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La trasformazione dell’economia italiana e il lavoro Leonello Tronti (Istat) Master DLPS – 30 gennaio 2016

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La trasformazione dell’economia italiana e il lavoro

Leonello Tronti (Istat) Master DLPS – 30 gennaio 2016

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Argomenti

• La «questione italiana»: prima crescita lenta poi decrescita. Ne stiamo uscendo?

• Cos’è la crescita economica?• Produttività, crescita, occupazione: i dati• Il problema macroeconomico italiano: prezzi e salari• Riforme strutturali asimmetriche e incomplete• Riequilibrare nelle imprese gli effetti negativi delle riforme dal

solo lato del lavoro• I postulati dell’economia della conoscenza• Stabilità occupazionale, partecipazione cognitiva e crescita• Quattro linee di riforma del diritto del lavoro

2Leonello G. Tronti20/01/2017

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La «questione italiana»:

prima crescita lenta poi decrescita,

Ne stiamo uscendo?

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Crisi finanziaria e crisi dell’economia reale

Ben prima dell’insorgere della crisi finanziaria internazionale (2008), l’economia reale del nostro Paese è entrata in un sentiero di declino relativo di lungo termine.

Nel periodo 1995-2007 (prima della crisi), la crescita media annua del Pil è stata:

dell’1,6% in Italia,

del 2,4% nella media dell’Eurozona.

In altri termini, già prima della crisi l’Italia ha perduto in media, nei confronti dell’insieme dell’Eurozona (di cui è la terza economia) 0,8 punti di Pil l’anno, per ben 13 anni di fila.

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Pil pro capite in rapporto alla media europea –Differenze tra il 2007 e il 1995 (pil pro capite in parità di

potere d’acquisto; differenze tra numeri indice in base media Ue15=100)

Fonte: EurostatLeonello G. Tronti20/01/2017

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Nel biennio 2008-2009 (crisi finanziaria) la caduta del pil è stata per l’Italia -3,3% l’anno, quella dell’Eurozona -2,0% (differenza = -1,3 p.p. l’anno);

Nel biennio 2010-2011 (lieve ripresa) la crescita italiana è stata dell’1,2%, quella dell’Eurozona dell’1,8% (-0,6 p.p. l’anno);

Nel 2012-2013 (nuova recessione) la caduta media italiana è stata -2,3%, quella dell’Eurozona -0,5% (-1,8 p.p. l’anno);

Nel 2014 (nuova ripresa europea) l’economia italiana è rimasta ferma 0,0%, mentre l’Eurozona cresceva dell’1,1% (-1,1 p.p.).

Negli anni della «doppia crisi» le cose sono ovviamente peggiorate…

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Dal declino relativo al declino assoluto.

Nel 2015 il declino torna relativo

In tutto, tra il 1995 e il 2014, l’Italia ha segnato un ritardo di 21,7 punti percentuali di Pil rispetto alla media dell’Eurozona:

l’Eurozona è cresciuta del 31,4%, l’Italia del 9,7% - meno di un terzo.

La crisi finanziaria ha fatto emergere in modo ancor più evidente il declino dell’economia italiana, tenuto per troppi anni sotto silenzio,

declino che tra il 2008 e il 2014 da relativo è diventato assoluto.

Nel biennio 2015-16 l’Italia è finalmente tornata a crescere (+0,8%); ma il dato dell’Eurozona è nuovamente più favorevole (+1,8%), con la conseguenza di un’ulteriore perdita relativa, di 1,0 punto percentuale l’anno.

Abbiamo dunque cumulato dal 1995 un ritardo complessivo di crescita rispetto all’Eurozona di quasi 24 punti percentuali.

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Pil reale (a prezzi costanti) (1995-2016)

Fonte: Eurostat 8Leonello G. Tronti20/01/2017

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Cos’è la crescita economica?

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La produttività è la grandezza economica che mette in rapporto:

i risultati del processo produttivo (output),

con gli input del processo produttivo, ovvero ciò che partecipa al processo.

Tutto ciò che entra nel processo produttivo è importante,

ma qualcosa è più importante del resto.

In particolare, è più importante ciò che permette di aggiungere valore alle materie prime, ai beni intermedi impiegati e ai servizi utilizzati nel processo produttivo, cioè: il lavoro, l’opera di chi partecipa direttamente al processo produttivo,

il capitale (non soltanto i soldi, ma gli uffici, i macchinari, i mezzi di trasporto, i servizi, le tecnologie, l’organizzazione ecc. utilizzati nel processo),

il «capitale umano» (ovvero le conoscenze, esperienze, abilità e capacità relazionali che i lavoratori utilizzano nel processo).

Non è inutile notare che di queste capacità relazionali fa parte anche la qualità delle relazioni industriali.

Partiamo dalla produttività

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La produttività esprime l’efficienza di un processo produttivo, di un’impresa, un settore o un’intera economia,

Nell’economia attuale, sempre più terziarizzata e legata alla produzione di beni immateriali (conoscenza, informazione, comunicazione, finanza, salute ecc.), anche la produttività si smaterializza, e va misurata come rapporto tra:

il valore che il processo produttivo aggiunge alle materie prime, ai beni intermedi e ai servizi esterni consumati nel processo produttivo (o valore aggiunto)

e la quantità di servizi di lavoro (offerti dai lavoratori), che nel complesso dell’attività dell’impresa utilizzano:

i servizi di capitale umano (offerti dagli stessi lavoratori e dal sindacato)

e i servizi di capitale (offerti dall’imprenditore).

Produttività ed efficienza

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La produttività è importante?

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La produttività è la variabile fondamentale del progresso economico:

Infatti è solo grazie all’aumento della produttività (attraverso l’istruzione e la formazione dei lavoratori, la divisione e specializzazione del lavoro, il miglioramento dell’organizzazione, il conseguimento di economie di scala, l’innovazione tecnologica ecc.) che è possibile contrastare i limiti allo sviluppo imposti dalla scarsità delle risorse.

Ed è solo grazie all’aumento della produttività che è possibile incrementare le risorse a disposizione dell’impresa per:

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Utilizzi degli aumenti di produttività

Ridurre i prezzi, a beneficio dei consumatori

Aumentare i salari o ridurre gli orari, a beneficio dei lavoratori

Aumentare i profitti, a beneficio degli imprenditori o degli azionisti

Una qualunque combinazione delle alternative precedenti

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Idee sbagliate

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Va poi sottolineato con forza, per combattere equivoci purtroppo molto diffusi, che l’indicatore statistico principale della produttività del lavoro – dato dal rapporto tra i risultati del processo produttivo (output) e l’input di lavoro umano necessario a produrlo:

non è in alcun modo un indicatore dell’impegno dei lavoratorinel processo produttivo (produttività dei lavoratori),

ma è invece un indicatore sintetico dell’efficienza dell’intero processo produttivo, come risultato di un’adeguata combinazione di input di lavoro, di capitale umano e di altri tipi di capitale (fisico, finanziario, organizzativo ecc.):

Difficilmente un basso livello di produttività del lavoro è dovuto ad un impegno limitato dei lavoratori;

Quasi sempre è dovuto alla mancanza di investimenti dell’impresa in capitale umano, fisico, organizzativo ecc.

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Una semplice rappresentazione formale della crescita (scomposizione)

ሶ𝑌 = ሶ𝐿 + ሶ𝜋 + ሶ𝐿 ሶ𝜋 NB: il puntino soprascritto indica tassi di variazione %.

La scomposizione, che altro non è che un’identità (e dunque non propone relazioni di comportamento tra le variabili), indica che la

crescita del prodotto ( ሶ𝑌) è pari alla somma: della crescita dell’input di lavoro ( ሶ𝐿)

e dell’aumento della produttività del lavoro ( ሶ𝜋)

(oltre a un termine di interazione tra i due, ሶ𝐿 ሶ𝜋, di entità trascurabile).

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Esiste un tradeoff «ricardiano» tra produttività e occupazione?

La scomposizione rende evidente che, perché cresca l’occupazione, è necessario che il prodotto cresca più della produttività del lavoro:

In formula, ሶ𝐿 > 0 ↔ ሶ𝑌 > ሶ𝜋, ovvero: la variazione dell’occupazione è maggiore di zero se e solo se la variazione del prodotto è maggiore della variazione della produttività.

E anche, ሶ𝐿 = ሶ𝑌 − ሶ𝜋, ovvero: la variazione dell’occupazione è pari alla differenza tra la variazione del prodotto e quella della produttività.

Da queste relazioni dobbiamo trarre la conclusione che la produttività è nemica dell’occupazione?

No, questo vincolo è presente all’impresa in ogni intervallo di tempo,

Ma è proprio la crescita della produttività che rende l’impresa competitiva e sostenibile, perché consente di contenere i prezzi e di aumentare i volumi di produzione e, con essi, l’occupazione.

L’aumento dell’occupazione dipende dall’aumento del prodotto, che a sua volta dipende da quanto cresce la produttività.

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La riprova. Produttività dell’impresa e probabilità di aumentare l’occupazione, per classi di addetti dell’impresa (terzo trimestre 2013-terzo trimestre 2015)

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27,5

35,2

42,5

49,1 50,1

56,4

60,658,2

51,9

21,0

25,2

32,1

38,640,9

43,545,8

43,9 43,4

6,510,0 10,4 10,5 9,1

12,914,8 14,3

8,5

0,0

10,0

20,0

30,0

40,0

50,0

60,0

70,0

0-2 3-4 5-9 10-14 15-19 20-49 50-149 150-249 250+

Micro Piccole Medie Grandi

Imprese nel quarto superiore della distribuzione della produttività Imprese nei tre quarti inferiori della distribuzione della produttività Differenza (punti percentuali)

Fonte: Istat, Rapporto competitività 2016.Produttività misurata come valore aggiunto per addetto; Quartili calcolati all’interno di ciascun settore. Livelli di probabilità espressi in termini percentuali

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Analoga evidenza vale anche tra i paesi. I paesi con la produttività più elevata (USA, Giappone, Nordeuropa) sono anche quelli con i tassi di occupazione più alti.

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Produttività, crescita e occupazione:

i dati

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Pil per ora lavorata (produttività oraria del lavoro) in rapporto alla media europea – Variazioni assolute tra 1995 e 2007 (variazioni dei numeri indice in base media Ue15=100)

Fonte: Eurostat

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Nell’insieme, tra il 1995 e il 2014 la produttività oraria(per ora lavorata):

è cresciuta del 27% in Germania,

del 24% nella media dell’Eurozona,

e soltanto del 5,5% in Italia, ovvero meno di un quarto di quanto accadeva nei paesi euro.

Ricordiamo che, nello stesso periodo, il Pil italiano è cresciuto del 9% in Italia e del 27% nell’Eurozona.

Come si lega la crescita della produttività a quella del prodotto?

In Italia la produttività ristagna dal 1995 ed è sostanziamente ferma dal 2000

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Produttività oraria in Italia, Germania ed Eurozona (1995-2014)

Leonello G. Tronti 20

Fonte: Eurostat

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Il contributo della produttività alla crescita

Poiché ሶ𝑌 = ሶ𝐿 + ሶ𝜋, possiamo facilmente calcolare i contributi percentuali che l’occupazione e la produttività offrono alla crescita del reddito:

𝑐𝐿% =ሶ𝐿

ሶ𝑌∙ 100 ,

𝑐𝜋% =ሶ𝜋

ሶ𝑌∙ 100.

NB: il puntino soprascritto indica tassi di variazione %.

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Crescita del prodotto lordo e contributi della produttività e dell’occupazione nei paesi europei. 1995-2008 (su ogni colonna il valore % del contributo della produttività alla crescita del pil)

0,0

1,0

2,0

3,0

4,0

5,0

6,0

7,0

ITA GER DK CH FRA POR BEL EU15 AUS UK NL SVE NOR SPA FIN GRE ISL IRL

Ta

ss

o d

i c

res

cit

a m

ed

io a

nn

uo

de

l p

il

Contributo occupazione

Contributo produttività

11,0

65,3

55,560,6

52,2 54,0 51,5 46,359,4

62,9 43,8 72,442,7

7,354,6

73,3

59,0

39,9

Fonte: Eurostat

Leonello G. Tronti20/01/2017

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Il problema macroeconomico italiano:

prezzi e salari

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Crescita del costo del lavoro per unità di lavoro

(equiv. a tempo pieno) (1990-2014; 1990=100)

Fonte: Eurostat 24Leonello G. Tronti20/01/2017

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Crescita dei prezzi al consumo

(1990-2015; 1990=100)

Fonte: Eurostat 25Leonello G. Tronti20/01/2017

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Crescita dei prezzi all’esportazione

(1990-2015; 1990=100)

Fonte: Eurostat 26Leonello G. Tronti20/01/2017

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Crescita dei prezzi all’esportazione

(1995-2015; 1995=100)

Fonte: Eurostat 27Leonello G. Tronti20/01/2017

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Crescita del costo del lavoro reale per unità di

lavoro (equiv. a tempo pieno) deflazionato con i

prezzi interni (1990-2014; 1990=100)

Fonte: Eurostat 28Leonello G. Tronti20/01/2017

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Crescita del costo del lavoro reale per unità di

lavoro (equiv. a tempo pieno) deflazionato con i

prezzi all’esportazione (1990-2014; 1990=100)

Fonte: Eurostat 29Leonello G. Tronti20/01/2017

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Quanto dipendono i prezzi dal costo del

lavoro e dalla produttività (Italia,

Eurozona, Germania; dati 1990-2014)

Elaborazione su dati Eurostat30Leonello G. Tronti20/01/2017

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Un sistema economico

poco efficiente In modo evidente, la crescita fuori linea dei prezzi italiani non è

giustificata dall’andamento del costo del lavoro.

In effetti, l’Italia è secolarmente caratterizzata da una dinamica dei prezzi più sostenuta degli altri paesi europei (Di Nardi, 1986),

che segnala la presenza di mercati poco concorrenziali o, comunque, di comportamenti degli agenti poco improntati al principio della libera concorrenza (Sraffa, 1926; Einaudi, 1955).

Analogamente, contrariamente a quanto comunemente ritiene l’opinione pubblica, l’Italia è un paese fondamentalmente caratterizzato da una notevole moderazione salariale (Chapperon, 2005).

Dunque il problema dello squilibrio italiano tra prezzi e salari è antico e difficile da risolvere…

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Cosa c’è tra costo del lavoro e prezzi?

Anatomia dello squilibrio strutturale

Lo squilibrio strutturale dell’economia italiana è in tutto ciò che aumenta o non diminuisce i prezzi a parità di spinta salariale: prezzi degli altri input oltre il lavoro, profitti, rendite, inefficienza:

Anzitutto poca concorrenza (oligopoli privati e settori protetti) e conseguenti sovraprofitti e rendite (energia, banca e finanza, trasporti, informazione, reti tv, professioni, immobili ecc.), che rendono troppo alti i prezzi degli input diversi dal lavoro,

Il vincolo esterno, la bolletta energetica e il grande fabbisogno di importazioni (come sopra) anche per le imprese esportatrici,

I bassi investimenti e la bassa produttività (poca concorrenza →cattiva organizzazione, nanismo delle imprese),

Altro: l’inefficienza della politica e della pubblica amministrazione, l’inefficienza della giustizia, la cattiva qualità dei servizi pubblici, il sommerso e l’evasione fiscale, la corruzione e la mafia, ecc.

32Leonello G. Tronti20/01/2017

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Le riforme strutturali asimmetriche

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Il funzionamento teorico delle «riforme strutturali»

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Basato su Blancharde Giavazzi, 2003

Liberalizzazione dei mercati

di prodotti e servizi

Flessibilizzazione del

mercato del lavoro

Innovazione

Incremento

produttivitàContenimento prezzi Moderazione salariale

Incremento competitivitàAumento del potere

d'acquisto

Mercato del prodotto Mercato del lavoro

Crescita

Aumento dei consumiAumento esportazioni

Leonello G. Tronti20/01/2017

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Riforme strutturali o variabili di

aggiustamento?

Dalla metà degli anni ’60 fino ai primi anni ‘90, per ristabilire la competitività di prezzo delle esportazioni l’Italia ha sistematicamente utilizzato come variabile macroeconomica di aggiustamento il valore esterno della moneta, regolato in modo ricorrente attraverso svalutazioni competitive del cambio.

Tuttavia, con l’adozione dell’euro questa variabile è divenuta indisponibile.

E così è stato per il debito pubblico, utilizzato anch’esso con funzione di variabile di “aggiustamento sociale” dagli anni ’80 fino al Trattato di Maastricht (1991).

Dopo il Trattato, il peso dell’aggiustamento strutturale è stato spostato sul Lavoro (salari e pensioni),

E, dal 2007 in poi, ancora sul Lavoro (pubblico impiego).

35Leonello G. Tronti20/01/2017

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Un “aggiustamento strutturale”

incompleto e asimmetrico

Per adeguarsi alle nuove condizioni esterne (moneta unica, stabilità finanziaria, nuove tecnologie, globalizzazione dei mercati), l’economia italiana era (ed è ancora) obbligata a realizzare un rilevante aggiustamento strutturale, tale da migliorare il rapporto tra costo del lavoro e prezzi.

Ma le riforme strutturali (per inerzia intellettuale e politica nell’individuare e attuare un modello di crescita più snello e competitivo) si sono realizzate in modo asimmetrico,

Principalmente, se non esclusivamente, in modo difensivo delle imprese così come sono, ovvero «sul Lavoro».

Ma, come predetto dal modello, i dati dimostrano che l’aggiustamento sul solo Lavoro non è soltanto inutile, ma anche dannoso.

36Leonello G. Tronti20/01/2017

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In sintesi: riforme strutturali incomplete

e asimmetriche: quali effetti?

Una crescita salariale reale di lungo termine assai moderata(la più debole in Europa ad eccezione della Spagna),

Combinata con una crescita dei prezzi interni e internazionali comunque superiore alla media,

segnala:

La presenza di crescenti rendite da mark-up (anche da parte di piccoli produttori) e la perdita di efficienza e di competitività dell’economia,

e, conseguentemente, una performance molto deludente di consumi, esportazioni, investimenti; ovvero della crescita.

I consumi interni sono frenati da stipendi e pensioni deboli,

le esportazioni sono frenate dai prezzi troppo alti,

le imprese non investono in un mercato stagnante, preferendo investire altrove.

37Leonello G. Tronti20/01/2017

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Contributo della moderazione salariale ai profitti lordi, a prezzi costanti 2005 (differenza tra il valore storico del monte profitti lordi e quello che sarebbe risultato dall’applicazione della quota del lavoro del 1992; valori annuali e valori cumulati)

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Fonte: Elaborazione su dati Istat, Conti nazionali

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Un contributo davvero ingente Il contributo offerto al capitale dalla moderazione

salariale è stato quindi davvero ingente:

a prezzi 2010, oltre 40 miliardi di euro già due anni dopo la sigla del protocollo,

fino a più di 115 miliardi l’anno nel triennio 2000-2002,

e attorno ai 100 miliardi l’anno tra il 2003 e il 2008.

Soltanto con la crisi (tra il 2009 e il 2012), in dipendenza dalla tenuta in termini reali dei salari contrattuali a fronte della caduta della produttività del lavoro, il contributo si riduce a valori più ‘modesti’, attorno ai 60 miliardi l’anno,

Per poi tornare a salire a 65 miliardi l’anno tra il 2013 e il 2015.

3920/01/2017 Leonello G. Tronti

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Il valore complessivo

Il valore cumulato di questi ‘trasferimenti impliciti’ operati automaticamente dal modello contrattuale «più che dimezzato» dal 1993 al 2015 ammonta a ben 1.838 miliardi di euro a prezzi costanti del 2010:

circa 80 miliardi di euro l’anno!

Ovvero circa 3.200 euro per occupato l’anno;

E circa 77 mila euro per occupato in termini cumulati nel periodo dal 1993 al 2015.

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Il «successo» delle riforme sbagliate

Le riforme strutturali italiane, per quanto «accanite sul lavoro» e dunque incomplete e asimmetriche, hanno però assicurato all’economia alcuni risultati importanti per il consenso politico e sociale:

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L’assorbimento senza shock inflazionistici, sino al changeover del 2001, dell’ultima,

grande svalutazione della lira (1992-93: -30% nei confronti del marco),

L’ingresso dell’Italia nel Club dell’euro fin dal suo inizio, e la conseguente riduzione

del costo del denaro e del debito, sia pubblico che privato,

Una crescita rilevante e di lungo termine dell’occupazione (soprattutto a basso costo e

flessibile), con un aumento del tasso di occupazione,

E soprattutto uno spostamento altrettanto significativo della distribuzione funzionale

del reddito dal lavoro al capitale, con una proliferazione e un alto tasso di

sopravvivenza di imprese marginali nell’industria e nei servizi (soprattutto servizi alle

imprese).

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Ma dietro al successo…

la costruzione di un fallimento

Questi successi politici, alla luce del declino, della recessione e poi della grave crisi dell’economia, hanno mostrato tutta la loro insostenibilità.

Ma i successi occupazionali e nei profitti hanno ostacolato e ritardato per molti anni il desiderio della popolazione, dei partner sociali e della stessa classe politica di porre mano al riequilibrio dell’economia e al completamento delle riforme strutturali con riforme altrettanto incisive dal lato del capitale, delle imprese e del mercato del prodotto.

Con la doppia crisi del 2008-09 e del 2012-13 i nodi sono giunti al pettine perché le ikprese italiane hanno mostrato tutta la loro debolezza.

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Riequilibrare nelle impresegli effetti negativi delle riforme

dal solo lato del Lavoro

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Nell’impresa

L’obiettivo è ammodernare e riorganizzare le imprese sopravvissute alla crisi (e anche le Amministrazioni pubbliche). (Già ne parlava la II parte del Protocollo del ’93, mai attuata).

Le imprese italiane sono infatti troppo piccole, inefficienti e antiquate, attardate dalle riforme dal lato del Lavoro e dalle loro implicazioni in termini di profitti facili e concorrenza bloccata.

L’ammodernamento/riorganizzazione richiede una profonda innovazione organizzativa:

ciò che, con un termine diffuso, viene chiamata reingegnerizzazione dei luoghi di lavoro (workplacereengineering).

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Reingegnerizzazione dei luoghi di lavoro ed Economia della conoscenza

Approfondiremo meglio in una prossima lezione alcuni dettagli ‘lavoristici’ di questa innovazione organizzativa,

per la quale, comunque, rimando anzitutto a Roberts (2004),

E, in Italia, ai numerosi contributi di Riccardo Leoni.

Per comprendere meglio ciò di cui parliamo, però, occorre partire da alcuni concetti basilari di Economia della conoscenza.

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Economia della conoscenza e capitale umano L’Economia della conoscenza è il nuovo paradigma di organizzazione e

sviluppo del lavoro, dell’organizzazione e delle economie avanzate nel loro insieme:

Si basa sulla centralità della persona, dell’apprendimento organizzativo e dell’applicazione dell’intelligenza al miglioramento continuo:

delle condizioni di lavoro e di vita;

di prodotti, servizi e processi produttivi;

della qualità dell’organizzazione.

Nei paesi avanzati la conoscenza e il capitale umano (come accumulazione di saperi, esperienze e competenze da parte di lavoratori e organizzazioni) sono ritenuti i fattori chiave:

dell’innovatività, solidità e sostenibilità delle imprese,

della qualità della pubblica amministrazione,

e, quindi, della sostenibilità degli stessi livelli di benessere e di protezione sociale.

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Teoria macroeconomica del capitale umano (Knight 1944, Abramovitz 1956): stato sociale.

Teoria microeconomica del capitale umano (Becker 1964, Mincer 1974): investimenti personali e familiari in istruzione.

La crescita endogena (Romer 1990, Lucas 1988): Investimenti in R&D e gestione della conoscenza nell’organizzazione.

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Sviluppo dell’Economia della conoscenza (Principali concettualizzazioni della teoria economica e dell’impresa)

Impresa evolutiva (Marshall 1890, Penrose 1973, Nelson e Winter 1982): benchmarking come strumento di apprendimento organizzativo.

Learning organization (Senge 1990): apprendere per realizzare il futuro che si desidera, dalle qualifiche alle competenze.

Learning economy (Lundvall 1992), Civicness (Putnam 1993), Beni relazionali (FGB 1997), Economia della conoscenza (Foray 2006, Rooney et al. 2005): apprendimento come fenomeno sociale e base di un nuovo modello di crescita.

Conoscenza come bene comune (Hess e Ostrom 2009): Crescita e comunità di conoscenza.

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Innovazione organizzativa e conoscenza

• C’è un aspetto fondamentale che accomuna i diversi filoni di letteratura che affrontano l’una o l’altra prospettiva della riorganizzazione. – Ad es. l’impresa evolutiva, Nelson e Winter, 1982; – la produzione snella, Womack, Jones e Roos, 1991; – le learning organisations, Senge 1990, Garratt, 1994; – il business process reengineering, Hammer e Champy, 1993; – Le organizzazioni ad alta performance, Leoni, 2008; ecc.

• Questo comune fondamento è: • il ruolo centrale attribuito alla conoscenza e, quindi, alla gestione

della stessa all’interno del processo produttivo.

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«Conoscere per deliberare» (Luigi Einaudi)

La piramide dati, informazione, conoscenza,

saggezza

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La Piramide DIKW(in italiano DICS; N. Henry, 1974)

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Dato e informazione

Il dato è l’unità di informazione elementare, un segnale, ad es. un numero, un accadimento, un’opinione, un’immagine, un suono; Siamo circondati da segnali, ma un segnale da solo significa poco,

quasi nulla.

Ad un grado di complessità maggiore si colloca l’informazione, costituita da uno o, più spesso, molti dati accompagnati da metadati, che aiutano a contestualizzare e interpretare i dati, e quindi ne qualificano il valore informativo. Nell’informazione il segnale (ad esempio, un numero) viene posto

in relazione (temporale, spaziale, metodologica) con altri segnali (altri numeri); e le relazioni tra i segnali che l’osservatore è in grado di stabilire gli consentono di coglierne meglio il significato e di disporre, così, di un’informazione.

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Conoscenza e saggezza

Più in alto ancora si colloca la conoscenza, che si può concepire come comprensione di più informazioni e coscienza che esse possono essere connesse tra loro in una teoria (ipotesi sul funzionamento della realtà). La teoria, se verificata, o meglio ‘non falsificata’ (secondo la

lezione di Popper) con gli opportuni strumenti statistici, ha un valore molto superiore alle singole informazioni, in quanto consente di intervenire sulla realtà per modificarla.

Al culmine della piramide si colloca la saggezza, o sapienza, ovvero la capacità di utilizzare e combinare le diverse conoscenze per favorire il progresso materiale e morale degli individui, dell’impresa e della società. Tocca alla saggezza indicare gli obiettivi che debbono essere

perseguiti attraverso l’uso e lo sviluppo della conoscenza.

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Saggezza, conoscenza ed entropia informativa

È la saggezza che, ad esempio, deve trovare il giusto equilibrio tra obiettivi di breve e di lungo periodo,

visione micro e macroeconomica del proprio ruolo,

gli interessi dei diversi stakeholder (lavoratori, management, azionisti, ecc.),

i diversi partner (fornitori, soci, clienti, centri di ricerca),

finanza ed economia reale, i diversi mercati ecc.

La difficile strada che porta alla saggezza è ostacolata da crescenti fenomeni di entropia informativa, causati dalla diffusione di una mole senza precedenti di informazione priva di strumenti di decodifica. Questa informazione non perviene al livello della conoscenza ma la

simula, portando l’impresa a valutare positivamente scelte dubbie o sbagliate.

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Il ruolo dell’apprendimento

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Due processi di apprendimento

L’apprendimento occupa due snodi cruciali:

anzitutto la trasformazione dell’informazione in conoscenza

e, quindi, l’ancor più fondamentale e difficile trasformazione della conoscenza in saggezza.

L’informazione assume valore soltanto in quanto l’apprendimento può trasformarla in conoscenza;

anche la conoscenza non ha valore in sé ma in quanto può fondare, attraverso l’apprendimento, la saggezza, che sola produce sulla realtà effetti desiderabili.

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I postulati dell’economia della conoscenza

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Postulati fondamentali dell’Economia della conoscenza - 1

• La conoscenza non è un bene come tutti gli altri. Ha molte caratteristiche del tutto particolari:

1. Anzitutto ha una natura duplice:• È un bene di consumo superiore (arte, cultura, intrattenimento,

ecc.),• Ed è un bene di investimento/fattore produttivo (capitale umano).

2. Poi è un bene solitamente caratterizzato da non-rivalità nel consumo e debole escludibilità:

• la cessione di conoscenza non priva il proprietario del bene ceduto (B. Franklin, 1743).

• Ma c’è spesso rivalità nel potere che la conoscenza consente di ottenere.

3. È un bene il cui valore è difficile da valutare ex ante: • «chi non sa cosa non sa non può apprezzarne il valore» (Arrow,

1971).

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Postulati fondamentali dell’Economia della conoscenza - 2

4. È un bene che produce esternalità in modo complesso:• la cessione di conoscenza spesso esercita effetti economici su

agenti terzi rispetto alla transazione con cui è stata trasmessa, anche a notevole distanza di tempo dallo scambio.

5. La sua diffusione genera entropia informativa:• il consumo di quantità crescenti di conoscenza richiede la

produzione di quantità crescenti di “metaconoscenza”.

6. In genere, per i motivi precedenti, ha costi di transazione elevati: • chi detiene la conoscenza è disposto a condividerla solo in

condizioni particolari, • e l’apprendimento non è una processo banale: richiede a chi

apprende un costo psichico non indifferente,• ma - come il linguaggio - la conoscenza è un bene immediatamente

sociale.

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Gestire la conoscenza non è cosa semplice

Le caratteristiche del tutto particolari della conoscenza sono causa di molti elementi di incertezza: dei risultati degli investimenti (esternalità rispetto alla transazione-apprendimento e

cumulatività) e conseguente difficoltà di valutazione ex-ante (Arrow),

dei diritti di proprietà (infinita divisibilità, non rivalità nel consumo e facile riproducibilità),

della qualità, per la continua produzione di entropia informativa,

(e altri ancora).

Per questi motivi, la trasmissione di conoscenza è tipicamente gravata da costi di transazione elevati, e per questo l’apprendimento ne risulta ostacolato.

La diffusione della conoscenza trova poi ostacoli anche nell’atteggiamento personale di chi è cosciente di questi costi: chi detiene la conoscenza può essere disposto a condividerla solo a condizioni

particolari, non sempre di carattere monetario (v., ad es., il Tao Te Ching: “coloro che sanno non parlano, coloro che parlano non sanno”),

e anche chi dovrebbe acquisirla può ritenere troppo alto il costo psichico dell’apprendimento.

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Conoscenza e partecipazione cognitiva

Il ruolo centrale della conoscenza nell’innovazione organizzativa comporta che i lavoratori assumano una nuova competenza cruciale,

la partecipazione cognitiva, che si può definire come:

«la volontà e la capacità di acquisire, condividere e utilizzare la conoscenza (propria e dell’organizzazione) per migliorare i prodotti e i processi produttivi e organizzativi» (Tronti, 2013).

L’incertezza connaturata con l’utilizzo della conoscenza a fini economici e gli alti costi di transazione evidenziano quanto la diffusione della partecipazione cognitiva possa risultare impegnativa.

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Conoscenza e comunità

Infatti, la creazione, acquisizione e condivisione, ma anche soltanto l’utilizzazione della conoscenza comportano frizioni e costi di transazione elevati,

a meno che la conoscenza non sia considerata e gestita come un bene comune (commons) (Hess e Ostrom, 2009);

Così che, per ridurre i costi della partecipazione cognitiva,

I lavoratori e il management debbono potersi identificare come appartenenti ad una comunità (più precisamente a una “knowledge community”),

Ovvero, in altri termini, poter riconoscere:

la conoscenza come un patrimonio comune, da accrescere e gestire assieme,

e l’innovazione come il frutto di quel patrimonio comune.

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Servono i rapporti di lavoro temporanei? Instabilità occupazionale e bassa crescita

Molti sono ormai gli studi econometrici che dimostrano l’esistenza di un legame forte e statisticamente robusto, a livello di impresa, tra lavoro flessibile e bassa produttività (Sciulli, 2006; Colombo, Delmastro e Rabbiosi, 2007; Lucidi e Kleinknecht, 2009; Damiani e Pompei, 2009; Ricci, 2011):

Le imprese che impiegano più lavoro flessibile della media sono anche imprese a bassa produttività e meno sostenibili.

Non si tratta solo di un effetto di selezione, per cui le imprese meno produttive hanno meno margini e possono attingere soltanto al serbatoio del lavoro flessibile:

Si tratta di una scelta strategica sbagliata, che punta più a comprimere i costi che a migliorare i risultati del lavoro,

e scambia un vantaggio di costo immediato contro un guadagno più elevato nel futuro e una maggiore solidità dell’impresa.

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Instabilità occupazionale e conoscenza insufficiente

Del resto, con riferimento all’economia della conoscenza, l’instabilità occupazionale:

non agevola la partecipazione cognitiva,

né la costruzione di comunità di conoscenza,

e tanto meno la possibilità di riconoscere la conoscenza come un patrimonio comune dei lavoratori e dell’impresa.

Proprio per questo, l’instabilità occupazionale frena l’innovazione organizzativa e la capacità di innovazione di processi e prodotti,

rendendo l’impresa più fragile e l’occupazione meno sostenibile.

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L’impresa moderna:innovativa, flessibile, sostenibile

Il modo più semplice e tradizionale di risolvere il problema della creazione di comunità di conoscenza sufficientemente ampie e avanzate è all’interno delle imprese di maggiori dimensioni e/o dei gruppi di imprese.

La competitività dell’impresa deriva infatti da una chiara identità dei suoi prodotti,

e questa, a sua volta, è il risultato di una comunità di conoscenza stabile e coesa, che consente:

un capitale umano più specifico all’impresa,

la diffusione della partecipazione cognitiva fondata su relazioni di lavoro stabili e di lungo periodo (gli “intangible assets” di Edith Penrose, 1959),

un’impresa più competitiva e, perciò stesso, più tutelata dalla concorrenza e con un’occupazione più sostenibile.

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Quattro linee di riforma del diritto del lavoro

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Per concludere: quattro linee di riforma del diritto del lavoro (1)

I problemi fondamentali che l’evoluzione dell’economia italiana pone al diritto del lavoro riguardano l’accompagnamento della trasformazione del lavoro dipendente:

da un insieme di compiti prevalentemente esecutivi

ad una prestazione più complessa e responsabile, nella quale ai compiti esecutivi si somma l’utilizzo autonomo dell’intelligenza e dell’apprendimento al fine del miglioramento di prodotti e processi, e della stessa qualità del lavoro (partecipazione cognitiva).

Si tratta indubbiamente di un’evoluzione non banale, che può essere notevolmente agevolata se il diritto del lavoro:

1. Assume l’obiettivo di tutelare in modo equo e trasparente i reciproci diritti del lavoratore e dell’impresa a godere dei frutti economici e di solidità occupazionale derivanti dall’applicazione della partecipazione cognitiva,

Approfondendo, in particolare, il tema giuridico delle forme e dei conseguenti diritti di partecipazione (gestionale, organizzativa, finanziaria).

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Riforma del diritto del lavoro (2)

• In particolare, il tema delle forme e dei diritti di partecipazione va sviluppato lungo linee di riforma che prevedono:2. L’abbandono del terreno perdente della politica del lavoro

comunque difensiva dell’impresa (lavoratori meri esecutori, bassi salari, instabilità e flessibilità dei rapporti di lavoro anziché dell’organizzazione interna, controlli ecc.).

3. L’apertura del terreno vincente di una politica del lavoro di rafforzamento della capacità cognitiva dell’impresa, accompagnando e favorendo la diffusione tra i lavoratori della partecipazione cognitiva e la trasformazione delle imprese in comunità di conoscenza.

4. La rimozione di tutti gli ostacoli e il sostegno all’adozione di tutte le misure (lavoro in team, rotazione delle mansioni, organizzazione per processi, suggerimenti dal basso ecc.) che facilitano la diffusione tra i dipendenti di un elevato livello di partecipazione cognitiva.

Leonello G. Tronti20/01/2017