Crescita ed evoluzioni dell arte marziale e del praticante · 2010. 2. 8. · IL KARATE NEL TEMPO...

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IL KARATE NEL TEMPO Crescita ed evoluzioni dellarte marziale e del praticante Al centro il M Baracchi 3 classificato nel fukugo ai campionati del mondo Fudokan del 2005 TESI PER LESAME DI V DAN Candidato: M Baracchi Davide

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    Crescita ed evoluzioni dellarte marziale e del praticante

    Al centro il M° Baracchi 3° classificato nel fukugo ai campionati del mondo Fudokan del 2005

    TESI PER LESAME DI V DAN Candidato: M° Baracchi Davide

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    Autore: M° Baracchi Davide Pagina 2

    Indice

    Premessa p. 3

    Introduzione p. 4

    Capitolo 1 - Dojo e tatami: luoghi sacri per il karateca p. 6

    Capitolo 2 - Aspetti esteriori e fisici p. 8

    Capitolo 3 - Aspetti educativi, filosofici e psichici p.15

    Capitolo 4 - Il karate nella società aspetti culturali p.21

    Capitolo 5 - Adattamento del karate allevoluzione p.25 storico-sociale

    Capitolo 6 - Adattamento del karate allevoluzione e p.27 alla crescita dellatleta

    Capitolo 7 - Il karate per tutti; iniziare in età adulta p.29

    Capitolo 8 - Le gare: la loro nascita e la partecipazione p.31 come fonte di crescita

    Capitolo 9 - Il karate per i diversamente abili o con p.34 problematiche comportamentali

    Capitolo 10- Importanza del linguaggio verbale e corporale p.36 nella trasmissione

    Capitolo 11- Kimuchi - il rapporto tra maestro e allievo p.38

    Capitolo 12- La mia ricerca: implementazione di altre p.41 arti marziali nella comprensione del karate

    Conclusioni p.46

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    PREMESSA Quanto sarà riportato in questo scritto, non ha la presunzione di insegnare nulla di nuovo o di specifico poiché, comè mia abitudine affermare, in ogni settore ci sono specialisti che possono al meglio insegnare la loro materia, sia essa medica, filosofica, psicologica e quantaltro possa riguardare linsegnamento del karate. Gli argomenti trattati riguarderanno tutti gli aspetti del karate in forma breve, senza dilungarsi nel racconto della storia, ampiamente trattata su innumerevoli ed autorevoli testi. Altrettanto assente per la redazione di questa tesi, sarà da parte mia la ricerca e lapprofondimento attraverso la lettura di altre testi, oltre a quelli da me letti e appresi in passato nel mio percorso di crescita. Pertanto porterò a nudo unicamente la mia esperienza di atleta e allievo, che mi ha permesso negli anni di comprendere sul campo molti aspetti; ma soprattutto sfrutterò la mia esperienza di insegnante sui concetti in precedenza letti e facilmente afferrati sui libri, ma che senza un approccio pratico non avrei mai appreso a fondo. Nei primi capitoli si tratteranno fondamentalmente tre dei molti aspetti del karate, rivisti in pratica, in termini evolutivi di tempi storici e crescita psico-fisica, dividendo lanalisi dei medesimi sotto tre ottiche diverse, esteriori, interiori e societarie, esprimendo la loro importanza nella divulgazione di unarte antica e ricca di saggezza. Questo limiterà, a tratti, il campo di analisi ad una fetta di allievi che vive la propria esperienza nel karate, cominciando in età giovanile; la cosa non vuole essere discriminante nei confronti di chi, già in età adulta, si avvicina a questarte. Questa scelta permette di rendere più ampia la rosa degli aspetti del karate e più completa lanalisi dellesperienza in tutte le fasi evolutive. Per quanto riguarda linizio della pratica in età avanzata, tratterò in una seconda fase gli aspetti propri di questesperienza di nicchia. Una breve trattazione verrà anche dedicata allesperienza vissuta su atleti diversamente abili o con difficoltà psico-motorie ed handicap.

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    INTRODUZIONE

    Leggendo un qualsiasi testo che tratti della storia delle arti marziali ed in particolar modo di karate, si può facilmente notare come esistano certamente nomi di tutto rilievo di Maestri ben noti a tutti gli operatori del settore. Di questi esponenti si conoscono bene le date di nascita e di morte, la cronologia della loro vita e le loro più importanti creazioni in termini di tecnica e di kata (nella maggior parte dei casi). Prendendo il kata come elemento esemplificativo e forse più significativo, infatti, si scopre come sia sempre stato fonte basilare nella trasmissione di un insieme di tecniche di base, combinate secondo una sequenza che ogni Maestro di stile componeva come espressione di un combattimento; senza queste concatenazioni le tecniche possono facilmente essere ricondotte ad una serie unica di posizioni e movimenti eseguite con gli arti, identiche per tutti i maggiori stili di karate (si possono notare alcune piccole differenziazioni nella combinazione tra posizioni, movimento e tecnica, ma i tre elementi presi separatamente rimangono invariati). Il kata, al contrario, è sempre stato il punto identificativo delle peculiarità di un grande Maestro, che lo modificava e lo adattava in base alle sue conoscenze ed esigenze tecnico-fisiche. Tradotto significava fare in modo di sfruttare al meglio le proprie capacità psico-fisico-motorie creando una sequenza di movimenti che potessero rendere la tecnica efficace ai fini di un eventuale confronto. Quando scrivo di kata cosiddetti modificati, intendo il kata moderno così comè pervenuto a noi in una forma già codificata e scritta; si stà pertanto facendo riferimento ai kata dei maestri del XX secolo, quando il karate fu reso unarte sportiva, vale a dire aperta a tutti, praticabile alla luce del giorno in luoghi pubblici (addirittura nelle scuole). Questo fù il momento in cui occorreva fissare dei canoni per lesecuzione delle tecniche, che potessero uniformare linsegnamento e la verifica delle capacità degli allievi. Addirittura la mia opinione è che la scelta e codifica delle sequenze, fosse proprio un modo di affermarsi come maestri guida, creando quelle differenziazioni che affiliassero in modo non interscambiabile i propri adepti. Purtroppo oltre ai fatti certi che erano scritti dallanagrafe o da altri enti ufficiali, rimanevano degli accadimenti e fatti di vita quotidiana che solo chi era presente poteva riportare con minuziosità e fedeltà; in questo caso la divulgazione completa non accadeva, forse per rispetto del Maestro o forse per semplice disinteresse nella trasmissione ai posteri o anche per egoismo del sapere. Questo ha necessariamente causato la nascita di miti e narrazioni che in qualche modo riportassero voci popolari e dicerie ad una forma verosimile alla realtà e che comunque esaltassero le doti dei Maestri al punto da renderle quasi epiche e surreali. Questo fa parte della filosofia orientale, che tende a celare dietro a fiabe ed epopee, la verità che potrebbe apparire difficile da spiegare e non così appassionante, come invece è dovuto a persone che hanno fatto del karate una ragione di vita e fonte di sacrifici a volte al limite delle possibilità umane. Tutto questo celare e cercare di interpretare fatti e situazioni, che raramente erano trasmesse in forma scritta o che, nel caso lo fossero, erano immediatamente

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    secretati, viene ad aumentare, quando non si tratta di un singolo personaggio, ma di un intreccio che andasse a fondersi nel più ampio scenario della storia del karate. In questo caso ci è possibile ricondurre i kata ai loro rispettivi codificatori e alle presunte epoche nelle quali i vari kata sono stati fotografati nel loro attuale embusen, ma ci resta più difficile fissare chi fosse il creatore e quale fosse la versione del kata originale, in seguito modificato. La storia in questo caso si vela ed un alone di mistero la avvolge, creandone quasi una fiaba che appassiona tutti i karateca e che ne stimola la ricerca. Allora oso affermare che sia fondamentale mantenere strette le origini (evitando di trasformarle o inquinarle) senza le quali noi non ci troveremmo a lavorare con dedizione. Tuttavia si rende necessario creare un canale di insegnamento parallelo, che si evolva con i tempi e che permetta, con metodologie sempre evolute, di trasmettere la nostra arte, senza che essa appaia agli occhi dei giovani (in termini sia anagrafici sia di apprendimento) obsoleta e retrograda. Da qui ne deriva ciò che verrà scritto in questo trattato, cioè lanalisi degli aspetti della crescita e dellinsegnamento in funzione di una miglioria e di un perfezionamento nella divulgazione del karate. Tutto questo è bello perché rende il karate unarte viva. Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si evolve..

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    CAPITOLO I

    DOJO E TATAMI: LUOGHI SACRI PER IL KARATECA

    Il primo capitolo sarà breve ma di fondamentale importanza, ma esplicativo di un importante base per comprendere tutto ciò che sarà trattato ed in particolare gli aspetti psicologici e le dure metodologie di insegnamento. Il dojo è il luogo dove praticare il Do, per gli occidentali la palestra. Il tatami è la zona riservata allallenamento, per gli occidentali è pavimento. Questa importante spaccatura di visioni, è di importanza rilevante per la comprensione dei comportamenti di chi è profondamente dedito alla pratica del karate-do. I luoghi di pratica diventano un po simili a dei luoghi di culto per un credente religioso. Questultimo quando entra in un luogo di preghiera o meditazione, cambia molto a partire dallabbigliamento per arrivare ai comportamenti. Un cristiano che entra ad una chiesa cerca un abbigliamento che non scopra troppo il corpo, abbassa il tono di voce e cerca di essere il più possibile composto nei gesti. Così è per un karateca quando accede ad un dojo. Cambia abbigliamento, fa proprie regole diverse e assume un ruolo diverso a seconda che sia allievo o insegnante. Come nel caso di un fedele, lassumere atteggiamenti mentali e comportamenti diversi non significa estirpare le proprie abitudini ed il proprio carattere.

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    Questa sarebbe proprio lopposto della ricerca che ogni praticante persegue; sarebbe come arrendersi, depositare le armi e soccombere alle regole in modo passivo. Il lavoro invece è molto più forte: bisogna riuscire a farle proprie e utilizzarle anche per comprendere i propri comportamenti nella vita esterna, senza che questo ci porti a stravolgerla facendoci diventare dei monaci shaolin. Chi pratica la proprio religione anche in modo molto profondo, non significa che debba divenire un prete o una suora. Questo deve far comprendere a chi vede un karateca nelle due vesti, di persona comune o di praticante, capisca che non è un pazzo con uno sdoppiamento di personalità. Questa cosa tra laltro si accentua nel caso si veda un maestro, che ancora di più non deve solo indossare le vesti della filosofia marziale, ma deve averle dentro di sè. Chi prova sulla propria pelle questa figura sà anche quanto sia difficile doversi accollare questa grande responsabilità, di riuscire a trasmettere le proprie convinzioni e far capire le giuste interpretazioni di luoghi e figure da rispettare.

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    CAPITOLO II

    ASPETTI ESTERIORI E FISICI

    Come detto nella premessa, questo è il primo dei capitoli che prenderanno in analisi tre delle innumerevoli componenti che caratterizzano il karate: la cintura,il tempo e la tecnica. Questa prima parte prenderà come punto di riferimento laspetto esteriore, che in modo più semplice e di facile comprensione può introdurre alle successive fasi, che entrano nel merito di aspetti più insiti. La parte esteriore non è certo la più importante nellideologia del karate-do, ma per noi occidentali, che abbiamo una cultura estetica del bello da vedere, del palpabile, è un buon mezzo per potersi poi infiltrare sotto cute, nei labirinti della filosofia e psicologia nipponica e di tutto quel mondo orientale che tanto ci affascina, ma altrettanto ci si presenta di difficile comprensione. Inoltre, proprio come ci insegnano gli orientali ed in particolar modo persone spirituali (ad esempio i monaci), proprio la parte fisica era il mezzo, il tramite per raggiungere lilluminazione, cioè un traguardo spirituale. Ecco allora che la fisicità ed esteriorità prendono comunque una posizione importante nello sviluppo dellarte. Ed ecco in forma esemplificata come questo si sviluppa.

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    LA CINTURA

    Come ben noto, nel karate antico, non era presente una classificazione secondo dei gradi, in forma visibile allocchio di tutti, bensì esisteva una gerarchia dettata dagli anni di pratica e dalle conoscenze del singolo che, nel rispetto della filosofia orientale, erano più che sufficienti per onorare i sacrifici e lesperienza. Con lavvento del karate moderno (XX secolo) dovendo portare alla mercè di tutti questa disciplina, si rese necessaria la creazione di una classificazione ben precisa, senza libere interpretazioni. Questa fase derivò dallesperienza che lo precedeva e che fù del Judo con il suo creatore Jigoro Kano. Storia a parte, che è facile da reperire sugli innumerevoli testi o fonti mediatiche disponibili, personalmente mi piace rapportare lidea del cambiamento di colore come uno sporcarsi (anche se è un paragone poco ortodosso) della cintura. Questo cambiamento di colore rispecchia molto bene le fasi shu-ha-ri dove si passa da un tempo di apprendimento per emulazione ad una fase di filtrazione mentale fino ad arrivare alla creazione, allo sviluppo personalizzato. In queste fasi, le macchie, possono essere interpretate simbolicamente come tutte le nozioni che ci vengono trasmesse da tutti i maestri con i quali veniamo a contatto. Queste macchie dobbiamo renderle indelebili, fissarle bene sul tessuto, creando così una crescita conoscitiva, che col tempo ci permetterà di renderci capaci di una nostra Via e di una nostra personalità. Resta chiara la necessità di capire quando le macchie sono positive e quando sono negative; in entrambi i casi sono utili. Le macchie positive sono quelle lasciate da maestri tecnicamente preparati e con la voglia di insegnarle; le macchie negative ed inutili fino a giungere ad essere dannose, sono quelle lasciate da maestri che si atteggiano a grandi conoscitori della fisionomia e fisiatria, ma che in realtà non conoscono nulla. Addirittura esistono alcuni di questi insegnanti (fortunatamente pochi) che alla loro incapacità aggiungono una non volontà di esprimere e rendere visibile il loro sapere, creando un inutile buco nero nella diffusione. Altrettanto chiaro è che la visione della cintura da me riportata è prettamente immaginaria ed esemplificativa, ma con essa voglio creare lidea del tempo che trascorre durante la crescita; anche larrivo della tanto sospirata cintura nera, che resta per un karateca una prima tappa di arrivo e di partenza, implica una serie di fasi intermedie ed obbligate, che fissano i parametri per la crescita e lapprendimento. Un parametro direttamente proporzionale al trascorrere di queste fasi è il tempo.

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    IL TEMPO

    Il tempo è da sempre nemico delluomo. Questo è normale perché luomo non ha tempo, cioè è consapevole che il suo tempo è limitato alla durata della vita stessa e che allinterno di essa ci sono ulteriori suddivisioni, le fasi della nostra crescita ed invecchiamento. Nel caso del karate, le fasi sono quelle che già in precedenza ho nominato: shu-ha-ri È certo che è parte integrante dellindole delluomo il raggiungimento del risultato nel minor tempo possibile; ma proprio nel karate, come nella maggior parte delle discipline orientali, la cosa fondamentale è il come e non il quando. Questo significa che le molte fasi che precedono il raggiungimento di un obbiettivo e che ne segnano lunica via, sono tappe fondamentali e consecutive come i pioli di una scala; lassenza di uno solo di questi non permette di accedere al successivo e tanto meno alla cima. Non è possibile leggere senza conoscere lalfabeto o fare operazioni senza sapere cosa sono i numeri. La fase ri porta a fare qualcosa di peculiarmente personale e nuovo; ma il nuovo viene dopo il vecchio, dopo ciò che esiste già. Allora dovrò, prima conoscere il vecchio, poi capirlo ed interpretarlo e solo allora potrò capire se posso dare qualcosa che apporti innovazione o migliorie alla nostra arte. Proprio il tempo mi permette di introdurmi ad un discorso, fulcro delle mie riflessioni e del testo di questo scritto. Il tempo, come scrivevo in precedenza, per chi praticava le arti marziali in epoche antiche, non era certo motivo di accelerazioni improvvise o di tentativi di cancellazione di tappe, lassenza delle quali non permetteva neanche di accedere con limmaginazione a quello che avrebbe potuto essere il programma del futuro.

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    Chi eseguiva un kata, forse non sapeva neanche dellesistenza di un kata seguente o di livello superiore. In questo modo non ci si poneva un limite di scadenza; linteresse era focalizzato alla ricerca di perfezione di un movimento o di una serie di movimenti, come se fossero i primi imparati e gli ultimi da eseguire nellarco della vita. La nascita dei gradi ha creato delle tappe anche in termini di tempo; ogni grado ha un tempo di preparazione che è diventato di uso comune, quasi come un obbligo. Per il grado A ci vogliono sei mesi, per il B altri sei, poi per il C un anno .e così via. Da insegnanti ci si rende conto che il tempo è un elemento psicologico importante; labitudine alle valutazioni di relazione tra tempi e risultati proviene direttamente dalleducazione scolastica e sociale. Già a partire dalle scuole si rende necessario valutare lo svolgimento dei programmi prestabiliti, entro le date scolastiche. Questo tipo di educazione la si porta avanti, trovando una evoluzione solo alluniversità, dove ci sono ancora i tempi di corso, ma non si è necessariamente obbligati a rispettarli o far coincidere corsi e scadenze. Nel lavoro più che mai i tempi si rendono fulcro dello svolgimento delle attività, ma a questo punto poco conta, poiché lindividuo è già formato. Nella fase evolutiva, invece, anche il karate segue un po la procedura scolastica, dando stimoli temporali che permettono una pianificazione omogenea nella crescita. Questa risulta essere una procedura utile sia allinsegnante che segue un filo logico e univoco, nonché allallievo che vede di fronte a sé delle tappe temporali e meritocratiche che altrimenti gli risulterebbero invisibili. Solo in una fase avanzata, quando le basi sono formate e la sensibilità personale permette una autocritica, è possibile cancellare i punti fissi prestabiliti, lasciando che il singolo individuo capisca limpossibilità di porsi tappe temporali, che non possono essere omogenee per tutti. La domanda quindi da porsi costantemente è: Ma allora il tempo è più importante della tecnica?

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    LA TECNICA

    Tecnica è una parola che può essere identificata come un semplice elemento di kihon, oppure, in modo più ampio, come la rappresentazione dellesteriorità del karate-do. Il karate-do, del quale cercherò di sviscerare tutti gli aspetti, utilizza la tecnica come elemento di trasmissione ed insegnamento di un modo di pensare ed agire. Il karate, che è nato dalla tecnica di difesa ed attraverso essa ha creato unarte in ere più pacifiche, ha mantenuto la tecnica come mezzo di transito per accedere ad una sfera più elevata che è quella filosofica e spirituale. La tecnica fissa dei punti cardine, per la formazione della mente ed il suo allenamento in vista di una lavoro più profondo: lallenamento duro la ripetizione continua lattesa i passaggi obbligati Resta chiaro che lesecuzione della tecnica, non necessariamente deve contemplare un obbiettivo così elevato come quello spirituale; resta al contrario una condizione sine qua non il dover conoscere la tecnica per comprendere cosa essa nasconda o veli. La crescita tecnica implica una ricerca di perfezione del movimento. Parlando in questi termini di un aspetto puramente esteriore,possiamo suddividerla in tre espressioni fondamentali: il kihon, il kata ed il kumite. Possiamo dire che lespressione massima ed ultima del karate (non sportivo) è il kumite, poiché nel combattimento troviamo le origini dellarte. Karate è sinonimo di mano vuota, cioè combattimento senza armi.

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    Ma questa espressione massima proviene dallapprendimento delle tecniche di base e dallutilizzo di esse nello spazio che ci circonda. Nellevoluzione del karate il combattimento reale, utilizzato per difesa personale e dei propri beni, si è trasformato in un combattimento regolamentato nellinteresse della salvaguardia dellindividuo e cioè assente di contatti pesanti e pericolosi. In questo caso levoluzione ha automaticamente provocato uninvoluzione, limitando il numero di tecniche riportabili dal kihon al kumite a causa della loro pericolosità. Nel passato ciò che era importante consisteva nellarte della sopravvivenza, cioè la ricerca della tecnica efficace, indipendente dal suo aspetto esteriore; è certo che buona parte delle cose nasceva empiricamente a causa dellassenza di molte delle conoscenze fisiche e mediche attualmente presenti. Purtroppo questo empiricamente nasconde unaltra parola più cruda che è violentemente, poiché il capire lefficacia di una tecnica significa testarla, cioè usarla su di un uomo. Certo che questo nasceva, come già detto più sopra, in un periodo di grandi lotte e dove i sentimenti di pietà sicuramente erano stati accantonati. Con il passare dei tempi (e anche con lavvento delle armi) la necessità del corpo a corpo si ridusse, per cui scomparve laspetto più fisico e crudo di questa, come di altre, arti marziali a favore di un aspetto più educativo e spirituale. In questottica si è cercato, anche in parallelo alla crescita delle conoscenze sul corpo umano, di creare una propedeuticità nellapprendimento. Questo significava creare, alla base del combattimento e della difesa, una serie di tecniche unificate che potessero essere perfezionate ed ottimizzate in funzione del funzionamento del corpo umano; in questo (soprattutto negli ultimi due secoli) ci ha aiutato la biomeccanica. Non essendo noi dei robot, rimane fisso lelemento della ripetitività del movimento per il suo perfetto apprendimento a livello psicomotorio; sono però convinto che questo non sarebbe sufficiente ad ottenere il 100% del potenziale, se non si avessero i concetti fondamentali di come siamo fatti. Nellambito dellevoluzione personale, la tecnica parte da movimenti base che diano forza, stabilità, elasticità e tutte quelle doti, definite atletiche, necessarie per poi metterle in pratica; questa parola si traduce con la capacità di utilizzare queste tecniche in tutte le posizioni e situazioni, nonché spostamenti ed in combinazione con altre tecniche. Ed ecco i kata, le forme, quellinsieme di tecniche dei quali ogni maestro cerca di dare uninterpretazione ed un bunkai che ritiene più appropriato ed idoneo. La mia modesta esperienza mi porta ad appoggiare la tesi del promemoria, lunica traccia che permettesse ad un maestro di ricordarsi un proprio studio della tecnica, una propria sequenza, che calzasse sempre più al proprio fisico, al proprio modo di muoversi, senza lasciar traccia scritta, alla portata di tutti. Il kata è da vedere come la cassaforte di mille segreti, anche se oggi, in una forma molto sminuente, principalmente, fa parte dei programmi di insegnamento, come forma propedeutica di apprendimento del muoversi nello spazio eseguendo tecniche di karate, quasi come lesecuzione di un bel balletto estetico. Senza dimenticare la sua origine e la sua storia, è certo che vada utilizzato propedeuticamente, soprattutto per la crescita dei ragazzi in età giovanile e adolescenziale, nella quale abbiamo lo sviluppo di tutte le capacità psicomotorie, che vengono stimolate attraverso la ripetizione e la ricerca di perfezionamento: il cervello si impegna a far compiere al meglio un movimento che lui ha registrato in forma perfetta.

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    La nascita (o meglio modifica di kata già esistenti di probabile origine cinese) di kata come gli Heian (modificati dal m°Itosu in forma riduttiva dei kata superiori come in kanku-dai ai quali erano state tolte le tecniche pericolose o a mano aperta) e ancor di più i Taikyoku (inseriti dal M° Gichin Funakoshi nelle scuole primarie) sono un chiaro tentativo di rendere accessibile ad un ampio numero di praticanti di età anche giovane lapprendimento di questa arte. Col crescere dellesperienza i kata diventano mezzo di studio della tecnica, rimanendo quindi in ambito fisico con la famosa ricerca dl todome, la tecnica perfetta e definitiva. Infatti la ripetizione continua e a volte estenuante alla quale si sottopone il karateca porta ad un miglioramento continuo e ad una ricerca del massimo risultato ottenibile da ogni singola tecnica o combinazione. Quindi un buon kata eseguito con la consapevolezza del significato delle tecniche ci porta al bunkai, lapplicazione. In fase evolutiva questo bunkai si trasforma, passando dalla semplice applicazione tra uke e tori di combinazioni di attacco e difesa, ad un vero e proprio combattimento che sfrutta in modo istintivo tutto ciò che si è appreso in precedenza. E questa fase più che mai ci collega gli aspetti semplicemente fisico-motori agli aspetti psico-motori e psicologici.

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    Autore: M° Baracchi Davide Pagina 15

    CAPITOLO III

    ASPETTI INTERIORI EDUCATIVI, FILOSOFICI E PSICHICI

    LA CINTURA

    Lanalisi degli aspetti interiori mi porta a riprendere un aspetto già trattato nel capitolo precedente, ma che può celare aspetti più profondi e stimolanti nellapprendimento. Infatti ho detto che il colore bianco del tessuto, con il costante utilizzo, tende a scurirsi fino ad arrivare al nero; il colore bianco di partenza ha un significato di pulizia fisica, ma soprattutto mentale. Vuol dire avere la mente libera da qualsiasi filtro e pronta a percepire il massimo,pronta ad assorbire tutto senza alcun filtro, come un fa un tessuto bianco in presenza di una macchia. Non a caso si dice che il Karate significhi letteralmente mano vuota, per quanto riguarda gli aspetti fisici esteriori (tutto è nato da una forma di lotta a mani nude detta TODE), mentre assuma un carattere più filosofico e spirituale nella traduzione mente vuota. Tornando allinterpretazione dei colori, proseguo dicendo che i colori più tenui, come dicevamo, assorbono col tempo tutte le macchie di colori più scuri, che porteranno col tempo ad ottenere il nero. Alcune macchie sono indelebili poiché fonte inestimabile di cultura e preparazione, mentre altre col tempo scompaiono, volontariamente rimosse nel proseguo della propria crescita interiore autonoma. Questo è il lavoro che lesperienza e levoluzione dei gradi ci portano a fare: conservare e rafforzare quei principi che ci vengono insegnati dallinizio e cancellare col tempo e lallenamento quei difetti che abbiamo nostro malgrado acquisito per scarsa attenzione durante alcune lezioni. Raggiunte queste consapevolezze, si andrà a creare la propria identità, la propria via, il DO nella quale, senza accantonare gli importanti insegnamenti, si và a creare una propria identità. Queste tre fasi rispecchiano lo SHU-HA-RI, cioè le tappe dellapprendimento per gli orientali. Mantenendo quindi la cintura come un caposaldo del moderno karate, possiamo dire che indossare un colore di cintura crescente deve renderci onorati e gratificati, ma deve anche segnare un impegno maggiore a dimostrare, in ogni gesto, i meriti che ci hanno permesso di indossarla. Avere una cintura più scura, corrispondente ad un grado più alto, non significa arrogarsi il diritto di comandare o spavaldeggiare nei confronti dei koai, ma significa

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    Autore: M° Baracchi Davide Pagina 16

    meritarsi ed acquisire col tempo il loro rispetto nei confronti di una maggiore esperienza. Ricordarsi che ciascuno ha qualcosa da insegnare e qualcosa da imparare dagli altri è fondamentale nellacculturamento, che ha una base di cultura accademica, ma una importante fase di cultura pratica. Nel capitolo precedente, parlando della cintura, si è introdotto il colore nero come punto di arrivo e partenza. Nella trattazione tecnica vuol dire avere raggiunto l conoscenza delle basi necessarie, le fondamenta invisibili che permettono poi di costruire la parte più bella e decorata della tecnica personale, adattata e calzata epidermicamente sulle proprie capacità fisiche. Psicologicamente il discorso è più delicato; infatti latleta vede solo il fatto e non il da farsi. Per dirlo in altre parole, vede che le sue capacità sono aumentate e quindi

    pensa che la nera segni un punto di arrivo, vedendo nel proseguo un non cambiamento di colore che paragona ad una impossibilità di ulteriore accrescimento. Questa fase molto delicata è superabile con una buona dose di aiuto da parte dellinsegnante, che non ha un unico metodo per stimolare latleta. Come verrà trattato in altri capitoli, ogni individuo andrà trattato e approciato con metodologie differenti. Potrebbe essere necessario il confronto diretto che dimostri un grande dislivello di capacità tra maestro ed allievo, giustificato dagli anni di lavoro maggiori. In altri casi invece potrebbe servire lutilizzo di leve psicologiche che stimolino anche lego dellallievo, giocando sul suo tentativo (aspetto umano presente in ognuno di noi) di apparire sempre preparato, mettendolo di fronte a situazioni che sappiamo per lui essere di difficile approccio e ingestibili. È proprio questo il difficile momento della comprensione del vero significato dell obi.

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    Autore: M° Baracchi Davide Pagina 17

    IL TEMPO

    Il tempo è un elemento che cambia aspetto nella relatività dellanalisi; si può dire, in modo apparentemente assurdo, che sia un elemento relativo. In natura è un elemento sicuramente assoluto, poiché è impossibile arrestarlo o rallentarlo. Tutto ruota contro il tempo, che segna inesorabilmente cambiamenti, evoluzioni, invecchiamenti e tutta quella serie di processi mutabili esistenti al mondo. Se la visuale del tempo che si ha, è questa, resta chiaro che non si può pensare di attendere molto per ottenere le cose. Posso dire malinconicamente che nel karate, soprattutto negli ultimi anni, è il modo di veder più diffuso, per chi intraprende questa strada. Il tentativo, o meglio, laspettativa del neo-praticante è il rapido apprendimento di ciò che vede eseguito da praticanti esperti. Per lui il tempo è tutto.secondo lui stà unicamente alla capacità dellinsegnante la rapidità di apprendimento (si scriverà di questo aspetto sociale nel capitolo III). La realtà è che nella nostra disciplina non abbiamo un semplice approccio di tipo atletico; se tutto si riduce a questo è sicuro che, fissate le capacità fisico motorie dellatleta, è una relazione quasi matematica, di tipo inverso, quella che lega il tempo di allenamento con il periodo necessario allapprendimento. Se per assurdo sono consapevole che per compiere un movimento ci vogliono 1000 ore, più ore giornaliere mi allenerò (escludendo un discorso di giuste tipologie di allenamenti, recuperi e quantaltro) e meno giorni impiegherò ad impararlo. Ma sappiamo bene, che non è così nel karate, poiché anche la parte interpretativa e psicologica vuole la sua parte (argomento trattato nel paragrafo Tecnica) Consapevoli del fatto che tutti gli aspetti psicologici e mentali della persona fanno parte di una materia meno matematica, non è così facile temporizzare levoluzione e lapprendimento.

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    Autore: M° Baracchi Davide Pagina 18

    Ecco che il tempo diventa un aspetto relativo, dove il punto di origine è proprio il singolo soggetto, che deve essere reso consapevole della sua situazione iniziale e delle sue capacità, ma che deve necessariamente compiere un lavoro personale non temporizzabile. La sua crescita ha un obbiettivo, ma il tempo per raggiungerlo non è definito (in alcuni casi può non bastare la durata della nostra vita) Questo lo si può notare in molti grandi maestri che ci hanno preceduto e illuminato, segnando una strada nella ricerca di un loro obbiettivo; tali strade sono state inevitabilmente ripercorse dai figli o dagli allievi prescelti, al fine di raggiungere gli scopi che i propri sensei non avevano fatto in tempo a perseguire. Probabilmente gli stessi maestri erano consapevoli della loro impossibilità, ma non per questo aveva no rinunciato ad iniziare il loro lavoro di ricerca.

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    Autore: M° Baracchi Davide Pagina 19

    LA TECNICA

    Potrebbe apparire anomalo ad un occidentale che la tecnica, che apparentemente risulta solo un atto fisico, possa invece avere dei grossi risvolti psicologici e comportamentali. Infatti dopo anni di allenamento ci si accorge che lespressione tecnica si è modificata, con la conseguente creazione di un approccio diverso, più consapevole. La consapevolezza possiamo esplicitarla sia come un riconoscimento delle proprie capacità e sia come ammissione dei propri limiti. In entrambi i casi ne nasce un coinvolgimento mentale, con un conseguente lavoro sul proprio io, che permetta il superamento, dei propri imiti. Certo è che, parlando di un atleta con anni di allenamento alle spalle, i limiti fisici non sono certo il fulcro di miglioramento. Sicuramente anche la parte atletica verrà migliorata (ma mai perfetta), ma il tempo maggiore verrà dedicato alla parte interiore, comportamentale e mentale. E la parte fisica sarà la palestra di allenamento, poiché è il contatto con la realtà. Possiamo indicare alcuni elementi fisici che riguardano lallenamento mentale: la fatica come fonte di volontà a continuare la continuità di allenamento nel tempo che fa superare la noia e la voglia di abbandono la ripetizione continua dei movimenti che porta la mente a rendere naturale un movimento il confronto con altri come riconoscimento dei propri limiti Tutti questi ed altri allenamenti sono alla base dellapprendimento completo del DO

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    Capacità dellinsegnante non è quindi soltanto mostrare lesecuzione della tecnica, ma vedere la tecnica nellottica di una miglioria fisico-mentale dellallievo. Ogni esercizio deve essere creato per mettere in attività la mente e sviluppare di volta in volta una capacità, piuttosto che raggiungere uno scopo prefissato.

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    CAPITOLO IV

    IL KARATE NELLA SOCIETA-ASPETTI CULTURALI

    LA CINTURA

    Sicuramente la società e le abitudini culturali soprattutto occidentali hanno influito nellutilizzo della cintura. Levoluzione dei ruoli sociali, ha portato sempre più ad una definizione di ruoli e gerarchie. In questa ottica del quotidiano, anche negli sport (parola che sminuisce un po unarte come la nostra) cè questo tentativo di affermazione; la cintura sicuramente ne è un mezzo, perché segna chi conta di più. Questa visione non è certo quella che insegnanti e maestri dovrebbero portare avanti, ma al contrario dovrebbero segnalare la cintura come un indice meritocratico che incentivi e gratifichi gli sforzi e i sacrifici dellatleta. Deve essere un motivo psicologico per confrontarsi con gli altri, ma non per prevaricarli. Serve a ciascuno di noi, per darci un indice della nostra preparazione, senza il quale non riusciremmo ad identificare i momenti del raggiungimento degli obbiettivi comuni; al contrario, raggiunti livelli e gradi più elevati ed abbandonati i programmi scritti, gli obbiettivi divengono più specifici e meno identificabili con le cinture e per questo divengono gradi meritocratici. Quindi possiamo dire che è proprio la società e levoluzione culturale che ha portato i grandi maestri a dover introdurre il metodo meritocratico. Per i vecchi praticanti, la gratificazione non veniva certo da un oggetto, ma dal maestro che poteva utilizzare anche poche parole come bravo o a volte semplici sguardi di conferma che erano sufficienti per rincuorare e riempire di sicurezze lallievo. E questi gesti e parole, abbinati allinsegnamento di cose nuove era la chiara indicazione di miglioramento; il metodo di insegnamento della tecnica era certo diverso, visto in questi termini. Oggi invece il pensiero, soprattutto dei giovani, è mirato al colore della cintura e ne è un chiaro indice il numero di abbandoni dopo la cintura nera. Questo senza che si rendano conto di quanto la nera sia il raggiungimento delle prime consapevolezze tecniche,base fondamentale per migliorarsi. Labitudine che si presenta nella società giovanile è il raggiungimento di un obbiettivo estetico e di rilievo sociale, cioè che possa dare affermazione nei confronti degli altri a discapito di un proprio scopo interiore.

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    IL TEMPO

    In una società che corre come la nostra non possiamo che ritrovarci la stessa situazione in palestra; le persone vogliono tutto e subito. Per noi vuol dire ricevere la richiesta di ottenere risultati, preparazione e gradi in tempi estremamente ristretti e incompatibili con i limiti umani di apprendimento. La cosa che più lascia perplessi è che lavanzamento di tali pretese non tiene conto dei sacrifici personali. Chi si iscrive pretende tutto dagli insegnanti, ma niente da sé stesso. Nel karate, come in tutte le attività fisiche (e non solo), tempo e allenamento sono inversamente proporzionali: più ci si allena e meno tempo si impiega ad imparare tecnica, programmi e psicologia delle arti marziali. Ancor meno nei giovani è insito lo spirito di sacrificio ed il metodo di allenamento ripetitivo e costante. Il contributo che noi insegnanti possiamo dare è stimolare e premiare chi si impegna maggiormente, agevolandolo nelle tappe. Non ci è però possibile intervenire in una forma più completa, che riguardi il gruppo. Cambiare labitudine del singolo o peggio ancora di un gruppo (per non dire eufemisticamente di una società) ci è impossibile, non perché dobbiamo sentirci esclusi (ognuno nel suo piccolo fa la sua parte), ma perché il tempo proprio in questo caso è una componente fondamentale. Il tempo che abbiamo a disposizione per stare a contatto con lallievo è minimo rispetto a quello che lui trascorre a contatto con la sua famiglia, i suoi amici e le persone a lui vicine. Il nostro apporto può essere inevitabilmente minimo e facilmente obliabile, soprattutto perché chi approccia il karate , non è intenzionato ad avvicinarsi anche a filosofia, sociologia e psicologia. Vuole solo la tecnica

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    LA TECNICA

    Proprio la tecnica è il punto di partenza per comprendere linterpretazione delle arti marziali come il karate nella mentalità della maggior parte delle persone. Come si enunciava in precedenza, le arti marziali sono viste come arti di combattimento, dove in qualche modo si apprende il metodo per difendersi o per sferrare calci e pugni attraverso una disciplina di tipo militaresco. Nella società le varie fasce di età vedranno chiaramente la cosa sotto prospettive diverse:

    i bambini più piccoli, raffrontano il karate ai cartoni animati che mostrano super eroi in grado di compiere gesti al di là delle umane possibilità e vogliono trovare la strada per fare le stesse mosse

    i ragazzi vogliono esprimere una presenza e capacità fisica imponente (a volte di tipo teppistico purtroppo) che ne possa fare un leader nella banda o che possa in qualche modo distinguerlo ed innalzarlo a boss

    gli adulti lo vedono un mezzo per migliorare il proprio fisico, grazie agli esercizi preparatori che si eseguono nelle fasi di riscaldamento o allungamento

    i genitori sono quelli che, inconsciamente, si avvicinano a parte della cultura dellapprendimento delle arti marziali; infatti portano i figli con lo scopo che gli venga inculcata disciplina, tramite le tecniche ed i gesti del Saho ripetuti innumerevoli volte e con gestualità molto ben definite; questo, come è usanza dire, è già budo Il problema è comprendere la causa che li porta a fare tale scelta. Infatti, nella maggior parte dei casi, si verifica una ricerca di un appoggio esterno alla propria incapacità di educare nel modo voluto. Purtroppo, come un gatto che si morde la coda, è inevitabile ritornare allargomento precedente, poiché la

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    pretesa è la realizzazione di un programma che rientra in una sfera non solo fisica, ma anche psicologica e che necessiterebbe di un continuo contatto con il soggetto e non certo di un incontro bisettimanale della durata di unora.

    La ricerca e laspettativa, in tutti i soggetti, è quindi quella di un rapido apprendimento della tecnica che permetta il raggiungimento di uno scopo preciso e molto personale; questa ricerca è quella che ogni maestro, dopo anni di studio, continua a ricercare nel todome, dove si riesce a concentrare in una tecnica la massima energia sviluppabile da ciascuno. Questa energia è data dallintegrazione di molteplici forze, fisiche, psichiche e non solo, che combinate alla tecnica di base già appresa nei primi anni di studio, portano qualche fortunato allilluminazione, alla scoperta dei segreti più viscerali del karate. La diretta conseguenza è una difficoltà dellinsegnante nel caso in cui voglia raggiungere il vero scopo educativo del karate; è necessario creare attenzione nellatleta, sicuramente dimostrandogli che ciò che ricerca, lo può trovare proprio nel karate. Col tempo, conoscendo la psicologia e le volontà dei singoli, si devono individuare esercizi che possano essere stimolanti, ma che aiutino gli insegnanti a raggiungere lo scopo prefissato. Infatti la società influisce in modo differente sul singolo individuo, in base alla sua psicologia e alla sua identificazione nel gruppo. Per società si può intendere il nucleo famigliare e le amicizie che attorniano il soggetto e che ne hanno forgiato lidentità ed il carattere. È evidente che la difficoltà dellinsegnamento anche della tecnica, resta la compresenza di più individui, ciascuno con i propri segni particolari, che prendono parte attiva alle modifiche di interessi, passioni e reazioni agli stimoli, creando un gruppo eterogeneo con esigenze diametralmente opposte. Se esaminiamo gli aspetti societari in maniera più ampia, si può tranquillamente affermare che i mutamenti sociali hanno influito sul karate e sulla sua evoluzione (anche se questa parola significa letteralmente una fase migliorativa e non in tutti i casi lo è stato).

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    CAPITOLO V

    ADATTAMENTO DEL KARATE ALLEVOLUZIONE

    STORICO-SOCIALE

    Quanto esposto fino a qui, fa parte di un discorso più ampio che racchiude la vera storia del karate, ma non, come già detto, in termini di date e fatti, ma in una visione complessiva di modifiche e cambiamenti. Si può esplicitare largomento con la usuale frase I tempi cambiano, cioè la società cambia; un compendio di eventi economici e scoperte tecnologiche, nel tentativo di creare una miglioria nello stile di vita delle persone, porta inevitabilmente ad un cambiamento di abitudini. La conseguenza è la difficoltà di mantenere origini storiche, ideologie, filosofia e modi che erano di un tempo, trasmettendoli con i mezzi dialettici e comunicativi che appartengono alla società odierna. Lerrore che, secondo il mio modesto parere, viene commesso da alcuni maestri, è di pensare che solo utilizzando i metodi antichi si ottengono i risultati e gli obbiettivi del DO. È giusto mantenere una metodologia marziale rigida, ma solo perchè questa è parte integrante dellatteggiamento e del comportamento che si rende dobbligo sul tatami. Certo non deve essere però il mezzo per ottenere altri risultati. Allallievo bisogna far capire il galateo del karate, come ne esiste uno per ogni situazione. Si rende necessario mantenere delle regole uguali per tutti, che nel karate hanno come scopo finale leducazione, soprattutto per gli allievi più giovani, che spesso si

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    trovano a mal interpretare le regole della società e vedono la libertà come un diritto di muoversi e comportarsi a proprio piacimento, senza considerare le interazioni con il prossimo. Non bisognerebbe mai da dimenticare la regola non fare ad altri ciò che non vorresti venisse fatto a te, perchè spesso ci si accorge di questo solo quando sono proprio gli altri che ci si rivoltano contro. Ed ecco come bene si intreccia tutto ciò che il karate do insegna a partire dalla tecnica. A titolo esemplificativo è un buon elemento il controllo. Nella fase iniziale lo si insegna come capacità di controllo della tecnica, ma nel proseguo diviene componente importante nellinsegnamento del rispetto, quando nel confronto diretto (kumite) ogni colpo và portato con la massima potenza ma senza contatto o con contatto controllato. Questo è solo un piccolo esempio della moltitudine di gesti e comportamenti che racchiudono nella parte più esteriore (cioè quella fisica e visibile), un aspetto ben più profondo che racchiude tutta la cultura orientale con il suo bon ton e il suo saho.

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    CAPITOLO VI

    ADATTAMENTO DEL KARATE ALLEVOLUZIONE E ALLA

    CRESCITA DELLATLETA

    Si è trattato finora degli adattamenti e modificazioni dellarte, legate al trascorrere dei tempi sociali, legati cioè alla fatale e inesorabile evoluzione dei tempi storici. Volendo ora restringere il campo ad un intervallo di tempo più limitato, ipotizzando cioè che il tempo non apporti modifiche e influssi esterni, si può andare ad analizzare quali siano le differenze e le evoluzioni rispetto agli aspetti comportamentali, psicologici e fisici, del praticante che approccia al karate in età giovanile. Come detto in precedenza, lanalisi relativa alletà giovanile è necessaria per valutare le vere modifiche educative nella fase più importante della crescita. Possiamo iniziare a valutare un bambino in età prescolastica (4/5 anni). Per lui il karate è e deve essere un gioco, poiché a lui principalmente non sono chiare alcune regole e non riesce e a comprendere alcune imposizioni, se non perchè vengono fatte da un adulto. Oltre a questo coesiste la non capacità di mantenere lattenzione alta per un periodo sufficiente a trasmettergli verbalmente concetti e tecniche; infatti per i bambini di questa età è importante far fare gli esercizi per emulazione o sotto forma di gioco. Si fanno giochi che possano sviluppare tutte le capacità coordinative e motorie che serviranno poi nella tecnica di karate. Avanzando nelletà si raggiunge il periodo scolastico durante il quale, il bambino, apprende anche nella vita quotidiana lesistenza di regole e valori (o perlomeno così dovrebbe essere).

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    Di conseguenza risulta un lavoro meno faticoso e più in linea, quello che andiamo a fare noi istruttori di karate allinterno del dojo, pur utilizzando parametri e regole diverse, ma in unottica comunque di educazione sociale e comportamentale. Nelle fasi successive, soprattutto nel periodo adolescenziale, i ragazzi acquisiscono una loro identità e si sentono molto sicuri di sè. Questo porta ad una maggiore difficoltà nellimporre delle scelte, senza che questo provochi malumori o abbandoni. È necessario far capire che ogni imposizione e regola non è fine sè stessa o uno sfogo dellistruttore, ma è la fase necessaria per raggiungere i propri scopi, ma anche un equilibrio dei ruoli e dei gradi. Ognuno ha qualcuno a cui obbedire e qualcuno a cui dettare regole; questa catena è importante perchè la si ritrova nella vita quotidiana, soprattutto lavorativa. Ipotizzando, come nella premessa, il proseguo della pratica anche in età adulta, la volontà è di apportare allatleta una piccola goccia di saggezza e buon comportamento nelloceano delleducazione personale, per quanto possibile con a disposizione poche ore alla settimana.

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    CAPITOLO VII

    IL KARATE INIZIATO IN ETA ADULTA

    Cosa diversa è linizio dellattività in età adulta, con latleta già formato fisicamente e mentalmente. A prima vista questo potrebbe sembrare un lavoro impossibile per un insegnante che tenta di trasmettere movimenti e filosofia da karateca. Questo e parzialmente vero se si vede nel perfetto karateca, unicamente latleta che vince ogni gara per un periodo di pratica, dopodichè si evolve divenendo una specie di guru che impartisce lezioni di vita a tutti. Un bel sogno! Ma mi chiedo:é proprio così? Il giochino funziona solo se si riesce a trasformare in una macchina da combattimento un atleta per poi portarlo ad essere la quintessenza del Buddha Bodidharma? La risposta che mi sono dato è NO! Proprio grazie al contatto ed allinsegnamento impartito a persone di età adulta se non addirittura avanzata, che si sono presentati in palestra senza avere una preparazione fisica antecedente, ho potuto scoprire i veri risultati ai quali mirare, che sono sicuramente i più duri ma allo stesso tempo i più appaganti. Il risultato è vedere anche un minimo miglioramento fisico, vedere che una persona che non riesce e probabilmente non riuscirà mai a lanciare un keri jodan, arriva ad acquisire una coordinazione tale da muovere allunisono braccia, gambe e tutto il corpo.

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    Per arrivare a cosa? Ad ottenere il proprio 100%, il proprio massimo che è decisamente superiore al limite fisico che la mente ci impone con un opera preservante, andando di volta in volta a superare di un minimo i propri limiti fisici. Inconsciamente si stà andando a forzare la mente distogliendola dalle sue convinzioni e quindi dai suoi paletti e andando a convincerla che ogni limite è superabile accettando la presenza di due importanti e principali parametri: il primo del quale ho largamente parlato è il tempo ed il secondo del quale ho parlato, anche se in forma minore, la costanza e perseveranza.

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    CAPITOLO VIII

    LE GARE: LA LORO NASCITA E LA PARTECIPAZIONE

    COME FONTE DI CRESCITA

    La nascita del karate era legata ad una normale evoluzione tecnica iniziata con le più antiche forme di combattimento e giunta alla creazione e codifica di una serie di tecniche che rappresentassero un ipotetico combattimento, ma che potessero essere utilizzate come forme di allenamento fisico e mentale. Tale evoluzione prendeva significato nella diffusione del karate e non più nellantica segretezza. Il processo di diffusione non poteva quindi più essere eseguito tramite il solo insegnamento da maestro ad allievo e per passaparola. Doveva venire coinvolta, in maniera più ampia, la gente comune. Solo uno spettacolo, una rappresentazione, poteva fare al caso e essere al servizio di questa causa. Questa rappresentazione doveva però essere stimolante sia per i protagonisti, che avrebbero dato il massimo di sè e sia per gli spettatori che dovevano vedere la vera essenza di questa arte nuova e non una finzione teatrale. Ed ecco che i vecchi combattimenti utilizzati nel tode vennero regolamentati e nacquero le gare. Le gare erano incentrate sul kumite, maggiore fonte di attrattiva e anche più significativa nella rappresentazione di unarte forte e impregnata di storie di samurai e combattenti. E forse possiamo dire grazie alle gare se anche noi oggi facciamo karate; probabilmente se esse non fossero nate, il karate sarebbe rimasto a lungo sconosciuto e presente nei soli paesi di origine.

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    A queste gare, una volta compreso il loro significato, si sono aggiunte quelle di kata, a completare il programma tecnico rappresentato del karate. Naturalmente le gare, come il resto del karate, hanno subito unevoluzione con grandi cambiamenti. Quello che era nato come aspetto divulgativo si è trasformato, presentando altri aspetti, legati alla natura umana con pregi e difetti. I pregi sono facilmente riscontrabili, quando si và a vedere una gara e, anche chi non è del settore ed è quindi solo spettatore, riesce a visualizzare semplicemente una sana competizione tra atleti, come avviene in molti altri sport. La sana competizione la si ha quando ognuno è predisposto al rispetto delle regole, indipendentemente dalle proprie opinioni e dalla propria via; anche il kumite pur rappresentando un combattimento e quindi apparentemente un atto violento, non lo è affatto se le regole (in primis quelle del rispetto dellavversario e del controllo) vengono rispettate. I limiti e le lacune sono molteplici e relativi ai difetti intrinsechi delluomo. In primo luogo, proprio la parola sport da me nominata nei pregi, potrebbe essere anche un difetto nel momento in cui tutte le regole si modificano per lapparenza, per lestetica del movimento per quanto riguarda i kata. Ma anche il kumite viene trasformato in nome dello sport, eliminando tutto ciò che è tecnica segreta e incomprensibile per la massa e lasciando spazio alla tecnica esaltante ed eclatante come potrebbe essere un calcio portato al viso senza alcuna considerazione di punti di contatto (sia dellarma utilizzata sia del punto colpito, kyushu) Un altro peccato è la voglia di affiorare, di imperare che porta a sfruttare le gare, organizzandole per farsi conoscere e utilizzarle per classificare il peso di un maestro in base al numero di partecipanti alle gare organizzate o in base al numero di coppe che i propri atleti portano a casa. È certo che per un maestro la coppa del proprio allievo è una soddisfazione ed anche un parametro per comprendere quanto il proprio insegnamento sia proficuo, anche quando giudicato da occhi esterni. Ma lallievo non deve divenire loggetto da esporre in bella vista per dimostrare le proprie capacità, a paragone con gli atleti meno bravi. Inoltre questo potrebbe causare, nellatleta che perde il confronto, unumiliazione nel caso si insista nellostentare il vincitore. Col tempo la gara si stà orientando unicamente verso lo sport, cioè trasformando ciò che era arte marziale, con movimenti rappresentanti combattimenti o kumite che dessero lidea del vero todome (tecnica definitiva), in un movimento atletico che possa unicamente apparire bello e perfetto. Certo che la ricerca della perfezione deve essere il punto fermo di ogni karateca, anche con lutilizzo delle nuove tecniche e conoscenze scientifiche, ma non necessariamente trasformando completamente il movimento e le regole. E allora la gara cosa dovrebbe essere oggi? Dovrebbe essere una parte della strada che si percorre nel karate; nel percorso di crescita secondo me è un utile mezzo di perfezionamento della tecnica e un buon metodo di esercizio mentale. Infatti tecnicamente si và a fare un lavoro di fine cesellatura dei particolari, ricercando il movimento tecnicamente perfetto biomeccanicamente e fisiologicamente; questo richiede un grande sforzo fisico e un grande lavoro di rafforzamento muscolare che in una fase della crescita sono molto importanti e comunque bisognerebbe darle con altri mezzi.

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    Per quanto riguarda la parte mentale, la continua ripetizione e lalta attenzione portano ad uno sviluppo psico-motorio e di coordinazione. Un altro tassello importante è il superamento dei propri limiti e delle proprie paure. Il solo contatto con il pubblico e la presenza degli arbitri ci mette nella condizione di essere costantemente giudicati, sia da occhi competenti che da occhi di gente comune. I primi ci mettono nella condizione di diventare più sicuri di noi stessi poiché in assenza di questo nostro stato mentale, non è possibile il raggiungimento degli obbiettivi sportivi. Infatti, come più volte ribadito, il buon risultato nellambito delle arti marziali è dato dal compendio della parte fisica e della parte psichica, linsieme del jutsu, dello zanshin, del ki. Gli occhi non del settore invece ci portano ad apparire composti, nel rispetto della giusta etichetta, il saho, che determina un modo di essere e non solo di apparire. La continua ripetizione di gesti composti e marziali anche fuori dal tatami, porta ad una abitudine che si riporta anche nella vita di tutti i giorni. Ed ecco che si può comprendere come la gara possa essere un punto importante nei passaggi educativi e di apprendimento. Anche luso della giusta di grinta e spirito combattivo controllate per fare che non sfocino in violenza e cattiveria dimostrano sicurezza di sè e controllo delle proprie emozioni, così come vuole il saho del buon karateca.

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    CAPITOLO IX

    IL KARATE PER I DIVERSAMENTI ABILI O CON

    PROBLEMATICHE COMPORTAMENTALI

    In questi ultimi anni tutti gli sport hanno fortunatamente dedicato una buona parte degli sforzi di ricerca medica, motoria e psicologica nella direzione delle persone diversamente abili o con problematiche psichiche particolari. Apparentemente, ad un occhio poco esperto, potrebbe apparire al quanto improbabile la pratica del karate per le persone con problematiche motorie. Questo perchè si pensa sempre al karate-jutsu e non al karate-do. Secondo questultima visione, il karate non è da considerare solo una disciplina praticabile solo da chi è atleticamente preparato; certo non la ricerca dovrà essere diversa. Una persona atleticamente dotata potrà accedere alla parte più estremamente sportiva e agonistica; per chi non presenta tali condizioni si potrà adattare il movimento alla particolare condizione fisico-motoria, facendo compiere movimenti che possano contribuire al miglioramento delle condizioni del disabile, per quanto possibile. Possiamo paragonare, senza volersi paragonare ed equiparare a professionisti del settore, questo tipo di lavoro a quello che viene realizzato da fisioterapisti e fisiatri nella riabilitazione di alcuni casi di handicap motori, soprattutto per i post-traumatici. Se pur in poche occasioni, ho avuto la possibilità di lavorare con ragazzi disabili, con problematiche motorie diverse, cioè provocate da patologie diverse; nei casi post traumatici si lavora con persone che hanno ben chiara nella mente lorigine del movimento corretto ed è relativamente più semplice spiegare lo stesso in forma modificata e adattata alle capacità motorie.

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    Nei casi di patologie già esistenti al momento della nascita, ma senza patologie psichiche, la spiegazione necessità di un più profondo adattamento della nostra immagine del movimento. Non è più possibile spiegare il movimento originale, poiché chi abbiamo di fronte non ha mai riprodotto col proprio corpo un movimento in posizione eretta o con coordinazione naturale per una persona abile. Mentalmente dovremo identificarci fisicamente con gli handicap dellallievo per poter comprendere in modo diretto, le sue difficoltà e limiti. Caso ben più complesso da trattare è la presenza di patologie psicologiche o psichiche, che complicano il metodo di comunicazione. In questo caso,come verrà trattato nel prossimo capitolo, sarà necessario modificare proprio il linguaggio. Potrebbe essere molto utile un contatto fisico durante la spiegazione verbale, muovendosi insieme prendendo gli arti o il corpo dellallievo e facendo compiere il corretto movimento. Oltre a questi casi estremi e molto impegnativi, ne esistono molto più innumerevoli legati a persone, o più diffusamente a bambini e ragazzi, che presentano alterazioni psicologiche e comportamentali. Spesso gli stessi medici che hanno in cura questi ragazzi nella fase di crescita, vedono proprio nella nostra disciplina un buon metodo correttivo, per severità, rettitudine e ricerca di stabilità psicologica. Purtroppo il messaggio dei medici a volte viene travisato dai genitori, che si illudono che il portare il proprio figlio a karate voglia dire automaticamente un miglioramento; questo non può essere per due fondamentali motivi già abbondantemente trattati nei capitoli precedenti: il tempo e il gruppo. Il tempo che per noi è tiranno, poiché i nostri allievi sono con noi solo due o tre ore la settimana. Il gruppo significa la presenza di molte persone durante lora di lezione; è infatti improbabile che si riesca a fare un corso unicamente per ogni singolo, anche se, per quanto possibile, si cerca di avere un occhio di particolare attenzione per chi ha più problemi (a volte utilizzando un istruttore dappoggio). Data la delicatezza di questi casi, è però importante capire i propri limiti, che ci evitino di pensarci capaci di trattare in modo incisivo, casi già difficili per i medici specialisti. Sempre più il karate e le arti marziali, legate ad una filosofia di vita, alla ricerca e non solo della tecnica si stanno specializzando, parallelamente al jutsu, che ne ha segnato la nascita, nella ricerca dellutilità sociale (come già trattato) anche nelle situazioni più difficili di disagio e emarginazione sociale.

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    CAPITOLO X

    IMPORTANZA DEL LINGUAGGIO VERBALE E CORPORALE

    NELLA COMUNICAZIONE TRA INSEGNANTE ED ALLIEVO

    Parallelamente al karate, oltre ai corsi di istruzione tenuti durante il mio percorso verso la qualifica di maestro, ho avuto la fortuna di partecipare a corsi di comunicazione. Tra le varie cose apprese ci sono quelle riguardanti i messaggi lanciati dai vari interlocutori e che vanno a formare il feedback. In questo caso questo messaggio di ritorno corporale ci può dare lindice di attenzione e comprensione del nostro ascoltatore. E deve essere il punto di partenza per la modifica del nostro metodo di comunicazione. Bisogna interpretare principalmente i linguaggi del corpo poiché generalmente lallievo durante una lezione di arti marziali, per le regole esistenti nei dojo, non deve commentare o avere da ridire del maestro. Pertanto inconsciamente il suo corpo, a partire dalla parte principale che è il viso, parla per lui. Spesso uno sguardo, oltre ai movimenti di tutto il corpo, possono comunicarci svogliatezza, disinteresse e disappunto, anche se la durata di unocchiata può essere di qualche istante. Linsegnante deve essere quindi molto attento e percepire al volo questi istanti, modificando velocemente il proprio modo di trasmettere di quel momento. Ovviamente queste varianti nellinsegnamento non dovranno essere definitive, ma necessarie nellimmediato per poter mantere alta lattenzione del gruppo e porre una pezza momentanea. Ho parlato di modifiche momentanee poichè il lavoro definitivo appartiene ad un operazione più ampia su sè stessi, da eseguire con tempi lunghi e continue analisi che ci possono far capire i nostri errori comportamentali. Ma tornando allargomento del capitolo, gli adeguamenti momentanei dei quali si parlava riguardano principalmente i metodi di comunicazione. Infatti, secondo la PNL (programmazione neurolinguistica) esistono vari metodi per comunicare, che, senza addentrarsi in terminologie complicate, si dividono fondamentalmente in tre grandi famiglie che raggruppano lutilizzo dei nostri sensi nella comunicazione: uditivo, visivo e cenestesico. I tre metodi rispettivamente utilizzano rispettivamente la vista, ludito ed il terzo modo raggruppa gusto ed olfatto, anche se si può generalizzare con un metodo tattile. Ogni persona per natura predilige un sistema di comunicazione secondo il quale riesce meglio ad interpretare un messaggio. Esemplificando, nel karate, significa che se si spiega ad una persona a parole una tecnica, lascoltatore potrebbe fare fatica a comprenderla poiché per lui o lei potrebbe

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    essere difficile immaginare e realizzare nella mente, limmagine di ciò che stò spiegando. Allo stesso modo qualcuno avrebbe bisogno di avere la spiegazione della meccanica del movimento, affinché riesca a trasformare la teoria in pratica (non gli è sufficiente vedere e quindi copiare). Per la terza tipologia di persona sono necessarie sensazioni più fisiche, tattili (escludiamo olfattive e gustative che non fanno al caso del karate), cioè sensazioni dirette che mettano in comunicazione il soggetto con lo spazio che lo circonda (magari anche aiutandolo fisicamente e spostandogli una gamba od un braccio, tramite un contatto diretto). Comprendendo questa grossa e fondamentale differenziazione allinterno dei gruppi, è intuitivo che sia necessaria, di fronte ad una moltitudine di soggetti anche

    sconosciuti, una spiegazione che vada a toccare tutti e tre i linguaggi di comunicazione. Tradotto significa, se esemplifichiamo con linsegnamento di un kihon o un kata, riuscire a spiegarlo a parole, farlo vedere e andare sul singolo a correggere fisicamente la tecnica andando a spostare le parti del corpo dellallievo che si trova con la tecnica imperfetta. Questo continuo scambio e ricerca di comprensione della personalità dellallievo è più che mai importante nel karate, oltre alla rilevanza che avrebbe un normale rapporto fuori dal tatami. Dopo molti anni, grazie a questo lavoro costante di ricerca di feeling, si viene ad instaurare un rapporto particolare, in particolar modo con gli o il singolo allievo discepolo, detto kimuchi.

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    CAPITOLO XI

    KIMUCHI: IL RAPPORTO TRA MAESTRO ED ALLIEVO

    In tutto quello che si è trattato finora, cè un aspetto intrinseco, che nasce non per volontà, ma per necessità umana. In qualsiasi ambiente ci si trovi, quando deve esistere un dialogo e una convivenza, ne nasce un rapporto che lega le varie persone. Così è anche nel karate, sia per quanto riguarda il gruppo degli allievi, sia, in modo più importante tra maestro ed allievo. Il rapporto, soprattutto oggi, che i ragazzi e anche alcuni adulti, pensano che tutto sia dovuto, appare ai nostri occhi, che viviamo nel settore da molti anni, molto difficile. Lo è perchè lallievo si aspetta di entrare in una struttura dove il maestro è linsegnante che potrei trovare in qualsiasi palestra di fitness. Purtroppo, per loro, ma per fortuna per come la pensiamo noi, il maestro di arti marziali non è questo. I maestri di karate non devono certo atteggiarsi a maestri di vita, ma sicuramente a loro è dovuto il rispetto, che giustifica i molti anni di lavoro e fatica per arrivare dove sono arrivati. Per la filosofia orientale (da non dimenticare mai lorigine culturale) questi principi contano molto di più di quello che per un occidentale si ridurrebbe ad un semplice rapporto di palestra e lavoro:......io pago liscrizione e tu mi insegni il karate..... Tutti noi capiamo quanto sia difficile da comprendere, ma il mondo del karate non gira così; a catena, partendo dal maestro fino ad arrivare al kohai, passando per

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    istruttori, allenatori e via via per il resto dei gradi, si ha un legame di estremo rispetto, che a volte appare erroneamente come una sudditanza, ma è solo linsieme di molte componenti tra le quali il già sopra indicato rispetto, nonché una estrema fiducia e credo nel karate. La fiducia in questo caso non significa certo stupidità; di certo non ci si butta nel fosso se è evidente la pericolosità. Tutto stà nel comprendere che il maestro è una personale che può sbagliare come ognuno di noi; non bisogna vederlo come un Dio, che enuncia il verbo, ma in lui bisogna riporre senza filtri la propria Via nel karate. Bisogna credere nel suo lavoro e nella sua volontà di dare, spesso, come dice un famoso detto, facendo quello che dice e non quello che fà. È una cosa delicata da dire e non vorrei che venisse travisata e per questo la esprimerò meglio. Esemplificandola con la parte fisica e cioè restringendo al karate jutsu, un buon maestro tecnico potrebbe non essere un buon atleta. Questo non significa che se non è capace di eseguire in modo perfetto una tecnica non sia capace di insegnarla e non sia nei suoi diritti pretenderla da un suo atleta. In questo è molto chiaro quanto latleta si debba fidare del proprio maestro perchè deve credere che tutto ciò che gli viene detto è fatto nellintento di dare e migliorare la condizione psico-fisica dellatleta. Senza questa condizione il rapporto e quindi la pratica allinterno di quel dojo, purtroppo non potrà durare a lungo; sembra strano ma il feeling di pensieri, cioè la condivisione di ideali è condizione sine qua non per la pratica di karate-do. Anche per un occidentale può essere chiara la cosa se la si osserva con lottica di una catena; ognuno ha la possibilità di salire di grado e qualifica fino a raggiungere se non a superare il proprio sensei, ma ciò può avvenire proprio se tutti rispettano i ruoli. La parola marziale racchiude proprio questo segreto, non segreto: in modo semplicistico si può pensare ad un metodo militaresco, dove lorganizzazione e la buona riuscita degli intenti è legata proprio al rispetto dei ruoli e al rispetto delle esperienze. Per quanto concerne linsegnamento comportamentale e spirituale il maestro deve essere convinto in prima persona di quello che insegna, vivendolo non solo sul dojo ma adottandolo come modus operandi nella vita di tutti i giorni, o perlomeno provandoci. Ed ecco la parola chiave che fà capire il ruolo dellallievo in questo ritaglio di apprendimento: provare deve essere il verbo di ciascuno e principalmente degli insegnanti. Ciò non significa riuscire, cioè chi insegna deve cercare di trasmettere la perfezione, sia del movimento, sia dei comportamenti, ma questo non comporta che lui abbia già raggiunto la perfezione e che non sbagli. Bisogna accettare che il maestro commetta errori e non per questo perdere fiducia o stima in lui. Il maestro deve acquisire stima con lesempio di sforzi continui per migliorarsi, utilizzando il proprio carisma. Letteralmente questa parola ha tra i suoi sinonimi autorità e fascino (inteso come capace di suscitare interesse); linsieme delle due parole fà comprendere quanto la posizione del maestro sia delicata. Anche se è vero che lautorità ci viene assegnata dal grado stesso, è pur vero che la vera autorità, come del resto il fascino, contengono una importante componente personale, insita nella natura dellindividuo. Non è possibile apparire affascinanti e autoritari solo imponendo la propria posizione.

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    Sono sensazioni che, coloro che ci stanno di fronte, devono sentire nascere da dentro, affinché diventino qualcosa di proficuo e duraturo. La nostra bravura di insegnanti stà nel comprendere i nostri errori anche e soprattutto dalle conseguenze che i nostri atteggiamenti hanno sullallievo; tutto stà nel mochi-bun, la capacità di ascoltare e comprendere, che ci porta ad incontrarci con il pensiero dellallievo. Ciò non vuol dire modificare i nostri comportamenti senza valutare se questo sia giusto; il nostro dovere è ascoltare e autocriticarci per giungere alle giuste conclusioni, che potrebbero essere anche il non modificare nulla dei nostri comportamenti e continuare con fermezza e non durezza nella nostra opera di educazione. Sono felice ed onorato di usare queste due parole apprese dal mio maestro, che per anni ha insistito con me affinché usassi il giusto equilibrio con gli allievi. Questo mi ha permesso col tempo di conquistare lattenzione, la fiducia e la stima di questi ultimi, pur mantenendo le caratteristiche base del mio carattere che sono particolarmente rigide ed inflessibili, ma che sono sempre state utilizzate per giusti scopi ed in maniera non schiacciante o repressiva; al contrario sono servite a far crescere atleti rispettosi e che acquisissero disciplina che vuol dire anche sicurezza. Col tempo lallievo comprende la propria posizione e limportanza di quella figura che lo ha aiutato nel raggiungimento del risultato e riversa su di essa tutta la sua stima. In questo rapporto ne nasce dopo tanti anni una difficoltà, che questa volta non è più solo dellallievo, ma maggiormente del sensei. Il maestro umanamente, dopo tanti anni, sente nascere un rapporto che non è più solo di dojo; vede nellallievo il suo erede e lo porta ad essere persona che appartiene un po alla sua vita, un figlio adottivo. La difficoltà è mantenere una posizione di comando allinterno del dojo, con i giusti gradini, a volte usando anche metodi duri laddove possa servire. È altrettanto difficile doversi mettere in una posizione di comando nei confronti di

    persone di età superiore alla nostra, persone che fuori dal tatami avrebbero molto da insegnarci nella vita. E dai loro comportamenti dobbiamo imparare anche quando sono sul tatami, senza però che questo estremo rispetto ci porti ad una forma di difficoltà e soggezione che non ci faccia compiere il nostro lavoro che è comunque di educazione. Nel mio bagaglio di esperienza posso dire di avere vissuto questa situazione, di insegnare a persone che hanno letà dei miei genitori. Ma direi, in questottica, di essermi trovato in una situazione ancora peggiore; quella di trovarsi a crescere con degli amici che hanno iniziato la pratica insieme o prima di te e per vari motivi ci si trova ad essere il loro maestro. E proprio da qui ho capito che solo insegnando con il cuore e la voglia di dare tutto senza aspettarsi nulla e senza timori di dare troppo, si arriva a superare i limiti che la nostra mente ci porrebbe nellutilizzare metodi e regole ferree. Ecco cosa è il Kimuchi.

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    CAPITOLO XII

    LA MIA RICERCA: IMPLEMENTAZIONE DI ARTI E

    MARZIALITA NELLA COMPRENSIONE DEL KARATE

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    Lo studio del karate, giunti ad essere maestri, con alle spalle tanti anni di pratica, porta a voler scoprire cosa venga celato dietro le tecniche, i segreti più reconditi dellarte. La conoscenza della tecnica, come movimento biomeccanico dovrebbe essere qualcosa di conosciuto almeno dal punto di vista teorico. Ma la tecnica odierna, dobbiamo ricordare che è nata come forma, da utilizzare nella propedeutica e come forma di sviluppo fisico motorio. Ma questa tecnica è una rielaborazione delle tecniche originarie, che probabilmente erano esteticamente più brutte, ma anche più efficaci , poiché nate con lintento di essere dei todome e cioè dei colpi decisivi. Seguendo questa linea di pensiero, ancora più incisive risultano le modifiche che hanno subito i kata che sono un insieme di tecniche adattate per creare una forma spettacolare ed educativa, nellintento di sviluppare il movimento di base (kihon) nelle diverse direzioni. Ma questo aspetto è stato acquisito, con la nascita dei confronti, le competizioni, per le quali era necessarie una codifica del movimento, ununica espressione visiva. La realtà del kata era la volontà di avere un vademecum delle tecniche utilizzate nei vari combattimenti, applicazioni a varie distanze e contro tecniche di diversa natura, con lausilio anche di armi. Lo studio di queste origini è la ricerca che, molti maestri, me compreso, intraprendono, per comprendere il vero significato di ciò che per anni hanno eseguito alla ricerca della perfezione, ma senza comprendere la vera essenza. Nel proseguo, descriverò quale è la mia idea di giusta via nella ricerca della vera essenza e origine del karate. È sicuramente fonte di riflessione, la presenza di molti stili di karate. Si dice che il

    karate è karate qualsiasi stile si faccia. Ma è anche conseguenza che se si fà uno stile di karate (parlando degli stili con una storia lunga alle spalle e non a creazioni o invenzioni di qualche improvvisatore) si conosce solo una parte del karate. Gli stili sono (come da me già trattato nellintroduzione) la modifica delle tecniche originali, secondo la quale ogni grande Maestro (Itosu, Funkoshi, Higaonna, Mabuni Kenwa e via via nellelenco dei nomi famosi) ha adattato i movimenti originali, calzandoli e modellandoli alle proprie attitudini fisiche. Esemplificando in modo banale chi era bravo a tirare calci sviluppava delle forme con elevata presenza di calci, chi aveva un fisico possente le creava poderose e così via per tutte le caratteristiche fisiologiche. Non a caso compare la parola forme che sappiamo essere la traduzione più utilizzata di kata, che, col precedente discorso, ribadisco essere la carta didentità del maestro. Losservazione approfondita di alcuni kata ci permette proprio lanalisi e lo sfruttamento dei vari modi di muoversi e di utilizzare tutte le tecniche. Ma se già allinterno di uno stile posso ritrovare un ampio spettro di metodologie di allenamento e di visioni della tecnica, possiamo immaginare o avere una minima idea delle differenze di principi che possiamo trovare passando da uno stile allaltro. Di conseguenza la prima fase di approfondimento è quella della conoscenza delle peculiarità degli stili diversi dal proprio, attraverso la pratica o il solo studio teorico (la prima è di certo maggiormente illuminante). Lulteriore conseguente lavoro sarà quello di implementare le peculiarità per completare la propria preparazione, senza permettere che questo processo trasformi

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    lo stile da noi praticato. Non dobbiamo atteggiarci a creatori di ciò che già esiste; dobbiamo solo umilmente metterci a disposizione di noi stessi e degli altri, per essere competenti e preparati al fine di avere il più possibile capacità di dare. La seconda fase, per due diversi motivi, potrebbe essere una conoscenza di altre arti marziali. Primo è che anche le altre arti marziali, come gli altri stili di karate, ci danno tecniche complementari, importanti nella ricerca della tecnica applicata. Lapprendimento di altre arti marziali potrebbe essere utile in alcuni casi per completare la tecnica stessa ed utilizzare altri principi e altri metodi che potrebbero aiutarci nel miglioramento del movimento, per quanto possano apparire diversi dai nostri. Il secondo motivo di importanza non è legato in modo diretto alla tecnica; alcune arti marziali potrebbe utilizzare principi talmente diversi da non poter essere utilizzati e applicati direttamente sul movimento. In questo caso la tecnica sarà utile per comprendere lessenza del combattimento reale e del goshindo. Questo ultimo elemento nei primi anni di apprendimento potrebbe essere non comprensibile per lassenza delle basi tecniche e conoscitive. Sarà più utile quando la tecnica di base è stata appresa e necessitano ulteriori elementi per meglio applicare in pratica (e rendere quindi tangibile) il kihon. In questa ottica di crescita la mia esperienza mi ha portato ad incontrare altre due discipline marziali: kobudo e iai-do. Entrambe le arti contengono, come sempre accade, vari stili e per questo ne parlerò in maniera generica senza entrare nelle peculiarità specifiche.

    Il kobudo affronta la tematica delle armi povere di Okinawa, come il bo (bastone), i tonfa , i sai e molte altre. Proprio il kobudo con le sue tecniche, ci fà trovare molte similitudini nei bunkai dei kata. Infatti conoscendo i movimenti specifici compiuti con le armi, si riescono a trovare molti elementi per ipotizzare le applicazioni di molte combinazioni di kata superiori. Come sempre non si può avere la certezza delle applicazioni, poiché non sono giunti a noi degli scritti contenti la codifica originale del creatore del kata, ma si possono trarre grandi spunti.

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    Lo iai-do può essere fonte importante di origini del movimento per chi pratica karate, soprattutto con derivazione shotokan. Dalle ultime ricerche pare proprio (e di queste notizie non posso che essere grato al mio maestro, fonte sempre affidabile, aggiornata e alla ricerca della verità) che molti dei movimenti di base dello shotokan potessero derivare dalluso de la (o a detta dei maestri giapponesi il) katana, arma nobile e famosa perchè utilizzata dai samurai. Avendo la fortuna di praticare lo iai-do, larte (via) dellestrazione della spada, ho la possibilità di verificare in altro modo i principi del karate. Lo iaido è un'arte marziale giapponese, influenzata dalla dottrina Zen, che trae le sue radici dalle antiche scuole di iaijutsu frequentate dai samurai e che hanno avuto il loro massimo splendore intorno al XVI sec. Da questa arte di combattimento, che necessitava di grande tecnica al servizio della salvaguardia della propria incolumità, ne è nato il Do, la tecnica che raffigura ipoteticamente il combattimento, ma creandone una forma alla ricerca della perfezione. Il principio fondamentale dello Iai è il "Saya no Uchi", "vincere senza sfoderare", cioè dimostrare una tale superiorità nei confronti dell'avversario da indurlo ad abbandonare la contesa ancora prima di averla iniziata. La ricerca della perfezione, la ricerca dellunico colpo risolutore, ma anche un gran controllo degli istinti, fanno dello iaido un predecessore del karate. Lo iaido è l'arte dell'estrazione della spada, ma l'ideogramma giapponese Iai ha anche il significato di "conoscenza dell'essere". Conoscere sè stessi per conoscere gli avversari, dei quali il peggiore siamo noi stessi. Al giorno d'oggi, in cui la guerra utilizza ben altre tecnologie, lo studio della katana ha acquisito valore come mezzo di indagine del profondo alla scoperta dellessere. Oltre alle specifiche arti marziali, la conoscenza dellessenza del karate, comprende una cultura più ampia, che non riguardi solo luso di uke e uchi; la filosofia e la mentalità orientali sono base di conoscenza per comprendere a pieno i modi, i metodi e le usanze nel dojo. Quindi altre semplici arti come la cerimonia del te (sadou oppure cha no yu) o dei fiori (ikebana) possono essere viste per aiutarsi in questo compito.

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    Autore: M° Baracchi Davide Pagina 45

    Oppure, volendo partecipare in modo più completo, anche se più faticoso, alle pratiche della vita quotidiana di chi ha fatto delle arti marziali il proprio unico scopo della vita, si possono fare sedute Zen o meditative, come è proprio dei monaci. Ed è stata per me una fortuna poterlo sperimentare con un monaco buddista, facendo solo una parte delle sedute meditative alle quali loro si sottopongono quotidianamente, perchè ho potuto capire quanto gli esercizi fisici del karate fossero veramente necessari per arrivare allaspetto spirituale. Penso che, compatibilmente dal tempo limitato che la vita quotidiana ci lascia libero, questa sarà la mia strada, la mia ricerca: utilizzare tutto quello che è conosciuto sulle arti marziali e discipline correlate, praticandolo o anche solo osservandolo dallesterno, per meglio comprendere la mia passione, il karate.

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    Autore: M° Baracchi Davide Pagina 46

    CONCLUSIONI

    In tutto ciò che ho scritto credo sia chiaro che è racchiusa la mia esperienza personale e diretta, cioè il mio vissuto del karate e le mie aspettative. Non resta altro che concludere con alcune riflessioni, alle quali mi sottopongo spesso per meglio comprendere ciò che voglio fare del e con il karate per migliorarmi e d