l’altra musica — 27 Il nuovo tour di Elisa · Il tour quindi non ha niente di precostituito....

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l’altra musica E lisa rimanE unartista inaffErrabilE. Non so- lo il suo ultimo progetto discografico, Ivy, vive di contrapposizioni creative, quelle fra suono e vi- sione, fra armonia e dissonanza (non a caso il nuovo al- bum è stato pubblicato in una sola confezione, con una parte sonora, su cd, e una visiva, su dvd), ma pu- re la sua tournée primaverile alternerà due sca- lette differenti, una legata all’acqua e l’altra al fuoco, in un continuo alternarsi fra spiri- to e materia. Una scelta di cui è ben consa- pevole chi, in tempi non sospetti, ha scelto l’inglese come propria lingua d’arte e con- tinua a non seguire strade precostituite. «Ho più che altro scelto di percorrere una strada meno segnata. Le canzoni so- no importanti, fanno parte del mio mon- do e del mio lavoro. Di sicuro si tratta di una forma che sopravvivrà alla fine del cd e dei file digitali. Mi sono concentrata di più su quella forma, sui modi in cui la si può rendere viva». Il tour quindi non ha niente di precostituito. Beh, le scalette sono già scelte, in realtà. Diciamo che non si voleva ripetere sem- pre lo stesso concerto e così si è deci- so di variare la gamma delle emozioni. Due differenti percorsi, anche se non troppo vincolanti, per riflettere sulle emozioni che la musica trasmette. Ivy e Lotus: due album acustici e sette an- ni in mezzo. Molti cambiamenti, una pianta invece di un fiore a cercare di spiegarli. Ivy è una pianta rampicante e resistente, sempre verde, che va verso l’alto. È la tensione verso il cambia- mento: la vita ti cambia comunque, ma se prendiamo noi la decisione, allora si crede di poter gestire le co- se che capitano. È un’illusione? Solo in parte. La strada non è segnata, perché non sappiamo mai dove andremo a finire. Anche in quello che faccio: non avrei mai pensato di colla- borare con un rapper e invece in Fabri Fi- bra ho trovato un’affinità sostanziale in ciò che faccio anche io. Da talento a musicista affermata. Come giudi- chi il tuo percorso, rispetto alla strada di chi oggi, magari, sceglie un talent show per farsi conoscere? Sono convinta che la disciplina sia un fattore importante nell’addomesticare il proprio talento. A me è andata bene, nel senso che sono stata scoperta e anche ac- cudita, senza che questo limitasse la mia libertà. Quando un talent show ti costrin- ge a metterti alla prova, va bene. Forse il punto è quello della creatività. Ovvero? Il talento si scorge, secondo me, quando si tratta di cre- are qualcosa. Immergersi troppo nelle cover, e solo in quelle, rischia di non alimentarlo. Sei considerata una delle migliori voci della tua generazione. Una generazione che è lontana dalla melodia tipicamente italiana e più vicina al rock internazionale. Forse mi fai una domanda del genere perché ho canta- to molto in inglese, però ti assicuro che non ho mai pen- sato di appartenere a una tradizione, nemmeno straniera. Ho i miei gusti, chiaramente. Ma il mio stile sul palco e in studio sono un fatto di pelle, di carattere: qualcosa che non saprei spiegare esattamente dove si è nascosto. So so- lo che c’è e che riesce a entrare in contat- to con gli altri. Il richiamo continuo alla natura, per noi che vi- viamo in mezzo al cemento, è… Un tentativo di farci respirare, a fondo, di ricordare che prima dell’asfalto e delle metropoli ci sono le radici, le nostre, che sono fatte di terra, di acqua, di aria e di fuoco. Meglio non dimenticarlo. Il nuovo tour di Elisa parte da «Ivy» a cura di John Vignola Elisa (foto di Fabio Lovino). Trieste – Politeama Rossetti 21 marzo e 22 aprile, ore 21.00 Venezia – Teatro Malibran 30 e 31 marzo, ore 20.30 Udine – Teatro Nuovo 3 aprile, ore 20.30 Verona – Teatro Filarmonico 20 e 21 aprile, ore 21.00 l’altra musica — 27

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Elisa rimanE un’artista inaffErrabilE. Non so-lo il suo ultimo progetto discografico, Ivy, vive di contrapposizioni creative, quelle fra suono e vi-

sione, fra armonia e dissonanza (non a caso il nuovo al-bum è stato pubblicato in una sola confezione, con una parte sonora, su cd, e una visiva, su dvd), ma pu-re la sua tournée primaverile alternerà due sca-lette differenti, una legata all’acqua e l’altra al fuoco, in un continuo alternarsi fra spiri-to e materia. Una scelta di cui è ben consa-pevole chi, in tempi non sospetti, ha scelto l’inglese come propria lingua d’arte e con-tinua a non seguire strade precostituite.

«Ho più che altro scelto di percorrere una strada meno segnata. Le canzoni so-no importanti, fanno parte del mio mon-do e del mio lavoro. Di sicuro si tratta di una forma che sopravvivrà alla fine del cd e dei file digitali. Mi sono concentrata di più su quella forma, sui modi in cui la si può rendere viva».

Il tour quindi non ha niente di precostituito. Beh, le scalette sono già scelte, in realtà.

Diciamo che non si voleva ripetere sem-pre lo stesso concerto e così si è deci-so di variare la gamma delle emozioni. Due differenti percorsi, anche se non troppo vincolanti, per riflettere sulle emozioni che la musica trasmette.

Ivy e Lotus: due album acustici e sette an-ni in mezzo.

Molti cambiamenti, una pianta invece di un fiore a cercare di spiegarli. Ivy è una pianta rampicante e resistente, sempre verde, che va verso l’alto. È la tensione verso il cambia-mento: la vita ti cambia comunque, ma se prendiamo noi la decisione, allora si crede di poter gestire le co-se che capitano.

È un’illusione?Solo in parte. La strada non è segnata, perché

non sappiamo mai dove andremo a finire. Anche in quello che faccio: non avrei mai pensato di colla-borare con un rapper e invece in Fabri Fi-bra ho trovato un’affinità sostanziale in ciò che faccio anche io.

Da talento a musicista affermata. Come giudi-chi il tuo percorso, rispetto alla strada di chi oggi, magari, sceglie un talent show per farsi conoscere?

Sono convinta che la disciplina sia un fattore importante nell’addomesticare il proprio talento. A me è andata bene, nel senso che sono stata scoperta e anche ac-cudita, senza che questo limitasse la mia libertà. Quando un talent show ti costrin-

ge a metterti alla prova, va bene. Forse il punto è quello della creatività.

Ovvero?Il talento si scorge, secondo me, quando si tratta di cre-

are qualcosa. Immergersi troppo nelle cover, e solo in quelle, rischia di non alimentarlo.

Sei considerata una delle migliori voci della tua generazione. Una generazione che è lontana dalla melodia tipicamente italiana e più vicina al rock internazionale.

Forse mi fai una domanda del genere perché ho canta-to molto in inglese, però ti assicuro che non ho mai pen-sato di appartenere a una tradizione, nemmeno straniera. Ho i miei gusti, chiaramente. Ma il mio stile sul palco e in studio sono un fatto di pelle, di carattere: qualcosa che non saprei spiegare esattamente dove si è nascosto. So so-

lo che c’è e che riesce a entrare in contat-to con gli altri.

Il richiamo continuo alla natura, per noi che vi-viamo in mezzo al cemento, è…

Un tentativo di farci respirare, a fondo, di ricordare che prima dell’asfalto e delle metropoli ci sono le radici, le nostre, che sono fatte di terra, di acqua, di aria e di fuoco. Meglio non dimenticarlo. ◼

Il nuovo tourdi Elisaparte da «Ivy»

a cura di John Vignola

Elisa ( foto di Fabio Lovino).

Trieste – Politeama Rossetti21 marzo e 22 aprile, ore 21.00

Venezia – Teatro Malibran30 e 31 marzo, ore 20.30

Udine – Teatro Nuovo3 aprile, ore 20.30

Verona – Teatro Filarmonico20 e 21 aprile, ore 21.00

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anticipato dal singolo «tutto l’amore che ho», è uscito verso la fine dello scorso gennaio, a tre an-ni da Safari (2008), il nuovo lavoro in studio di Jo-

vanotti. Ora, questo il titolo dell’inedita creatura di Lo-renzo Cherubi-ni – il cui tour, per quel che ri-guarda la nostra Regione, appro-derà a Coneglia-no il 19 e il 20 aprile –, è un disco che par-la d’amore, di universo, di co-smologia, di vi-ta, e di quest’ul-tima si evince il desiderio di farne emerge-re non solo gli aspetti più en-tusiasmanti ma anche quelli più commoventi e meno raziona-li: quindici trac-ce nella versio-ne «normale» e 25 nell’edizione «deluxe» (dove i dieci brani in più sono tutt’al-tro che b-sides) date alla luce – nemmeno a far-lo apposta… – dopo nove me-si di gestazione, e che Jovanotti ha voluto dedicare alla madre recente-mente scomparsa.

«Si tratta di un album impegnato, ma nel senso in cui la musica deve esserlo: nell’intento di far star bene la gente», ha dichiarato Lorenzo in un’intervista rilasciata a «Vani-ty Fair», ricordando anche che quando cominciò a «fare musica», a quattordici anni, uno degli intenti era quello di «far ridere la mia mamma, sapere che era orgogliosa di me, alleviarle un po’ la fatica di dover tirare su quattro fi-gli. E se ci penso adesso, che lei non c’è più, questa cosa assume un senso ancora più profondo».

Il disco, come ha sottolineato Gian-ni Sibilla nella recensione pubblicata su rockol.it, presenta canzoni decisamente

dance, come «Spingo il tempo al massimo» o «Io dan-zo», brani più tradizionali, come il rock di «Il più grande spettacolo dopo il Big Bang», le ballate «Le tasche piene di sassi» e «L’elemento umano»; non mancano poi i rife-rimenti alla canzone francese – si pensi a «Quando sarò vecchio» – e alla musica etnica – è il caso della «Bella vi-ta», con Amadou & Mariam, un pezzo irresistibile, che trasuda ottimismo.

È proprio fra l’ottimismo e la commozione che Ora si trova a dondolare, ponendo in prima linea «la volon-tà di combattere per riuscire a mantenersi umani». Ed è senz’altro anche «da ballare», come dice lo stesso Jova-notti. L’album prende infatti una strada un po’ diversa dai suoi precedenti lavori in studio: è una creatura figlia della contemporaneità, che denuncia il desiderio dell’arti-

sta di percorrere strade sempre inedite, perché «la bellezza ri-siede nello sco-prire continua-mente cose nuo-ve e nello speri-mentare, per sorprendermi e sorprendere».

Per quel che ri-guarda l’imma-gine di coper-tina, che ritrae il volto del no-stro incastona-to in uno spazio ricco di stelle e solcato all’altez-za del naso da una congiun-zione astrale a forma di barca a vela, Lorenzo si è affidato al la-voro di Mauri-zio Cattelan, co-nosciuto a New York. «Mi trova-vo nella Grande Mela in occa-sione di alcuni concerti. Mau-rizio, artista che

mi piace da sempre, era a uno di questi e quando me lo pre-sentarono, dopo poche chiacchiere, ebbi immediatamen-te l’impressione di entrare in sintonia con lui. Gli proposi così di prendere parte al mio nuovo progetto. Durante la gestazione dell’album abbiamo lavorato moltissimo, pas-sando da un centinaio di idee iniziali alla realizzazione di cinque, sei immagini, una delle quali è diventata la co-pertina di Ora. È stato davvero affascinante confrontar-mi con Maurizio, entrare nel suo processo creativo e ve-dere quanta passione e impegno mette nel suo lavoro». ◼

Conegliano (Tv) – Zoppas Arena19 e 20 aprile, ore 20.45

È l’«Ora»di JovanottiLorenzo Cherubini presenta dal vivo la sua creatura

di Ilaria Pellanda

La copertina di Oraideata da Maurizio Cattelan.

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dalla sua nascita a oggi il rap è passato attra-verso molte evoluzioni: da iniziale urlo di ribellione e protesta dei quartieri

a maggioranza afroamericana delle gran-di città americane, ha continuato un lungo cammino diventando un im-portante elemento del mercato di-scografico ormai non solo statu-nitense. Un’espansione che ha messo radici in ogni nazione del mondo occidentale e non solo, conformandosi sem-pre con le diverse realtà in cui ha trovato un pubblico di ascoltatori. Esiste il rap francese, tedesco, spagno-lo, indiano e così via. Pa-radossalmente proprio in America, dove molti rap-per hanno ormai costrui-to dei veri e propri imperi finanziari, si è persa mol-ta parte del senso origina-rio che univa gli ascolta-tori di questo genere, pas-sando dalla denuncia so-ciale o alla condivisione di disagi o a una autoreferen-zialità colma di auto costose e belle ragazze poco vestite. Con il tipico ritardo naziona-le, anche in Italia il rap, e più in generale tutta la cultura hip hop, ha da alcuni anni un pubblico sem-pre in crescita. Si deve a Jovanotti (cfr. p. 30), ben prima della sua conversione cantautorale, l’introduzione al grande pub-blico di questo genere. La sua versione del rap era più che altro una brutta imitazione, con tanto di collanone d’oro, di artisti di oltre oceano come Run dmc o Beastie Boys. In quanto musica nata in strada, il rap di casa nostra ha trovato una propria dimensione quando ha trovato artisti che potessero dare realmente voce ai mille problemi che molte persone vivono nei recinti ur-bani odierni. Dai 99 Posse a Frankie Hi nrg, gli Artico-lo 31, fino ai più recenti Fabri Fibra o Marracash: ognu-no di questi artisti è caratterizzato da un legame cittadi-no o regionale molto forte, ma allo stesso tempo riscuotono successo a livello nazio-nale, forti del senso di comunanza che la loro musica instaura. Anche Caparezza fa

parte di questo gruppo di rapper, che hanno saputo crea-re un proprio stile partendo dalle proprie origini, in que-sto caso pugliesi. Succede a pochi ma Caparezza è riusci-to a sfruttare, anzi a crearsi una sua seconda possibilità, visto che all’inizio della propria carriera, quando ancora si faceva chiamare Mikimix, ottenne uno scarso succes-so anche presentandosi come artista a Castrocaro e San-remo nel 1997. Tornato a Molfetta, sua città natale, rina-sce sotto il segno di Caparezza, che in dialetto pugliese significa testa riccioluta, proprio come la folta capiglia-tura che lo caratterizza. A seguito dell’interesse suscitato da alcuni suoi demo, nel Duemila riesce a ottenere un di-screto successo con il suo primo album: ?!; la vera popo-larità arriva però con il disco Verità Supposte del 2003, che

conteneva singoli famosi come «Il Secondo Me», «Vengo dalla Luna» e soprattutto «Fuori dal

Tunnel» che divenne vero e proprio tor-mentone estivo di quell’anno. Lui stes-

so si è trovato più volte a dover difen-dere il brano dall’utilizzo in ambi-

ti che troppo si allontanavano dal significato originale del testo. Le tematiche sociali, il lavoro e l’ambiente, il disagio di perso-ne che non vivono vite facili, la lotta contro gli abusi del potere e della politica sono alcuni dei temi che il rap-per pugliese tratta nei suo-ni brani, sempre attento ai giochi di parole, sferzan-ti, ironici caustici e diret-ti, mescolati a riferimenti che vanno da Dante ai più svariati personaggi del-la cultura popolare. Con Habemus Capam del 2006, Caparezza analizza l’idea della morte dell’artista, iro-nizzando sulla maggiore

quantità di dischi venduti a fronte di una sua dipartita, un

viaggio dello spirito nell’ultra-terreno fino alla propria resur-

rezione. Ancora più articolato è il progetto del 2008 Le Dimensioni

del mio Caos, colonna sonora del suo libro Saghe Mentali: un disco concepito

dallo stesso autore come fonoromanzo, una sorta di radiodramma rappato che narra at-

traverso varie situazioni la storia dell’adolescen-te Ilaria, che dal 1968 si trova proiettata nel 2008. Do-

po una pausa di tre anni e il passaggio a una nuova casa discografica, pubblica in questi mesi il suo nuovo disco, Sogno Eretico, anticipato da un singolo che vanta la presen-za di Tony Hadley, leader degli Spandau Ballet, band di culto degli anni ottanta. Malinconia in questo caso non è un sentimento ma l’immagine senza speranze di un’Ita-lia abbandonata da tutti: «Goodbye malinconia / come ti sei ridotta in questo stato? / goodbye malinconia / dim-

mi chi ti ha ridotta in questo stato?».A ogni ascoltatore (e lettore) l’ardua sen-

tenza. ◼

Il «Sogno Eretico» di CaparezzaTorna il rapper di Molfettae duettacon uno Spandau Ballet

di Tommaso Gastaldi

Caparezza.Padova – Gran Teatro Geox

19 marzo, ore 21.00

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finora nEssuno – critico, musicologo o semplice appassionato che sia – è riuscito a giustificare l’in-spiegabile successo che la musica progressive ha avu-

to e continua ad avere in Italia. Secondi solo all’Inghil-terra, dove questo movimento è nato, nel nostro Paese il prog rock ha trovato terreno fertile dando vita a una folta schiera di fan e numerosi gruppi. Lontani dalla forma ca-nonica della canzone pop, i progressisti del rock allunga-no i brani a dismisura, utilizzano ritmi e strumentazio-ni inusuali e si aprono a qualsia-si influenza musicale mai affron-tata prima, dalla classica al jazz e alla musica indiana. Un gene-re che è riuscito a sopravvivere a tutte le mode musicali degli anni ottanta, novanta e del nuovo se-colo. Ancora oggi stiamo viven-do una rinascita del prog rock, ce-lebrato da concerti con gli eroi di allora, ne sia esempio il concerto che la Premiata Forneria Marconi terrà a giugno al Teatro alla Sca-la di Milano. Giunto alla quarta edizione, anche il festival Schio-life continua questo revival mu-sicale presentando al Teatro Co-munale di Vicenza un cartello-ne degno di nota: nella prima da-ta sono saliti sul palco Aldo Ta-gliapietra e Tony Pagliuca del-le Orme (assieme alla pfm il rife-rimento del progressive italiano) con il chitarrista Tolo Marton, i The Watch, cover band dei Ge-nesis, che hanno riproposto il ca-polavoro del gruppo di Peter Ga-briel Selling England by the Pound e infine l’8 aprile suone-ranno i Van der Graaf Generator. Il gruppo nasce nel 1967 a Manchester attorno alla figura del cantante-filoso Peter Hammill alla voce, chitarra e piano, al quale si af-fiancano il bassista Nick Potter, il batterista Guy Evans e l’ottimo organista-tastierista Hugh Banton, passando negli anni attraverso scioglimenti e cambi di formazio-ne. La particolarità che caratterizza i Van der Graaf Ge-nerator rispetto alle altre band del periodo, è la materia con cui riempiono le proprie canzoni, lontane dai mon-di fantastici di gruppi come i Genesis, dispu-tando piuttosto di «relazioni umane, invecchia-mento, morte, follia, politica, consapevolezza, introspezione e religione» (Carlo Massarini, De-ar Mr Fantasy, p. 58, Rizzoli). Una cupa dram-maticità che risuona in ogni nota della loro pro-

duzione e che, con le dovute differenze, li avvicina più ai Pink Floyd di The Wall che ai richiami medievali e fanta-stici dei Genesis o dei Gentle Giant. I frutti più alti della loro discografia ruotano attorno a tre album molto ama-ti dalla critica: il primo di questi dischi, The Least We Can Do is Wave to Each Other nel quale viene introdotto anche il sax di David Jackson, manifesta da subito la loro vo-lontà di rinnovamento musicale. Il successivo, H to He, Who Am the Only One, è un triste e lugubre manifesto sul-la solitudine analizzata nei cinque brani del disco: si apre con «Killers», canzone che narra di un pesce assassino e matricida che vive solo e temuto da tutti, e si chiude con «Pioneers», con il suo astronauta solo e sperduto nell’in-finità delle galassie spaziali. Negli stessi anni anche Da-vid Bowie manda in orbita il suo Major Tom. Tre tracce, due da poco più di dieci minuti e un’altra da ben ventitré: all’epoca si doveva fare i conti con le limitazioni imposte dal vinile. Pawn Hearts è il capolavoro, un disco che otten-ne un successo strepitoso e per certi versi inaspettato: tre suite cupe e tenebrose, dove i «Lemmings» (titolo della prima traccia) corrono verso il proprio suicidio di massa.

È la metafora della società moderna. «Come posso esse-re libero? / Come posso ottenere aiuto?», sono le dispe-rate richieste di «Man-Erg», ed infine «A Plague of Ligh-thouse Keepers», che conclude questo viaggio nella di-sperata segregazione umana. Tra momenti di apparente calma e profonda violenza di organo, la loro musica è un continuo intreccio piano, sax e flauti e chitarre, qui suo-nate da Robert Fripp. Dopo questo disco Peter Hammill scioglie il gruppo per ricomporlo nel ‘75 e pubblicare ben tre album. Dopodiché Hammill porta avanti una propria

carriera solista fino alla definitiva reunion con i vecchi compagni con cui nel 2005 e nel 2008 compone due dischi, Present e Trisector, ricomin-ciando a calcare i palchi di tutto il mondo. ◼

L’inesauribile energiadei Van der Graaf GeneratorA Vicenza il gruppo culto degli anni settanta

di Tommaso Gastaldi

I Van der Graaf Generator.

VicenzaTeatro Comunale8 aprile, ore 21.00

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«la vita comincia a quarant’anni». Detto da Ja-son Kay, classe 1969, leader e anima dei Ja-miroquai, potrebbe suonare come

un luogo comune. «È un cliché – ammette – ma è proprio vero, sento il privilegio e la for-tuna di essere ancora in gioco». E in effetti di novità ce ne sono tante: una nuova etichet-ta discografica, un nuovo e travolgente cd – Rock Dust Light Star – dopo cinque an-ni di silenzio (il pre-cedente era Dynami-te, del 2005, cui era seguito il best of Hi-gh Times: Singles 1992-2006), una nuova e adrenalinica pas-sione (che scoprire-mo più avanti) e un tour che sta portan-do la band in tutto il mondo, Italia com-presa. Il 31 marzo prossimo, infatti, Jamiroquai fa tappa a Mantova, ai con-fini del Nordest (le altre tappe sono a Milano, Torino e Firenze).

Il cd – godibile dal primo all’ulti-mo brano, con al-meno metà delle canzoni destinate a essere estratti co-me singoli – ripor-ta Jamiroquai ai fa-sti del passato, per intenderci al suc-cesso di album co-me The Return of the Space Cowboy, Tra-velling Without Mo-ving e A Funk Odys-sey (dalla critica rite-nuto il loro capola-voro). Un misto di acid jazz, funk e soul, con qualche pic-cola e curiosa incursione reggae. «Abbiamo evitato di ul-tra analizzare le canzoni in studio – spiega Kay – perché poi alla fine ascolti i brani fino alla noia e rischi di pren-dere la decisione sbagliata. Stavolta invece abbiamo inci-so le canzoni, le abbiamo portate fino a un certo livello e

poi non le abbiamo ascoltate per due mesi. Quando le ab-biamo riascoltate ci sono piaciute: vuol dire che avevamo fatto bene». I testi non resteranno nella storia, anche se i riferimenti ai temi cari al cantante (l’ecologia, la religio-ne, lo spazio, la futurologia) non mancano. «Ma alla fine – confessa il frontman della band – ci basterebbe ascol-tare un po’ di più Stevie Wonder, che canta “nell’amore è tutto giusto” o “ l’amore è un gioco per due persone”… Alcune delle migliori canzoni della storia sono semplici, colpiscono il cuore e non il cervello».

Il primo brano estratto – «White Knuckle Ride» – ha proprio il marchio di fabbrica di Jamiroquai: un funk elettronico orecchiabile e accattivante. Il video è un’au-

tocitazione e svela la nuova passione di Jason Kay. Il rimando è al video di «Cosmic Girl», del 1996, nel quale tre auto sportive (due Fer-rari e una Lamborghini, appartenenti alla col-lezione di auto di lusso del cantante) gareg-giavano nel deserto. In «White Knuckle Ri-

de», invece, a sfrec-ciare lungo le strade è una Porsche, inse-guita da un elicot-tero, pilotato pro-prio dal cantante, al quale forse la ve-locità delle sue au-to non bastava più! Un’apparente con-traddizione con il nuovo stile adotta-to da Jason Kay per «Rock Dust Light Star». «In questo di-sco – spiega il can-tante nel blog della band – ho usato la voce in un modo un po’ differente, forse più rilassato. Ho un po’ rallentato». E in effetti, come dar-gli torto ascoltando la suadente ballata «Blue Skyes»?

Lo show del 31 marzo promet-te comunque rit-mi trascinanti. Sa-rà impossibile non ballare sulle note funk di «All Go-od in the Hood» o «She’s a Fast Per-suader», o farsi cul-lare dal groove di «Smoke And Mir-rors», «Lifeline» e

dalla particolarissima e ipnotica «Hey Floyd». E se ver-rà confermata la scaletta delle ultime esibizioni del grup-po, si potranno riascoltare successi come «Little L», «Co-smic Girl», «Virtual Insanity» e «Space Cowboy». ◼

I Jamiroquaison tornatiLa band di Jason Kayin concerto a Mantova

di Giuliano Gargano

Jason Kay, leader dei Jamiroquai.

Mantova – Palabam31 marzo, ore 21.00

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il mEsE di marzo in Veneto si arricchisce di tanta musica elettrica o meglio ancora elettronica, per dirla con gli esponenti di

una serie di tendenze davvero variegatissime, che oggi transitano dai concetti del passato al-le utopie del futuro, coinvolgendo un presen-te vicino alle tradizioni più o meno classiche e un avvenire ormai quasi da fantascienza. In tal senso, il britannico Albert Lee e il giapponese Ryoji Ikeda sono forse i due artisti che meglio rappresentano, di questi tempi, i due poli estre-mi nella filosofia dell’elettricità a sette note e che, non a caso, saranno protagonisti rispetti-vamente al Teatro Accademia di Conegliano (24 marzo) e a Palazzo Grassi, a Venezia (19 marzo). Entrambi paio-no salutare in chiave simbolica la xiv edizione di Veneto Jazz Winter, che, iniziata a gennaio, vedrà ancora in sce-na il pianista Raphael Gualazzi e la cantante Z-Star (ri-spettivamente l’11 e il 26 marzo all’auditorium bhr Trevi-so Hotel di Quinto di Treviso), il cantante scat Gegè Te-lesforo al Teatro Giardino di San Giorgio delle Pertiche di Padova (18 marzo), il tango del duo fisarmonica-vio-loncello Paier Valcic (il 25 a Salzano, il 26 a Chioggia, in collaborazione con Ubi Jazz).

Ma prima di presentare Albert Lee e Ryoji Ikeda oc-corre magari soffermarsi a riflettere su cosa si intende quando si parla di musica elettrica o elettronica, per me-glio gustarsi due eventi così interessanti, ma fra loro di-versi, nonostante il filo sottile del richiamo tecnologico che, fin dal primo Novecento, tiene legati fenomeni ar-tistici eterogenei se non antipodici. È indubbio che l’in-venzione dell’elettricità sia servita anzitutto a scopi uti-litaristici, quindi a potenziare gli emergenti mass media (mezzi di comunicazioni di massa) e solo in ultimo a in-teragire con la prassi (e la teoria) della creatività artistica. E sotto quest’ultimo aspetto bisogna subito sgomberare il campo da ogni equivoco, dal momento che oggigior-no si fa spesso un uso errato del termine «elettronica» ap-plicato alla musica, riducendolo solo a recenti fenome-ni commerciali, che a loro volta si limitano spesso ai bal-li da discoteca.

Tuttavia il rapporto tra musica ed elettronica vanta una storia più nobile e intrigante, a partire dai suoni elettrici prodotti dall’amplificazione degli strumenti tradiziona-li: un’esigenza sorta alla fine degli anni trenta in seno alle jazz band, per consentire appunto alle chitarre una riso-nanza più forte rispetto ai suoni dei fiati già di per sé po-tentissimi; ed è quanto accade a partire da Charlie Chri-stian nell’orchestra di Benny Goodman. Un decennio più tardi, soprattutto in Europa, al seguito di alcune intui-

zioni dei futuristi Luigi Russolo e Balilla Pratella già ne-gli anni dieci, alcune correnti di neoavanguardia deno-minate musique concrète in Francia (con André Schaeffer e Pierre Henry) ed Elektronische Musik in Germania (con Karlheinz Stockhausen) pensano di creare musica sen-za più spartiti, pentagrammi, strumenti tradizionali, ma soltanto attraverso macchine o apparecchi (all’epoca ru-dimentali), che, grazie a un’azione sulla corrente elettri-ca, generano rumori o suoni artificiali. Sarà solo alla fi-ne degli anni sessanta che arriveranno i primi sintetizza-tori che uniranno le due logiche, anticipando tutta la mu-sica oggi ri-producibile attraverso la digitalizzazione con il computer.

Tornando invece ai due protagonisti, Albert Lee da Nottingham, sessantasettenne con il piglio dell’hippy ribelle, è uno dei «poeti» della chi-tarra elettrica, uno fra i padri fondatori a li-vello espressivo, un virtuoso delle potenziali-tà dentro e fuori lo strumento al pari di pochi altri nella storia del pop-rock: Jimi Hendrix, Frank Zappa, Eric Clapton o Carlos Santana, tanto per nominare eroi arcinoti. Gli esordi professionali di Albert risalgono al 1966 quan-do dà vita al quartetto Ten Years After, assie-me a Ric Lee, Chick Churchill, Leo Lyon: fin dal nome si intuisce quali siano le volontà del-la band, che sussistono tuttora nella lunga car-

riera solista del leader medesimo, giacché, senza fronzoli, ripete coerentemente il sound e il rituale di quegli anni. Il nome dunque vuol dire «dieci anni dopo» perché la mu-sica che Albert propone è in fondo un’originale revival e una curiosa miscela di rock and roll e rhythm and blues, che addirittura riprende il vecchio boogie-woogie e ma-gari anticipa il nuovo hard-rock. Con l’album omonimo Ten Years After (1967) c’è il debutto «live in studio», per mantenere fresca l’esuberanza della perfor-mance, tale e quale ai concerti. L’anno succes-sivo Undead (davve-ro «dal vivo») e

di Guido Michelone

Elettricità a sette noteda Albert Leea Ryoji IkedaLe nuove edizionidi Veneto Jazz Winter e Nu Fest

VeneziaPalazzo Grassi

19 marzoRyoji Ikeda

ConeglianoTeatro Accademia

24 marzoAlbert Lee

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l’accoglienza a New York accanto a Hendrix e Jans Joplin ne fanno già una stella del nuovo rock; e sempre live, im-mortalato dai dischi e dal cinema è il memorabile happe-ning a Woodstock (agosto 1969) con gli oltre dieci minuti del brano «Going Home», un classico blues, stracarico di citazioni e reso velocissimo dal gioco delle dita sulle cor-de. È il sound appunto elettrico di una Gibson Es335 a trionfare: protagonista dell’album Sssssh (1969) tra le pie-tre miliari nella storia del rock, con brani quali «Bad Sce-ne» e «The Stomp», è quella stessa chitarra con l’adesivo «love and peace» che ancora usa: «È stato il primo amore, e non me ne sono mai separato. Negli anni è rimasta pra-ticamente intatta, oggi è un cimelio ma non potrei mai se-pararmene». Assieme al gruppo Hogan’s Heroes, a Cone-gliano Lee terrà sia un seminario sia un concerto, per ri-badire con la propria musica da un lato i collegamenti con

le radici delle sonorità afroamericane, dall’altro le meta-morfosi subite dalla black music con l’ingresso dei suoni amplificati, grazie in particolare ai timbri e ai ritmi chi-tarristici, non senza quegli assolo spesso improvvisati di cui Albert resta un autentico prodigio.

Tutt’altra elettricità invece con Ryoji Ikeda, il piatto for-te della quinta edizione di Nu Fest, rassegna internazio-nale di musica elettronica organizzata sempre da Veneto Jazz, tradizionalmente ospitata a Padova, ma ora espan-sa anche a Venezia con un evento multimediale davvero straordinario, che s’avvale della collaborazione e della lo-gistica di Palazzo Grassi (con la Fondazione François Pi-nault), dove tra video, arti figurative e suoni elettronici, il poliedrico giapponese presenterà Datamatics 2.0, inno-vativa performance di esplorazione sonora e visiva: mu-siche, gesti, colori, immagini prenderanno corpo in di-retta nell’atrio dello splendido edificio sul Canal Gran-de. Ryoji è tra le figure più interessanti di un’estetica post-moderna che adopera in parallelo la videoarte, gli audio-

visivi e la musica elettronica, prediligendo in Datamati-cs 2.0 le ultime tecnologie, come ad esempio la proiezio-ne dlp (Digital Light Processing), che è la stessa che vie-ne impiegata nel recente cinema digitale 3d (tridimen-sionale). L’autore esplora qui il potenziale di percezione della multi-essenza invisibile dei numeri aritmetici che permeano il mondo, usando semplici dati numerici qua-li fonti per i suoni e le immagini. E in tal modo Data-matics arriva a contenuti al contempo astratti e realisti-ci, unendo tempo e spazio in un’opera singolare dal for-te impatto comunicativo. Ikeda, come metodo, lavora partendo da esplorazioni sonore di frequenze quasi im-percettibili, al limite dell’udibile; attraverso queste for-me di ultrasuoni si concentra perciò a inventare inedite strutture audiovisuali, mostrando alla fine come si pos-sa partire da metodi matematici per giungere a svelare al-

la percezione dell’essere umano alcune proprietà fisiche di suoni e immagini, che l’esperienza artistica non aveva mai osservato né preso in considerazione. Nato a Gifu, in Giappone, quarantacinque anni fa, ma da tempo resi-dente a Parigi, Ryoji si fa conoscere attorno al 1995 gra-zie a concerti, installazioni e dischi che lo indicano tra i compositori più radicali, originali, suggestivi e innova-tivi. Dei dieci cd finora editi a suo nome, i sei più no-ti – +/- (Touch 1996), 0° C (Touch 1998), Matrix (Touch 2000), Op.(Touch, 2002), Dataplex (Raster-Noton, 2005), Test Pattern (Raster-Noton, 2008) – risultano ormai gran-di opere pioneristiche nell’esplorare sonorità minimali, dal rumore bianco alle onde sinusoidali, passando attra-verso una sintesi storica di quasi tutti i suoni elettronici. ◼

A fronte: Albert Lee.Sopra: Ryoji Ikeda, Datamatics 2.0.

l’altra musica — 33

difficilmEntE nEl tripudio di commemorazioni che ci attende ci si ricorderà del soldato anarchi-co Augusto Masetti, muratore di San Giovanni

in Persiceto. In occasione della guerra di Libia, il giovane viene richiamato per la seconda volta alle armi nell’otto-bre del 1911. Alle sei di mattina del 30 ottobre, nel corti-le della caserma Cialdini di Bologna, si stanno radunan-do le truppe in attesa del discorso di saluto del colonnel-lo: improvvisamente un colpo parte dal fucile di Maset-ti e ferisce ad una spalla il tenente colonnello Stroppa. L’autore del gesto grida: «Viva l’anarchia, abbasso l’eser-cito!»; mentre viene bloccato incita alla ribellione i came-rati. Durante gli interrogatori si dichiara anarchico rivo-

luzionario. Il reato è quello di «insubordinazione con vie di fatto verso superiore ufficiale», punibile con la fucila-zione alla schiena.

Lo slogan «viva Masetti, abbasso l’esercito» si diffonde per tutta l’Italia centrale e settentrionale, nascono nume-rosi comitati locali, ovunque si tengono manifestazioni e comizi costantemente osteggiati dalle forze dell’ordine.

Masetti viene dichiarato «soggetto degenerato» e rin-chiuso in manicomio criminale. Ci tornerà anche duran-te il fascismo in manicomio e tutta la sua vita, conclusa nel 1966, sarà legata al movimento anarchico.

Non si parlerà di lui, o meglio non ne parleranno le ma-nifestazioni più o meno ufficiali così come pochi ricor-deranno la vicenda di padre Ugo Bassi, frate garibaldino che, dopo una vita dedicata al Risorgimento della patria, a 48 anni fu fucilato dagli Austriaci a Bologna. Questa città gli ha dedicato una delle sue vie principali e Padova recentemente ha fatto altrettanto. Ma saranno capaci di ricordarlo con il calore, l’amore di una semplice canzone

cantata da un gruppo di contadine di Medicina nel 1966? «Italia mia regina/di me non ti scordare/possa l’esem-pio mio/il tuo destin cambiare» prega il frate in punto di morte. A dispetto di un’Italia che a fatica ricorda ogni cinquant’anni, la cultura popolare conserva i «suoi» eroi nella memoria e li tramanda nel tempo, oggi anche gra-zie alle moderne tecnologie che permettono la conserva-zione e la conoscenza critica di ciò che altrimenti sarebbe stato ingoiato dall’ignoranza globale.

Una duplice iniziativa editoriale ha consegnato in que-sti giorni i documenti della memoria all’attenzione di chi non si accontenta di lezioni ammaestrate o parziali. L’edi-trice discografica Ala Bianca di Modena e l’Istituto Erne-sto De Martino di Sesto Fiorentino hanno pubblicato un triplo cd dal titolo L’Italia nelle canzoni. 150 anni di storia at-traverso il canto sociale e popolare, nel quale trovano posto 86 canti della tradizione popolare o della nuova canzone so-ciale, riproposti attraverso le registrazioni originali o le esecuzioni che li hanno restituiti all’attenzione pubblica.

I materiali sono tratti dall’archivio dell’Istituto o dai

«Dischi del sole» e l’antologia è stata curata da Cesare Bermani, storico e studioso delle tradizioni popolari ita-liane che ha legato il suo nome all’attività dell’Istituto Er-nesto De Martino e alla storia delle edizioni del Gallo e del Nuovo Canzoniere Italiano. Contemporaneamente lo stesso Bermani ha curato per Rizzoli la pubblicazio-ne del libro Pane, rose e libertà. Le canzoni che hanno fatto l’Ita-lia che contiene, oltre ai 3 cd sopra illustrati, anche tutte le informazioni storiche che aiutano a comprendere i ma-teriali proposti.

Da questi lavori si dipana una storia fatta di storie, di vi-cende, di persone che talvolta l’unità d’Italia più che vo-luta, l’hanno subita, o meglio che hanno dovuto subire quell’«Unità», quella classe dirigente, quel ceto padronale.

Affiorano così eroi inattesi, drammatici, testimoni di innumerevoli sofferenze e sconfitte.

«S’odon voci dalle tombe/di Boyer, Chantel, Junod/e dan fiato a mille trombe/li due Bruti, Azari, Arò». Sono le voci dei giustiziati che avevano guidato anche in Pie-

Italia Unita:altri eroi

di Gualtiero Bertelli

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monte la speranza giacobina, le stesse voci che avevano esultato in piazza «Or che innalzato è l’albero…».

L’incredibile voce di Giovanna Daffini ci porta in una Venezia stremata. «Un bel giorno entrando in Venezia/Vedevo il sangue scorreva per terra/E i feriti sul cam-po di guerra/E tutto il popolo gridava pietà»: È il 1849; la Repubblica di Manin, ultimo baluardo delle rivolte del ‘48, sta capitolando, il canto, che si è mantenuto vi-vo nel repertorio delle mondariso, ci restituisce gli ulti-mi respiri.

Ci scopriamo a seguire una madre di Forlì che va a Ro-ma in cerca del figlio Achille, che l’ha abbandonata per seguire Garibaldi, e che del figlio trova solo la tomba.

Rinchiuso nel Maschio di Volterra, col marchio d’as-sassino troviamo Cesare Batacchi, anarchico fiorentino, condannato all’ergastolo perché accusato di aver lanciato una bomba in via Nazionale il 18 novembre 1877. Si pro-fesserà sempre innocente il Batacchi, ma la sua condan-na, graziata nel 1900, servì soprattutto a colpire la prima internazionale che aveva preso piede anche in Italia.

È proprio dopo il ’61 che lo scontro sociale diventa più duro.

In un’Italia in cui «S’affondano le mani nelle casse/Si trovano sacchetti pieni d’oro/e per governare come fa-re?/rubar, rubar, rubar, sempre rubare» e dove «Ogn’an-no siam gravati /d’imposte, e nuove spese, /crescon for-se i guadagni? /dove son le riprese?», come testimonia un foglio volante di fine Ottocento, le piazze del centro nord rimbombano delle proteste di operai e braccianti in sciopero.

«E per la strada gridavano i scioperanti/non più vo-gliam da voi restar sfruttati/ siam liberi, siam forti e sia-mo in tanti/ e vivere non vogliam da carcerati». La forza è quella delle nuove organizzazioni operai e contadine: le leghe, le società di mutuo soccorso, i sindacati.

D’altra parte la disperazione è tanta: «Alle grida stra-zianti e dolenti/di una folla che pan domandava/il fero-ce monarchico Bava/ gli affamati col piombo sfamò» e il governo risponde con il piombo. Il «re buono», Umber-

to I, premia con una decorazione il generale Bava Becca-ris che ha fatto tuonare il cannone contro i manifestan-ti nelle giornate dal 6 al 9 maggio del 1898. Sarà l’atto che decreterà la sua morte per mano di Gaetano Bresci. E non può stupire il senso di indifferenza che traspare dalla canzone «Alla stazion di Monza/arriva un tren che ronza/hanno ammazzato il re/con colpi tre», tutto qua?!

L’altra storia cantata si dipana fino ai giorni nostri e al canto popolare si affiancano quelle canzoni che popola-ri sono divenute dagli anni sessanta in poi, con l’entrata in scena del Nuovo Canzoniere Italiano, dei suoi ricerca-tori, dei suoi autori e interpreti. Se lo straordinario can-tastorie Piazza Marino racconta «L’Attentato a Togliat-ti» che nel 1948 vide mezza Italia in sollevazione, Fausto Amodei ci ricorda la vicenda dei «Morti di Reggio Emi-lia» caduti sotto il fuoco del governo «clerico-fascista» (si diceva così allora) del democristiano Tambroni nel lu-glio del 1960, Ivan Della Mea ci riporta agli scioperi del-la Fiat del 1965/66 con «Cara moglie» e Giovanna Mari-ni ci conduce a Reggio Calabria, dove il 22 ottobre 1972

i sindacati metalmeccanici decisero di organizzare una grande manifestazione di solidarietà al fianco dei lavo-ratori calabresi.

Un triplo cd e un libro straordinari, da consigliare spe-cialmente a scuole e biblioteche, al fine di contribuire a proporre una storia condivisa, a tutto tondo della vicen-da unitaria. ◼

l’altra musica — 35

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