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VOLONTARIATO INTERNAZIONALE PER LO SVILUPPO 6 I perché dell’immigrazione un fatto, ampiamente ri- conosciuto, che nell’epoca della globalizzazione il feno- meno migratorio è destinato ad acquisire sempre più i caratteri della normalità; a perdere cioè i caratteri dell’evento eccezionale o transitorio. Se in alcuni segmen- ti delle popolazioni dei Paesi di arrivo è ancora diffuso il convin- cimento secondo cui quella delle immigrazioni è questione che an- drebbe risolta restando all’interno della politica della mera acco- glienza, ciò è basicamente dovuto alla circostanza che il processo di globalizzazione ha iniziato ad es- sere percepito, a livello popolare, solamente nel corso degli ultimi anni. è in ciò l’origine del para- dosso sconcertante dell’attuale fase storica: la globalizzazione eco- nomica, mentre accelera e magni- fica la libertà di trasferimento di beni e di capitali, pare ostacolare, in modo esplicito e più spesso im- plicito, i movimenti delle persone mettendo a repentaglio la fruizio- ne di quel diritto fondamentale dell’uomo – da tutti riconosciuto – che è la libertà di movimen- to. In altri termini, in un’epoca come l’attuale in cui la cultura del mercato si va generalizzando e va entrando in tutti i domini della vita associata, dovrebbe sembra- re normale vedere nel fenomeno migratorio una risorsa per forme più avanzate di progresso umano. E invece quando quella stessa cul- tura di mercato viene applicata ai movimenti delle persone, i termi- ni che più ricorrono sono quelli dell’espulsione, del razionamento degli ingressi, dei permessi specia- li. In verità non è difficile scoprire la radice di tale asincronia di at- teggiamenti. Impedimenti e osta- coli ai movimenti delle persone non si applicano a tutti i migranti indistintamente, ma solo a colo- ro che, provenendo da certe aree geografiche, sono portatori di spe- cifici bisogni. è questa una mani- di Stefano Zamagni, Professore di Economia Politica presso l’università di Bologna È Le migrazioni nell’era della globalizzazione

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i perché dell’immigrazione

un fatto, ampiamente ri-conosciuto, che nell’epoca della globalizzazione il feno-

meno migratorio è destinato ad acquisire sempre più i caratteri della normalità; a perdere cioè i caratteri dell’evento eccezionale o transitorio. Se in alcuni segmen-ti delle popolazioni dei Paesi di arrivo è ancora diffuso il convin-cimento secondo cui quella delle immigrazioni è questione che an-drebbe risolta restando all’interno della politica della mera acco-glienza, ciò è basicamente dovuto alla circostanza che il processo di globalizzazione ha iniziato ad es-sere percepito, a livello popolare,

solamente nel corso degli ultimi anni. è in ciò l’origine del para-dosso sconcertante dell’attuale fase storica: la globalizzazione eco-nomica, mentre accelera e magni-fica la libertà di trasferimento di beni e di capitali, pare ostacolare, in modo esplicito e più spesso im-plicito, i movimenti delle persone mettendo a repentaglio la fruizio-ne di quel diritto fondamentale dell’uomo – da tutti riconosciuto – che è la libertà di movimen-to. In altri termini, in un’epoca come l’attuale in cui la cultura del mercato si va generalizzando e va entrando in tutti i domini della vita associata, dovrebbe sembra-

re normale vedere nel fenomeno migratorio una risorsa per forme più avanzate di progresso umano. E invece quando quella stessa cul-tura di mercato viene applicata ai movimenti delle persone, i termi-ni che più ricorrono sono quelli dell’espulsione, del razionamento degli ingressi, dei permessi specia-li. In verità non è difficile scoprire la radice di tale asincronia di at-teggiamenti. Impedimenti e osta-coli ai movimenti delle persone non si applicano a tutti i migranti indistintamente, ma solo a colo-ro che, provenendo da certe aree geografiche, sono portatori di spe-cifici bisogni. è questa una mani-

di Stefano Zamagni, Professore di Economia Politica presso l’università di Bologna

è

Le migrazioninell’era dellaglobalizzazione

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festazione tipica della cosiddetta “sindrome di Johannesburg”, se-condo la quale i “ricchi” devono iniziare a difendersi dai “poveri”, riducendo o ostacolando i loro spostamenti.Una prima res nova concerne pro-prio questo paradosso che mette a repentaglio la fruizione del dirit-to fondamentale che è la libertà di emigrare (si rammenti che lo ius emigrandi venne sancito dal Trattato di Augusta nel 1555 e poi confermato nel 1948 nella Di-chiarazione universale dei diritti umani dell’Onu).Una seconda novità è rappresenta-ta dalla consapevolezza che nell’e-poca della “nuova economia” i flussi migratori sono destinati ad aumentare per ragioni strutturali che ben poco hanno a che vedere con le ragioni che hanno spiega-to le migrazioni del passato. Nel 2000 in Italia la percentuale di

immigrati sul totale della popo-lazione era del 3,7; quindici anni dopo tale percentuale era quasi triplicata passando al 9,7: è questa accelerazione ad aver nullificato il precedente equilibrio sociale.Infine, altro elemento di marcata

differenziazione tra le migrazio-ni odierne e quelle di ieri è che non è suffragata dai fatti la tesi, di moda fino agli anni ’80, secon-do cui lo strumento più efficace per allentare la pressione migra-toria sarebbe quello di accrescere ➔

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i perché dell’immigrazione

le potenzialità occupazionali nei Paesi in via di sviluppo. Se tale argomento fosse corretto, baste-rebbe allora suggerire a questi Pa-esi l’adozione di tecniche ad alta intensità di lavoro per arrestare, o quanto meno ridurre, l’entità dei flussi migratori. Ma le cose non stanno in questi termini. In primo luogo, perché nei Paesi in via di sviluppo l’emigrazione, anziché rappresentare un’alter-nativa al processo di sviluppo, costituisce un mezzo per avviare tale processo. E ciò sia perché le rimesse degli emigrati consento-no di far giungere risorse finan-ziarie direttamente nelle mani dei potenziali utilizzatori senza passa-re per l’intermediazione di poco affidabili agenzie pubbliche, sia perché l’emigrazione costituisce il modo più rapido e meno costo-

so per un Paese povero di entrare in possesso delle abilità e delle conoscenze richieste dai nuovi paradigmi tecnologici. Ma v’è di più. L’aumento delle ineguaglian-ze socio-economiche che sempre accompagna le fasi iniziali del processo di crescita spinge seg-menti crescenti di popolazione a prendere la via dell’emigrazione: la decisione di emigrare va vista come strategia di diversificazione dei rischi, alcuni membri della fa-miglia emigrano per consentire a coloro che restano in patria mi-gliori prospettive di vita. Sarebbe dunque vana illusione pensare di arrestare i flussi migratori, sem-plicemente puntando sull’avvio di processi di sviluppo nei Paesi generatori degli stessi. Lo svilup-po è bensì necessario ma certo non sufficiente a neutralizzare le

spinte all’emigrazione nel breve e medio periodo.Quanto precede si riferisce alle c.d. migrazioni per ragioni econo-miche. Ma in anni recenti a questa componente si è aggiunta quella per ragioni politiche ed etniche che oggi costituisce la prima causa delle partenze forzate – si pensi a Eritrea, Somalia, Siria, Iraq, Libia. Inoltre già sappiamo che nei pros-simi anni gli effetti del cambia-mento climatico sulla riduzione delle terre abitabili e coltivabili farà emergere una nuova categoria di migranti, i cosiddetti “rifugiati ecologici” – espressione per primo coniata da Lester Brown nel 1976. Le Nazione Unite hanno di recen-te stimato che nel prossimo quin-dicennio si conteranno cinquan-ta milioni di rifugiati climatici. Ad essi andranno ad aggiungersi

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prossimamente tutti coloro che verranno espulsi dai loro territori a causa del diffondersi di pratiche di land grabbing (accaparramento delle terre), soprattutto in Afri-ca sub-sahariana, per soddisfare la domanda crescente di prodotti agricoli e per produrre energia. Nel rapporto del Parlamento eu-ropeo Addressing the Human Rights Impacts of Land Grabbing (2014) si riconosce bensì come tali ap-propriazioni costituiscono potenti violazioni dei diritti umani, ma nulla si propone per fermare un tale crimine.Di fronte ad uno scenario del ge-nere non ci si può non indignare per l’ipocrisia e per l’inadeguatez-za delle politiche migratorie di una regione come l’UE, dove non si va oltre l’adozione di pratiche meramente assistenzialistiche che valgono solo ad alimentare odi e chiusure immotivate (si veda il sondaggio IPSOS “Visioni globa-li sull’immigrazione e la crisi dei rifugiati”, L’Espresso, 18/9/2016, riportato qui a fianco). Si consi-deri – a titolo di esempio – quel

che interessate campagne media-tiche vanno diffondendo nel no-stro come in altri Paesi. “I musul-mani ci invadono”, mentre meno di un terzo degli immigrati che giungono in Italia sono musul-mani. “Gli immigrati ci tolgono ricchezza” ma in verità ammonta a cinque miliardi la differenza tra le tasse pagate dagli immigrati e i contributi percepiti da costoro nel 2015 (dati INPS). Sempre nel 2015, 8,7% è stato il contributo al PIL del lavoro degli immigrati. “Rischiamo una catastrofe demo-grafica”, ma è vero che nel 2015 l’Italia ha perso 180mila Italiani rimpiazzati da meno di 40mila stranieri immigrati. “Gli immigra-ti ridurranno le nostre possibilità di crescita futura”, mentre è vero che con anziani in crescita e meno forza lavoro giovane si riducono le prospettive di sviluppo. Come emerge da un recente studio della Fondazione Moressa, con le fron-tiere chiuse nel 2030 verrebbero persi trenta milioni di lavoratori in Europa. E così via.La conclusione da trarre allora

è che se veramente si vogliono scongiurare i rischi di pericolose regressioni sia sul fronte etico sia su quello economico è necessario cambiare con urgenza rotta: le politiche migratorie non possono essere decise a livello solo nazio-nale. Nessun Paese, per quanto competente sia la sua classe diri-

visti da Loro by roBot

ipSoS per L’espresso

Percentuale degli intervistati che dichiarano:dovremmo chiudere interamente le porte ai rifugiati.

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i perché dell’immigrazione

gente e per quanto illuminato sia il suo ceto politico, può pensare di affrontare da solo la questione mi-gratoria senza generare effetti per-versi e senza produrre conseguenze negative a carico degli altri Paesi. Occorre un Migration Compact, che valga ad evitare che la cosid-detta “competizione per la deter-renza” fra Paesi vicini in materia di welfare conduca a inasprimen-ti dei conflitti intra UE. Infatti, il Paese “troppo” generoso nella erogazione dei servizi di welfare at-tirerebbe a sé, come un magnete, gli immigrati fino ad arrivare alla non sostenibilità finanziaria; d’al-tro canto, il Paese che applicasse il PIESE (Principio dell’Integra-zione Economica Selettiva) inne-scherebbe una corsa al ribasso che finirebbe con il danneggiare anche gli autoctoni. è paradossale – per tacer d’altro – che a tutt’oggi l’UE non sia ancora riuscita a definire una politica migratoria comune, la quale contempli, in particolare, l’istituzione di un Fondo Europeo per le Migrazioni gestito da un’au-torità indipendente sul modello di quanto è stato fatto con la BCE,

alla quale affidare la implementa-zione del trattato che dovrà sosti-tuire l’iniquo e irrazionale trattato di Dublino.Per terminare. Preso atto che le nostre società tendono a diventare sempre più società di immigrazio-ne e di emigrazione, come confi-gurare il rapporto tra multicultu-ralità e identità se si vuole che la pluralità delle culture presenti in un Paese risulti compatibile con un ordine garante della pace socia-le e delle ragioni della libertà? Se-

condo, riconosciuto che lo scarto crescente tra cittadinanza econo-mica e cittadinanza socio-politica dell’immigrato ha ormai raggiun-to un livello non più in grado di assicurare la dignità della persona umana, cosa fare per conciliare l’inclusione economica dell’im-migrato con la sua esclusione dai diritti sociali e politici? Terzo, se specifiche ragioni di principio, oltre che pratiche, sconsigliano riedizioni, più o meno aggiorna-te, sia del modello assimilazioni-sta di marca francese, che tende a fare del diverso uno di noi, sia del modello della marginalizzazio-ne degli immigrati (cioè della loro apartheid), sia ancora del modello dell’autogoverno delle minoranze (il modello cioè della balcanizza-zione della società), non resta che la via dell’integrazione dei nuovi arrivati nella società di accoglien-za. Ma quale modello di integra-zione si intende realizzare? Su ciò occorrerà aprire un vasto dibattito nell’arena pubblica. ■