LE AVVENTURE DI MR HU IN TIBET - viaggiinasia.com · 2 Franco Pizzi, nato nel 1948, studioso e...

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1 LE AVVENTURE DI MR HU IN TIBET di Franco Pizzi

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LE AVVENTURE DI

MR HU

IN TIBET

di

Franco Pizzi

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Franco Pizzi, nato nel 1948, studioso e praticante del buddhismo tibetano, vive in India da oltre 20 anni, dove organizza viaggi, accompagna gruppi turistici in Asia, e traduce testi dal tibetano. http://www.viaggiinasia.com

Stampato in India, dicembre 2009. Proprietà letteraria riservata a Franco Pizzi Email: [email protected]

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LE AVVENTURE DI MR HU

IN TIBET

un racconto di

Franco Pizzi

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Benché abbia tratto ispirazione da persone e fatti realmente esistenti, Mr Hu è un personaggio che ho elaborato nella mia mente una notte che non riuscivo a dormire a causa di un temporale. Il Tibet è preso come esempio perché sono affezionato a quel paese; di Tibet nel mondo ne esistono parecchi! Questo scritto è un puro gioco della mia fantasia; se dovesse disturbare la sensibilità di qualche lettore, gli chiedo scusa e gli consiglio di cestinarlo. Vi prego di non divulgare questo racconto, non per motivi di copy-right ma perché qualcuno potrebbe arrabbiarsi e fare inceppare l’organizzazione dei nostri viaggi. Nel mondo alcune persone sono ancora molto permalose. Grazie. Franco Pizzi

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INDICE

INDICE .................................................................................... 5 La Partenza ........................................................................... 6 Il Viaggio ............................................................................ 12 Lhasa ................................................................................... 16 Sulla Strada verso il Kailash .......................................... 27 La Kora ................................................................................ 36 Il Rientro alla Civiltà........................................................ 43 La Lettera ........................................................................... 46 Verso Ganden ................................................................... 53 L’Incontro .......................................................................... 63 La Conferenza Stampa ................................................... 77

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La Partenza

Non c’era refrigerio a Pechino durante quella famosa estate, l’estate della conversione. Mr Hu abitava in un condominio di 108 piani senza ascensore nel quartiere residenziale della capitale cinese. Più esattamente alloggiava all’ultimo piano, proprio sotto il terrazzo attrezzato con piscina, dondoli, ombrelloni, cannocchiali (non potevano mancare), frigoriferi pieni di bevande -alcoliche e non- e, per finire, ventilatori. Lì si era rifugiato il nostro Hu quella sera per sfuggire al caldo. Salì le scale, vestito con una canottiera, un paio di bermuda e i sandali; si allungò sulla sdraio vicino alla piscina che guardava verso la piazza Tienanmen e più oltre, verso la città imperiale e ancora più in là, verso ovest. Prese dal frigo una Tsingtao, la più famosa birra cinese, e mentre la portava alla bocca si fermò pensieroso. Ultimamente nella sua testa si rincorrevano pensieri di periodi lontani, periodi che stranamente sembravano oscurati da nostalgie e pentimenti. Prese un

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cannocchiale e guardò verso la famosa piazza. A differenza dell’aprile 1989 ora non vi erano carri armati, e invece del ragazzo che giocava a nascondino con uno di questi vedeva coppie mano nella mano, anziani che cercavano un po’ di fresco, e tanti negozi per i turisti. Alzò lentamente le lenti Zeiss e le diresse verso ovest; non vedeva nulla, ma nella sua mente era chiaro il periodo che aveva trascorso in quella lontana provincia, il Tibet, che avevano pacificamente liberato. Ricordò quando nel 1987 la repressione delle dimostrazioni nelle strade di Lhasa fu domata con la violenza. Prese un’altra birra; si toccava il mento e si aggiustava gli occhiali, era nervoso.. Perché quei pensieri? E perché aveva in tasca una lettera di Lui? Perché il suo condominio aveva 108 piani? Proprio 108, una strana combinazione... E cos’era quella luce dorata che vedeva molto lontano verso ovest? Soprattutto, perché negli ultimi mesi sognava sempre tante persone sedute sotto un palazzo arroccato su una collina con molta neve intorno? Decise di fare un giro a piedi per la città. Si cambiò: indossò una T-shirt Giordano, falsa naturalmente (da quelle parti tutto è falso), un paio di jeans Lee, scarpe Converse e occhiali

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da sole Rayban; penzolanti sulla Giordano, una borraccia a tracolla. Voleva sembrare una persona normale. Scese i 108 piani, accidenti, 108!; non passò neanche a salutare sua moglie Liu, che tanto non parlava mai, né in casa né nelle riunioni più importanti. A ogni piano si fermava con pensieri sempre più strani. Ma i 108 piani non furono sufficienti a sfoltirli tutti. Arrivato al portone fu immediatamente avvicinato da ragazzi in tuta sportiva che lo circondarono; non erano suoi fans -di quelli ne aveva pochi- erano le sue guardie del corpo che lui allontanò con un gesto. Si avviò da solo verso la Wangfujing Business Street nel quartiere di Dongcheng, distante un chilometro da piazza Tienanmen. Andò verso il Dong’an market, visitò il Xinhua Bookstore e continuò la sua passeggiata alla ricerca di un bar dove potersi sedere e “pensare”. Aveva mal di testa ed entrò nel Medical Appliances Shop; comperò delle aspirine e quando uscì si trovò faccia a faccia con una coppia di giovani tibetani. Sembravano felici e spensierati mentre mangiavano il loro cornetto alla cioccolata. Li guardò con attenzione; voleva quasi dargli la mano e chiedere: “Come va, ragazzi?”

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Ma non lo fece perché si sentì male al solo pensiero di quello che stava pensando. “Cosa mi succede? Sono come noi!” pensò. Finalmente trovò un piccolo bar con una terrazza, tipo quelli di Rimini sul lungo-mare, affollato di turisti e gente locale, e fra quest’ultimi anche dei tibetani. Sedette a un tavolo vicino a un’altra giovane coppia del Paese delle Nevi, e guardò il menù sotto la luce di una piccola lampada fatta di seta, ma invece che ordinare origliava. “Vorrei fare visita ai miei parenti a Lhasa”, diceva la ragazza. Lui rispondeva sotto voce: “Be’, si può andare, ma non troveremo più i nostri giovani amici che sono scappati”. A Mr Hu sfuggì il menù di mano e arrossì. “Scappati?” si chiese, “e perché mai? Non è bello scappare dalla propria terra. E poi noi stiamo facendo di tutto per modernizzarla”. Il suo sguardo tornò al menù che offriva serpenti in salmì, arrosto di ratti, testicoli di tigre, cane al ragù e momo. Ordinò i momo farciti di verdure e guardò all’interno del locale dove vide dei computer, e naturalmente dei giovani alle tastiere. Finì la sua cena con un brodino di cavallette e invece di soccombere alla

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tentazione di domandare ai giovani tibetani perché i loro amici erano scappati decise di fare una piccola ricerca su internet. Prese posto davanti a un computer e digitò “Tibet”. Venne fuori: “Sito in riparazione”, e intanto, senza che lui vedesse, dietro al bancone del proprietario si accese una fioca luce rossa. Allora digitò “Tibet+monasteri”; “Sito in riparazione”, ripetè lo schermo. Provò con Google; la risposta fu: “Non accessibile per motivi di rete”. Intanto la luce rossa diventava paonazza e il proprietario guardava sospettoso questo signore cinese che digitava. YouTube, allora. Neanche a parlarne! Fu in quel momento che il signor Hu ebbe un’idea e digitò “Dalai Lama”. Lo schermo si spense, la luce divenne scarlatta e il proprietario suonò un campanello. Hu si alzò seccato; si avviò verso di lui e chiese: “Ma internet non funziona?”. Il proprietario guardò alle spalle di Hu e anche lui si girò per vedere una decina di soldati che lo circondavano. Il suo sguardo divenne duro e uno dei soldati disse: “Ma questo signore è...”; non fece a tempo a finire la frase perché il signore con il ghiaccio negli occhi disse: “Bi zui, zou kai”, che tradotto vuol dire: “Stai zitto e vai

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via”. Indietreggiarono spaventati e il proprietario mandò via tutti; il locale per quella sera chiudeva. Fu così che Mr Hu si sedette su una panchina a sorseggiare Tsingtao dalla sua borraccia e si ricordò che, a dire il vero, lui, con il fatto che internet non funzionava, qualcosa a che fare ce l’aveva. Si tolse le scarpe e guardò verso la città imperiale e continuò a pensare a quegli episodi. Amici che sono scappati, la luce rossa quando digiti “Dalai Lama”, i soldati non ancora maggiorenni in larghe divise verdi (forse erano per la crescita, pensò mentre rideva, cosa rara). Ma Lui non era stato il consigliere spirituale degli imperatori? Non era venuto a Pechino a trovare il Grande Timoniere? Decise che qualcosa doveva cambiare e soprattutto qualcosa doveva capire. Tornò a casa, fece i 108 piani, spostò la tenda che fungeva da porta; trovò Liu che guardava la CNN seduta su un dondolo con una Coca-Cola in mano e decise di dirle che lui partiva per un viaggio d’affari ma che nessuno doveva sapere nulla. I suoi collaboratori dovevano spargere la voce che era partito per una lunga missione segreta. Lei lo guardò tra lo stupito e il soddisfatto: in fondo se si toglieva dai piedi per un po’ non era male.

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La moglie osservò mentre preparava la sua borsa; notò che prese poche cose come vestiario,-era spartano, lui-; ma quando lo vide mettere dentro una foto di Lui e una mappa del Tibet, sobbalzò. Per un momento fu tentata di chiamare il corrispondente di Repubblica a Pechino e divulgare lo scandalo, poi pensò ai servizi segreti, e infine al manicomio. Non fece nulla: lo salutò e se ne andò a dormire sulla sua amaca giamaicana. Mr Hu partì di notte, sotto le stelle che lo guardavano e la luna che gli sorrideva; lui guardò verso ovest e disse: “Arrivo”. indice

Il Viaggio

Voleva viaggiare nel modo più semplice possibile. Pensò all’aereo ma non era veramente un mezzo modesto; pensò di fare la strada a dorso di cammello, ma si bloccò chiedendosi: “dove trovo i cammelli?”; pensò via nave passando dall’India, ma se poi aveva dei problemi con la storia irrisolta dei confini, come la metteva? Peggio ancora, poi, se fosse passato per Dharamsala! Andare a

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piedi come pellegrino? Si ricordò di Xuanzang, ma era passato troppo tempo da allora. Si avviò quindi alla stazione ferroviaria; d’altronde avevano costruito la ferrovia Pechino-Lhasa, e nonostante fosse criticata dagli occidentali i treni erano sempre pieni di turisti. Mr Hu entrò nell’atrio, guardò gli orari e scelse un treno notturno; ci metteva 48 ore. Fece la coda alla biglietteria e chiese una prenotazione per la classe più economica. Al momento di pagare -era un po’ maldestro- gli caddero sul bancone la carta Visa, l’American Express, 10.000 yuan in contanti e la sua ID. L’impiegato si soffermò sulla ID con il nome Nushi Hu... Lo sguardo gelido di Hu ghiacciò l’impiegato, che si alzò il bavero rabbrividendo nonostante i 42 gradi, gli diede il biglietto e disse: “Xie xie” (grazie). Al che Hu replicò: “Stupido, sono io che devo ringraziare!”. Non aveva dimenticato la sua arroganza. Non ancora. Il nostro scese verso i binari nella stazione pulitissima e piena di soldati -si chiese perché ce ne fossero così tanti-, salì sul treno, individuò lo scompartimento con la sua cuccetta e si sistemò. Poco dopo arrivarono i suoi compagni di viaggio: tre tibetani, una coppia con la figlia. Per un attimo gli mancò il respiro, non solo perché

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era capitato con loro ma anche per l’odore di burro rancido che emanavano. Salutò in mandarino e loro risposero nella stessa lingua ma tirando fuori la lingua, come d’abitudine tibetana. “Che strano”, si chiese, “parlano il mandarino?”. Il treno si mosse. Lui tirò fuori dalla borsa alcuni quotidiani cinesi e stranieri: il Guang Zhou, il Ming Pao News e il New York Times; loro tirarono fuori la mala, i momo bolliti, il tè al burro rancido e cominciarono a pregare. Dalla sua cuccetta situata sopra le loro sentiva il salmodiare delle preghiere; socchiuse gli occhi e si lasciò andare cullato dal canto e dal rumore del treno. La notte fu disastrosa. Gli sembrò di cadere in un buco nero; vide mandrie di yak e nomadi nelle steppe con le loro tende. Subito dopo le tende non esistevano più ma erano sorti dei palazzi e al posto dei sentieri c’erano le autostrade. Le dighe ostruivano il percorso dei fiumi, i laghi venivano prosciugati; insomma, un macello. Si svegliò sudato e nervoso quando sentì delle voci sotto la sua cuccetta. Erano soldati che controllavano i documenti dei passeggeri, e stavano trattando poco gentilmente la famiglia tibetana. I loro documenti erano unti di grasso di yak e i soldati erano arrabbiati e mentre parlavano il loro alito puzzolente di aglio saturava lo

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scompartimento. Hu guardò i soldati con sufficienza, e mostrò i suoi documenti. Sbiancarono in volto e a un suo cenno uscirono senza proferir parola. I tibetani, incuriositi e perplessi, rivolsero gli occhi verso Hu, ma trovarono uno viso di pietra. Tornò il silenzio e questa volta il sonno allietato dal russare e dalle scorregge dei suoi compagni di viaggio diede pace alla sua mente. Quando al mattino si svegliò, fu invitato a sedersi con loro nelle cuccette sottostanti; gli fu offerto tè, kapse e carne di yak secca. Accettò e senza accorgersene cominciò a chiedere traduzioni di parole dal mandarino in tibetano che memorizzava immediatamente. Seduto a gambe incrociate iniziò ad adocchiare le mala, con suo stupore chiese della loro religione e tutto fu normale finché non domandò del loro capo spirituale. I tibetani si irrigidirono e LungTa, l’uomo della situazione, guardò sospettoso Dawa e Drolma, le due donne. Fu convincente, Mr Hu, perché loro cominciarono a parlare senza timore. La giornata passò memorizzando parole tibetane e di notte si ridistesero sulle cuccette e Mr Hu disse: “Sagnin ge on” -a domani in tibetano-, che fu causa di risate per i suoi amici. Oramai, mentre il treno si avvicinava a Lhasa, erano infatti diventati amici. Nell’ultimo tratto Mr Hu

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guardò intensamente fuori dal finestrino; guardava le steppe dei suoi sogni dove i nomadi non c’erano più, guardava i ponti, i fiumi, la neve; guardava tutto con estremo interesse, e quando arrivarono a Lhasa, prima di salutarsi, LungTa gli disse che sarebbe stato il benvenuto a casa loro per una bevuta di chang. Abitavano vicino al tempio di Ramoche, nella parte antica di Lhasa. Il treno si fermò senza sussulti, e un nuovo Desideri sbarcò in Lhasa. Ormai conosceva il tibetano abbastanza bene. indice

Lhasa

Afferrò la sua borsa e scese sul maciapiede super pulito nella stazione della capitale tibetana. Osservò con curiosità i molti turisti che scendevano dai vagoni per “turisti” e le giovani guide tibetane che li aspettavano offrendo la kata, la sciarpa bianca di benvenuto. La famiglia amica si allontanava verso l’uscita e, accidenti, vide di nuovo un sacco di soldati in tenuta anti

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sommossa con armi automatiche che sorvegliavano tutto e tutti. “Ma cosa succede?” si chiese nuovamente. Si fermò per chiedere informazioni a un soldato e gli fu risposto in maniera sgradevole. Per un attimo fu tentato di dirgli che lo avrebbe mandato nella prigione di Qincheng, ma fu saggio, stette zitto e uscì per prendere un taxi verso la città. Che strade c’erano in Tibet: spaziose, ben asfaltate! E poi il tunnel con l’arcobaleno! Ma allora perché i giovani scappavano? Perché c’erano i soldati? Boh, forse gli era sfuggito qualcosa. In prossimità di Lhasa tirò fuori la Lonely Planet per vedere che alberghi consigliavano. Prima di entrare in città si stupì del numero enorme di caserme sui vialoni moderni con le palme di plastica, delle pubblicità della Telecom cinese onnipresente. Disse all’autista che voleva andare allo Shambala Hotel, nel cuore di Lhasa, -quello che rimane della Lhasa tibetana, s’intende-. Alla reception non furono molto attenti ai suoi documenti e gli diedero la camera. Entrato che fu andò alla finestra e osservò le case tibetane e la sporcizia nel vicolo sottostante, poi alzando lo sguardo vide davanti a sé il palazzo del Potala. Era un caso? Lo guardò a lungo e pensò al legittimo inquilino che in quel momento era

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molto lontano. Vide i tetti risplendere sotto gli ultimi raggi di sole e si ripromise di visitarlo. Mr Hu si cambiò e uscì per andare a cenare in un ristorante di fronte all’albergo, un locale per turisti soprattutto occidentali. Scelse un tavolo vicino a un gruppetto, ordinò una birra, la fonduta di formaggio e si mise a origliare; lo faceva spesso, ma in questo caso voleva imparare. I turisti parlavano di cose generiche, i monumenti visitati e gli acquisti, finché uno di loro disse: “Certo che di tibetani ne sono rimasti ben pochi, sembra che ci siano solo cinesi in città”. “Hai visto quanti soldati nelle piazze? Bisognerà fare attenzione a cosa si fotografa”, disse un altro. Non ce la fece più e si presentò chiedendo se poteva sedersi con loro e offrire qualcosa da bere. Spiegò, in un inglese un po’ stentato, che era la sua prima visita nel Paese delle Nevi e che anche lui era rimasto stupito dal grande numero dei militari in città. Disse che sui quotidiani locali si scriveva che tutto era normale in Tibet, che la popolazione era felice, che il progresso incalzava e il lavoro non mancava. Forse che i soldati erano lì per fare esercitazioni? I ragazzi non sapevano bene cosa rispondere e lui si guadagnò la loro fiducia

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assicurando che non era una spia ma un turista cinese che voleva capire. Alle volte mentiva! Scoprì che qualcuno di loro era stato in India; aveva conosciuto molti tibetani in esilio e aveva incontrato Lui, una persona straordinaria. Mr Hu incominciò ad avere le mani sudate e a tremare leggermente sentendo quel nome; ordinò un gelato al pistacchio per tutti, e intanto fumava. Dentro di sé si faceva sempre più strada l’idea di voler incontrare quell’uomo e parlare con lui. Forse, dopotutto, era una persona normale. Salutò cortesemente e quando fu il momento di pagare si accorse che i proprietari del locale erano giovani tibetani, graziosi, gentili e occidentalizzati. Ebbe un intimo sussulto di gioia: “Ma allora qualcuno è rimasto!”. Notò che fuori non c’erano bandiere tibetane o ritratti del loro capo spirituale ma solo bandiere della madre patria. Mentre camminava sentì qualcuno che diceva: “Andiamo a vedere il Potala di sera, con la nuova fontana?” La nuova fontana? Lui ricordava che volevano mettere una statua di Mao fra le discoteche e le prostitute sotto al Potala, e allora si disse: “Vado anche io”. Quando arrivò, si sedette davanti al Potala con un sacchetto di

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popcorn in mano; aspettava e guardava il palazzo... gli piaceva. La piazza era movimentata; coppiette cinesi in luna di miele passeggiavano sotto i lampioni e le palme di plastica, i tibetani si prosternavano davanti al Potala e lui si chiedeva: “Perché la gente si prosterna davanti a un palazzo?”. Ecco! La musica cinese invase la piazza, e getti d’acqua, illuminati da potenti riflettori, si allungarono come braccia verso il Potala. Le braccia si allargarono e formarono un cuore che racchiuse il santo palazzo. Il tutto non durò a lungo ma era un’estasi per gli occhi e per le orecchie; davanti allo spettacolo la gente rimase immobile. Mr Hu tornò in albergo a piedi sbirciando nei negozi e prendendo mentalmente nota che doveva acquistare indumenti pesanti per i prossimi giorni. In camera si sedette davanti alla finestra e continuò a rimuginare, a cercare di formulare un piano su come poter organizzare il rientro dei fuggitivi e di LUI! Prima di addormentarsi pensò di fare un post su Twitter, poi si ricordò della poca accessibilità di internet; pensò di scrivere qualcosa di anonimo e inviarlo nel “mondo” . Nel mentre chiuse gli occhi a mandorla e si addormentò

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con la melodia delle preghiere sentite dai suoi amici in treno. Sto cambiando, pensò prima di addormentarsi. Il mattino era stupendo, il cielo terso di Lhasa riempiva di gioia il cuore del nostro amico che fece colazione con croissant e caffè in un baruccio vicino all’albergo. Con un beretto Reebok e macchina fotografica si avviò per scoprire un mondo che conosceva solo attraverso i rapporti politici, e cominciava a pensare che non era lo stesso. Si avvicinò al Potala e guardò con ansia la scalinata che doveva fare per entrarci. Perché non mettevano un ascensore interno tutto vetri in modo che quando si saliva ci si potesse godere il panorama? Salutò con sorrisi i pellegrini tibetani un filino sporchi che si prosternavano ogni tre passi. Pensò alla sua pancetta e si disse che forse, forse... Mr Hu comperò il biglietto,-accidenti quanto era caro!- ed entrò nel palazzo delle dispute. Non aveva mai camminato con il naso insù. In questo caso lo fece perché erano troppe le cose da vedere, specialmente il serdung del V Dalai Lama massicciamente ricoperto d’oro. Ebbe un attimo di disgusto pensando ai “fratelli” tibetani che elemosinavano e che pativano la fame in esilio. Davanti al trono dell’attuale Dalai Lama giunse le mani e piegò leggermente la testa. Un monaco lo

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osservava; gli si avvicinò e gli chiese se gli piaceva. “Tantissimo”, disse arrossendo e poi chiese: “Ma non ci sono sue foto?”. Il monaco arretrò terrorizzato! “Boh,” si disse, “che male c’è a mettere delle foto?”. La sua memoria cominciava a perdere colpi o forse stava entrando in quello stato dove i pensieri non hanno più importanza. Continuò il suo tour al Jokhang. Nella piazzetta antistante notò la quantità di bancarelle cinesi e quanto fossero poche quelle tibetane. “Cosa diavolo porto come souvenir a Liu?” si chiese. Non poteva comperare un orologio con il quadrante che ritraeva Mao, faceva ridere, anzi rise al pensiero. Nel tempio si fermò per molto tempo davanti al Jowo finché un monaco gli disse di muoversi. Per un attimo fu tentato dal dirgli chi era, ma poi giunse di nuovo le mani e si allontanò. Mentre passeggiava per le stradine e i vicoli del Barkhor, godendosi la naturalezza del posto, guardando le dentiere d’oro nei negozi tibetani, le thangka nei negozi cinesi, sentì una mano sulla sua spalla. Per lo spavento gli cadde il gelato e girandosi vide la figlia di LungTa che gli disse: “Ciao, papi cinese, vieni a casa nostra per cena?”.

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Mr Hu non era abituato a queste manifestazioni di amicizia, si guardò intorno roteando gli occhi dietro i Raiban scuri e si fece dare l’indirizzo. Arrivò con un po’ di anticipo ed entrò senza bussare, - in fondo lui era un capo. Notò che la famiglia stava frettolosamente mettendo via degli oggetti ma quando lo videro qualcosa sfuggì di mano a LungTa. Una foto! Si chinò per raccoglierla battendo la fronte contro quella di LungTa che si stava affrettando a chinarsi anche lui. Mr Hu fu più veloce e si trovò con la foto di Lui in mano. Il suo sguardo si muoveva fra la foto e LungTa che tremava. Uno dei suoi rari sorrisi apparve sulla bocca di Hu che disse: “Cosa succede? Perché tremi? Non c’è nulla di male, non è mica un mitra!”. LungTa era ammutolito; Hu lo prese per mano e sedettero su un cuscino. Rimasero in silenzio per qualche momento, mentre Hu osservava nella bella casa gli oggetti che non erano riusciti a nascondere. La moglie aveva ancora in mano una foto del Panchen Lama arrestato, la figlia cercava di infilare una bandiera tibetana sotto la maglietta con la scritta: “Free Tibet”. Un caos!

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Mr Hu, tranquillo, chiese loro di spiegare il motivo di quella fretta nel nascondere le cose, poi si fece dare la bandiera e disse alla ragazza: “Perché Free Tibet? Non lo è? Che bella bandiera avete; perché non la mettete fuori?”. Nel mentre posò la foto sulla sua testa e la ridiede al proprietario. LungTa aveva la bocca aperta e guardava, la moglie si dovette sedere per non svenire, la figlia si coprì il seno con la bandiera. Finalmente Mr Hu disse che era un pellegrino cinese sulla strada della conversione, che molte cose non andavano bene in questo paese, o meglio lui non le capiva, e voleva capire! La tranquillità scese nella stanza e fu servito il chang, un recipiente di tsampa a forma di cono venne messo sulla tavola e la moglie timidamente chiese se voleva un serpente in salmì, lo vendevano giusto a fianco nel negozio cinese: “Snake and Similar”. Mr Hu sorrise, ultimamente sorrideva di più, disse che andava bene così, desiderava una cena locale. Venne il momento in cui chiese a LungTa perché i giovani e i monaci e, insomma, tutti volevano scappare dal Tibet per andare in India, che poi non era il massimo. LungTa spiegò che si sentiva dire che in Tibet non c’era molta libertà, ma erano solo voci, che Lui non era il benvenuto,

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ma erano solo pettegolezzi; che in America si guadagnavano più soldi, ma erano notizie senza fonti attendibili; che i soldati sparavano con facilità, ma lui non lo aveva mai visto, e che le prigioni erano piene di dissidenti, ma lui non c’era mai stato quindi non poteva confermare. Hu ascoltava e beveva il chang. Nel mentre pensava: “Ma cosa ho combinato? Ora si cambia!”, poi crollò sul cuscino. Era tardi e non poteva tornare in albergo, vigeva una sorta di coprifuoco di cui si era scordato. Il mattino Mr Hu si svegliò con croissant e caffè italiano comperati per lui al “Napoli Restaurant”. Era intimidito e confuso, disse che voleva sdebitarsi, ma gli replicarono neanche a parlarne; i tibetani erano come loro. Che cosa gli avevano raccontato, allora? LungTa prese il coraggio a due mani e gli spiegò che erano in partenza per un pellegrinaggio al Kailash: voleva andare con loro? Gli spiegò delle difficoltà del viaggio e dei permessi e lui si lasciò scappare: “A me i permessi non servono... ”, ma subito si trattenne dal dire altro. Si doveva attrezzare per il viaggio. Comperò una North Face taroccata, dei calzettoni di lana nepalesi a strisce

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colorate, un paio di stivali tibetani anche quelli colorati, dei guanti sempre nepalesi con il rosso e il giallo come colori dominanti, e infine un mantello di pelliccia tibetano. Era pronto. Prima di partire telefonò a Liu per sapere come andavano le cose laggiù a Pechino. Lei gli disse che poteva stare via quanto voleva, che nel palazzo avevano messo un ascensore, che i controlli continuavano come se lui fosse lì e, insomma, “buon viaggio”. Non aveva nostalgia di nulla ed era felice per il suo progetto “Discover the Kailash” in pullman pubblico. Mentre discutevano sul viaggio e Mr Hu preparava la borsa -ormai era residente nella casa dei suoi nuovi amici-, incidentalmente LungTa osservò: “Andremo con il pullman pubblico”. Un mulinello di pensieri girò nella mente di Hu ed egli ricordò che non aveva mai viaggiato su mezzi pubblici, a parte il treno, dove comunque c’era un po’ di privacy. Si rivolse a LungTa: “Sai, LungTa, per la comodità della tua famiglia posso offrirvi una Toyota fino al Kailash, da lì poi ci muoveremo come il pellegrinaggio comanda”. Disse tutto ciò in tibetano, e alla fine tirò fuori la lingua. LungTa cortesemente rifiutò; qualche piccolo disagio sarebbe stato conveniente per il pellegrinaggio. Mr Hu

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uscì per le ultime spese, passeggiò per i viali di Lhasa con le mani nelle tasche dei pantaloni larghi e ricordò quando vi era la repressione; represse i ricordi. Guardò dei mastini tibetani, ma invece di immaginarli girare su uno spiedo li vedeva come pet: che cambiamenti stava subendo! Non era sicuro di quello che stava succedendo. “Mi servirà a qualcosa, il pellegrinaggio?” si domandò. Comperò formaggio duro come la pietra, burro rancido, una carcassa di pecora e carne secca di yak, tralasciò i croissant... La notte Mr Hu dormì nella stanza di LungTa e prima di addormentarsi ripeté silenziosamente le preghiere che diceva il suo ospite; gli venne il mal di testa ed inforcò gli occhiali per prendere un’aspirina. Non capiva proprio! indice

Sulla Strada verso il Kailash

Al mattino i quattro, -sembravano una banda-, si avviarono verso la stazione dei pullman pubblici. LungTa

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fece la coda per comperare i biglietti mentre il nostro si guardava intorno con sospetto e un filino di disprezzo. Non era proprio guarito dalle sue idee sulle differenze etniche, per cui si trovava male fra tutti quei tibetani, specialmente fra i Khamba. Si meravigliò perché non c’erano soldati. “Quindi esistono delle sacche indipendenti?” si chiese. Si avviarono verso il pullman: magnifico! Era molto alto perché dentro c’erano due piani di cuccette, -il viaggio era lungo! Esternamente era giallo con delle strisce blu che tagliavano i fianchi e davanti, sulla cabina di guida, era scritto il nome: “Kailash Express”. Non aveva nulla di express perché ci metteva tre giorni se tutto andava bene. I loro posti erano centrali: due sulla destra per lui e LungTa, due sulla sinistra per Drolma e Dawa. I bagagli furono messi sul tetto ma lui preferì tenere con sé la borsa, non si sa mai. I suoi documenti erano nel marsupio “Invicta”. Nel pullman c’erano soprattutto pellegrini tibetani, qualche cinese e, al fondo, un paio di turisti stranieri, anche loro con il marsupio “Invicta”. Hu provò un senso d’orgoglio pensando che usava le stesse cose degli occidentali. Dov’erano le differenze rispetto a loro? Un po’ di diritti umani non rispettati? Qualche pullman della morte che girava per lontane province

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dispensando iniezioni letali “gratis” a persone corrotte? Campi di lavoro che servivano soprattutto per riprendere la linea se si era grassi? Ma dai, su, le differenze non erano poi tante, in occidente tutto accadeva lo stesso ma più in silenzio! Infine si accorse di avere in mano un pacchetto di patatine Pai, proprio come loro. Si sedette vicino al finestrino che non si abbassava e aspettò. L’aria non era proprio quella del Paese delle Nevi: ogni volta che parlava un cinese un odore d’aglio inondava il pullman. Ogni tanto uno di loro sputava per terra -non avevano letto del divieto di sputare in luoghi pubblici emanato durante quei giochi, come si chiamavano, già? Ah, ecco: “le olimpiadi”. Un poliziotto fece la sua comparsa per assicurarsi che regnasse l’ordine nel mezzo pubblico; i bambini strillavano, i genitori urlavano mangiando formaggio duro, l’autista batteva con uno strumento su qualcosa, gli occidentali avevano la musica a tutto volume. Il poliziotto considerò che tutto era in ordine per gli standard asiatici e scese. Ma prima di scendere guardò con molta attenzione il pellegrino Hu che anche nel suo abbigliamento nepalese e maglione a rombi verde pistacchio e azzurri gli ricordava qualcuno.

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L’autista mise in moto e le ruote girarono per portare i passeggeri al Kailash. Un urlo levatosi dai tibetani lo fece sobbalzare: era “una preghiera di buon auspicio”, gli spiegò LungTa. La strada seguiva il fiume Kyichu e all’altezza del Drolma Lhakhang il pullman si fermò. Una ruota bucata; sarà che il buon auspicio non funziona? Si ripartì, e quando il mezzo si arrampicò sul Kampala cominciarono i “problemi interni”. Il passeggero davanti vomitava fuori dal finestrino,-per fortuna il suo non si abbassava-; il bambino appena dietro fece i bisognini dentro un secchio, che la mamma avrebbe conservato fino alla prossima sosta, dove sarebbe stato svuotato, LungTa russava appoggiato alla sua spalla, Drolma ascoltava i Rem a tutto volume dal suo iPod con stereo, e infine l’autista mise un video cinese che raccontava una storia di spionaggio con relativa colonna sonora. Mr Hu pregava e guardava fuori. Il problema era, si rese conto, che non sapeva chi pregare. Non era ateo? Calò la sera e si fermarono a Shigatse per la notte. Avevano fatto delle votazioni “democratiche” e deciso di fermarsi a dormire in qualche locanda. Entrarono allo “Yak Restaurant” che aveva anche delle camere, e

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presero posto intorno a un tavolo. Hu insistette a voler pagare la cena tibetana, ma Dawa rimase ferma, si doveva risparmiare, e quindi ordinò il tè -al burro naturalmente- e tirò fuori le scorte sparpagliandole sul tavolo unto di grasso. Finita la cena, andarono nelle relative stanze, lui con LungTa e altri sei pellegrini e le due donne con otto pellegrine. Mr Hu decise di fare una passeggiata nella città vecchia: voleva conoscere la vita tibetana. Seguendo la Lonely Planet, si diresse al mercato tibetano sotto il forte. Pensava di trovare bancarelle e sorridenti tibetane che vendevano oggetti antichi -ovvero quelli precedenti al 1959- e invece no! Trovò negozi luminosi e grandi, gestiti da cinesi. Comperò un ghiacciolo alla menta e si fermò a parlare con una giovane tibetana che trovò anche attraente. Le chiese dov’era finito l’originale mercato tibetano e lei rispose che era stato chiuso da poco per via delle innovazioni del governo; ora volevano solo più negozi moderni. “Innovazioni? E la gente cosa fa ora?”. Lei chiese cosa ci faceva a Shigatse, e lui spiegò che era diretto al Kailash in pellegrinaggio. La donna sfoggiò un sorriso con tre denti d’oro e gli chiese se voleva

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comperare qualcosa da lei. Mr Hu pensò male, ma lei chiarì: “Sai, oggetti antichi”. “Cavolo,” disse, “ma dove?”. “A casa mia”, rispose la donna. Mr Hu era sospettoso -si parlava molto di prostituzione-, ma alla fine acconsentì; in fondo Liu era lontana. Le comperò un ghiacciolo alla menta, -si trovavano solo quelli-, e la seguì. La sua casa consisteva di due camere; fuori fogne all’aperto, nel cortile due capre. In una camera c’era la madre e nell’altra un sacco di roba che una volta era sulla bancarella. La donna lo fece sedere e gli mise davanti la merce. C’era di tutto: vecchi accendini, ruote Mani, calotte craniche, dentiere di Lama, libri. Il suo sguardo si fermò sui libri. “Voglio quello”, le disse. Lei fece uno strano sorriso; era un volume molto grosso avvolto in un pezzo di seta. Lo aprì e glielo mostrò; lui lesse il titolo in tibetano -oramai era diventato bravo-: “Mila’i mGur ’Bum”. Sapeva bene chi era Milarepa! Aveva visto il film della Cavani tradotto in mandarino. Le mani gli tremavano mentre lo sfogliava, piano piano batteva per terra i suoi piccoli piedi negli stivali di feltro

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tibetano. Era già preso dalla lettura quando la ragazza gli offrì una tazza di chang e gli chiese se voleva dormire a casa sua. Non poteva, LungTa si sarebbe chiesto dov’era e magari avrebbe fatto una denuncia alla polizia: pensa l’imbarazzo e comunque doveva partire presto al mattino e la sua branda lo aspettava. Si dovette appoggiare al muro quando chiese il prezzo e lei rispose che era un regalo, e gli diede un bacino sulla guancia. “Ma chi ha detto che sono un duro?”, si chiese. I tre denti d’oro lo salutarono e la bocca che li ospitava si mosse per dire: “Leggilo tutto e quando sarai al Kailash leggi una storia particolare, e quando torni -se torni- vienimi a trovare. Mi piacciono i ghiaccioli alla menta”. Gli accarezzò la guancia paffutella e lui uscì barcollando. Quando entrò in camera tutti dormivano e lui sedette sulla sua branda spostando gentilmente gli animaletti che passeggiavano tranquilli, accese la candela e continuò a leggere. Lo trovava più avvincente dei libri di Ken Follett, che aveva letto tutti per trarne ispirazione. L’alba, la magnifica alba tibetana, dipinse di rosa lo squallido cortile della locanda.

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Mr Hu prese posto sul pullman e LungTa notò le sue occhiaie e dandogli di gomito gli chiese sottovoce: “Cosa hai fatto la notte scorsa, eh, birichino?”. Per tutta risposta lui mise in bocca una gomma da masticare alla menta -quelle che si usano in mancanza di dentifricio-, tirò fuori il libro con estrema delicatezza e si mise a leggere. LungTa sbirciò e quando vide cosa stava scorrendo guardò la moglie con occhi umidi; lei allungò il collo e insieme giunsero le mani. La figlia notò e chiese: “Cosa legge il papi cinese?” Si beccò una sberla dalla mamma e il viaggio continuò. Hu era affascinato dal paesaggio e soprattutto dal testo. Guardava fuori dal finestrino e vedeva enormi distese d’erba, yak, nomadi. Infine si girò verso LungTa, che guardava il video succhiando un lecca lecca al limone, e gli chiese: “Ma è rimasto qualcuno?”. Erano vicini a Lhatse, dove la strada si divide in due, una verso il Nepal e l’altra verso il Kailash. LungTa rispose: “Molti hanno preso quella strada”, indicando quella verso il Nepal. Che dire? Cos’era successo? Perché? Il suo viaggio era diventato un viaggio di domande a se stesso, e il bello era che non si dava risposte. Si rituffò nel testo di Milarepa e non disse piu nulla!

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Di nuovo guardò fuori e il sonno lo prese mentre guardava il film della bellissima natura tibetana, con il sottofondo sonoro del motore del pullman. Si svegliò a Saga; il pullman sfrecciava senza fermarsi e il giorno dopo arrivarono al magnifico lago Manasarovar, che riversava ondine invitanti sulla spiaggia. Mr Hu scese senza indossare la North Face; faceva freddo ma era stordito dalla bellezza dal posto. Batteva i denti e per fortuna LungTa gli allungò la giacca, già sternutiva -non era di costituzione molto forte e soprattutto non era abituato all’altitudine. Per sicurezza, LungTa gli infilò una bomboletta di ossigeno nella tasca della giacca. Tutt’intorno era affollato di pellegrini tibetani, indiani e occidentali; tantissime tende erano piazzate ovunque, un caleidoscopio di colori, una babele di lingue e tanta serenità. Si sistemarono in una grande tenda con altri pellegrini e lui, seduto a gambe incrociate fuori dalla tenda, guardava estasiato il lago. L’indomani percorsero le poche ore di strada rimaste fino all’inizio della kora, passando da Darchen. Altra notte in tenda. LungTa si allontanò per organizzare la circoambulazione del passo. Non lasciò nulla d’improvvisato: affittò due yak e un paio di portatori per il giorno dopo. Si era fatto buio e freddo quando tornò

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alla tenda, e un vento gelido scendeva dal Sommo Monte delle 9 Svastiche; intorno al fuoco scoppiettante mangiarono una calda zuppa con momo e carne e bevvero il chang preparato dalle mani di Dawa. Mr Hu si addormentò stringendo il testo di Milarepa in una mano e la bombola di ossigeno “Made in USA” nell’altra. LungTa gli tolse gli occhiali, lo guardò per un attimo e si addormentò anche lui. indice

La Kora

Al mattino furono svegliati molto presto dal vento gelido e dalle preghiere -quasi urlate- dei pellegrini. Dopo colazione si avviarono verso i loro yak mentre LungTa teneva Mr Hu per mano perché lui camminava con il naso all’insù guardando la vetta, e a un tratto disse: “Mica lassù, vero?”. LungTa lo tranquillizzò e gli indicò lo yak sul quale doveva salire, ma egli preferì camminare per un breve tratto del sentiero, come facevano gli altri; era diventato

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uno come gli altri. La salita era facile, ed egli si fermava spesso guardandosi intorno per sapere cosa doveva fare; si prosternava quando LungTa si prosternava, recitava i mantra quando LungTa li recitava, si sedeva quando LungTa lo faceva, e faceva anche bella figura. Qualche occidentale lo guardava incuriosito perché non assomigliava ai tibetani ma era con loro e faceva le stesse cose. Qualcuno gli chiese persino un autografo e lui si firmò come Hung; gli veniva spontaneo! Il primo giorno passò pieno di piacevoli sorprese e la sera si fermarono nella solita grande tenda con altri pellegrini. Che meraviglia ammirare “lo stupa al centro del mondo” dalla grotta Driraphuk, alla luce di un tramonto dorato! Mr Hu era in preda a una fortissima emozione; quant’è davvero piccolo l’uomo davanti a una natura così possente! Al mattino ripresero il loro percorso ma oggi sarebbe stato più difficile e quindi LungTa lo fece salire sullo yak. Per qualche motivo inspiegabile, lo yak si scrollò e la sella roteò facendolo cadere; dalla sua giacca uscirono il Blackberry, la borraccia e i documenti, ma fra le mani alzate da terra Mr Hu stringeva il testo di Milarepa e sorrideva. Dopo che LungTa ebbe sussurrato qualcosa

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nell’orecchio dello yak, la seconda volta questi lo accettò in sella. Così attraversarono il Dolma La; provava un’incredibile gioia di vivere questa esperienza in mezzo ai tibetani, lassù in cima, nel biancore della neve e con lo spettacolo colorato delle bandierine svolazzanti al vento. E poi la lunga discesa, lottando contro il vento... Arrivò il tramonto che erano vicini alla grotta Zutrulphuk, dove Milarepa era in meditazione quando aveva fatto cadere il prete bön1 dal suo tamburo mentre volava verso la cima del Kailash. Così il Sommo Monte, che prima era sotto il potere dei bön, era diventato definitivamente buddhista. Dopo che si furono sistemati, Mr Hu disse a LungTa che doveva fare i suoi bisogni e si allontanò. Passavano le ore e non faceva ritorno; i pellegrini si impensierirono e progettarono di andarlo a cercare. Mr Hu era salito fino alla grotta e, stanco, si era seduto su una pietra. Il freddo era intenso e il vento molto forte ma lui non aveva sensazioni di freddo o paura. Non aveva da mangiare o da bere ma si sentiva sazio. Un calore strano invase la grotta e il buio fu rischiarato da un fioca luce rossa. Era meravigliato ma non spaventato,

1 “I Centomila Canti di Milarepa”, Adelphi Ed., 2002, p.224.

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fino a quando vide entrare una donna semi-nuda e bellissima2. Pensò che se avesse avuto la sua pistola o dei soldati intorno si sarebbe sentito più sicuro. La donna gli domandò solamente se un pellegrino che si era perso poteva entrare nella grotta. Lui la guardò, e pensò: “Sì, va bene, ma perché questa è semi-nuda? Che ci siano delle prostitute anche in questo luogo sacro?”. Rispose: “La so”, che tradotto vuol dire Ok, e lei si fece da parte per fare entrare il pellegrino. Entrò un uomo coperto soltanto con una tunica di cotone bianca, dai capelli lunghi e di età indefinibile, scalzo, una bisaccia a tracolla e un bastone nella mano destra. Sorrideva. Mr Hu gli si rivolse in inglese pensando che fosse un hippy americano,-ne giravano ancora per il mondo-, ma l’altro sorrise di nuovo e gli si rivolse in tibetano mentre si siedeva accanto. “Non hai fame?” chiese. Mr Hu disse che sì, un poco, ma stava bene. Lo straniero tirò fuori delle lap-cheong, salsicce cinesi a base di maiale, soia e cereali che Hu adorava; le guardò con golosità e ne afferrò delicatamente una manciata. Il pellegrino sorrise:

2 Era Dorge Phagmo, Vajrayoghini.

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“Magari una Tsingtao?”. Hu non capiva più niente e chiese: “Ma lei chi è?”. L’uomo non rispose ma indicò il testo posato sulle sue ginocchia e gli domandò se lo capiva e se gli piaceva. Hu rispose che gli piaceva moltissimo ma insistette a chiedergli chi era, e giusto in quel momento un raggio di luna entrò nella grotta e illuminò il viso dell’uomo in bianco. Finalmente costui si decise a rispondere; spiegò che in un certo senso era il protagonista di quel libro. Mentre parlava, Hu si accorse che era seduto leggermente sollevato da terra, con uno strano alone rosso intorno al corpo, un alone che emanava calore. L’uomo continuò: “Fin dall’inizio, se c’è mai stato un inizio, tutti gli esseri dotati di emozioni, qualsiasi essi siano, sono sempre stati uguali; non ci sono differenze fra asiatici e occidentali, fra uomini e animali, fra cinesi e tibetani: proviamo tutti gli stessi sentimenti, le stesse paure.” Fece una pausa per dare tempo a Hu di respirare e di bersi un sorso di birra. “Il tuo scopo, quello di cercare di far ritornare coloro che sono scappati e di riappacificarti con il loro capo spirituale e politico, è molto generoso e grande; devi

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portarlo a buon fine, anche se intravedo che sarà difficile far ritornare a casa giovani che si sono abituati alla vita facile e alla libertà, e non credo che vogliano tornare a pascolare yak. Ma anche solo la tua intenzione è bella. Continua!” disse l’uomo. Mr Hu si appoggiò alla parete rocciosa; voleva scappare ma il sorriso dolce del suo amico lo inchiodava lì dentro. Tutta la sua notoria freddezza, il suo sorriso accattivante e il suo potere erano inesistenti in quel momento. Si trovava davanti al re degli yogi! L’uomo si alzò e gli lasciò in ricordo un pezzo della sua veste di cotone. Mentre usciva si voltò e disse: “Continua! Bye bye”, agitando la manina. Mr Hu si precipitò fuori dalla grotta per chiamarlo,-voleva un autografo-, ma fuori non c’era nulla tranne la neve e il vento. “Ho sognato. Non può essere che un sogno! È un sogno?” ripeteva a se stesso mentre nelle sue piccole mani faceva girare il pezzo di cotone. Accese la torcia e si avviò verso la tenda. Quando entrò, LungTa tirò un sospiro di sollievo, e gli spiegò che si erano preoccupati molto per lui e avevano pensato che gli fosse successo qualcosa. Mr Hu fece le corna per

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scongiurare le sventure,-lo aveva imparato da un primo ministro occidentale-, e quando la calma fu tornata e i presenti furono a dormire raccontò a LungTa cos’era successo, mostrandogli il pezzo di cotone bianco. LungTa lo guardò con sospetto, gli chiese se stava bene. “Sai com’è, Hu, alle volte l’altitudine... sei andato a fare pipì e poi torni con questa storia. So bene che qui la realtà cambia in un momento, ma dai... Vuoi un Diamox?”. Hu era seccato; non capiva perché a lui non potevano succedere cose strane e miracolose. In fondo in Cina di cose miracolose ne succedevano poche ma di strane molte. Prese il Blackberry e fotografò il pezzo di cotone, era meglio avere delle prove. Poi andarono a dormire anche loro. Al mattino Hu rifiutò di salire sullo yak, anzi disse all’animale che non doveva affaticarsi e gli stampò un bacione sul naso nero sussurandogli: “Se hai bisogno di aiuto dimmelo”. Incominciò a prosternarsi ogni tre passi con gli altri e, come nei giorni precedenti, i suoi caratteri somatici, differenti da quelli del popolo delle nevi, attraevano lo sguardo dei turisti occidentali. LungTa spiegava: “Un amico, un santo, volete una sua foto? Varrà un sacco di soldi fra qualche anno!”. L’anima del

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commerciante tibetano era resuscitata. Mr Hu si prosternava con lo sguardo perso nel vuoto e senza occhiali da sole; era scalzo, e lasciava delle impronte nella roccia. Così arrivarono alla fine della circoambulazione, e in macchina si diressero al lago Manasarovar. Qui il nostro Hu si spogliò nudo, si tuffò nelle acque gelide e nuotò vigorosamente, proprio come aveva fatto il Grande Timoniere; giocò con le onde, costruì piccoli stupa con le pietre dopo averle fatte incidere con il suo nome; era felice. indice

Il Rientro alla Civiltà

Era ora di tornare indietro, ma questa volta lui insistette per una Toyota e la famigliola, oramai tutti devoti di Mr Hu, acconsentirono in coro: “La so, Rimpoce”. Era un onore un po’ esagerato, e lui arrossì. Prese posto al fianco dell’autista, un enorme Khamba. Il Khamba lo guardava insospettito, Hu gli sorrideva angelico. Il Khamba aveva già visto quel viso, ma Hu gli

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cantava gli insegnamenti di Milarepa. Il Khamba scese perché il motore si era guastato; Mr Hu scese con lui, passò il palmo della mano sul cofano, e la macchina ripartì. Il Khamba si prosternò. Al posto di blocco i soldati non si curarono molto dei tibetani; si soffermarono a guardare lui. Uno disse al collega: “Abbiamo beccato un traditore, un collaboratore.” Gli chiesero il passaporto pensando che fosse un hippy cinese arrivato dall’America, e lo fecero scendere. Hu per un momento dimenticò la santità,-quando ci voleva ci voleva, per il diavolo!- e chiese dov’era il comandante. Molto amichevolmente i soldati gli poggiarono il mitra sulle costole e lo accompagnarono; il Khamba era pronto con la mano sul coltello. Quando si trovò davanti al comandante, un signore magro in tuta mimetica e con lo sguardo cattivo, Mr Hu rovesciò sul tavolo tutti i suoi documenti e gli fece vedere l’ID. Il comandante scivolò dalla sedia, i soldati arretrarono di qualche metro, altri soldati si precipitarono alla macchina per chiedere ai passeggeri se volevano bere un goccio di vino e mangiare qualche

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animaletto arrosto. Lui, Mr Hu, guardò dolcemente il comandante e gli disse: “Devo andare, tu dimentica!”, dandogli un buffetto affettuoso sulla guancia scarna e buttandogli via la sigaretta che stava masticando con i denti gialli. Arrivarono a Lhasa mentre gli ultimi raggi di sole facevano brillare i tetti del Potala. Doveva organizzarsi, pensare come convincere i giovani e come incontrare Lui, ma per fare questo doveva uscire allo scoperto o rivolgersi a qualcuno di fiducia. Aveva un amico fidatissimo nei servizi, un certo Cison Chen. E a lui telefonò. L’amico arrivò immediatamente a Lhasa e si incontrarono. Il piano era semplice: Hu avrebbe scritto una lettera in tibetano a Lui, e Chen doveva provvedere al suo ingresso in Tibet attraverso Zhangmu senza che succedesse nulla. LungTa sarebbe stato coinvolto come collegamento. L’incontro sarebbe avvenuto nel monastero di Ganden. Mr Hu si era installato in una cameretta a Ganden che guardava la valle. C’era un letto, un comodino con la foto di Lui e quella di Mao, un altare con la statua del Buddha e offerte di patatine, popcorn e altro, un televisore con tutti i canali internazionali e un tavolino

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con la candela. Era un romantico, Mr Hu, e la sera leggeva o scriveva a lume di candela. Così iniziò a scrivere la lettera. indice

La Lettera

“Mio caro amico…”, no, forse era meglio “Illustre amico…”, no. “A te, o Prezioso…”, umm, troppo remissivo... alla fine optò per “Mio caro Amico,” e continuò: “Troverai molto strano ricevere questa mia lettera scritta su carta di Daphne, soprattutto perché è una lettera priva delle solite accuse e ripicche come normalmente faccio scrivere ai miei segretari. “Ultimamente mi sono posto molte domande sulla mia condotta e il modo di portare avanti alcuni affari nel corso degli anni. Ciò che mi ha dato la spinta a questo cambiamento non è tanto un motivo politico bensì umanitario” - e qui egli sorrise-. “Ho sentito che i giovani tibetani scappano dal loro amato Paese delle Nevi e degli yak, dal paese del

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formaggio duro e del tè al burro, per rifugiarsi in posti lontani dove corrono il rischio di perdere le loro radici culturali, mangerecce e linguistiche. Non mi riferisco, con quest’ultima frase, all’abitudine di tirare fuori la lingua, che trovo magnifica!” “Mi sono stupito nel vedere che non c’è una tua foto sugli altari. Una domanda: “Perché vivi in India?” “Ti vorrei comunicare che sono andato in pellegrinaggio al Kailash e ho avuto strane esperienze. So che capitano a tutti ma la mia era particolare”. Si fermò un attimo a pensare se doveva raccontare o lasciarlo con il fiato sospeso -una sua abitudine-. Aprì la porta al monaco che gli portava la cena -una wienersnitzel, una Lhasa beer, patatine fritte, fragole alla panna con gelato al cioccolato-, gli diede come mancia una foto di Lui e lo salutò con un “Sang gnin ge on”. Il monaco si allontanò gongolante. Mr Hu si preparò un gin tonic e si sedette a mangiare, dopo avere sollevato gli occhi al cielo e aver offerto il cibo a tutti gli esseri nell’universo. Un G2, ecco cosa pensò di proporre al leader tibetano.

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Ritornò al suo tavolino, sedette per terra e prese la sua Parker con inchiostro scarlatto; continuò: “Penso sia più opportuno parlarti delle mie esperienze di persona quando ci vedremo, perché ci vedremo, vero? Le ultime notizie che mi arrivano dicono che sei molto indaffarato con viaggi in Occidente, la tua cortesia è sottolineata dalle tue vigorose strette di mano e dal tuo largo sorriso. Certo che alcuni tuoi precedenti incontri -con Haider e Bruno Beger- non sono stati molto edificanti, ma sono sicuro che lo hai fatto a fin di bene. In questo momento risiedo a Ganden, ospite del Tripa, e sono trattato molto bene; mi danno anche il permesso di tenere la tua foto sull’altare. Sì! Ho un altare. Ora, con il tuo permesso ti spiego il mio piano per incontrarci. “Ti propongo un G2 a Ganden. Sono sicuro che qualche politico italiano scoppierà d’invidia! “A consegnarti questa lettera sarà Mr LungTa, un amico tibetano in cui ho assoluta fiducia. Verrà nel paese dove risiedi come pellegrino, e durante l’udienza pubblica ti offrirà una kata contenente la lettera. “Nella busta troverai una mia foto che comprova l’autenticità della missiva”. Tirò fuori il Blackberry, scattò la foto, la scaricò sul pc e la stampò.

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“Dovrai dire al tuo seguito che ti rechi in Nepal per un pellegrinaggio. Nel casinò dell’hotel Radisson a Kathmandu sarai avvicinato da un signore di nome Huei-là. Lui ti riconoscerà perché indosserai un paio di jeans e una maglietta con su scritto “Free Tibet. Now!”, e giocherai solo sul 17 bevendo succo d’arancia. “ Il giorno dopo partirete insieme per il confine cinese, scusa se non scrivo il “confine tibetano”. Dopo aver attraversato il ponte “dell’amicizia”-non preoccuparti, nessuno vi fermerà-, nella guardiola della polizia cinese ti travestirai da “soldato cinese”; ricordo che ti dona moltissimo!” “Purtroppo non posso farti ricevere da guardie d’onore, tu capisci, vero? Nella prima città sino-tibetana salirai su un camion militare. Naturalmente siederai davanti, al fianco dell’autista e viaggerete verso la città proibita: Lhasa. “In città sarai ricevuto da una ragazzina di nome Drolma e lei ti condurrà da me, di notte. Purtroppo dovrete venire a piedi! “Spero che non ci saranno ostacoli di nessun genere al mio desiderio d’incontrarti e pregherò perché tutto possa essere esaudito. “Xie Xie dal tuo affezionato Hu!

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“N.B. Porta una sciarpa per coprirti durante il viaggio in camion, i soldati usano viaggiare con i finestrini aperti. L’oggetto che ti verrà consegnato è un mitra, non devi usarlo e sarà scarico ma tienilo in evidenza. Qui si usa così”. Rilesse la lettera 108 volte, la chiuse in una busta -anch’essa di carta di Daphne-, ci sparse sopra alcune gocce di tè al burro per renderla più autentica, e dopo le preghiere andò a dormire soddisfatto. Il giorno dopo LungTa si presentò alla porta. Senza dire una parola ma con gli occhi umidi prese la lettera e la infilò sotto la sua camicia. LungTa fu portato subito all’aeroporto e sedette in business class. La hostess era un po’ a disagio per l’odore che emanava, non lui ma la lettera. Arrivato a Kathmandu si fermò per una notte e fece un giro d’ispezione al casinò del Radisson. Incontrò Huei-là nelle toilette, si scambiarono uno sguardo d’intesa e si lasciarono. Volò a Delhi e con il Volvo notturno arrivò nella Lhasa indiana. Qui prese alloggio in una guest house, e a cena fu avvicinato da esponenti del movimento rivoluzionario dei giovani tibetani che gli fecero delle domande. Si vedeva che era un nuovo arrivato! Ma lui fu elusivo e

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chiese per quando era programmata la prima udienza pubblica. “Domani”, fu la risposta. LungTa non poteva proprio essere considerato un uomo “dal sangue freddo e nervi d’acciaio”; infatti versò il cucchiaio pieno di thukpa sugli abiti e, alzandosi, rovesciò la sedia sul tavolo vicino. Insomma, era così confuso che i giovani rivoluzionari gli chiesero se stava bene. In camera andò su e giù con la kata bianca lunga 10 metri inciampando nel tentativo di fare delle prove, infine crollò sul letto esausto. Al mattino, alle 05,30, LungTa era già davanti ai cancelli, voleva essere in tempo. Lo fecero entrare alle 10 e lui si mise in prima fila, ben visibile. Infine Lui apparve! Lingue fuori e teste abbassate lo ricevettero; Lui sorrideva e benediceva. Con orrore LungTa notò che passava le kata che riceveva a un suo assistente: cosa fare? Decise che gli avrebbe consegnato la lettera tirandola fuori dalla kata. Quando fu davanti a Lui, LungTa si inchinò quasi a toccare terra, offrì la kata e diede la lettera dicendo sottovoce: “È molto importante, viene dal Tibet. Hu!”.

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Si ritirò fra la folla e scomparve. Lui rimase molto sorpreso; immediatamente nascose la lettera e continuò a stringere mani e a sorridere. Appena in camera, sentì l’odore familiare del tè al burro e sorrise sospirando. Mandò fuori tutti e aprì la busta. Nonostante fosse abituato a non lasciarsi andare alle emozioni si dovette appoggiare al tavolo e sedersi. Non era possibile; lo scritto, la foto, il luogo di residenza: tutto corrispondeva a un sogno fatto pochi mesi prima ma sul quale aveva taciuto. Si raccolse in preghiera, ma la sua mente era distratta. Doveva elaborare un piano senza dire nulla, eccetto al suo segretario Karma-la che lo avrebbe accompagnato. Il mattino dopo, alle 04.00, chiamò il povero Karma-la che era un dormiglione e gli disse: “Non fare domande come al tuo solito. Tu e io partiremo per un pellegrinaggio. Andremo in Nepal con il bus da Varanasi, io sarò vestito in abiti civili perché non voglio pubblicità”. indice

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Verso Ganden

Nel mentre Mr Hu, passeggiando per le stradine di Ganden dopo avere fatto la kora e aver assistito a un funerale dell’aria, si fermò davanti a una bancarella e comperò una campanella, un dorge e un damaru. Con i suoi acquisti andò dall’abate e disse che voleva fare un breve ritiro in attesa dell’arrivo del suo ospite. L’abate era a conoscenza del piano e gli consigliò alcune pratiche di purificazione. Non era sicuro che avrebbero funzionato, considerando il suo karma passato, ma gli ordinò di fare 1000 prosternazioni al giorno davanti alla statua del Buddha: lo trovava grassoccio e un po’ di sofferenza fisica non gli avrebbe fatto male, e poi le prosternazioni se le meritava, visto che era stata una pratica derisa dai governanti locali durante l’occupazione delle guardie rosse. Mr Hu si congedò con un “la so”, e mentre si allontanava l’abate lo richiamò e gli disse: “E basta con i gin tonic!”. Hu arrossì e sparì nella sua cameretta. Iniziò così il suo periodo di purificazione: si alzava alle 4 del mattino e a torso nudo faceva prosternazioni nel cortile, in direzione del Buddha; alla fine i monaci dovevano portarlo via a

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braccia. Poi si chiudeva in camera e scampanellava e leggeva i testi recitando i mantra di purificazione. Gli pareva di cominciare a sentirsi meglio quando un giorno arrivò l’abate che gli disse: “Sei più nero di prima, aumenta le prosternazioni -mi dicono che ti fanno bene- e prega di più!”. L’abate era un sant’uomo, ma pensò che un pochino di vendetta bianca non gli avrebbe fatto male. Dall’altra parte dell’Himalaya i preparativi erano finiti. Lui, dopo aver spiegato che andava in pellegrinaggio in Nepal in forma privata, uscì vestito da monaco come al solito; Karma-la portava una borsina con dentro poche cose. Partirono in macchina, ma prima di arrivare a Delhi Lui si cambiò in jeans e maglietta rossa e infilò delle Gucci sportive -dono di devoti italiani. Presero due camere al Manjukatilla. Qualcuno lo guardava e si diceva: “Questo signore mi ricorda qualcuno”; qualcuno si chinò ma lui fece finta di niente. Il giorno dopo presero il treno per Varanasi, seconda classe AC. Lui si sentiva a suo agio vestito in quel modo e con Karma-la passarono il tempo senza parlare, mangiando samosa e bevendo Coca-Cola. A Varanasi si recarono subito alla stazione dei pullman per il Nepal. Karma-la fece di tutto per avere un posto

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buono ma Lui volle assolutamente sedere nelle file posteriori: era in incognito e poi doveva pensare. Cosa si potevano dire dopo anni di menzogne e violenze? Come si sarebbero salutati? Sarebbe andato bene il dono che gli portava? -era un elefantino con la proboscide all’ insù e una svastica in lapis-lazzuli; aveva sentito che entrambi portano fortuna. Avrebbero raggiunto un accordo? Per i Tre Gioielli, stava per incontrare Mr Hu a Ganden! E si addormentò mentre Karma-la vegliava masticando Valontan: le curve erano un incubo per lui. Arrivarono a Kathmandu non proprio con l’aspetto di business men. Alla reception del Radisson li guardarono un po’ straniti ma non potevano mandarli via visto che avevano due camere prenotate da LungTa. Passarono i giorni e si avvicinava “il” giorno. Mr Hu si teneva in contatto con l’amico Cison Chen che gli garantiva che tutto era stato predisposto e che sarebbe stata una passeggiata. Era ansioso e, come a Pechino, la sua mente non era in grado di concentrarsi sulle pratiche. Nella penombra della sua cameretta i raggi di sole che cadevano sulla statua del Buddha la facevano brillare; un alone dorato si diffondeva intorno alla statua; il viso, ombreggiato da petali di fiori,

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sembrava sorridere; le mani atteggiate nella mudra della meditazione stringevano delicatamente una pesca che Hu aveva offerto; nuvolette di fumo d’incenso volteggiavano verso il soffitto e mentre lui osservava questo gioco di luci l’archivio della sua mente si apriva e pratiche dolorose venivano fuori come un fiume in piena. La porta si aprì dolcemente e Cison Chen entrò dicendo: “Ci sono, sono arrivati al confine”. Hu spostò lo schiacciamosche e si fece un gin tonic nonostante il divieto. Lui scese nel casinò del Radisson vestito come gli era stato detto; alla cassa cambiò 108 dollari ma il cassiere gli disse che dovevano essere o 100 o 110. Si avviò al tavolo e sedette; accanto a lui arrivò un personaggio che lo guardava sorridendo. Naturalmente Lui non sapeva giocare e il suo vicino presentandosi disse: “Mi chiamo Huei-là; posso aiutarti?”. LungTa, che seguiva tutto da vicino, diede una piccola pacca sulla spalla di Lui e sorridendo Lui rispose: “Certo, è un piacere”. Gli furono date spiegazioni; Lui disse che voleva puntare tutto sul 17 e ordinò un succo d’arancia alla hostess, -

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non troppo vestita-, che sorrise ammiccando alla maglietta “Free Tibet. Now!”. “17, noir, impair”, disse la ragazza addetta al tavolo. LungTa cominciò a battere i piedi dalla gioia: erano 3600 dollari! Lui non sapeva bene cosa fare e Huei-là gli suggerì di prendere tutto e uscire. Il contatto era fatto. Dignitosamente presero le fiches e si allontanarono dal tavolo. Sedettero su un divano nella camera 108 mentre furono fatti i preparativi per il mattino dopo. Lui era un po’ imbarazzato, seduto fra un cinese e un tibetano che gli parlavano di cosa doveva fare: vestirsi da soldato, tenere un mitra in mano, parlare cinese. Non aveva nessun consigliere e per un momento pensò a una trappola. Karma-la era ripartito per la Lhasa indiana e sapeva tutto, quindi in caso fosse realmente stata una trappola lo avrebbe comunicato subito alle Nazioni Unite che a loro volta avrebbero fatto un breve, leggero e sdegnato comunicato di disapprovazione sottolinenando che “comunque erano affari interni del paese”. Partirono all’alba con una fiammante Toyota. Al confine non ebbero nessun problema, anzi nessuno li controllò e passarono tranquillamente il “ponte dell’amicizia”.

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“Amicizia” era un termine molto pretenzioso, magari ponte delle “speranze”, o “il ponte dei sospiri” sarebbe stato più appropiato, e si ricordò della sua ultima visita a Venezia e del conferimento della cittadinanza onoraria -oramai gli veniva data in tutte le città italiane-. Come era stato concordato, si fermarono alla garitta della guardia cinese, entrarono, e su una sedia Lui trovò una divisa stirata, molto larga persino per Lui. Si cambiò dietro un separé e quando uscì gli fu consegnato il mitra. Non aveva molta familiarità con le armi, per cui lo prese dalla canna, e il soldato gli mostrò il verso giusto sorridendo; poi, indicando il grilletto gli disse di non metterci mai il dito sopra. Lui annuì e uscì fra la sporcizia della strada. Huei-là indicò un camion militare e sparì; LungTa tirò fuori la lingua, salutò e sparì; era rimasto solo, ma era aspettato. Come d’accordo lo fecero salire in cabina vicino al soldato autista; il finestrino era abbassato e lui mise in vista il mitra. Tra il suo sedile e quello dell’autista notò un cesto ricolmo di frutta -ananas, kiwi, melograni, uva- e una cassetta piena di succhi d’arancia e brioche. L’autista lo guardò con rispetto e disse: “Per Lei da Mr Hu”.

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Altro che trappola, qui si ridisegnava la geopolitica! Ansimanti sia il camion sia Lui si avviarono per strade nuove e ben asfaltate; arrivarono a Nyalam e Lui volle scendere per dirigersi alla grotta di Milarepa. Il monaco guardiano della grotta fece un po’ di storie per farlo entrare: un soldato con i tratti tibetani e il mitra che voleva entrare? Poi acconsentì, seguendolo però passo passo, ma non origliò quando, davanti alla statua, Lui chiese: “Mila, che faccio?”. Ripartirono e superarono alti passi, su ognuno dei quali il soldato-autista si precipitava a dargli una bottiglia di ossigeno. Per la prima notte si fermarono in un campo militare a Shigatse. Lui fu ricevuto dal generale in persona e gli fu mostrato il suo appartamento, addobbato completamente in stile tibetano, con relativo altare e incenso. La cena gli fu servita in piatti d’argento -momo, tsampa, verdure, frutta e l’immancabile succo d’arancia. Vicino al letto vi era l’ossigeno e nella camera a fianco il medico So-Tutmi era destinato a sorvegliare -benevolmente- se qualcosa fosse andato storto. La finestra della camera aveva la vista sul monastero di Tashilumpo.

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Lui pensò a quanti anni erano passati, e chissà dov’era il giovane Panchen. Fece una nota mentale: doveva chiedere a Mr Hu se per caso attraverso i suoi canali lo sapesse. Si soffermò a pensare ai cambiamenti che aveva visto: strade super asfaltate, pulizia, ordine, nuove case. Forse un po’ meno tibetani in giro? Si addormentò felice di questa nuova avventura e si chiese se lo avrebbero fatto cittadino onorario di Lhasa e magari anche di Pechino. “Che sballo!” pensò. Al mattino fu svegliato dolcemente dal generale; non avevano suonato nemmeno la sveglia per non disturbarlo. La colazione era a base di cibo cinese, tibetano e francese. Lui mangiò un croissant, bevve un caffè e per non dispiacere al generale ingoiò uno spicchio d’aglio. Gli fu detto di indossare abiti da turista normale, non più quelli da soldato. Gli fu spiegato che da questo momento era un autostoppista tibetano preso su dal camion militare. Che bella figura ci facevano…i soldati davano un passaggio a un tibetano! Salì con il solito autista che gli chiese la benedizione,-il suo potere spirituale era enorme-, e prese posto vicino alle bombolette di ossigeno. La strada era veloce anche perché di traffico non ce n’era.

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In poche ore arrivarono al fiume Tsangpo; attraversarono il Chagzam e cominciarono a costeggiare il fiume Kyichu. Che emozione quando dalla strada scorse i tetti dorati del Potala fra i salici piangenti! In fondo era casa sua. Arrivato nella piazza sotto al Potala, il camion si fermò; il soldato gli fece cenno che doveva scendere, ma prima gli chiese una sua foto. Ne aveva un pacchetto e con un sorriso gliene diede una con autografo incomprensibile. Il soldato gli indicò una panchina e gli disse di aspettare seduto lì; non parlò più, con un gesto della mano lo salutò e andò via. Era sera a Lhasa e lui sedette sulla stessa panchina dove era stato seduto Mr Hu. Anche lui guardava le coppiette che, mano nella mano, mangiavano popcorn e guardavano verso il Potala. Saltò in piedi quando la fontana luminosa si mise in moto. Incredibili braccia di acqua si levavano silenziose ed erano illuminate da luci di vari colori. Sembrava si allungassero per abbracciare teneramente la sua casa. La musica era un po’ troppo alta ma per Lui era un benvenuto eccezionale. Tra la folla vide una ragazzina che correva verso di Lui, con la lingua fuori. Non era sicuro se era per la stanchezza o

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come rituale di benvenuto; se fosse stato quest’ultimo doveva dire ai tibetani di smetterla con quell’assurdità! Drolma, la figlia di LungTa, gli chiese: “Tu sei Lui?” (il codice era importante). Quando Lui rispose affermativamente gli prese la mano e sorridendo lo accompagnò verso una limousine blu che si mosse silenziosamente. All’ultimo momento avevano deciso che farlo andare a piedi era poco cortese. Si diressero verso il monastero di Ganden a un’ora da Lhasa. Seduto dietro, Lui passò il suo tempo a guardare le meraviglie della nuova città: grandi viali deserti delimitati alle volte da palme di plastica. Sorpassarono il monumento al Tibet, un enorme yak ramato al centro di un incrocio; palazzi altissimi, fra cui torreggiava la “Chinese Telecom”; pulizia, altro che in India; qualche ragazzo vestito da soldato che correva per le strade -erano talmente giovani che si chiese se erano boy scout-; tanti turisti occidentali e cinesi e pellegrini tibetani che si prosternavano ogni tre passi. Che cambiamenti dalla vecchia Lhasa che aveva lasciato un po’ di anni fa! “Non è male”, pensò, “e poi sembra che ci sia qualche libertà religiosa. Le scritte sui negozi sono in tibetano e

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cinese. La gente sorride anche. Che mi abbiano raccontato delle esagerazioni?”. Lui si mise a pensare come si sarebbe svolto l’incontro: “Devo essere scostante? No! Devo salutarlo con rispetto? Un pochino! Devo lasciarlo parlare e sentire cosa vuole o devo subito dire cosa penso? Ma lui sa già cosa penso”. indice

L’Incontro

Quando guardò in avanti stavano salendo la ripida strada verso il monastero e il suo cuore ebbe un tuffo. “Mr Hu, accidenti!”. Non vi erano stati particolari preparativi, -era tutto segreto, un’abitudine sia cinese che tibetana-. La macchina si fermò nel cortile principale e Lui scese con la macchina fotografica al collo. I bambini gli corsero incontro come a un turista qualsiasi, i monaci lo

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guardarono con apprensione e solo l’abate si avvicinò, fece un cenno d’inchino indicandogli con la mano la strada da seguire. Fu invitato in una stanza dove si cambiò, indossando finalmente abiti da monaco; prese la kata che voleva offrire e dalla borsa tirò fuori l’elefantino con la proboscide all’insù e la svastica. A un tratto si trovò davanti una porta. La porta! Mr Hu, all’interno, era vestito molto sobriamente; aveva acceso dell’incenso nel bruciatore, e sul tavolino tradizionale aveva fatto disporre una enorme fruttiera, biscotti, tè al burro e formaggio secco. Si era curato di nascondere la sua bottiglia di gin. Era splendido l’altare dove troneggiava una foto di Lui, una statua del Buddha e il testo di Milarepa; vasi cinesi con fiori tropicali -chissà dove li aveva recuperati- ombreggiavano gli oggetti sacri. Quando sentì bussare si accorse che non aveva nascosto lo schiacciamosche. Gli scappò un’imprecazione mentre gli dava un calcio facendolo finire sotto al letto; aprì. Quattro occhi di ghiaccio si guardarono prima di sciogliersi in dolcezza. Si offrirono le kata contemporaneamente e Mr Hu si prosternò. Lui guardò l’abate, come per chiedergli:

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“È scemo?”. L’abate non rispose, si ritirò. I due che stavano per cambiare l’assetto geopolitico dell’Asia Centrale erano soli. Mr Hu sedette per terra offrendo il piccolo trono all’ospite; questi rifiutò e prese posto al suo fianco sul tappeto persiano. La prima cosa che notò fu lo schiacciamosche sotto al letto e gli chiese: “Cosa ne fai? Uccidi degli esseri?”. Domanda un po’ idiota, pensò Mr Hu. “Mai personalmente!” e prontamente aggiunse: “Oh no, Tianzi Rimpoce, è per farmi aria. Sai, tipo ventaglio?”. Lui sorrise e chiese: “Chi sei e cosa vuoi? Vuoi parlarmi di qualcosa? Vuoi degli insegnamenti? Mi hai fatto venire da molto lontano e spero che quello che dobbiamo dirci sarà di qualche utilità per l’umanità”. Mr Hu stranamente balbettò e arrossì. “Al 108esimo piano di un palazzo nel cuore di Pechino una sera ebbi una sorta di ripensamento, direi dei dubbi su quello che succedeva nel mio paese. Mi trovai a pensare a te e passeggiando per strada sentii dire che

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molte persone fuggono dal Tibet per rifugiarsi in altri paesi. Mi accorsi che internet non funzionava, o meglio era controllata, e di altri piccoli particolari che mi fecero riflettere. Così decisi di intraprendere il viaggio verso il Paese delle Nevi per rendermi conto di persona. “Fui folgorato dalla bellezza del Tibet -non lo ricordavo così bello-, e fui angosciato nel vedere quanti giovani soldati passeggiavano in tuta mimentica sotto il tuo palazzo”-qui abbassò la testa-. “Ammirai le nuove strade e feci ottime conoscenze tibetane; imparai la lingua. Con una famiglia conosciuta nel viaggio mi recai al Sommo Monte in pellegrinaggio ed ebbi meravigliose esperienze spirituali. Mi bagnai nel sacro lago e presi il raffreddore come punizione per il mio karma negativo e così decisi di scriverti, vederti e parlare con te sui piccoli problemi che sembra ti disturbino”. Lui lo ascoltava e lo guardava in silenzio, con un sorriso sulle labbra, e dentro di sé pensava: “Davvero l’uomo può cambiare, persino un cinese!”. Mr Hu gli mostrò il testo di Milarepa, che Lui prontamente mise sul capo, e gli fece vedere il pezzo di cotone bianco narrandogli l’avventura. Lui si alzò, andò verso l’altare e osservando la propria foto chiese:

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“Ho sentito che sono vietate, come mai ne hai una in esposizione?”. “Non so chi abbia posto il divieto, molto antidemocratico direi. Prenderò dei provvedimenti e farò mettere una tua foto formato gigante all’aeroporto di Gongkar e sul Potala. Sai, di quelle tridimensionali che al buio si illuminano. Lascia fare a me!”. Lui non fece in tempo a fermarlo che era già al cellulare che dava ordini. Un sorriso passò sul viso di Lui che immaginava le foto grandezza cartellone che davano il benvenuto ai visitatori... Si era fatto tardi e i “colloqui” furono aggiornati al mattino. Mr Hu lo pregò di rimanere a cena. Dopo poco entrarono monaci vestiti in abiti da cerimonia con vassoi d’argento ripieni di cibo cinese e tibetano assolutamente vegetariano. Si raccolsero in preghiera per le offerte rituali e mangiarono in silenzio. Dopo il caffè Mr Hu gli propose di vedere un DVD,-voleva a tutti i costi stare con Lui-, e gli propose “Himalaya” con colonna sonora basata sul mantra della protettrice Tara. Qui Hu commise un errore perché alla fine, mentre Lui si congedava, gli disse:

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“Buona idea questa del video; domani potremo parlare della preservazione della cultura dei popoli e delle loro religioni. Che ne dici?”. Mr Hu non si scompose minimamente; rispose: “Certo, se la cosa ti sta a cuore ne sarò felice”. Appena chiusa la porta, Hu fece dei salti di gioia, si sedette nella posizione del loto e dopo avere recitato le sue preghiere passò parte della notte a leggere il suo testo preferito. Lui si ritirò nella sua camera ed esclamò semplicemente: “Accidenti”. Il mattino dopo s’incontrarono per colazione. Lui, sorridente, gli porse i regalini: l’elefantino con la proboscide all’insù e la svastica in lapis-lazzuli. Hu era commosso -ultimamente gli succedeva di frequente-; prese i regali nelle mani e il suo sguardo si fermò sulla svastica. “Provoca?”, si chiese, ma solo per un attimo; li poggiò sulla testa, come benedizione, poi li posò sull’altare. Finita la colazione incominciarono il famoso G2. Lui era molto diretto e pose subito la domanda: “Scappai molti anni fa per le ragioni che ti saranno ben note. Da allora vivo in una terra straniera alle volte anche un filino calda e mi sono sempre adoperato per

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far tornare il mio popolo in Tibet. I successi sono stati pochi” -si fermò un attimo aggiustandosi gli occhiali ma in effetti voleva vedere le reazioni del suo interlocutore che si mangiava le unghie di una mano e l’altra la passava freneticamente fra i capelli-. “Ho sentito che ci sono delle disparità sociali, che i nostri monasteri sono stati distrutti e poi ricostruiti, che la lingua tibetana non è insegnata nelle scuole, che i militari hanno il grilletto facile. Insomma, ci sono davvero molte cose negative che succedono nel mio paese. Come mai e perché? E smettila di mangiarti le unghie!” . Mr Hu tirò fuori la lingua e rispose dopo aver messo la mano in tasca: “Rimpoce, i quadri del partito hanno commesso piccoli errori. Anni fa una teppaglia scalmanata ha seminato distruzione e morte in tutta la mainland, ma ora molte cose sono state corrette”. Fu interrotto con un secco: “Cosa, per esempio?”. “Per esempio la libertà religiosa non è più un problema se i suoi rappresentanti non entrano in politica, c’è lavoro e ci sono migliori condizioni di vita dal tempo della teocrazia...”.

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Cercò di correggere il lapsus, ma era troppo tardi; guardò fuori e vide cadere lenti fiocchi di neve che livellavano il paesaggio pietroso della valle. Mentre Lui sorvolava sulla gaffe e allungava la mano nel piatto per prendere i salatini gli chiese: “Ma il tuo governo sarebbe disposto a dare una vera autonomia al Tibet?”. “Dopo che ti ho conosciuto e dopo le mie esperienze spirituali sono, pardon siamo, pronti a darvi tutto. Tu potrai tornare nel tuo paese e sarai onorato, io sarò il tuo servitore e consigliere personale. Il Tibet sarà riunificato,-non tutto ovviamente-, e noi ci faremo da parte. Certo, qualche militare dovrà rimanere per i confini, sai, il paese vicino è così indisciplinato!”. Lui rimase pensieroso sul “tuo consigliere” ma leggendo la fede nei suoi occhi dietro le spessi lenti da vista, soprassedette. Era il momento del break e lo invitò a fare una kora; uscirono come due vecchi amici, e fra lo sbalordimento dell’abate e dei monaci si avviarono ridendo verso la kora, e mentre Lui stringeva mani a tutti Mr Hu si prosternava davanti ai luoghi sacri. Ultimamente sulla sua fronte si era formato una sorta di terzo occhio a furia di batterla sul terreno. Ambedue calzavano scarponcini da trekking per la tanta neve che

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c’era; Lui era ben coperto mentre il suo compagno era a torso nudo, per fare penitenza. Lo riportarono in camera a spalle con la febbre. La sera, mentre Lui gli dava eco-aspirine, l’abate entrò con un grog al rum e latte. Hu lo trangugiò-era da molto che non beveva alcolici- e allungò la mano verso il cellulare dicendo: “Ora dò gli ordini”. Fu fermato in tempo da Lui. “Abbiamo ancora delle cose da discutere. Per esempio, cosa succederà dei tanti cinesi che sono in Tibet? Come saranno accolti i tibetani nuovi arrivati? Io non voglio che coloro che ormai sono nati e vissuti in Tibet debbano andare via. Pensaci e ne riparleremo domani, se sarai ancora vivo”. Mr Hu con la mano sotto le coperte fece le corna e con gli occhi rossi e tra colpi di tosse disse: “La so, Rimpoce”. Quando Lui chiuse la porta, Hu già russava! L’indomani Mr Hu si era ripreso “miracolosamente” dall’influenza. Iniziò una nuova seduta del G2. Hu, continuando la sessione del giorno prima, disse: “Se tu vorrai, i cinesi Han potranno rimanere in Tibet e seguire i loro affari; naturalmente dovranno chiudere i loro negozi e riapriremo le bancarelle tibetane”.

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Il suo pensiero volò felice verso i tre denti d’oro di Shigatse. “Potremmo lasciare i posti pubblici,-non tutti-, ai cinesi. I tibetani avrebbero il monopolio del turismo e della vendita dei biglietti per il treno. Possiamo chiudere la fontana luminosa davanti alla tua residenza e facciamo dei giardini di tulipani”. Lui obiettò sulla fontana-gli piaceva-ma sembrò piacevolmente sorpreso delle novità che aveva ascoltato. Mr Hu continuò: “Quello che mi sta più a cuore è il tuo ritorno e il ritorno dei giovani tibetani sparsi per il mondo in cerca di fortuna. Il Prezioso può ritornare nel suo palazzo, ma forse preferisci qualcosa di più luminoso? Non so, per esempio un Potalino di 108 piani vicino al fiume? Per i giovani terremo tutti i lavori più importanti, come per esempio il controllo su internet…, oops, volevo dire come i lavori di programmatore, di dirigente di banca; noi sappiamo che il denaro è stato sempre al primo posto nei loro pensieri. Potranno sposare anche donne cinesi e avere quanti figli vogliono. Cosa ne pensi?”. “E la pena di morte?”, chiese Lui.

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“Quale pena di morte? In Cina viene somministrata con il conta-gocce e solo in casi estremi; mica è l’Iran qui! Vuoi che la togliamo come bonus? Ok!”. “Mi dicono che c’è molta prostituzione, non è possibile fare qualcosa?”, chiese Lui, sempre più desideroso di diritti umani. “Non tutti sono santi,”-anche questo lo aveva sentito dal suo amico politico italiano- “qualcosa dobbiamo lasciare, ma le metteremo dentro delle celle, pardon delle case ai bordi della città, non più sotto il Potala. Posso telefonare a Chen ora? Sai qui senza ordini non si fa nulla”. Non poteva! Dovevano ancora pensare alla conferenza stampa, cosa dire e dove farla; dovevano firmare dei documenti -non si sa mai che cambi idea, pensò Lui- e decidere quali diplomatici invitare e quali televisoni accettare. Sarebbero serviti ancora dei giorni, e quindi Mr Hu propose una pausa distensiva sulle rive del lago Namtso. Solo loro due in preghiera e riflessione. Il viaggio cominciò al mattino presto, Lui non era mai stato al lago Namtso ma lo conosceva di fama: era un luogo dove avevano meditato molti eremiti e santi del passato. La Toyota sfrecciava per le strade deserte di

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Lhasa quando Lui notò dei soldati che correvano in gruppi di venti-trenta. Al loro fianco un sergente abbaiava degli ordini. “Perché corrono per le strade?”, chiese Lui. “Ginnastica ” fu la laconica risposta di Mr Hu. Lui non fu molto convinto della risposta ma non disse più nulla fino a quando furono fuori città. “È questa la nuova ferrovia che porta migliaia di Han in Tibet?”, chiese Lui. “Ma quali migliaia di Han?” -Hu per un secondo si lasciò prendere dalla stizza.- “Porta turisti di tutte la nazionalità a visitare questo stupendo paese. E poi è anche ecologica”. Non dissero più nulla, Lui sorseggiava tè tibetano, Hu sorseggiava caffè, l’autista passava i biscotti. Sulla punta del colle si fermarono ad ammirare il lago lontano e verso il tramonto arrivarono ai Tashi Do. “Che spettacolo!” pensò Lui. I Tashi Do erano ricoperti di sciarpe bianche, ondine spumeggianti si infrangevano sulle spiaggette pietrose, il sole colorava le montagne intorno, i nomadi lontani punteggiavano con tende nere le praterie; Mr Hu, come al solito, si tuffò nelle acque gelide. Presero alloggio in

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due camere comunicanti in una Guest House nuovissima con i bagni in camera. Prima di cena uscirono per fare la circoambulazione dei luoghi sacri. Mr Hu camminava con un contenitore pieno di burro fuso che versava nelle lampade votive. Nelle grotte incontrarono meditatori silenziosi che li guardarono incuriositi; qualcuno riconobbe Lui ma non disse nulla, qualcuno riconobbe Hu e fece una smorfia con la bocca. Il silenzio era assordante e dopo cena Mr Hu andò a meditare, nudo, in una grotta vicino al lago, mentre Lui si mise sotto le coperte. “Lasciamo che si purifichi un poco!”, pensò con il cuore pieno di compassione. Al mattino si riunirono e la colazione fu servita da due monaci. La vacanzetta era intesa per la riflessione ma Hu invitò Lui a fare un giro su un motoscafo per raggiungere un’isoletta, luogo di un vecchio eremitaggio. Mentre si avviavano verso l’imbarcadero un gigantesco e feroce mastino tibetano, di proprietà di una famiglia nomade, si avventò sulla coppia. Mr Hu saltò agilmente davanti a Lui per difenderlo e contemporaneamente si accovacciò allungando la mano destra. Lui rimase strabiliato quando vide che il cane si accucciò immediatamente, guaendo e leccando la mano di Mr Hu.

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Arrivati che furono sedettero su due rocce e Lui disse: “Certo sei cambiato molto! La tua grinta e le tue offese verbali sono svanite dalla tua bocca e dalla tua mente. Cosa farai dopo che abbiamo risolto i nostri problemucci? Verrai a trovarmi qualche volta a palazzo? Ora mi sono affezionato a te e tu hai capito che siamo tutti uguali”. Mr Hu, con le lacrime agli occhi, rimase pensieroso e rispose: “Penso che partirò in silenzio e andrò in pellegrinaggio in posti lontani. Scriverò, forse qualcosa come “Il Buddhismo estensione del Marxismo”. Certo che verrò a trovarti, forse in sogno”. A un tratto Lui chiese: “La faccenda del Panchen Lama, come la mettiamo? Dov’è il mio?”. “Ci risiamo...Cosa gli dico ora?” pensò Hu. “Il tuo Panchen gode ottima salute e studia; se vuoi ne possiamo mettere due -d’altronde la cosa si è già verificata con altri in India,- e il tuo avrà più potere e onore. Prenderà una laurea in informatica e risiederà nel suo monastero. Cosa ne dici?”. Lui fu soddisfatto della risposta, anche se avrebbe preferito un solo Panchen, ma bisognava pensare anche all’altro ragazzo; quindi accettò.

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Era ora di ritornare alla Guest House e quando scesero dal motoscafo il mastino corse incontro a Hu con un osso in bocca come regalo. Gentilmente Hu lo rifiutò! indice

La Conferenza Stampa

A Lhasa erano attesi da Mr Chen che aspettava ordini; questi arrivarono prontamente. “Liberiamo, pardon chiama il Panchen e invitalo a venire immediatamente qui a Lhasa. Vieta ai soldati le loro esercitazioni mattutine. Trasferisci tutte le prostitute in quelle magnifiche ville sulle rive del Kyichu. I posti pubblici devono essere dati immediatamente ai tibetani. Fai stampare un milione di foto di Lui e falle distribuire nei monasteri, naturalmente incorniciate e ben esposte” . Proseguì per un po’ dettando innovazioni a Chen che era abituato a ben altro e lo guardava con stupore. “Invita la CNN, la BBC, la Repubblica e altre testate internazionali per dopodomani nei giardini del

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Norbulingka: devo fare una “rettifica”, un thamzin. Fai esporre la bandiera tibetana” -qui a Chen cadde la penna per terra ma la raccolse con sguardo impassibile- “e non tentare di farmi arrestare per pensieri contro-rivoluzionari perché ti schiaccio con lo schiacciamosche!”. Guardò Lui e commentò sotto voce: “Lo dico solo per spaventarlo”. Continuò: “Invita tutti i diplomatici occidentali. Niente servizi di sicurezza o giovanotti in tuta ginnica. Rilasciamo visti a tutti i giornalisti. LungTa si occuperà del buffet che deve essere a base di cibi tibetani, cinesi e, va là, anche occidentali”. “Perché, non davate visti ai giornalisti stranieri?” chiese Lui sorridendo con ironia. “Alle volte vi erano piccole restrizioni, ma mai eccessive”, divagò Hu. “Nel giardino deve esserci una musica religiosa diffusa...vediamo un po’. Tu cosa preferisci? Ma sì, mettiamo la colonna sonora di “Himalaya”, quella che fa Om-Tare-Tu-Tare-Ture sohaaa. Che ne dici? Vedo che apprezzi. Non dimenticare, Chen, un trono con 108 cuscini. Non fare lo spiritoso, un piccolo ascensore non è necessario. Io starò in piedi

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sotto il trono. Liberiamo tutti i tibetani in prigione per motivi politici e diamogli il passaporto”. “Perché, ci sono tibetani in prigione per motivi politici?” chiese Lui stupito. Mr Hu aveva imparato dal suo amico politico italiano a smentire subito tutto ciò che aveva detto un minuto prima e replicò: “Non ho mai detto questo”. Si corresse: “Be’, sì, qualcuno, ma non troppi, sai? Chen, mi dovrai fare delle domande un po’... diciamo compromettenti”. Lo mandò via dopo avergli appoggiato la mano sulla testa. Trascorsero le poche ore che rimanevano prima della dichiarazione-rettifica a stilare un comunicato congiunto per la stampa e si chiesero come dovevano vestirsi per l’occasione. Lui optò per il tradizionale abito monacale. Mr Hu prima indossò un tubino bianco lungo fino al ginocchio; il sorriso sornione di Lui lo convinse a vestirsi più adeguatamente, ma insistette per tenere i sandali. Ma non tutto filava liscio con la segretezza: qualcuno aveva passato la notizia alla stampa e dei lanci di agenzia avvertirono dell’avvenimento. La notizia si

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sparse nel mondo incredulo. A Dharamsala furono installati dei maxi schermi nelle vie; oggetti “made in China” furono esposti in vendita dovunque. Arrivò il giorno! Lui entrò per primo nel giardino e fece un po’ di fatica a salire i 108 cuscini. Hu lo seguì a testa bassa con alle calcagna il mastino tibetano che lo aveva seguito da Namtso -lo aveva battezzato “OssoFelice”-. Il traffico fu bloccato dalle troupe televisive, dai cortei di macchine dei diplomatici e dalla gente comune -tibetani e Han- che scherzavano fra loro felici. Molto lontano, capi di stato seguivano con attenzione l’avvenimento nei loro uffici: le guerre si fermarono per la giornata e sembra, da fonti non verificabili, che persino a Tora Bora qualcuno seguisse con interesse lisciandosi la barba. Mr Hu prese posto ai piedi del trono e fece un cenno a Chen che siedeva di fronte. Chen: “Abbiamo sorvegliato le tue attività negli ultimi decenni e abbiamo notato, direi con disprezzo, che non ti sei attenuto ai princìpi egualitari tipici del socialismo. Cosa hai da dire, traditore del proletariato?”.

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Hu: “Mi sono lasciato andare alla sete di potere e comunque pensavo di fare del bene al popolo facendo delle innovazioni”. Chen: “Chiami innovazioni la Coca-Cola, le prigioni politiche, la pena di morte, i pop-corn e la repressione delle etnie? Confessa! Sei colpevole e devi essere punito”. La sua voce aveva assunto un tono stridulo, faceva sul serio! LungTa gli si avvicinò sussurrandogli qualcosa nell’orecchio che lo calmò un pochino anche perché Osso Felice cominciava a ringhiare. Hu: “Confesso i miei errori e chiedo clemenza, la mia punizione sarà quella di riaccettare con tutti gli onori Lui e la gente che è dovuta andare via a causa dei miei errori. Comunque non solo miei…” aggiunse sotto voce. “I monasteri saranno indipendenti e gestiti dagli abati, le foto di Lui torneranno a rendere onore a questo paese”. Gli spettatori erano allibiti; molti si fermarono con il succo d’arancia vicino la bocca -offerto da ragazze tibetane in costume-, non sapendo cosa fare. Chi lo seguiva negli studi ovali, rettangolari o di qualsiasi altra forma si bloccò con la bocca aperta pensando alle conseguenze economiche.

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“Che sia un monito a tutto il mondo che l’amore e la comprensione sono il traino delle economie globali. Da domani non mi vedrete più, ma tutto quello che ho detto rimarrà definitivo”. Guardò Chen con occhi freddi. Chen annuì. “Passo la parola al Venerabile!”. Detto questo sedette per terra vicino a Osso Felice, allungò la mano, prese un cappello conico con su scritto ASINO, se lo mise in testa e guardò in alto. Lui fu di poche parole, troppo commosso e incredulo: “Che dire! È commovente sapere che oggi a causa di quest’uomo molte migliaia di persone saranno felici. È un esempio di come ci si può redimere e riconoscere i propri errori, e chi dice di non averne scagli il primo momo! Anche io ho delle novità. Tornerò a vivere nel mio palazzo ma non sarò più un leader politico; mi dimetto in questo momento”. A Dharamsala ci fu un lungo boato nelle strade con voci che dicevano: “Speriamo che questa volta lo faccia sul serio!” oppure: “Non è possibile, e noi?”. Continuò: “Non farò più vita pubblica e le mie reincarnazioni finiscono qui. Andate in pace”.

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Il silenzio pesava come piombo nel giardino. Mr Hu si alzò di scatto perché gli sembrò di vedere fra la folla uno tipo hippy americano con capelli lunghi e veste di cotone bianca che gli sorrideva e gli faceva un segno di saluto con la mano, e gli sembrò di vedere una donna con tre denti d’oro che gli mandava bacini sulla punta delle dita, ma mantenne la sua proverbiale freddezza. La folla sciamò verso i cancelli di uscita cercando di arraffare le foto di Lui che venivano regalate con autografo. La notte fu illuminata da fuochi d’artificio nella piazza antistante al palazzo e il giorno dopo non un soldato girava in città. L’ultimo ruttino di uno dei paesi più potenti del mondo fu fatto e recepito in tutti gli stati. Mr Hu e Lui si trovarono nella cameretta nel monastero di Ganden, con l’abate che abbracciava e baciava le guance paffutelle di Hu. Gli offrì persino un gin tonic e sorridendo gli disse: “Sarà l’ultimo della tua vita degenerata”. Hu abbassò gli occhi e vide un maglioncino giallo fatto ai ferri e un’altro pezzo di cotone bianco. Sospettava chi potesse essere il donatore del pezzettino di cotone, ma il maglioncino? Chiese all’abate che rispose:

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“È venuta una donna e ha chiesto se potevo posare questo maglioncino anti-nebbia nella tua camera”. Mr Hu lo prese in mano e da dentro scivolò un bigliettino cosparso di olio di sandalo. Lui girò lo sguardo per non imbarazzarlo mentre leggeva: “Arriva da Shigatse. Ricordi? Possa scaldarti per molto tempo come tu hai scaldato il mio cuore con la scelta del libro. Ti aspetto per il ghiacciolo alla menta, me lo avevi promesso”. Quando gli occhi di Hu furono asciutti e smise di tirare su col naso discussero sul cosa fare. Fu Hu a lanciare l’idea. “Noi siamo come due pesci rossi in un vaso. Siamo circondati dal vetro del potere e da fuori tutti ci possono guardare a volontà. Non possiamo scappare e cadiamo nella trappola tutte le volte che ci mettono un po’ di cibo sulla superficie dell’acqua: il cibo del potere. Noi saliamo per mangiarlo, e tac!, siamo presi nel vortice della mondanità. Pesci come noi dovrebbero nuotare liberi e felici nelle acque dell’oceano, giocare sulla cresta delle onde dell’indipendenza politica e spirituale. Per questo ti propongo un lungo viaggio lontano da tutti in pellegrinaggio. Io sarò il tuo servitore e Osso Felice verrà con noi”.

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I giornalisti fecero la coda sotto il palazzo per un’intervista, ma gli veniva detto che Lui era in ritiro. Arrivarono telefonate da tutto il mondo, ma veniva detto che per il momento Lui non era disponibile. Anche Liu cercò di raggiungere il marito sul cellulare ma riceveva la risposta: “Out of credit”. Partirono di notte a piedi verso il nord e nessuno li rivide mai più. Alcuni dicono di aver visto sul monte Athos una coppia di eremiti con strane caratteristiche somatiche e un cane molto grande; alcuni videro una coppia formata da un monaco e un personaggio vestito di cotone con un cane che davano insegnamenti in Afghanistan e a Tora Bora; turisti raccontavano di una coppia felice che danzava fra le dune del Taklamakan dove l’acqua riprese a gorgogliare; alpinisti videro la stessa coppia in compagnia di un cane che indossava un maglioncino giallo in una caverna sotto la cima dell’Everest dove sventolavano la bandiera tibetana e quella cinese -la grotta non era mai esisistita ma sembrava essersi auto-formata; alcuni videro due strani personaggi seduti immobili, per mesi, sulle rive del Nilo.

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*** Con un ultimo fulmine e un tuono assordante che rotolava giù dal Dhauladar il temporale lasciò la valle, e un forte vento spazzò via le nuvole, mostrandomi le stelle che brillavano dietro di esse. Era durato quattro o cinque ore, il tempo che ci misi a scrivere questo racconto. Osservai il mio cane che russava, incurante dei pasticci che succedono nel mondo, e mi addormentai pensando a Mr Hu e a Lui che correvano felici. Forse un giorno li vedrò anche io da qualche parte..... in un mondo cambiato! Quando mi svegliai al mattino, Jampa si presentò al mio letto con un osso in bocca… indice