Marina Pizzi - Inediti

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INEDITI Il Cantiere delle parvenze Marina Pizzi

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Marina Pizzi - Inediti poesie cantiere delle parvenze

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Titolo: Marina Pizzi - Inediti

Testi di: Marina Pizzi

Fonti: Il cantiere delle parvenze, 2010

Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

Poesia2.0

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MARINA PIZZI

IL CANTIERE DELLE

PARVENZE

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1.

la mia sciarpa è un tragitto lontano

uno scalmanato talamo di nebbia

dove è agreste il cielo e logica la tana

di perdere la vita.

rotta anemia della città calva

senza nidi di cuccioli cantanti

né elemosine badanti il veritiero

abbraccio. s’intani il mio straccio

che non vede né attende nulla.

la maestria dell’alba bada a non

gridar di troppo le rondini bambine.

le grotte scialbe come fandonie

dove ristagna il secolo al petrolio

espanso. la fatica senza saliva

delle mie abitudini-arsure su

per l’acredine di attese morenti

nel trotto della pupilla impazzita.

il lutto m’incolla la salsedine addosso

questo proverbio che non serve

a consolare la resina del sangue.

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2.

quale sarà il chiodo che mi sonnecchia dentro

che vitalizza l’edera della malasorte

che si diverte con un attizzatoio

verso la zattera che mi malmena

tetra malizia corvo miliziano?

invano l’azione del tubero rinasce

al cielo, qui la penombra perpetua

della slitta chiama l’oasi ad appassire.

quale paese d’asma andrà vicino

al rantolo? perché qui le smanie

delle serve vogliono morire

di un attacco immune, colpo sordo

non imposto randagismo.

3.

falò di stoppie codici di cenere

queste livree già prospere di nulla

elemosine cortesi. così resiste

l’alibi del bilico, la cornucopia placida

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del gatto musicale. osteria museale

il tuo sguardo non sotto teca ma

veliero darsena. ho comandato l’astio

di non venire approdo di se stesso, ma

diluvio t’amo modo d’avvento-accento

ludo per sempre. brevetto di comari

la mattina quando s’impara a venire

al mondo sopra faccende di dondoli

senza doli. dove sei tu re minimo

e prezzemolo, ambulacro e molo

per remi divini. aiutami a campa’ con

questi nodi duri fatti di gessi mortuari.

4.

ipotesi di cervi mancarti

sotto lo zero che mi campa

capanna di brevetti andati a male.

la spalla del silenzio è una bestemmia

darsena, una spallata al sudario

che non vuol morire la rendita

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del datario. dove non sono vergine

m’incanalo lungo gli stemmi che

non danno affetto. io poveretta

la militare stoffa che fonda ruggini

e cipressi. litigio di remore la stasi

di non concepire più. in vena ho un

amore di distanze intatte meraviglie.

ora m’acquatto e ti dimostro strenne

queste braci di quaderni di civiltà

dismesse.

5.

attorno alla galassia del distacco

piango la rotta di non saper la rotta

né la perfetta eresia del vento.

gerundio di comete l’inutile avvento

quando la rupia è la miseria del certo

lo sciacallo avventa lo sparviero.

la minuzia della rondine commuove

le ventole che aizzano il fuoco

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per la felicità comunque.

in breve sullo scempio del ristagno

la malinconia del cerchio non è divina

né pone eclisse una calma darsena.

6.

libagione d’àncora non so lasciarti

nel losco del tombino della storia.

7.

agorà del sale

palude della gola

dove il ludo è logica del gelo

e la festività dell’ombra

abbraccia le penombre

e le novene delle sabbie mobili

con la paura sempre erettile

e le stagioni sporche

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nel credito del pane.

fragilità del sacro strazio

startene ridotta

zona di farfalla

insidia della falla.

il matrimonio sragiona alla parete

del fatuo nome, questa radura

patrimonio d’scia.

8.

immortalità sacrale l’astuccio della nebbia

dove la lite è un fato di ristagno

e si comincia a sgretolare il torto

della faccenda d’ascia.

criminalità dell’angolo

custodire a rovescio la camicia

sotto il gelo della storia darsena

e la cometa corrotta in un sasso.

dolce stile anemone di bello

questa versione tattica del vivere

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didattiche le curve dei mattini.

9.

nubifragio del tatto starti a guardare

sotto le unghie che scavano nei baci

unguenti di salive per le resine del dare.

scompiglio a mare aperto l’inguine

questo pagliaccio che stempia il cuore

e nuda le maree con uno slancio d’epoca.

intruglio a fato avvinto il tuo ristagno

stazione sul convulso pernottare

arie palustri e darsene di lutti.

gerundio del pane nero questo discapito

nottambulo balordo acre di flutto

dove annerisce l’apice del fato.

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10.

galateo di stracci rupe nel petto

stare a sentire le prigionie d’angolo

dove si sfama l’attrazione darsena

se la salsedine stempia le persiane.

11.

il gallo della foce

è senza canto

né giostre da sedurre.

qui resta il muto occaso della notte

senza delta d’abbraccio

né cintole strette la vita.

il commando dell’alamaro

è la paura darsena

la rotta di concludere con smorfia.

agreste la conchiglia di lumaca

seduce la scia, incrocia il singhiozzo

al sorriso. là la ventola del baro

aumenta l’onere senza onore.

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ti bacio con le carezze degli esclusi

le voglie amare dei reclusi

le stimmate di guardia contro il portone.

vedi tu di amarmi con le malizie

di ciechi dove nessuno è vivo.

12.

in te nel decesso avvenuto

disincanto magnifico vederti

guardarti smotivato nelle palpebre

chiuse. morto così mortale da far

paura questo tuo linciaggio senza

pietre. è un peccato sapere quale

flusso ti calcò nel letto del tuo Ulisse

non più affascinante di un rovo. morto

nel male di maggio trito di rose

la tavolozza bigia dell’accattone

al fondo della vita violata grazia.

dividendo di lettere guardarti

quando il gerundio non permette più

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la giostra monumentale la mela minima.

13.

qui nel male che acciacca le persiane

rimanga un verbo al sì contro la caccia

che le ali al terreno incolla

e fa proseliti le meretrici polveri.

qui si succhia un lingotto di dolore

per le scale vuote dove le crepe

spergiurano i diritti delle rondini

in un chiodo d’occaso ho messo il vólto

il viso vòlto al disbrigo di non piangere

le rotte attente al timone timoroso.

in te se guardai la luna piena

era un amore tacito d’eclissi

uno stilema senza abbreviazione.

le mondine superbe delle gestanti

stanno nel verbo d’acqua la vita

la bella vita senza quarantena.

le credenziali nere degli specchi

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mettono a lutto le dimagrite stanze

svezzate per spezzare ogni sorriso.

14.

è un secolo che mi ostino a perdere

il posto. e mi oscilla il cuore in un pilastro

lapidato invano. qui la corda della foce

non marcisce, il marmo aderisce

alla lapide già morta. qui il mio contegno

è labile maestro d’asme, una caduta e un lancio

braccano sempre la nuca da abbattere.

le eleganze del ballo non tacitano

il titano del portone che vuole chiudere

ciliegine e pilastri questo stretto sistema

della stempiata arringa che non convince

le regole da ammettere. è già gerundio

il tempo che da sempre progetta le farfalle

che non vengono né le oasi del brindisi

beate. mo’ di calunnia l’apice del cielo

a nulla vale una formazione accademica

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per le lentiggini di satana tarato e forte.

annullami la spalla che codifica l’altezza

e le missioni di tattiche benigne

dove la fortezza smuore e smorza

il ponte levatoio.

15.

foschie sul seminato quando l’incontro

è un trovatello d’ascia. qui la cupola

rende stupido il cielo. iettatura d’asma

passare in ospedale per vederti

passare. discorso d’appendice l’urlo

di morire o solo il sospiro rorido del rantolo.

qui s’impiglia l’eresia del fosco

il nano triste tristissimo gigante.

a quale malia porterò la mansione

del secolo? qui sul cornicione della storia

c’è l’emorragia di cadere. non basta l’erta

per sfinire il fianco o la cometa fradicia.

nessuno è indispensabile nel cheto del frutteto

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questo zucchero apolide lasciato a marcire

sotto la tetra forca dell’inutile.

16.

qui si scarta il tempo in

un breviario satanico

il corrimano traballante

luciferino l’appoggio

della mano. si è diabolici

per la paura di cadere

di andare a battere contro

la nebbia piena. è un tramortito

nome che ci scorta dentro

le fiaccole dello stillicidio

ciclo assassinante. nella realtà

del muschio che ci rasenta tutti

sta la frottola del primo marinaio

la gerarchia dell’apice in condotta.

in un quaderno di rese e rette vane

la giunonica malizia dell’orologio

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quando giocare non simula la vita.

qui si scarta il tempo in

un breviario d’ascia.

un canto sulla soglia del lamento.

17.

languori di paese quando la canicola

langue gli archivi di finestre

e le guardinghe foci del nulla

rimano le giostre con le culle

nemiche di rovi che tramontano

le genie del verbo. con i tetti spioventi

il giramondo guarda in alto così rispetta

il pio pavoncello in mezzo alla piazza

vuota: si lascia guardare tra gli scuri

che vegetano la polvere. il titano del sale

è un orafo paziente dove la vera tana

si fa bivacco di senza patria attivi.

l’elemosina del fulcro chiama la creta

ad allestire un capanno per uova fresche

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e la bellezza del cuore è sindrome

d’immancabile fola autrice del fausto

distacco dal corpo dove l’indice muore.

18.

un giorno qualunque in data di catastrofe

mi ferì la questua sparsa sul sagrato

la luna giovane senza la fidanza

di competere con la nenia del cipresso.

meringa di sale il velo della sposa

quando la gara di guardare il vero

genuflette le prassi delle ruggini.

titano di giostrina stare al mondo

con i bambini che tifano la rima

di giorni immensi lussuosi d’arca.

marette di coriandoli vederti

il giorno chiuso d’alamari pessimi

dove i bambini dolgono svegliarsi.

le libertà conchiuse delle foglie

arbitrano liquami di dolori

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i morti offesi da un quasi pianto.

così mi va di vestirmi in un nodo

di malta per lapidare il sole

combustione di luce la conchiglia.

19.

crolla la cialda mare di sterpaglia

si fa l’addome antro di responso

verso quel cuore che scodella abissi

resina contumace per le vedove.

di poco talento il varco delle nuvole

chiama quel dove che non fu cortese

verso l’avamposto di coriandoli.

avvento di edicola guardare il mondo

nel guaio della colpa data

senza altezza di accusa. in mano

all’impotenza della cantina si decifri

la lettera d’enigma, il millantato

credito del coma lacerto.

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20.

dio mangiucchia le dimore d’alba

dove le prove del baratro si trovano

valenze dell’invano per i profughi.

in una notte di baveri e fiocchi di neve

la cometa fa piangere i vigliacchi

le teste giovanili ancora per poco.

in mano alla bellezza di vederti

resto blasfemo nonostante l’eremo

con la virtù ciondoloni del salice piangente.

con la virtù sciocca dell’estate

voglio i ladroni che spacciano conchiglie

gente dappoco e rantoli di polvere.

21.

in un cielo di scoscese balbuzienti

venne la daga delle scosse eclissi

la vena esangue della gioia vuota.

in mano alle vedute delle stelle

si comportò l’alunno un veritiero

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enigma: venne la madre e gli fermò

la nuca che lo alzava in volo.

encomio ad angolo il massimo della gioia

per questo coma che si incolla tutto

verso la staffetta di farsi termine.

tutto si allunga in un eremo di stelle

dove le gioie frugano i dolori

per la gara di fuggire il mondo.

dove dappresso una storia vedova

il gran sentiero di perdere le staffe

con le ginestre che piangono di ruggini.

22.

va via la vita senza ricordo

se il dondolio dell’etimo non rassicura

che ci sia rimedio. un intralcio di

condotto dover sopportare il no.

e la venia ancestrale non serve

a salvare le povere bestiole.

qui è dannato il salario e la vendetta

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non serve. si piange il preludio e

l’epilogo. chi resiste è un filino-darsena,

una donna in stato interessante dove

la nebbia frana-sfratta l’orizzonte. qui magari

le gesta delle rondini fanno stupore

per ingrandire un seme di meraviglia.

23.

mi sarà d’occaso il mantice dell’ombra

la bravura di saltare il fosso.

così nel mare se ne andrà la pioggia

per gentili approcci e conchiglie femmine.

mattino mattino la guglia del santo

quando s’inverna per apici pigrizie

e zonzi senza pregi. l’ilarità del mare

è una cometa panica. mentre morivo

in una stanza uncinata a discapito

del cigno che ci crede almeno all’amore.

il lacerto dell’ombra issa se stesso

verso la sequenza della rovina.

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24.

in data di eclissi in data di acrobata

so far centro al modo della scuola

quando s’impara veramente il sì.

ho pettorali di arrivo come incidenti

quando la barca si genuflette al mare

e tutto sembra carico di sassi.

per desiderio di pace piango la fune

che stringe la gola con tattica di nebbia

nella paura che sconforta il calice.

si va così bacando l’obiettivo

questo stradario che non serve a nulla

ma osanna le porte che fanno indice

sotto promesse succulente.

la paura del fato è più che mai ardita

verso i giochi delle lune piene

ma il pube si sconnette dal mondo intero.

la grondaia nubile di rondini

duole la bile delle notti insonni

verso gli scavi che si fanno a letto.

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25.

marette di elemosine cullarti

dentro la febbre di guardarti

per sentire il guado che ti voglio.

rovo di rose l’imponente morte

in casa del ciliegio generoso

quando l’avaria bacia le crisalidi.

nulla si placa nel gerundio d’ascia.

26.

amor non ebbi che lasciti di nebbia

salutari ammicchi con le rondini tate.

e le ingerenze del panico sul sale

resero regale il buio. qui in collina

si sposta la vendetta di una qualunque

stanza addetta alla finanza dell’aquilone

che non vola. la falla del bivacco

raccomanda dadi per le giovani

ombre. si recita addosso a un palo

penzoloni senza speranza la cinta

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della censura. qua si sta a casa con

l’aureola dentro un cassetto e il peccato

mortale nel pugno della resistenza non

condivisa.

27.

irata pioggia

bacca di nessuno

sarabanda d’arresto voler vivere

cadenza d’àncora la darsena

vitale sul detenuto.

l’abbecedario al centro della stanza

lucra la guancia in un sorriso

in un commesso di rara scienza.

la luna sfatta a grappoli d’inedia

colpisce le lentiggini del mago

la libertà costretta della falla.

la giacca appesa all’origine del chiodo

sfalda la riva in un agguato

forse senza cuore della cerchia.

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28.

tu non sei badato dalle fionde dell’aria

né dal continente che ti ammalia tanto

tanto da renderti atleta di nuoto

per lo stretto da superar tranquillo

nonostante il panico del dado tratto

tra eresie e simboli divieti.

qui la morte in ernie di collaudo

(soqquadro al patrimonio che non c’è)

ha la peggiore fiaccola del tempo

il re disgiunto dal regno e la nomea

del tragico paese con le ceneri

in giogo d’edera. la maretta della darsena

riposi per convalescenze di buon augurio.

29.

la luna è una pozzanghera di nervi

una bacchettona che si rifà il trucco

sotto gli occhi atavici di vivi

in attesa di morire. le lentiggini

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del fato non ribellano la pelle

intrisa di giovinezze ipotetiche.

qui la corda salina del costrutto

impiega il tedio di mattoni pagani

per preparare tane senza amore.

le penombre cortesi delle cameriere

offrono letti intonsi asciugami canditi

per un amore in forse. nasce la lebbra

della villania del sole. scorciatoia

d’occaso cadrà il mio petto stanco.

30.

la notte del dispaccio

fu la pertica di morte

la stasi vuota di non imparare.

cumulo tardivo questa gioia

da decesso avvenuto

finalmente in circolo la cenere.

l’avaria del setaccio intasa

l’università dell’equivoco dolente

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dove la voce è simbolo fendente.

impara da me che ho singolo il dirupo

e rubo il timone per ingannare il boia

da sotto la recita del nato vivo stagno.

ogni giorno un bastone d’ulivo

simula la storia dell’enigma

per mantenere intatta la cisterna.

non basta il cielo per credere in dio

né la ragione per commettere la favola

di ridanciane oasi o forti simulacri.

31.

come faccio come faccio come faccio

a scardinare l’ora a rendere ponte quest’an-

nata di fuoco piatta alla cenere. l’ossario

della fronte ha la vena del dolore

l’aria triste di perdere la tastiera

con la visuale stramba. in meno di un centesimo

ti rido la figliolanza dell’acrobata

badato dalla resistenza dell’equilibrio

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al brio sciupato della rotta nuda

senza bussola. la sola strofa che potrà

servirmi sia la foggia giunonica del

bacio la cialda della giovinezza in pantofole

per vezzo. in realtà la carie non è avvenuta

ancora e la bellezza è la porcellana del

secolo, vizzo semmai lo stradario della

stazione. è qui la bara della tana quando

fu dolce cedere le zampe per agguantare

il sonno con la cometa sul lucernario. mo’ è

rasoterra restare per resistenza e tento.

32.

nel lutto che fa cipresso la mia stanza

chiamo la rotta rorida di sangue

per un segugio buono da ingrassare

per il palio d’origine. qui non basta

la tresca d’alambicco per mostrare

la falla. l’inguine atavico del dubbio

ha circonferenze d’abaco numerico

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senza fendere la rotta. qui s’incolla

la nomea del peso verso lo stolto

crollo. è già oggi che vado a

morire da sotto il pendolo del dolo.

la voce fatua della tua disfatta

insegue fasti di delirio in indici

manomessi. qui sconnesso il rito

della sfinge simula chissà.

varietà del sale la scalea del sogno…

33.

la lira giovane del compianto acrobata

è caduta saltandosi le corde.

la collana dell’infanzia

in onda con la sacralità del veto.

giunonico potere delle ginestre

nel dirupo cronico del maggio.

rigagnolo di stoppie questo resistere

calibrato dal rango della polvere.

al limite del sacco la barriera

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dà muscoli al pianto alla condanna

di erigere scavi per possenti

dighe. la cara madre del caso

scimmiotta bambine cattive

verso le tegole del baro onnipotente.

minuscolo l’encomio della falla

uccida il diavolo del verso, prigioniero

libero.

34.

non resta la palude che un gentile accenno

ti rimanda a scuola la meraviglia

di capire l’antefatto e lo stilema

entrambi fratelli della rotta

verso il coriandolo reciso.

la musa dell’abaco ti dice

di tornare al ventre della sapienza

dove la madre è un tondo di sottana

e l’alamaro reduce di guerra.

in fondo alla cantina del tuo abito

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abita la spocchia di sentirsi vivi

soltanto dalla resina del sale.

un silenzio di corda dà l’anfiteatro

del piangere. si spreca amore

per un cortile corto cieco di rondini.

non resta che un saluto errabondo

dove l’origine giochi a far di scarto

finanche una cometa di volontà.

assale amore l’erta del commiato

nulla basta a fabula di stelle.

35.

notiziario d’addio fremere le onde

e le chimere in branco sono asfittiche

bambine di colloqui vanitosi.

la lettera marina delle comari

non salpa Ulisse né il partigiano.

male ti dico il fatuo delle stelle

e le ciliegie amare della scorta

da sotto l’elmo della micidiale

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guerra. in mano alla stazza dell’acquitrino

gironzolano le penne di non scrivere

che algide vendette solamente.

36.

cruccio e limone riparar le stelle

quando qualcuno illuda di madonna

la colossale ingiuria della frottola.

moria da ieri perdere fortuna

se genuflessa la ridanciana gioia

sibili il sudario di rovina.

marchiata a dito l’anemia del bosco

di resine flesse per l’amore

di conseguita requie. è dì domani

di rendere la spugna verso un sudario

di sola cenere. maretta di soqquadro

imparentarsi troppo con le onde

così venute a emular lo scempio.

in pace o per rivalsa sia perpetuo

l’ardore del diritto di non piangere.

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37.

l’alunno della sera

al venerando inchiostro

dell’odissea del dado.

che cosa è accaduto nel nerveo

bastone d’ulivo che rintocca

nel vento la paginetta stanca.

per maestro il guado d’occidente

dove si muore per certo

più della ronda a vuoto

che non incrocia che ceneri.

nel lutto di finestre fatue nulle di te

sta la pena del vortice

il compleanno caduco della bacca

d’esilio. il lamento della cena

quando compare l’orco del tedio.

antagonista il gomito di piangere

l’occiduo amplesso di non avere amante

né l’almanacco in cuore di faccenda.

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38.

liquida da me questo dolore in gorgo

questa mulattiera sfinita

che indaga le ninfette delle doglie

sotto il muro che esonda lacrime di polvere.

verrà la mente del velame antico

questa notte demente di agonia

dove è fissato il verbo dell’eclisse

la pattumiera antica della folla

e l’augustale freccia di resistere

impervietà di fato e di ginocchio.

missione dell’agenda stare appuntando

novità e comete per androne

quando a scrivere è solo un solitario

divieto senza fissa dimora.

39.

iride e baraccopoli vederti

dentro il cinema della gioventù

quando era il massimo sgarro

Page 39: Marina Pizzi - Inediti

per scoprire la vita

per non drogarsi appunto

e finire sul marciapiede.

bello come una sfinge d’acqua

il talismano di credere

che sia silenzio la pergamena

del dubbio. qui sola a sbrogliarmi

strazio verso la pioggia che ne viene

su più di un santuario quando ne è

il tempo. tu credi che la tenebra sia

lutto, ma quaggiù più del lunedì

di fabbrica non ne conosco altre.

sforma un alamaro che sfoggi la

mia onta e per dirupo il sole. reca

con me l’anemone di mare per una

madre occidua. sta morendo. un’altra

cicogna per le risa dei becchini.

Page 40: Marina Pizzi - Inediti

40.

addio di guado amaro

la prospettiva stretta

per la volpe che scava

tunnel per l’altrove

per la vedetta del pane

che vuole la discola sporta

per gli alunni in piena

dove si scantona il vento

si fa di perla il sale.

addio sulla piena del sudario

dove arranca la rivoluzione della nuvola

presa laddove si rimpianga il vento

trito padrone di una giacca fiacca.

41.

indagine al sollievo vederti ancora

anima buona in codice di nebbia.

qui la balaustra che anima il confine

riflette la strada di chi muore

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nottetempo in cimasa con le rondini.

il muro gentile della patria

non rallenta la tattica del baratro

anzi si smuove in panico d’eclisse.

la nomea di reggere le tresche

abilita al modo della ruggine

sapere che si smuore solitaria

lite. l’abilità del sale è stare stretto

all’inguine del rantolo. giù di straforo

ho visto un dio pargoletto di sé stesso.

42.

mi si accorcia il teatro vado a rimorchio

nello scempio dell’indice ora ad ora,

altri serpigni casi di patema

quando si annuncia che la noia vive

vicina al pareggio con la cenere.

in realtà la recita dell’angelo

balbetta con i sassi l’impossibile

la lira sporca di liquami d’ascia.

Page 42: Marina Pizzi - Inediti

morir di noia come la testuggine

come le bambine delle dune vuote

tradotte dalle furie delle onde.

lo schianto delle vergini è una

marea rossastra, demenziale la gita

con le vertigini. in giacca sfatta sono

a vederti partire senza graffi fidanzati.

mi piace morire con la lanterna in mano

con il gruzzolo d’iride che mi travolge

e mi scontenta al fianco. è avvenuto

che domani mi sveno, mi tolgo i vestiti

vado nuda tra i cipressi che innalzano

i morti denunciando la nuca della carità

svenuta.

43.

in fondo al sale e all’incuria srotolo

questa faccenda che mi dà per vinta

anemia di un patto senza fronde.

agostano il contatto con la lupa

Page 43: Marina Pizzi - Inediti

che fa di me una donna sola

con mansuetudine di abisso.

parca animella senza risorse

so il treno che si spaura al vento

i sogni esuli di quaderni elementari.

le brecce delle rendite patriarcali

credono al panorama del futuro.

qui s’incoda la venia delle notti

fra pasquali randagi impauriti

scampati al sacrificio. non ho potuto

dire gol nell’indice del mortale.

nell’atrio che frastuona le finestre

amo l’arringa degli spifferi

le gaie stanze di chi morì da piccolo.

è tutto pesante, va via male.

44.

la noia dell’indice

questo elenco d’asma

contatore lapidario

Page 44: Marina Pizzi - Inediti

zonzo del conato

dove la nuca si strozza

e la candela traballa.

scatto d’ira saperti nato

sotto i conati della fronte.

malessere d’essere saperti in falla

nella lunga stazione delle elemosine

con canguri dal marsupio cucito.

45.

non acuire il giorno in un segreto

fa’ di me l’esperto di una conca

canterina e buona come l’infante

ridente alla materna ugola.

le travi delle giornate sono abbracciate

in tanti blocchi negletti

maestà del sale staffile d’unicorno

un po’ così non essere felice

sul dieci del salario di ventura.

Page 45: Marina Pizzi - Inediti

46.

le giacche del tuo affanno moriranno

sarai cheto crocicchio di ventura

senza paura tacita gioia

sotto l’emisfero del ponte.

in mano alla sferzata dei secondi

sotto canuti secoli e fondali

la cortesia del palio avrà per te

vittoria. si calmeranno le acque

del canneto per una scia di rendita

l’abitudine di strofinare la roccia

in cerca dello spiritello onnipotente

verso la forza del nirvana in testa.

47.

ho conosciuto l’esule e la vetta

del corrimano all’ultimo piano

dove s’incarna il rito della palla

che scorre lungo il cornicione.

la malattia del rango è una manata

Page 46: Marina Pizzi - Inediti

che accerchia nel bavaglio la lusinga

di un patto con la morte.

in questo momento credo che la rondine

riporti il pasto nel becco per i figli vuoti

e le comete rendano balsamo la fronte

dove nessuno più pianga per un appuntamento.

le morie dei calchi sembrano cadaveri

da sotto le palizzate delle coliche

di fraticelli senza monasteri.

così i pazzi si drizzano nel tempio

dell’altare sgombro vacuo gomitolo

di storia fatua.

48.

quale adiacenza d’acqua forgiò l’amplesso

nel verbo vuoto della sfinge nana

se la penuria del bavero nel vento

di nebbia oscurò gli angoli.

nel giaciglio che prospera i seni

c’è il cammino dell’oasi che stana

Page 47: Marina Pizzi - Inediti

il travaglio del mare con la luce

nel luccichio del sale la rivolta.

quale condanna elemosinò i frutti

nella genia del male che dileggia

le trombettine ilari del caso ammesso.

a me non torna il conto della scommessa

tanto il divario della trama al teschio

dove si arrende il flusso di marea.

unità del cappio starti a badare

da re fasullo che non sa smentire

le rotte delle nuvole più ginniche.

49.

mi somigliano la minestra e l’insidia

questo miraggio darsena

che scema il senso della resistenza

la malia del sale senza sete.

in te che vivo di penuria e fiele

resta la nomea del fango

il grillo mattutino che poliglotta

Page 48: Marina Pizzi - Inediti

inventa le battute per la tana.

così in mare si respira l’onta

di bestemmiare le onde di risacca.

50.

edizioni di siepe poter dormire un poco

sotto il prologo bello del tuo amore

avvistato a vista di vedetta

ladruncolo colpevole di mito

sempiterno vociare tra le leggende

di chissà che gusto per la donna piena.

in fondo ho un aquilone che non sa volare

né fondere le stelle dentro una cometa

ilarità del cielo nudo doloroso rospo

fraterno di brontolii senza senso.

Page 49: Marina Pizzi - Inediti

51.

Il volo

accorri all’eremo del salto

fai volarti per bene

oltre le manciate del riso beneaugurante

le stizze dei bambini che non possono

emularti con le stesse birbe.

là si estende il sillabario del dado

l’affresco bello e il musivo ordine

dell’aria di traverso dove non temi

le rondini che schivano a paradosso

i cornicioni immobili. le premure

dell’abaco non daranno aceto

né balbuziente la rotta dell’asta

ti porterà di sotto, ma oltre fionda

per la schicchera del volo il tuo sempre.

Page 50: Marina Pizzi - Inediti

52.

è la meringa nera quando tu ti allontani

fato sugli occhi che si prestano ai muri.

53.

si va a camminare

per mia madre è un polpaccio di cemento

dove si placa la mina dello sguardo

e l’elemosina guadagna una caduta

panica. in una rotta di alamaro vidi la spada

passata sulle terme del poeta

a rovinar vacanza. il periglio del marsupio

ruzzola se stesso verso il rivierasco scopo

di scovare il lutto della zolla e la favolista

stazione del chissà. la giostra della calunnia

ti sarà incompetente, salvo il fatuo avvento

della marina d’onda sotto il portico cortese.

Page 51: Marina Pizzi - Inediti

54.

nella bara è chiusa la fiaba

il fuoco non la connette

per liberare la cenere

resta tatuata bolla di bagaglio

verso un malessere da cominciare

libero comunque di soffrire

l’entusiasmo della balera comica

quando da ragazza tua madre smussava

le radici del cancro. la giravolta del panico

restituisce un gioco contro il coma delle onde,

le gerle timide del soqquadro quand’eri

bambina e bivaccava amore sotto la cimasa

dello sguardo primo. ora è rigagnolo di stagno

visitare le veneri cattive così giovani

da far vomitare. si decima la ronda,

piange il cannocchiale ferito dalla luce.

qui si gemma un’aurora di guerra

e le persiane non riconoscono nessuno.

Page 52: Marina Pizzi - Inediti

55.

la rotta del tranello è stare in barca

con l’egemonia dell’anello che fa vortice

accanto alla gimcana che non tollera

bivacchi con vedute più benigne.

l’era corsara catapulta il sogno

verso il vocativo delle rondini

con il forziere di regalar le stelle.

56.

e tu vedrai di me l’ora asciutta

quando non cava la rondine il suo nido

e tutto muore in un conclave sciatto.

la casa è chiusa per inginocchiare i vandali

questa primizia che fu un’altalena

una smisurata alcova di baci primi.

così sfinisce il mondo la sua specie

questa minaccia languida di sfinge

una cambusa con viveri a bordo.

di te intrattengo la voga e la sirena

Page 53: Marina Pizzi - Inediti

questa amnistia vitale quanto un abaco

cortese con le sfingi che non protestano.

57.

piange l’orefice che si pentì dell’amo d’oro

per adescare un povero pescetto

aguzzo solo di comete.

con la morte ai bordi del letto

si avvicinò la broda della stirpe

questa gente che vedi dopo morto

segnata dalla croce che non porta.

in mano all’abaco che gioca con le creature

c’è un avvento che spia per ricontare

tutte le aureole dei furti.

in mano alla transenna della stirpe

parte l’abbecedario del cattivo membro

il botanico fannullone di aver da piangere

chiunque in testa abbia un anello vuoto.

l’anemia del codice è una sabbia

blasfema quanto un antro di vano cuore

Page 54: Marina Pizzi - Inediti

del tu entri ma non esci più.

58.

l’unica tenerezza in un caos di addobbi

tu che prometti di non essere vile

sotto l’alcova di tua madre ormai zoppa

tu che tremi l’alunno che non fosti

e le sirene zoppicano per spergiuro.

il ladrocinio del ventre è ormai abitudine

di donne arrese che non sanno il palato

quale che sia la norma per genuflettere

pietà. una solitudine immensa è stata

capita da un intruso. qui mi adagio

in un incavo di stornello per abbeverare

i più assetati. la cavità del sale è un alambicco

di passato. qui s’inverna nonostante il sole

e l’Adalgisa delle donne di servizio

non possono la giara dell’olio fine.

Page 55: Marina Pizzi - Inediti

59.

se riscrivi il mondo in un licenziamento

troverai la barba vuota del pagliaccio

la gimcana triste del collega morto

l’ilarità cattiva del dolore

dove la madre è un’oasi di ghiaccio

e la farfalla un’epidemia di lutto.

qui si gioca nel limbo del cratere

per una marea di cancro la furbetta

sabbia. in tutto c’è da piangere chi

venga caduco o brevettato sulla darsena

del senso inavvenuto. non so cantare

la doglia del pascolo davanti alla scogliera

del miracolo del lascito. venero la venia

di farmi eremo soltanto, tanta cordialità

la veglia del baratro dove per simpatia

finirò la cantica del petto con il plettro.

ridere di me è una sagacia nuova

una ventura a rendere la fiacca della faccia.

Page 56: Marina Pizzi - Inediti

60.

accorri al frutto che ti darà mestizia

così come il cipresso al camposanto

o la cometa travestita da acquazzone.

appòggiati allo zigomo del pane

momento di rancore d’àncora

il bimbo al sillabario che non spiega.

traduci le gimcane con le fosse

ad attrice la canicola del sale

o le pattuglie in giro di catture.

emergi da te un filo d’acqua marcia

una ciliegia in giro con i còmpiti del lieto

una destrezza ad eremo e calvizie.

incedi con la vanga della gaiezza in gola

una lucertola in fase di scompiglio

verso la creta che ha cuore senza paura avvezza

a se stessa chimera di bestemmia.

Page 57: Marina Pizzi - Inediti

61.

in un selcio di naufragio ho visto l’onta

di perdere la vita per un mulattiere

cattivo con il mulo bimbo leggiadro.

qui la casa del Pascoli è un cimelio

infantile quasi una cometa

per liberar le rondini e le campane

in mezzo agli scarafaggi nei catini

da toilette. qui dove il freddo annusa

nei bracieri c’è l’inganno dell’erta di

morire cane nel muso della terra.

62.

una frase di disuso

usa vivere in un ricatto d’ombra

dove la ciminiera è la fata della penombra

per scoiattoli che bramano ciottoli

di buon cibo. un tributo per amore

è un occaso che brancola nel buio

delle storie eccelse di altri. nulla inneggia

Page 58: Marina Pizzi - Inediti

la marea dell’alba quando la brina stagna

le farfalle. attendere il sole è una fandonia

alta. così si brevetta il passero morente

la recidiva agonia dell’afa

quando il cipresso non ce la fa.

ad uncino la rotta della siepe

prende in giro l’asilo di bimbetti

al chiasso della gioia ma è la lotta

principiante al fosco. dove si allena

il bavero assassino. qui domani saranno

le sragioni di perdere di tutto.

63.

la lucerna della sera

quando il tarlo incendia

la rivolta del pane azzimo.

l’unità del vuoto

trova cancelli abietti

e per domani è prevista la crociata

di spianare il vento

Page 59: Marina Pizzi - Inediti

senza riccioli dispacci.

il baluginio d’avvento

consacra pargoli lietissimi

senza i lutti delle falde acquifere.

l’eredità salina ha sentenziato

gli zuccheri materni. è moritura

l’alpe senza foce. in uno strappo

sul rammendo ho visto morire

il salvacondotto favolistico.

tu non parlerai le lingue crepuscolari

quando le scuole rammentano le lapidi

e le ginestre soccorrono il deserto.

64.

è finito il tempo e la corteccia è vuota

un passerotto cinguetta disperato

dentro la guazza di un postaccio arato.

dimentica di me che fui la folle

baldanza di un tramestio per la gioia

quando le messi si danno ad una ad una.

Page 60: Marina Pizzi - Inediti

le corse trappole del male più possente

raggiungono le femmine dell’incrocio

verso le mine della guerra scorsa.

qui s’intromette il vuoto della sfinge

questa calura misera d’esilio

quando le campane suonano le credule.

una ginestra chiama l’eremo di sé

verso le gimcane delle zolle

inopportune al vezzo dell’infante.

65.

sperduta anagrafe della mia nuca

o perlomeno la pazienza di sopravvivere

lungo il sillabario della grafia minuta

la mela storta di perdere la vita.

le tattiche che barano le morse

in fondo sono fantasmi infanti

ilarità del crepacuore.

Page 61: Marina Pizzi - Inediti

66.

in un giorno di custodia ho visto il sole

dietro i vetri di una stanza stramazzata

per un alamaro chiuso alla casacca.

era dio un anello di fantasma

una vendemmia senza i piedi dentro

anzi una cometa senza coda.

io mi adagio in un divano difettoso

così l’acredine di morire dentro

la meraviglia di una nave a largo.

amore di stornello starti a guardare

animale del bello sopra le rocce

così cattive da reggerti appena.

la lavagna scolara è andata a sbriciolarsi

dentro il tunnel che la ama poco

e la biblioteca del morto è un depredare

dediche cortesi e pagine intonse.

Page 62: Marina Pizzi - Inediti

67.

la fandonia del cielo chiaro

passo di fionda a tradimento

dove la mente è scarto di fede

ruminare bestemmie costa destino.

le ronde del fato povero

costeggiano giare ammaccate

dove il contenuto è giro a vuoto.

gli ammassi delle ceneri vanno a giungla

ma nulla ammette un cimitero d’afa

data la vista di credere l’alieno.

il pazzo del borgo gira alla fontana

credendola madre. le ire del sangue

apologhi doni d’immortalità. difendi

il mio sangue rappreso allo scolio

del rantolo! la genia del palazzo

ha il tranello nel cortile. l’eco a vanvera

della gola del pozzo insegna a tramortire

le misere allodole credenti e credulone.

finiscono le fiaccole senza accendere le rotte.

Page 63: Marina Pizzi - Inediti

68.

l’agonia dell’ora occlusa

quando il sale delle darsene si fa

compatto

l’età materna un complotto in atto.

così nel buio delle lune piene

la risacca del mare si fa rantolo

encomio di aggirare angolo la morte.

la folle disparità della penombra

brami la bara di sembrar cipresso

così per applauso al sognare.

andavo a scuola con la cialda in tasca

lo scapito del grembiule troppo lungo

la voglia botanica di crescere

sotto la teca delle meraviglie rare.

fu pastrano d’alito bruciato

questa ciabatta con il male dentro

con lo stipendio sparuto dell’idiota.

invano ad elmo incorniciai la vita

il tunnel ne rimase invitto

e la calunnia un abito da sposa.

Page 64: Marina Pizzi - Inediti

69.

donna di scarto mia madre

bella solo di gioventù

mio padre la sposò credendola più giovane

sarta analfabeta.

letargo del cuore visse per cucire

le catacombe dei suoi giorni

aciduli battesimi di vestitini

per bambini in trine di ben altri.

chiuse le vesti in un dì di cecità

quando l’età sorresse il malaffare

della sopravvivenza. in anni d’incantesimo

stette al mondo dimenticando-si. anche il mio

computer si è fatto lento cieco da sempre.

70.

chiarità di baci l’adagio

la luna spenta di capire i morti

nei fuochi fatui a mo’ di girandola.

vengo da te per rispettarti il seno

Page 65: Marina Pizzi - Inediti

per la nuca più indifesa della rondine

quando sul tetto del travaglio d’erbe

s’illumina la vedetta della cena

e l’aquila e il gabbiano se la intendono.

dar da mangiare agli affamati è una vecchia

storia calibrata dalla nenia del piangere

sotto le ortiche di chi resta indietro.

il mare è una venuzza di ristagno

rettilineo augusteo del senza fretta.

71.

ti lasci andare o mio amoroso

allo sfaccendìo della corsa

a questo rimorso che sa di oltre mondo

quando le rovine non temono le erbacce

le ciminiere prendono in giro il sole.

è così che le scimitarre degli alieni

sembrano forbici di sarti di alta moda

quando il poeta è una conserva alata

e la marionetta un esule dell’aria.

Page 66: Marina Pizzi - Inediti

verrà di me un campionato d’Ercole

così sconfitto! griderà la rondine

la breve alcova di sé. non varrà

per i ciottoli la mensa o il salvacondotto

d’asilo, qui è un tramestio di rantoli

senza salme ancora. tu dimmi tu

quale sarà la venia che cinguetta

l’asilo di restare sottotetto d’amore.

qui non so bastare la cimasa per la salsa

stazione della casa insita al viottolo del bello.

in gioventù lasciai la razione per un cortile

di seduzione verso ogni cena o colazione.

oggi diminuisco le pretese in un pensiero.

72.

in mano all’acrobatico del lutto

tutto rimanda al fragore del mare

alla staffetta di chetare il dado.

in mano alla rondine salata

rimane la rotta d’indurire il tempo

Page 67: Marina Pizzi - Inediti

per provare a sconfiggere chi falsi

l’acredine del perimetro per cerchio

il bello di girare sull’io del fare.

73.

gerla di verdetto ho visto il sale

vanitoso di cristalli sotto il sole.

avaria di avanzo resta mia madre

saltata su una mina dentro casa.

corsia di abuso l’abaco del mare

ingordo di sé tanto belloccio

da ripetere lo sguardo. ho avuto

un padre a dondolo che mi baciava

nell’aria. ora è cenere di dolo

come i millenni che non aspettano

nessuno. qui la calura del rancido

ispeziona la cicca del boia

questa canicola perfida di dado.

in mano alla ciarla della rondine

voglio morire blasfema festiva

Page 68: Marina Pizzi - Inediti

davvero per davvero madre di zero.

74.

intatto avvento il tuo dolore fisso

questa cometa nera di sopruso

quando la vena è fragile da rompere

e le stampelle perdurano il dirupo.

in coda al gerundio della speranza

resta un bimbo nel dispendio del non amore

quando su tutto vince la canottiera

del detenuto. le teche della notte

ingannano i vampiri questi spergiuri

esuli chissà. in tono alle trombette dell’asilo

non c’è nessuno ormai. quali schiaffoni amano

le vele per amare il mare? quale rotta ammalia

la conchiglia madre? non ho la resina per darti

il mio amore io che ho perduto il talamo

e la scansia. resti per noi la coccola del santo

il buon cammino della ciotola piena

oltre le carestie delle persiane serrate.

Page 69: Marina Pizzi - Inediti

75.

è sicuro che pianga con l’acquazzone

nelle tasche questo infernetto di lusso

che è la mia piaga dentro l’ultimo giardino

della città bandita dalle mura. in un sole

indecente senza ombre soggiace abbandonato

il cane del medico condotto, perfido dotto.

le stamperie del sale non rendono le nozze

né le felicità dell’indice promesso.

in un incedere caduco ho preso l’ombra

brava bambina gentile incendio

di un amore precoce che la fa stazione

di un silenzio da sala da attesa

lei esubero di sé albero della cuccagna.

76.

ora s’inciampa in un valico di coma

costretto il mare a sciabolare nuvole

vanitose donne di soppiatto.

vola dal libro un indice divino

Page 70: Marina Pizzi - Inediti

una cornucopia quasi di fachiro

intatto come sempre nella favola.

a sorsetti ti evito le frottole

canute delle tarde iridi del sole

picchiatello. la malia del sottotetto

è per difenderti dal tarlo del ciclope

che vuole andarsene dalla toppa della porta.

così non sarà nessuno a farti visita

al tempio che veneri d’incanto

da piccolino quando la madre era giovane.

va e viene la linea della sfinge

quando le donne hanno l’abaco favorevole

e gl’innamorati riposano le truppe.

77.

si scoscese l’abaco in un alterco

di coma. rise la ventura l’ultima

spiaggia. la conchiglia novantenne

finì nella pattumiera. le tempie mortali

delle scorie ebbero un bambino felicissimo.

Page 71: Marina Pizzi - Inediti

qui nella culla delle croci d’asma

vivacchia la cicala senza stirpe

il cane abbandonato in cima alla china.

tu patriarca d’ebeti verdetti

hai chiuso il tram di tagliare l’orizzonte

moria d’echi senza senso.

l’industria del verbo nero

chiarìa per estinzione.

78.

finisce il tempo della ciotola divina

quando all’angolo della strada si credeva

di evadere la vita per provar fantasmi

o amori già morti prima di nascere.

qui in realtà sono una povera demente

senza capire perché vado a frottole

lungo i binari che non capiscono niente.

è finito l’eremita del mio avvento

gigante frottola del seno

quando a giocare si gioca per non morire.

Page 72: Marina Pizzi - Inediti

il cortile infante delle rondini

chiama sovente i passeri impiccioni

così per giocare con la terra

insieme alle cicale fannullone.

79.

non darmi una rotula d’ospizio

io che cammino con il cipiglio d’essere

ancora la faccenda dell’eclisse

nel ritorno del sole e della luna.

non voglio il trionfo dello sbadiglio

quando le donne fingono di amare

e le maree rotolano risacca.

è così festivo il trancio del tuo nome

che è bello inventarsene il nomignolo

per i sentieri che bruciano incolpevoli.

le vesti delle rondini si conciano a cipressi

per dire che domani ciarlerà la cicala

del caso indefesso. nessun uomo possiede

il permesso di scappare oltre. tu troverai

Page 73: Marina Pizzi - Inediti

la nespola contadina di pensare qui

il vincolo chimerico di sballottare i nervi

verso l’ospizio che non funziona più.

80.

mare materno spinosa agave

qui si ristora bulbo di sentiero

la sirena intona il suo Ulisse

mai blasfema sull’apice di rotta.

l’infermo carosello dell’infanzia

dava a credere le ninfe più felici

le rendite blasfeme delle stirpi.

in coda al cipresso più benevolo

resta la cicuta del buon Socrate

abile cristallo che stazza a benvolere

le rotte benemerite del dubbio.

tu amore che resti in quarantena

dimmi la rotta che si presti finalmente

verso le stimmate dei fedeli anemoni.

versa di me la sanguigna stozza

Page 74: Marina Pizzi - Inediti

questo pio satellite che vedo

verso lo stato di chi muoia felice.

81.

ho paura ormai non so alzarmi

dal viottolo che lega ferragosto

che spiazza le clessidre nel corridoio

di un uliveto bambino. il brevetto

di vederti è solo un atomo di gioia

una faccenda d’aria per la stirpe

per la progenie d’alba quando la bara

recalcitra. tra l’aspettare e l’andare

in coma il passo è breve, vellutato anche.

quella lunatica forca d’abisso

conosce i tic del deserto. tu non andare

a farti comandare dal verdetto d’indice,

dimmi di te le fratture lente

queste bravate d’ossa senza scheletro.

in piazza sotto il veto della chimera

resta un’ansia che si chiama eclissi

Page 75: Marina Pizzi - Inediti

una figlietta buona come il pane.

tu non conosci le ginestre in fiore

dove divertono i grilli le fanfare

del vento megalomane, manata del fato.

82.

si sfinì nell’epos della fossa

alamaro cortese senza guerra

cucciolo sacro con l’ombelico

in mano: si scoprì che il tuorlo

della luce non gli voleva bene.

era distratto dal segreto di piangere

se stesso dentro il letto senza stima

la malizia aurea di un angelo

senza pietà in un attorno falso.

nel santuario il santo è nella teca

la bancarotta dei dadi non sa niente

né la verità corrotta di spartire

un’oasi per caso. sotto la quercia

la svilita casa cantoniera quando

Page 76: Marina Pizzi - Inediti

la caccia era la scomunica e la compagine

del lutto un fraintendere l’amore per la corsa

per le fiaccole del mare mai di requie.

abissale la perla di vederti nel condominio

dello zonzo dove lo zero in bocca

dà l’esilio senza concime né rotta in cima.

il diario della sera fa da sfinge al tema

al cipresso fulminato stasi di sé.

83.

il mio brusio è un animo malato

un’ascia su un’incudine

una falcata di trampoli con tarlo.

qui c’è da popolarsi di risa

per piangere davvero finalmente

sotto le spurie recidive trappole.

qui non è bastata la regia del vento

per togliere le arsure delle frottole

da lungo tempo despote.

e poi se mi ricordi il piatto forte

Page 77: Marina Pizzi - Inediti

sono l’anemia del mio sudario

questo letto d’asma dove non so più scegliere

che asfodeli per i morti con i dadi neri.

84.

e corre ancora la moria dell’afa

lucertola che festeggia angioli

sotto il cavalcavia pericoloso.

in mano alla stagione del periglio

invento le cicale avvocatesse

tanto per lenire un passato calvo.

tu dimmi ancora quale sarà lo strazio

che mirerà all’esilio finalmente

questo baraccato nome di sintassi

dove s’inchiodano l’aquila e la nuvola.

a Spoleto piansi il primo aborto

la spoliazione dell’anima e del senso

sotto chimere fulgide di chiodi.

in verità l’eredità di stare

somiglia la distanza di non essere

Page 78: Marina Pizzi - Inediti

che le palanche lunghe di muratori

armarti nel sudario della stirpe.

in me si conterà la giostra integra

del finalmente gioco senza vestali

né inni per le bettole del caso.

da domani la veglia ti dirà chi sei

se finirà la nebbia dell’occaso.

85.

sarà l’occaso vicino casa,

nulla servirà questo novembre

breviario per la vestigia che non viene.

tu bel Francesco in animo di terra

ami il lupo e la moria del vento

con le maree in abaco di stelle.

qui sotto il silenzio delle siepi

c’è l’abazia della metafisica

il riordino dell’abaco preciso.

con il cordino di chiamarmi appeso

sono il giullare del fulmine-cometa

Page 79: Marina Pizzi - Inediti

questa ristretta enfasi del ridere.

invano la repubblica dell’essere

pubblica il cimelio dell’avanguardia

la retta effimera dell’ultimo bambino.

la bilia del gioco di rimando

coincide con la stagione discola

il canticchiare dove sta la rendita.

in mano ti saprò attendere

anemone del fiore che più amo

bazzecola del cielo sulla terra.

86.

cose di addio cose di falena

la luce che inganna l’io di far lena

questa minuscola voglia di morire

da sotto il tetto all’erba quadrifoglio.

sono una nave insita al bagliore

che percepisce il cielo più stellato

le rendite qualsiasi dell’agave.

Page 80: Marina Pizzi - Inediti

87.

rimane un viottolo di cicale

un carcerato dietro la grata invoca

caligini per tornare vivo

nonostante le piazze chiuse.

tu domani ti accorgerai di me

con la sinossi di un cipresso fulminato

magnifico nell’orto che concluso non è.

il lago del lutto è una chimera d’asma

una faccenda d’amore nonostante il logo

di sfiaccolar le stelle senza nome.

tu hai imparato a dormire sotto il lago

nella sterpaglia delle rondini malate.

qui si parla d’ingessar le stelle

tanto per cattiveria di stagione di caccia

la venatoria blasfemia del feudo.

è già domani che divento adulto

sotto i cornicioni pericolanti.

domani m’incammino con la croce in spalla

per far diventare bambino un mira lago

senza bontà da dare. sono cattivo

con le bare che si aprono al mio passaggio.

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non basta un’aureola per redimere

i monaci che pregano per messa

senza riordino di un mondo incapace.

88.

ho preso le gocce per morire un poco

un addobbo da poco confiscare il ventre

per lenire la zolla che risucchia

la contumacia alla rendita del carso.

tu domani piangerai di me la gemma

quella donnina fiaccola e germoglio

con il risucchio in rendita. e ti ricordo

alma di scoiattolo tutto positivo nella coda

che volve di richiami. nella felicità del monte

un pianoro scombussola le ore per le lucciole

di venere. io ti chiedo di amarmi solo un poco

con le ciotole del ventre che elemosinano

androne il grande verbo, finalmente!

ma già oggi è un idolo di meno

una carcassa al fiume che fa piangere

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le generalità riflesse del sole appeso.

89.

qui si cambia la mia vita con l’elemosina

del sale con lo stambecco mite delle rocce.

ride il sommario la rivalità dell’ombra

bravura che sa di travertino e marmo.

tu ritorni fanciullo in un alunno granitico

così siepe di grano puro da far piangere

le Alpi. oggi ricordo un’ape regina

dove il miele fu per lo più amore

e sillabario sul colle senza sole.

correva l’anno dell’arci divieto

del finalmente non nascere.

le stimmate delle onde finalmente in anello

amarono la sposa e la mentalità del cielo.

con le viscere del cielo esaminai l’abaco

finestra nana sulla strada

doccia d’ecumene per non piangere.

tu dammi amore ti sarò felice

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bambinello pasciuto sotto le mine

e le ginestre le più belle e strambe.

90.

gelo di torre ho visto l’indice

del brevetto inabile. àncora d’addio

il collo della rondine morta.

il grano elementare così bello

stanzia la rotta per le cicale

a spasso. a turno di editto

il calendario di perdere. amore

di cimasa ebbi da piccola

quando leggera la fibbia del carcere

era l’evasione di Eva. qui in carcere

aspetto le stazioni della cornucopia

ad arrivare. valenze ingenue finalmente

il bello dì. efelidi del vento baciarti.

salute dello stagno averti accanto

sillabario bambinello arca di Noè.

Page 84: Marina Pizzi - Inediti

91.

stava in lutto il quadrifoglio raro

tutto s’inerpicava in un giorno

per mortificare il credo di fortuna

tu fune del dì marziano.

cosa farà in stanza l’immacolata sposa

ginestra in voce di crisalide?

in estro di chiamarti al giorno lungo

non basta la volontà dell’avo buono

questo marcito abaco di spugna.

l’avarizia del merletto che non sposa

è dentro tara di vacanza eterna

una simbiosi scivolosa e triste.

eventuali smorfie di successo

avranno tende d’alto mare issate

per la giovinezza della ricchezza appunto.

in un conclave di pratoline in orto

si fissava la resina compianta

dalla melagrana spaccata in sangue.

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92.

viltà del coro assoluto scempio

imparare le rotte di salsedine

dove moria l’arca già più vuota

impara a retrocedere i comandi.

la boscaglia carnosa bella del senso

comandi la beltà del fraseggio d’anima

se finalmente un mare di comete

abbia a conversare con le allodole.

la vecchietta di ferragosto aveva

vent’anni più di me eppure era vecchia

più oltre un occaso di sostanza.

la libertà del tuono la chiamava

ebete non angelicata, breve.

i capelli bianchi in un gelido incarnato

su occhi azzurri, belli. la cicala a squarciagola

accompagnava la veglia del viatico

come madonna minima. io donna della sera

la mimavo nell’onda del tramonto o mito

nero il caso d’esser vivi. tu sisma di mattanza

il gesto cattivo contro il fieno, i girasoli

reclinati. è fioco il genio di chiamarti amore

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o bivaccante gesto di risacca.

93.

quale sarà l’occaso che mi toglierà dal caso

rosa del principe rosa della curva

la chimera posticcia di non trovarmi

inserviente nell’”ospedale de li malati

poveri”? nel crollo delle indulgenze

si è penzoloni lo stesso: si taglia il tempo

con un’acciuga vuota con il male di vivere

in latrine al massimo pulite con la varecchina

con la china dell’ombra.

qui il sale è uno scempio per ladruncoli

che soffiano denari con i sorrisi

più pii. come stanno le regie del sangue

dacché morire è un abaco di certo?

nessuna risposta dalla baraonda dei manichini

che indossano vestiti improbabili nelle guerriglie

di centri commerciali più scialbi del solito?

nelle fabbriche lager del cotone posticcio

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si lavora con la ciotola e il letto accanto.

94.

così s’insacca l’estasi del buio

rametto tonto di betulla

sotto la neve calvo.

calamite di salto potere il vizio

di essere la gioia della mite

grazia dell’asino buono, tenero

anfiteatro d’occhi. arrivano i tuoni

che sanno di omiciattoli paurosi

sotto i balconi d’infiorate di altri.

95.

in ogni genere di memoria

ho perso il ricordo

la faccenda brulla di toccarti vivo

contento incenso di te stesso vivo.

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intanto si accendeva la parata

del rantolo

nessun reduce da festeggiare

nel labirinto dell’occaso senza eclisse.

tu a malapena indietreggiavi

per gironzolare un amore di resistenza

una gimcana per non farti prendere

dalla regia apolide del fato di moria.

una sacrosanta bugia svolò dal rantolo

per inventare una civetteria femmina

una bravura innata.

96.

si dà la luna volto di commiato

una saracinesca per scortar l’amante

lo sposalizio del sale ben più cattivo

verso le letizie delle frottole infanti

le luci nude come fiumiciattoli

d’acredine al verbo di vita

quando la rondine vira la cimasa

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nulla imparando dalla maestria.

nulla si sa perché avvenne il rantolo

sfortuna d’angolo di siepe

verso il pepe di riordinare il nascere.

qui è citrullo l’animo del seme

questo infante nato per non nascere

sotto il cipresso delle lune birbe.

97.

piaga di dio il veritiero anfratto

che non lo contempla affatto.

è finito il rumore in una soglia

vulcanica voglia di finire

il residuo del sangue.

qui la gioia è un nido di pece

un rasoio di bara.

in faccia al cipresso l’omino buono

incapace di mutamento.

l’almanacco degli angoli crudeli

descrive il pagliaccio di paglia

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la lunga antenna del solo buio.

la manciata delle fosse è la catena

del ricordo. indagine di avvento

averti accanto. nel cimitero velato

della stirpe tutto è conteso.

98.

qui è riunito un pallore lusingato

a sfinge. è quello dell’agguato a

se stessi presso la rimessa della piscina

vuota con le lucertole che corrono

festive di muri. la tegola della luna

fa da madre al breve regno della siepe

dove s’immagina la fuga della trottola

pestifera d’equilibrio. in mano alla regia

della fune un olivastro simula le olive

per il carisma della rotta. è invece solo

un lucidare sterpi per le colpe di vili

licenze armate. erta marina la condanna

a morte. sulla tara dell’ombra è divampato

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il diavolo del volo nullo. qui si spegne l’avarizia

al giorno e la nomea della pozzanghera patita.

dove si ammassa l’utero del fango

lascio la giacca per correre veloce

senso al millimetro.

99-

non tornano gli amici del lieto fine,

una sciabola sommerge il lago

contuso contro l’abaco di cemento.

amore di ventura fu la stanza

bacata da mille rivoli di serpi

piratesche le indagini del cosmo.

nessuno amò la vegliarda pace

né la guerra per un sussurro acre

dove si screpola l’indice del mito.

avevo una foto che spopolava amore

una lanterna nuda come le steppe

in una casa isolata. sul lato opposto

del binario viveva la cicogna regale

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anfora di madre.

100.

mi dispiace poi molto di stare in clessidra

di disperare poi molto di fendere la luce

per un poemetto di argilla intorno al cuore

e fare ombrello l’asino del mondo

senza capire la beltà dell’eremo.

in fondo non ho la giacca della darsena

per riparare il seme che si fracida

dirimpettaio alunno del mio pianto.

in saio d’ombra vo disperdendo

la foglia maggiore dell’uliveto

la bella traccia di credere in dio

nonostante la freddezza della stirpe.

l’inverno fu a colori ma mai nessuno

si accorse di prenotare la felicità

sul sagrato enigmatico di una chiesa.

la malia dell’ombra seppe da guardiano

le eredità guardinghe della deriva

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quando il mare è nano e pare piatto

o esile riflusso. in verità il camice

del becchino venne a prendere l’alunno

appena entrato. poi da così non ci sarà

che preda la fionda del rigagnolo.

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Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-55. Ha pubblicato i libri

di versi: “Il giornale dell’esule” (Crocetti 1986), “Gli angioli patrioti”

(ivi 1988), “Acquerugiole” (ivi 1990), “Darsene il respiro” (Fondazione

Corrente 1993), “La devozione di stare” (Anterem 1994), “Le arsure”

(LietoColle 2004), “L’acciuga della sera i fuochi della tara” (Luca

Pensa 2006), “Il solicello del basto” (Roma, Fermenti Editrice, 2010).

Altre raccolte inedite in carta, complete e incomplete, rintracciabili

sul Web sono: “La passione della fine”, “Intimità delle lontananze”,

“Dissesti per il tramonto”, “Una camera di conforto”, “Sconforti di

consorte”, “Brindisi e cipressi”, “Sorprese del pane nero”, “L’acciuga

della sera i fuochi della tara”, “La giostra della lingua il suolo

d’algebra”, “Staffetta irenica”, “Sotto le ghiande delle querce”,

“Pecca di espianto”, “Arsenici”, “Rughe d’inserviente”, “Un gerundio

di venia”; il poemetto “L’alba del penitenziario. Il penitenziario

dell’alba“; le plaquettes “L’impresario reo” (Tam Tam 1985) e “Un

cartone per la notte” (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio

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Mugnaini, 1998); “Le giostre del delta” (foglio fuori commercio a cura

di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004). Suoi versi sono

presenti in riviste, antologie e in alcuni siti web di poesia e

letteratura.

Ha vinto due premi di poesia. Nel 2004 e nel 2005 la rivista di poesia

on line “Vico Acitillo 124 – Poetry Wave” l’ha nominata poeta

dell’anno. Fa parte del comitato di redazione della rivista “Poesia”. E’

tra i redattori del blog collettivo “La poesia e lo spirito”. Sul Web cura

i seguenti blog(s) di poesia: Sconforti di consorte, Brindisi e cipressi e

Sorprese del pane nero.

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www.poesia2punto0.com