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Focus Paper, n. 37 – novembre 2014 LAVORO, STATO E MERCATO nella prospettiva del Magistero sociale della Chiesa, in particolare di Giovanni Paolo II di GIUSEPPE SABELLA Fondatore e direttore di Think-in, think tank specializzato in economia del lavoro e welfare nato dall’esperienza del laboratorio di Marco Biagi. LA QUESTIONE DEL LAVORO OGGI In tempi recenti, un leader politico italiano si è espresso dicendo: “il governo deve fare investimenti pubblici per rilanciare l’occupazione”. A dire il vero, anche in alcuni ambienti del sindacato si dice la stessa cosa: si pensi, ad esempio, al Piano del Lavoro della Cgil presentato lo scorso anno, le cui indicazioni sono quelle di creare posti di lavoro pubblici. In poche parole, lo stato dovrebbe investire denaro per creare occupazione in modo diretto. Nel linguaggio mediatico e demagogico della politica, che non è quello di un Piano del Lavoro, “investimenti pubblici per rilanciare l’occupazione” può significare fondamentalmente più cose, ma sostanzialmente due: i) può significare che lo stato deve investire per creare occupazione in modo diretto, come per il Piano del Lavoro della Cgil; ii) può significare, invece, investire per rilanciare l’economia e il lavoro, cosa diversa – tecnicamente – dal creare occupazione in modo diretto. È importante ben comprendere questa differenza, perché al suo interno si cela, e nemmeno in modo troppo velato, la vera antinomia che interessa non solo la posta in gioco oggi, ma anche la storia stessa del pensiero economico contemporaneo. È l’antinomia che ha dapprima visto contrapporsi il pensiero marxista a quello mercatista in generale; è la stessa antinomia che vede contrapporsi oggi un pensiero post marxista, neokeynesiano diremmo, di matrice piuttosto statalista, ad un pensiero certamente mercatista ma non soltanto liberista, non per forza antistatalista ma meno statalista del 1

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LAVORO, STATO E MERCATOnella prospettiva del Magistero sociale della Chiesa, inparticolare di Giovanni Paolo II

di GIUSEPPE SABELLAFondatore e direttore di Think-in, think tank specializzato in economia del lavoro e welfare natodall’esperienza del laboratorio di Marco Biagi.

LA QUESTIONE DEL LAVORO OGGI

In tempi recenti, un leader politico italiano si è espresso dicendo: “il governo deve fare

investimenti pubblici per rilanciare l’occupazione”. A dire il vero, anche in alcuni

ambienti del sindacato si dice la stessa cosa: si pensi, ad esempio, al Piano del Lavoro

della Cgil presentato lo scorso anno, le cui indicazioni sono quelle di creare posti di

lavoro pubblici. In poche parole, lo stato dovrebbe investire denaro per creare

occupazione in modo diretto.

Nel linguaggio mediatico e demagogico della politica, che non è quello di un Piano del

Lavoro, “investimenti pubblici per rilanciare l’occupazione” può significare

fondamentalmente più cose, ma sostanzialmente due:

i) può significare che lo stato deve investire per creare occupazione in modo

diretto, come per il Piano del Lavoro della Cgil;

ii) può significare, invece, investire per rilanciare l’economia e il lavoro, cosa

diversa – tecnicamente – dal creare occupazione in modo diretto.

È importante ben comprendere questa differenza, perché al suo interno si cela, e

nemmeno in modo troppo velato, la vera antinomia che interessa non solo la posta in

gioco oggi, ma anche la storia stessa del pensiero economico contemporaneo. È

l’antinomia che ha dapprima visto contrapporsi il pensiero marxista a quello mercatista

in generale; è la stessa antinomia che vede contrapporsi oggi un pensiero post marxista,

neokeynesiano diremmo, di matrice piuttosto statalista, ad un pensiero certamente

mercatista ma non soltanto liberista, non per forza antistatalista ma meno statalista del

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primo, e che in sostanza riconosce, nel rapporto stato-mercato, il primato del mercato e,

nel rapporto economia-politica, il primato dell’economia.

I neokeynesiani si rifanno in particolare all’opera omnia di John Maynard Keynes, “The

general theory of employment, interest and money” (1936). Keynes è stato tra i più

importanti economisti del XX secolo e le sue posizioni più accolte e discusse sono

maturate durante la “Grande Depressione”, esplosa in America nel 1929 ma poi,

naturalmente, arrivata in Europa.

La crisi attuale, ad ogni modo, è sempre stata definita dagli economisti, in modo quasi

unanime, diversa dalla crisi del ‘29; e non c’è dubbio sul fatto che la stessa economia

odierna sia un’economia diversa dall’economia fordista, quella della grande fabbrica.

Keynes non presenta le sue teorie in epoca di economia globale, sarebbe quindi

interessante capire cosa direbbe oggi circa la grande congiuntura che l’Occidente in

particolare sta attraversando.

Ad onor del vero c’è anche da dire che, come Keynes è accusato da molti di essere uno

statalista, altri ne difendono una visione dell’economia profondamente innovativa e

liberale, consapevole dei limiti ma anche del grande pregio del libero mercato di mettere

al centro la persona e di affidarle una grande responsabilità etica1. Secondo questi

ultimi, sarebbe stata una certa intellighentia di sinistra ad appropriarsi indebitamente del

pensiero di Keynes e ad iscriverlo impropriamente al partito di Antonio Gramsci. Quel

che è certo, è che il neokeynesismo è oggi legato alla visione più statalista

dell’economista di Cambridge. Per cui, in questo breve scritto, ci atterremo a queste

posizioni del neokeynesismo.

A dispetto del dibattito tra statalisti e mercatisti, ciò che è certo è che l’Italia in

particolare è paese dove di mercato libero ad oggi se n’è visto davvero poco. I nostri

eccessi di burocrazia, di corporativismo, di tassazione, di regolazione del lavoro, di

incertezza della stessa (sia per la sua complessità ma anche per quanto concerne aspetti

che riguardano il Tribunale del Lavoro), di relazioni sindacali che non brillano per

modernità, rendono evidente quanto il ruolo dello stato sia invasivo e quanto, per

1 Si veda a tal proposito Economic possibilities for our grandchildren (1930), tradotto anche in italiano: Possibilitàeconomiche per i nostri nipoti.

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contro, l’attore principale del sistema economico – l’impresa – sia sempre più stremato

per condizioni ritenute non più sostenibili, anche in svariati ambienti sindacali.

Per non parlare poi del mercato “municipalizzato” / “partecipato”: si pensi alla relazione

della Corte dei Conti (luglio 2014) sul Rendiconto generale dello stato che ha rilevato

scientificamente i costi delle aziende pubbliche: 26 miliardi di euro nel 2013, altrettanti

nel 2012 e oltre 30 miliardi nel 2011, per un totale di circa 83 miliardi di euro nel

triennio passato. Ovvero: negli ultimi tre anni, lo stato ha versato 83 miliardi di euro

nelle casse delle partecipate, mentre un terzo delle aziende controllate da regioni e

comuni sono in perdita2.

È singolare che, a fronte di questi numeri, si chieda allo Stato di “investire per creare

posti di lavoro” : oggi, per lo più, questi sono bacini improduttivi e clientelari.

IL PRIMATO DEL MERCATO È IL PRIMATO DELL’UOMO E DEL

LAVORO

Andando oltre aspetti meramente contingenti, la storia, soprattutto in Europa, ha

generalmente contrapposto il libero mercato alla questione sociale; è questa una

prospettiva molto carica di ideologia. La verità è che non è lo stato a creare lavoro, è

l’impresa; e l’impresa è più capace di creare lavoro in un sistema economico ispirato ai

principi del libero mercato. Lo stato, uno stato buono, può semmai creare condizioni che

facilitano la creazione di posti di lavoro. Ma l’epicentro creativo del lavoro è l’impresa.

Questo perché la libera impresa, in un mercato libero, può al meglio potenziare e

2 Le aziende pubbliche sono in tutto circa 7.500, di cui 50 partecipate direttamente dallo stato (le quali a loro voltacontrollano 526 aziende di “secondo livello”), mentre quelle partecipate dagli enti locali sono 5.258, alle quali vannoaggiunti 2.214 organismi di varia natura, come i consorzi e le fondazioni. Secondo i dati dell’Osservatorio della Cortedei Conti, 1.535 aziende hanno come unico socio un ente locale, 987 aziende contano vari soci, ma tutti pubblici;quelle a capitale misto, dove però prevale il pubblico, sono 2.426. I casi in cui pubblico e privato hanno lo stesso peso(50%) sono 102 (soprattutto in fondazioni e consorzi), mentre il privato pesa di più nel capitale di 1.784 aziende.Considerando le quote di partecipazione, la maggior parte delle aziende partecipate sono in mano ai Comuni (26.196su 27.870), anche se il 21% (1.684 su 8.092 comuni – sono quelli più piccoli in cui risiede il 9,44% della popolazionenazionale) non ha quote. Se si guarda al settore di attività, inoltre, si scopre che solo un quinto (1.444) si occupa diservizi indispensabili per la collettività, come la fornitura di acqua, energia, gas, reti fognarie, sanità, assistenzasociale e trasporto pubblico. Tutte le altre, infatti, sono state raggruppate dalla Corte dei Conti nel girone dei “servizistrumentali”, che comprende un po’ di tutto: ad esempio, 87 aziende agricole e di pesca, 166 società sportive e diintrattenimento, 383 tra ristoranti e strutture ricettive, 187 tra negozi, farmacie e officine auto, 149 agenzie di viaggioe noleggio e persino 3 cave e miniere. Considerando la gestione finanziaria, i dati dell’Osservatorio mostrano unaprevalenza dei debiti sui crediti: si parla di un debito di oltre 65 miliardi di euro a fronte di un patrimonio netto dicirca 45 miliardi di euro.

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sviluppare non solo il business ma anche la persona stessa, e farla crescere nel lavoro.

Diceva Giovanni Paolo II:

Scopo dell’impresa non è semplicemente la produzione del profitto, bensìl’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in modo diverso,perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono unparticolare gruppo al servizio della società3.

Ma questo “particolare gruppo al servizio della società” ha a sua volta bisogno – per

produrre non solo profitto ma anche beni e servizi – delle migliori condizioni per

operare. Resta il fatto che è il lavoro a produrre l’economia e non il contrario, per

quanto il sistema economico (di cui lo stato, insieme ai sindacati e alle istituzioni tutte,

fa parte) possa agire sulle condizioni del lavoro, migliorandole o peggiorandole.

L’uomo nel lavoro è utile alla comunità ed è al servizio di essa. Da qui l’attenzione oggi

degli studiosi sul fenomeno più inquietante – quanto diffuso – dell’epoca postmoderna,

“la progressiva perdita di senso del lavoro”.

Come si diceva prima, è chiaro che è un “buon lavoro” a produrre una “buona

economia”. Si pensi invece a quanto la nostra società capitalista abbia cercato di

ribaltare, in termini spesso ideologici, questa dinamica; così il marxismo ma anche il

liberismo più spinto hanno ritenuto che al centro della società ci fosse l’economia. In

realtà, oggi, siamo propensi a riscoprire che al centro della società debba esserci l’uomo

e che, l’economia è, in prima istanza, espressione della cultura4 e non viceversa5, come

del resto ben evidenziato da Max Weber6.

3 Centesimnus Annus, 35.

4 È quantomeno curioso che la parola “cultura” derivi etimologicamente dal latino “còlere”, come del resto la parola“coltura”. “Còlere” indica infatti coltivazione se è riferito a terreno; se si riferisce a uomo, indica istruzione e buonaeducazione; indica civiltà nel caso in cui si riferisca a nazione, esprimendo la cura necessaria per ottenerla, pari aquella dell’agricoltore, che lavora per far sì che le piante e le erbe fioriscano e fruttifichino. Nella cultura latina,l’utilizzo di tale termine è stato poi esteso a quei comportamenti che esprimevano “cura verso gli dei”, da cui iltermine “culto”.

5 A sostenere che fosse l’economia, in quanto “struttura”, a determinare la cultura è stato Karl Marx negli anni dellamaturità, tradendo i principi in base ai quali si era staccato dal maestro Hegel.

6 Si veda a tal proposito “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”(1865), il cui fine principale è quello diobiettare alle teorie marxiste in base alle quali l’economia produce la cultura, l’economia è struttura. Weber utilizzal’esempio della cultura protestante per rilevare come sia proprio la cultura invece, in questo caso il pensieroprotestante, a produrre una particolare forma di economia.

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In epoca soprattutto moderna, ma anche contemporanea, si è tuttavia assistito ad una

plurisecolare svalutazione del lavoro, in particolare di quello manuale. È proprio Hegel

il primo a rivalutare il lavoro. I termini che sia le lingue classiche (greco, latino) sia le

lingue moderne (come il francese, l’inglese o lo spagnolo) usano per indicare il lavoro

(rispettivamente pónos, labor, travail e trabajo) enfatizzano la dimensione di pena,

sofferenza imposta, peso, fatica che comporta la necessità di strappare alla natura i

mezzi per il sostentamento, a causa della struttura ontologicamente finita e mancante

dell’uomo, quasi echeggiando la maledizione divina di cui in Genesi (3, 17-19)7.

Se la prima riflessione moderna comincia a rivalutare la prassi, esita di fronte al lavoro

manuale (Moro o Campanella vogliono che tutti lavorino per distribuire equamente

quella che potremmo definire “sofferenza socialmente necessaria”)8. Solo con Max

Weber e L’etica protestante e lo spirito del capitalismo si avvia la piena rivalutazione

del lavoro e della sua organizzazione sociale, in particolare con la filosofia scozzese del

Settecento (da cui prende le mosse la riflessione sull’economia politica di Adam Smith,

snodo decisivo sia per Hegel che per Marx). Ma è Hegel il primo a considerare il lavoro

come momento essenziale di quel processo che porta alla costituzione di un mondo “per

l’uomo” e alla piena coscienza di sé: il ruolo del lavoro è essenziale nel momento

originario dell’affermarsi dell’autocoscienza come autonoma e signora9.

Tuttavia, in tempi più recenti, è prevalsa l’idea che il tempo dedicato al lavoro sia un

tempo sottratto alla realizzazione del proprio “sé” ontologico (si pensi a Herbert

Marcuse, in “Eros e Civiltà”), oppure che questo sia un tempo necessario solamente alla

realizzazione del reddito, il cui fine è il consumo, unico momento spazio-temporale nel

quale l’uomo può trovare la realizzazione del proprio lavoro.

7 L’ambivalenza riscontrabile nella lungua inglese è molto significativa: si usa labor per indicare l’attività svolta sottoil peso di una fatica penosa e ingiusta, e work per indicare l’attività propria dell’homo faber che agisce sulla realtàtrasformandola per il proprio sostentamento e la propria realizzazione. È significativo, in quest’ottica, che l’UNICEFdistingua tra child labour (sfruttamento economico in condizioni nocive per il benessere psico-fisico del bambino) echildren’s work (forma di attività economica più leggera e tale da non pregiudicare l’istruzione e la salute delminore).

8 A parere di chi scrive si tratta di un problema relativo alla metafisica razionalisa moderna e all’“adaequatio rei etintellectus”.

9 Si veda a questo proposito la celeberrima figura del servo-padrone, la figura più nota della “Fenomenologia delloSpirito” (1807).

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Sotto molti aspetti è stata abbandonata la teoria del “valore-lavoro” di smithiana

memoria, in luogo di una teoria molto raffinata, elegante e matematicamente ben

supportata che ha messo da parte il “lavoro” a favore del “consumo”. L’uomo è così

diventato “homo oeconomicus”.

Riflettendo sugli insegnamenti biblici e sul Vangelo stesso, se ne deduce facilmente che

“nel lavoro c’è la vita degli uomini”, e che l’attività professionale è connaturata alla

ricerca di felicità e di pienezza dell’essere umano che si realizza, appunto, da “animale

sociale” proprio con e attraverso gli altri, e non a prescindere dagli altri.

Lo stesso Magistero Sociale della Chiesa, in modo molto avanguardista, ci ha già

indicato questa strada, in particolare grazie a Giovanni Paolo II e alla Laborem

exercens, illuminando anche un altro aspetto dimenticato nell’accesa stagione di

conflittualità sociale del secolo scorso: ovvero il fatto che il lavoro di per sé “è anche

generatore di bellezza” e che, ogni volta che l’uomo lavora, non lo fa solo per rendere

meramente più efficiente e funzionale la società in cui si trova; ma, anche e soprattutto,

per renderla più bella da vivere e, quindi, da contemplare.

Tuttavia, proprio la Laborem exercens è documento che rivela quanto nel 1981

Giovanni Paolo II fosse assolutamente molto lucido e quasi profetico nel comprendere

non solo le imminenti trasformazioni dell’economia globale, ma anche quali

trasformazioni nel lavoro queste avrebbero causato e quali bisogni avrebbero generato:

Celebriamo il 90° anniversario dell’enciclica Rerum novarum alla vigilia di nuovi

sviluppi nelle condizioni tecnologiche, economiche e politiche che, secondo molti

esperti, influiranno sul mondo del lavoro e della produzione non meno di quanto

fece la rivoluzione industriale del secolo scorso. Molteplici sono i fattori di portata

generale: l’introduzione generalizzata dell’automazione in molti campi della

produzione; l’aumento del prezzo dell’energia e delle materie di base; la crescente

presa di coscienza della limitatezza del patrimonio naturale e del suo insopportabile

inquinamento; l’emergere sulla scena politica dei popoli che, dopo secoli di

soggezione, richiedono il loro legittimo posto tra le nazioni e nelle decisioni

internazionali. Queste nuove condizioni ed esigenze richiederanno un

riordinamento e un ridimensionamento delle strutture dell’economia odierna,

nonché della distribuzione del lavoro. Tali cambiamenti potranno forse significare,

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purtroppo, per milioni di lavoratori qualificati, la disoccupazione, almeno

temporanea, o la necessità di un riaddestramento; comporteranno con molta

probabilità una diminuzione o una crescita meno rapida del benessere materiale per

i Paesi più sviluppati; ma potranno anche dare sollievo e speranza ai milioni di

uomini che oggi vivono in condizioni di vergognosa e indegna miseria10.

Si tratta di una sorprendente analisi, molto attuale e molto vicina a quanto l’Unione

Europea avrebbe disposto 20 anni dopo, almeno sul piano programmatico, con la

Strategia Europea per l’Occupazione.

Richiamandosi alla Rerum novarum e al conflitto tra capitale e lavoro che allora era

sorto (XIX secolo) nella società industriale11, la Laborem exercens afferma il primato

del lavoro:

Questo principio riguarda direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto

al quale il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il «capitale»,

essendo l’insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa

strumentale. Questo principio è verità evidente che risulta da tutta l’esperienza

storica dell’uomo12.

Quindi, potremmo dire che il primato, più che del mercato, è dell’uomo; come dallo

stesso titolo dell’enciclica (letteralmente “colui che esercita il lavoro”), Laborem è un

accusativo, exercens è un nominativo: il soggetto è l’uomo. Creato ad immagine di Dio,

l’uomo ha il compito di continuare l’opera della creazione attraverso il dominio sulla

terra che si compie mediante il lavoro. Le azioni dell’uomo devono servire alla

realizzazione della sua umanità, al compimento del suo essere persona. Il lavoro è fatica

10 Laborem exercens, 1.

11 “Questo conflitto, interpretato da certuni come un conflitto socio-economico a carattere di classe, ha trovato la suaespressione nel conflitto ideologico tra il liberalismo, inteso come ideologia del capitalismo, ed il marxismo, intesocome ideologia del socialismo scientifico e del comunismo, che pretende di intervenire in veste di portavoce dellaclasse operaia, di tutto il proletariato mondiale. In questo modo il reale conflitto, che esisteva tra il mondo del lavoroed il mondo del capitale, si è trasformato nella lotta programmata di classe, condotta con metodi non solo ideologici,ma addirittura, e prima di tutto, politici”. Laborem exercens, 11.

12 Laborem exercens, 12.

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e sacrificio, ma è anche qualcosa “del tutto positivo e creativo, educativo e meritorio”13.

Attraverso la fatica e il sacrificio, l’uomo partecipa alla vita di Cristo e alla Sua croce.

Secondo la prospettiva marxista e materialista, l’uomo lavorando modifica la natura che

lo circonda, la quale, a sua volta trasformata, retroagisce sul soggetto modificandolo.

Questo è il significato oggettivo del lavoro. Ma la Laborem exercens aggiunge che

l’uomo, agendo, modifica sempre se stesso: c’è qualcosa dell’azione dell’uomo che

resta nel soggetto e che lo rende più o meno uomo. Questo è il significato soggettivo

del lavoro, non solo assente nella prospettiva marxista ma negato dal declassamento

della coscienza a sovrastruttura e dal primato dell’economia. Proprio per il suo valore

soggettivo, il lavoro, prima che essere un diritto, è un bisogno; è un desiderio di

trasformazione della realtà. L’uomo, prima ancora del profitto, desidera costruire,

desidera creare.

L’ERRORE DELL’ANTITESI CAPITALE-LAVORO E I RISCHI DELLA

DERIVA STATALISTA

L’aspetto soggettivo valorizza e riscatta ogni lavoro, a partire dal lavoro manuale che

Gesù ha sviluppato e da cui nasce quello che Giovanni Paolo II chiama il “Vangelo del

Lavoro”14: “il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non sia prima di

tutto il genere di lavoro che si compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una

persona”15. Il lavoro non è una merce che si vende al datore di lavoro. Dopo il

marxismo e il liberismo, il lavoro rischia di diventare una terza dittatura che sottomette

la persona ad una dimensione disumana, riducendola a “merce” o a “cosa”:

La rottura di questa coerente immagine, nella quale è strettamente salvaguardato il

principio del primato della persona sulle cose, si è compiuta nel pensiero umano,

talvolta dopo un lungo periodo di incubazione nella vita pratica. E si è compiuta in

modo tale che il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto al capitale, e il

13 Laborem exercens, 11.

14 Il Vangelo del Lavoro è “un nuovo modo di pensare, di valutare e di agire degli uomini. Nell’epoca moderna, findall’inizio dell’èra industriale, la verità cristiana sul lavoro doveva contrapporsi alle varie correnti del pensieromaterialistico ed economicistico”. Laborem exercens, 7.

15 Laborem exercens, 6.

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capitale contrapposto al lavoro, quasi come due forze anonime, due fattori di

produzione messi insieme nella stessa prospettiva «economistica». In tale

impostazione del problema vi era l’errore fondamentale, che si può chiamare

l’errore dell’economismo, se si considera il lavoro umano esclusivamente secondo

la sua finalità economica. Si può anche e si deve chiamare questo errore

fondamentale del pensiero un errore del materialismo, in quanto l’economismo

include, direttamente o indirettamente, la convinzione del primato e della

superiorità di ciò che è materiale, mentre invece esso colloca ciò che è spirituale e

personale (l’operare dell’uomo, i valori morali e simili), direttamente o

indirettamente, in una posizione subordinata alla realtà materiale. (...)

Evidentemente l’antinomia tra lavoro e capitale qui considerata – l’antinomia nel

cui quadro il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto ad esso, in un

certo senso onticamente, come se fosse un elemento qualsiasi del processo

economico – ha inizio non solamente nella filosofia e nelle teorie economiche del

secolo XVIII, ma molto più ancora in tutta la prassi economico-sociale di quel

tempo, che era quello dell’industrializzazione che nasceva e si sviluppava

precipitosamente, nella quale si scopriva in primo luogo la possibilità di

moltiplicare grandemente le ricchezze materiali, cioè i mezzi, ma si perdeva di

vista il fine, cioè l’uomo, al quale questi mezzi devono servire. Proprio questo

errore di ordine pratico ha colpito prima di tutto il lavoro umano, l’uomo del

lavoro, e ha causato la reazione sociale, eticamente giusta, della quale si è già

parlato. Lo stesso errore, che ormai ha il suo determinato aspetto storico, legato col

periodo del primitivo capitalismo e liberalismo, può però ripetersi in altre

circostanze di tempo e di luogo, se si parte, nel ragionamento, dalle stesse premesse

sia teoriche che pratiche. Non si vede altra possibilità di un superamento radicale di

questo errore, se non intervengono adeguati cambiamenti sia nel campo della

teoria, come in quello della pratica, cambiamenti che procedano su una linea di

decisa convinzione del primato della persona sulle cose, del lavoro dell’uomo sul

capitale come insieme dei mezzi di produzione16.

16 Laborem exercens, 13.

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Infine, contro l’eccessivo statalismo e centralismo, ove “il lavoratore si sente un

ingranaggio di un grande meccanismo”, la Laborem exercens afferma il principio

personalistico:

L’uomo che lavora desidera non solo la debita remunerazione per il suo lavoro, ma

anche che sia presa in considerazione nel processo stesso di produzione la

possibilità che egli lavorando, anche in una proprietà comune, al tempo stesso

sappia di lavorare «in proprio». Questa consapevolezza viene spenta in lui nel

sistema di un’eccessiva centralizzazione burocratica, nella quale il lavoratore

si sente un ingranaggio di un grande meccanismo mosso dall’alto e – a più di

un titolo – un semplice strumento di produzione piuttosto che un vero soggetto

di lavoro, dotato di propria iniziativa. L’insegnamento della Chiesa ha sempre

espresso la ferma e profonda convinzione che il lavoro umano non riguarda

soltanto l’economia, ma coinvolge anche, e soprattutto, i valori personali. Il

sistema economico stesso e il processo di produzione traggono vantaggio

proprio quando questi valori personali sono pienamente rispettati. Secondo il

pensiero di San Tommaso d’Aquino17, è soprattutto questa ragione che depone in

favore della proprietà privata dei mezzi stessi di produzione. Se accettiamo che per

certi, fondati motivi, eccezioni possono essere fatte al principio della proprietà

privata – e nella nostra epoca siamo addirittura testimoni che è stato introdotto il

sistema della proprietà «socializzata» – tuttavia l’argomento personalistico non

perde la sua forza né a livello di principi, né a livello pratico. Per essere razionale

e fruttuosa, ogni socializzazione dei mezzi di produzione deve prendere in

considerazione questo argomento. Si deve fare di tutto perché l’uomo, anche in un

tale sistema, possa conservare la consapevolezza di lavorare «in proprio». In caso

contrario, in tutto il processo economico sorgono necessariamente danni

incalcolabili, e danni non solo economici, ma prima di tutto danni nell’uomo18.

17 Giovanni Paolo II rimanda alla Summa Theologiae.

18Laborem exercens, 15.

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IL RAPPORTO STATO-MERCATO E IL RUOLO INDIRETTO DELLO STATO

NEL SISTEMA ECONOMICO

La prospettiva del lavoro, così ben analizzata da Giovanni Paolo II, è utile per capire il

rapporto stato-mercato. E’ naturale che, proprio come dice in Laborem exercens 15, la

centralizzazione burocratica mette a serio rischio il lavoro, e – di conseguenza –

l’economia.

Tuttavia, Giovanni Paolo II sembra anticipare anche l’attualissima distinzione – il caso

italiano è topico su questo punto19 – tra diritto al lavoro e diritto al posto di lavoro.

Ciò si comprende meglio quando parla del ruolo delle istituzioni in merito ai problemi

del lavoro e dell’occupazione.

E’ molto interessante, in merito a questi propositi, la distinzione tra datore di lavoro

diretto (l’impresa) e datore di lavoro indiretto; il riferimento qui è agli attori

(istituzioni e organizzazioni varie) che contribuiscono alla creazione di condizione per il

lavoro:

Nel concetto di datore di lavoro indiretto entrano sia le persone sia le istituzioni di

vario tipo, come anche i contratti collettivi di lavoro e i principi di comportamento,

stabiliti da queste persone ed istituzioni, i quali determinano tutto il sistema socio-

economico o da esso risultano20.

La finalità ultima e fondamentale del datore di lavoro indiretto è quella di creare

condizioni per lo sviluppo del lavoro (anche nel senso di posti di lavoro) e di combattere

la disoccupazione. Anche qui Giovanni Paolo II anticipa i contenuti della Strategia

Europea per l’Occupazione che darà un nome a tutto questo: occupabilità. Lavorare

per una buona occupabilità significa proprio creare buone condizioni per lo sviluppo del

lavoro e dell’occupazione21.

19 Si considerino i problemi di interpretazione dell’articolo 1 della Costituzione Italiana: “L’Italia è una Repubblicafondata sul lavoro”.

20 Laborem exercens, 17.

21 Col temine “occupabilità” ci riferiamo in questo caso non tanto alle condizioni soggettive dell’offerta (il lavoratore)che possono crescere in termini, ad esempio, di competenze e rendere così il lavoratore appunto più impiegabile,occupabile, quanto alle condizioni della domanda (il mercato) che possono evolvere in modo da presentare miglioricondizioni ed opportunità occupazionali per l’offerta stessa, crescendone così impiegabilità e spendibilità.

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All’inizio dell’enciclica, abbiamo visto in precedenza, Giovanni Paolo II parla dei

cambiamenti strutturali in seno all’economia causati dalla rivoluzione tecnologica

aggiungendo che potranno significare, la disoccupazione, almeno temporanea, o la

necessità di un “riaddestramento”: oggi parliamo di riqualificazione e di ricollocazione

(outplacement). Tutto ciò è entrato nel moderno linguaggio delle politiche del lavoro e

contribuisce a chiarire la differenza tra diritto al lavoro e diritto al posto di lavoro.

È nella Centesimus Annus, tuttavia, che si esprime in modo chiaro il giudizio di

Giovanni Paolo II circa i principi del libero mercato e il rapporto stato-mercato. La

Centesimus Annus (1991) celebra il centenario della Rerum novarum, documento

importantissimo per la Dottrina Sociale della Chiesa:

La Rerum novarum si oppone alla statalizzazione degli strumenti di produzione,

che ridurrebbe ogni cittadino ad un «pezzo» nell’ingranaggio della macchina dello

stato. Non meno decisamente essa critica la concezione dello stato che lascia il

settore dell’economia totalmente al di fuori del suo campo di interesse e di azione.

Esiste certo una legittima sfera di autonomia dell’agire economico, nella quale lo

stato non deve entrare. Questo, però, ha il compito di determinare la cornice

giuridica, al cui interno si svolgono i rapporti economici, e di salvaguardare in tal

modo le condizioni prime di un’economia libera, che presuppone una certa

eguaglianza tra le parti, tale che una di esse non sia tanto più potente dell’altra da

poterla ridurre praticamente in schiavitù22.

Il tema dei diritti del lavoro e dei lavoratori era stato già ampiamente visto nella

Laborem exercens, ma qui Giovanni Paolo II ribadisce che “la società e lo stato devono

assicurare livelli salariali adeguati al mantenimento del lavoratore e della sua

famiglia”23. Ciò richiede “un’assidua sorveglianza ed adeguate misure legislative per

stroncare fenomeni vergognosi di sfruttamento, soprattutto a danno dei lavoratori più

deboli, immigrati o marginali”24. Naturalmente qui è decisivo l’apporto dei sindacati,

22 Centesimus Annus, 15.

23Centesimus Annus, 15.

24 Centesimus Annus, 15.

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Focus Paper, n. 37 – novembre 2014

che contrattano i minimi salariali e le condizioni di lavoro: ma i sindacati sono strutture

private, sono espressione dell’associazionismo sociale.

Emerge chiaramente da quanto scrive Giovanni Paolo II che il mercato non è una realtà

totalmente indipendente, ma che lo stato ne è la “cornice”; deve esserne al servizio, e

non viceversa. Le ragioni del libero mercato sono chiare:

Al conseguimento di questi fini lo stato deve concorrere sia direttamente che

indirettamente. Indirettamente e secondo il principio di sussidiarietà, creando le

condizioni favorevoli al libero esercizio dell’attività economica, che porti ad una

offerta abbondante di opportunità di lavoro e di fonti di ricchezza. Direttamente e

secondo il principio di solidarietà, ponendo a difesa del più debole alcuni limiti

all’autonomia delle parti, che decidono le condizioni di lavoro, ed assicurando in

ogni caso un minimo vitale al lavoratore disoccupato25.

Per quanto riguarda la funzione dello stato e il suo ruolo nel settore dell’economia:

L’attività economica, in particolare quella dell’economia di mercato, non può

svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico. Essa suppone, al contrario,

sicurezza circa le garanzie della libertà individuale e della proprietà, oltre che una

moneta stabile e servizi pubblici efficienti. Il principale compito dello stato,

pertanto, è quello di garantire questa sicurezza, di modo che chi lavora e produce

possa godere i frutti del proprio lavoro e, quindi, si senta stimolato a compierlo con

efficienza e onestà. La mancanza di sicurezza, accompagnata dalla corruzione dei

pubblici poteri e dalla diffusione di improprie fonti di arricchimento e di facili

profitti, fondati su attività illegali o puramente speculative, è uno degli ostacoli

principali per lo sviluppo e per l’ordine economico26.

25 Centesimus Annus, 15. Il riferimento all’intervento diretto è ai sussidi tipo la cassa integrazione.

26 Centesimus Annus, 48. Qui Giovanni Paolo II sembra anche dire cosa deve fare uno stato per non ridursi ad essereuno stato corrotto.

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Focus Paper, n. 37 – novembre 2014

L’ADESIONE DI GIOVANNI PAOLO II AI PRINCIPI DEL LIBERO

MERCATO

Il rapporto economia-lavoro e stato-mercato in Giovanni Paolo II si fa più chiaro nella

sua analisi dei regimi totalitari e circa la loro fine:

Il fattore decisivo, che ha avviato i cambiamenti, è certamente la violazione dei

diritti del lavoro. Non si può dimenticare che la crisi fondamentale dei sistemi, che

pretendono di esprimere il governo ed anzi la dittatura degli operai, inizia con i

grandi moti avvenuti in Polonia in nome della solidarietà. Sono le folle dei

lavoratori a delegittimare l’ideologia, che presume di parlare in loro nome, ed a

ritrovare e quasi riscoprire, partendo dall’esperienza vissuta e difficile del lavoro e

dell’oppressione, espressioni e principi della dottrina sociale della Chiesa27.

E poi, in modo sempre più chiaro:

Il secondo fattore di crisi è certamente l’inefficienza del sistema economico, che

non va considerata come un problema soltanto tecnico, ma piuttosto come

conseguenza della violazione dei diritti umani all’iniziativa, alla proprietà ed alla

libertà nel settore dell’economia28.

Come si vede, è limpida l’adesione di Giovanni Paolo II ai principi del libero mercato.

Certo non si tratta del liberismo turbo e antistatalista. Lo stato conserva la sua funzione,

ma a vantaggio del mercato e del suo primato; il quale primato è, sostanzialmente, il

primato dell’uomo. Ma quest’ultimo è tale se il mercato prevale sullo stato e non

viceversa.

Il primato dell’uomo è essenzialmente il valore supremo della dignità dell’uomo, ben

descritto nella Redemptor hominis, la sua prima grande enciclica (1979) che anima tutto

il suo magistero sociale. Il mistero della dignità dell’uomo è la questione della verità:

27Centesimus Annus, 23.

28Centesimus Annus, 23.

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Focus Paper, n. 37 – novembre 2014

Merita, poi, di essere sottolineato il fatto che alla caduta di un simile «blocco», o

impero, si arriva quasi dappertutto mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole

armi della verità e della giustizia. Mentre il marxismo riteneva che solo portando

agli estremi le contraddizioni sociali fosse possibile arrivare alla loro soluzione

mediante lo scontro violento, le lotte che hanno condotto al crollo del marxismo

insistono con tenacia nel tentare tutte le vie del negoziato, del dialogo, della

testimonianza della verità, facendo appello alla coscienza dell’avversario e

cercando di risvegliare in lui il senso della comune dignità umana29.

Proprio in virtù del primato dell’uomo e del valore supremo della sua dignità, lo stato

deve esserne garante, anche se, nel settore dell’economia – come si diceva poco prima –

decisivo può essere l’apporto del sindacato:

Altro compito dello stato è quello di sorvegliare e guidare l’esercizio dei diritti

umani nel settore economico; ma in questo campo la prima responsabilità non è

dello stato, bensì dei singoli e dei diversi gruppi e associazioni in cui si articola la

società. Non potrebbe lo stato assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i

cittadini senza irreggimentare l’intera vita economica e mortificare la libera

iniziativa dei singoli. Ciò, tuttavia, non significa che esso non abbia alcuna

competenza in questo ambito, come hanno affermato i sostenitori di un’assenza di

regole nella sfera economica. Lo stato, anzi, ha il dovere di assecondare l’attività

delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola

ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi30.

E poi ancora:

Lo stato, ancora, ha il diritto di intervenire quando situazioni particolari di

monopolio creino remore o ostacoli per lo sviluppo. Ma, oltre a questi compiti di

armonizzazione e di guida dello sviluppo, esso può svolgere funzioni di supplenza

in situazioni eccezionali, quando settori sociali o sistemi di imprese, troppo deboli

29 Centesimus Annus, 23.

30 Centesimus Annus, 48.

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o in via di formazione, sono inadeguati al loro compito. Simili interventi di

supplenza, giustificati da urgenti ragioni attinenti al bene comune, devono

essere, per quanto possibile, limitati nel tempo, per non sottrarre stabilmente

a detti settori e sistemi di imprese le competenze che sono loro proprie e per

non dilatare eccessivamente l’ambito dell’intervento statale in modo

pregiudizievole per la libertà sia economica che civile31.

Questo passaggio è particolarmente importante anche per qualche neokeynesiano

infiltrato tra i sostenitori della Dottrina Sociale della Chiesa.

Dopodiché un monito che sembra ben descrivere lo stato italiano:

Si è assistito negli ultimi anni ad un vasto ampliamento di tale sfera di intervento,

che ha portato a costituire, in qualche modo, uno stato di tipo nuovo: lo «stato del

benessere». Questi sviluppi si sono avuti in alcuni Stati per rispondere in modo più

adeguato a molte necessità e bisogni, ponendo rimedio a forme di povertà e di

privazione indegne della persona umana. Non sono, però, mancati eccessi ed abusi

che hanno provocato, specialmente negli anni più recenti, dure critiche allo stato

del benessere, qualificato come «stato assistenziale». Disfunzioni e difetti nello

stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri

dello stato32.

Proprio la recente crisi economica pone fine concettualmente e praticamente al vecchio

Welfare State, in favore di un nuove Welfare in cui è la società stessa con i suoi corpi

intermedi a rispondere alle varie forme di bisogno e disagio sociale emergenti. Facendo

un passo indietro, con l’avvento sulla scena politica di David Cameron e della sua Big

Society (maggio 2010), il dibattito europeo sul Welfare, incentivato dalla difficile

situazione economica e dalla conseguente mancanza di risorse, ha conosciuto uno

sviluppo importante e ne ha di fatto rovesciato il paradigma tradizionale basato

sull’antinomia pubblico-privato classica (la destra attenta al privato con poca attenzione

sociale, la sinistra al Welfare State). E’ stato proprio il conservatore inglese ad

31 Centesimus Annus, 48.

32 Centesimus Annus, 48.

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introdurre importanti segnali di cambiamento stimolando le comunità locali per esempio

nella gestione dei trasporti pubblici, della raccolta dei rifiuti, della conservazione dei

parchi e anche dell’accesso alla banda larga di internet: è questo il Privato-Sociale, che

lavora per il bene comune. Il tema da allora è risuonato a livello internazionale, ripreso

dai maggiori organi di informazione (compresi il Financial Times e il New York Times),

avendo anche un importante riflesso italiano perché David Cameron e l’allora suo

Consigliere Phillip Blond hanno più volte dichiarato che il loro modello di riferimento è

stata la Lombardia e che la vera Big Society è l’Italia: questo in virtù del nostro tessuto

sociale molto ricco nella sua forma associazionistica. L’Italia è paese da lungo tempo

sensibile all’attivazione nel mondo privatistico di attività a sostegno delle questioni

sociali e dei servizi alla persona: il Privato-Sociale in Italia vale oltre il 4% del Pil.

Considerando che molti enti che svolgono servizi alla persona nascono in modo

“spontaneo”, come gruppi di volontari che si organizzano per dare risposta a concreti

bisogni sociali, è interessante questo passaggio sempre tratto dalla Centesimus Annus:

Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo stato assistenziale

provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici,

dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti,

con enorme crescita delle spese. Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e

riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso.

Si aggiunga che spesso un certo tipo di bisogni richiede una risposta che non sia

solo materiale, ma che ne sappia cogliere la domanda umana più profonda. Si pensi

anche alla condizione dei profughi, degli immigrati, degli anziani o dei malati ed a

tutte le svariate forme che richiedono assistenza, come nel caso dei tossico-

dipendenti: persone tutte che possono essere efficacemente aiutate solo da chi offre

loro, oltre alle necessarie cure, un sostegno sinceramente fraterno33.

33 Centesimus Annus, 48.

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CONCLUSIONI

In sintesi, la posizione del Magistero Sociale della Chiesa, in particolare di Giovanni

Paolo II ma ribadita anche da Benedetto XVI in Caritas in Veritate, pare piuttosto

distante dal pensiero neokeynesiano. Quest’ultimo pone al centro l’incontrollabile e

disobbediente psicologia del mercato34. Ora: il mercato è disobbediente, perché l’uomo

è disobbediente, e la società è disobbediente; che lo stato possa e debba svolgere una

funzione garantista lo abbiamo visto, ma dove ha avuto la funzione di risolvere la

“disobbediente psicologia del mercato” i risultati sono piuttosto noti. Il punto è che

affermare in questo modo il primato dello stato equivale a ridurre l’uomo, a spostare la

persona dal centro della società. In seconda istanza, si consideri anche che gli stessi

sindacati sono attori del sistema economico e che il loro ruolo di vigilanza nei confronti

delle imprese e del mercato stesso può supplire a quella “disobbediente psicologia” a

cui allude Keynes.

Sorge però spontanea una domanda: il mercato, figlio della libera iniziativa e della

libera impresa, è – con tutti i suoi limiti – soggetto disobbediente ed irrazionale o

soggetto creatore e generatore di lavoro? Perché alla fine, nell’imperfezione che di

per sé costituisce l’uomo e l’esperienza dell’umano, credo si debba oggi riconoscere dei

valori e dei ruoli: con tutti i suoi errori, è il mercato, è l’impresa che crea lavoro.

Sorprende invece come i sostenitori dello stato interventista non considerino i disastri

dello statalismo, a cui si è assistito in ogni parte del mondo.

Certo è che oggi in Europa, e soprattutto in Italia, non solo il lavoro ha perso di senso

ma, anche e conseguentemente, il mercato e l’impresa sono in difficoltà. L’economia è

in contrazione e il lavoro non cresce... anzi, ciò che cresce è la disoccupazione. In Italia,

in particolare, negli ultimi 20 anni – quando l’economia è cambiata radicalmente e gli

stati nazionali, per lo meno quelli più industrializzati, hanno avviato al loro interno

processi strutturali di riforma – lo stato italiano cosa ha fatto? e cosa avrebbe dovuto

fare? e oggi cosa può fare in questa situazione rispettando i principi di libero mercato?

Lo stato italiano non si è modernizzato, ha fatto pochi interventi per tenere fronte alle

trasformazioni dell’economia globale. Di qui la nostra sofferenza economica attuale,

superiore ad altri casi europei. Lo stato avrebbe dovuto aiutare il nostro sistema

34 John Maynard Keynes, The general theory of employment, interest and money, 1977, cap. 22.

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economico a reggere l’urto della globalizzazione in modo da mantenere, e magari

crescere, la sua competitività.

Dando uno sguardo a come stanno le cose, per parlare di costo del lavoro, nel settore

manifatturiero italiano, il costo orario è pari a 34,18 dollari, contro i 45,79 della

Germania e i 39,81 della Francia (dati Cgia di Mestre 2014). Tra i big dell’Unione

Europea solo la Gran Bretagna presenta un costo orario inferiore al nostro: 31,23

dollari. Certo, rispetto ai Paesi dell’ex blocco sovietico, il differenziale è molto elevato,

ma nei confronti dei paesi nostri omologhi il costo del lavoro italiano è piuttosto in

linea. Ciò che è invece molto alto, ma è cosa nota, è il cuneo fiscale, ovvero il livello di

tutte le imposte che gravano sul costo complessivo del lavoro. Il livello italiano è tra i

più alti d’Europa e dell’intera area Ocse. Il costo del lavoro è certamente, quindi, uno

degli elementi della competitività, ma non l’unico. Il fattore chiave è quello della

produttività, è quello del costo del lavoro per unità di prodotto: questo è il

parametro fondamentale che misura la competitività di un sistema. Tuttavia, rispetto ai

nostri principali competitors internazionali, il World Economic Forum di Ginevra ci

dice che siamo in 137ma posizione per quanto riguarda gli indici di produttività ed

efficienza. Chiaro che questo indicatore ci dice che anche il sistema imprese ha le sue

responsabilità, si è innovato poco rispetto ai vecchi modi di produrre. Ma è evidente che

a fronte della lotta per la sopravvivenza le imprese sono rimaste indietro. Consideriamo

non solamente il peso di tasse e burocrazia, ma anche i crediti dello stato nei confronti

delle nostre imprese, di cui molte sono per questo fallite pur avendo un buon fatturato

ma nessuna banca disposta a coprire i buchi generati da tali crediti mai saldati. E’ cosa

nota, oltretutto, che abbiamo i tassi di assenteismo più alti d’Europa. In sintesi: garanzie

per tutti, tranne per chi investe! Considerando infine gli indicatori della competitività,

sempre secondo il World Economic Forum, siamo al 49mo posto35.

Certamente, come abbiamo detto, non è lo stato a generare ricchezza, ma è il lavoro,

l’impresa; lo stato però in tutto questo ha un compito importante, che è quello di fare in

modo che l’impresa e il lavoro possano generare questa ricchezza: si chiama politica

35 La graduatoria della competitività, elaborata per la prima volta nel 2005, tiene conto di dodici fattori fondamentali:istituzioni; infrastrutture; contesto macroeconomico; salute; educazione di base; istruzione superiore; efficienza delmercato di beni e servizi; efficienza del mercato finanziario; tecnologia e ict; ampiezza del mercato interno ed estero;sviluppo del business; innovazione. Al primo posto della classifica si trova la Svizzera seguita da Singapore. Appenadietro la Finlandia e la Germania. A seguire ci sono gli Stati Uniti, davanti alla Svezia e a Hong Kong.

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economica, politica industriale. Fare politiche economiche e industriali significa

occuparsi di quelle condizioni che possono generare crescita e sviluppo: oggi le imprese

hanno bisogno di sentirsi alleggerite dalla morsa fiscale e dal carico burocratico, hanno

bisogno di ridurre i loro costi fissi, per esempio quelli dell’energia elettrica che pagano

il 28,7% in più della media dei paesi dell’area dell’Euro. Se in Italia il costo per ogni

1.000 Kwh è di 113,6 euro, in Francia è quasi la metà: 66 euro. Per quanto riguarda la

logistica, le nostre infrastrutture non sono certo all’avanguardia. Tutto questo è politica

industriale, compito che in ciascun paese viene svolto dal governo. Tutti questi sono

fattori che nella competizione globale pesano come macigni.

Il nostro paese offre risorse importanti: con l’esplosione della crisi economica ci siamo

accorti tutti che c’è un’Italia che lavora duro e che ce n’è una parte considerevole che

vive di rendita. Nella parte sana ci sono imprenditori straordinari che hanno creato

lavoro e grandi prodotti, esportando il made in Italy e il genio italiano in tutto il mondo,

reggendo un carico fiscale smisurato oggi non più sostenibile. Sono stati spremuti oltre

ogni limite. Questo ci dice quali grandi capacità questo paese ha espresso; nonostante

una classe dirigente che ha saccheggiato quanto più ha potuto36, questo paese 10 anni fa

era la quinta economia del mondo e oggi rimane pur sempre tra i primi 8. Certo in

questi ultimi 10 anni abbiamo bruciato 10 punti di pil. Ma la crisi economica, esplosa

nel 2008, ha soltanto acuito il nostro declino, iniziato con la mancanza di risposte che

l’intero paese non ha dato ai cambiamenti strutturali della nuova economia globale.

In Europa, lo stato è certamente più presente rispetto agli USA nel processo economico,

ma in Italia la presenza dello stato è invasiva. Tuttavia in Italia, oltre alla

semplificazione burocratica e alla riduzione delle tasse, è ora di avviare qualche seria

politica per lo sviluppo economico. Cosa si può fare a livello di politiche per lo

sviluppo? Chi governa deve capire quali sono gli assets strategici del paese e investire

per lo sviluppo di questi, in modo da crescere – indirettamente – occupazione. Per fare

un esempio, è chiaro che il settore dell’edilizia è un settore strategico: negli ultimi 6

anni è calato del 30%, contribuendo ad una perdita di quasi 2 punti di pil. Investire in

questo settore significa rivitalizzare un segmento produttivo molto importante oltre che

36 A febbraio 2014, la Commissione Europea ha reso noti gli esiti di un monitoraggio che ha svolto circa il livello dicorruzione dei 28 paesi: il livello italiano equivale alla somma degli altri 27.

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sviluppare la rete infrastrutturale, e fare così ripartire anche occupazione e domanda

interna. Questi interventi vengono fatti in tutti i paesi del mondo, anche dell’Est. Li può

fare anche l’Italia. Domanda: il sistema e le forze sociali lo consentono?

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CHI SIAMO

Il Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche nasce dalla collaborazione tra laFondazione Novae Terrae ed il Centro Cattolico Liberale al fine di favorirel’incontro tra studiosi dell'intellettuale francese Alexis de Tocqueville e dello storicoinglese Lord Acton, nonché di cultori ed accademici interessati alle tematichefilosofiche, storiografiche, epistemologiche, politiche, economiche, giuridiche eculturali, avendo come riferimento la prospettiva antropologica ed i principi dellaDottrina Sociale della Chiesa.

PERCHÈ TOCQUEVILLE E LORD ACTON

Il riferimento a Tocqueville e Lord Acton non è casuale. Entrambi intellettuali cattolici,hanno perseguito per tutta la vita la possibilità di avviare un fecondo confronto conquella componente del liberalismo che, rinunciando agli eccessi di razionalismo,utilitarismo e materialismo, ha evidenziato la contiguità delle proprie posizioni conquelle tipiche del pensiero occidentale ed in particolar modo con la tradizione ebraico-cristiana.

MISSION

Il Centro, oltre ad offrire uno spazio dove poter raccogliere e divulgare documentazionesulla vita, il pensiero e le opere di Tocqueville e Lord Acton, vuole favorire epromuovere una discussione pubblica più consapevole ed informata sui temi dellaconcorrenza, dello sviluppo economico, dell'ambiente e dell'energia, delleliberalizzazioni e delle privatizzazioni, della fiscalità e dei conti pubblici,dell'informazione e dei media, dell'innovazione scientifica e tecnologica, della scuola edell'università, del welfare e delle riforme politico-istituzionali.Oltre all'attività di ricerca ed approfondimento, al fine di promuovere l'aggiornamentodella cultura italiana e l'elaborazione di public policies, il Centro organizza seminari,conferenze e corsi di formazione politica, favorendo l'incontro tra il mondoaccademico, quello professionale-imprenditoriale e quello politico-istituzionale.

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