Ldb Key Management 2014 05-16 nardini- gestione dello stress 02

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Stress e lavoro: che fare? 1 “Quaranta milioni di lavoratori in Europa, quasi uno su tre, sono malati di stress: la malattia del terzo millennio.” Così esordisce un articolo del Corriere della Sera 2 , dedicato all’inaugurazione, presso l’Università Statale di Milano, della “Settimana europea per la salute e la sicurezza sul lavoro”. L’informazione è preoccupante, ma ancor più preoccupanti sembrano le considerazioni degli esperti sulle ragioni principali del fenomeno. Si tratterebbe di “malattie professionali” legate a motivi quali: “il lavoro è troppo e gli orari sono impossibili” o, ancora, si dice nell’articolo, “sempre più spesso, come sottolinea un rapporto del CNEL, c’è ovviamente uno stress causato dalla flessibilità”. Da altre parti ancora si evidenzia che “la tendenza a rendere il mercato del lavoro sempre più duttile e mobile, la globalizzazione della concorrenza, la precarizzazione crescente, la mondializzazione dei servizi, la volontà a volte esasperata di ridurre i costi aziendali: tutte queste dinamiche dell’economia attuale hanno contribuito a far esplodere la questione ad ogni livello 3 ”. Questo il quadro delineato dagli esperti. Se, come pare evidente, la prospettiva a medio termine è di una crescita della concorrenza, con conseguente aumento dell’impegno per i soggetti in competizione e un incremento dell’instabilità (e non viceversa), le cause sopra indicate sembrerebbero portare inesorabilmente verso una ben triste conclusione: alla prossima “settimana europea per la salute e la sicurezza sul lavoro” gli stressati saranno due su tre e alla prossima ancora solo pochissimi fortunati risulteranno ancora immuni dalla malattia del terzo millennio (forse, tra questi, gli esperti, che, essendo lavoratori un po’ atipici, risentono forse meno dei duri morsi della concorrenza). 1 Articolo pubblicato su “Direzione del personale” anno 2002 2 Corriere della sera, 22 Ottobre 2002. 3 A. Gilioli e R. Gilioli, Cattivi capi, cattivi colleghi, ed. Mondadori 2001; per la verità, il testo si riferisce al mobbing, ma poiché gli autori poche pagine prima, affermano l’esistenza di forti correlazioni tra mobbing e stress, ritengo la citazione sostanzialmente corretta. 1

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Stress e lavoro: che fare?1

“Quaranta milioni di lavoratori in Europa, quasi uno su tre, sono malati di

stress: la malattia del terzo millennio.”

Così esordisce un articolo del Corriere della Sera2, dedicato all’inaugurazione,

presso l’Università Statale di Milano, della “Settimana europea per la salute e

la sicurezza sul lavoro”.

L’informazione è preoccupante, ma ancor più preoccupanti sembrano le

considerazioni degli esperti sulle ragioni principali del fenomeno.

Si tratterebbe di “malattie professionali” legate a motivi quali: “il lavoro è

troppo e gli orari sono impossibili” o, ancora, si dice nell’articolo, “sempre più

spesso, come sottolinea un rapporto del CNEL, c’è ovviamente uno stress

causato dalla flessibilità”.

Da altre parti ancora si evidenzia che “la tendenza a rendere il mercato del

lavoro sempre più duttile e mobile, la globalizzazione della concorrenza, la

precarizzazione crescente, la mondializzazione dei servizi, la volontà a volte

esasperata di ridurre i costi aziendali: tutte queste dinamiche dell’economia

attuale hanno contribuito a far esplodere la questione ad ogni livello3”.

Questo il quadro delineato dagli esperti.

Se, come pare evidente, la prospettiva a medio termine è di una crescita della

concorrenza, con conseguente aumento dell’impegno per i soggetti in

competizione e un incremento dell’instabilità (e non viceversa), le cause sopra

indicate sembrerebbero portare inesorabilmente verso una ben triste

conclusione: alla prossima “settimana europea per la salute e la sicurezza sul

lavoro” gli stressati saranno due su tre e alla prossima ancora solo pochissimi

fortunati risulteranno ancora immuni dalla malattia del terzo millennio (forse,

tra questi, gli esperti, che, essendo lavoratori un po’ atipici, risentono forse

meno dei duri morsi della concorrenza).

Ma sarà proprio così? Ma, prima ancora, che cos’è, precisamente, questo stress

di cui tanto si parla?

Lo stress e i meccanismi stressogeni

Una buona formulazione di stress ci pare essere quella di Mc Grath4: “Lo stress

è uno squilibrio sostanziale percepito tra la richiesta (e cioè uno stimolo

proveniente dal mondo esterno) e la capacità di risposta (le risorse che si

1 Articolo pubblicato su “Direzione del personale” anno 20022 Corriere della sera, 22 Ottobre 2002.3 A. Gilioli e R. Gilioli, Cattivi capi, cattivi colleghi, ed. Mondadori 2001; per la verità, il testo si riferisce al mobbing, ma poiché gli autori poche pagine prima, affermano l’esistenza di forti correlazioni tra mobbing e stress, ritengo la citazione sostanzialmente corretta.4 J.E. Mc Grath, Social and psychological factors in stress, Holt, 1970; le parole in corsivo sono nostre.

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ritiene di poter mobilitare per farvi fronte), in condizioni in cui la mancata

soddisfazione della richiesta ha importanti conseguenze percepite”.

Quando si attribuisce la crescita dello stress ai ritmi della vita moderna, si

pone, appunto, l’accento sulla “richiesta”: il contesto, che richiede di fare

sempre di più, se non addirittura, di fare di più con meno. Ergo, conclusione

scontata: lo stress dilaga! Questa visione, assai diffusa, punta tutta l’attenzione

sul ritmo del cambiamento e sulla crescita esponenziale della competizione; se

poi riconosciamo che cambiamento e competizione sono figli dell’allargamento

e della fluidità dei mercati facilitata dalla telematica, s’individua agevolmente il

virus responsabile del morbo del terzo millennio: la globalizzazione.

Chi dà questa lettura della realtà, probabilmente, ripensa con nostalgia a

fabbriche dai ritmi blandi, ad aziende a conduzione paternalistica e ad

importazioni ostacolate con dazi e gabelle per favorire il Made in Italy. Spesso

però, forse per inconscia rimozione, tralascia l’altra faccia della medaglia:

prodotti scadenti e costosi, servizi approssimativi, gerarchie rigide e

opprimenti, clienti trattati come polli da spennare o come inopportuni

disturbatori. Sembra inoltre dimenticare che quella realtà era sostenuta da

rigide segmentazioni sociali (di cui la cortina di ferro e il muro di Berlino erano

gli emblemi). Erano questi impenetrabili confini, combinati con la lentezza delle

comunicazioni, che preservavano dalla dura legge della competizione quei

fortunati che si trovavano nelle posizioni privilegiate.

Insomma, lo stress che oggi viviamo sembra derivare dal fatto che si è

ammorbidita la ferrea regola che divideva il mondo in due categorie

rigidamente separate: i dominati e i dominanti; i dominanti non minacciati, i

dominati disperati; entrambi, comunque, non stressati.

Joan Robinson, grande economista di Cambridge allieva di J.M.Keynes, spiegava

la radice ideologica su cui poggiava quel mondo “stabile e felice”, citando una

canzoncina che s’insegnava ai bambini inglesi ai primi del novecento5:

Il ricco al suo castello,

il povero al suo cancello

Dio li ha messi in alto e in basso

e li ha fatti ricchi e poveri.

In un mondo siffatto, difficilmente si poteva essere stressati (al massimo,

sfigati)6.

5 J. Robinson, L’economia a una svolta difficile, Einaudi, 19676 Di queste divisioni tra dominanti e dominati, quella geopolitica è molto evidente, ma non è certo l’unica. Bianchi/neri, uomini/donne, occupati/disoccupati etc. Anche a questi casi si poteva applicare, con gli opportuni aggiustamenti, la canzoncina citata dalla Robinson.

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La globalizzazione, però, piaccia o no, ha rimescolato le carte; c’è ancora chi

domina, ma la sua posizione non è più così stabile: è attaccabile da chi, fino a

ieri, ha subito il dominio.

I dominanti hanno perso le loro certezze: le posizioni preminenti, se le vogliono

mantenere, le devono difendere con unghie e denti; i dominati di ieri, d’altro

canto, hanno ripreso speranza e combattono strenuamente per conquistare

posizioni. Di qui l’imperativo universale “fare di più con meno” (o per

conquistare o per difendere posizioni) e la logica conseguenza che ne deriva:

tutti stressati!

Insomma, messa così, la questione sembrerebbe priva di soluzioni accettabili:

ricostruire il muro di Berlino7, o pagare il prezzo del dilagare dello stress? Un

vicolo cieco!

Ma è proprio così? Assolutamente no: è la chiave di lettura che è fuorviante. Ci

sono altre interpretazioni ben più produttive.

Proviamo, intanto, ad analizzare meglio la definizione di Mc Grath.

1. innanzitutto il soggetto deve percepire e rappresentarsi la domanda che

il mondo esterno gli pone. Non conta, quindi, la reale consistenza della

domanda: conta piuttosto la rappresentazione che il soggetto se ne fa.

2. il soggetto, poi, confronta la richiesta percepita con le risorse che pensa

di avere, non con le risorse che ha realmente a sua disposizione.

3. infine, il soggetto, ancora lui, valuta le conseguenze della mancata

risposta; anche questa valutazione è quindi soggettiva.

Il combinato di queste rappresentazioni/valutazioni genera, da un lato,

l’attivazione: si mettono in moto meccanismi biochimici, dilaga l’adrenalina, si

alza il livello dell’attivazione nervosa, i muscoli si tendono, si innalza la

pressione sanguigna, il cuore e i polmoni pompano a più non posso etc. etc.:

insomma si producono quelle reazioni complesse che siamo ormai abituati a

chiamare stress. Dall’altro lato, lo stesso meccanismo stimola la neocorteccia a

focalizzare il bersaglio verso il quale indirizzare le energie attivate.

Se la neocorteccia lavora bene e il bersaglio è ben focalizzato, l’energia

prodotta sarà indirizzata verso di esso (la domanda dell’ambiente esterno) e

ciò contribuirà, da un lato, a risolvere il problema e, dall’altro, a scaricare le

energie attivate. Se però il bersaglio è confuso (magari perché le tre

percezioni/valutazioni di cui parlavamo prima hanno creato un sovraccarico

emozionale con conseguente perdita di lucidità, o perché, il bersaglio, in

situazioni complesse, può essere difficile da mettere a fuoco se non si

possiedono gli strumenti concettuali necessari), questa energia tracima e viene

scaricata in qualche modo e da qualche parte: o sulle cose (per esempio,

7 E, magari, imbustare le femmine in un burka e relegare in appositi ghetti i neri.

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battendo pugni alla scrivania o scagliando oggetti contro i muri), o sugli altri

(maltrattamento dei più deboli, mobbing) o su sé stessi (colpendo i punti più

deboli dell’organismo o generando disturbi psicologici o, ancora, innescando

comportamenti distruttivi: alcool, droghe etc.); pur nella variabilità delle

risposte, comunque, di una cosa possiamo essere certi: in questi casi le energie

prodotte non vanno verso lo scopo vero: rispondere, cioè, alla domanda

dell’ambiente. Tale domanda, restando inevasa, continuerà a gravare sul

soggetto e a stimolarne l’attivazione fino ad esaurimento delle risorse (strain,

burn out).

Ora, rilette in questo modo le cose, risulta evidente che lo stimolo esterno è un

fattore facilitante ma non determinante: lo stress si gioca principalmente nella

testa; si tratta, cioè, di pensieri: di criteri d’interpretazione e di valutazione.

Ma allora, più che compiangere il lavoratore su tre che soffre di stress, non

sarebbe meglio aiutarlo a capire che il primo modo per difendersi dallo stress è

fare pulizia nei modi di pensare? Se siamo vittime, lo siamo, prima di tutto, di

noi stessi.

Ci è capitato (come, pensiamo, a tutti) di vedere (anche nei tanto decantati bei

tempi pre-globalizzazione, quando i ritmi erano blandi) persone stressate per

un aumento dato a un collega, imbufalite per le negoziazioni sul piano ferie,

depresse per una mancata promozione, agitate per lo spostamento di una

scrivania, inviperite per una coda in automobile. Per loro quei banali problemi,

amplificati da un sistema emozionale fuori controllo, erano così importanti da

giustificare l’avvio della spirale del malessere, quel percorso alla fine del quale

spesso si annidano le patologie da stress. Sarebbe bastata, in questi casi, una

lettura più equilibrata delle cose per risparmiare qualche bella quintalata di

adrenalina e le connesse sofferenze.

Vorremmo esser chiari: non stiamo negando l’esistenza del problema. Anche se

l’origine viene dai pensieri (se non dalle fantasie, che è come dire, da niente),

una volta che lo stress c’è, c’è! Ed è vero e tangibile! E può generare vere

ulcere, autentiche cardiopatie, reali depressioni e tangibili comportamenti

distruttivi. Diciamo solo che lo stress è come una valanga: parte da un

nonnulla. E non serve mettere i frangivalanga a valle: bisogna metterli a

monte, quando ancora la valanga è, appunto, un nonnulla.

Insomma, il contesto, semplicemente, fornisce occasioni più o meno forti e

copiose (quello attuale, certo, più forti e più copiose), ma è dai pensieri che si

origina lo stress.

Ma se è così, lo spazio per migliorare rispetto alle fosche previsioni degli

esperti, c’è ed è evidente. Non dobbiamo lasciarci fuorviare: è inutile

focalizzare tutta la nostra attenzione su una competizione che tanto, per quanti

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auspici privati o pubbliche manifestazioni vogliamo fare, non cambierà il suo

trend. Dobbiamo invece mirare ai punti veramente importanti: la

ristrutturazione del campo cognitivo e la ripulitura del sistema emozionale.

Non sono cose nuove; già Epitteto, filosofo stoico, diceva: “Non sono le cose a

procurarci gioie e dolori, ma la nostra opinione sulle cose”, o, più di recente, M.

Csikszentmihaly: “Le persone che imparano a controllare la loro esperienza

interiore sono capaci di determinare la qualità della loro vita....lo stress non

dipende dagli eventi esterni ma, piuttosto, da come li interpretiamo”; e anche

H. Selye (lo “scopritore” dello stress) esprime lo stesso concetto: “Per lo stress

non è tanto importante ciò che ci accade, quanto il modo in cui lo

interpretiamo”8; insomma, il punto fondamentale per tenersi fuori dai circoli

viziosi dello stress, consiste nell’imparare a rendere più produttivi i nostri criteri

di interpretazione e di giudizio; a poco serve, invece, esecrare i ritmi della vita

moderna.

Giusto per completezza, ma senza approfondire (dati i limiti dell’articolo),

vorremmo citare altri due aspetti che sono di gran rilevanza nel renderci più o

meno fragili agli agenti stressogeni:

Il modo in cui gestiamo il nostro corpo (posture fisiche, dieta, abitudini,

(in)attività fisica)

Il modo in cui comprendiamo, gestiamo (nel durante) e scarichiamo

(dopo) le nostre emozioni.

Ma, messi così a fuoco i meccanismi dello stress, e concluso che il problema,

più che nel contesto esterno, è nei pensieri delle persone, sorge evidente la

domanda che segue:

Ma perché questo discorso dovrebbe riguardare le aziende e non

semplicemente gli individui?

La risposta è facile: perché lo stress oltre che un costo sociale (di cui dovrebbe

preoccuparsi, quindi, la società) e individuale (di cui dovrebbero quindi

occuparsi i singoli) è anche un costo aziendale. Un costo, in qualche caso

esplicito ma, in larga parte, implicito.

Contrasti che si trasformano in conflitti rallentando i processi produttivi; errori e

rifacimenti; mancanza d’iniziativa; timore nell’assumersi responsabilità; rigidità

burocratiche; difese spasmodiche di orticelli aziendali; sfiducia (in se stessi,

negli altri e nell’azienda) e conseguente mancanza di collaborazione;

appiattimenti espliciti sulle posizioni della gerarchia compensati da sabotaggi

8 Epitteto, Opere, Rizzoli 1937, Mihaly Csikszentmihaly, Flow-the psichology of optimal experi-ence, Harper & Row, 1990 (Il corsivo è nostro); H.Selye, The psichology and pathology of expos-ure to stress; Montreal 1950

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impliciti; gestione apatica (quando non scorbutica) del rapporto con il cliente;

ricerche di capri espiatori anziché di soluzioni a problemi: sono tutte

manifestazioni di uno stato di disagio spesso causato da reazioni allo stress;

costi impliciti, ma, purtroppo, rilevanti.

Quando poi gli stressati sono i manager, apriti cielo: un manager stressato è

come un untore: dà contagio. I suoi comportamenti modellano i comportamenti

dei collaboratori, innescando circoli viziosi ad autorinforzo (il capo che si

stressa per i comportamenti dei collaboratori i quali si stressano per i

comportamenti del capo e producono comportamenti stressanti per il capo e,

magari per il cliente che, stressato, andrà a stressare il capo, il quale, a sua

volta...), con conseguenti spirali aggressive o depressive, e crescente danno

per la produttività aziendale e per la qualità della vita delle persone.

Quindi, un’azienda deve preoccuparsi di questi fenomeni: benché intangibili nel

loro manifestarsi, alla fine, comunque, si materializzano in quel prospetto

capace di decretare la sopravvivenza o la sparizione dell’azienda: il bilancio.

Si pone, però, a questo punto, un’ultima domanda:

Ma un’azienda cosa potrebbe fare?

Le strategie che si possono percorrere sono due: lavorare sulle persone e/o

lavorare sull’organizzazione9.

1. Lavorare sulle persone è la cosa più facile. In pratica vuol dire:

a. Sviluppare un sistema di programmi di formazione che aiuti le persone a

“empowerizzarsi”: visione ampia e prospettica dei fenomeni del

cambiamento in atto, tecniche di efficienza personale, time

management e problem solving, tecniche di rilassamento, intelligenza

emotiva etc. Questi programmi, oltre ad essere utili in sé, danno anche

un benefico segnale di attenzione dell’azienda ai singoli.

b. Selezionare e preparare bene i capi; i capi, nell’organizzazione,

rappresentano uno snodo troppo importante per poter essere

trascurato. In un contesto in cambiamento, la capacità di infondere

fiducia, di dare un senso e una prospettiva alle cose che si fanno, di

essere un punto saldo di riferimento, di gestire i feed back negativi

senza essere punitivi, di essere, insomma, parte della soluzione anziché

del problema, sono capacità fondamentali per il management.

9 Ce ne sarebbe anche un’altra (più o meno auspicata da chi guarda alla competizione come principale fattore stressogeno): non correre dietro al mercato, rallentare i ritmi e smettere di lesinare sui costi, sperando che i concorrenti non ne approfittino. Che è un po’ come dire che anche con il suicidio si può risolvere lo stress.

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2. Lavorare sull’organizzazione: è più difficile, ma è altrettanto

importante.

La tensione che si percepisce nelle organizzazioni, non è solo un portato

della dinamica tecnologica e competitiva.

Le turbolenze esterne spesso sono amplificate da meccanismi interni; sì,

proprio da quei meccanismi che dovrebbero fungere, invece, da

ammortizzatori.

La turbolenza del mercato richiede all’azienda quell’elasticità che è propria

dell’organizzazione informale; spesso, però, la paura di perdere il controllo

sugli eventi spinge invece il management ad un incremento

dell’organizzazione formale. Ne derivano: corpi di procedure immensi,

dettagliati e, spesso, non aggiornati, che, quando non addirittura in

contraddizione tra loro, finiscono comunque col prescrivere processi formali

diversi da quelli reali; sistemi di pianificazione e controllo minuziosi e

burocratici; processi decisionali lenti, costosi, farraginosi e

deresponsabilizzanti; obiettivi gestiti con ossessiva rigidità teutonica anche

quando i target sono palesemente impossibili da raggiungere (mentre lo

spirito dell’MBO è proprio la flessibilità e il pragmatismo); sistemi premianti

che, nati con buone intenzioni, per scarsa visione sistemica, generano effetti

perversi (insoddisfazione di clienti troppo pressati, scarsa collaborazione se

non sabotaggi tra colleghi); comunicazione fortemente gerarchizzata

incapace di attivare la comunicazione bottom up etc.

In un’intervista rilasciata qualche tempo fa dal CEO di un’azienda nota per

l’alto tasso di innovazione, alla domanda “Ma come spiega questa grande

capacità innovativa diffusa nella vostra azienda?” rispondeva: “Ritengo sia

perché i nostri sistemi di programmazione e controllo fanno acqua!”. Una

risposta straordinaria, che, con sottile humour, evidenziava una grande

consapevolezza di quanto sia difficile e delicata la dialettica tra

organizzazione formale ed informale.

Nel conflitto tra la richiesta del mondo esterno (che richiama l’elasticità

dell’informale), e la spinta del management a controllare e formalizzare, si

macerano fegati, si consumano risorse, si blocca l’innovazione, si innalzano i

costi e si produce stress gratuito.

Agire su questi meccanismi stressogeni consente di liberare energie utili

che, diversamente, si possono disperdere se non addirittura ritorcere contro

l’azienda.

E, quindi….

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Ci sarebbe ancora molto da dire, ma pensiamo sia giunto il momento di

concludere: non vorremmo essere classificati, dai nostri lettori, come fattore di

stress.

Vorremmo, per riassumere, richiamare alcuni punti basilari:

a. Il contesto genera tensioni, ma lo stress è prima di tutto nella nostra testa,

non nei fatti. Quindi, se ci sentiamo un po’ stressati, poniamo l’attenzione

su noi stessi invece di attribuirne le colpe a destra e a manca. E cerchiamo

di comprendere, ma non di giustificare, né di subire, chi così non fa.

b. Lo stress è un costo grave quando se ne manifestano gli effetti e le

patologie, ma può essere arginato e incanalato verso la produzione di

risultati utili per l’azienda e soddisfacenti per le persone.

c. Il contesto è turbolento, d’accordo, e la turbolenza è in crescita, ma, al di là

di questa ovvia constatazione, non possiamo farci niente. Ma proprio

perché la lotta si fa dura, dobbiamo invece ancor più concentrarci sulle

variabili sulle quali si può agire: i modi di pensare e i processi organizzativi.

Infine, se ci piace una società libera e non rigidamente divisa tra dominanti e

dominati, accettiamo di pagarne il prezzo di buon grado: un po’ di stress, in

fondo, in misura moderata, non fa male.

Chiudiamo, in proposito, con una famosa frase di H. Selye: “Lo stress è il sale

della vita e l’assoluta mancanza di stress significa la morte”10. Da meditare.

Chiara Nardini

Ezio Nardini

10 H. Selye, “the stress of life” Mc Graw Hill, 1956.

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