolare la commissione di altri reati, fa sì che i vincoli che
s'impongono incidano sulle stesse libertà della persona. Il sequestro non mira semplicemente a
trasferire nella disponibilità del giudice ciò che può essere utilizzato nel corso del processo, ad
esempio, a fini di prova, ma tende piuttosto ad inibire certe attività – come, ad esempio, la vendita o
l'uso – che il destinatario della cautela potrebbe realizzare mediante la cosa, se essa non venisse
vincolata.
Dà conto di tali plurime possibilità la distinzione del sequestro in conservativo – posto a
garanzia dell'esecuzione delle disposizioni patrimoniali della sentenza – e in preventivo, diretto ad
impedire il protrarsi delle conseguenze del reato o la commissione di ulteriori reati.
In sintonia con quanto previsto per le misure cautelari personali, il giudice che procede è
legittimato a disporre tanto l'uno quanto l' altro.
Categoria diversa e distinta dal sequestro inteso come misura cautelare, conservativo o
preventivo, è, come abbiamo accennato, il sequestro probatorio, rubricato ancora come sequestro –
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nel capo III del titolo III del libro III, sui mezzi di ricerca della prova – ma inteso come mezzo di
ricerca o d'acquisizione della prova e, quindi, definibile sequestro a fini di prova. Esso è disposto
dall'autorità giudiziaria – magistrato del pubblico ministero compreso – o dalla polizia giudiziaria di
propria iniziativa, nell'intento precipuo di acquisire, al procedimento penale, in funzione del
giudizio, prima, e della confisca, poi, il corpo del reato e/o le cose pertinenti al reato, necessarie per
l'accertamento dei fatti.
Il sequestro preventivo è il vincolo imposto sulle cose pertinenti al reato – quando vi è
pericolo che la loro libera disponibilità possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato
oppure agevolare la commissione di altri reati – e sulle cose di cui è consentita la confisca.
Il provvedimento è emesso, su richiesta del magistrato del pubblico ministero, dal giudice
competente a pronunciarsi nel merito, con le forme del decreto motivato.
Il sequestro conservativo è il vincolo d'indisponibilità che il giudice impone, in ogni stato e
grado del processo di merito, sui beni mobili o immobili dell'imputato o sulle somme o cose a lui
dovute, nei limiti in cui la legge ne consente il pignoramento, quando vi è fondata ragione di
ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della pena pecuniaria, delle
spese del procedimento penale e di ogni altra somma dovuta all'erario dello Stato.
La misura è chiesta dal magistrato del pubblico ministero, ma pure la parte civile, se vi è
fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie delle obbligazioni civili
derivanti dal reato, può chiedere il sequestro conservativo dei beni dell'imputato o del responsabile
civile. In ogni caso, il sequestro disposto su richiesta del magistrato del pubblico ministero giova
anche alla parte civile.
Il sequestro conservativo determina un privilegio sui crediti per i quali viene concesso
rispetto ad ogni altro credito non privilegiato di data anteriore e rispetto ai crediti sorti
posteriormente, salvi, beninteso, i privilegi stabiliti a garanzia del pagamento dei tributi (art. 316).
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10 L’applicazione delle misure cautelari reali.
Il procedimento per l'applicazione del sequestro preventivo prende l'avvio da una richiesta
del magistrato del pubblico ministero, il quale ritiene che la libera disponibilità della cosa, che
individua come pertinenza del reato, possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato o possa
agevolare il presunto autore nella commissione di ulteriori reati.
La richiesta è presentata al giudice competente a pronunciarsi nel merito, vale a dire al
giudice del giudizio di primo grado, che può essere il giudice di pace, il tribunale ordinario, il
tribunale per i minorenni o la corte di assise, oppure al giudice di appello, vale a dire la corte di
appello o la corte di assise di appello.
Prima che sia iniziata l'azione penale, la richiesta è rivolta al giudice per le indagini
preliminari e al giudice di pace competente per la fase delle indagini preliminari.
Il giudice emette decreto motivato, con cui accoglie la richiesta – e in tal caso può disporre,
altresì, il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca – o la rigetta.
Nel procedimento avente ad oggetto taluno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, se la richiesta di sequestro preventivo riguarda beni di cui è consentita la confisca,
essa deve essere accolta in ogni caso (art. 321).
Il decreto di sequestro è immediatamente trasmesso, in duplice copia, a cura della
cancelleria del giudice, all'organo che deve provvedere all'esecuzione. Nel corso delle indagini
preliminari, il decreto è trasmesso all'ufficio del pubblico ministero, che ne cura l'esecuzione (art.
92 disp. a.c.t.).
E previsto un articolato regime d'impugnazioni incidentali, sia per l'ipotesi che la richiesta
venga accolta, sia per il caso che venga rigettata.
Il sequestro conservativo è eseguito nelle forme del corrispondente provvedimento cautelare
del processo civile ed è privo della natura di atto di apprensione coattiva che, al contrario,
caratterizza il sequestro a fini di prova e quello preventivo.
E disposto – nel corso del processo di merito, vale a dire, dopo la conclusione del
procedimento per le indagini preliminari e per tutta la durata del primo e del secondo grado di
giudizio – con ordinanza (art. 318), dal giudice che procede, individuato, in relazione ai distinti
momenti processuali, nel:
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giudice per le indagini preliminari, se è stato disposto il giudizio immediato o il
giudizio direttissimo oppure è stato emesso il decreto di citazione a giudizio
innanzi al tribunale monocratico e gli atti non sono stati trasmessi ancora al
giudice competente per il giudizio;
giudice dell'udienza preliminare, se è stato disposto il rinvio a giudizio, ma gli
atti non sono stati trasmessi ancora al giudice competente per il giudizio;
giudice di pace competente per la fase delle indagini preliminari, fino al deposito
dell'atto di citazione;
giudice di primo grado;
giudice che ha pronunciato sentenza di condanna, di proscioglimento o di non
luogo a procedere, ancora soggetta ad impugnazione, se gli atti non sono stati già
trasmessi al giudice di appello;
giudice di appello, se gli atti gli sono già stati trasmessi (art. 317).
Università Telematica Pegaso Le misure cautelari
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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11 Le vicende successive: revoca e perdita di efficacia.
Il sequestro preventivo è revocato, a richiesta del magistrato del pubblico ministero o
dell'interessato, quando risultino mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di
applicabilità.
Nel corso del procedimento per le indagini preliminari provvede il magistrato del pubblico
ministero con decreto motivato, notificato a coloro che hanno diritto di proporre impugnazione.
Se l'interessato chiede la revoca del sequestro preventivo, il magistrato del pubblico
ministero, quando ritiene che essa vada, anche in parte, respinta, trasmette – non oltre il giorno
successivo a quello del deposito nella segreteria – la richiesta al giudice, al quale esprime il suo
parere, fornendogli anche gli elementi su cui fonda le sue valutazioni (art. 321).
Può, infine, venire revocato dal tribunale del riesame parzialmente, mai, però, quando sia
stato disposto sulle cose di cui è consentita la confisca (art. 324).
Il sequestro preventivo disposto dal magistrato del pubblico ministero o dalla polizia
giudiziaria perde efficacia, se non sono osservati i termini prescritti per la convalida o se il giudice
non emette decreto motivato di convalida entro dieci giorni dalla ricezione della richiesta (art. 321).
Oltre che in questa specifica ipotesi, il sequestro preventivo cessa di avere efficacia con la
sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, ancorché soggetta ad impugnazione, ogni
volta il giudice ritenga di non dover disporre la confisca (art. 323 comma 1).
Anche il sequestro conservativo può essere revocato.
La revoca ha luogo:
1. in qualunque stato e grado del processo, quando venga presentata
offerta di cauzione. Inerendo ad un sequestro conservativo già
disposto, l'unico esito prevedibile dell'offerta è, in questo caso, la
revoca del relativo provvedimento;
2. ad opera del tribunale del riesame – a seguito di impugnazione del
provvedimento impositivo della misura – qualora sia stata inoltrata
offerta di cauzione proporzionata al valore delle cose sequestrate (art.
319).
Il sequestro conservativo può venir evitato con offerta in cauzione di una somma di denaro.
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Ciò si verifica quando l'imputato o il responsabile civile offrono cauzione idonea a garantire
i crediti per la cui tutela si ricorre al sequestro. In questo caso, il giudice dispone, con decreto, che il
sequestro non abbia luogo e stabilisce le modalità con le quali la cauzione deve essere prestata (art.
319).
Il sequestro conservativo, inoltre, può convertirsi in pignoramento. La conversione
consegue, automaticamente, all'irrevocabilità di una sentenza di condanna al pagamento di una pena
pecuniaria o al passaggio in giudicato di una sentenza che condanni l'imputato e il responsabile
civile al risarcimento del danno in favore della parte civile (art. 320).
Le disposizioni del codice di procedura civile per le operazioni di vendita si applicano anche
con riferimento al sequestro conservativo disposto nel processo penale. Sul prezzo che se ne ricava
e sulle somme che siano state depositate a titolo di cauzione e non devolute alla cassa delle
ammende, sono pagate, nell'ordine:
1) le somme dovute alla parte civile, a titolo di risarcimento del danno;
2) le somme dovute alla parte civile per le spese processuali;
3) le pene pecuniarie;
4) le spese del procedimento;
5) ogni altra somma dovuta all'erario (art. 320).
L'estinzione della misura, con cessazione degli effetti del sequestro conservativo, si verifica,
invece, quando sia emessa una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere non più
soggetta ad impugnazione. La cancellazione della trascrizione del sequestro di immobili è eseguita a
cura dell'ufficio del pubblico ministero. In caso di inerzia, l'interessato può proporre incidente di
esecuzione (art. 317).