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I RIFLESSI FISCALI SULL’ANTIECONOMI -CITA’ DELLA GESTIONE IMPRENDITORIALE a cura del Dott. Francesco Monaco 1

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I RIFLESSI FISCALI SULL’ANTIECONOMI

-CITA’ DELLA GESTIONE

IMPRENDITORIALEa cura del

Dott. Francesco Monaco

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DEFINIZIONE DI ANTIECONOMICITA’

Con il concetto di antieconomicità, si fa riferimento all'alterazione di componenti positivi e/o negativi di reddito in violazione del principio della corretta rappresentazione (come, ad esempio, puntuale registrazione di ricavi o compensi e inerenza di costi e spese). Di conseguenza l'antieconomicità, secondo l'amministrazione diventa comportamento riconducibile all'evasione fiscale. C'è, quindi, una sostanziale differenza con l'abuso del diritto o l'elusione. In genere con l'abuso, si intendono le strumentalizzazioni e gli aggiramenti dell'ordinamento tributario che mirano ad ottenere, esclusivamente o prevalentemente, indebiti risparmi d'imposta, in assenza di valide ragioni economiche.

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INDICI DI EVASIONE

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LA GESTIONE ANTIECONOMICA DELL’AZIENDA

La gestione antieconomica dell'azienda è censurabile dal fisco.

Sempre più spesso gli uffici, considerando antieconomiche determinate scelte imprenditoriali, rettificano la dichiarazione, in base al principio secondo cui chiunque svolga un'attività economica è indotto a ridurre i costi o a massimizzare i ricavi, a parità delle altre condizioni.

In concreto i verificatori, nonostante non scoprano violazioni alla normativa fiscale, durante il controllo si rendono conto che alcune operazioni e scelte non appaiono improntate a criteri di economicità con la conseguenza che:

a) ritengono i relativi costi sostenuti (se si tratta di acquisti) in tutto o in parte non deducibili in quanto non inerenti;

b) contestano maggiori ricavi se le operazioni considerate non economiche sono quelle attive.

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ANTIECONOMICITA’ PER L’AGENZIA DELLE ENTRATE

Lo scopo del lucro è l’elemento principale di tutte le imprese.

L'Agenzia delle Entrate identifica, in particolare, una gestione antieconomica dell'impresa quando riscontra perdite o bassi utili per diversi esercizi consecutivi (solitamente tre).

L'Agenzia nel 2008 con una nota interna (n. 55440) ha segnalato agli uffici che i comportamenti palesemente antieconomici possono configurarsi sia con l'eccessività di componenti negativi, sia con l'immotivata compressione di componenti positivi di reddito. Secondo l'Agenzia in sede di contestazione e in particolare sotto il profilo dell'iter logico argomentativo, a una condotta ritenuta antieconomica corrisponde un ribaltamento dell'onere della prova sul contribuente il quale, ove non riesca a giustificare la propria condotta, si vedrà riprendere a tassazione il componente negativo di reddito dedotto (o parte di esso) ovvero il componente positivo di reddito non dichiarato (o parzialmente dichiarato).

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CONCETTO DI INERENZAL'inerenza va intesa come correlazione fra onere sostenuto e attività produttiva di reddito imponibile.

In seguito alla riforma tributaria attuata con il DPR 597/73, infatti, "il concetto di inerenza non è piùlegato ai ricavi dell'impresa, ma all'attività della stessa, con la conseguenza che si rendono detraibili tutti i costi relativi all'attività dell'impresa e riferentisi ad attività ed operazioni che concorrono a formare il reddito d'impresa " (nota ministeriale 25.10.80 n. 9/2113, C.M. 7.7.83 n. 30/9/944, R.M. 12.2.85 n. 1603, R.M. 28.10.98 n. 158/E, ris. Agenzia delle Entrate 16.5.2008 n. 196/E).

In pratica, occorre valutare se tra spesa ed attività o beni da cui derivano ricavi sussiste una relazione immediata e diretta: in caso affermativo, l'onere risulta interamente deducibile (parere Comitato consultivo norme antielusive 19.2.2001 n. 1).

Orientamento giurisprudenziale

Nel senso sopra riportato si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il concetto di inerenza deve essere interpretato in modo ampio, quale collegamento dei costi e degli oneri con l'attività dell'impresa e non con i ricavi (Cass. 13.2.2009 n. 3583).

In proposito, è stato sottolineato che, affinché un costo sostenuto sia fiscalmente deducibile dal reddito d'impresa, non è necessario che sia stato sostenuto per ottenere una ben precisa e determinata componente attiva di quel reddito, ma è sufficiente che esso sia correlato in senso ampio all'impresa in quanto tale, e cioè sia stato sostenuto al fine di svolgere un'attività potenzialmente idonea a produrre utili (Cass. 30.7.2007 n. 16826 e 21.1.2009 n. 1465).

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I PASSI DELL’AGENZIA DELLE ENTRATENella formulazione dei rilievi gli uffici secondo la direttiva devono osservare il seguente iter:

- evidenziazione del costo/ricavo ritenuto anomalo/abnorme rispetto all'attività d'impresa;

- illustrazione dei motivi per i quali la condotta dell'impresa assume connotati di antieconomicità;

- individuazione della (ritenuta) corretta entità del costo deducibile o del ricavo effettivamente tassabile, utilizzando i dati ed elementi a disposizione in modo da ricondurre i citati componenti di reddito a un carattere di normalità;

- attivazione di uno specifico contraddittorio con il contribuente volto a comprendere l'economicità o meno dell'operazione esaminata e le conseguenze tributarie; in tale contesto viene attentamente valutato se le operazioni sono avvenute all'interno di un gruppo societario o di un medesimo centro d'interesse economico;

- al termine del contraddittorio l'ufficio esporrà le argomentazioni fornite dalla parte e le ragioni che inducono a non considerarle idonee a giustificare l'economicità dell'operazione, con evidenziazione della motivazione nell'atto di accertamento;

- valorizzazione delle argomentazioni della giurisprudenza e della dottrina favorevoli alla rettifica di ricavi o costi, sulla base di considerazioni che attengono alla congruità, cioè alla dimensione quantitativa del componente di reddito;

- formalizzazione del rilievo in base all'articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/73, evidenziando coerentemente come non venga posta in discussione la complessiva attendibilità delle scritture contabili, ma l'infedele rappresentazione fiscale di una o più operazioni analiticamente contestate.

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ULTERIORI EFFETTI DELLE RETTIFICHE

La direttiva ricorda infine che i rilievi sull'antieconomicità comportano anche il recupero dell'Iva sui maggiori componenti positivi di reddito (Iva dovuta) o minori componenti negativi di reddito (Iva indebitamente detratta).

I risvolti penali

Da ultimo occorre segnalare che in presenza di rettifiche che superano la soglia di rilevanza penale (imposta evasa superiore a 103milaeuro circa e imponibile sottratto a tassazione superiore a circa2,065 milioni di euro) prevista per il reato di dichiarazione infedele i verificatori, ma soprattutto la Guardia di finanza, inviano la segnalazione di notizia di reato alla competente procura con tutte le ulteriori evidenti conseguenze.

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ACCERTAMENTO PER ANTIECONOMICITA’

Accertamento – Quando l’agenzia ritiene che vi sia un comportamento antieconomico, l'Ufficio sovente emette un avviso di accertamento nel quale ricostruisce induttivamente i ricavi aziendali. A giustificazione del metodo adottato, l'Agenzia delle Entrate sostiene che, anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, è consentito procedere alla rettifica della dichiarazione dei redditi utilizzando il metodo induttivo, senza l'effettivo riscontro analitico della documentazione, a condizione che l'accertamento sia fondato su presunzioni gravi, precise e concordanti, e desunte comunque da dati di comune esperienza.

Tesi dell’Amministrazione Finanziaria - L'assunto su cui si basa l'Ufficio è semplice: quando un'azienda in presenza di perdite (o bassi utili) per più esercizi contigui prosegue la propria attività, sicuramente lo scopo del lucro sarà soddisfatto dalla presenza di proventi non dichiarati al Fisco. Tali accertamenti, condotti “a tavolino”, senza contraddittorio preventivo, e solo con i dati economico-patrimoniali già in possesso dell'Anagrafe tributaria, non analizzano però la reale situazione dell'azienda controllata, motivo per cui spesso si rivelano imprecisi e lacunosi, offrendo di conseguenza vari spunti alla difesa del contribuente.

Difesa - Infatti spesso il contribuente si può difendere sostenendo diverse tipologie di tesi quale ad esempio il fatto che in presenza di utili bassi o lievi perdite d'esercizio, i soci (in quanto dipendenti, collaboratori, professionisti) percepiscono valide remunerazioni, ben superiori alle perdite. In alternativa gli imprenditori possono sostenere che, a seguito della crisi macroeconomica e in attesa di una sperata ripresa, hanno coperto le perdite con fondi personali o prestiti finanziari ampiamente tracciabili.

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CTR LOMBARDIA SENTENZA 96/44/12

Il conseguimento di perdite consecutivamente per più esercizi non comporta sempre una gestione antieconomica che paventa il rischio di evasione tale da giustificare l’utilizzo di un accertamento induttivo. Lo ha stabilito la Ctr Lombardia nella Sentenza 96/44/12.

Sentenza 96/44/12 della Ctr Lombardia – Questo è il caso del giudizio emesso dalla Ctrdella Lombardia con la sentenza n. 96/44/12. In tale occasione la società accertata si era difesa sostenendo che i risultati negativi generati fossero reali e non figurativi in quanto il compenso dell'amministratore era stato riversato nelle casse sociali a copertura delle perdite conseguite. La società aveva poi sottolineato che nella fase pre-accertamento non aveva mai avuto luogo un vero contraddittorio e non era stata richiesta documentazione da parte dell'ufficio per procedere con ulteriori indagini. Di fronte a tale situazione i giudici di secondo grado hanno decretato che la condotta della contribuente giudicata antieconomica dal Fisco non può automaticamente giustificare l'accertamento induttivo, anche in considerazione che la società successivamente ha cessato ogni attività con la messa in liquidazione. Inoltre i giudici milanesi hanno tenuto conto della circostanza che le perdite da parte di un'impresa non necessariamente sono sintomo di indizi di evasione ma, soprattutto in un periodo come quello attuale, conseguenza di difficoltà economiche delle aziende.

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ACCERTAMENTO INDUTTIVO

L’accertamento induttivo vero e proprio èregolato dal comma 2 dell’articolo 39 del DPR n. 600/1973. In particolare tale norma prevede che in presenza di contabilitàinattendibile l’Ufficio può prescindere in tutto ed in parte dalle risultanze contabili e determinare il reddito mediante presunzioni anche non dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

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ACCERTAMENTO ANALITICO -INDUTTIVO

L’accertamento analitico induttivo è regolato dall’articolo 39 comma 1 lett. d). In particolare la lettera d), prevede che, qualora l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicanti nella dichiarazione o nei suoi allegati, risulti dalle ispezioni o verifiche compiute nei confronti del contribuente, e da dati e notizie raccolte dell’ufficio mediante l’esercizio dei suoi poteri ai sensi dell’articolo 32 del DPR n. 600/1973, è prevista la possibilità per l’amministrazione di desumere l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti.

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PRESUNZIONI

Le presunzioni consistono in fatti o nozioni che, sebbene acquisiti o conosciuti, non forniscono alcuna diretta dimostrazione di situazioni o accadimenti, ma permettono comunque di risalire a queste attraverso un processo di logica consequenzialità.

In pratica, sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato.

Si parla di presunzioni in legali, se individuate direttamente dalla legge e semplici, se ricavate ed apprezzate dal giudice; queste ultime possono essere ammesse solo se gravi, precise e concordanti.

Le presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza vengono definite semplicissime.

Le presunzioni legali, a loro volta, si distinguono, in assolute (iuris et de iure) o relative (iuris tantum); le prime, a differenza delle seconde, non ammettono la prova contraria.

Le presunzioni legali assolute hanno quindi un rilievo sostanziale, in quanto integrano direttamente la fattispecie che, secondo la previsione normativa, produce un certo effetto giuridico; quelle legali relative e quelle semplici, invece, rilevano esclusivamente sul piano probatorio.

Riferimenti normativi:

• Art. 2729 C.C.

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ESEMPI DI COMPORTAMENTI ANTIECONOMICI

Un caso scuola che potrebbe rilevare – secondo il verificatore – un comportamento elusivo è il dichiarare utili “stranamente” bassi o addirittura dichiarare una perdita. In questo caso è onere dell’imprenditore, in sede di difesa, dimostrare le motivazioni che hanno portato a dichiarare utili bassi o perdite; magari anche con analisi di andamento dei mercati di imprese operanti nello stesso settore e zona o magari l’aver sostenuto dei costi per aver investito in nuove attrezzature o macchinari che hanno portato a ridurre gli utili momentaneamente.

Altri casi di contestazione per operazioni antieconomiche le troviamo, molto più frequentemente, tra i gruppi di imprese (ossia un insieme di imprese direttamente collegate tra loro tramite partecipazioni societarie). Ad esempio la contestazione di operazioni - cd. “infragruppo” - che vengono messe in atto per portare in deduzione costi più elevati rispetto ai normali valori di mercato; ad es. la società Alfa riceve dei servizi dalla società Beta (anch’essa facente parte dello stesso gruppo) ad un prezzo molto più elevato di quello che normalmente pagherebbe ad una società esterna al gruppo. In questo caso Alfa porta in deduzione dei costi maggiori e Beta percepisce un ricavo maggiore. Magari una operazione messa in atto per ridurre utili ad Alfa ed aumentarli a Beta.

Poi ci sono i casi in cui la antieconomicità si evidenzia nel pagamento di compensi all’amministratore della società molto più alti di quelli che percepirebbe un altro amministratore oppure nel caso di società con perdite elevate. La contestazione logicamente tende a portare a tassazione quella parte di “extra compenso” pagato dalla società e quindi eluso.

Poi ci sono i casi più noti ai molti che leggono. Ossia l’omissione di fatturazione. Contestando l’esiguo compenso riscosso per le prestazioni rese o la merce venduta.

Ultimo caso, ma non ultimo nella casistica, è la sovra o sotto fatturazione. In pratica emettere una fattura più elevata della realtà in modo da aumentare i ricavi per chi la emette ed aumentare i costi per chi la riceve. Di solito chi sotto fattura molto durante l’anno, può trovarsi nella condizione di dover dichiarare un utile “troppo basso”, quindi chiede ad una impresa compiacente di poter emettere una fattura (sovra fatturazione) per prestazioni o vendite inesistenti in modo da elevare i ricavi e dichiarare un utile che possa essere nella normalità. Di contro chi riceve la fattura ha interesse a riceverla per prestazioni o acquisti inesistenti in modo da ridurre il proprio utile ed eludere la tassazione.

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LA GIURISPRUDENZALa giurisprudenza in questi anni ha elaborato il concetto di ‘‘antieconomicità’’

anche come presupposto per accertamenti analitici-induttivi, ex art. 39, comma 1, lettera d) del D.P.R. n. 600/1973. Nelle decisioni che hanno adottato questa impostazione i giudici della Cassazione, in sostanza, affermano che la contabilità può essere considerata complessivamente inattendibile se e in quanto confliggente con i criteri della ‘‘ragionevolezza’’, cioè nei casi in cui le rilevanze contabili dimostrano la anti-economicità del comportamento del contribuente, pur essendo formalmente ineccepibili. La Suprema Corte, ad esempio, in una serie di decisioni ha stabilito che è consentito: ‘‘ (...) all’Ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici - purché gravi, precise e concordanti - maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente (....)’’ (Cfr. sent. N. 5870 del 14 aprile 2003; n. 18857 del 7 settembre 2007; n. 417 dell’11 gennaio 2008).

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LA DOTTRINA

La dottrina ha criticato tali sentenze (cfr. Tavola n. 1), rilevando che il ricorso all’accertamento induttivo e` ammissibile soltanto qualora la contabilità evidenzia la sua inutilizzabilità o inattendibilità(ritenendosi tassative le ipotesi espressamente previste dai commi 1 e 2 dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973), e non anche quindi nei casi in cui la contabilità semplicemente riveli e rappresenti comportamenti asseritamente antieconomici. La dottrina sostiene, infatti, che l’utilizzo dello strumento accertativo ex art. 39, commi 1 e 2, del D.P.R. n. 600/1973 da parte dell’Amministrazione finanziaria, e` precluso salvo che non si contesti l’esistenza o l’irregolaritàdelle scritture contabili e che in presenza di scritture regolari non si potrebbe prescindere dall’esistenza di presunzioni gravi, precise e concordanti. La stessa dottrina precisa, correttamente, che qualora non venga mosso alcun rilievo alla contabilità, ma solo ad ‘‘anomalie’’ della complessiva situazione economico-patrimoniale dell’azienda, che siano asseritamente indicatrici di antieconomicità, l’uso dello strumento analitico-induttivo deve essere inibito ai verificatori. Le condivisibili critiche della dottrina pongono in evidenza che non esiste alcun legame logico-concettuale tra comportamento antieconomico e accertamento analitico induttivo e che quindi la presenza di indici economico-patrimoniali della gestione aziendale apparentemente antieconomici può esclusivamente costituire un criterio selettivo per individuare i soggetti da sottoporre a controllo, o comunque un elemento utile alla ricostruzione della realtà fattuale che non consiste di per sé un presupposto per l’accertamento induttivo. Inoltre, condannare il contribuente per non essere stato in grado di giustificare certe anomalie rivelatrici di antieconomicità equivarrebbe ad un’inversione dell’onere della prova, non prevista in alcun modo dalla norma.

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Tavola n. 1 - Dottrina e giurisprudenza a confronto sulla facolta` di accertamento

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PRASSI MINISTERIALE

L’Agenzia delle Entrate, nel 2008 con una nota interna (n. 55440) ha segnalato agli uffici territoriali che i comportamenti palesemente antieconomici possono configurarsi:

– sia con l’eccessività di componenti negativi;

– sia con l’immotivata compressione di componenti positivi di reddito.

Secondo l’Agenzia, in sede di contestazione e in particolare sotto il profilo dell’iter logico argomentativo, ad una condotta ritenuta antieconomica corrisponde un ribaltamento dell’onere della prova sul contribuente il quale, ove non riesca a giustificare la propria condotta, si vedrà riprendere a tassazione il componente negativo di reddito dedotto (o parte di esso) ovvero il componente positivo di reddito non dichiarato (o parzialmente dichiarato).

Secondo l’Agenzia, in presenza di una condotta antieconomica il contribuente dovrà fornire, sulla base di argomenti adeguati e convincenti, una giustificazione circa il presunto comportamento antieconomico adottato.

Pertanto, in sede di verifica, ad una condotta ritenuta antieconomica corrisponde un ribaltamento dell’onere della prova sul contribuente il quale, se non riesce a fornire idonei chiarimenti, rischia il recupero a tassazione del componente negativo di reddito dedotto (parziale o totale), ovvero il componente positivo di reddito non dichiarato.

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L’ANALISI DEI GIUDICI DI LEGITTIMITA’

La sentenza della Corte di Cassazione n. 19550 del 9 novembre 2012 evidenzia che in tema di accertamento induttivo dei redditi, l’Amministrazione finanziaria può, ai sensi dell’art. 39 del D.P.R. n. 603/1973, fondare il proprio accertamento:

– sia sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili ‘‘dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta’’;

– sia sugli studi di settore, nel quale ultimo caso l’Ufficio non e` tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendo basarsi anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente, come nella specie.

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LA CONTABILITA’ CORRETTA NON ASSOLVE L’ACCERTAMENTO

I giudici della Corte di Cassazione, inoltre, affermano che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presenza di scritturecontabili formalmente corrette non esclude la legittimitàdell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente. Pertanto, in tali casi, e` consentito all’Ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purchégravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente.

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DEDUCIBILITA’ DAL REDDITO D’IMPRESA DEGLI UTILI CORRISPOSTI ALL’ASSOCIATO – CONGRUITA’ DEGLI UTILI –

parte 1

Le partecipazioni agli utili spettanti ai lavoratori dipendenti e agli associati in partecipazione sono deducibili nell'esercizio di competenza, ancorché non imputati a Conto economico (art. 95 co. 6 del TUIR).

Con le R.M. 8.7.76 n. 9/1095 e 30.7.76 n. 8/930, l'Amministrazione finanziaria ha previsto la possibilità di far partecipare i lavoratori dipendenti (non anche i collaboratori) agli utili conseguiti dall'esercizio dell'impresa.

In particolare, secondo tali risoluzioni:

• se la partecipazione agli utili è prevista dallo statuto in percentuale prefissata, il costo viene imputato al Conto economico e dedotto nell'esercizio di competenza;

• se la partecipazione agli utili non è prevista dallo statuto ma viene attribuita con apposita delibera assembleare, la stessa è deducibile nell'esercizio in cui viene approvata la delibera, in quanto solo in tale momento sorge l'obbligazione in capo all'impresa.

Deducibilità dal reddito d'impresa degli utili corrisposti all'associato

Diversamente da quanto prima previsto, a partire dal periodo d'imposta 2004 (o 2004/2005, per i soggetti "non solari") sono deducibili solo più le remunerazioni agli associati in partecipazione che apportano esclusivamente lavoro (opere e/o servizi) (circ. Agenzia delle Entrate 16.6.2004 n. 26, § 2.3).

In merito alle condizioni per operare la deducibilità, le istruzioni ai modelli di dichiarazione dei redditi non riportano più quanto affermato, da ultimo, dal modello UNICO 2004 PF, fascicolo 3, Appendice, paragrafo "Quote di partecipazione agli utili spettanti agli associati in partecipazione ".

Ci si chiede quindi se possano essere ancora considerati attuali i requisiti ivi fissati, in base ai quali la deducibilità delle quote di partecipazione agli utili spettanti agli associati in partecipazione è consentita, agli effetti fiscali, solo se (v. anche circ. Agenzia delle Entrate 12.6.2002 n. 50, § 1.2):

• il contratto di associazione in partecipazione risulti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata o registrata;

• tale contratto contenga la specificazione dell'apporto e, qualora questo sia costituito da denaro e altri valori, contenga elementi certi e precisi comprovanti l'avvenuto apporto;

• qualora l'apporto sia costituito dalla prestazione di lavoro, gli associati non siano familiari dell'associante compresi tra quelli per i quali l'imprenditore non può fruire di deduzioni a titolo di compenso del lavoro prestato o dell'opera svolta (v. precedente § 6);

• il contratto di associazione in partecipazione non consista nell'apporto rappresentato dall'emissione, da parte dell'associante, di titoli o certificati in serie o di massa, i cui proventi sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta del 27% ai sensi dell'art. 5 del DL 30.9.83 n. 512, convertito nella L. 25.11.83 n. 649, e successive modifiche (c.d. "titoli atipici").

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DEDUCIBILITA’ DAL REDDITO D’IMPRESA DEGLI UTILI CORRISPOSTI ALL’ASSOCIATO – CONGRUITA’ DEGLI UTILI –

parte 2

Ad avviso dell'Agenzia delle Entrate, il contratto di associazione in partecipazione nel quale l'associato si obbliga, oltre a prestare la propria opera, anche a versare una somma in garanzia è qualificabile come contratto con apporto misto; detta somma si configura, infatti, come un apporto di capitale assunto dall'associato ai fini della condivisione del rischio d'impresa dell'associante e dunque un elemento caratterizzante la qualificazione della remunerazione spettante all'associato. Pertanto, i relativi corrispettivi sono indeducibili (ris. Agenzia delle Entrate 10.4.2008 n. 145/E).Diversamente, qualora l'associato versi all'associante un corrispettivo iniziale a fronte della possibilità di avvalersi del sistema distributivo dell'associante, il contratto va qualificato come contratto di associazione in partecipazione con apporto di opere e servizi. Infatti, detto corrispettivo rappresenta non un apporto di capitale, bensì un onere non rimborsabile (deducibile ex art. 108 co. 3 del TUIR) che l'associato deve assolvere per poter beneficiare delle competenze professionali e del successo commerciale della società associante; La remunerazione corrisposta in relazione a detto contratto è quindi deducibile in capo all'associante ai sensi dell'art. 95 co. 6 del TUIR (ris. Agenzia delle Entrate 12.5.2008 n. 192/E).

Congruità degli utiliAd avviso della Suprema Corte (sentenza 25.9.2006 n. 20748), l'Amministrazione finanziaria può sindacare la congruità

dei compensi riconosciuti agli associati in relazione a contratti di associazione in partecipazione. Nel caso oggetto della citata sentenza, nulla veniva detto sull'entità dell'apporto dell'associato tale da poter giustificare l'elevata entità della remunerazione riconosciuta dalla società.

In senso più generale, secondo i giudici di legittimità, "rientra nei poteri dell'Amministrazione valutare la congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e procedere alla loro rettifica (...) negando la deducibilitàdi costi sproporzionati ai ricavi o all'oggetto dell'impresa ". Questo, anche nel caso in cui non ricorrano:

• irregolarità nella tenuta delle scritture contabili;• ovvero vizi degli atti giuridici compiuti nell'esercizio di impresa.

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DEDUCIBILITA’ DEI COMPENSI – parte 1

Il tema relativo alla deducibilità dei compensi erogati agli amministratori di società è sovente all'attenzione della giurisprudenza, siccome i suddetti costi vengono spesso disconosciuti per varie ragioni, tra le quali rientrano la congruità della somma erogata e l'assenza della relativa delibera assembleare.

Occorre premettere che, come prevede l'art. 95 del TUIR, i compensi corrisposti agli amministratori di società sono deducibili, come visto, per cassa, posto che ciò è espressamente contemplato dal legislatore.

La deducibilità dei compensi erogati agli amministratori delle società di persone, enunciata dal "vecchio" art. 62 co. 3 del TUIR era applicabile anche alle società di capitali, in virtù del rinvio operato dall'allora vigente art. 95 co. 1. Nel sistema attuale, la situazione è pressochéidentica, anche se rovesciata, posto che l'art. 95 del TUIR contempla espressamente la deducibilità dei compensi erogati agli amministratori di società di capitali, e ciò è applicabile anche alle società di persone per effetto del rinvio di cui all'art. 56 co. 1 (cfr. ris. Agenzia delle Entrate 31.12.2012 n. 113/E).

La deducibilità dei compensi è stata espressamente affermata da Cass. 10.12.2010 n. 24957.

Non può essere condiviso l'assunto di Cass. 13.8.2010 n. 18702, secondo cui, per effetto dell'allora vigente art. 62 co. 2 e 3 del TUIR, i compensi erogati agli amministratori di società di capitali "non sono affatto deducibili ". Come si può evincere dall'ampio dibattito (e dalle aspre critiche) scaturito a seguito della sentenza, pare potersi affermare che la stessa possa essere frutto di un'errata interpretazione della legge fiscale.

Il discorso potrebbe essere valutato sotto una diversa ottica ove l'Agenzia intendesse disconoscere il costo sulla base del fatto che, in realtà, l'attività svolta dal socio amministratore (nella specie, accomandatario di sas) non potrebbe essere qualificata come di amministrazione, bensì come apporto lavorativo. Ciò è successo nel caso esaminato da Cass. 8.7.2008 n. 18684, ove è stata confermata la tesi dell'ufficio, secondo cui "la fittizia qualificazione come costi da compensi ad amministratori tendeva in realtà a distribuire ai soci utili in evasione di imposta, trattandosi di costi non deducibili in quanto non inerenti allo svolgimento di attività di amministratori ".

Compensi ai liquidatori di società

La ris. Agenzia delle Entrate 31.12.2012 n. 113/E ha chiarito che l’art. 95 co. 5 del TUIR si applica sia agli amministratori che ai liquidatori di società.

Si afferma poi che ai compensi in argomento, quando risultano erogati da un soggetto ricompreso nel co. 1 dell'art. 73 del TUIR (s.r.l. in liquidazione) non risultano applicabili, in linea di principio, le disposizioni destinate ai soggetti imprenditori di cui all'art. 60 del medesimo TUIR. Pertanto, non è possibile affermare l’impossibilità di dedurre dal reddito di impresa il compenso per il lavoro prestato dall’amministratore perché l’attività svolta dal medesimo può essere equiparata a quella prestata dall’imprenditore.

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DEDUCIBILITA’ DEI COMPENSI – parte 2

Sindacato di congruità sull'attribuzione del compenso

Nell'ambito dell'attività di accertamento, l'Amministrazione finanziaria ha la potestà di recuperare a tassazione i costi che, a suo avviso, non possono essere dedotti in quanto non inerenti l'attività aziendale.

La Corte di Cassazione, con la sentenza 31.10.2005 n. 21155, ha stabilito che "allo stato attuale della legislazione l'Amministrazione finanziaria non ha il potere di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori ", poiché "l'art. 62 [ora 95, n.d.a.] del D.P.R. n. 917/86, nella sua nuova formulazione introdotta nel testo unico, non prevede più il richiamo a un parametro da utilizzare nella valutazione dell'entità dei compensi, per cui l'interprete non può che prendere atto della modificazione normativa e concludere per l'inesistenza del potere di verificare la congruità delle somme date ad un amministratore di società a titolo di compensi per l'attività svolta ".

L'assunto è stato confermato dalle recenti sentenze 2.12.2008 n. 28595 e 10.12.2010 n. 24957.

In base a ciò, all'Agenzia delle Entrate non sarebbe attribuito il potere di valutare la congruità del compenso, in quanto non sarebbe possibile sindacare le scelte imprenditoriali.

Va rilevata la presenza di un filone giurisprudenziale (più risalente) secondo il quale "nel caso in cui l'Ufficio contesti l'eccessivo ammontare di una consulenza affidata a terzi, dovrà valutarsi l'inerenza in relazione all'ammontare dell'oggetto della consulenza e ... non sarebbe possibile attribuire agli amministratori una cifra globale che porti all'azzeramento degli utili " (Cass. 6.9.2001 n. 11454).

Tuttavia, sebbene in via incidentale, con la sentenza 6.8.2008 n. 21169, la Corte di Cassazione ha sancito che l'evoluzione giurisprudenziale sembrerebbe mettere in dubbio l'orientamento prima citato.

A conforto di ciò, vengono citate le sentenze 10257/2008 e 21221/2006, ove è stato riconosciuto un criterio generale antielusivo di matrice comunitaria.

Ciò premesso, è possibile sostenere che i compensi non possono certamente essere riconosciuti in modo irragionevole in quanto verrebbe meno l'essenziale requisito dell'inerenza richiesto dall'art. 109 co. 5 del TUIR.

Infatti, per Cass. 10.12.2010 n. 24957, nonostante, in linea di principio, non sia possibile sindacare la congruità dei compensi, l'eccessività di questi ultimi può essere censurata dall'Agenzia delle Entrate, siccome esistono norme che consentono di far valere sia la simulazione contrattuale sia la presenza di contratti in frode alla legge.

Di conseguenza, nonostante la presenza delle sentenze prima citate, sarebbe ammissibile un accertamento che traesse origine dall'irragionevolezza della somma corrisposta.

Sanzioni amministrative (disapplicazione)

Per C.T. Prov. Torino 10.6.2009 n. 79, in caso di accertamento basato sul recupero a tassazione dei compensi erogati agli amministratori, sussiste l'obiettiva incertezza che, ai sensi dell'art. 6 co. 2 del DLgs. 472/97, consente di disapplicare le sanzioni.

Alla stessa conclusione è pervenuta, in sostanza, C.T. Reg. Firenze 12.10.2010 n. 80.

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Amministratore unico di società

Ai sensi dell'art. 60 del TUIR, non sono ammesse deduzioni a titolo di compenso per il lavoro svolto, tra gli altri, dall'imprenditore.

Si veda "Spese per prestazioni di lavoro".

Nel caso dell'amministratore unico di società di capitali, secondo la Corte di Cassazione può sussistere equiparazione tra imprenditore e attività gestoria: di conseguenza, il compenso non potrebbe essere dedotto in quanto l'attività effettuata a tale titolo rientrerebbe in quella svolta dall'imprenditore (Cass. 13.11.2006 n. 24188).

Tuttavia, trattasi di una pronuncia isolata, che potrebbe comunque essere letta nel senso di negare la deducibilità del costo in qualità di spesa per prestazione di lavoro, ferma restando la deducibilità come compenso prestato per l'opera di amministrazione (fattispecie distinte dal "vecchio" art. 62 del TUIR).

Con la ris. 27.5.2002 n. 158/E, l'Agenzia delle Entrate ha precisato che l'art. 60 del TUIR si rivolge "al solo imprenditore individuale/persona fisica e non anche all'impresa esercitata in forma collettiva ".

L'Agenzia rileva che "non vi è motivo per escludere la deducibilità dei compensi per il lavoro prestato dal socio a favore della società di persone, considerata la posizione di alterità soggettiva in cui si trova quest'ultima rispetto al socio stesso e che viene assolutamente a mancare, invece, nell'impresa individuale ".

La tesi dell'Agenzia delle Entrate sembra essere opposta a quella sostenuta dalla Corte di Cassazione, posto che la sentenza concerne un amministratore unico di società di capitali. Infatti, nella risoluzione viene evidenziato, richiamando la precedente R.M. 26.6.79 prot. 876, che il principio è tanto più evidente "nel caso di una società di capitali che, essendo soggetto giuridicamente e tributariamente autonomo rispetto ai soci che vantano quote di partecipazione al suo capitale sociale, si trova nella condizione oggettiva di soggetto-terzo che, come tale, può richiedere prestazioni tecnico-professionali ai propri soci ".

La giurisprudenza di merito si è pronunciata giungendo a conclusioni opposte (nel senso della deducibilità, C.T. Prov. Alessandria 5.7.2010 n. 77; contra , C.T. Prov. Alessandria 23.3.2010 n. 24).

Più tardi, tuttavia, C.T. Reg. Torino 6.2.2012 n. 8/34/12 ha riaffermato la tesi dell'indeducibilità.

DEDUCIBILITA’ DEI COMPENSI – parte 3

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Compenso erogato in assenza di deliberaPer le società di capitali, occorre considerare il caso in cui il compenso sia erogato in assenza di delibera assembleare.In ambito civile, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza 29.8.2008 n. 21933) ha stabilito che il diritto al compenso non sorge se non in forza di una

specifica delibera assembleare su tal punto, e a tal fine non è sufficiente la delibera di approvazione del bilancio ove era stato indicato il relativo costo.

Dall'art. 2364 c.c., precisano i giudici, emerge che il legislatore considera le deliberazioni di approvazione del bilancio (di cui al n. 1) e quelle di determinazione dei compensi (di cui al n. 3) come aventi oggetti e contenuti diversi e distinti. Ammettere che nella delibera di approvazione del bilancio sia implicita quella di determinazione dei compensi renderebbe la norma inutiliter data .

L'assunto prende le mosse dall'interpretazione delle norme del codice civile, per cui non può, a nostro avviso, essere automaticamente esteso in ambito fiscale, con conseguente impossibilità, per l'ufficio, di recuperare a tassazione il costo per il solo fatto che difetta la delibera assembleare.

Parte della giurisprudenza, tuttavia, richiamando proprio la sentenza 21933/2008, ha optato per l'indeducibilità del compenso erogato in assenza di specifica delibera (da ultimo, C.T. Prov. Alessandria 23.11.2011 n. 86/5/11), ritenendo ininfluente l'approvazione di una successiva delibera di ratifica della corresponsione del compenso (C.T. Prov. Reggio Emilia 18.10.2010 n. 186).

Altra parte della giurisprudenza si è dimostrata di diverso avviso, sostenendo che:• non ha rilievo il rispetto delle norme codicistiche, posto che la deduzione è ammessa quando sono integrati i requisiti di cui all'art. 109 del TUIR (C.T. Reg.

Firenze 25.11.2008 n. 170 e C.T. Reg. Milano 31.3.2006 n. 36); • la carenza della delibera non comporta, di per sé, l'indeducibilità del costo, a condizione che il compenso emerga dal bilancio d'esercizio (C.T. Prov. Lucca

14.7.2006 n. 64); • ove il compenso risulti da elementi certi e precisi quali i cedolini paga e le schede contabili, la deduzione è ammessa (C.T. Reg. Torino 25.3.2010 n. 21);• se il diritto al compenso emerge dal verbale dell'assemblea di nomina dell'amministratore, dal verbale del consiglio di amministrazione di accettazione

della stessa e dall'approvazione del bilancio (che implicitamente ratifica il compenso), la deduzione è ammessa (C.T. Prov. Torino 23.6.2011 n. 96/5/11).

Una posizione intermedia pare aver assunto la C.T. Prov. Torino 10.3.2011 n. 37/16/11, secondo la quale la delibera assembleare che determina il compenso agli amministratori, assunta in un determinato esercizio, può valere anche per quelli futuri, qualora la somma da erogare non sia modificata di anno in anno.

Infine, la sezione tributaria della Cassazione (sentenza 19.11.2007 n. 23872) ha sancito che è legittima la decisione del giudice di merito che ha escluso la deducibilità del compenso in quanto non previamente deliberato dall'assemblea. Tuttavia, rileva la Cassazione, la non deducibilità non derivava dall'inosservanza delle norme del codice civile, ma dal fatto che l'assenza di delibera era stata valutata quale elemento sintomatico dell'intento evasivo.

Mediante un ragionamento che parrebbe superato a seguito della sentenza delle Sezioni Unite prima richiamata, Cass. 14.5.2008 n. 12080 ha sancito che il sospetto di evasione non può fondarsi solo sul fatto che le delibere sono state approvate successivamente all'erogazione del compenso, siccome si tratta di una prassi consentita ai fini della regolarizzazione del bilancio.

DEDUCIBILITA’ DEI COMPENSI – parte 4

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Cassazione e Agenzia d’accordo sulla sindacabilità dei compensi degli amministratori – parte 1

Gli uffici delle Entrate possono sindacare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori delle società, con l’onere della prova contraria a carico del contribuente, ed eventualmente contestare l’abuso del diritto. Lo ha affermato la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 3243/2013; alla stessa conclusione era giunta l’Agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 113/E del 2012. Si ritiene, però, che siano contestabili i soli casi in cui il carico impositivo gravante sull’amministratore risulti apprezzabilmente inferiore alle imposte “risparmiate” dalla società attraverso la deduzione dei compensi.

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Nella risoluzione n. 113/E del 2012 l’Agenzia delle Entrate, riprendendo un passaggio della motivazione della sentenza della Cassazione n. 24957 del 2010, ha affermato che l’Amministrazione finanziaria può disconoscere totalmente o parzialmente la deducibilità dei compensi attribuiti agli amministratori qualora gli stessi appaiano “insoliti, sproporzionati”. Questi due termini rievocano la giurisprudenza della Cassazione sulla “inerenza quantitativa”.

È stato poi fatto riferimento anche alle ipotesi in cui i compensi risultino “strumentali all'ottenimento di indebiti vantaggi”. Con tale locuzione sembra che si sia inteso richiamare l’orientamento espresso nella sentenza della Suprema corte n. 21169 del 2008, nella quale era stato evidenziato, sia pure in via incidentale, che la sindacabilità della congruità dei compensi in esame potrebbe fondarsi anche sul principio della contestabilità degli atti che costituiscono abuso del diritto.

Cassazione e Agenzia d’accordo sulla sindacabilità dei compensi degli amministratori – parte 2

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Le conclusioni dell’Agenzia hanno trovato conferma nell’ordinanza della Corte di cassazione dell’11 febbraio 2013, n. 3243, nella quale è stato affermato che la deducibilità dei compensi degli amministratori “non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti” e che èinopponibile agli stessi il risultato elusivo ottenuto dall’impresa nel conseguimento di vantaggi fiscali “mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici”. Sono stati, pertanto, richiamati i due principi dell’inerenza quantitativa e dell’abuso del diritto.

È stata operata una vera e propria marcia indietro rispetto alla precedente giurisprudenza della Cassazione, che si era andata progressivamente orientando, almeno a partire dal 2002, a favore della inesistenza del potere di verificare la congruità delle somme date ad un amministratore di società a titolo di compensi per l’attività svolta (cfr., per tutte la sentenza n. 24957 del 2010). Tale orientamento era stato motivato sulla base del fatto che nel TUIR è stata eliminato il precedente riferimento normativo al limite massimo della deduzione costituito dalle “misure correnti per gli amministratori non soci”.

Nell’ordinanza in discorso è stato, invece, sostenuto che da tale eliminazione consegue soltanto “la liberalizzazione del concetto di spettanza ai fini della deducibilità. Il mancato riferimento a tabelle o altre indicazioni vincolanti, che pongano limiti massimi di spesa”, non confliggerebbe con il principio della sindacabilità dei compensi.

Cassazione e Agenzia d’accordo sulla sindacabilità dei compensi degli amministratori – parte 3

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La Cassazione ha, quindi, affermato che il principio di inerenza quantitativa si applica anche ai compensi degli amministratori, ridimensionando gli effetti del mutamento normativo intervenuto con l’approvazione del TUIR. Tale orientamento appare condivisibile, in quanto si può ritenere che la precedente disposizione normativa sarebbe ormai superflua alla luce dell’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato che consente agli uffici delle entrate di sindacare la congruità dei componenti reddituali senza essere vincolati ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti, e con l’onere della prova contraria che incombe sul contribuente. Nel caso cui si riferisce l’ordinanza in esame la società non aveva, peraltro, “fornito prova dell’esistenza di ragioni economiche giustificative”.

Nella sentenza della stessa Corte del 21 gennaio 2011, n. 1372 (cfr. “La libertà economica non può essere limitata per ragioni fiscali”, il Quotidiano IPSOA del 25 gennaio 2011), è stato, peraltro, evidenziato che in presenza di fenomeni elusivi incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare la “anomalia” del comportamento del contribuente che induce a ritenere che lo stesso abbia conseguito indebiti vantaggi fiscali.

Cassazione e Agenzia d’accordo sulla sindacabilità dei compensi degli amministratori – parte 4

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L’antieconomicità, l’elusività del comportamento e la ricorrenza dell’abuso del diritto sono, però, difficilmente riscontrabili nei casi in esame, anche in considerazione del fatto che non si dovrebbero verificare fenomeni di arbitraggio fiscale, atteso che l'imposizione (IRPEF e relative addizionali) gravante sull’amministratore ègeneralmente più elevata di quella relativa ai soggetti IRES. Più complesso risulta, peraltro, il raffronto in presenza di società di persone, i cui redditi sono assoggettati ad IRPEF in capo ai soci. In ogni caso, i compensi attribuiti agli amministratori non sono deducibili ai fini dell’IRAP e sono, di conseguenza, venuti meno i fenomeni di arbitraggio che si verificavano in vigenza dell’ILOR, la cui base imponibile era, invece, influenzata dai detti compensi.

Tali considerazioni appaiono, tra l’altro, trovare conferma nel disposto dell’art. 24, comma 1, D.L. n. 78 del 2010, richiamato (unitamente alla circolare esplicativa del 15 febbraio 2011, n. 4/E) nella stessa risoluzione n. 113/E. In tale disposizione è stabilito che la vigilanza sistematica sulle imprese che presentano, per più di un periodo d’imposta, dichiarazioni in perdita fiscale non riguarda i casi in cui la stessa è determinata da compensi erogati agli amministratori, in quanto è stato, evidentemente, considerato che questi ultimi sono, nella generalità dei casi, assoggettati, in capo ai percipienti, ad IRPEF con aliquote progressive e, quindi, a tassazione sostanzialmente equivalente al risparmio d’imposta della società.

Anche nella sentenza della Corte di cassazione n. 24957 del 2010 è stato affermato che in presenza di compensi attribuiti ad amministratori non soci appare improbabile una distribuzione occulta di utili ed uno scopo fraudolento, atteso che le aliquote applicabili ai redditi degli amministratori sono superiori a quelle relative ai redditi delle società.

Si ritiene, quindi, che siano eventualmente contestabili dall’Agenzia delle Entrate i soli casi in cui il carico impositivo gravante sull’amministratore risulti apprezzabilmente inferiore alle imposte “risparmiate” dalla società attraverso la deduzione di compensi “insoliti o sproporzionati”.

Il mutamento interpretativo della Corte rende comunque opportuno che la questione in discorso venga sottoposta all’esame delle Sezioni Unite.

Cassazione e Agenzia d’accordo sulla sindacabilità dei compensi degli amministratori – parte 5

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IL PERCORSO01|L'ANTIECONOMICITÀL'antieconomicità è la possibilità che l'agenzia delle Entrate avrebbe di valutare la congruità

di certe spese (ad esempio, i compensi degli amministratori) in quanto ritenute sproporzionate o insolite

02|L'INERENZAL'antieconomicità deve essere inquadrata nel principio dell'inerenza. Quest'ultimo è il

principio in base al quale vi deve essere un collegamento tra un componente economico è l'attività che viene esercitata dall'imprenditore

03|GLI UFFICIL'amministrazione finanziaria, se procede a una rettifica basata sull'antieconomicità, deve

rappresentare i motivi per i quali non vi è un collegamento della spesa con l'attivitàd'impresa

04|IL LIMITEIn caso contrario, si è in presenza di una rettifica basata su presunzioni semplici, le quali

devono essere accompagnate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza (con onere in capo all'amministrazione)

05|IL «TERMINE»Spesso le contestazioni basate sull'antieconomicità vengono supportate con riferimenti

all'abuso del diritto e all'elusione. Si tratta, però, di riferimenti incongrui dato che la vicenda della non inerenza ha a che fare con l'evasione e non con l'elusione.

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