Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO – BICOCCA
Facoltà di Sociologia
Corso di Laurea triennale in Sociologia – Lavoro e organizzazione
IL RECENTE DECLINO DELLA SINDACALIZZAZIONE
E IL CASO ITALIANO
Relatore: Chiar.mo Prof. Emilio REYNERI
Tesi di laurea di:
Niccolò CAVAGNOLA
Matr. N. 073506
Anno Accademico 2008-2009
INDICE
Premessa p. 004
I. IL SINDACATO
1.1. A che cosa serve il sindacato? 007
1.2. Chi e perchè si iscrive al sindacato? 012
1.2.1. Logica dell’azione collettiva 012
1.2.2. Logica dell’azione individuale 019
— L’Italia 024
II. IL DECLINO DELLA SINDACALIZZAZIONE
2.1. Il quadro generale 028
— Rappresentanza e rappresentatività 028
— La sindacalizzazione nel secondo dopoguerra 030
2.2. Perchè si riduce la sindacalizzazione netta? 042
2.2.1. Variabili cicliche 043
— Disoccupazione 043
— Inflazione 045
— Clima politico 047
— Sciopero 048
2.2.2. Variabili strutturali 050
— Nuova occupazione 052
— Impiego pubblico 054
— Globalizzazione 056
— Immigrazione 058
2.2.3. Variabili istituzionali 060
— Sistema Ghent 060
— Corporativismo, centralizzazione e copertura 062
— Rappresentanza sui luoghi di lavoro 064
2.3. Il caso italiano 067
— Le fasi della sindacalizzazione in Italia 067
— Il declino 070
— Un declino resistibile 075
— Il sindacalismo non confederale 078
— Le determinanti della sindacalizzazione 083
III. IL FUTURO DELLA PRESENZA DEL SINDACATO
3.1. L’attore sindacale 087
— Declino o ripiegamento? 087
— Reazioni adattive 090
3.2. Il futuro dei sistemi di relazioni industriali 097
— Convergenza o divergenza? 097
— Patti sociali 104
Riferimenti bibliografici 110
PREMESSA
Secondo Anthony Giddens [1994] la frattura fondamentale che ha avviato la modernità (intesa
come i modi di vita e organizzazione sociale sorti in Europa intorno al XVII secolo), distinguendola
qualitativamente dall’epoca precedente, è stata il progressivo “svuotamento dello spazio e del
tempo”. Il tempo si svuota perché si stacca dal contesto socio-spaziale in cui è vissuto, smette di
essere organizzato socialmente diventando uno standard a livello globale. Il “quando” non è più
necessariamente collegato a un “dove”, diventando una misura indipendente dal contesto. Lo spazio
si svuota a sua volta perché si separa dal “luogo”: diventano sempre più frequenti i contatti tra
persone “assenti”, lontane da qualunque tipo di interazione faccia a faccia localmente situata. Oggi,
come esito e continuazione di tale processo, ci troveremmo in un periodo che Giddens chiama di
“modernità radicalizzata”, in cui culmina la disaggregazione (disembedding) dei sistemi sociali,
cioè «l’enuclearsi dei rapporti sociali dai contesti locali di interazione e il loro ristrutturarsi
attraverso archi di spazio-tempo indefiniti» [Giddens 1994, 32]. In termini di relazioni industriali e
mercato del lavoro tale situazione trova il suo relativo nel processo di riorganizzazione del
capitalismo iniziato negli anni ’70 che, a un sistema di relazioni lavorative localmente e socialmente
embedded e workplace centered, ha sostituito un sistema sempre più flessibile e teso allo sviluppo
di forme di lavoro contingente, tale da portare a «schemi eterogenei di presenza e assenza dal posto
di lavoro e a una crescente non permanenza e transitorietà delle relazioni lavorative» [Haunschild
2004, 77]. Come rileva Federico Butera, «scompaiono chiarezza e stabilità di strutture entro cui
ricoprire mansioni e posizioni chiave e entro cui sviluppare una carriera prevedibile. Si appannano
le culture dell’appartenenza. Diventano instabili le relazioni industriali su base aziendale» [Butera
1990, 23]. Secondo Manuel Castells, col rapido sviluppo delle tecnologie informatiche e
dell’informazione, il sistema produttivo è riuscito a riorganizzarsi globalizzandosi e
delocalizzandosi, così che «lo spazio delle organizzazioni nell’economia dell’informazione è
sempre più uno spazio di flussi (space of flows). […] Le conseguenze di tale conclusione sono di
ampia portata, in quanto più le organizzazioni dipendono, in definitiva, dai flussi e dai network,
meno sono influenzate dal contesto sociale associato alla loro localizzazione» [Castells 1989, 169-
170]. E’ evidente come questo processo di trasformazione del sistema produttivo e delle relazioni di
lavoro abbia necessariamente delle conseguenze sul piano delle relazioni industriali, quindi dei
modelli di conflitto tra le imprese e i lavoratori. I correlati di classe diventano meno deterministici e
meno legati al posto di lavoro, in quanto, come sostiene Giuseppe Bonazzi, «in un regime
produttivo post-fordista il cleavage tra destra e sinistra si sposta sempre più dalla fabbrica alla
società esterna, dal momento della produzione a quello della distribuzione» [Bonazzi 2001, 143].
4
Ulrich Beck a sua volta afferma come la nuova dinamica del mercato del lavoro, unita alle garanzie
delle stato sociale, in un processo di crescente individualizzazione, abbiano dissolto le classi
internamente al capitalismo (pur senza risolvere i problemi di disuguaglianza), fino al punto in cui
«l’azienda e il posto di lavoro perdono importanza come luogo di formazione di conflitti e di
identità e si afferma un nuovo luogo di genesi di vincoli e conflitti sociali: la disposizione e
configurazione dei rapporti sociali privati e delle forme di vita e di lavoro» [Beck 2000, 146]. La
disgregazione in definitiva porta a «una crescita di importanza di identità caratterizzate sempre più
dalle differenze, dalle multiformità e dalla mutevolezza delle storie di vita personali, a fronte di una
progressiva perdita di significato di ideologie e quadri di riferimento collettivi legati al lavoro e alla
struttura di classe della società» [Bordogna 2007, 230].
Sempre secondo Giddens, però, ad un processo di disaggregazione sociale si accompagna
necessariamente uno speculare processo di riaggregazione (reembedding), offrendo nuove occasioni
per il reinserimento dei rapporti sociali enucleati dai loro specifici contesti spazio-temporali. Il
nostro è ancora un “mondo di persone” [Giddens 1994]. Sul piano delle relazioni industriali e del
mercato del lavoro, vista la loro connotazione inevitabilmente embedded nei sistemi di relazioni
sociali [Granovetter 1985; 1998], a fianco dello sviluppo di un paradigma di sviluppo più flessibile
e contingente, emergono nuove “invarianti” [Butera 1990], distribuite su tre livelli: individuale,
d’impresa e istituzionale (o nazionale).
A livello locale, o d’azienda, nonostante la forte e generalizzata diminuzione della densità sindacale
nei paesi europei a partire degli anni ’80 [Visser 1996], proprio in questo periodo si sono sviluppati
modelli di relazioni industriali a livello d’impresa connotate in senso collaborativo o addirittura
partecipativo [Cella e Treu 1998b]. La motivazione risiede paradossalmente nella stessa logica del
nuovo modello di sviluppo: le nuove incertezze con cui si confrontano le imprese richiedono sì
maggiore flessibilità, ma allo stesso tempo maggiore fiducia nella forza lavoro e commitment della
stessa nei confronti dell’azienda, obiettivi difficilmente ottenibili tramite la repressione del lavoro
organizzato e un tasso di turnover incontrollato. La logica stessa delle nuove forme di lean
production, fondate sui principi del just in time (JIT) e del total quality management (TQM)
richiedono una manodopera poco propensa a interrompere il “flusso teso” della produzione tramite
il ricorso allo sciopero e personalmente coinvolta nel miglioramento continuo (kaizen) del prodotto,
condividendo con l’azienda astuzie e conoscenze tacite. Nel conseguire tale obiettivo risulterà
economicamente più razionale per il management coinvolgere le forme di rappresentanza
tradizionali, piuttosto che tentare di spiazzarle con un più smaliziato (e costoso) ricorso a tecniche
unilaterali di human resource management [Streeck 1987; Regini 2003]. Gli esempi in questa
direzione, a partire dagli anni ’80, non mancano, come i noti accordi General Motors-Saturn a
5
Spring Hill (USA) nel 1985 e della Nissan a Sunderland (UK) nel 1986 [Ichino 2006]. Per l’Italia,
invece, il protocollo IRI del dicembre 1984 [Negrelli 2001], l’accordo alla FIAT-SATA di Melfi del
giugno 1993 [Fortunato 2000], la formalizzazione del sistema di relazioni industriali partecipative
alla Electrolux-Zanussi col Testo Unico del 1995 [Perulli 1999] e la gestione partecipata dei
processi di outsourcing alla FIAT di Mirafiori e Rivalta sul finire degli anni ’90 [Pulignano 2003].
A livello individuale, un mercato del lavoro meno connotato in termini di classe e più
individualizzato permette alla parte della forza lavoro più forte sul mercato (i resource-rich
employees) una forma di economic reembedding [Haunschild 2004], cioè un’attivazione individuale
in senso quasi-professionale [Butera 1990] capace di ammortizzare gli svantaggi derivanti dalle
forme di lavoro contingente.
Infine, a livello istituzionale e nazionale, la riaggregazione del lavoro e delle relazioni industriali,
almeno nei paesi europei, sono avvenuti con lo sviluppo negli anni ’90 della prassi dei “patti
sociali”, fornendo la possibilità agli attori collettivi indeboliti dalla crisi del fordismo di collaborare
al rilancio economico del paese [Regini 2003].
Il cambiamento della struttura produttiva e la conseguente trasformazione del mercato del lavoro, i
cambiamenti istituzionali e le variazioni cicliche dell’economia risultano perciò gruppi di variabili
particolarmente utili nello studiare il cambiamento del comportamento dell’attore sindacale. In
particolare, cambiamenti come la globalizzazione della produzione, lo sviluppo delle tecnologie
dell’informazione, la ristrutturazione industriale verso sistemi di specializzazione flessibile, la
destabilizzazione dei mercati del lavoro e la disoccupazione di massa, il cambiamento delle strutture
e dei correlati di classe, la pluralizzazione degli interessi, il crescere di politiche neo-liberiste con
atteggiamenti anti-labour in molti paesi a partire dagli anni ’80 [Visser 1996], il sempre più
pressante trade-off tra uguaglianza e livelli di occupazione nelle società dei servizi [Esping-
Andersen 2000], portano una sfida sempre più dura nei confronti del lavoro organizzato, in primis
colpendo la sua consistenza numerica, ponendo sempre più in dubbio la sua rappresentatività,
incisività ed efficacia. Il recente declino della densità sindacale però, per quanto consistente, non
risulta necessariamente in relazione causale univoca col declino di influenza del sindacato come
attore collettivo presente sulla scena pubblica [Calmfors et al. 2002]: il tasso di sindacalizzazione
non costituisce un dato decisivo quando il sindacato tenta di rappresentare il lavoro nel suo
complesso o rappresenta effettivamente l’insieme dei lavoratori, o li rappresenta al di fuori delle
relazioni industriali. Considerando però le recenti difficoltà proprio in quest’ultimo settore, ove
effettivamente risulta decisiva la rappresentanza in termini di iscritti, è opportuno parlare di un
ripiegamento dell’attore sindacale, e non di un declino vero e proprio, non ricorrendo le condizioni
per un eclissi delle funzioni naturali e dei significati dell’esperienza sindacale [Baglioni 2008].
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I.
IL SINDACATO
1.1 A che cosa serve il sindacato?
Il mercato del lavoro è un “mercato” del tutto particolare, in quanto la “merce” lavoro è «un bene
sufficientemente differente dai carciofi e dagli appartamenti da affittare, tale da richiedere un
differente metodo di analisi» [Solow 1994, 23]. Le relazioni di scambio tra imprese e lavoratori
risultano infatti viziate da un rapporto di forza strutturalmente asimmetrico, dovuto principalmente
al fatto che da parte del lavoro vi è una necessità (di sopravvivenza) di offerta continua di
manodopera, mentre da parte dell’impresa la domanda può variare con ampi margini di discrezione
(per maggiore riserva di capitale, disponibilità di tecnologie labour-saving, e capacità di definire e
rilocalizzare la domanda con più facilità) [Reyneri 2005a]. Il sindacato nasce perciò con l’obiettivo
di rovesciare tale asimmetria, in modo da «porre l’andamento dei salari e delle condizioni di
erogazione del lavoro al riparo dalla concorrenza, in primo luogo quella fra i lavoratori, ma anche
quella fra i datori di lavoro» [Cella 2004, 7]. Si tratta perciò di un istituzione di protezione e
conservazione tale da sottrarre il lavoro dal libero e incondizionato funzionamento del mercato,
riportando le relazioni sociali a una dimensione collettiva in contrasto con «le concezioni
individualiste che hanno permeato la società borghese a partire dalle rivoluzioni inglesi e francesi
del XVII e del XVIII secolo, quella che fonda e sviluppa il mercato, e quella che struttura il sistema
politico e istituzionale» [Cella 2004, 4].
Secondo Robert Solow [1994] il mercato del lavoro è un’istituzione sociale, regolata non dal
semplice livello dei prezzi, ma in misura notevole anche da norme sociali. In questo caso la norma
fondamentale sarebbe quella che sconsiglierebbe ai lavoratori di entrare in competizione per i posti
disponibili, abbassando i salari di mercato. Nonostante le norme siano interiorizzate
indipendentemente dalla loro razionalità, Solow dimostra, tramite il dilemma del prigioniero, come
su un numero infinito di partite la cooperazione (il non vendere forza lavoro al di sotto del salario di
mercato) risulti più remunerativa della defezione (che però comporterebbe un immediato
vantaggio), in quanto se tutti i lavoratori defezionassero si cadrebbe in una situazione di
“concorrenza hobbesiana” che presto porterebbe i salari di mercato a livello di quello di riserva. Si
darebbe così una spiegazione razionale alla norma tale per cui i lavoratori preferirebbero sopportare
un periodo di disoccupazione prolungato con la certezza che il prossimo lavoro avrà un salario più
elevato grazie alla cooperazione degli altri (in caso contrario il vantaggio iniziale presto diverrebbe
nullo, in quanto la defezione collettiva abbasserebbe i livelli retributivi). Non è difficile immaginare
7
il ruolo dei sindacati nel custodire e diffondere tale norma tra i lavoratori e nella società [Reyneri
2005a].
Lo strumento principale tramite cui il sindacato è in grado, a partire da certe condizioni di forza
numerica in termini di iscritti, di raggiungere gli obiettivi sopra illustrati, è la contrattazione
collettiva, cioè quel «processo di co-decisione basato su cooperazione conflittuale» [Visser 1996,
14] che la tradizione pluralista della scuola di Oxford definisce di “legislazione privata” condivisa
da imprenditori e sindacati, non ridotta alla semplice contrattazione economica, ma estesa
all’applicazione e gestione degli istituti salariali e normativi [Cella 2004]. Tramite la contrattazione
collettiva i sindacati perseguono obiettivi di equità distributiva, tendendo, nel livello a cui si esercita
la contrattazione, a «favorire una remunerazione unica e uguale per tutti piuttosto che un modello di
retribuzione individualizzata, una retribuzione legata alla specifica mansione piuttosto che alla
persona» [Calmfors et al. 2002, 86]. Laddove la contrattazione ha un’elevata estensione e
un’elevata centralizzazione la struttura salariale tenderà quindi ad essere più compressa, e le
disuguaglianze meno accentuate [Calmfors et al. 2002]. Colin Crouch [1982] afferma che
all’interno delle organizzazioni sindacali, nello svolgersi della loro ordinaria attività contrattuale, vi
è un pressante trade-off nella scelta tra obbiettivi “sostanziali” e “procedurali”, intendendo con i
primi la normale attività acquisitiva collegata agli incrementi salariali e alle condizioni di lavoro,
mentre coi secondi «il fine estrinseco di controllare i mezzi con cui assicurare i loro obbiettivi
intrinseci. In altre parole, parallelamente ai loro obbiettivi sostanziali potrebbero perseguirne uno
procedurale: il diritto di controllare, di co-determinare, o di contrattare ogni dettaglio di una
relazione di lavoro» [Crouch 1982, 149]. Non essendo possibile assicurare contemporaneamente
elevati risultati su entrambi gli obbiettivi, paradossalmente può risultare più conveniente sul medio-
lungo periodo puntare sugli obbiettivi procedurali a scapito di quelli sostanziali, in quanto un
maggiore controllo delle relazioni lavorative risulta necessario per continuare a garantire e
incrementare nel futuro le condizioni materiali del lavoro.
Il sindacato, come accennato sopra, non ha però esclusivamente la funzione di monopolio
sull’offerta di lavoro atta ad appropriarsi di rendite disponibili a livello d’impresa, ma rappresenta
anche il tramite dell’espressione collettiva di desideri e preoccupazioni tra lavoratori e impresa
[Calmfors et al. 2002]. Secondo Albert Hirschman [1970] gli individui partecipanti a un
organizzazione (un sindacato, un’impresa, un partito politico, ...) o a un mercato dei prodotti,
possono influire sul loro funzionamento tramite due vie: la defezione (exit), cioè abbandonare
l’organizzazione di cui si è membri (o smettere di acquistare un prodotto di cui non si è più
soddisfatti) e la protesta (voice), esercitata in maniera individuale o collettiva nei confronti
dell’organizzazione o dell’impresa le cui performance risultano in declino. All’interno di
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un’azienda ove le condizioni di lavoro si trovino a declinare, la costituzione, l’adesione o la
partecipazione a un sindacato possono costituire un opzione di voice esercitata collettivamente. E,
visti i costi sia del cercare un nuovo lavoro (exit) ove esso sia un bene scarso, o i rischi connessi a
un’azione individuale, la contrattazione collettiva del sindacato in azienda risulterà l’opzione più
praticabile per migliorare le proprie condizioni lavorative [Calmfors et al. 2002]. O, per dirla nei
termini più generali di Hirschman, «questo è uno dei motivi per cui il meccanismo di voice gioca un
ruolo più importante nei confronti delle organizzazioni di cui un individuo è membro, rispetto alle
imprese di cui acquista i prodotti: le prime sono decisamente meno numerose rispetto alle seconde»
[Hirschman 1970, 40]. Il fight from within, rispetto alla più rapida e certa opzione di exit, dipenderà
quindi da: la dimensione in cui i membri siano disponibili a scambiare le certezze dell’exit con le
incertezze della voice; la previsione che i membri hanno della loro capacità di influenzare
l’organizzazione; il grado di istituzionalizzazione dei meccanismi di voice, per esempio incentivati
tramite una legislazione promozionale alla presenza sindacale sui luoghi di lavoro. Non è un caso
quindi che nei contesti ad alta mobilità job-to-job, come nei sistemi di piccola impresa o a economia
diffusa, il ricorso a meccanismi di voice, identificabili con una forte presenza sindacale a livello di
impresa, sia meno frequente. In Italia ad esempio (contrariamente alla maggior parte dei paesi
OCSE [Lee 2005]) la percentuale di lavoratori occupati nell’industria, a parità di altri fattori, risulta
associata negativamente al tasso di sindacalizzazione, vista la prevalenza delle piccole unità
produttive nel settore manifatturiero [Ballarino 2005b].
Il sindacato può inoltre contribuire a una serie di iniziative volte a facilitare il funzionamento
dell’impresa e incrementarne la performance economica. Contrariamente alla teoria economica
prevalente, che vede per lo più il sindacato come fonte di inefficienza allocativa, si può dimostrare
che in realtà esso possa contribuire ad aumentare l’efficienza delle imprese e dei mercati. Ad
esempio limitando le rendite da monopsonio in mercati con pochi datori di lavoro, evitando
un’aspra concorrenza tra imprese sui costi del lavoro, aumentando impegno e produttività dei
lavoratori fornendo sicurezza e protezione, incentivando le imprese a investire in capitale umano
abbassando il turn-over, diminuendo i costi di transazione per le imprese facenti parte di industrie in
corso di ristrutturazione fornendo un pratico ed efficiente canale per raggiungere e coinvolgere la
forza lavoro interessata [Calmfors et al. 2002].
Più recentemente, anche in reazione a una situazione di calo delle iscrizioni e conseguente perdita di
risorse finanziarie derivanti dalle minori quote associative raccolte, si è sviluppata una fiorente
economia dei servizi offerti direttamente dai sindacati [Calmfors et al. 2002], tracciando una nuova
possibile linea di tendenza per la loro evoluzione futura come “aziende di servizi” [Feltrin 2007]. La
prima tipologia di servizi offerti, ricalcante quelli storici, mette al centro la tutela dei diritti e
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costituisce «lo strumento per rendere agibili i diritti individuali e, in senso lato, per rispondere ai
bisogni dei lavoratori e dei pensionati. In quest’ottica i servizi sono la traduzione sul piano
individuale delle conquiste della contrattazione collettiva. […] Secondo questa visione, i servizi di
tutela devono essere tendenzialmente universali e gratuiti» [Salvato 2001, 137]. Rientrano in questa
categoria i servizi di assistenza e tutela previdenziale e infortunistica, spesso svolta in regime di
sub-fornitura di servizi pubblici, la tutela sindacale nelle vertenze del lavoro [Salvato 2001] e
l’offerta di formazione e aggiornamento [Calmfors et al. 2002]. Una seconda e differente tipologia
di servizi, venuta a galla più di recente, riguarda invece quelli diretti specificamente all’associato,
offerti a condizioni particolarmente vantaggiose e utilizzati come incentivi selettivi atti a rendere
più appetibile l’iscrizione [Salvato 2001]. Secondo Gian Primo Cella «per alcuni aspetti tali
iniziative sembrano rispondere alle caratteristiche della nuova “individualizzazione” della forza
lavoro, e, in effetti, possono contrastare le tendenze alla uscita dall’associazione sindacale» [Cella
2004, 126]. I più noti ed estesi sono i servizi di assistenza fiscale, ma possono essere dei più diversi,
dalle convenzioni a prezzi agevolati con banche e compagnie assicurative o con agenzie di viaggio,
ai servizi finanziari, all’assistenza agli anziani e alle famiglie, etc…
E’ il caso solo di accennare (vista l’ampiezza dell’argomento) al ruolo del sindacato sull’arena
politica. I sindacati, al momento del loro emergere, hanno sempre ricercato rapporti con partiti
politici affini, in modo da assicurarsi una rappresentanza esplicitamente pro-labour nell’arena
politica (utile a svolgere un ruolo di sostegno promozionale alla presenza sindacale e ad assicurare
un livello di base di diritti sociali), seppur con fini e metodi diversi (andando dai rapporti di
dipendenza pura, all’interdipendenza paritaria, all’assenza di rapporti stabili) [Cella 2004]. Secondo
Colin Crouch [1982] esisterebbe una “inevitability of politics” delle organizzazioni sindacali
centralizzate, atta a contrattare coi governi nazionali una serie di provvidenze atte a proteggere i
lavoratori dalle fluttuazioni economiche e dal mercato, offrendo in cambio moderazione salariale (e
quindi complessivamente maggiore occupazione), tentando di contenere le rivendicazioni delle
rappresentanze di base, più particolaristiche e meno attente ai livelli occupazionali complessivi.
Questo avverrebbe, secondo Alessandro Pizzorno [1977], in una logica di “scambio politico”, nel
caso che il soggetto delle rivendicazioni sia abbastanza grande e rappresentativo e capace di
coordinare le rivendicazioni di un insieme di portatori di interessi potenzialmente contrastanti.
Tramite una «sottoutilizzazione del potere di mercato di breve periodo» [Pizzorno 1977, 414] può
instaurarsi un rapporto Stato-sindacato basato su obiettivi di lungo periodo, fondato sulla
cooperazione a mantenere il più ampio consenso sociale possibile. Questo rapporto può assumere
carattere continuativo e duraturo e riguardare un ampio spettro di questioni (come nei sistemi neo-
corporativi), oppure saltuario e limitato, teso più o meno esclusivamente ad assicurare le condizioni
10
per l’attività sindacale, rimandando la regolazione della maggior parte delle questioni economiche e
normative alla contrattazione collettiva, secondo un principio di maggior volontarismo (tipico delle
economie anglosassoni).
In definitiva si può concludere con Anna Grandori che «il sindacato è dunque un’organizzazione
“intermediaria”, per sua natura in “tensione di ruolo”: pur agendo come rappresentante di una parte,
la sua azione è efficace se si rende accountable anche verso altri stakeholders e su altri parametri»
[Grandori 2001b, 17]. Il problema dell’accountability, cioè della responsabilità verso i propri
referenti, è di centrale importanza per tutte le organizzazioni di grandi dimensioni, in quanto in esse
si presenta con più forza la tendenza alla “legge ferrea dell’oligarchia” di Roberto Michels, cioè, nel
caso del sindacato, il difficile dilemma del “rispecchiare o interpretare” i desideri della base [Cella
2003]. In effetti un’evoluzione gerarchica, con passaggio ai vertici dei poteri decisori a prescindere
dell’opinione della base, sembrerebbe occorrere nei sindacati con maggiore forza mentre si passa
dai livelli di contrattazione inferiori a quelli superiori: in particolare la responsabilità nei confronti
della base risulterebbe essere più forte e continuativa per le scelte compiute a livello di azienda
piuttosto che per quelle prese dalle segreterie confederali nazionali [Grandori 2001b]. In questo
risiede la “tensione di ruolo” con cui deve convivere l’attore sindacale, in quanto, per legittimare la
sua azione, deve risultare accountable principalmente sotto quattro diverse dimensioni: nei
confronti del gruppo di riferimento (gli associati o la generalità del lavoro, a seconda che si tratti di
un sindacato “associativo” o “di classe” [Della Rocca 1998]); nei confronti di terzi verso cui ha una
“responsabilità sociale” (ad esempio in relazione al frequente utilizzo dello sciopero nei servizi
pubblici); nei confronti delle controparti contrattuali (imprese, associazioni, Stato); nella fornitura
di servizi pubblici in caso gli vengano delegati dallo Stato (ad esempio i servizi di patronato o la
gestione dei sussidi di disoccupazione nei sistemi Ghent) [Grandori 2001b]. E’ evidente come
un’accountability continua nei confronti della base da parte delle centrali confederali risulterebbe
difficilmente compatibile con una responsabilità parimenti robusta sulle altre dimensioni (e
viceversa), ed è proprio nell’equilibrio tra queste che si giocano i dilemmi organizzativi che
determinano la struttura interna di un sindacato. In caso il divario interpretativo sugli obiettivi da
perseguire dei diversi stakeholders diventi troppo ampio, si crea una frattura tra rappresentanti,
rappresentati e detentori di interessi, portando al limite la tensione e dando spazio a nuove forme di
identità collettiva e a una ristrutturazione dei rapporti tra gli attori in gioco [Pizzorno 1977].
11
1.2 Chi e perché si iscrive al sindacato?
Prima di arrivare ad analizzare quali sono le variabili che influiscono sulle dimensioni del fenomeno
sindacale, è importante fornire un quadro teorico dell’azione collettiva, tale da spiegare i motivi per
cui gli attori corporati si formino e agiscano. E’ altresì importante analizzare le motivazioni che
spingono gli attori individuali ad agire in senso collettivo, cioè nel caso specifico ad iscriversi e/o a
partecipare a un sindacato. Nel primo dei seguenti paragrafi l’attenzione sarà sulle teorie dell’azione
collettiva, con particolare riferimento all’azione sindacale. Nel secondo verranno indagate a livello
empirico le caratteristiche e le motivazioni individuali che spingono i singoli attori a cercare
l’adesione agli organismi di rappresentanza dei lavoratori.
1.2.1 Logica dell’azione collettiva
Dal 1965, anno di uscita di The logic of collective action di Mancur Olson, ogni discorso sull’azione
collettiva si apre confrontandosi con un paradosso, il paradosso del free-rider (o dell’opportunista).
Tale paradosso si applica a quelle situazioni in cui un attore collettivo di grandi dimensioni (ad
esempio un sindacato) si muove per promuovere un bene pubblico, cioè un tipo di bene che è
consumabile liberamente da tutti gli appartenenti a un dato gruppo (ad esempio la totalità dei
lavoratori coperti da un contratto collettivo nazionale), che contribuiscano alla sua fornitura (in
termini monetari o di partecipazione) o meno. Secondo Olson un attore individuale che si muova
razionalmente non avrebbe alcun interesse a partecipare (in questo caso pagando la quota
associativa sindacale o partecipando a uno sciopero) all’azione collettiva orientata all’ottenimento
di un bene pubblico, in quanto «sebbene tutti i membri del gruppo abbiano un comune interesse
nell’ottenere tale beneficio collettivo, non hanno alcun interesse comune nel pagarne il costo.
Ognuno preferirebbe che gli altri pagassero l’intero costo, e solitamente riceverebbero qualsiasi
beneficio ottenuto, che si siano caricati parte del costo o no» [Olson 1971, 21]. Oltretutto il
contributo marginale di ogni individuo all’azione di gruppo risulterebbe sostanzialmente
insignificante, mentre comporterebbe un forte dispendio di tempo e risorse da parte del singolo che,
in caso di successo, otterrebbe una piccola parte del bene acquisito, parte che avrebbe ottenuto
anche se non si fosse sobbarcato i rischi e i costi del partecipare all’azione collettiva. Infine i costi
per organizzare grossi gruppi di interessi sono solitamente molto elevati, includendo anche la
difficoltà del portare a sintesi una serie di interessi eterogenei e in potenziale conflitto tra loro,
particolarmente difficili da coordinare [Olson 1982]. Olson definisce i grandi gruppi eterogenei
latent groups, per rimarcarne la dispersione ed eterogeneità e il conseguente minore controllo
12
sociale esercitato tra i membri. I piccoli gruppi (privileged groups), invece, non andrebbero incontro
allo stesso genere di paradosso (perlomeno non nella stessa dimensione), grazie alla loro minore
eterogeneità e dispersione (a cui conseguirebbe una maggiore pressione sociale e maggior controllo
tra i membri), i minori costi di organizzazione, ma soprattutto grazie al fatto che, dal momento in
cui il bene pubblico verrebbe spartito tra un ristretto numero di membri, il beneficio individuale
sarebbe di molto maggiore, rendendo razionale il fornire il bene pubblico in ogni caso, anche se
l’intero costo dovesse gravare su un singolo soggetto. In particolare i sindacati espressione di
piccoli gruppi di lavoratori (come i vecchi sindacati di mestiere o, oggi, quelli occupazionali e
particolaristici, fino ad arrivare ai sindacati “di qualifica”) avrebbero meno difficoltà
nell’organizzarsi e scoraggiare comportamenti opportunistici.
Olson quindi risolve il paradosso del free-rider in un’ottica utilitarista, affermando che i grandi
gruppi di interessi saranno in grado di portare avanti un’azione collettiva solo in presenza di
qualche forma di coercizione, o, in alternativa, fornendo dei benefici selettivi ai membri che
decidano di partecipare a tale azione. Con riferimento alla partecipazione al movimento sindacale
strumenti di coercizione possono essere considerate le clausole contrattuali di closed-shop o di
union-shop (tipiche dei sistemi di relazioni industriali anglosassoni); i benefici selettivi invece
riguardano qualsiasi tipo di servizio o beneficio la cui erogazione dipende in ultima analisi
dall’appartenenza al sindacato (in particolare l’assistenza legale gratuita nelle dispute di lavoro, i
sussidi di sciopero, i servizi forniti a condizioni agevolate, etc…) [Olson 1971].
L’argomentazione di Olson è indubbiamente di grande efficacia, e mette in luce alcuni dei dilemmi
fondamentali alla base delle organizzazioni costituite in funzione dell’ottenimento di beni pubblici,
come i sindacati. In particolare la spiegazione dell’adesione in termini di benefici selettivi trova
preciso riscontro empirico, qualora con ciò si intenda una protezione selettiva e preferenziale da
parte del sindacato nei confronti dei propri membri sulle dispute di lavoro: «mentre i sindacati
potrebbero trattare le rimostranze anche dei non membri, in parte per convincerli dell’utilità del
sindacato, il non membro sarebbe senza dubbio consapevole del fatto che la sua rimostranza contro
il management potrebbe prima o poi essere l’ultima ad avere un seguito se persistesse
indefinitamente a rimanere fuori dal sindacato» [Olson 1971, 73]. Diverse survey stimano infatti
come elemento decisivo per l’adesione al sindacato la possibilità di avere supporto in relazione a
problemi lavorativi [Waddington e Whitston 1997; Calmfors et al. 2002]. L’argomento però non
spiega diversi altri risultati empirici relativi alle stesse survey, cioè perché come spinta all’iscrizione
persistano con la stessa forza motivazioni collettive e ideali, o relative al miglioramento delle
retribuzioni e delle condizioni di lavoro (che data la natura di bene pubblico risulterebbero
disponibili a prescindere dall’iscrizione) [Paoletti 2001; Visser 2002]. Né spiega perché tutti gli altri
13
benefici selettivi (dall’assistenza legale, ai servizi, alle convenzioni a prezzi agevolati), altri dal
supporto nelle dispute, abbiano un ruolo del tutto marginale nelle motivazioni all’adesione, né come
possano persistere in diversi paesi alti livelli di densità sindacale in assenza di incentivi selettivi
sviluppati e in assenza di coercizione [Crouch 1982]. Infine non dà una spiegazione soddisfacente
dell’andamento ciclico della sindacalizzazione, evadendo la spiegazione di eventuali picchi di
mobilitazione con temporanee “motivazioni ideologiche” [Olson 1971]. In definitiva il modello di
attore ipotizzato da Olson corrisponde all’attore economico neoclassico definito da Amartya Sen
rational fool, per cui «una persona ha un ordine di preferenze, e come e quando nasce la necessità si
suppone rifletta i suoi interessi, rappresenti il suo benessere, riassuma le sue idee su cosa andrebbe
fatto, e descriva le sue scelte e comportamenti effettivi. […] Una persona così descritta potrebbe
essere “razionale” nel limitato senso di non rivelare incongruenze nel suo comportamento di scelta,
ma, se non ha alcuna utilità da queste distinzioni tra concetti abbastanza differenti, dev’essere un
po’ sciocco» [Sen 1977, 335-336].
Albert Hirschman [2003] propone uno schema dell’azione basato su un “ciclo privato-pubblico”. La
caratteristica che accomunerebbe la vita privata, basata sul consumo, e la vita pubblica, fondata
sulla partecipazione a movimenti collettivi, sarebbe la delusione e l’insoddisfazione. Ogni atto di
consumo ha in sé, inevitabilmente, una parte di delusione, derivante dalla naturale insaziabilità
dell’uomo e dalla non coincidenza tra aspettative e risultati effettivi. Lo stesso accadrebbe nella
partecipazione alla vita pubblica, a causa della sovente discrepanza tra ideali e loro realizzazione, e
all’eccessivo utilizzo di tempo richiesto sottratto ad affari privati. In tal modo, secondo Hirschman,
si alternerebbero periodi in cui la delusione crescente negli affari privati spingerebbe gli individui a
cercare le soddisfazioni, ormai carenti nel campo del consumo, nella vita pubblica. Similmente, al
crescere della delusione per gli affari collettivi, si tenderebbe a ritornare alle questioni private,
instaurando per l’appunto un ciclo che tenderebbe a spiegare il mutamento di preferenze degli
individui nell’allocazione del proprio tempo e nelle loro abitudini di consumo. In particolare
Hirschman contrasta la posizione olsonsiana in quanto stabilisce una differenza qualitativa, e quindi
una diversa interpretazione, dell’azione pubblica rispetto a quella privata: dal momento in cui
spesso l’azione collettiva si risolve in una forte delusione, è possibile che quanto più si possa
ottenere da questa sia niente più che la partecipazione stessa. Quindi «dalla fusione-confusione tra il
momento del perseguimento e il momento del raggiungimento dell’obbiettivo deriva che la
distinzione netta tra costi e benefici dell’azione compiuta nell’interesse pubblico scompare, poiché
la lotta, che dovremmo considerare dal lato dei costi, si rivela essere parte dei benefici. […] Il
beneficio dell’azione collettiva per un individuo non è dato dalla differenza tra il risultato atteso e lo
sforzo compiuto, ma dalla somma di queste due grandezze» [Hirschman 2003, 112]. In particolare,
14
rifacendosi a Sen [1977], Hirschman riprende l’idea che accanto allo schema di preferenza che
secondo la teoria economica descriverebbe il comportamento degli individui (come l’iscriversi a un
sindacato solo in presenza di benefici selettivi), esisterebbero degli schemi di “meta-preferenze”,
contenenti schemi di preferenza anche diversi da quelli propri del soggetto (ad esempio più
desiderabili socialmente, rappresentanti scrupoli morali, etc...). I cambiamenti di stile di vita, come
il passaggio dal privato al pubblico, consisterebbero perciò nel prevalere di una meta-preferenza
differente dallo schema di preferenze abituale, favorita da un concomitante evento catalizzatore, per
esempio una serie di esperienze deludenti (in campo privato o pubblico). In questo modo,
sommando costi e benefici nell’azione collettiva, e proponendo una teoria del ciclo privato-
pubblico, Hirschman spiegherebbe la scarsa diffusione del free-riding nei movimenti collettivi e
renderebbe conto del carattere ciclico (in termini di conflitto e di dimensioni numeriche) del
fenomeno sindacale.
Anche Claus Offe e Helmut Wiesenthal [1980] criticano l’approccio di Olson con particolare
riferimento al processo di calcolo dei costi-benefici nel partecipare all’azione collettiva. Questo si
baserebbe sulla dogmatica “equazione liberale” secondo cui “l’interesse di un individuo è
semplicemente ciò che dice esserlo”, un assunto eccessivamente ingenuo secondo i due autori. Tale
assunto risulterebbe veritiero per le aziende, singole o associate in organi di rappresentanza, in
quanto la loro logica di azione collettiva sarebbe di tipo “monologico”, cioè gli interessi delle
singole imprese risulterebbero meno in contrasto tra di loro, fornendo più facilmente una
concezione condivisa del loro interesse collettivo. Per i lavoratori la situazione sarebbe diversa, in
quanto l’auto-percezione dei propri interessi risulta difficilmente condivisa dalla totalità del mondo
del lavoro, e pertanto la loro logica di azione collettiva dovrà essere innanzitutto “dialogica”,
dipendendo comunque il successo della loro azione su una concezione comune e condivisa del loro
interesse. Così ogni azione collettiva in questo senso si baserà sulla concorrenza tra due tipi di
logica: la lotta per perseguire i propri interessi (di natura monologica) e la lotta nel definire quali
essi siano (di natura dialogica). La logica olsonsiana sarebbe infatti «incapace di includere e
descrivere il secondo livello di conflitto, ove i parametri diventano variabili, e l’azione collettiva è
tesa a una ridefinizione di cosa intendiamo con “costi” e “benefici”. […] L’obiettivo di questo
secondo tipo di conflitto non è “ottenere qualcosa”, ma di metterci in una posizione da cui possiamo
vedere meglio cosa sia in realtà ciò che vogliamo, e dove diventa possibile liberarci di nozioni
distorte e illusorie dei nostri interessi» [Offe e Wiesenthal 1980, 96]. Anche questo modello
risulterebbe pertanto ciclico, prevalendo la natura dialogica delle organizzazioni sindacali nei
periodi di definizione (o ridefinizione) delle identità collettive e degli interessi comuni, per poi
passare alla natura monologica nelle fasi di istituzionalizzazione del movimento. Nel primo stadio
15
prevarrebbe la partecipazione e la “volontà di agire” (willingness to act), ponendo un freno ai
comportamenti opportunistici, grazie al processo partecipato di definizione identitaria e degli
interessi da rappresentare. Nel secondo l’organizzazione diverrebbe più distaccata dalla base,
cercando altre fonti di legittimazione (come lo Stato nei sistemi neo-corporativi), determinando un
riflusso dell’azione collettiva.
Sulla linea tesa a spiegare la partecipazione ai movimenti collettivi in termini identitari, e in
contrasto con le formulazioni rigide della teoria della scelta razionale, si pone anche il contributo di
Alessandro Pizzorno. In una prima formulazione della sua teoria [Pizzorno 1977; 1978], tesa a
spiegare il ciclo di conflittualità sindacale 1968-1972 in Italia, anch’egli si poggia
sull’individuazione di due logiche dell’azione collettiva: quella legata alla militanza di base, alla
partecipazione diretta e al “ritiro della delega”; e quella legata al processo di scambio e
contrattazione con le controparti (governo e impresa), fondato su maggiore autonomia dei
rappresentanti dai rappresentati e connotata in senso più moderato e responsabile. In particolare, per
spiegare le fasi a elevata militanza, Pizzorno prende le mosse dal concetto di “formazione di nuove
identità collettive”, così qualificandone il processo: «quando una massa di individui, appartenenti a
una data categoria professionale, o frazione di classe, o in genere aventi interessi obiettivi comuni,
prima esclusi dal sistema di rappresentanza, vengono a trovarsi in condizioni favorevoli per
mobilitarsi, o essere mobilitati, e per condurre un’azione collettiva volta ad ottenere il
riconoscimento della loro identità e quindi il diritto di essere rappresentati, la conflittualità che ne
deriva tende ad essere più intensa che quella per le normali rivendicazioni di benefici, e ad
assumere forme e contenuti nuovi» [Pizzorno 1978, 13]. Secondo questa formulazione la
mobilitazione tesa alla costituzione e al riconoscimento di una nuova identità collettiva sarebbe fine
a sé stessa, costituendo la premessa a ogni possibile negoziazione. La partecipazione espressiva
tende a sostituirsi a quella strumentale. Perciò «condotte che possono sembrare irrazionali alla luce
dei benefici rivendicati, o di altri fini espliciti, appaiono razionali se si considera che il fine reale è il
costituirsi e raggiungere coesione della nuova identità» [Pizzorno 1978, 13], sviluppando nuovi
simboli (necessari al riconoscimento dell’identità, sia internamente che esternamente), reti di
relazioni interpersonali e solidarietà tra i partecipanti. Le spinte di partecipazione non si formano
necessariamente in modo spontaneo, ma si innestano su preesistenti tradizioni e modelli
organizzativi, venendo catalizzate da eventi contingenti. Una volta riconosciuta la nuova identità
collettiva però si pone il problema del riassorbimento del movimento, trasformando la
partecipazione espressiva in partecipazione strumentale, fondata sul calcolo dei costi e benefici
individuali. Così il movimento tenderebbe a spaccarsi in due: coloro per cui la partecipazione
espressiva continua ad avere un senso, e coloro per i quali tenderà a comportare un costo eccessivo,
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ristabilendosi così il principio di rappresentanza e negoziazione [Pizzorno 1977]. La logica dello
standing for rifluirà nella logica dell’acting for [Cella 2003].
In una seconda formulazione, Pizzorno [1996; 2007] abbandonerà la logica duale dell’azione
collettiva, riconducendo la teoria a unità interpretativa e fornendo un «contributo a sostegno di un
approccio relazionale in grado di fondare in modo unitario il rapporto tra interessi e identità» [Mutti
2002, 107]. La ridefinizione teorica parte dall’analisi a livello micro del cambiamento sociale.
Viene in particolare criticata l’attitudine delle diverse teorie della scelta razionale ad assumere la
decisione come unità di analisi. Secondo Pizzorno sarebbero le interazioni tra individui, e non le
decisioni dei singoli, a costituire l’oggetto da spiegare. Tali relazioni sarebbero strettamente
correlate al concetto di identità, in quanto «il riconoscimento reciproco di una qualche identità fra
gli individui partecipanti a un’interazione sociale costituisce la condizione perché l’interazione
stessa sia possibile» [Pizzorno 1996, 118]. Il concetto di identità è centrale nel modello di Pizzorno,
ed è proprio in merito a questo che la teoria della scelta razionale risulterebbe fallace, in quanto
«una persona che sceglie “razionalmente” deve essere in grado di valutare le conseguenze della sua
scelta nei termini del suo stesso interesse. Ma, in primo luogo, gli interessi dell’io di ora non sono
gli stessi degli io futuri» [Pizzorno 2007, 55]. L’anticipare le conseguenze derivanti da una scelta
razionale presupporrebbe logicamente anche l’anticipazione parallela dei nostri “io futuri”, non
essendo l’identità di una persona fissa e stabilmente definita (rendendo non automatica la coerenza
delle scelte fatte oggi con le conseguenze valutate domani), gettando così ogni processo di scelta in
una condizione di persistente incertezza. Costituire un’identità stabile, tale da vincere questa
condizione d’instabilità, è possibile «solo grazie a qualche connessione interpersonale orizzontale
tra io individuali» [Pizzorno 2007, 57], cioè grazie alla partecipazione a una qualche cerchia sociale
di riconoscimento. Perciò «l’azione sociale non è il prodotto che risulta dagli io che massimizzino
soddisfazioni istantanee né di io che elaborino strategie atte a procurare vantaggi per io futuri o
future generazioni di io; risulta piuttosto da io che mirano ad assicurare legami orizzontali con gli io
di altre persone o legami verticali con gli io futuri» [Pizzorno 2007, 59]. In modo simile, nel campo
della teoria economica, anche Amartya Sen aveva già messo in luce le difficoltà inerenti al modello
di individuo razionale con riferimento alla coerenza individuale su una serie di scelte distanziate
temporalmente, in quanto «l’intervallo di tempo rende difficile distinguere tra incoerenza e
cambiamento di gusti» [Sen 1977, 325]. L’identità dell’individuo verrebbe quindi a formarsi
nell’interazione continua e giornaliera con gli altri, in un processo di comune riconoscimento,
laddove la partecipazione è immediatamente visibile e condivisa, e tesa alla condivisione di
un’identità collettiva. Perciò «l’azione collettiva, o la comunicazione intensificata, con il
conseguente formarsi e venir riconosciute di nuove identità collettive nel loro stesso svolgersi,
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procurano ai partecipanti quella sicurezza di essere riconosciuti che sentivano come mancante»
[Pizzorno 1996, 123]. Intendendo l’azione in questo senso scomparirebbe il paradosso del free-
riding, in quanto non deriverebbe vantaggio alcuno dal non partecipare all’azione collettiva,
venendo meno lo scopo della stessa e cioè il riconoscimento degli altri e l’affermazione
dell’identità: «la motivazione a partecipare va quindi cercata in benefici che nascono dalla
partecipazione stessa» [Pizzorno 1996, 126]. Pertanto accettare un tale ordine di idee significa
abbandonare la prospettiva della decisione individuale, ponendo il fuoco sulle reti di relazioni (quali
il capitale sociale di una persona) e alla loro connessione con l’idea di “identità di lungo periodo”,
in quanto «la dinamica dell’identità precede logicamente e rende possibile il calcolo razionale
mezzi-fini» [Mutti 2002, 109]. Pizzorno quindi fa un passo avanti rispetto alla precedente
formulazione, in quanto interpretare il cambiamento sociale come mero affermarsi di nuove identità
collettive non spiegherebbe perché la società cambierebbe in un certo qual modo, tralasciando il
processo di formazione degli scopi collettivi. Tali scopi possono essere invece interpretati come
costituti e formati «piuttosto nel processo stesso tramite il quale si costituiscono le identità
collettive» [Pizzorno 1996, 130]. Pertanto un movimento collettivo, come un sindacato, stimola sì la
partecipazione per la ricerca di identità da parte degli individui: «per essere riconosciuti, però, e per
poter quindi offrire con efficacia tale identità, debbono presentarsi con scopi dichiarati» [Pizzorno
1996, 130]. E’ il contenuto di tali scopi che permette agli attori collettivi di distinguersi da altri,
quindi è la scelta degli stessi che possono meglio determinare l’identità offerta e cercata. Ed è
quindi l’atto di “nominare”, cioè il «fare esistere obiettivi e aspirazioni (con le connesse aspettative)
dei soggetti collettivi attraverso la apposizione di alcuni nomi invece che di altri […], che spesso si
traduce nella utilizzazione di nomi diversi per l’indicazione dello stesso obiettivo o della stessa
posta in gioco» [Cella 2003, 234], secondo Gian Primo Cella una delle dinamiche fondamentali
dell’azione collettiva.
E’ possibile ora trarre qualche conclusione a partire dagli assunti di alcune delle teorie presentate. Il
concepire l’azione come orientata a una ricerca di identità e riconoscimento a partire dalle cerchie
sociali di appartenenza fornisce una spiegazione dell’azione collettiva decisamente persuasiva, nel
momento in cui viene intesa a spiegare la formulazione di scopi collettivi fornendo la base per
l’orientamento dell’individuo nella società. Resta da tener presente che l’identità individuale è per
natura sociale, e pertanto è costituita dalla somma delle appartenenze dell’individuo a una pluralità
di cerchie sociali. Come sosteneva già Georg Simmel «da un lato l’individuo trova pronta per
ciascuna delle sue tendenze e aspirazioni una comunità che gli agevola il loro soddisfacimento, che
offre alle sue attività una forma di volta in volta sperimentata come conforme allo scopo e tutti i
vantaggi dell’appartenenza a un gruppo; d’altro lato l’elemento specifico dell’individualità viene
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conservato dalla combinazione delle cerchie, che può essere in ogni caso diversa. Così si può
affermare che dagli individui sorge la società, dalla società sorge l’individuo» [Simmel 1989, 370].
Mentre, in un passaggio molto vicino a Pizzorno, si sostiene che «spesso l’assunzione di certi
contenuti di vita non è assolutamente comprensibile in base alla loro importanza oggettiva, ma
soltanto in base al soddisfacimento [trovato in essi …]. Il bisogno di una posizione chiara, di uno
sviluppo inequivocabile dell’individualità spinge l’individuo a selezionare certe cerchie nel cui
punto di intersecazione egli possa porsi e dal cui insieme – una cerchia offrendo essenzialmente la
forma dell’aggregazione, l’altra quella della concorrenza – egli possa acquisire un massimo di
quella determinatezza individuale» [Simmel 1989, 366]. Pertanto, una volta spiegata la logica
dell’azione collettiva in termini di interazioni e riconoscimento sociale, il compito successivo
consiste nello spiegare come i vari gruppi di appartenenza si alternino in importanza, e in che modo
l’azione in termini identitari si fondi su appartenenze diverse in periodi diversi. In questo senso
potrebbe essere interessante lo studio dell’alternarsi in importanza delle identità decisive in
relazione ai cicli della partecipazione sindacale. Indubbiamente l’argomentazione di Hirschman
[2003] offre un’ottima spiegazione di come la costruzione delle identità possa basarsi su assunti
periodicamente differenti a causa del fattore “delusione”. Più nello specifico un ulteriore elemento
teso a spiegare la recente disaffezione dal movimento sindacale potrebbe fondarsi sul cambiamento
dei presupposti su cui fondare le identità individuali nelle società post-fordiste, che tende a spostarsi
sempre più verso cerchie esterne all’attività lavorativa. Come nota Guido Baglioni «la questione del
lavoro salariato, del rapporto capitale-lavoro, dell’impiego del lavoro nelle strutture produttive
dell’economia capitalistica non è più, comunque, la questione sociale centrale nei paesi industriali»
[Baglioni 2008, 98], e di conseguenza la posizione lavorativa non definirebbe più l’individuo in
quanto tale inglobandone la maggior parte dell’identità e guidandone gli obbiettivi [Paci 1996].
1.2.2 Logica dell’azione individuale
Distaccandosi dall’analisi teorica dell’azione sociale, l’attenzione verrà ora posta, in un’ottica di
individualismo metodologico e con maggiore ancoraggio empirico, sulle motivazioni e sulle
caratteristiche dei soggetti che rendono più probabile la decisione di iscriversi a un sindacato.
Partendo dalle caratteristiche personali, è possibile riscontrare una serie di regolarità nelle diverse
strutture di adesione sindacale, tali da portare a un sufficiente livello di generalizzazione delle
conclusioni sulle categorie a maggiore propensione nel cercare adesione agli organismi di
rappresentanza collettiva dei lavoratori.
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Innanzitutto il sesso è una discriminante importante nel predire l’iscrizione al sindacato di un
lavoratore. I differenziali di genere sono spesso comparativamente elevati. Vi è però una differenza
sostanziale nelle strutture di adesione per sesso tra i differenti sistemi di welfare. In particolare i
regimi “conservatori-familistici” [Esping-Andersen 2000], cioè fondati sul breadwinner come
principale percettore di reddito e sulla famiglia come principale fornitore di servizi sociali,
presenterebbero un’adesione maschile molto più consistente rispetto alla controparte femminile.
Negli anni ’90 paesi come Olanda, Germania, Austria e Italia (in questo caso nel 2004), presentano
differenze tra il tasso di sindacalizzazione maschile e femminile nell’ordine di 15 punti percentuali
[Calmfors et al. 2002; ISFOL 2006; Visser 2006]. Tale differenza invece si ribalta, pur riducendosi,
nei paesi scandinavi (Danimarca e Svezia hanno donne più sindacalizzate di 3-5 punti percentuali) e
quasi scompare in quelli anglosassoni (Regno Unito e Stati Uniti nel 2004-2005 presentano un tasso
maggiore per gli uomini di soli 1-2 punti percentuali, mentre il Canada non presenta differenze)
[Calmfors et al. 2002; Blanchflower 2007]. I divari, qualora esistano, vengono però meglio spiegati
dalla diversa composizione settoriale del mercato del lavoro più che da una diversa propensione di
genere nei confronti del sindacato, in quanto le donne lavorerebbero per la maggior parte in quei
segmenti del mercato del lavoro dove minore è la propensione generale ad iscriversi (in particolare
il lavoro part-time, a forte predominanza femminile, sarebbe caratterizzato da una minore
sindacalizzazione). Allo stesso modo nei paesi scandinavi la diversa composizione della
sindacalizzazione verrebbe spiegata dalla forte presenza femminile nel settore pubblico, dove la
propensione all’iscrizione al sindacato è generalmente maggiore che nel privato [Calmfors et al.
2002]. In controtendenza, David Blanchflower [2007] trova per 3 paesi anglosassoni (Stati Uniti,
Regno Unito e Canada), una maggiore propensione degli uomini (controllando per settore
d’impiego – pubblico o privato – e tipo di contratto – full-time o part-time) all’iscrizione al
sindacato, nell’ordine di 2-5 punti percentuali, differenza che si annulla o si riduce sensibilmente
nel settore pubblico. Altri studi (citati nello stesso Blanchflower [2007] e in Calmfors et al. [2002])
non trovano invece, a parità di condizioni, significative differenze nella propensione di genere
all’iscrizione al sindacato.
Come già accennato, una delle caratteristiche fondamentali nello spiegare la diversa propensione
dei soggetti a iscriversi a un sindacato è il tipo di relazione d’impiego. Tale differenza è solitamente
indagata differenziando i lavoratori con contratti full-time e part-time, ma più in generale è facile
percepire i motivi di una sindacalizzazione ridotta nella massa di lavoratori con contratti “atipici”
(sia flessibili, come i contratti a termine, interinali o di collaborazione, che stabili ma a tempo
ridotto), considerati tradizionalmente dai sindacati come “lavori di serie B” [Calmfors et al. 2002].
In particolare la discontinuità e temporaneità sul posto di lavoro e la presenza inferiore in termini di
20
orario creano un clima socialmente meno coeso e quindi meno favorevole alla costituzione di
strutture sindacali stabili e solide: più un lavoratore permane nella stessa impresa, più la sua
propensione all’iscrizione al sindacato locale aumenta [Ebbinghaus e Visser 1999]. Anche qui
troviamo delle forti differenze tra paesi con diversi regimi di welfare: nei paesi scandinavi, grazie
alla forte concentrazione dei lavori part-time nel settore pubblico [Calmfors et al. 2002], le
differenze nella sindacalizzazione tra lavoratori a tempo pieno e parziale è molto ridotta (in
Norvegia di soli 5 punti percentuali a favore del full-time, che presenta una densità sindacale del
62%, mentre in Svezia di 7 punti, ma con un tasso di sindacalizzazione dei lavoratori a tempo
parziale pari addirittura all’83%). Questo anche grazie alla “normalizzazione” del lavoro part-time,
«nel senso dell’essere coperti dagli stessi diritti, benefici e condizioni d’impiego che si applicano ai
lavoratori full-time» [Visser 2006, 47]. Non sono disponibili dati per i regimi “familisti” (se non per
l’Olanda, con una densità sindacale tra i lavoratori part-time del 19%, 8 punti percentuali inferiore
ai colleghi full-time), mentre nei paesi anglosassoni le percentuali per il tempo parziale sono
complessivamente inferiori, anche a causa della loro maggiore flessibilità e minore copertura da
parte di accordi collettivi sindacali: di 7 punti negli Stati Uniti (6,4%), 8 in Canada (23,6%) e 10 nel
Regno Unito e Irlanda (rispettivamente 21,1% e 29,2%). I lavoratori temporanei, poi, mostrano tassi
di sindacalizzazione ancora inferiori, rispetto ai colleghi con condizioni d’impiego standard: di 12
punti percentuali nel Regno Unito, di 19 in Irlanda, di 16 in Olanda e di 26 in Norvegia [Visser
2006]. I motivi per cui il lavoratori part-time risultano meno sindacalizzati rispetto alla loro
controparte a tempo pieno vengono sostanzialmente individuati nella minore attrattività di membri a
tempo parziale o flessibili per il sindacato [Ebbinghaus e Visser 1999], e nella «relativa incapacità
dei rappresentanti sindacali locali a mettersi in contatto coi lavoratori part-time in modo da
reclutarli» [Waddington e Whitston 1997, 537]. In una survey condotta nel Regno Unito, inoltre,
Jeremy Waddington e Colin Whitston [1997] notano come i motivi ideali all’adesione (del tipo
“credo nel ruolo dei sindacati”) siano molto meno diffusi tra i lavoratori a tempo parziale,
prevalendo motivazioni all’iscrizione più strumentali, come l’essere assistiti nelle dispute di lavoro.
Tuttavia la proporzione di lavoratori che si siano attivati personalmente nel cercare l’iscrizione al
sindacato risulta sostanzialmente analoga tra i lavoratori appartenenti a diversi regimi di orario,
sottolineando quindi l’inesistenza di una maggiore attitudine anti-union tra i lavoratori a tempo
ridotto.
L’età è un altro fattore che discrimina diverse strutture di adesione sindacale. In generale i giovani
si iscrivono molto meno dei lavoratori di mezza età. Tra i 16 e i 24 anni il tasso di sindacalizzazione
è circa un terzo del totale negli Stati Uniti e nel Regno Unito, meno della metà in Olanda e
Norvegia, poco più della metà in Svezia e poco più di due terzi in Finlandia [Visser 2006]. In questo
21
caso una spiegazione possibile per la minore adesione giovanile potrebbe essere la
destandardizzazione del mercato del lavoro, che allocherebbe la maggior parte dei rapporti di lavoro
atipici in entrata alle nuove leve [Calmfors et al. 2002]. David Blanchflower [2007] trova in ben 34
paesi (27 membri dell’OCSE e 7 extra) che la relazione tra età e iscrizione al sindacato, tra i
lavoratori attivi, assume la forma di “U rovesciata”, massimizzando l’adesione intorno ai 50 anni,
pur con una discreta varianza tra paesi. In parte questo risultato sarebbe dato da un effetto coorte,
ma controllando per tale variabile la relazione inverted U-shaped rimane, per quanto i picchi di
adesione ora intervengano in fasce d’età complessivamente inferiori. Blanchflower formula diverse
ipotesi per spiegare tale relazione. Per esempio il declino del vecchio settore manifatturiero avrebbe
spostato una quota consistente di lavoratori anziani in posti a minore sindacalizzazione (come le
piccole imprese fiorite grazie ai processi di outsourcing nel processo di ristrutturazione del modello
produttivo). Oppure i settori fortemente sindacalizzati aumenterebbero la protezione per i lavoratori
maturi, riducendo il turnover, lasciando più giovani trovare lavoro nei settori meno sindacalizzati
(come i servizi a bassa qualificazione).
La scolarità poi è un’altra caratteristica che porta a propensioni differenti nella scelta di aderire a un
sindacato. Secondo Colin Crouch [1982] l’utilità, e quindi la propensione, nell’iscriversi a un
sindacato dipende da una combinazione tra l’agio con cui è possibile farlo e il grado di dipendenza
dall’azione collettiva nel perseguire i propri interessi. In particolare, perciò, i lavoratori più istruiti
(white-collars e professionals) risulterebbero più forti sul mercato del lavoro, avendo minore
necessità di aderire a un sindacato per tutelarsi. Effettivamente i lavori manuali (considerata come
proxy di livelli d’istruzione inferiori) in Europa risultano mediamente più sindacalizzati di quelli
non manuali [Ebbinghaus e Visser 1999], però, testando la relazione tra scolarità e
sindacalizzazione a parità di altri fattori, la relazione risulta più ambigua, non fornendo una
direzione causale netta [Calmfors et al. 2002; Blanchflower 2007]. Su un campione più piccolo
(Stati Uniti, Regno Unito e Canada) sempre Blanchflower [2007] trova correlazioni significative
per tutti e tre i paesi: il livello di istruzione è associato positivamente a una maggiore densità
sindacale solo nel settore pubblico, mentre nel privato è associato negativamente. Questo potrebbe
derivare dalla forte presenza di lavoratori ad alta qualificazione nelle pubbliche amministrazioni
(come medici e insegnanti) che, grazie all’appartenenza a un settore dove l’adesione al sindacato è
più facile e diffusa, risulterebbero quindi molto più sindacalizzati dei loro colleghi nel settore
privato [Checchi et al. 2007].
La dimensione dell’unità produttiva in cui si è occupati è inoltre un fattore importante nel
determinare una maggiore probabilità nell’adesione a un sindacato. La sindacalizzazione è correlata
positivamente con le dimensioni dell’impresa, assumendo dimensioni nulle o ridotte nelle micro e
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piccole imprese [Ebbinghaus e Visser 1999]. Infatti «per i sindacalisti è molto più facile reclutare
nuovi membri, fornire servizi e mantenere un’organizzazione efficace all’interno di luoghi di lavoro
che concentrano grandi masse di lavoratori» [Calmfors et al. 2002, 41].
In ultimo ci si può domandare se a spiegare le variazioni tra paesi e nel tempo della propensione alla
sindacalizzazione possano intervenire elementi valoriali e culturali, che nel passaggio alle società
post-fordiste diverrebbero sempre meno orientati collettivamente e sempre più fondati in termini
individualistici, portando a una sorta di “Thatcher’s children effect” [Waddington e Whitston
1997]. Questo non sembrerebbe però il caso, in quanto moventi “egocentrici” all’adesione al
sindacato erano già preponderanti negli anni ’50 [Calmfors et al. 2002], mentre motivazioni relative
al mutuo supporto, all’attaccamento al ruolo sociale dei sindacati e al controllo dei colleghi
risultano ancora molto diffuse tra iscritti e non [Waddington e Whitston 1997; Calmfors et al. 2002;
Visser 2002; Feltrin 2007].
Passando quindi dalle caratteristiche individuali alle motivazioni dei soggetti all’iscrizione, una
delle spiegazioni fornite è data dalla Social custom theory [Visser 2002]. Secondo i fautori di questo
approccio l’iscrizione al sindacato sarebbe un costume sociale, derivante dal fatto che la mancata
adesione, in un ambiente con una densità sindacale al di sopra di un livello critico, comporterebbe
dei costi per il singolo superiore ai benefici “reputazionali” e di integrazione coi colleghi derivanti
dall’adesione e al supporto del sindacato locale. Tale costume sarebbe mantenuto dal controllo
sociale diffuso tra i lavoratori appartenenti a un’unità produttiva, e ciò avverrebbe anche nel caso di
grosse organizzazioni sindacali, in quanto, contrariamente a quanto ipotizzato da Olson [1971],
l’unità di riferimento tale da assicurare incentivi e disincentivi di carattere sociale sarebbero i
piccoli gruppi di lavoro, le corrispondenti sezioni sindacali e i gruppi di militanti locali,
contraddistinti da numerosi rapporti faccia-a-faccia tali da facilitare un controllo sociale diffuso
[Crouch 1982]. Jelle Visser [2002] trova diversi indicatori dell’esistenza di un costume sociale nelle
motivazioni all’adesione tra i lavoratori olandesi, essendo il livello di sindacalizzazione percepito e
la percezione di un clima pro-union fortemente correlati con l’appartenenza a un sindacato, oltre ad
esistere una correlazione significativa con l’appartenenza di uno o entrambi i genitori. L’uscita
dall’organizzazione, specularmente, è più probabile laddove meno colleghi siano membri e i
contatti coi sindacati siano meno frequenti.
Nella loro survey sui lavoratori inglesi anche Waddington e Whitston [1997] trovano indizi
dell’esistenza di un costume sociale, per quanto non risulti una delle ragioni fondamentali nel
decidere dell’adesione al sindacato (solo il 13,8% dei nuovi iscritti dichiara come motivazione
all’ingresso “la maggior parte dei colleghi sono membri”). Invece decisive risultano le motivazioni
collettive, nel senso del mutuo supporto in caso di problemi (citato dal 72,1% del campione),
23
migliori paghe e condizioni di lavoro (36,4%) e la credenza nel ruolo del sindacato (16,2%), per
quanto il supporto nelle dispute di lavoro, come già notato, possa essere considerato un incentivo di
carattere individuale. Gli incentivi selettivi (assistenza legale gratuita, servizi finanziari, servizi
professionali) hanno una portata del tutto marginale (15,1%, 3,5%, 6,2% rispettivamente), ma non
sono distribuiti omogeneamente tra tutti i settori occupazionali. Visser [2002], invece, trova una
forte correlazione tra appartenenza al sindacato e utilizzo agevolato dei servizi offerti, ma questo
non spiega se l’interesse e l’adesione all’organizzazione siano derivati da tale beneficio selettivo, o
semplicemente se i lavoratori, una volta diventati membri, trovino l’utilizzo dei servizi offerti
particolarmente interessante o conveniente.
Perciò, concludendo, pare che le differenze nelle strutture di adesione non siano sostanzialmente
determinate dalle caratteristiche dei singoli, quanto dalle caratteristiche del lavoro e del contesto
lavorativo: una motivazione importante per non aderire risulta infatti essere il mancato contatto da
parte di militanti a livello di luogo di lavoro [Waddington e Whitston 1997; Calmfors et al. 2002].
Tali conclusioni sarebbero compatibili con l’ipotesi avanzata nel paragrafo 1.2.1, in quanto la
mancata adesione sindacale parrebbe non essere riconducibile a un astratto cambiamento di valori
interno alle società dei servizi come filiazione delle società fordiste (meno favorevole alla
dimensione collettiva del lavoro e più orientato in senso individualistico), quanto, per lo meno in
misura importante, al fatto che in sempre meno settori vi siano sindacati disponibili e in grado di
organizzarsi con facilità. Perciò in tali settori sempre meno lavoratori fonderebbero la propria
identità con la connessa costituzione di obbiettivi in un’ottica “sindacale” a livello di workplace (in
senso rivendicativo o di business unionism), rivolgendosi ad altre cerchie probabilmente esterne al
luogo di lavoro, senza con questo necessariamente maturare sentimenti anti-union a livello più
generale (per esempio acquisendo un maggiore interesse per il sindacato come attore politico).
L’Italia
In ultimo resta da esplorare se le caratteristiche sopra individuate, valide per la maggior parte dei
paesi OCSE pur con alcune specificità, valgano effettivamente anche per l’Italia. Un quadro
generale può essere tracciato a partire da una survey dell’ISFOL condotta nel 2004, su un campione
di lavoratori dipendenti, residenti in Italia e occupati nei settori privati del terziario e dell’industria
in senso stretto. Purtroppo i dati sulla sindacalizzazione per le diverse categorie di persone, non
reperibili altrimenti a partire dai dati di fonte sindacale, risultano gonfiati, in quanto calcolati a
partire dalla domanda “lei è iscritto al sindacato o ne è simpatizzante?” [ISFOL 2006, 69]. E’ quindi
più opportuno soffermarsi sulle differenze piuttosto che sui valori assoluti.
24
Innanzitutto la composizione per età pare coerente con i risultati precedenti, in quanto la
sindacalizzazione tende a crescere invecchiando: risulta pari al 17,6% per i giovani tra i 15 e i 29
anni, 24,8% tra i 30 e 44 anni, mentre 33,6% nella fascia 45-64. Anche in Italia, poi, gli uomini
tendono ad avere una propensione maggiore all’iscrizione, in quanto a un tasso maschile del 29,9%
si contrappone un tasso solo del 17,7% per le donne. La scolarità è un’altra caratteristica che non
presenta particolarità rispetto agli altri paesi, scendendo l’attrattiva per il sindacato al crescere del
titolo di studio conseguito: la densità sindacale si afferma intorno al 24% per i lavoratori in possesso
di licenza media, qualifica professionale o diploma. Decresce poi tra i laureati (21,9%), tra chi ha
conseguito un master post-laurea (19,1%), toccando il minimo tra chi ha svolto anche un dottorato
di ricerca (5,3%). Sempre in coerenza con la teoria, la sindacalizzazione cresce nettamente al
crescere delle dimensioni dell’unità produttiva, risultando del 18,6% nelle imprese con 4-9
dipendenti, 20,6% in quelle con 10-15, e 30,2% nelle aziende da 16 a 49 addetti. Nelle unità tra i
100 e 499 dipendenti la densità tocca invece il suo massimo, risultando pari al 45%. Più ambigui,
infine, risultano i tassi per qualifica professionale: i dirigenti e i quadri sono i più sindacalizzati
(32%), seguiti dagli operai (27,1%), e toccando il minimo tra gli impiegati (20,9%).
Ora, per cogliere le differenze di propensione a prescindere da eventuali distorsioni dovute a una
sistematicamente differente collocazione di diverse categorie di soggetti in contesti in cui, per vari
motivi, la sindacalizzazione è complessivamente diversa, occorre analizzare i differenziali di
probabilità all’iscrizione per le diverse caratteristiche dei soggetti a parità di altri fattori. A questo
provvede uno studio di Daniele Checchi, Massimiliano Bratti e Antonio Filippin [2007] basato su
dati derivanti da una serie temporale di campioni di lavoratori dipendenti dell’International Social
Survey Programme dal 1985 al 1998.
Per prima cosa le donne risultano avere una propensione inferiore all’iscrizione rispetto agli uomini,
anche tenendo conto del tipo di contratto (full-time o part-time). Questo effetto però, contrariamente
a quanto stimato da Blanchflower [2007] per il Regno Unito e il Canada, varrebbe sia per le
lavoratrici del settore privato che per quello pubblico, sebbene in modo più attenuato nel secondo
caso. Per quanto riguarda l’età, invece, anch’essa è associata positivamente all’aumento della
sindacalizzazione e, solo nel settore privato, presenta l’andamento a U rovesciata ipotizzato da
Blanchflower, con un picco a 47 anni. Gli autori ipotizzano quindi che «l’adesione al sindacato
presenta un profilo temporale analogo a quello della retribuzione nell’arco della vita, dove la
capacità di guadagno si esprime compiutamente al crescere dell’esperienza, e comincia a declinare
quando le competenze individuali diventano progressivamente obsolete. Per questo i dati sembrano
suggerire che la domanda di tutela sindacale (nel settore dove è maggiormente a rischio di mancata
valorizzazione economica, quale è il settore privato) si esprima in relazione all’esigenza di
25
protezione del valore di mercato individuale» [Checchi et al. 2007, 7]. Inoltre la minore
propensione giovanile all’iscrizione al sindacato non sembrerebbe del tutto riconducibile alla
maggiore precarietà dei lavori a loro disponibili, in quanto controllando per il numero di ore
lavorate (maggiore o inferiore a 36 settimanali), la relazione rimane comunque positiva. Resta
comunque da tenere in considerazione che il numero di ore lavorate è una proxy imperfetta nel
cogliere il tipo di rapporto di impiego, e che riesce ad approssimare solo in modo imperfetto il
carattere flessibile o precario della condizione, non fornendo dunque una risposta conclusiva. Il
lavorare meno di 36 ore settimanali, dunque, risulta associato negativamente alla propensione
all’iscrizione, fattore riscontrabile sia nel settore privato che nel pubblico, dove anzi risulta più
forte. Anche la scolarità produce risultati coerenti con i precedenti riscontri, infatti un diplomato, a
parità di altri fattori, ha un tasso atteso medio di sindacalizzazione inferiore di 4 punti percentuali
rispetto a chi abbia completato l’obbligo scolastico, mentre un laureato addirittura di 12 punti. Tale
risultato tiene per i dipendenti del settore privato e del pubblico, contrariamente ai riscontri in altri
paesi [Blanchflower 2007], in cui una maggiore scolarità produce più sindacalizzazione nel
pubblico. Assumere compiti di sorveglianza ha poi un effetto positivo sulla possibilità di aderire a
un sindacato, soprattutto nella pubblica amministrazione: ciò tra l’altro fornirebbe una conferma
all’assunto per cui l’ampia sindacalizzazione del settore pubblico sarebbe, tra l’altro, dovuta alla
maggiore densità sindacale tra i dirigenti statali stessi, che configurerebbe una minore avversione
datoriale all’iscrizione dei propri dipendenti [Bordogna 1987]. In ultimo i tre autori analizzano la
diversa propensione all’iscrizione per lavoratori appartenenti a diverse fasce di reddito. Mentre per i
lavoratori con retribuzione più elevata della retribuzione mediana l’effetto sull’iscrizione è solo
lievemente negativo (e non significativo), per coloro la cui retribuzione si trovi al di sotto il
disincentivo sarebbe invece sorprendentemente forte e significativo. Questo potrebbe essere dato
dalla minore credibilità di un miglioramento salariale collettivo per il lavoratore a basso reddito, e
di conseguente disaffezione dal sindacato [Checchi et al. 2007].
Infine è possibile chiedersi se e quanto i costumi sociali tendano a favorire il sindacato in termini di
iscritti. Purtroppo i lavori in questo senso sul caso italiano sono particolarmente scarsi. In uno
studio di Daniele Checchi e Giacomo Corneo [2000] vengono indagati i fattori che influiscono sui
cicli di sindacalizzazione in Italia, e viene testata l’ipotesi dell’esistenza di qualche social custom.
Vista la scarsezza di variabili utilizzabili opportunamente come proxies, l’unica misura disponibile
per catturare qualche effetto di omogeneità e controllo sociale tra i lavoratori appare la dimensione
degli scioperi (data dalla quota di partecipanti sul totale dei lavoratori dipendenti), che
effettivamente risulta correlata positivamente a una maggiore densità sindacale, spingendo i due
26
autori a concludere positivamente sull’esistenza, in qualche misura, di norme di costume sociale
nella decisione di aderire a un sindacato tra i lavoratori italiani.
27
II.
IL DECLINO DELLA SINDACALIZZAZIONE
2.1 Il quadro generale
Rappresentanza e rappresentatività
Nello stimare la forza, il ruolo e la legittimità d’azione di un sindacato nell’arena delle relazioni
industriali in senso stretto o la sua influenza più generale nell’ambito della scena pubblica, si usa
tentare di individuarne il livello di rappresentanza del mondo del lavoro, concetto sovraordinato ma
strettamente interdipendente alla sua principale dimensione, cioè la rappresentatività effettiva dello
stesso: «con il primo concetto si fa riferimento alla capacità dei sindacati di collegarsi al mondo del
lavoro nel suo insieme e nelle sue diverse articolazioni, interpretandone le istanze. Con il secondo si
allude ai criteri di misurazione della rappresentatività, mediante i quali si pesano i diversi soggetti
sindacali nella loro azione di rappresentanza» [Bordogna e Carrieri 2008, 56-57]. Il concetto di
rappresentanza è quindi più di natura qualitativa, in quanto si fonda sì principalmente sulla
rappresentatività numerica del sindacato, ma comprende anche dimensioni non direttamente
osservabili, quali l’influenza effettiva sulle decisioni pubbliche, la capacità generale di influenzare i
valori predominanti nella società e l’intensità ed efficacia della partecipazione alle arene politico-
istituzionali. Specularmente la dimensione della rappresentatività ha una natura maggiormente
quantitativa, fondandosi sostanzialmente su indicatori quali il numero di aderenti delle diverse
organizzazioni sindacali, il numero di voti da loro riportato in occasioni elettorali (ad esempio nei
work councils a livello d’impresa o in occasione di referendum promossi dalle associazioni
sindacali), e la capacità di ottenere mobilitazioni e seguito tra i lavoratori (per esempio in occasione
di scioperi o manifestazioni) [Bordogna e Carrieri 2008]. Indica pertanto «la capacità
dell’organizzazione di unificare i comportamenti dei lavoratori in modo che gli stessi operino non
ciascuno secondo scelte proprie ma, appunto, come gruppo» [Giugni 2006, 61].
Tra questi indicatori del livello di rappresentatività del mondo del lavoro il più importante risulta
essere la consistenza in termini di iscritti, in quanto «l’adesione è una misura fondamentale del
potere di base delle organizzazioni di interessi e un indicatore della capacità di azione collettiva dei
lavoratori» [Ebbinghaus e Visser 2000, 59]. In particolare il tasso di sindacalizzazione risulta essere
una misura di grande utilità in quanto, pur non catturando tutte le dimensioni che concorrono a
determinare lo stato di salute e la capacità di influenza ed efficacia di azione di un sindacato, riesce
a fornirne un indicatore sintetico di relativamente facile rilevazione, in grado di descrivere il
cambiamento del peso delle associazioni sindacali nel tempo, tra diversi gruppi sociali, diversi
28
settori produttivi e tra i paesi, rendendo possibili confronti comparativi e analisi econometriche tali
da portare a risultati sufficientemente generali nello spiegare i fattori che influiscono sui
comportamenti sindacali [Visser 2006]. Il tasso di sindacalizzazione può essere calcolato a partire
da diverse definizioni operative, ma la misura più comunemente utilizzata è il tasso di
sindacalizzazione netto (net union density): il valore è ottenuto ponendo il numero dei membri del
sindacato attivi (quindi escludendo disoccupati e pensionati) al numeratore, mentre al denominatore
il numero degli occupati. Escludere pensionati e disoccupati dal computo della densità sindacale è
un procedimento necessario se si vuole misurare la forza di pressione effettiva che un sindacato può
porre sulle controparti (essendo l’astensione dal lavoro l’arma più incisiva nelle mani
dell’organizzazione): includere i membri non occupati distorcerebbe verso l’alto l’indicatore,
soprattutto in quei paesi in cui le federazioni dei pensionati rappresentano ormai una quota decisiva
del totale (come in Italia, col 48% dei membri pensionati, la Francia, col 20%, o il Belgio, col
18,2%) [Visser 2006]. Solitamente vengono incluse nel calcolo dei membri solo le principali
confederazioni e federazioni nazionali, escludendo la compagine dei sindacati autonomi o di piccole
dimensioni, in quanto spesso di scarsa consistenza (come in Germania, Belgio o Austria), o, seppure
di consistenza notevole, in quanto spesso non forniscono fonti sufficientemente trasparenti sul
numero degli iscritti, o a causa della loro numerosità e frammentarietà (come in Francia, Italia o
Spagna). In diversi paesi europei (soprattutto nordici), comunque, esiste un sistema di rilevazione
anche delle federazioni più piccole non affiliate alle principali confederazioni. In letteratura, però,
esistono diverse definizioni anche della densità sindacale netta, ponendo spesso problemi di
comparabilità. Spesso si preferisce calcolare il tasso rapportando i membri attivi dipendenti
(escludendo quindi, oltre a pensionati e disoccupati o ritirati, i lavoratori autonomi) al numero di
occupati dipendenti (coloro che percepiscono un salario o uno stipendio: di solito vengono esclusi
gli occupati non civili, in molti paesi non potendo per legge aderire a un’associazione sindacale);
altrove vengono rapportati i membri attivi (autonomi inclusi) al totale del lavoro dipendente
(sovrastimando il dato in quei paesi in cui le principali confederazioni affiliano federazioni di
lavoratori non dipendenti, come in Italia nel caso dei coltivatori diretti); infine a volte viene
calcolato il rapporto tra membri attivi occupati (di qualunque posizione professionale) e
occupazione totale.
La densità sindacale può essere rilevata con diverse metodologie: di regola ci si basa sui dati forniti
dalle organizzazioni sindacali stesse, considerando membro chiunque paghi regolarmente la propria
tessera venendo così considerato un iscritto da parte dell’associazione: in tal caso si pongono però
dei problemi di attendibilità relativi al numero effettivo dei tesserati, in quanto questioni di
prestigio, rivalità intersindacale o questioni di riconoscimento politico possono portare i dati ad
29
essere ritoccati verso l’alto. Inoltre i dati di fonte sindacale sono spesso forniti a un livello di
aggregazione abbastanza elevato, impedendo spesso la loro disaggregazione per sesso, età,
caratteristiche del posto di lavoro, etc…, tutti elementi particolarmente utili nello studiare il
comportamento sindacale. Una fonte che viene incontro a questi problemi sono perciò le diverse
surveys nazionali qualora, tra le altre cose, stimino l’adesione complessiva degli intervistati alle
organizzazioni sindacali, contravvenendo a possibili fonti amministrative distorte, e considerando
membri del sindacato solo coloro che si considerino tali. Questo permette di sdrammatizzare la
difficile scelta delle associazioni da includere nel computo dei lavoratori complessivamente
sindacalizzati, riuscendo a rilevare anche quegli affiliati a piccole federazioni o sindacati autonomi
che non abbiano un sistema di rendicontazione degli iscritti efficiente o trasparente quanto
solitamente quello delle maggiori confederazioni nazionali. La discontinuità dei dati basati su
indagini campionarie, però, rende preferibile l’utilizzo delle fonti amministrative dei sindacati
stessi, solitamente disponibili anno per anno [Visser 2006].
La sindacalizzazione nel secondo dopoguerra
Per comprendere lo stato attuale dei sindacati europei, bisogna innanzitutto considerarne
l’evoluzione, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, punto di partenza naturale in quanto è
solo dopo la caduta dei regimi autoritari e fascisti e a seguito della seconda guerra mondiale che le
organizzazioni dei lavoratori della maggior parte d’Europa possono riorganizzarsi liberamente,
ponendo la base per una rifondazione su nuove basi dei rapporti tra capitale e lavoro, nel passaggio
dal warfare state al welfare state. Nonostante questo, resta da tener presente che la maggior parte
delle esperienze sindacali europee sorte nel dopoguerra non sono nate dal nulla, ma si sono poste in
continuità con la più o meno lunga tradizione sindacale confederale antecedente il secondo conflitto
mondiale e spesso risalente alla fine del XIX secolo (come in Austria, Germania o Regno Unito),
rifondandosi sulla base delle organizzazioni forzatamente soppresse negli anni interbellici. Per i
pochi paesi rimasti fuori dal conflitto mondiale, poi, il 1945 risulta in effetti una data artificiosa,
non avendo creato nessuna reale frattura nell’evoluzione delle relazioni industriali di tali paesi (ad
esempio nel caso della Svezia, Svizzera e Irlanda) [Ebbinghaus e Visser 2000]. Complessivamente
però, fatte le dovute precisazioni, nel secondo dopoguerra, con le importanti anticipazioni negli anni
’30 degli Stati Uniti e della Svezia (col Wagner act del 1935 e il basic agreement di Saltsjöbaden
nel 1938, rispettivamente), si sarebbe avviata una vera e propria nuova fase nel percorso
dell’esperienza sindacale, nettamente contraddistinta dalla prima, caratterizzata dall’enorme
squilibrio di potere politico e istituzionale fra classi dominanti e classi subalterne, quindi innervata
da un’azione operaia intesa in senso difensivo e atta a ottenere il riconoscimento del mondo del
30
lavoro dalle proprie controparti, istituzionali o padronali [Baglioni 1998]. Nella seconda fase invece
avverrebbe un forte riequilibrio di forze tra capitale e lavoro, a favore del lavoro. Secondo Guido
Baglioni le caratteristiche principali di questa nuova fase nella storia del sindacato sarebbero: la
critica, politica e culturale, del capitalismo del laissez-faire, con l’istituzione di meccanismi di
regolazione del mercato; la percezione del lavoro dipendente come questione centrale del mondo
politico e sociale; la costituzione delle diverse fondamenta nazionali dei moderni sistemi di
relazioni industriali, fondati sulla contrattazione collettiva ai diversi livelli; la tutela contrattuale e
legislativa del mondo del lavoro intesa come acquisitiva e progressiva, e non più solo difensiva; lo
sviluppo dei sistemi nazionali di welfare, fornendo così cittadinanza sociale al mondo del lavoro
[Baglioni 2008]. A questa seconda fase ne seguirebbe quindi una terza, iniziata nella seconda metà
degli anni ’70 e ancora oggi perdurante, «contrassegnata dal ripiegamento del lavoro rispetto alle
imprese e al capitale, dalle difficoltà non contingenti dell’azione sindacale, dalla riduzione
complessiva della tutela» [Baglioni 2008, 59], che metterebbe in discussione i fondamenti della fase
precedente (con la crisi degli stati sociali, la flessibilizzazione del mercato del lavoro e il
coinvolgimento diretto dei lavoratori tramite tecniche di human resource management tese a
spiazzare il lavoro organizzato). Tali aggiustamenti avverrebbero a seguito di tre nuove tendenze,
sconosciute alle fasi precedenti: la globalizzazione produttiva e finanziaria dell’economia, che
produrrebbe una spiccata concorrenza internazionale, a causa anche della rapida crescita dei paesi di
recente industrializzazione; un generale squilibrio fra domanda e offerta di lavoro a sfavore della
seconda, fenomeno con radici strutturali (il cambiamento di composizione della forza lavoro,
trainato dal forte aumento della presenza femminile a partire dagli anni ’70, e seguito con la crescita
dell’economia dei servizi e la diffusione di forme di lavoro meno standardizzate); una crescente
attenzione da parte dei governi nel tenere sotto controllo gli elementi essenziali della stabilità e
competitività economica (inflazione, debito pubblico, costo del lavoro, etc…) [Baglioni 1998].
Indicativamente, per sottolineare la tendenza più ampia nella diminuzione di potere del lavoro
organizzato, negli anni ’80 in Europa il declino della sindacalizzazione è accompagnato da altri tre
indicatori dell’influenza sindacale: il calo della militanza (inteso come numero di giorni lavorativi
persi per sciopero persi), la diminuzione della quota dei salari all’interno del prodotto complessivo e
l’aumento della disoccupazione [Calmfors et al. 2002]. In questa fase la tutela fornita dal sindacato
risulterebbe perciò declinata in senso adattivo (superando sia la tutela difensiva che quella
progressiva, caratterizzanti rispettivamente le due fasi precedenti), e comporterebbe la revisione
delle precedenti acquisizioni salariali e normative con l’obbiettivo di favorire e difendere i livelli
occupazionali [Baglioni 2008].
31
Anno Stati Uniti Giappone Canada Germania1 Francia Italia Regno Unito
Irlanda
1946 - - - - *43,8 - **43,0 -1950 - - - 38,2 *30,2 43,6 **44,1 37,01955 - - - 36,2 *23,5 38,8 **44,5 -
1960 30,9 32,3 29,2 34,7 19,6 24,7 40,4 45,01965 28,2 35,3 26,7 32,9 19,5 25,5 40,3 -1970 27,4 35,1 31,0 32,0 21,7 37,0 44,8 53,01975 21,6 34,5 34,3 34,6 22,2 48,0 48,3 56,01980 22,3 31,1 34,0 34,9 18,3 49,6 50,7 57,01985 17,4 28,8 33,1 34,7 13,6 42,5 46,2 56,01990 15,5 25,4 32,9 31,2 10,1 38,8 39,3 51,11991 15,5 24,8 33,1 36,0 9,9 38,7 38,5 50,21992 15,1 24,5 33,2 33,9 9,9 38,9 37,2 49,81993 15,1 24,3 33,0 31,8 9,6 39,2 36,1 47,71994 14,9 24,3 32,6 30,4 9,2 38,7 34,2 46,21995 14,3 24,0 32,2 29,2 9,0 38,1 32,6 45,81996 14,0 23,4 31,9 27,8 8,3 37,4 31,7 45,51997 13,6 22,8 31,5 27,0 8,2 36,2 30,6 43,51998 13,4 22,5 31,0 25,9 8,0 35,7 30,1 41,51999 13,4 22,2 30,2 25,6 8,1 36,1 29,8 -2000 12,8 21,5 30,4 25,0 8,2 34,9 29,7 -2001 12,8 20,9 30,4 23,5 8,1 34,8 29,3 36,62002 12,6 20,3 30,3 23,2 8,3 34,0 29,2 36,32003 12,4 19,7 30,3 22,6 8,3 33,7 29,3 35,3
2004 12,0 19,3 29,6 22,2 8,0 33,9 28,8 -2005 12,0 18,8 29,9 21,6 8,0 33,8 28,8 -2006 11,5 18,3 29,6 20,7 7,9 33,4 28,2 -2007 11,6 18,3 29,4 19,9 7,8 33,3 28,0 -
Differenza (punti percentuali)
1946-1955 - - - -2,02 -20,3 -4,82 1,5 -1960-1970 -3,5 2,8 1,8 -2,7 2,1 12,3 4,4 8,01970-1980 -5,1 -4,0 3,0 2,9 -3,4 12,6 5,9 4,01980-1990 -6,8 -5,7 -1,1 -3,7 -8,2 -10,8 -11,4 -5,91990-2003 -3,1 -5,7 -2,6 -8,6 -1,8 -5,1 -10,0 -15,82004-2007 -0,4 -1,0 -0,2 -2,3 -0,2 -0,6 -0,8 -1960-1980 -8,6 -1,2 4,8 0,2 -1,3 24,9 10,3 12,01980-2003 -9,9 -11,4 -3,7 -12,3 -10,0 -15,9 -21,4 -21,7
Tab. 2.1. Tasso di sindacalizzazione netto in 17 paesi, 1946-2007, percentuali
Note: * Totale membri occupati; ** Tasso lordo (inattivi compresi) sul totale occupati; 1 Dal 1950 al 1990 dati relativi alla solaGermania Ovest; 2 1950-1955.
Fonti: 1946-1955 Ebbinghaus e Visser [2000]; 1960-1985, 2004-2007 OCSE; 1990-2003 Visser [2006]. Stati Uniti, Giappone,Canada: 1960-2007 OCSE; Irlanda: 1950-1985 Calmfors et al. [2002].
32
Anno Finlandia Svezia Norvegia Danimarca Olanda Belgio Spagna Svizzera Austria
1946 *34,7 **63,1 - ***51,1 42,0 ***26,3 - - 49,21950 *29,9 **67,3 - ***55,5 43,2 ***43,3 - - 61,01955 *28,7 **69,2 - ***61,1 36,6 ***47,8 - - 62,2
1960 31,9 66,13 60,0 56,9 41,7 41,5 - - 60,01965 38,3 66,3 59,0 58,2 40,1 39,9 - - 58,51970 51,3 67,7 56,8 60,3 38,9 42,1 - 28,9 62,81975 65,3 74,5 53,8 68,9 37,8 51,9 - - 59,01980 69,4 78,0 58,3 78,5 34,8 54,1 12,9 31,1 56,71985 69,1 81,3 57,5 78,2 28,0 52,4 12,5 - 51,61990 72,5 80,8 58,5 75,3 24,3 53,9 12,5 24,3 46,91991 75,4 80,6 58,1 75,8 24,1 54,3 14,7 22,7 45,51992 78,4 83,3 58,1 75,8 25,2 54,3 16,5 23,0 44,31993 80,7 83,9 58,0 77,3 25,9 55,0 18,0 22,9 43,21994 80,3 83,8 57,8 77,5 25,6 54,7 17,6 23,3 41,41995 80,4 83,1 57,3 77,0 25,7 55,7 16,3 22,8 41,11996 80,4 82,7 56,3 77,1 25,1 55,9 16,1 22,9 40,11997 79,5 82,2 55,5 75,3 25,1 56,0 15,7 22,6 38,91998 78,0 81,3 55,5 75,6 24,5 55,4 16,4 21,7 38,41999 76,3 80,6 54,5 74,1 24,6 55,1 16,2 21,0 37,42000 75,0 79,1 53,7 73,3 23,1 55,6 16,1 19,4 36,52001 74,5 78,0 52,8 72,5 22,5 - 16,1 17,8 35,72002 74,8 78,0 53,0 - 22,4 55,4 16,2 - 35,42003 74,1 78,0 53,3 70,4 22,3 - 16,3 - 34,4
2004 73,3 77,3 55,0 71,7 21,3 52,9 15,5 - 34,12005 72,4 76,5 54,9 71,7 21,0 52,9 15,0 - 33,02006 71,7 75,1 54,9 69,4 20,4 54,1 14,6 - 31,72007 70,3 70,8 53,7 69,1 19,8 52,9 - - -
Differenza (punti percentuali)
1946-1955 -6,0 6,1 - 10,0 -5,4 21,5 - - 13,01960-1970 19,4 1,64 -3,2 3,4 -2,8 0,6 - - 2,81970-1980 18,1 10,3 1,5 18,2 -4,1 12,0 - 2,2 -6,11980-1990 3,1 2,8 0,2 -3,2 -10,5 -0,2 -0,4 -6,8 -9,81990-2003 1,6 -2,8 -5,2 -4,9 -2,0 1,55 3,8 -6,56 -12,52004-2007 -3,0 -6,5 -1,3 -2,6 -1,5 0,0 -0,99 - -2,49
1960-1980 37,5 11,9 -1,7 21,6 -6,9 12,6 - - -3,31980-2003 4,7 0,0 -5,0 -8,1 -12,5 1,37 3,4 -13,38 -22,3
Tab. 2.1 (continua). Tasso di sindacalizzazione netto in 17 paesi, 1946-2007, percentuali
Note: * Totale membri occupati; ** Tasso lordo (inattivi compresi) sul totale occupati; *** Tasso lordo (inattivi compresi) sul totaleoccupati dipendenti; 3 1963; 4 1963-1970; 5 1990-2002; 6 1990-2001; 7 1980-2002; 8 1980-2001; 9 2004-2006.
Fonti: 1946-1955 Ebbinghaus e Visser [2000]; 1960-1985, 2004-2007 OCSE; 1990-2003 Visser [2006]. Svezia: 1946-1960Ebbinghaus e Visser [2000]; Spagna: 1980 Visser [2006]; Svizzera: 1970-2001 Visser [2006]; Austria: 1956-1965 Ebbinghaus eVisser [2000].
33
E’ quindi ora possibile presentare i dati sulla sindacalizzione in Europa e in alcuni paesi
extraeuropei a partire dall’immediato dopoguerra, e discuterne brevemente le tendenze di breve e
lungo periodo che hanno portato allo stato attuale di relativamente bassa densità sindacale. Nella
tabella 2.1 vengono riportati i tassi di sindacalizzazione netti (tranne ove diversamente specificato)
a partire dal 1946, intesi come il rapporto tra membri del sindacato che ricevono uno stipendio o un
salario e il numero di occupati in posizioni dipendenti, per 17 paesi OCSE, di cui 12 membri
dell’Unione Europea. I dati sono riportati per quinquennio, mentre dal 1990 si è preferito riportare il
dato annualmente, vista la specifica attenzione sugli andamenti della sindacalizzazione negli ultimi
anni.
Innanzitutto si può notare come a partire dal 1946 abbia inizio un aumento pressoché generalizzato
della densità sindacale tra i paesi considerati, destinato a durare fino alle soglie degli anni ’80. Tra il
1946 e il 1955, tra i dieci paesi per cui vi siano dati disponibili la tendenza alla crescita non è ancora
maggioritaria, in quanto cinque paesi presentano un aumento del proprio tasso di sindacalizzazione,
in alcuni casi molto consistente (6,1 punti per la Svezia, 13 punti per l’Austria, 21,5 per il Belgio e
10 per la Danimarca, ma solo 1,5 per il Regno Unito), mentre altri cinque vedono tale valore
declinare (di soli 2 punti per la Germania, 5,4 per l’Olanda, 4,8 per l’Italia, 6 per la Finlandia e
addirittura di 20,3 per la Francia). Nel decennio 1960-1970, invece, la crescita dei membri del
sindacato in rapporto ai lavoratori salariati diventa pressoché generale, mostrando degli aumenti in
ben undici paesi sui quindici per cui vi siano dati disponibili per il periodo (declinano solo
Norvegia, Olanda, Stati Uniti e Germania). Nel decennio successivo, quindi, la tendenza si
mantiene costante, in quanto l’aumento della densità sindacale continua a toccare undici paesi,
mostrando un declino solo nei rimanenti cinque (tra i diversi casi solo in cinque la tendenza si
inverte: passano da declino a crescita la Norvegia e la Germania, mente il contrario avviene in
Giappone, Francia e Austria). Con gli anni ’80, invece, si ha un vero e proprio punto di svolta per
quanto riguarda la consistenza numerica dei sindacati. Le linee di tendenza maturate e rafforzatesi
nei trentacinque anni precedenti si ribaltano rapidamente in quasi la totalità dei paesi analizzati, nel
senso di un marcato quanto generalizzato declino della membership sindacale sul totale del lavoro
dipendente. Sul complesso dei diciassette paesi per cui risultano disponibili dati analizzabili (con
l’ingresso della Spagna a seguito dalla sua uscita dalla dittatura franchista nel 1975), ben quattordici
presentano un declino del tasso di sindacalizzazione, mentre il trend di crescita si mantiene solo nei
tre paesi scandinavi (Finlandia, Svezia e Norvegia, in crescita già nel decennio precedente). Il
declino è improvviso quanto forte, toccando o anche superando i dieci punti percentuali in Italia,
Regno Unito, Olanda e Austria, e fermandosi a una perdita di otto in Francia. Negli anni seguenti,
dal 1990 al 2003, la tendenza continua inesorabilmente nella stessa direzione: sempre quattordici
34
paesi perdono iscritti rispetto agli occupati dipendenti, mentre solo tre presentano un aumento. In
particolare la Svezia e la Norvegia passano a una diminuzione della densità sindacale dopo due
decenni di crescita (la Finlandia invece continua a crescere per il quarto decennio di fila), mentre
Belgio e Spagna, in lieve decrescita nel decennio precedente (-0,2 e -0,4 punti rispettivamente),
passano a un aumento della membership relativa. Per quanto gli anni dal 2004 al 2007 coprano un
periodo troppo ristretto per trarne delle tendenze ben definite, è indicativo il fatto che nei quattro
anni considerati nessun paese presenti più aumenti del tasso di sindacalizzazione netto, dopo il
quadriennio 2000-2003 ove la situazione sembrava in via di stabilizzazione, e in alcuni casi di lieve
recupero [Feltrin 2006]: in Belgio la densità rimane costante, mentre negli altri quattordici paesi per
cui siano disponibili dati vi è una riduzione ulteriore, con la diminuzione più consistente (-6,5 punti
percentuali) per la prima volta in un paese scandinavo, cioè la Svezia (che, comunque, mantiene la
densità sindacale più elevata tra i paesi considerati, pari al 70,8%).
E’ quindi opportuno scomporre la lunga stagione della sindacalizzazione del secondo dopoguerra in
due macro periodi per cui disponiamo di dati sufficientemente omogenei: il ventennio 1960-1980, e
quello successivo, 1980-2000. Come delineato in precedenza si tratta di due periodi
qualitativamente differenti per quanto riguarda la sindacalizzazione del lavoro dipendente. E come
riassunto dallo scatter diagram riportato in figura 2.1 (in cui non sono riportati i casi di Svizzera e
Fig. 2.1. Variazioni della sindacalizzazione, 1960-1980 e 1980-2000, percentuali Fonte: elaborazione su dati Visser [2006] Note: per l’Irlanda 1980-2001
y = 0,227x - 27,77 R2 = 0,228 Sig. = 0,072
35
Spagna, per mancanza di dati continuativi relativamente al ventennio 1960-1980), nel primo
periodo la densità sindacale aumenta complessivamente in nove paesi sui quindici per cui risultino
dati disponibili (in media del 41%), diminuendo in sei (mediamente del 10%). Nel ventennio
incominciato negli anni ottanta, invece, la sindacalizzazione netta aumenta in soli quattro paesi
(Finlandia, Svezia, Belgio e Spagna, mediamente del 9%), mentre diminuisce nei restanti tredici
casi (del 30%). L’inversione di tendenza è perciò duplice, riguardando sia estensione che intensità:
non solo la maggior parte dei paesi smette di crescere, passando in modo generalizzato alla
tendenza opposta, ma, qualora persista, anche la velocità della crescita diventa minimale, mentre la
diminuzione risulta a sua volta consistente. Inoltre per la quasi totalità dei paesi nel lungo periodo
del secondo dopoguerra l’andamento della sindacalizzazione si configura come un fenomeno ciclo,
mentre in soli due paesi (Stati Uniti e Olanda), dagli anni ’60 a oggi la relazione assume
sostanzialmente una forma monotonica decrescente. Sempre in figura 2.1 è riportata la retta di
regressione che approssima i casi considerati, così da stabilire se esista una qualche correlazione tra
0,0
10,0
20,0
30,0
40,0
50,0
60,0
70,0
80,0
90,0
1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005
Fig. 2.2. Trends di sindacalizzazione, 1960-2007, percentualiFonte: OCSE
Stati Uniti Giappone Canada Germania Francia ItaliaRegno Unito Irlanda Finlandia Svezia Norvegia DanimarcaOlanda Belgio Spagna Svizzera Austria
36
la crescita negli anni ’60 e ’70 e quella del ventennio successivo. In effetti si trova una discreta
correlazione positiva (con r = 0,478) tra la crescita nel primo periodo e quella nel secondo,
connotata da una buona, e quasi significativa, intensità (beta pari a 0,227, con p-value a 0,072),
mettendo in luce come, in una certa misura, i paesi che abbiano saputo approfittare della forte
crescita della sindacalizzazione nel secondo dopoguerra siano riusciti ad ammortizzare meglio gli
effetti negativi del periodo storico successivo, probabilmente riuscendo a consolidare le proprie
forze grazie all’ottenimento di un maggiore riconoscimento giuridico e sociale in un’ottica di lungo
termine, inserendosi in meccanismi di scambio politico a partire da un periodo caratterizzato da
rapporti di forza più sbilanciati verso le associazioni sindacali. Questa sembra essere l’opinione
anche di Bernard Ebbinghaus e Jelle Visser, che trovano una correlazione simile per il periodo
1950-1995, portandoli a concludere come «la sindacalizzazione è il risultato
dell’istituzionalizzazione. Mobilitazioni di successo nel passato costituiscono un acquis per il
futuro. Più alto il livello di organizzazione nel 1975, più basso il declino durante gli “anni di crisi»
[Ebbinghaus e Visser 1999, 148].
E’ ora possibile cercare di stabilire se esiste qualche trend generale che accomuni o differenzi
sistematicamente i diversi paesi. La figura 2.2 mostra l’andamento della sindacalizzazione netta per
tutti i diciassette paesi analizzati nel periodo 1960-2007. Come si può immediatamente notare le
differenze sono notevoli, ed emergono diversi percorsi specifici nella crescita e diminuzione della
densità sindacale. Prima di arrivare a formulare una tipologia è perciò interessante spostare lo
sguardo sui valori medi della membership relativa tra i paesi analizzati. Nel grafico rappresentato in
figura 2.3 è perciò riportato l’andamento del tasso di sindacalizzazione netto, calcolato come media
0,00
10,00
20,00
30,00
40,00
50,00
60,00
70,00
1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005
Den
sità
sind
acal
e ne
tta
%Fig. 2.3. Tasso di sindacalizzazione medio, 1960-2006Fonte: elaborazione su dati OCSENote: Svezia dal 1963, Austria dal 1968, Svizzera dal 1976, Spagna dal 1981
Media +1 st.dev
Media
Media -1 st.dev
37
Tab. 2.2. Coefficienti di variazione, 1960-2006
Anno 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2006
CV 0,31 0,34 0,31 0,33 0,39 0,49 0,53 0,56 0,58 0,60 0,61
Fonte: elaborazione su dati OCSENote: Svezia dal 1963, Austria dal 1968, Svizzera dal 1976, Spagna dal 1981
non ponderata dei diciassette paesi presi in considerazione. Parallelamente ad esso è riportato
l’andamento della sindacalizzazione media, aumentata e diminuita di una deviazione standard, in
modo da stabilire se a partire dagli anni ’60 è possibile parlare di un trend comune convergente o
divergente. Innanzitutto dal grafico è percepibile visivamente la tendenza sopra descritta: a partire
dagli anni ’60, fino al 1979, la crescita media della sindacalizzazione è continua, mentre a partire
dal 1980 comincia un lungo declino che arriva fino a oggi, interrotto solo da una lieve increspatura
nei primi anni ’90. Analizzando i valori aumentati e diminuiti di una deviazione standard, si vede
invece come a partire dall’inizio del periodo esista una crescente divergenza dalla media,
inizialmente di scarsa o nulla intensità, diventando quindi più marcata a partire dalla seconda metà
degli anni ’70, ritornando poi a stabilizzarsi a cavallo del volgere del secolo. Questo sta a indicare
come le traiettorie della sindacalizzazione dei diversi paesi, pur concorrendo a costituire un trend
comune per i principali paesi europei e dell’OCSE, presentino una volatilità crescente nel tempo,
rendendo plausibile l’ipotesi che accanto a fattori ciclici e strutturali, che colpiscono in modo
sempre più simile i diversi paesi nell’era della globalizzazione, esistano fattori istituzionali che
concorrano a formare risposte diverse a stimoli simili, creando l’incredibile varietà di traiettorie e
livelli nel percorso della sindacalizzazione del secondo dopoguerra, come già mostrato dalla figura
2.2. Questo porta infatti Jelle Visser a concludere che «mentre nel dopoguerra i trends di crescita
economica, di struttura sociale e dell’occupazione sono largamente simili, spiegazioni politiche e
istituzionali del cambiamento nella rappresentanza dei sindacati sono le più importanti» [Visser
2002, 404].
Dal momento in cui però la deviazione standard è influenzata dal valore della media, può essere
utile infine analizzare i coefficienti di variazione, rispetto alla densità sindacale media, anno per
anno, in modo da individuare con più precisione i periodi in cui divergenza o convergenza si
accentuino, e quelli in cui domini una certa stabilità nelle tendenze. Nella tabella 2.2 vengono
perciò riportati i coefficienti di variazione per quinquennio a partire dal 1960, fino al 2006, ultimo
anno in cui vi siano dati disponibili per tutti e 17 i paesi. Da tali dati si ricava come, dopo un primo
quindicennio di oscillazioni intorno a un valore grosso modo stabile, il coefficiente cominci a
crescere costantemente, presentando una seppur lieve crescita anche nell’ultimo anno, il 2006.
Questo significa che effettivamente, come già mostrato dalla figura 2.3, dalla metà degli anni ’70 la
38
sindacalizzazione tra i diversi paesi comincia a divergere nettamente, con oscillazioni sempre più
ampie dalla media. Il dato più interessante però risulta il rallentamento di questa divergenza a
partire dalla seconda metà degli anni ’90, il che indica una sempre minore differenziazione cross-
nazionale prodotta dalle differenti caratteristiche istituzionali. Per quanto appaia quindi plausibile
poter ipotizzare un futuro rallentamento nelle divergenze tra paesi fino a un loro arresto, più
difficile risulta valutare se si stia avviando una fase in cui i tassi di sindacalizzazione dei diversi
paesi cominceranno a convergere, come ipotizzato da David Blanchflower [2007]. Basandosi sui
dati disponibili è perciò solo possibile cogliere il rallentamento della tendenza alla differenziazione,
che rimane comunque di segno lievemente positivo.
E’ ora possibile concludere chiedendosi se gli andamenti nella sindacalizzazione nel secondo
dopoguerra siano raggruppabili sotto diverse tipologie, accomunati da caratteri comuni. Un’ipotesi
0,0
10,0
20,0
30,0
40,0
50,0
60,0
70,0
80,0
90,0
1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005
Fig. 2.4a. Tasso di sindacalizzazione, 1960-2007 - ConservatoriFonte: OCSENote: Irlanda dal 1961; Svezia dal 1963
Giappone Germania Olanda Francia
0,0
10,0
20,0
30,0
40,0
50,0
60,0
70,0
80,0
90,0
Fig. 2.4b. Socialdemocratici
Danimarca SveziaFinlandia Norvegia
0,0
10,0
20,0
30,0
40,0
50,0
60,0
70,0
80,0
90,0
Fig. 2.4c. Liberali
USA Canada UK Irlanda
39
di partenza potrebbe consistere nel valutare se le traiettorie di crescita della densità sindacale siano
raggruppabili sotto la classica tipologia di Gøsta Esping-Andersen [2000], che divide i paesi a
seconda del regime di welfare adottato (intendendo con tale termine le diverse configurazioni
derivanti dall’interazione tra mercati del lavoro, famiglie e stato). I tre tipi ideali prefigurati
dall’autore, con riferimento ai diciassette paesi qui analizzati, sono il regime Liberale (Stati Uniti,
Regno Unito, Canada, Irlanda), il regime Conservatore (Italia, Spagna, Francia, Olanda, Belgio,
Germania, Austria, Svizzera, Giappone) e il regime Socialdemocratico (Svezia, Finlandia,
Norvegia, Danimarca). Esping-Andersen trova come i diversi sistemi di relazioni industriali siano
correlati con le diverse tipologie di regimi di welfare. In particolare i regimi socialdemocratici
sarebbero caratterizzati da un alto grado di copertura contrattuale (inteso come la proporzione di
lavoratori coperti da un contratto di lavoro collettivo), e da una centralizzazione e un coordinamento
della contrattazione collettiva medio-alta. I regimi liberali, al contrario, presenterebbero livelli di
copertura medio-bassi, e una centralizzazione e coordinamento della contrattazione decisamente
scarsi. Infine i regimi conservatori non presenterebbero un modello univoco, godendo comunque di
un’elevata copertura contrattuale, e un medio livello di centralizzazione e coordinamento. E’ quindi
ragionevole aspettarsi che anche le traiettorie della sindacalizzazione presentino dei tratti comuni tra
regimi simili, per quanto inevitabilmente non sia possibile adattare esattamente ogni paese agli
stretti confini di un tipo ideale: un problema ulteriore consiste nella lunghezza del periodo
analizzato, «principalmente per l’incapacità delle tipologie di tener conto dei cambiamenti»
[Esping-Andersen 2000, 149]. In figura 2.4 sono perciò riportati gli andamenti del tasso di
sindacalizzazione netto per quattro paesi per ogni tipologia. I regimi conservatori presentano un
andamento tutto sommato affine, caratterizzato da una fase iniziale di stabilità, con lievi oscillazioni
sopra e sotto la media, e da un marcato declino a partire dagli anni ottanta, che tende a rallentare sul
finire degli anni ’90. In particolare la Germania mostra un picco di iscrizioni nel 1991, derivante
dall’unificazione tra Germania Est e Ovest e dall’improvvisa acquisizione del grande numero di
tesserati provenienti dal regime socialista, tesi comunque a diminuire rapidamente a seguito della
normalizzazione del paese [Streeck e Visser 1998]. I regimi liberali risultano invece più variegati:
Regno Unito e Irlanda, pur con livelli diversi, mostrano un trend quasi identico, anche se meno
lineare nella fase discendente per l’Irlanda. A partire dagli anni ’80 però la tendenza di entrambi
comincia a somigliare nettamente a quella degli Stati Uniti, che a sua volta si differenzia dagli altri
per il periodo 1960-1980, avendo cominciato per primo la fase di declino. Il Canada invece non
mostra affinità col resto del gruppo, essendo caratterizzato da una certa stabilità (il suo tasso di
sindacalizzazione del 1960 è quasi identico a quello del 2007). Una spiegazione dell’ “anomalia
canadese” potrebbe risiedere nel fatto che in questo paese sono garantite o addirittura incoraggiate a
40
livello legislativo le clausole contrattuali di union shop (detto anche post-entry closed shop, regola
contrattata collettivamente che obbliga all’iscrizione al sindacato, o al semplice pagamento della
relativa quota, tutti i lavoratori assunti in uno stabilimento coperto da condizioni di lavoro
contrattate collettivamente da un’associazione sindacale) [Taras e Ponak 2001], clausole invece
fortemente scoraggiate nel Regno Unito a partire dalla legislazione conservatrice degli anni ’80, e
indebolite negli Stati Uniti già a partire dal 1947 con l’approvazione del Taft-Hartley Act, che ha
messo fuori legge il pre-entry closed shop (cioè l’obbligo per le imprese, stabilito contrattualmente,
di assumere solo membri del sindacato maggiormente rappresentativo in azienda), lasciando ai
singoli stati la possibilità di varare Right to work laws, tese a impedire anche la pratica dell’union
shop (il che aiuterebbe a spiegare il declino precoce nella densità sindacale degli Stati Uniti). Una
peculiarità del Regno Unito, tesa a mettere in luce la difficoltà delle tipologie a tener conto dei
cambiamenti interni nel trascorrere del tempo, è che la sua curva, nel ventennio 1960-1980, risulta
estremamente simile a quelle dei regimi socialdemocratici, per poi assomigliare sempre più a quella
degli Stati Uniti nel ventennio successivo. Come nota Esping-Adersen, «se avessimo condotto i
nostri confronti nei primi decenni del dopoguerra, quasi certamente avremmo messo Gran Bretagna
e paesi scandinavi nello stesso raggruppamento […]. Nei confronti condotti oggi, la Gran Bretagna
appare sempre più liberale. E’ un caso di passaggio di regime» [Esping-Andersen 2000, 149]. Infine
i regimi socialdemocratici si dimostrano i più affini, con la parziale eccezione della Norvegia. Non
solo i trends sono nettamente assimilabili, ma anche i livelli di sindacalizzazione risultano assai
vicini. Questo, come verrà approfondito in seguito, può derivare dal forte influsso sulla densità
sindacale esercitato dall’adozione del sistema Ghent nella gestione del sussidio di disoccupazione,
presente in Svezia, Finlandia e Danimarca, ma non in Norvegia. Il Belgio, non riportato nei grafici,
che adotta in parte tale sistema, presenta in effetti una curva molto più vicina ai paesi
socialdemocratici di quanto non sia ai regimi conservatori in cui solitamente viene classificato.
In conclusione possiamo dire che, nonostante le difficoltà presentate da ogni tipologia
sufficientemente inclusiva, il raggruppamento dei paesi sopra proposto presenta qualche grado di
plausibilità, mettendo ancora una volta in luce come le differenze istituzionali e sistemiche
influiscano sul comportamento sindacale in misura maggiore dei cambiamenti ciclici dell’economia
e della struttura sociale che interessano sempre più omogeneamente tutti i paesi.
41
2.2 Perché si riduce la sindacalizzazione netta?
Nel tentare di spiegare un fenomeno così complesso come l’andamento ciclico della
sindacalizzazione, tanto variegato e caratterizzato da differenze di tale intensità, è necessario un
approccio multivariato, che prenda cioè in considerazione diverse categorie di variabili e le
interazioni tra le stesse come explanans della variabile dipendente. Come suggeriscono Bernard
Ebbinghaus e Jelle Visser [1999] è possibile suddividere in tre categorie i diversi approcci utilizzati
storicamente nello spiegare l’andamento della densità sindacale. Innanzitutto vi sono gli approcci
ciclici, tesi a ricondurre le oscillazioni nella membership relativa dei sindacati a fattori legati al ciclo
economico, ipotesi inizialmente avanzata da John R. Commons e colleghi già nel 1918 [Calmfors et
al. 2002]. La sindacalizzazione seguirebbe quindi i cicli di espansione e recessione dell’economia, e
le variabili principali nella spiegazione del fenomeno risulterebbero i cambiamenti nei tassi
d’inflazione o di disoccupazione. Un secondo tipo di approccio è quello strutturale, che individua la
spiegazione dell’andamento alterno nelle fortune del sindacato nei cambiamenti di lungo termine
nella struttura dell’economia e della società: «in quest’ottica, il declino del sindacato risulta dal
cambiamento delle strutture di classe, dai nuovi modi di produzione, dai mercati del lavoro
flessibili, o dalla diffusione di valori sociali individualistici» [Ebbinghaus e Visser 1999, 136].
Infine abbiamo l’approccio istituzionale (o configurazionale), teso a cogliere le differenti specificità
nazionali nel mediare e fornire risposte differenti a stimoli di carattere ciclico o strutturale
largamente simili. Questo approccio risulta perciò complementare agli altri due, i quali
singolarmente presi trovano difficoltà non indifferenti nello spiegare le persistenti (e crescenti)
diversità nei livelli e nelle traiettorie della sindacalizzazione tra diversi paesi, in quanto tendenti a
spiegare le variazioni nella sindacalizzazione rifacendosi a una logica omogenea, valida nonostante
le diverse configurazioni istituzionali. Secondo un’ottica configurazionale invece le «differenze
istituzionali “strutturano le alternative”; pongono le costrizioni e le opzioni per gli attori corporati
come i sindacati, le imprese o le associazioni imprenditoriali nello scegliere le loro risposte»
[Ebbinghaus e Visser 1999, 136]. E’ perciò necessario tenere presente tutte e tre le categorie di
variabili, e considerare i cambiamenti nella sindacalizzazione del lavoro dipendente nel tempo come
il risultato di una continua interazione tra fattori appartenenti a tipologie diverse. Il fatto, inoltre,
che la figura 2.3 riportata nel paragrafo 2.1 mostri sia un comune e netto cambiamento del trend di
crescita nel 1980, sia una persistente differenziazione cross-nazionale del tasso di sindacalizzazione
(come dimostrato dai coefficienti di variazione riportati in tabella 2.2 sempre del paragrafo
precedente), è un’ulteriore dimostrazione del fatto che siano all’opera contemporaneamente fattori
ciclici, strutturali e istituzionali. Come notano Daniele Checchi e Jelle Visser, «un comune
42
cambiamento di trend suggerisce forze strutturali simili e cicli con del tutto simili tempistiche e
impatti. Persistenti e crescenti differenze tra paesi sono una prova prima facie che i sindacati e la
loro membership siano da osservare nel contesto delle istituzioni specifiche ai vari mercati del
lavoro nazionali» [Checchi e Visser 2005, 1]. Nei seguenti paragrafi verranno perciò esposti i
principali risultati relativi alle tre diverse tipologie di variabili, cominciando dai fattori ciclici e
concludendo con quelli strutturali.
2.2.1 Variabili cicliche
Le variabili cicliche sono generalmente divise in due categorie: quelle relative al ciclo economico e
quelle relative al ciclo politico. Alla prima categoria vengono associate sia la misura della
disoccupazione (intesa come aumento anno per anno, per catturarne gli effetti di breve periodo, o
come livello complessivo, in relazione agli effetti di lungo periodo) che dell’inflazione, mentre con
la seconda si tende a fare riferimento al ciclo elettorale (alternanza di governi pro e anti-union) e al
tipo di politiche pubbliche messe in essere (di matrice keynesiana o neo-liberale) [Ebbinghaus e
Visser 1999]. Una terza variabile ciclica infine può essere considerata il ricorso allo sciopero,
fattore a sua volta strettamente collegato all’andamento del ciclo economico [Checchi e Visser
2005].
Disoccupazione
La disoccupazione, in generale, risulta avere un effetto negativo sulla consistenza numerica relativa
del sindacato. Dal momento che una crescita della disoccupazione tende, a parità di altri fattori, a
far decrescere il tasso di sindacalizzazione netto (che esclude la forza lavoro disoccupata), ciò
significa che in periodi di depressione vi è una tendenza tra i lavoratori rimasti occupati ad
abbandonare il sindacato. Secondo le teorie del ciclo economico ciò avverrebbe in quanto «la
disoccupazione aumenta i costi e diminuisce i benefici dell’adesione al sindacato per i lavoratori. La
membership diventa relativamente più costosa e i sindacati possono ottenere di meno. Inoltre, la
disoccupazione tende a rendere il reclutamento più costoso per i sindacati, dal momento in cui
aumenta la capacità dei datori di lavoro nel resistere all’organizzazione dei sindacati e incrementa il
timore tra i lavoratori nel dimostrare solidarietà» [Ebbinghaus e Visser 1999, 139]. Allo stesso
modo, nella misura in cui la disoccupazione riduce il livello di domanda aggregata, l’eventuale
perdita di produzione associata a scioperi o conflitti risulterebbe meno drammatica per i datori di
lavoro, mettendoli in una posizione di forza rispetto al lavoro organizzato, rendendo i lavoratori
inclini a “ricercare la pace” con l’impresa, tenendosi alla larga dai sindacati. [Calmfors et al. 2002].
43
La disoccupazione però, come tutte le variabili cicliche e strutturali, risulta sempre filtrata dalle
configurazioni istituzionali dei diversi paesi, portando così a effetti differenti a partire da uno
stimolo del tutto simile. Condizioni legislative o accordi collettivi a un elevato livello di
istituzionalizzazione, favorevoli a una gestione contrattata coi sindacati degli esuberi e delle
politiche per l’occupazione, potrebbero rendere più appetibile l’iscrizione in periodi di crisi, in
quanto l’appartenenza a un sindacato costituirebbe per il lavoratore una spesa assicurativa
necessaria per mantenere il posto di lavoro o trovarne uno nuovo rapidamente una volta licenziato.
Pertanto, nel determinare l’effetto che una crescita del tasso di disoccupazione verrà a determinare
sulla membership relativa dei sindacati, fattori da tenere a mente risulteranno soprattutto il livello di
rappresentanza dei lavoratori a livello d’impresa (spesso legittimati a contrattare i licenziamenti), e
l’organizzazione dell’assicurazione contro la disoccupazione [Calmfors et al 2002].
Gli studi più recenti risultano comunque generalmente concordi nel trovare che la disoccupazione, a
parità di altri fattori, eserciti un effetto negativo sulla crescita della densità sindacale netta, e questo
sia nel breve che nel lungo periodo [Calmfors et al. 2002; Visser 2002; Checchi e Visser 2005; Lee
2005]. Tale correlazione rimarrebbe di intensità simile considerando tutto il periodo del secondo
dopoguerra: Daniele Checchi e Jelle Visser [2005] dimostrano infatti come i valori siano del tutto
simili e parimenti significativi sia per il periodo 1950-1975 che per il periodo 1975-1996. Esistono
però delle differenze nell’effetto della disoccupazione sulla densità sindacale dettate dalle diverse
configurazioni istituzionali tra paesi. Come verrà approfondito nel paragrafo 2.2.3, e come messo in
luce dagli stessi studi, nei paesi in cui vige il sistema Ghent nella gestione dell’assicurazione
volontaria contro la disoccupazione (sistema per cui i sussidi di disoccupazione di natura
assicurativa volontaria vengono finanziati dalla fiscalità generale e supervisionati dallo stato, ma
gestiti da agenzie, per quanto formalmente indipendenti, legate alle associazioni sindacali e
solitamente divise per settore, in modo da ricalcare le divisioni determinate dalle federazioni
sindacali di categoria [Clasen e Viebrock 2008]), la disoccupazione risulta avere un effetto positivo
sulla densità sindacale netta. L’effetto positivo si mantiene, curiosamente, anche nel Regno Unito,
non fornito ad oggi di un sistema di gestione sindacale dei sussidi di disoccupazione né di un
controllo da parte del sindacato delle strutture di collocamento [Brugiavini et al. 2002]. Tale
risultato configura un’anomalia nel panorama internazionale, anche una volta tenuto conto delle
differenze istituzionali [Freeman e Pelletier 1990; Calmfors et al. 2002].
Una delle caratteristiche particolarmente negative della disoccupazione è la sua capacità di
esercitare effetti negativi sulla densità sindacale persistenti nel lungo termine. Anche gli shock
temporanei sono destinati a esercitare un effetto continuo per diverso tempo, rendendo difficoltoso
un riaggiustamento rapido della sindacalizzazione sui valori precedenti all’aumento temporaneo del
44
tasso di disoccupazione. Questo «sembrerebbe implicare, per esempio, che l’aumento della
disoccupazione in Europa che si è registrato a partire dalla metà degli anni Settanta fino alla metà
degli anni Ottanta non abbia esercitato tutto il suo effetto sul livello di sindacalizzazione. Pertanto,
ne consegue anche che un ritorno a un livello di disoccupazione notevolmente inferiore (ma non
così basso come era all’inizio degli anni Settanta) negli anni successivi non debba implicare
un’inversione della tendenza dei livelli di sindacalizzazione» [Calmfors et al. 2002, 52]. Questo
sarebbe coerente con l’ipotesi della Social custom theory (cfr. par. 1.2.2), in quanto ogni caduta del
tasso di sindacalizzazione causata da shock temporanei tenderebbe a essere persistente, riducendosi
la pressione sociale tra colleghi [Checchi e Visser 2005]. Ciò collimerebbe anche con l’esistenza di
una certa inerzia della densità sindacale, essendo la densità attuale fortemente correlata a quella
passata [Ebbinghaus e Visser 1999]. Considerando perciò il forte aumento della disoccupazione a
partire dalla crisi degli anni ’70 in tutta l’Europa occidentale e negli Stati Uniti è facile fornire un
primo collegamento con le parallele difficoltà sperimentate dai sindacati nello stesso periodo.
Inflazione
L’effetto dell’inflazione sul tasso di sindacalizzazione netto risulta più ambiguo, non portando
sempre a conclusioni generalizzabili. A livello teorico si suppone che l’inflazione giochi un effetto
positivo sulla membership relativa del sindacato, per un duplice motivo. In periodi a elevata
inflazione i salari reali decrescono, rendendo più probabile l’iscrizione sindacale per mantenere
inalterate le condizioni salariali in una logica assicurativa. Inoltre gli aumenti salariali strappati
dalla contrattazione, che esercitano un effetto di pressione inflazionistica, si tradurrebbero in un
“premio” per il sindacato in termini di maggiori iscritti. In caso di manovre monetarie di carattere
espansivo, poi, i datori di lavoro sarebbero meno restii nel concedere aumenti ai dipendenti,
potendo scaricare con più facilità i relativi costi sul mercato. Tale impostazione teorica però non
terrebbe conto dei problemi del free-riding, in quanto aumenti o diminuzioni salariali in termini
reali sono di norma disponibili a iscritti o meno in eguale misura. Infatti spesso nei modelli di
regressione basati su un numero sufficientemente ampio di paesi le misure dell’inflazione non
risultano significative, solitamente di scarso impatto e di carattere contraddittorio [Calmfors et al.
2002]. Anche qui rientrano in gioco specificità nazionali nei sistemi di relazioni industriali: in
particolare «possiamo aspettarci una relazione positiva tra inflazione e crescita della membership in
combinazione con accresciuti conflitti inter-gruppo, ove differenti gruppi di lavoratori […]
ingaggino una gara per mantenere le proprie posizioni relative […]. Questo potrebbe spiegare
perché l’inflazione è stata più consistentemente correlata con la crescita dei sindacati nei paesi con
relazioni industriali oppositive e pluraliste, come nei paesi anglosassoni, almeno fino alla vittoria
45
del monetarismo» [Ebbinghaus e Visser 1999, 139]. Una competizione identitaria nel perseguire gli
stessi obiettivi di difesa dall’inflazione potrebbe fornire da incentivo nello schierarsi in formazioni
contrapposte, aumentando la densità complessiva. Effettivamente, in Calmfors et al. [2002], l’unico
modello che trovi una correlazione positiva e significativa tra il tasso d’inflazione e la crescita
sindacale si basa su un sottocampione di nove paesi, tra i quali l’Italia, il Regno Unito, la Francia e
la Spagna, paesi caratterizzati da una certa frammentazione nella rappresentanza e un livello medio-
basso di coordinamento [Ebbinghaus e Visser 2000; Calmfors et al. 2002].
Più recentemente, Checchi e Visser [2005] trovano una correlazione positiva (ma non significativa)
tra il tasso d’inflazione e la crescita della membership sindacale relativa, su un campione di 14 paesi
OCSE. Anche Cheol-Sung Lee [2005] trova la stessa correlazione positiva su un campione di 16
paesi, per quanto significativa in un solo modello. All’opposto, invece, il tasso di accelerazione
dell’inflazione esercita un effetto negativo e significativo, a causa delle difficoltà per i sindacati nel
difendere il tenore di vita dei lavoratori in periodi di crescente aumento dei prezzi. Tale effetto
verrebbe però neutralizzato in quei paesi in cui esistano norme o clausole contrattuali che
stabiliscano qualche forma di indicizzazione dei salari al costo della vita, correlando positivamente
al tasso di sindacalizzazione l’interazione tra le due variabili. Tale effetto non sarebbe però
omogeneo nell’intero periodo del secondo dopoguerra. L’accelerazione dell’inflazione risulta
associata in modo particolarmente negativo alla sindacalizzazione nel periodo 1950-1975, mentre la
correlazione diverrebbe ancora una volta non significativa (per quanto lievemente positiva) nel
periodo 1975-1996, «quando i paesi occidentali democratici hanno seguito un sentiero di
stabilizzazione basato su valuta forte, deflazione e alta disoccupazione» [Checchi e Visser 2005,
12].
In un periodo quale quello attuale, perciò, caratterizzato da bassa inflazione (in particolare per i
paesi dell’Unione Europea, in cui la stabilità dei prezzi è assicurata dalla Banca Centrale Europea
stabilendo un tasso di inflazione comune al massimo del 2%), gli spazi per i sindacati
nell’assicurare ai propri membri un costante aumento dei salari reali si riducono notevolmente
(soprattutto nella fase a basso incremento di produttività attraversata dalle economie europee). C’è
inoltre la possibilità che «ridurre l’inflazione a zero renderà i contratti a tempo indeterminato e
sindacalmente regolati meno attrattivi per i datori di lavoro […]. Ci si può aspettare che bassa
inflazione e bassa crescita della produttività perduranti aumenteranno le domande delle imprese per
maggiore flessibilità contrattuale, minori livelli di protezione dell’impiego, minori tassi di
sostituzione e salari minimi più bassi» [Visser 2005, 295]. In tal modo, riducendosi gli spazi entro
cui contrattare e l’utilità per i datori di lavoro di avere contratti sufficientemente lunghi per ridurre
le incertezze dovute alle fluttuazioni dei prezzi, vi è il rischio che «non ci sarà più niente da
46
negoziare a livello di settore, e la contrattazione a tale livello perderà la sua funzione quando il suo
ruolo di determinazione dei salari sarà indebolito» [Visser 2005, 295], creando condizioni
potenzialmente molto pesanti per il futuro della rappresentanza sindacale.
Clima politico
Il cambiamento del clima politico, inteso come l’alternarsi di governi pro e anti-labour, è una
variabile strettamente collegata ai fattori istituzionali di sostegno alle rappresentanze sindacali.
Teoricamente l’effetto sulla densità sindacale complessiva derivante da governi di carattere
laburista può essere ambiguo. La vittoria di coalizioni pro-union può derivare da una maggiore
adesione tra i cittadini a valori solitamente associati con le politiche sindacali, il che si tradurrebbe
parallelamente in una maggiore adesione al sindacato. Allo stesso modo, però, la vittoria di
coalizioni anti-union potrebbe spingere i lavoratori a cercare maggiore protezione nelle
organizzazioni sindacali, sentendosi minacciati dalla sterzata a destra del clima politico [Checchi e
Visser 2005]. Empiricamente, la variabile relativa alla composizione del governo in carica risulta
avere una scarsa capacità predittiva e porta a risultati ambigui. La presenza all’esecutivo di
coalizioni di centrosinistra risulta non avere alcun effetto significativo [Calmfors et al. 2002],
mentre una composizione conservatrice del governo risulta avere un effetto negativo e significativo
[Lange e Scruggs 1999], o negativo ma non significativo [Lee 2005]. Checchi e Visser [2005]
trovano invece come la percentuale di voti ottenuti dalle coalizioni di centrosinistra nelle elezioni
più vicine sia correlata negativamente e in modo significativo, per quanto l’effetto sia di lieve
entità, alla densità sindacale. Secondo i due autori un’ipotesi valida potrebbe essere che l’aderire a
un sindacato e votare per partiti di centrosinistra siano opzioni parzialmente sostitutive. La
protezione sul mercato del lavoro verrebbe cercata in modo diverso a seconda della situazione
politica: in caso di coalizioni laburiste al governo la protezione del mondo del lavoro verrebbe
cercata in arrangiamenti di tipo legislativo, provocando un riflusso dal sindacato, mentre in caso le
garanzie non siano ottenibili pubblicamente grazie a coalizioni pro-labour ci si rivolgerebbe più
spesso alle associazioni sindacali. Ciò spiegherebbe i rapporti ambigui delle associazioni sindacali
rispetto a uno spostamento ulteriore della protezione del lavoro dalla contrattazione collettiva alla
tutela legislativa (storicamente associata alle coalizioni di centrosinistra), il che porta Tiziano Treu,
discutendo dei necessari riequilibri tra i due ambiti nelle società post-fordiste, a ritenere che «non a
caso il rapporto tra legge e contratto continua a essere uno degli aspetti più problematici» [Treu
2007, 97]. Un chiaro esempio è fornito dalle diverse opinioni dei sindacati europei rispetto
all’istituto del salario minimo. Secondo Guido Baglioni, con la sua introduzione, «al sindacato,
principale o esclusivo attore che produce tutela, viene tolta una parte del suo ruolo naturale, nel
47
senso che si ridimensiona la prerogativa di autorità negoziale» [Baglioni 2008, 145]. Ed è
indicativo che, accanto ai paesi che adottano tale sistema, «gli assenti corrispondono ad un nutrito
gruppo di paesi che hanno un tratto significativo in comune: sono quelli con esperienze sindacali
ancora forti o abbastanza forti e con relazioni industriali relativamente consolidate. Parlo dei paesi
scandinavi, della Germania e dell’Italia» [Baglioni 2008, 143]. L’ipotesi di una concorrenza tra
associazioni sindacali e partiti di centrosinistra nel fornire diversi tipi di protezione del mondo del
lavoro risulta perciò plausibile, ponendo problemi inediti nella collaborazione tra due movimenti
storicamente strettamente associati.
Il clima politico misurato semplicemente come composizione partitica del governo (o percentuale
di voti ottenuti dalle coalizioni di centrosinistra alle elezioni politiche) risulta quindi un predittore
labile, dal momento in cui dagli anni ’80 riforme istituzionali del mercato del lavoro e dei sistemi di
relazioni industriali storicamente associate coi partiti conservatori sono avvenute anche in presenza
di governi di orientamento socialdemocratico. Questo porta a concludere Checchi e Visser che, dal
momento in cui si tenga conto di questo, «non c’è bisogno di un’addizionale variabile “catch all”.
La misurazione diretta dei cambiamenti istituzionali, attraverso le politiche piuttosto che la
composizione governativa, è sicuramente più precisa» [Checchi e Visser 2005, 17]. Per questo
motivo se ne rimanda la relativa discussione al paragrafo 2.2.3.
Sciopero
Partendo dall’ipotesi di fondo della Social custom theory, Daniele Checchi e Giacomo Corneo
ritengono che la «partecipazione agli scioperi può anche essere vista come un indicatore di fattori di
costume sociale che spingono verso l’alto la membership sindacale» [Checchi e Corneo 2000, 170].
In occasione di sciopero, molti sindacati sono dotati di casse di resistenza, utili nel fornire un
sussidio ai propri membri, teso a ripagare il lavoratore della paga perduta a causa della
partecipazione all’attività di sciopero. Questo costituirebbe un incentivo selettivo con l’effetto di
attrarre un maggiore numero di lavoratori all’iscrizione [Visser 1996]. In occasione di aumenti della
conflittualità e della crescita dei partecipanti agli scioperi è possibile, poi, che si crei un clima di
maggiore pressione e controllo sociale tra i lavoratori, a causa del quale gli incentivi reputazionali
per il singolo potrebbero diventare decisivi nel decidere di aderire all’organizzazione sindacale dei
colleghi. Allo stesso modo, nel momento in cui l’attività conflittuale è tesa altresì a fornire incentivi
identitari al gruppo e ai singoli, in modo da facilitarne la costituzione di basi per il calcolo costi-
benefici (come sostenuto da Pizzorno, cfr. par. 1.2.1), un aumento dell’attività di sciopero potrebbe
coincidere con una parallela ridefinizione identitaria dei lavoratori in termini più vicini alla
partecipazione sindacale, aumentando gli iscritti. Questa seconda ipotesi appare più coerente di
48
quella derivata dalla Social custom theory, in quanto, come sostiene Jon Elster, «quando le norme
sono internalizzate sono seguite anche quando le violazioni non sarebbero osservate e quindi non
esposte a sanzioni. La vergogna o la sua anticipazione è una sanzione interna sufficiente […]. Le
persone hanno un giroscopio interno che li tiene fermamente attaccati alle norme,
indipendentemente dalle effettive reazioni degli altri. [… Inoltre] le persone solitamente non
disapprovano gli altri quando manchino di sanzionare persone che manchino di sanzionare persone
che manchino di sanzionare persone che manchino di sanzionare la violazione di una norma. Di
conseguenza alcune sanzioni devono essere eseguite per altri motivi che la paura di essere
sanzionati» [Elster 1989, 105]. Pertanto è difficile che si crei una catena di sanzioni di secondo
ordine o superiore che punisca chi non sanzioni socialmente i non iscritti, come sostenuto da
Checchi e Corneo.
Passando ai risultati empirici, Checchi e Visser [2005] trovano come effettivamente variazioni
dell’attività di sciopero (calcolato come estensione relativa del conflitto, cioè dal rapporto tra
scioperanti e lavoratori dipendenti), intese come allontanamento (in positivo o in negativo) dalla
media nazionale, risultino correlate positivamente con una crescita della densità sindacale. L’effetto
non è particolarmente intenso, ma si manterrebbe costante in tutto il periodo considerato (1950-
1996), anche disaggregando per sottoperiodi (1950-1975 e 1975-1996). Per la dimensione che più
approssima la costituzione di un costume sociale o la creazione di un’identità condivisa (cioè il
numero relativo di lavoratori coinvolti), è possibile notare come gli anni ’80 rispetto ai ’70
costituiscano una brusca diminuzione della partecipazione nella maggior parte dei paesi (con le
rilevanti eccezioni di Danimarca e Svezia, che passano a livelli complessivamente più alti di
conflitto). Negli anni ’90, tra gli otto paesi analizzati da Lorenzo Bordogna e Gian Primo Cella
[2002] (Danimarca, Francia, Germania, Italia, Svezia, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti), la
tendenza è ulteriormente declinante, tranne che per un lieve incremento in Germania e Olanda.
Accanto a questa diminuzione tendenziale della partecipazione agli scioperi, si accompagna però
anche una tendenza alla sua trasformazione. A partire grosso modo dagli anni ’80, la percentuale di
giorni persi per sciopero nel settore manifatturiero rispetto al totale delle giornate perse è in costante
diminuzione in quasi tutti i paesi analizzati [Bordogna e Cella 2002], venendo alla luce così una
situazione di “terziarizzazione del conflitto”, come definita da Aris Accornero [1985], intesa sia
come diffusione del conflitto nel settore dei servizi, sia come maggiore coinvolgimento di soggetti
“terzi”, cioè principalmente gli utenti. Questo può costituire un problema per le organizzazioni
sindacali storiche, in quanto specialmente nel settore dei servizi «le forme di sciopero più “efficaci”
e “dirompenti” non possono essere rese con i tradizionali indicatori (segnatamente la partecipazione
e i giorni persi)» [Bordogna e Cella 2002, 600]. Brevi scioperi nei servizi pubblici che coinvolgano
49
un basso numero di partecipanti possono risultare molto più efficaci di conflitti nel settore
manifatturiero che coinvolgano larghe masse di lavoratori, in quanto può «venire talmente esaltata
la crucialità posizionale di certe occupazioni e la criticità sociale di certe figure, da mutare
comunque la portata di uno stesso o anche minore volume di conflitti» [Accornero 1985, 284]. Se
quindi le forme del conflitto sono destinate a cambiare, coinvolgendo sempre meno lavoratori e
sempre più localizzati in settori che non necessitino un’elevata partecipazione, è evidente come
possano cambiare anche i modelli di adesione sindacale, della solidarietà e della costituzione di
identità collettive, in senso sfavorevole alle organizzazione di massa dei lavoratori.
2.2.2 Variabili strutturali
Le spiegazioni strutturali si basano sui cambiamenti attraversati nel tempo dalla struttura economica
e sociale, in particolare in relazione al mutamento di peso avvenuto tra i diversi settori economici
sul totale dell’occupazione. Tra gli anni ’70 e ’80 la struttura produttiva e occupazionale della
stragrande maggioranza delle economie avanzate ha subito cambiamenti radicali. In primis, a partire
dagli anni ’70 avviene il decollo della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Mentre negli
anni ’60 i tassi lordi di attività femminile non superavano il 30% nella quasi totalità dei paesi
europei e negli Stati Uniti, nei primi anni dopo il 2000 quasi ovunque si attestano anche ben al di
sopra del 40% (con picchi intorno al 50% nelle socialdemocrazie scandinave e in Canada, e valori
poco sopra il 30% nei paesi mediterranei) [Reyneri 2005a]. Avviene poi una rapido cambiamento
nella struttura produttiva, maturando il passaggio dalle società industriali fordiste a quelle post-
industriali o dei servizi. Mentre nel 1970 la metà dei lavoratori dipendenti era occupata nel settore
manifatturiero, alla metà degli anni ’90 gli addetti all’industria sono scesi a un terzo o meno
[Calmfors et al. 2002]. Nel 2002 gli occupati nei servizi rappresentano i due terzi e oltre degli
occupati negli Stati Uniti e nell’Europa a 15 [Reyneri 2005b]. Inoltre, dal lato dell’offerta di lavoro,
si delineano importanti differenze rispetto al periodo di deruralizzazione e nascita delle società
fordiste, compreso per la maggior parte dei paesi avanzati tra gli anni ’40 e ’60, in cui la perdita di
posti di lavoro nell’agricoltura è stata di norma più che compensata dalla crescita del settore
manifatturiero senza creare disoccupazione aggiuntiva. Nel periodo compreso tra gli anni ’70 e ’90,
invece, il processo di deindustrializzazione è stato sì più che compensato dalla forte crescita
dell’occupazione nel settore dei servizi, ma questo si è accompagnato a un’altrettanta vertiginosa
crescita dell’offerta di lavoro (spinta dai risultati dell’alta fecondità degli anni ’50 e ’60 e
50
Tab. 2.3. Tasso di sindacalizzazione netto nei principali settori economici
Anno Totale Agricoltura Industria Costruzioni Commercio Trasporti Finanza Servizi
Austria
1961 56,6 50,6 66,3 56,3 25,0 71,2 36,8 54,11980 56,6 54,1 67,6 63,6 26,4 81,6 35,9 55,21995 40,7 41,8 57,3 48,2 16,0 61,3 17,0 44,1
Belgio
1961 37,9 21,2 45,7 37,0 23,1 53,7 25,2 24,41980 48,7 73,9 79,8 47,2 32,2 62,6 25,8 26,71995 50,7 76,7 98,7 61,2 36,9 71,9 21,6 27,2
Danimarca
1970 57,9 37,6 61,8 79,3 25,6 81,5 70,0 49,11985 56,6 44,1 +100,0 +100,0 37,7 79,7 69,7 84,51995 81,2 47,9 +100,0 +100,0 37,4 64,1 48,0 84,2
Germania
1961 31,2 17,4 39,9 18,2 18,0 73,9 37,4 18,61980 37,3 20,6 49,0 20,2 16,1 80,7 23,1 29,61995 30,7 17,6 49,1 14,8 11,6 58,3 12,9 27,6
Italia
1980 49,6 +100,0 55,9 35,8 22,1 76,9 32,6 38,41995 38,5 +100,0 40,1 41,9 22,6 63,8 17,4 30,0
Olanda
1960 40,0 57,7 44,0 44,8 16,3 52,2 17,7 37,41980 34,7 40,8 42,8 44,2 9,6 49,2 8,3 41,91992 25,1 27,3 27,3 41,2 11,1 37,6 10,6 29,5
Norvegia
1960 52,0 18,9 66,0 44,8 21,6 76,6 54,5 49,71980 55,5 31,2 77,6 44,2 16,9 68,1 44,8 60,31995 55,0 21,0 79,3 47,3 12,9 61,1 33,0 65,6
Svezia
1960 70,2 43,4 65,6 92,0 52,0 88,3 85,0 64,91980 79,8 52,9 89,1 95,3 45,3 78,7 83,0 84,11995 95,3 +100,0 +100,0 +100,0 62,3 88,3 62,5 +100,0
Note: + supera il 100%Fonte: Ebbinghaus e Visser [2000]
dall’esplosione dell’occupazione femminile), portando a una situazione caratterizzata da alta
disoccupazione [Esping-Andersen 2000].
Il rapido cambiamento della struttura occupazionale e produttiva della società è in stretta
correlazione coi cambiamenti della sindacalizzazione complessiva, a causa della diversa 51
propensione tra le diverse categorie di lavoratori nell’aderire al sindacato. Come già notato (cfr. par.
1.2.2) le donne risultano generalmente molto meno sindacalizzate degli uomini, il che si traduce in
una minore densità complessiva nel momento in cui l’offerta di lavoro tenda a femminilizzarsi.
Come si evince dalla tabella 2.3, poi, le differenze nella propensione ad aderire a un sindacato sono
particolarmente marcate tra settori economici differenti. Più in generale si nota come i settori
tradizionali blue-collar (industria, costruzioni e trasporti) risultino mediamente più sindacalizzati
dei complementari settori white-collar, concentrati nel settore dei servizi privati (commercio,
finanza e servizi in generale), mentre i servizi pubblici risultano mediamente più sindacalizzati delle
controparti private in quasi tutti i paesi [Ebbinghaus e Visser 2000; Visser 2006]. Pertanto uno
sbilanciamento della struttura occupazionale verso i lavoratori mediamente meno sindacalizzati del
settore dei servizi privati, unita a un arresto della crescita, e in alcuni casi una contrazione,
dell’impiego pubblico, possono fornire i presupposti per una diminuzione complessiva della densità
sindacale. Per quanto tale spiegazione sia di grande utilità, da sola non può rendere conto dell’intero
declino della sindacalizzazione cominciato negli anni ’80. Si stima infatti che il cambiamento di
struttura delle economie avanzate possa spiegare da solo il 30-40% del declino intervenuto nel
periodo intercorso tra gli anni ’70 e ’90 [Ebbinghaus e Visser 1999; Calmfors et al. 2002]. Inoltre
l’analisi inter-settoriale non tiene adeguatamente conto dei mutamenti avvenuti internamente ai
settori economici. Lo spostamento della struttura produttiva verso sistemi di specializzazione
flessibile, la pratica dell’outsourcing, il revival della piccola impresa e la diffusione di contratti di
lavoro atipici, tendono infatti a spostare il tessuto produttivo verso unità lavorative dove la
sindacalizzazione risulta tendenzialmente più difficile [Ebbinghaus e Visser 1999]. I processi di
mutamento strutturale intra-settoriale permettono così di rendere conto anche del declino della
densità sindacale avvenuto internamente ai diversi settori produttivi storicamente più sindacalizzati.
Nuova occupazione
Nel momento in cui la produzione si riorganizza su basi differenti è più che probabile che la
maggior parte della nuova occupazione creata si inserisca in un contesto differente rispetto a quello
tipico della stagione di affermazione del fordismo e del sindacato, fondato sulla centralità sociale
della grande fabbrica. Tramite il processo di deindustrializzazione e ristrutturazione intra-settoriale
si riducono i luoghi di lavoro storicamente molto sindacalizzati, mentre aumentano le unità
produttive (di piccole dimensioni, del settore dei servizi privati, che utilizzano forme di contratto
atipiche) in cui la sindacalizzazione trova più ostacoli. Pertanto «avvicinandosi al problema
dell’organizzazione del sindacato come un investimento […] bisogna stabilire i benefici derivanti
dai membri aggiuntivi […] rispetto ai costi di reclutamento. Il costo marginale del reclutare nuovi
52
membri crescerà se i lavoratori più facili da organizzare – quelli della grande impresa, con impiego
stabile e diritti di rappresentanza in impresa istituzionalizzati, o provenienti da un background
sociale favorevole al sindacalismo – sono già membri. Espandere o creare sindacalizzazione fuori
da questi domini consuetudinari è più costoso» [Checchi e Visser 2005, 3].
I risultati empirici confermano questa ipotesi, in quanto un aumento del tasso di occupazione risulta
correlato negativamente e in modo significativo con l’aumento della densità sindacale, e tale
correlazione risulta avere un effetto negativo ben più intenso nel periodo 1975-1996 rispetto ai
venticinque anni precedenti [Visser 2002; Calmfors et al. 2002; Checchi e Visser 2005]. I risultati
relativi al cambiamento nella composizione dell’occupazione sono invece più ambigui, e risentono
di alcune specificità nazionali. L’aumento della componente femminile del lavoro dipendente risulta
spesso un regressore non significativo quando si analizza un numero sufficientemente ampio di
paesi [Lee 2005], mentre presenta una correlazione positiva con l’aumento del tasso di
sindacalizzazione complessivo laddove venga testato su un sottocampione di paesi ove i tassi di
sindacalizzazione femminile siano complessivamente più elevati di quelli maschili, o non
presentino particolari differenze (come in Finlandia, Svezia, Norvegia, Regno Unito e Francia). La
crescita dei contratti di lavoro a tempo determinato e dei giovani (sotto i 35 anni) sul totale del
lavoro dipendente hanno anch’essi correlazione negativa rispetto la densità sindacale. E’
interessante notare come, se considerati congiuntamente, i due regressori perdano di significatività,
suggerendo come stiano catturando lo stesso effetto [Calmfors et al. 2002].
Passando al mutamento della struttura del sistema produttivo, è ipotizzabile che una diminuzione
dell’occupazione nei settori industriali accompagnata da una crescita nel settore dei servizi (causata
dall’alta produttività industriale che tende a espellere lavoratori verso un settore a bassa produttività
e labour-intensive come quello dei servizi, e dalla maggiore concorrenza internazionale sui costi del
lavoro manifatturiero) risulti in una diminuzione della membership sindacale relativa [Lee 2005].
La sindacalizzazione nel terziario risulterebbe comparativamente più difficoltosa a causa della
frammentazione e dispersione dei luoghi di lavoro, la prevalenza di piccole attività e il
relativamente alto turn-over degli occupati. Cheol-Sung Lee [2005] trova quindi come la
deindustrializzazione sia una delle cause determinanti del recente declino della sindacalizzazione:
l’occupazione industriale risulta in modo robusto correlata positivamente con una maggiore densità
sindacale. Allo stesso modo l’aumento della quota dei lavoratori dei servizi privati sul totale degli
occupati risulta correlata negativamente, per quanto con una significatività abbastanza debole, alla
crescita della membership relativa [Calmfors et al. 2002].
In uno studio di caso sul Regno unito, Stephen Machin [2000] trova riscontro empirico rispetto alla
difficoltà nel sindacalizzare i settori e le unità produttive nate tra gli anni ’80 e la fine degli anni
53
‘90. L’insieme di unità produttive nate prima del 1980 presenterebbero una proporzione
sistematicamente più elevata di imprese che riconoscono un sindacato locale per la contrattazione
collettiva rispetto a tutte quelle nate nel ventennio successivo. La percentuale di imprese
sindacalizzate si sarebbe ridotto, nel periodo considerato, a un terzo nel settore manifatturiero, si
sarebbe dimezzato in quello dei servizi privati, mentre non ci sarebbero state diminuzioni
apprezzabili nel settore pubblico. Questi risultati non sembrano dipender però da una mutata
composizione produttiva dei settori, per esempio a causa dello spostamento verso unità più piccole
e meno sindacalizzate, in quanto i risultati restano comunque negativi controllando sia per la
dimensione dell’impresa e per il settore di appartenenza (industria-servizi, pubblico-privato), che
per la diffusione di lavoratori part-time. I risultati rimangono parimenti robusti qualora come
variabile dipendente venga considerato il tasso di sindacalizzazione piuttosto che la proporzione di
unità produttive sindacalizzate. Questi riscontri, data la specificità del caso inglese, possono essere
ben spiegati da fattori di carattere istituzionale relativi al contesto legislativo meno favorevole al
riconoscimento dei sindacati a partire dagli anni ’80 (cfr. par. 2.2.3). Ma, «almeno in parte, questo
riflette l’incapacità propria dei sindacati nell’organizzare i lavoratori nelle nuove tipologie
d’imprese fondate in anni recenti, il che sembra collegato all’accresciuta pressione competitiva che
investe le aziende in diversi settori» [Machin 2000, 642], confermando in una certa misura
l’importanza dei cambiamenti strutturali del tessuto produttivo avvenuti negli ultimi anni.
Impiego pubblico
L’impiego nel settore pubblico costituisce un caso particolare nella struttura dell’occupazione,
soprattutto in relazione alla densità sindacale. La sindacalizzazione dei dipendenti pubblici, o degli
occupati in strutture para-statali, risulta complessivamente più elevata rispetto alla controparte
privata nella totalità dei paesi occidentali, anche rispetto a un settore storicamente propenso alla
sindacalizzazione come il manifatturiero, costituendo una delle poche regolarità riscontrabili anche
tra le configurazioni istituzionali più varie. Sottostanti a tale regolarità esistono però diverse
tipologie di dislivello tra i tassi di sindacalizzazione nei due settori: a cavallo del 2000 si va da una
differenza relativamente contenuta in Svezia (93% nel pubblico e 77% nel privato), Finlandia (86%
e 55%) e Olanda (39% e 22%) a differenze sostanziali in Canada (72% e 18%), Stati Uniti (36% e
8%), Germania (56% e 22%) e Francia (15% e 5%) [Visser 2006].
Hugh Clegg [1986], nel suo modello esplicativo del comportamento sindacale, individua quattro
motivazioni principali per cui il settore pubblico risulterebbe sistematicamente più sindacalizzato
del settore privato. Innanzitutto il settore pubblico è costituito da un numero ridotto di unità
produttive: questo significa che una volta riconosciuta la legittimità della rappresentanza sindacale
54
tale decisione abbia un valore immediato e pressoché universale per tutto il ramo d’attività in
questione. In secondo luogo, solitamente le imprese del settore pubblico sono sottoposte a un più o
meno stretto controllo governativo. Questo farebbe sì che «una volta assunta in sede politica la
decisione di riconoscere i sindacati, le singole autorità responsabili non vi si possono facilmente
opporre – senza considerare i casi in cui il riconoscimento sindacale è imposto per legge» [Clegg
1986, 53]. Da queste prime due caratteristiche consegue la possibilità, nel settore statale, di ottenere
una sindacalizzazione rapida anche qualora il riconoscimento venisse concesso con un
considerevole ritardo rispetto al settore privato [Bordogna 1987]. La terza motivazione addotta da
Clegg riguarda la maggiore burocratizzazione del rapporto di lavoro pubblico, fondato su norme
prefissate non modificabili caso per caso come nel settore privato, e sottoposte a un continuo
controllo governativo. In tal senso è molto difficile che un’azione individuale possa sperare di
piegare a proprio favore le condizioni d’impiego, rendendo l’azione collettiva organizzata l’unico
mezzo per ottenere un cambiamento collettivo. Infine, «diversamente dai dirigenti di alto grado
nella maggior parte delle aziende private, nei pubblici servizi […] i funzionari di grado elevato
presentano in genere un notevole livello di sindacalizzazione» [Clegg 1986, 53]. Dipendendo,
contrariamente ai dirigenti d’azienda operanti nel privato, da un potere politico esterno (come
sottolineato dalla tipologia weberiana della burocrazia come organismo per sua natura acefalo
[Bonazzi 2006]), e dovendo difendere il proprio operato di fronte a commissari governativi o
assemblee legislative, i dirigenti del settore pubblico avrebbero quindi maggiore necessità di difesa,
il che li spingerebbe ad aderire o costituire associazioni sindacali, facilitati oltretutto dalle piccole
dimensioni del gruppo da organizzare [Olson 1971]. Pertanto, «la quarta caratteristica significa che
i dirigenti, essendo essi stessi sindacalizzati, avranno meno motivi che nel settore privato di
assumere un atteggiamento di rifiuto verso i sindacati che rappresentano i loro dipendenti. Così il
sindacato diventa non solo soggetto negoziale, ma parte di un meccanismo per la gestione dei
servizi e delle organizzazioni pubbliche» [Bordogna 1987, 156].
L’aumento dell’occupazione nel settore pubblico rispetto al totale risulta solitamente correlata
positivamente alla crescita della densità sindacale, per quanto non sempre superando il test di
significatività. Sul lungo periodo, invece, maggiori livelli di occupazione pubblica sono
significativamente correlati, a parità di alti fattori, ad alti livelli di densità sindacale. Inoltre,
probabilmente riflettendo la crescente instabilità dei contratti di lavoro, l’intensità dell’effetto risulta
molto maggiore e più significativa nel periodo 1975-1996 rispetto al periodo 1950-1975, grazie alla
persistenza di caratteristiche favorevoli alla sindacalizzazione nel settore pubblico parallelamente
alla loro riduzione in quello privato [Visser 2002; Checchi e Visser 2005; Lee 2005]. A un livello di
minore aggregazione, invece, la correlazione è più intensa e significativa tra i paesi con una forte
55
istituzionalizzazione del lavoro organizzato (maggiore corporativismo, accesso ai luoghi di lavoro,
centralizzazione della contrattazione e coinvolgimento dei sindacati nella gestione dello stato
sociale), come Svezia e Belgio, mentre ha un impatto lievemente negativo o positivo, ma non
significativo, in paesi caratterizzati da più bassa istituzionalizzazione (come, rispettivamente, negli
Stati Uniti e, in misura inferiore, in Germania) [Lange e Scruggs 1999]. E’ quindi possibile
concludere come, in un periodo di arresto o contrazione della crescita dell’apparato pubblico, la
densità sindacale complessiva potrebbe risentirne negativamente, derivando tale effetto più dalla
contrazione dei dipendenti di tale settore che da condizioni maggiormente sfavorevoli alla
sindacalizzazione dei suoi dipendenti.
Globalizzazione
Col concetto di globalizzazione si intende «primariamente la produzione di globalità, un processo
comprendente Stati, organizzazioni internazionali, gruppi economici multinazionali, associazioni e
gruppi di pressione, che agiscono in modo sistematico allo scopo di espandere alla totalità del globo
l’economia di mercato, unitamente ai suoi modelli di organizzazione internazionale della
produzione, di governo delle imprese, di tecnologia, di scambi commerciali e mercato del lavoro;
nonché sistemi politici, tratti culturali e mezzi di comunicazione che siano con quelli coerenti»
[Gallino 2006, 323]. A livello teorico esistono diversi buoni motivi per cui il processo di
globalizzazione dell’economia dovrebbe mettere in difficoltà le organizzazioni sindacali nei paesi a
capitalismo avanzato. Secondo Guido Baglioni effettivamente la liberalizzazione e la mobilità dei
mercati produttivi e finanziari, dei servizi e del lavoro «sottopongono a dura prova gli assetti e
l’impostazione consueta dell’azione sindacale e della protezione legislativa. Si pensi solamente
all’abbondanza di forza lavoro disponibile, alla loro mobilità geografica, alla concorrenza fra
lavoratori con la crescita della loro offerta» [Baglioni 2008, 14]. Per Alain Supiot, inoltre, «con
l’apertura delle frontiere alle merci ed ai capitali, si fa strada la tendenza a considerare gli
ordinamenti giuridici nazionali non come le fondamenta istituzionali dell’economia di mercato,
bensì come strumenti di quest’ultima […]. Questa trasposizione agli Stati dei metodi di gestione
delle imprese conduce a considerare il diritto nazionale come uno degli elementi della competizione
di ciascun paese in concorrenza con tutti gli altri» [Supiot 2005, 171]. In questo modo una minore
protezione giuridica del lavoro e dei suoi soggetti organizzati diventerebbe sempre più uno
strumento di politica economica teso a rendere maggiormente competitive le economie nazionali in
concorrenza le une con le altre. Vicine a questo quadro interpretativo troviamo le teorie della
convergenza, fondate sull’idea che «la modernizzazione delle economie e delle società avanzate
segua percorsi obbligati, fondamentalmente dettati da fattori esogeni, ai quali le istituzioni pre-
56
esistenti e gli attori penalizzati possono frapporre maggiore o minore resistenza, senza riuscire però
a fare altro che a ritardare il corso della storia» [Regini 1999, 4]. Pertanto «le nuove condizioni di
competizione prevalenti a livello internazionale verrebbero a determinare una progressiva erosione
delle istituzioni regolative delle economie coordinate. Il risultato finale sarebbe una convergenza
nel tempo verso il modello istituzionale del capitalismo anglosassone» [Trigilia 2002, 236]. In
particolare, a causa della crescente concorrenza internazionale, si ridurrebbe l’autonomia dei singoli
stati nel determinare la politica economica a livello macro e micro (soprattutto i sistemi di relazioni
industriali e di regolazione del mercato del lavoro), il tutto a vantaggio di quelle economie già
fondate principalmente sulla regolazione di mercato. Inoltre il crescente numero di accordi
internazionali favorirebbe l’introduzione di forme di regolazione sempre più simili, volte a ridurre
le barriere protettive e introdurre standard comuni [Trigilia 2002].
Tale tesi non risulta però del tutto confermata. Innanzitutto, un aumento delle ragioni di scambio tra
paesi non configura necessariamente una maggiore concorrenza, soprattutto nel caso in cui tale
apertura favorisca imprese transnazionali con forte potere di mercato. Inoltre, la crescita degli
investimenti diretti all’estero può effettivamente essere dettata da una logica di contenimento dei
costi (delocalizzando rapidamente la produzione laddove il costo del lavoro sia più basso, creando
così una pressione concorrenziale sui sindacati), ma spesso è altresì mossa dal raggiungimento di
paesi con mercati dei prodotti più vasti, redditizi o specializzati. In particolare gli investitori esteri
nel settore dei servizi, potendo questi essere forniti solo localmente, non potrebbero ricorrere alla
minaccia della delocalizzazione per contenere le rivendicazioni salariali dei sindacati [Calmfors et
al. 2002]. Pertanto, risulta plausibile anche l’ipotesi che «l’integrazione economica in Europa finora
non abbia necessariamente compromesso le prospettive del sindacato di conquistare una quota delle
rendite generate da mercati dei prodotti caratterizzati (in modo persistente) da condizioni di
concorrenza imperfetta» [Calmfors et al. 2002, 78], il che si tradurrebbe in un ulteriore persistenza
delle differenti istituzioni delle relazioni industriali, piuttosto che in una loro convergenza, in
particolar modo rispetto ai diversi patterns di sindacalizzazione.
Il grado di globalizzazione di un’economia può essere approssimato tenendo conto di tre dimensioni
critiche: l’apertura commerciale, quella finanziaria e gli investimenti diretti all’estero [Lange e
Scruggs 1999]. Secondo Peter Lange e Lyle Scruggs non vi sarebbero evidenze decisive tali da
mettere in relazione il declino della sindacalizzazione con l’accrescersi dell’estensione delle tre
variabili legate alla globalizzazione. Innanzitutto a causa di una crescente divergenza tra i tassi di
sindacalizzazione parallelamente all’ondata liberalizzatrice degli anni ’80 (cfr. par. 2.1). Inoltre,
nonostante la fine degli anni ‘70/inizio anni ’80 possa essere considerato il periodo critico nella
liberalizzazione globale, è da rilevare come in diversi paesi il declino sia cominciato già diverso
57
tempo prima (come in Olanda, Giappone o Stati Uniti), mentre in altri, negli anni ’80, nonostante la
crescente internazionalizzazione dei mercati dei capitali, la densità sindacale si è mantenuta stabile
(come in Norvegia). In altri paesi, poi, il periodo di liberalizzazione dei mercati coincide coi periodi
a più elevata crescita sindacale (Danimarca e Finlandia negli anni ’70). Questo porta i due autori a
concludere come la globalizzazione eserciti effetti differenti a seconda delle caratteristiche
istituzionali dei vari paesi, il che «significa che i paesi a bassa sindacalizzazione/debole movimento
dei lavoratori all’inizio dell’era della globalizzazione si sono ulteriormente indeboliti, mentre i paesi
ad elevata sindacalizzazione/forte movimento dei lavoratori all’inizio del periodo di rapida
globalizzazione si sono ulteriormente rafforzati» [Lange e Scruggs 1999, 45].
Effettivamente due delle tre variabili associate alla globalizzazione, singolarmente prese, non
risultano avere effetti negativi significativi sulla densità sindacale (l’unico regressore significativo
risulta essere l’apertura finanziaria) [Lange e Scruggs 1999]. Lo stesso risultato è ottenuto da
Checchi e Visser [2005], che non rilevano effetti significativi sulla sindacalizzazione derivati da
variabili relative all’apertura commerciale e finanziaria. Anche Cheol-Sung Lee [2005] non trova
relazioni significative tra investimenti diretti all’estero, apertura finanziaria e apertura dei mercati
verso i paesi in via di sviluppo rispetto a una diminuzione della densità sindacale. Ciò che risalta,
però, risulta essere il diverso impatto che trends comuni risultano avere su paesi con diverse
configurazioni istituzionali. Le misure associate alla crescita della globalizzazione (segnatamente
l’apertura finanziaria) risultano avere un impatto positivo e significativo sulla crescita della densità
sindacale in quei paesi caratterizzati da un’alta istituzionalizzazione del lavoro e delle relazioni
industriali, mentre risultano avere l’effetto esattamente opposto tra quei paesi caratterizzati da
relazioni coi sindacati più debolmente istituzionalizzate. Pertanto i risultati empirici sembrano
suggerire una secca smentita dell’ipotesi della convergenza, implicando come la globalizzazione
sembri provocare l’effetto esattamente opposto, cioè una crescente divergenza tra paesi. In
particolare i risultati suggeriscono come le istituzioni tese a regolare il mercato del lavoro
potrebbero facilitare l’organizzazione sindacale in condizioni di crescente concorrenza in
determinati paesi, specialmente laddove i sindacati riescano a inserirsi fruttuosamente nel governare
le nuove opportunità di crescita offerte da una maggiore interconnessione globale dell’economia
[Lange e Scruggs 1999].
Immigrazione
Una variabile solitamente non considerata riguarda l’impatto che la crescente immigrazione
internazionale ha sulla capacità rappresentativa di un sindacato. La migrazione internazionale della
forza lavoro avrebbe «accresciuto l’eterogeneità e la competizione della forza lavoro internamente
58
ai paesi, così rendendo più difficile per i sindacati il reclutare membri e promuovere solidarietà tra
lavoratori internamente divisi» [Lee 2005, 73]. La crescente immigrazione, derivante dalla scarsità
di manodopera in molti paesi abbondanti di capitali, spiazzerebbe il sindacato a causa del conflitto
derivante tra una manodopera immigrata, con meno garanzie e disposta a lavorare per minori salari
e con minori protezioni, e i lavoratori nativi più protetti e meglio pagati, e a causa della crescente
differenziazione culturale e sociale dei lavoratori che porterebbe a una minore coesione e unità di
azione della forza lavoro. Anche Mancur Olson già notava come «la dimensione dell’ingresso di
forza lavoro [immigrata] colpisce la forza dei gruppi di interessi dei lavoratori. Se una larga riserva
di manodopera straniera meno costosa può facilmente essere sfruttata, e i sindacati hanno innalzato
significativamente i costi del lavoro nelle imprese domestiche, sarà profittevole aprire nuove
imprese o stabilimenti impiegando la forza lavoro esterna […]. La cooptazione da parte dei
sindacati dei lavoratori esterni verrà per lo meno ritardata dalle differenze culturali e linguistiche o
dallo stato temporaneo di guest workers» [Olson 1982, 143]. Contrariamente alle misure classiche
associate alla globalizzazione, l’aumento dell’immigrazione risulta avere un’influenza negativa,
significativa e abbastanza intensa sulla crescita della densità sindacale. Questo pone dei problemi
sostanziali, vista l’apparente impossibilità (e indesiderabilità) di bloccare flussi di immigrazione
ormai globali. Questo ha portato diverse associazioni sindacali occidentali (come l’AFL-CIO
statunitense) a passare da una politica tesa a contenere l’immigrazione, a una più propensa a
migliorare i diritti dei lavoratori immigrati, in modo da non doverne subire la concorrenza e in
modo da conquistare nuovi bacini utili a contrastare una membership decrescente [Lee 2005]. Il
caso italiano costituisce un esempio di particolare rilievo: nel 2003 tra gli immigrati regolari
occupati in posizioni dipendenti, il tasso di sindacalizzazione calcolato sulle principali
confederazioni (CGIL-CISL-UIL) risulta prossimo al 45%, livello elevato e «frutto di un’assidua
azione, a dire il vero più assistenziale che rivendicativa, dei sindacati, che non hanno visto negli
immigrati dei pericolosi concorrenti dei propri associati tradizionali, contrariamente a quanto è
accaduto in altri paesi» [Reyneri 2005b, 224]. Lo stesso risultato si coniuga, controllando per le
diverse caratteristiche della posizione lavorativa, a una sostanziale parità di trattamento salariale
degli immigrati regolari rispetto alla loro controparte autoctona [Reyneri 2005b], dimostrando la
necessità e l’utilità per i sindacati di una copertura omogenea anche di una forza lavoro sempre più
variegata.
59
2.2.3 Variabili istituzionali
I limiti nel fornire una spiegazione univoca posti dalle sole variabili cicliche e strutturali sono ormai
evidenti, «specie in una realtà, come quella delle relazioni industriali, così densa di istituzioni che
guidano i comportamenti individuali e ne condizionano gli esiti aggregati, e dove più cruciale che in
altri ambiti è il ruolo di attori collettivi organizzati capaci di agire strategico» [Bordogna 2007,
233]. Spiegazioni di tipo istituzionale, infatti, risultano in generale le più robuste e significative. I
modelli che tengano conto delle sole variabili configurazionali nell’esplorare i movimenti della
sindacalizzazione risultano avere una varianza spiegata molto elevata, in misura maggiore nel
rendere conto della densità effettiva, poco meno nello spiegarne l’aumento e la diminuzione
[Ebbinghaus e Visser 1999]. L’ipotesi alla base di questo approccio consiste nello stabilire i fattori
istituzionali come primi fattori causali rispetto le capacità di sindacalizzazione del mondo del
lavoro, e inoltre che i cambiamenti ciclici e strutturali dell’economia e della società agiscano
esclusivamente mediati dalle diverse istituzioni del mercato del lavoro e delle relazioni industriali
tipiche di ogni paese [Lange e Scruggs 1999]. Questo deriverebbe, tra l’altro, dal fatto che stimoli
esogeni comuni, più che strutturare in modo omogeneo i diversi sistemi economici, li spingerebbero
piuttosto a riorganizzarsi, ognuno secondo i propri caratteri, in modo da massimizzare la coerenza
interna di sistema, più che adattarsi a un ipotetico modello di convergenza: «le economie capitaliste
di mercato, cioè, possono ottenere risultati diversi e anche ottenere tutte un buon risultato, a
condizione che le loro istituzioni si adattino l’una all’altra» [Streeck 2006, 36].
Sistema Ghent
Come già anticipato (cfr. par. 2.2.1), una delle istituzioni che risulta avere una rilevanza
fondamentale nel render conto delle differenze nei livelli di sindacalizzazione risulta essere la
presenza o meno di un sistema di assicurazione volontario contro la disoccupazione (di norma ben
più generoso del sussidio di disoccupazione statale), i cui fondi siano gestiti dalle associazioni
sindacali (c.d. sistema Ghent, nome derivato dalla città belga in cui fu per la prima volta introdotto
nel 1901 [Clasen e Viebrock 2008]). Tale sistema risulta ad oggi pienamente presente in soli tre
paesi (Finlandia, Danimarca e Svezia), mentre in Belgio ne vige una versione “morbida”, in cui
l’assicurazione contro la disoccupazione è controllata dallo stato, ma i sindacati svolgono
comunque un ruolo rilevante nella sua amministrazione [Ebbinghaus e Visser 1999]. Tale sistema è
stato invece abbandonato dalla Norvegia e dall’Olanda già, rispettivamente, negli anni ’30 e ’50
[Calmfors et al. 2002]. Per quanto l’assicurazione volontaria contro la disoccupazione sia gestita da
agenzie ricollegabili alle principali confederazioni sindacali, non è in alcuna misura obbligatoria
60
l’appartenenza al relativo sindacato per iscriversi al fondo. Inoltre le discriminazioni, in termini di
contributi più cari per i non membri, sono da lungo tempo state eliminate. Pertanto l’offerta di una
generosa assicurazione contro la disoccupazione non costituirebbe un incentivo selettivo
all’adesione al sindacato [Clasen e Viebrock 2008]. Ciò nonostante si rileva come l’iscrizione al
fondo e al sindacato ad esso preposto vengano solitamente considerate collegate, configurando de
facto tale sistema come un incentivo molto forte nell’attirare un maggior numero di iscritti alle
diverse associazioni sindacali di categoria [Calmfors et al. 2002]. Innanzitutto l’assicurazione
contro la disoccupazione viene solitamente fornita nel pacchetto di servizi sindacali al momento
dell’adesione, presentando le due cose come intimamente legate. Inoltre, ad esempio in Danimarca,
non è raro che funzionari sindacali lavorino part-time anche negli uffici di gestione del fondo,
solitamente collocati negli stessi edifici, rendendo la percezione delle due cose come associate
ancora più forte. Sempre in Danimarca, poi, i fondi assicurativi sono da sempre stati coinvolti in
funzioni di collocamento (anche se formalmente solo dagli anni ’80), con risultati superiori agli
uffici pubblici grazie ai loro forti e continuativi contatti con le associazioni sindacali e datoriali.
Pertanto dal lavoratore disoccupato può essere percepito come sia più facile trovare un nuovo
lavoro se, accanto al fondo, si sia iscritti anche al rispettivo sindacato. In Svezia, infine, appartenere
a un sindacato spesso permette di integrare il sussidio di disoccupazione con forme assicurative
individuali interamente offerte dall’organizzazione sindacale ai soli membri, rendendo possibile il
godere di un maggiore tasso di rimpiazzo [Clasen e Viebrock 2008].
Passando ai risultati di ricerca, una variabile dummy per i paesi Ghent risulta sempre significativa
nello spiegare la densità sindacale o l’aumento della stessa, con un’intensità solitamente molto
elevata [Egbbinghaus e Visser 1999; Lee 2005]. Ma laddove tale sistema di assicurazione contro la
disoccupazione esplica i risultati qualitativamente più rilevanti è, come già riferito (cfr. par. 2.2.1),
interagendo con la disoccupazione. L’aumento del tasso di disoccupazione risulta sempre correlato
positivamente e in modo significativo con l’aumento della densità sindacale nei paesi Ghent (nel
breve e nel lungo periodo) [Calmfors et al. 2002; Visser 2002; Checchi e Visser 2005; Lee 2005].
E’ quindi possibile che l’alta densità sindacale dei paesi socialdemocratici sia spiegata in misura
elevata dalle forme assunte nella gestione delle politiche per la disoccupazione. Vista la resistenza
di tale sistema, inoltre, è possibile non avvengano sostanziali cadute nella sindacalizzazione di tali
paesi nell’immediato futuro. Resta però il pericolo che successive politiche atte a ridurre la spesa
pubblica vadano a colpire il sistema di assicurazione volontaria contro la disoccupazione. Una delle
spiegazioni dell’improvvisa caduta nel tasso di sindacalizzazione in Svezia in anni recenti (-6,5
punti tra il 2004 e il 2007, di cui 4,3 punti solo tra il 2006 e il 2007, cfr. par.2.1) può essere trovata
nella nuova politica del recentemente insediatosi governo conservatore (in carica dal settembre
61
2006, dopo un dominio pressoché totale del partito socialdemocratico per quasi tutto il ‘900), volta
a ridurre considerevolmente la quota dei fondi assicurativi finanziata dalla fiscalità generale e
aumentare quella costituita dai contributi (se nel 2004 i contributi dei membri coprivano circa il
9,4% delle spese, nel 2007 tale percentuale è salita a circa il 46% dei costi assicurativi), rendendo
l’intero sistema meno attrattivo per i lavoratori [Clasen e Viebrock 2008]. Tale dipendenza dei
sindacati nordici dai sistemi assicurativi contro la disoccupazione, per quanto utile a sostenere un
elevato livello di sindacalizzazione, può nel futuro divenire un cavallo di Troia, in caso politiche di
sostanziale riduzione della spesa pubblica si facciano sempre più frequenti anche nei paesi
socialdemocratici.
Corporativismo, centralizzazione e copertura
E’ possibile che i paesi con sistemi di relazioni industriali corporativi, basati cioè su «un modello di
regolazione politica dell’economia nel quale grandi organizzazioni di rappresentanza degli interessi
partecipano insieme alle autorità pubbliche, in forma concertata, al processo di decisione e
attuazione di importanti politiche economiche e sociali» [Trigilia 2002, 118], particolarmente in
auge in Europa tra gli anni ’60 e ’70, grazie al ruolo preminente concesso alle associazioni sindacali
presentino tassi di sindacalizzazione più elevati della media. Ebbinghaus e Visser [1999] trovano in
effetti come il livello di corporativismo sia positivamente correlato a una maggiore densità
sindacale in una semplice analisi bivariata, ma fatichi a mantenere una buona significatività quando
vengano inserite altre variabili istituzionali tra gli explanans. A causa quindi dell’ambigua e
incompiuta definizione teorica di “corporativismo” [Streeck 2006], nello studiarne gli effetti sulla
sindacalizzazione può risultare più utile testarne singolarmente alcuni aspetti qualificanti.
In particolare la centralizzazione della contrattazione collettiva (tratto fondamentale dei sistemi
neocorporativi), è solitamente considerata una buona variabile nello spiegare un elevata densità
sindacale. Questo accadrebbe in quanto la contrattazione esercitata a livelli superiori tende «a
indebolire la resistenza delle imprese al processo di sindacalizzazione, in parte perché il vantaggio
della sindacalizzazione, o il ricarico sui salari, saranno meno elevati che nel caso della
contrattazione a livello di singola impresa» [Calmfors et al. 2002, 48]. Inoltre, quando la
contrattazione è centralizzata i sindacati riescono a meglio affermarsi come rappresentanti dei
lavoratori in nuove imprese che aderiscano alle associazioni imprenditoriali firmatarie degli accordi.
Nella metà degli anni ’70 la correlazione semplice tra livello di centralizzazione e densità sindacale
era quasi perfetta (r = 0.835). A metà degli anni ’90, invece, la relazione sembra essersi deteriorata,
fornendo una spiegazione ora insoddisfacente (r = 0.379) [Calmfors et al. 2002]. Testando invece la
variabile in un’analisi multivariata che tenga conto di variabili istituzionali, cicliche e strutturali,
62
l’intensità dell’effetto positivo della centralizzazione sulla densità sindacale risulta significativa ma
maggiore nel periodo 1950-1975 rispetto al 1975-1996 [Checchi e Visser]. Tale correlazione
positiva si mantiene comunque significativa, anche tenendo conto dell’intero periodo del secondo
dopoguerra [Visser 2002], ma resta da spiegare la causa di una correlazione sempre meno stretta. In
effetti, come sosteneva già Hugh Clegg [1986], il livello di estensione della contrattazione (cioè la
quantità di lavoratori interessati da un contratto collettivo, solitamente correlata strettamente al
livello a cui la contrattazione si svolge), se preso singolarmente, risulta un indice insufficiente nello
spiegare i diversi livelli di densità sindacale. Fornisce invece una spiegazione pertinente qualora
venga combinato con la profondità della contrattazione collettiva (intendendo il «grado di
coinvolgimento di responsabili sindacali di zona e dei delegati di fabbrica nella gestione degli
accordi» [Clegg 1986, 34]) e le prerogative sindacali concesse sul luogo di lavoro. Pertanto è
possibile che paesi nel tempo passati da un livello della contrattazione particolarmente centralizzato
a uno intermedio non abbiano subito grosse perdite di densità sindacale in quanto siano state
mantenute forti prerogative sindacali a livello d’impresa e una certa profondità di contrattazione
(come in Svezia). Al contrario, paesi con livelli intermedi o alti di centralizzazione possono aver
subito perdite a causa di una decentralizzazione in lieve crescita, ma accompagnata a minori
prerogative sindacali sul posto di lavoro (come la Germania o l’Olanda). Infine i paesi con
un’elevata decentralizzazione contrattuale (svolta principalmente a livello d’impresa), anche in
presenza di forti prerogative sul posto di lavoro (come gli Stati Uniti), o addirittura in assenza di
queste (come il Regno Unito degli anni ’80 e ’90) possono presentare tassi relativamente bassi di
sindacalizzazione, destinati a decrescere ulteriormente [Ebbinghaus e Visser 1999].
Riguardo agli sviluppi futuri, bisogna rilevare come un’interazione non ottimale delle dimensioni
della contrattazione collettiva individuate da Clegg (estensione, centralizzazione, profondità e
prerogative sindacali) possano portare a gravi perdite nella membership relativa dei sindacati.
Innanzitutto l’elevata centralizzazione contrattuale, laddove non supportata da una forte presenza
del sindacato in azienda, può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Più centralizzazione ed estensione
della contrattazione sono elevate, più lavoratori risultano coperti da condizioni di lavoro contrattate
collettivamente, che appartengano a un sindacato o meno. In Europa l’estensione della copertura è
di norma molto elevata, andando dal 40% in Irlanda e Regno Unito, al 90% in Belgio, Austria,
Finlandia, Svezia, Francia e Italia, passando per valori intermedi tra il 70% e l’80% in Danimarca,
Spagna, Norvegia e Germania [Eiro 2005]. Questo si traduce in modo crescente, vista la robusta
diminuzione della densità sindacale, in un “eccesso di copertura” (inteso come la differenza tra
copertura contrattuale e tasso di sindacalizzazione) spesso molto elevato (a metà anni ’90 superiore
all’80% in Francia, più del 50% in Gemania, Italia e Olanda, intorno al 20% in Finlandia e
63
Norvegia, solo il 5-10% in Canada, Regno Unito e Stati Uniti), rendendo sempre più frequenti
fenomeni di free-riding. I paesi che nel 1980 avevano già un eccesso di copertura considerevole
(almeno sopra il 30%), solitamente lo hanno visto crescere fino alla metà degli anni ’90, mentre
laddove già non superava il 10-20% si è tenuto costante o è addirittura decresciuto [Boeri e Checchi
2001]. Ed è effettivamente rilevante che l’eccesso di copertura sia più forte laddove a un’elevata
estensione della contrattazione non corrisponda una forte presenza del sindacato a livello d’impresa,
mettendo in luce l’importanza dell’interazione tra i due termini. Infine, nonostante la relativa
stabilità nella contrattazione in Europa dagli anni ’90, si intravvedono segnali tesi a un maggiore
decentramento, volto a proseguire quello degli anni ’80, il che non può non porre dei problemi
relativamente alla tenuta della membership sindacale attiva, vista la comunque significativa
correlazione tra i due fattori [Regini 1999; Eiro 2005].
Rappresentanza sui luoghi di lavoro
La possibilità di avere una rappresentanza propriamente sindacale direttamente sul luogo di lavoro è
uno dei fattori decisivi per quanto riguarda la possibilità di attrarre nuovi membri, grazie al contatto
continuativo e diretto coi lavoratori. Solitamente tale rappresentanza si configura in due sistemi:
quelli fondati sul “canale singolo”, ovvero dove i rapporti e la negoziazione con l’impresa avviene
esclusivamente per mezzo di delegati sindacali, eletti dai soli iscritti al sindacato (come solitamente
nel Regno Unito, ove la contrattazione è svolta dagli shop stewards) o da parte di tutti i lavoratori
(come negli Stati Uniti), e collegati con le sezioni locali del sindacato; e quelli basati sul canale
“duale” o “plurimo”, cioè dove esistano dei comitati d’impresa (work councils) non aventi natura
sindacale, eletti da tutti i lavoratori (di norma investiti di sole funzioni di controllo sull’applicazione
della normativa contrattuale), a cui sono affiancate le sezioni sindacali locali, solitamente dotate di
funzione contrattuale ed elette dai membri del sindacato o nominate dallo stesso. Il sistema a doppio
canale storicamente più noto è quello tedesco, formato dal betriebsrat (il consiglio d’azienda, senza
formale autorità contrattuale e pertanto impossibilitato a proclamare scioperi) e dai fiduciari
sindacali locali, ma sistemi analoghi si trovano per esempio in Francia e Svezia [Della Rocca 1998].
Il sistema “duale” può però risultare un arma a doppio taglio, in quanto il consiglio d’azienda
potrebbe porsi in concorrenza con sindacato locale nel cogliere le istanze dei lavoratori, rendendone
più difficile l’opera di reclutamento [Ebbinghaus e Visser 1999]. La presenza di rappresentanti
locali del sindacato, eletti tra i lavoratori stessi, risulta perciò di particolare utilità nel fare
proselitismo e creare un collegamento diretto tra i dipendenti e il sindacato, e in particolare la
proposta di aderire a un sindacato da parte dei delegati locali sembra essere uno dei primi motivi
all’iscrizione (cfr. par. 1.2). Una elevata istituzionalizzazione del ruolo del sindacato a livello
64
d’impresa, però, è solitamente ottenibile solo in combinazione con un’adeguata legislazione
promozionale (o il relativo in termini di accordi collettivi) a tale presenza, in quanto «la
rappresentanza sul luogo di lavoro senza regole centralmente istituzionalizzate è vulnerabile agli
attacchi del datore di lavoro, mentre centralizzazione senza rappresentanza locale può portare a
disinteresse da parte dei lavoratori» [Checchi e Visser 2005, 6].
Tra le variabili istituzionali, in effetti un’elevata possibilità d’accesso da parte del sindacato sul
luogo di lavoro risulta uno dei fattori più robusti e significativi nello spiegare sia i livelli che le
variazioni nella densità sindacale [Ebbinghaus e Visser 1999]. Anche in analisi multivariate che
tengano conto di fattori ciclici e strutturali la variabile di rappresentanza risulta sistematicamente
significativa e di una certa intensità [Visser 2002]. Disaggregando per periodi invece perde di
significatività tra il 1975 e il 1996, rispetto agli anni precedenti, il che però potrebbe nascondere
semplicemente un effetto di composizione: «in un periodo di sindacalizzazione declinante e
decentralizzazione della contrattazione, la rappresentanza sul posto di lavoro potrebbe risultare più
importante, ma meno disponibile» [Checchi e Visser 2005, 12].
Dal momento i cui l’istituzionalizzazione della rappresentanza del sindacato sul luogo di lavoro nel
secondo dopoguerra risulta essere una variabile sostanzialmente stazionaria nella maggior parte dei
paesi, un ottimo caso nel testarne l’efficacia può essere il Regno Unito, nel passaggio dagli anni ’70
agli anni ’80. Dopo una fase di legislazione promozionale al riconoscimento del sindacato in
azienda messa in atto dal governo laburista a partire dalla metà degli anni ‘70, i governi
conservatori succedutisi a partire dal 1979 hanno invece implementato un complesso legislativo che
eliminava ogni obbligo da parte delle singole imprese nel riconoscere i sindacati locali, deregolando
nel contempo il mercato del lavoro, ponendo severi limiti al diritto di sciopero e rendendo le
clausole di closed shop di fatto inefficaci. In questo modo si sarebbe sostanzialmente eliminata una
concezione del rapporto di lavoro come dimensione collettiva, “confinando” i rapporti lavorativi
all’interno delle singole imprese in termini strettamente individualistici [Miller e Steele 1993].
Richard Freeman e Jeffrey Pelletier [1990] trovano come un indice che tenga conto del livello di
protezione legislativa dei sindacati in azienda (per quanto riguarda le immunità, i diritti di
contrattazione e riconoscimento, i diritti di associazione e la posizione di forza dei sindacati rispetto
le imprese) sia particolarmente significativo nello spiegare i livelli di densità sindacale, mostrando a
livelli di protezione più elevata una sindacalizzazione più alta. Tale effetto sarebbe più intenso sul
lungo periodo rispetto al breve, e la sola variabile legata ai cambiamenti legislativi risulterebbe
sufficiente nello spiegare la maggior parte del declino nella densità sindacale nel Regno Unito negli
anni ’80 [Freeman e Pelletier 1990]. Allo stesso modo, il sostanziale arresto del declino della
sindacalizzazione nel Regno Unito a partire dal 1999 può essere probabilmente spiegato con la
65
nuova legislazione pro-union messa in essere dal nuovo governo laburista (a partire
dall’employment relations bill del 1999), grazie all’entrata in vigore di una nuova procedura
istituzionale e vincolante per il riconoscimento dei sindacati in azienda [Eiro 1999; 2002a].
Vista l’importanza di un sostegno legislativo o di accordi nazionali ben consolidati tra associazioni
imprenditoriali e sindacati nel mantenere una forte presenza della rappresentanza dei lavoratori a
livello aziendale (come in Svezia, ove l’altissima sindacalizzazione e presenza in azienda è ottenuta
tramite accordo collettivo [Della Rocca 1998]), per il futuro «nella maggior parte dei paesi europei i
sindacati hanno ancora da difendere una eredità di strutture collettive di rappresentanza, all’interno
dei settori industriali e in collegamento fra essi, nelle imprese e nelle qualifiche professionali. I
sindacati devono difendere particolarmente le istituzioni che operano ad un livello superiore a
quello delle singole imprese, quando esistono» [Visser 1994, 320]. In un contesto di crescente
decentralizzazione contrattuale, perciò, per continuare a esistere sarà sempre e comunque necessario
per il sindacato mantenere una forte rilevanza a livello nazionale, in modo da poter continuare a
garantire la propria presenza direttamente nelle imprese.
66
2.3 Il caso italiano
Le fasi della sindacalizzazione in Italia
L’Italia rappresenta indubbiamente un caso particolare nel panorama europeo per quanto riguarda la
traiettoria percorsa dalla sindacalizzazione nel secondo dopoguerra. Spesso fatica a rientrare
all’interno di modelli comprensivi di un numero elevato di paesi, mostrando una dinamica reale ben
diversa da quella predetta dai modelli di regressione [Checchi e Visser 2005]. Qualora venga
considerata in comparazione con gli altri paesi europei con regimi di welfare conservatori (cfr. par.
2.1), assieme a cui è solitamente classificata [Esping-Andersen 2000], presenta un tasso di
sindacalizzazione netto sistematicamente più elevato della media, oltre a un andamento ciclico dello
stesso molto più accentuato rispetto a paesi affini. Come mostrato efficacemente dalla figura 2.5, si
alternano vere e proprie fasi della storia sindacale italiana a partire dal secondo dopoguerra.
Partendo da una sindacalizzazione elevata (sopra il 50%) dopo la fine della seconda guerra
mondiale, e a seguito della rottura della confederazione unitaria nel 1948, negli anni ’50 la
sindacalizzazione netta subisce un crollo vero e proprio, arrivando poco al di sotto del 30% e
rimanendo sostanzialmente stabile su questo livello per gli anni ’60. Durante e a seguito del ciclo di
lotte 1968-1972 [Pizzorno 1978], si ha invece una fortissima ripresa, che riporta la densità sindacale
poco sotto il 50% in pochissimi anni, stabilizzandosi su questi valori tra il 1975 e il 1980. Dal 1980,
parallelamente alla maggior parte dei paesi europei, comincia la fase di declino vero e proprio,
caratterizzata da una costante caduta della densità sindacale, che viene a stabilizzarsi solo dopo il
2000 su valori poco superiori al 30%. Anche per l’Italia perciò si presenta il trend generale nella
0,0
10,0
20,0
30,0
40,0
50,0
60,0
1950 1955 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005
Den
sità
%
Fig. 2.5. Italia. Tasso di sindacalizzazione netto, 1950-2008Note: solo CGIL, CISL e UIL; interruzione della serie tra il 1985-1986Fonti: tab. 2.4
67
Tab. 2.4. Iscritti totali (inattivi inclusi) e tasso di sindacalizzazione netto (lavoratori dipendenti)
TOTALE
Anno Iscritti Densità % Iscritti Densità % Iscritti Densità % Densità %
1950 4.640.528 - 1.189.882 - - - 50,81955 4.194.235 - 1.342.204 - - - 43,91960 2.583.170 - 1.324.398 - - - 28,51965 2.542.933 - 1.467.990 - - - 28,51970 2.942.517 17,7 1.807.586 11,8 780.000 - 38,51975 4.081.399 22,6 2.593.545 15,5 1.032.605 - 48,51980 4.599.050 22,5 3.059.845 16,8 1.346.900 - 48,71981 4.584.611 22,0 2.988.813 16,0 1.357.290 - 47,91982 4.570.252 21,2 2.976.880 15,5 1.358.004 - 46,51983 4.556.052 20,5 2.953.411 15,3 1.351.514 - 45,01984 4.546.335 19,8 3.097.231 15,7 1.344.460 - 43,41985 4.592.014 18,9 2.953.095 14,1 1.306.250 - 42,11986 4.647.038 19,2 2.975.482 13,4 1.305.682 7,1 39,71987 4.743.036 18,8 3.080.019 13,3 1.343.716 7,3 39,41988 4.867.406 18,4 3.288.279 13,6 1.397.983 7,4 39,41989 5.026.851 18,2 3.379.028 13,4 1.439.216 7,4 38,91990 5.150.376 17,7 3.508.391 13,2 1.485.758 7,3 38,21991 5.221.691 17,5 3.657.116 13,4 1.524.136 7,3 38,21992 5.231.325 17,2 3.796.986 13,7 1.571.844 7,5 38,41993 5.236.571 17,1 3.769.242 13,6 1.588.447 7,6 38,31994 5.247.231 17,0 3.752.412 13,2 1.594.105 7,8 37,91995 5.235.386 16,7 3.772.938 13,0 1.579.097 7,7 37,31996 5.211.568 16,2 3.837.104 12,8 1.593.615 7,6 36,71997 5.199.723 15,8 3.856.334 12,3 1.588.270 7,5 35,61998 5.231.360 15,8 3.909.796 11,9 1.603.940 7,4 35,11999 5.260.412 15,6 4.000.524 11,9 1.621.785 7,3 34,82000 5.310.747 15,4 4.083.996 11,7 1.628.643 7,2 34,32001 5.351.359 15,2 4.117.467 11,5 1.628.717 7,0 33,82002 5.409.588 15,2 4.153.145 11,3 1.651.749 6,9 33,42003 5.458.710 15,2 4.183.759 11,2 1.697.214 6,9 33,22004 5.522.557 15,3 4.260.937 11,4 1.740.925 6,9 33,52005 5.542.677 15,1 4.287.551 11,2 1.756.339 6,8 33,12006 5.566.609 14,9 4.346.952 11,1 1.766.541 6,7 32,82007 5.604.741 14,9 4.427.037 11,3 1.776.733 6,8 33,02008 5.634.657 14,8 4.507.349 11,5 1.811.617 6,8 33,0
Differenza (iscritti e punti percentuali)
1950-1960 -2.057.358 - 134.516 - - - -22,31960-1970 359.347 - 483.188 - - - 10,01970-1980 1.656.533 4,8 1.252.259 5,0 566.900 - 10,21980-1990 551.326 -4,8 448.546 -3,6 138.858 - -10,51990-2000 160.371 -2,4 575.605 -1,5 142.885 -0,1 -3,92000-2008 323.910 -0,6 423.353 -0,3 182.974 -0,4 -1,31960-1980 2.015.880 - 1.735.447 - 566.9001 - 20,21980-2000 711.697 -7,2 1.024.151 -5,1 281.743 -0,12 -14,4
CGIL CISL UIL
Fonti: 1950-1985 Della Rocca [1998], su dati Contabilità nazionale, ISTAT; 1986-2005 elaborazioni fornite da CISL suRTFL, ISTAT; 2006-2008 elaborazione su dati CIGL-CISL-UIL e RCFL, ISTAT; tasso di sindacalizzazione specificoper CGIL e CISL nel periodo 1970-1985 calcolato come rapporto tra membri attivi e occupati dipendenti, datifederazioni nazionali per i tesserati e Contabilità nazionale, ISTAT, per gli occupati
Note: iscritti al netto dei sindacati di seconda affiliazioni e del SILP per la CGIL; 1 1970-1980; 2 1986-2000
68
crescita della sindacalizzazione nel secondo dopoguerra che accomuna la media dei paesi europei,
per quanto, come riporta la tabella 2.4, con uno specifico crollo negli anni ’50 pari a 22,3 punti
percentuali, sconosciuto in quanto a intensità e rapidità agli altri paesi (cfr. tab. 2.1). Tra il 1960 e il
1980 la crescita è di ben 20,2 punti percentuali, mentre tra il 1980 e il 2000 la diminuzione risulta di
soli 14,4 punti, portando l’Italia nel 2008 ad avere una sindacalizzazione netta 4,5 punti percentuali
superiore al livello del 1960. Anche questo risulta un caso anomalo nel panorama europeo, in
quanto la densità media tra i paesi OCSE analizzati nel paragrafo 2.1, nel 2007 risulta (seppur di
poco) inferiore a quella del 1960. Inoltre, tra i paesi conservatori, l’Italia risulta essere l’unico
paese, oltre al Belgio, a presentare nel nuovo millennio un tasso di sindacalizzazione superiore a
quello del 1960.
La prima fase della storia della sindacalizzazione in Italia può essere compresa a partire dalla fine
della seconda guerra mondiale al 1967, ed è caratterizzata, dopo un breve inizio a forte
sindacalizzazione sotto l’egida della confederazione unitaria, da rilevanti difficoltà, non solo ad
espandere la propria influenza, ma nel trattenere i quasi sei milioni di iscritti dell’inizio degli anni
’50. E’ rilevante, però, come la quasi totalità della diminuzione di iscritti sia stata causata dal crollo
di aderenti alla CGIL, che tra il 1950 e il 1960 perde ben due milioni di membri, mentre la CISL
aumenta di più di centomila unità gli iscritti. La figura 2.6 mette in luce come, anche sul fronte
degli iscritti attivi (pensionati e disoccupati esclusi), nel primo periodo considerato il crollo della
densità sindacale netta sia da addebitare interamente alla CGIL, vista la relativa stabilità, tendente
alla crescita, della membership CISL. Tale crollo è da ricollegarsi sostanzialmente all’assenza di
meccanismi di protezione sindacale all’interno dell’impresa, unitamente a un’estrema
centralizzazione della contrattazione, combinazione che porta la CGIL, nella sua opera di
proselitismo, a fare un ricorso «pressoché esclusivo a incentivi di identità, fondati sul primato della
politica (del “dovere di classe”) rispetto agli “interessi di forza lavoro”» [Della Rocca 1998, 106-
0
1.000.000
2.000.000
3.000.000
4.000.000
5.000.000
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7.000.000
1951 1956 1961 1966 1971 1976 1981 1986 1991 1996 2001 2006
Iscr
itti a
ttiv
iFig. 2.6. Iscritti attivi, CGIL-CISL, 1951-2008Fonti: 1951-2004 Feltrin [2005]; 2005-2008 CGIL, CISL
CGIL
CISL
69
108]. All’opposto, la CISL, anche grazie alla sua impostazione di base come “sindacato-
associazione”, riesce a fare più leva sugli incentivi particolaristici, specialmente nel pubblico
impiego, dove giunge a diventare presto egemone, riuscendo a contenere il calo degli iscritti
(comunque sostenuto) nei settori industriali e agricoli, aumentando invece il numero di tesserati nel
terziario privato e pubblico [Della Rocca 1998].
La seconda fase, 1968-1980, è caratterizzata da una crescita molto rapida e continua del numero di
iscritti (nei soli anni ’70 le tre principali confederazioni, dal 1972 unite in un patto federativo,
guadagnano circa tre milioni e mezzo di iscritti) e della densità sindacale (tra il 1968 e il 1980 in
crescita di circa 20 punti percentuali). Questa volta è soprattutto la CGIL ad avvantaggiarsene,
come messo in luce dal crescente distacco tra la quota di iscritti attivi tra le due confederazioni
principali (figura 2.6): la CGIL, dal mezzo milione di iscritti attivi di vantaggio rispetto alla CISL,
passa ad averne un milione. Il forte quanto improvviso aumento della sindacalizzazione è trainato
dal ciclo di lotta iniziato alla fine degli anni ’60, ciclo che ha portato il sindacato a conquistare il
diritto di essere pienamente riconosciuto in fabbrica, anche grazie alla promulgazione dello Statuto
dei lavoratori (Legge 300/1970) [Giugni 2006]. Allo stesso tempo, una volta attenuatosi il conflitto
e ripreso il controllo sulle spinte di base, la strategia sindacale si sposta sempre più verso obbiettivi
politici esterni al luogo di lavoro, uscendo «dalla fabbrica con una strategia di cambiamento sociale
e politico che, integrandosi con quello già avvenuto all’interno delle aziende, sanzioni
definitivamente il cambiamento dei rapporti di classe nella società italiana» [Pepe 1996, 227]. In tal
modo ne «nacque un’azione politica non volta alla conquista di specifici provvedimenti legislativi o
amministrativi, bensì volta piuttosto ad affermare la presenza del sindacato nel processo di
elaborazione delle riforme che in quel momento si ritenevano urgenti per la società italiana»
[Pizzorno 1978, 37], completando quella compenetrazione, ipotizzata da Clegg [1986], tra influenza
centralizzata del sindacato e sua articolazione nei posti di lavoro, necessaria nel sostenere buoni
livelli di sindacalizzazione (cfr. par. 2.2.3).
Il declino
La terza fase nell’andamento della sindacalizzazione in Italia nel secondo dopoguerra comincia nel
1980 e arriva fino a oggi. Dal 1981, dopo il precedente trend di crescita, la densità sindacale
comincerà a declinare inesorabilmente. La rapidità e l’entità del calo è del tutto analoga a quella
della maggior parte degli altri paesi europei, il che può far pensare all’impatto di comuni cause
cicliche e strutturali. Un’importante caratteristica dell’inversione di tendenza riguarda il fatto che,
mentre negli anni ’60 e ’70 la densità sindacale è cresciuta assieme al numero degli iscritti totali,
dagli anni ’80 in avanti il declino della sindacalizzazione avviene in una situazione di
70
continuativa crescita della membership complessiva. Questo è dovuto alla particolarità delle
confederazioni italiane, composte da una quota di tesserati pensionati di gran lunga superiore a tutti
gli altri paesi europei [Visser 2006]. Nelle tre confederazioni principali il numero di iscritti ritirati
dal mercato del lavoro decolla a partire dal 1973, fino ad arrivare a rappresentare nel 2008 (tenendo
conto anche dei sindacati di seconda affiliazione), il 52,2% dei tesserati nella CGIL, il 48,8% nella
CISL e il 27% della UIL. In CGIL il sorpasso dei pensionati sugli iscritti attivi avviene già nel
1993, mentre in CISL un primo sorpasso si avrà solo nel 2000 [Feltrin 2005]. Come messo in luce
dalle figure 2.6 e 2.7, gli iscritti attivi delle due principali confederazioni cominciano a declinare già
dai primi anni ’80, accompagnati però da una sostenuta crescita dei membri complessivi (e quindi
degli inattivi). Inoltre, mentre a partire dagli anni ’50 la consistenza dei membri attivi di CGIL e
CISL risulta sufficientemente differenziata e rispondente in modo diverso a mutamenti sociali ed
economici comuni, a partire dalla seconda metà degli anni ’80 l’andamento della membership attiva
delle due confederazioni comincia ad assumere un andamento affine, arrivando a ridurre in modo
notevole la distanza tra le due confederazioni in termini di iscritti, risultato derivato, ancora una
volta, principalmente da un’ulteriore caduta del numero di tesserati attivi CGIL (che passa da circa
un milione di iscritti di vantaggio sulla CISL nel 1980 a soli 360 mila nel 2008). La CISL, invece,
già a partire dagli anni ’50 dimostra una certa stabilità, caratterizzata da oscillazioni meno ampie
della CGIL, per quanto da una membership complessivamente inferiore. Quest’ultima sembra
invece risentire in misura maggiore del ciclo politico ed economico, sia in positivo (con fortissimi
aumenti in periodi particolarmente favorevoli) che in negativo (con repentine cadute in circostanze
più avverse). Anche per quanto riguarda il tasso di sindacalizzazione, mentre per la CGIL risulta già
in forte e continuo declino a partire dai primi anni ’80, per la CISL, a un forte calo iniziale farà
seguito un periodo di discreta stabilità, riprendendo il trend discendente solo verso la metà del
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Fig. 2.7a. Iscritti e sindacalizzazione CGIL, 1980-2008Note: iscritti in migliaia; interruzione nella serie della densità sindacale tra il 1985-1986
Totale Attivi Densità %
71
decennio successivo. A partire dalla seconda metà degli anni ’90, invece, gli iscritti attivi
ricominciano a salire senza interruzioni per entrambe le confederazioni, fatto dovuto principalmente
alla ripresa della crescita del lavoro dipendente (che passa, secondo la Contabilità nazionale ISTAT,
dai 16 milioni di occupati del 1996 agli oltre 19 milioni del 2007, dopo un quindicennio di
sostanziale stagnazione). Pertanto «la dinamicità del mercato del lavoro ha rappresentato, nella
seconda metà degli anni Novanta, il fattore calmierante il calo di iscrizioni ai due principali
sindacati italiani» [Feltrin 2005, 39], fattore andato sostanzialmente a favore della CISL, che dagli
anni ’80 recupera gran parte dello svantaggio sulla principale concorrente, grazie a un’espansione
sistematica nelle aree di dominio storico della CGIL (come in Piemonte, Lombardia e Liguria, oltre,
cosa più importante, nelle zone “rosse”, Emilia Romagna, Toscana e Umbria) più che per un
rafforzamento nelle proprie aree di insediamento tradizionale (come il Veneto, la Puglia, la Calabria
e la Sicilia) [Feltrin 2005].
Passando alla composizione settoriale della sindacalizzazione, la tabella 2.5 mostra le differenze
principali tra i diversi settori economici. I settori a più alta sindacalizzazione in Italia nel 1980, anno
di culmine della densità sindacale complessiva, risultano l’agricoltura (probabilmente grazie al
sistema “quasi-Ghent” esistente di fatto nel settore [Ballarino 2005b]), il terziario pubblico e
l’industria, mentre su valori complessivamente più bassi si situa, come previsto, il terziario privato.
Nel corso degli anni ’80 e ’90 si assiste quindi a una sostanziale stabilità del settore agricolo e del
terziario pubblico, mentre una caduta sostanziale della densità sindacale si presenta nell’industria e
soprattutto nei servizi privati. Le fasi di ristrutturazione alternatesi negli anni ’80 e ’90 portano i
sindacati dell’industria a consistenti perdite di memebership attiva, perdita non compensata dai
sindacati operanti nel settore terziario in espansione, portando il tasso di sindacalizzazione totale a
perdere ben 10 punti in quindici anni [Della Rocca 1998].
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Fig. 2.7b. Iscritti e sindacalizzazione CISL, 1980-2008Note: iscritti in migliaia; interruzione nella serie della densità sindacale tra il 1985-1986
Totale Attivi Densità %
72
Tab. 2.5. Tasso di sindacalizzazione nei principali settori economici e per categorie nel ventennio di "crisi"
Settori
Anno Agricoltura Industria Terziario privato Terziario pubblico Totale
1980 98,3 45,6 38,6 45,0 48,71985 96,9 44,0 22,2 50,7 42,11990 84,6 44,7 24,1 48,2 38,21997 86,7 40,4 20,3 44,8 36,7
Categorie
Anno Tessili Chimica ed energia Costruzioni Comunicazioni Agrindustria
1991 29,6 49,1 42,9 44,5 68,82001 29,1 40,8 39,8 34,3 60,1
Anno Pubblica amministrazione
Istruzione e ricerca Trasporti Commercio Credito
1991 41,1 22,9 57,0 14,2 29,32001 31,0 23,8 33,8 13,1 33,5
Note: per i settori CGIL, CISL e UIL; per le categorie solo CGIL e CISLFonte: per i settori Della Rocca [1998] e Annuario CESOS 1997-1998; per le categorie Fetrin [2005]
Per le categorie è più difficile avere dati comparabili su un lungo lasso di tempo, in quanto per
calcolare il numero di occupati dipendenti rapportabile alle unità produttive coperte dalle diverse
federazioni è necessario fare riferimento al Censimento dell’industria e dei servizi dell’ISTAT,
condotto con cadenza decennale, e che solo dal 1991 riporta il numero di addetti in posizioni
dipendenti. Pertanto un confronto comprendente l’intero ventennio di crisi è stato condotto solo per
il settore metalmeccanico (riportato in tabella 2.6), in quanto settore storico di elezione del
sindacato. Per poter ottenere una serie più completa di dati il tasso di sindacalizzazione è stato
calcolato come rapporto tra il numero di tesserati delle tre principali federazioni metalmeccaniche
(FIOM, FIM e UILM) e il numero totale di addetti alle unità produttive di riferimento,
sottostimando così il dato in media di 5 punti percentuali rispetto a un confronto più corretto coi soli
addetti in posizioni dipendenti. In tal modo è però possibile trarre qualche conclusione sul trend di
sindacalizzazione dell’intero ventennio. Negli anni ’90, per le due principali confederazioni, le
categorie che riescono a mantenere un tasso di sindacalizzazione sostanzialmente stabile sono
quelle dell’istruzione e del commercio (dove all’aumento occupazionale del periodo corrisponde un
proporzionale aumento di membri attivi), e quella dei tessili (dove, di converso, alla diminuzione
dell’occupazione corrisponde una proporzionale diminuzione di iscritti), uniche categorie la cui
membership attiva sia stata determinata in modo proporzionale dall’incremento o decremento
occupazionale. Nei trasporti, invece, accanto a un sostenuto aumento dell’occupazione corrisponde
una forte perdita in termini di iscritti, tale da far calare di ben 13,2 punti percentuali il tasso di
73
Tab. 2.6. Iscritti e tasso di sindacalizzazione netto tra i metalmeccanici, 1981-2001
TOTALE
Anno Iscritti FIOM Densità % Iscritti FIM Densità % Iscritti UILM Densità % Densità %
1981 597.250 24,43 336.996 13,78 149.47016,11 44,33
1991 440.249 19,79 203.495 9,04 113.667 5,11 34,052001 367.938 16,54 191.730 8,52 98.570 4,38 29,26
Differenza (iscritti e punti percentuali)
1981-2001 -229.312 -7,89 -145.266 -5,26 -50.900 -1,73 -15,07
Note: densità sindacale calcolata sul totale addetti settore metalmeccanico; 11980
CGIL CISL UIL
Fonte: elaborazione su dati federazioni per gli iscritti, VIII Censimento dell'industria e dei servizi, ISTAT, per gli addettimetalmeccanici
sindacalizzazione in un solo decennio, mettendo in luce gli effetti di una riorganizzazione intra-
settoriale tesa verso una maggiore «frammentazione del tessuto d’impresa, che assume inoltre una
configurazione diversa: si riduce, al suo interno, la quota di occupati nel ferrotranviario, che passa
dalla gestione pubblica a quella privata, e si eleva il numero di occupati nella logistica e nelle
imprese del trasporto su gomma» [Feltrin 2005, 55]. Nel settore creditizio si assiste invece al
fenomeno opposto, cioè a un aumento del numero di iscritti attivi nonostante la lieve flessione
occupazionale (con un tasso di sindacalizzazione in crescita di 4,2 punti percentuali), dimostrando
la capacità di CGIL e CISL di intercettare la nuova domanda adattandosi alle caratteristiche della
stessa [Feltrin 2005], nel caso specifico grazie al coinvolgimento del sindacato nella gestione dei
processi di outsourcing sviluppatisi nel settore bancario a partire dagli anni ’90 [Paparella 2004].
Agrindustria, comunicazioni, chimici e costruzioni perdono più iscritti attivi di quanto
fisiologicamente concesso dal calo occupazionale, mentre la pubblica amministrazione (istruzione
esclusa) viene a trovarsi in una condizione di sindacalizzazione confederale calante, rispetto alle
due principali organizzazioni (CGIL e CISL), nonostante l’aumento dei dipendenti nel decennio,
soprattutto a causa della forte perdita di iscritti della CISL-FPS (Federazione lavoratori dei Pubblici
Servizi). Il settore metalmeccanico presenta invece pienamente i tratti della crisi degli assetti
fordisti e delle strutture sindacali su di essi fondatesi. Nei vent’anni seguenti il 1980, la densità
sindacale, calcolata sulle tre principali confederazioni, risulta in constante declino, con una perdita
di ben dieci punti percentuali negli anni ’80 e di altri cinque nel decennio successivo. Il declino è
pesante per tutte e tre le confederazioni, ma, per quanto riguarda il numero di iscritti, colpisce
maggiormente la CGIL, storicamente più presente di CISL e UIL nel settore. Secondo i dati del
Censimento dell’industria e dei servizi dell’ISTAT, complessivamente gli addetti nel settore calano
di sole 150.000 unità nel ventennio, a fronte di una perdita di quasi mezzo milione di tessere per
FIOM, FIM e UILM. Parallelamente, però, la dimensione media per unità locale (se si escludono
74
dal computo le aziende artigiane), passa dai 46,9 addetti nel 1981, ai 23,6 nel 1991 e ai 22,5 addetti
nel 2001. Il calo di dieci punti percentuali nel tasso di sindacalizzazione avviene quindi
parallelamente a un dimezzamento netto delle dimensioni medie degli impianti, sottolineando come
la ristrutturazione del tessuto produttivo verso sistemi di specializzazione flessibile, fondati sulla
messa in rete di sistemi a piccola impresa, metta in crescente difficoltà le basi di reclutamento
storico del sindacato industriale anche in Italia.
Un declino resistibile
L’Italia, in quanto a traiettoria della sindacalizzazione, presenta un caso particolare nel contesto
europeo. Come già accennato è l’unico paese (sistemi Ghent a parte), che nel 2008 presenta un tasso
di sindacalizzazione maggiore rispetto agli anni ’60. Dispone, inoltre, di una delle densità sindacali
più elevate nel primo decennio del 2000 (sempre escludendo i paesi scandinavi). Infine, la fase di
declino vero è proprio può considerarsi compresa tra gli anni ’80 e la fine dei ’90 (con la caduta più
critica della sindacalizzazione netta del lavoro dipendente concentrata soprattutto nel periodo 1980-
1985), mentre dall’inizio del nuovo millennio le tre confederazioni principali sembrano godere di
una certa stabilità rappresentativa, contrariamente alla maggior parte degli altri paesi (questa volta
nordici inclusi).
Paolo Feltrin [2005] individua tre principali “motori” che dagli anni ’70 hanno contribuito a
sostenere la sindacalizzazione in Italia, sia nel senso di favorirne la crescita nei periodi di forte
espansione, che di contenerne il calo nella fase di crisi cominciata negli anni ’80. Innanzitutto, con
lo Statuto dei lavoratori del 1970, diventa garantito per legge, anche nelle aziende non coperte da
contratto collettivo, il sistema di trattenuta diretta sulla busta paga delle quote sindacali (c.d. check-
off), negli anni ’60 regolato esclusivamente su base contrattuale [Giugni 2006], rendendone meno
difficile la raccolta e incentivando il mantenimento dell’iscrizione. In secondo luogo, negli anni ’80
si sviluppa la parallela tendenza (del tutto originale in Europa) ad esercitare la trattenuta sindacale
automaticamente, tramite l’INPS, anche sui redditi da pensione, fattore che spingerà ulteriormente
le confederazioni a far leva sulle tessere delle federazioni dei pensionati per contenere l’emorragia
degli iscritti attivi. Infine, il fattore più recentemente introdotto per sostenere il tesseramento risulta
lo sviluppo e la messa a regime dei Centri autorizzati di assistenza fiscale (CAAF), gestiti in larga
misura dai sindacati e affiancati al Ministero delle finanze nella gestione delle pratiche relative alla
dichiarazione dei redditi (in particolare i modelli 730 per lavoratori dipendenti e pensionati).
Quest’ultimo servizio agisce in maniera duplice rispetto alla sindacalizzazione, in quanto fornisce
sia un incentivo selettivo per i membri (visto il minore costo per gli iscritti al sindacato), atto alla
fidelizzazione dei già sindacalizzati e alla maggiore attrattiva per i non, sia in quanto viene a
75
costituire un canale fondamentale per le organizzazioni sindacali nell’entrare in contatto con
categorie di lavoratori solitamente lontane da ambienti sindacalizzati, creando un punto di contatto
utile nell’attirare membri difficilmente raggiungibili altrimenti. E’ possibile che a causa
dell’abrogazione della garanzia della trattenuta automatica in busta paga della quota sindacale
(tramite referendum nel 1995, che ne riporta l’applicabilità esclusivamente tramite contrattazione
collettiva [Giugni 2006]), e della saturazione del mercato dei moduli 730 gestiti dai CAAF
sindacali, in futuro sarà sempre meno possibile fare ricorso a tali strumenti nel sostenere la
sindacalizzazione, rendendo necessarie nuove aree di intervento [Feltrin 2005].
Il declino, in termini di iscritti attivi, non è però stato omogeneo all’interno delle principali
confederazioni. Come già mostrato in figura 2.6, la CISL è riuscita ad attraversare in modo meno
drammatico il ventennio di crisi, risultando la sindacalizzazione complessiva meno connotata in
senso ciclico rispetto alla CGIL. Anche la UIL dimostra una maggiore capacità di tenuta lungo gli
anni ’80 e ’90: mentre il tasso di sindacalizzazione della CGIL, tra il 1986 e il 2008, si riduce del
23% (passando dal 19,2% al 14,8%) e nella CISL del 14% (dal 13,4% al 11,5%), nella UIL la
diminuzione è solo del 4% (dal 7,1% al 6,8%). Le forti differenze tra il sindacato comunista rispetto
agli altri due, nella tenuta della sindacalizzazione durante il passaggio agli assetti produttivi post-
fordisti, possono forse essere ricondotte alla maggiore “razionalità organizzativa” di CISL e UIL.
Patrizio Di Nicola [1994], per tentarne una misurazione, propone la costituzione di un indice
alternativo al tasso di sindacalizzazione netto, in quanto «la rappresentatività di un sindacato, oltre a
dipendere dalla percentuale di forza-lavoro che si riesce ad organizzare, è legata anche alla coerenza
delle adesioni rispetto alla distribuzione settoriale dell’occupazione» [Di Nicola 1994, 62]. Tale
indice, denominato “indice di equilibrio della rappresentanza”1, assume un campo di variazione
compreso tra 0 e 1, indicando a valori più alti una maggiore coerenza organizzativa. Al valore
massimo è associata una distribuzione percentuale dei lavoratori dipendenti nelle diverse branche di
attività (agricoltura, industria e servizi) identica alla distribuzione delle tessere delle diverse
federazioni all’interno del tesseramento confederale del lavoro dipendente. Resta da tener presente,
comunque, come un valore maggiore sull’indice può derivare sia da un aumento del tesseramento in
un settore prima sottorappresentato (il che sottolineerebbe un maggiore sforzo organizzativo del
sindacato), sia dalla stagnazione delle iscrizioni in un settore in forte declino occupazionale e
precedentemente sovrarappresentato (il che invece metterebbe in luce una certa inerzia). Dalla
tabella 2.7 vediamo come, all’inizio del ventennio di crisi, le associazioni sindacali con una
struttura interna più coerente rispetto al tessuto produttivo risultino CISL e UIL, grazie alla già forte
1 IE = 1 – [ABS(Da – Ta) + ABS(Di – Ti) + ABS(Ds – Ts)], con Da, Di e Ds rispettivamente la proporzione di occupazione dipendente in agricoltura, industria e servizi, e con Ta, Ta e Ts la proporzione di tessere agricole, industriali e dei servizi rispetto al tesseramento totale tra i lavoratori dipendenti [Di Nicola 1994].
76
Tab. 2.7. Indice di equilibrio della rappresentanza, 1981-2008
Anno
IE Densità sindacale %
IE Densità sindacale %
IE Densità sindacale %
IE Densità sindacale %
CGIL 0,71 22,0 0,60 17,7 0,52 15,4 0,67 14,8CISL 0,82 16,0 0,85 13,2 0,72 11,7 0,82 11,5UIL 0,92 7,9 0,85 7,3 - 7,2 0,79 6,8
Differenza percentuale
CGIL -16,1% -19,5% -13,5% -13,0% 30,8% -3,9%CISL 3,3% -17,5% -14,5% -11,4% 13,0% -1,7%UIL -7,6% -7,2% - -1,4% - -5,6%
Note: per le federazioni multisettoriali stime settoriali sulla base delle proporzioni dei tesserati per settore prima delle fusioni
Fonte: per il 1981 Di Nicola [1994]; altri anni elaborazioni su dati federazioni per gli iscritti e Contabilità nazionale, ISTAT,per gli occupati dipendenti
1981 1990 2000 2008
1981-1990 1990-2000 2000-2008
presenza, rispetto al totale degli iscritti dipendenti, nel settore terziario. Negli anni ’80, quindi, la
riduzione del tasso di sindacalizzazione sarà effettivamente più contenuta per la CISL e la UIL,
entrambe accomunate da un maggiore indice di equilibrio di partenza, rispetto alla CGIL. Negli
anni ’90 quest’ultima peggiora ulteriormente la propria razionalità organizzativa (a causa della
minore proporzione di tessere nel terziario e dell’ancora elevata presenza di tessere industriali sul
totale, rispetto a una struttura occupazionale dipendente sempre più terziarizzata), e tra il 1990 e il
2000 saranno ancora le confederazioni più aderenti alla struttura dell’occupazione a ridurre in modo
più contenuto il tasso di sindacalizzazione. Dopo il 2000, infine, la CGIL, grazie a un forte aumento
della proporzione di tessere nel terziario e a un’altrettanto forte riduzione nel settore industriale,
riesce a migliorare il proprio indice di equilibrio, arrivando a ottenere un calo percentuale nella
sindacalizzazione inferiore alla UIL, ma comunque di molto maggiore della CISL, che tra il 1981 e
il 2008 è riuscita a mantenere costantemente una certa coerenza nel tesseramento rispetto alla realtà
occupazionale, presentando così una minore volatilità nelle dimensioni della membership attiva. Tra
il 1986 e il 2002, inoltre, accanto all’andamento degli iscritti attivi sempre più simile per CISL e
CGIL, il tasso di dissimilarità relativo tra le due confederazioni (calcolato sulle differenze nella
composizione percentuale delle diverse federazioni sul totale) subisce una riduzione, confermando
l’esistenza di un avvicinamento della CGIL alla struttura del tesseramento della CISL, rispetto al
vecchio modello fortemente sbilanciato verso il settore industriale [Feltrin 2005]. Pertanto è
possibile concludere come quelle organizzazioni che negli anni ’80 hanno fondato la propria
struttura organizzativa in modo omogeneo rispetto alla struttura dell’occupazione (CISL e UIL),
sono riuscite a contenere in qualche misura l’erosione relativa degli iscritti, mentre quelle
organizzazioni, come la CGIL, con un tesseramento fortemente sperequato e fondato
77
principalmente su una categoria occupazionale (il settore industriale e manifatturiero), sono risultate
più vulnerabili ai cambiamenti ciclici e strutturali dell’economia, mostrando le perdite più
consistenti, e riuscendo a interrompere il riflusso solo a patto di razionalizzare maggiormente la
propria struttura associativa. Pertanto il tasso di sindacalizzazione netto risulta una misura
incompleta della forza e della rappresentatività di un sindacato, in quanto, anche in presenza del
tasso più elevato tra le principali confederazioni, «la forte localizzazione degli iscritti in un unico
settore di attività o tra un delimitato gruppo sociale non è mai un indicatore di forza né tantomeno di
razionalità organizzativa. E’ spesso, al contrario, un segnale di abdicazione ai propri compiti» [Di
Nicola 1994, 73].
Il sindacalismo non confederale
Il sistema di relazioni industriali italiano del secondo dopoguerra, assieme alla relativa legislazione
promozionale e di sostegno, si è delineato fondandosi su una rappresentanza del lavoro
sostanzialmente di tipo confederale, costruita su un criterio della rappresentatività di tipo “storico”,
in quanto «basata sul dato storico dell’effettività dell’azione sindacale svolta dalle grandi
confederazioni: al momento dell’approvazione dello Statuto dei lavoratori, che in tale nozione
aveva uno dei suoi perni, vi erano pochi dubbi sul fatto che la storia e la realtà del sindacalismo
italiano fossero una storia e una realtà di confederazioni» [Giugni 2006, 64]. Pertanto, almeno fino
alla seconda metà degli anni ’80, la selezione dei sindacati atti a contrattare o destinatari dei diritti
sindacali, veniva effettuata senza eccessivi problemi secondo il criterio di “sindacato maggiormente
rappresentativo”, fondato sul concetto di rappresentatività presunta (criterio per sua natura lontano
da misurazioni oggettive di tipo quantitativo), e tale da privilegiare il ruolo delle confederazioni
esistenti, CGIL, CISL e UIL [Giugni 2006]. La realtà sindacale italiana, però, non è mai stata
composta esclusivamente dalle tre confederazioni principali, bensì a queste nel corso del tempo si
sono affiancate una serie di sigle sindacali extra-confederali, i c.d. sindacati “autonomi”,
aggettivazione atta a rimarcarne l’estraneità dalla politica sindacale confederale. Domenico Carrieri
[1998; 2000] distingue tre tipi di sindacalismo extraconfederale. Innanzitutto vi sono i sindacati
autonomi classici, solitamente tesi a comportamenti rivendicativi più tradizionali, e orientati su
posizioni moderate o di destra sul piano politico-culturale, ma esclusi dal novero dei “sindacati
maggiormente rappresentativi” (ad esempio la CISNAL, oggi UGL, fondata nel 1950, e punto di
riferimento per i movimenti monarchici, conservatori e neo-fascisti, o la CISAL, presente dal 1957
[Visser 2000]). In secondo luogo vi sono i nuovi sindacati di mestiere, od occupazionali, incardinati
in specifici gruppi o sottogruppi sociali unificati da posizioni professionali omogenee, «spesso con
una storia lunga, ma rinnovati o rifondati negli anni Ottanta, caratterizzati da una ricerca
78
spregiudicata di benefici particolaristici per i loro membri» [Carrieri 2000, 768] (esempi ne sono la
CIDA, sindacato dei dirigenti, la Confedir, per le alte cariche del settore pubblico, o la FABI, per i
bancari). Infine vi è il variegato numero di esperienze definibili come “sindacalismo di base”,
materializzatosi più di recente (verso metà anni ’80), spesso su posizioni di sinistra o sinistra
estrema, «il cui radicalismo coincide con una vecchia storia, caratterizzata dalla pratica di classe e
dal valore finalistico del conflitto» [Carrieri 1998, 305] (ad esempio le varie esperienze dei
coordinamenti, dei Cobas, i Cub, le Rdb, etc…).
Complessivamente, ancora una volta, sono i fattori istituzionali ad avere maggiore rilievo nella
spiegazione dello sviluppo del sindacalismo autonomo in Italia, grazie alla loro capacità di
determinare gli esiti derivanti dalla ristrutturazione produttiva del paese [Cella 1991b]. Per quanto
molti dei sindacati extraconfederali abbiano lunga storia, solo verso la metà degli anni ’80 hanno
cominciato a venir messe in discussione le basi storiche della presunta maggiore rappresentatività
confederale, a causa dell’irruente ingresso di un gran numero di “nuovi attori” nelle relazioni
industriali italiane [Cella 1991a]. Tali nuovi soggetti vanno principalmente ricompresi nella seconda
e terza categoria del sindacalismo non confederale sopra citate, essendo solitamente fondati su
realtà occupazionali tanto omogenee quanto ristrette, e tesi a rivendicazioni occupazionali di tipo
particolaristico. Questi movimenti risultano accomunati da tre caratteristiche fondamentali: la loro
sostanziale concentrazione nei servizi pubblici e nel pubblico impiego, «il carattere anticonfederale
dei nuovi attori, nel duplice senso della opposizione alle confederazioni storiche e del rifiuto di una
logica di rappresentanza generale» [Cella 1991b, 23], e la loro disponibilità di un alto potere
vulnerante, tale da rendere la loro protesta molto efficace con costi relativamente contenuti. Il
“brodo di coltura” di tali movimenti di base o del sindacalismo occupazionale autonomo possono
essere ricondotti al processo di riorganizzazione delle relazioni sindacali nel settore pubblico a
cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Verso la metà degli anni ’70 le principali confederazioni si trovano al
culmine della propria forza, presentando la massima articolazione organizzativa possibile (nel 1977
la CGIL affilia 31 federazioni, la CISL 33 e la UIL 30, in confronto alle, rispettivamente, 16, 21 e
23 di vent’anni dopo [Visser 2000]). Nel gestire una situazione di rappresentanza tanto vasta e
variegata diviene così necessaria una strategia di razionalizzazione e coordinamento delle
rivendicazioni dei sindacati di prima affiliazione, linea poi formalizzata nella strategia dell’Eur
dell’inizio del 1978 (fondata su coordinamento confederale, unificazione dei contenuti rivendicativi
e contenimento responsabile delle rivendicazioni) [Bordogna 1991]. Tale strategia di
razionalizzazione e centralizzazione avviene a tappe forzate soprattutto nel settore pubblico,
registrandosi «tra la fine degli anni ’70 e primi ’80 il passaggio da una situazione di organismi
spesso ancora di qualifica alla costruzione accelerata di un sindacalismo industriale di massa, con
79
accorpamenti categoriali in federazioni molto comprensive» [Bordogna 1991, 83]. Nel 1980, ad
esempio, nasce la federazione della funzione pubblica della CGIL, seguita nel 1983 da quella della
CISL, ricomprendente sindacati dei dipendenti statali, parastatali e degli enti locali (nel caso della
CGIL anche dei lavoratori della sanità), prima disaggregati in federazioni specifiche [Bordogna
1987]. Tale processo di riorganizzazione sindacale avviene anche parallelamente al processo di
“contrattualizzazione” delle relazioni di lavoro nel settore pubblico, nel 1983 definito sulla base di
soli otto comparti di contrattazione stabiliti per legge (rispetto all’estrema frammentazione del
periodo di contrattazione informale e alla graduale estensione della contrattazione a un elevato
numero di categorie negli anni ‘70), rendendo necessaria una maggiore razionalizzazione della
struttura confederale del sindacalismo del settore pubblico [Bordogna 1991; 1998]. Al di sotto di
questa opera di centralizzazione delle relazioni di lavoro intrapresa dalle amministrazioni pubbliche
e dalle principali confederazioni si coltiva, perciò, il malcontento di quelle figure professionali che
sentono minacciata la propria autonomia e indipendenza, o le proprie posizioni di rendita. La
centralizzazione rappresentativa, infatti, tende a basarsi su una logica maggiormente encompassing
(definita da Olson [1982] come una linea di rappresentanza comprensiva di un largo numero di
interessi eterogenei, tesa a internalizzare i costi della propria azione, contenendo cioè le
rivendicazioni particolaristiche a favore di obiettivi più generali e moderati di cui possa godere, per
quanto in misura minore, la totalità dei propri membri), riducendo le possibilità di azione autonoma
dei gruppi occupazionali più settari, meno disposti a sacrificare le proprie istanze particolariste,
grazie spesso alla posizione di forza derivante dal «“potere vulnerante” di cui dispongono le figure
lavorative in questione, la capacità che hanno, per la “posizione strategica” che occupano nella
organizzazione del lavoro di un certo servizio (in genere esso stesso di importanza strategica per
l’economia e la società), di produrre o minacciare danni enormi» [Bordogna 1987, 138].
I motivi per cui tale esplosione di movimenti sia avvenuta per la quasi totalità nel settore pubblico
può essere ricondotta a tre motivazioni principali. Innanzitutto la quasi assenza (per lo meno fino
alle recenti riforme tese alla promozione della c.d. contrattazione integrativa) di una contrattazione
decentrata formalmente riconosciuta nel settore pubblico. Questo non permette che accanto a una
ricentralizzazione della contrattazione, concentrata su risultati macroeconomici generali, faccia da
contrappeso una micro-definizione di interessi più specifici più vicina al posto di lavoro, rendendo
la dissidenza da tale sistema il modo più efficace nel sostenere le proprie richieste. Una seconda
ragione, strettamente collegata alla prima, riguarda, a causa dell’elevata burocratizzazione della
relazione di lavoro, la carenza di politiche attive di amministrazione del personale, in grado di
motivare i lavoratori a più alta professionalità, che preferiscono così rivolgersi alle associazioni
autonome di mestiere. Infine, lo sviluppo della grande quantità di sindacati occupazionali e
80
autonomi, avviene grazie al loro operare in un settore protetto dalla concorrenza, azzerando così
quel grado di responsabilità derivante dalla necessità di mantenere competitiva l’impresa sul
mercato al fine di salvaguardare il proprio posto di lavoro [Bordogna 1991]. I piccoli gruppi
particolaristici, o addirittura single issue (destinati a nascere e sciogliersi in relazione a singoli
problemi), operanti nel settore pubblico, risultano perciò non soltanto deresponsabilizzati rispetto
alle performances macroeconomiche prodotte dal loro agire, ma addirittura indifferenti ai risultati
microeconomici causati dalle proprie rivendicazioni (situazione che invece non trova riscontro nel
settore privato) [Cella 1991b].
Più difficile risulta invece stimare la consistenza numerica dei sindacati autonomi, a causa della
poca trasparenza delle fonti sul tesseramento fornite dalle associazioni stesse, per la loro incredibile
numerosità e frammentarietà, le solitamente ridotte dimensioni, per la loro natura volubile e
l’elevata nati-mortalità. In relazione all’intera economia (settore pubblico e privato), si può stimare
che se si tenesse conto anche del sindacalismo autonomo e di base, il tasso di sindacalizzazione
netto sarebbe più elevato di circa il 10-20% rispetto a quanto stimato sulla sola base del
tesseramento di CGIL, CISL e UIL [Visser 2000; Calmfors et al. 2002]. Nel settore privato la stima
risulta particolarmente difficile, non esistendo sistemi pubblici di rilevazione del tesseramento, ma è
possibile stimare la consistenza del sindacalismo non confederale basandosi sulla proporzione di
voti ottenuti dalle diverse sigle alle elezioni aziendali delle Rappresentanze Sindacali Unitarie
(RSU, previste dall’accordo tripartito del 23 luglio 1993). Nel 1996, l’Osservatorio nazionale sulle
RSU promosso da CGIL, CISL e UIL stimava per l’industria uno 0,21% di voti ottenuti dalla
CISNAL, lo 0,07% dalle Rdb-Cub e lo 0,26% dalla CISAL. Per quanto la partecipazione alle
elezioni dei sindacali extra-confederali può risultare inferiore proprio a causa dell’opposizione degli
stessi agli strumenti di rappresentanza tipici dei sindacati confederali, tali stime indicano comunque
la scarsa rilevanza di tali sigle nel settore privato [Carrieri 1998]. Nel settore pubblico la situazione
risulta differente. Innanzitutto la stima della sindacalizzazione effettiva risulta più precisa e
completa, essendosi avviato, parallelamente al completamento della contrattualizzazione del
rapporto di lavoro pubblico negli anni ’90, un sistema di misurazione della rappresentanza effettiva,
misurata sia sulla base del numero di deleghe raccolte dalle diverse rappresentanze sindacali, sia
sulla proporzione di voti raccolti alle elezioni per le Rappresentanze Unitarie del Personale (RUP,
poi rinominate RSU in analogia col settore privato), accogliendo il c.d. criterio di maggiore
rappresentatività ponderata, come superamento della rappresentatività presunta [Giugni 2006]. Per
le ragioni sopra discusse, quindi, nelle pubbliche amministrazioni si trova, accanto a una
sindacalizzazione complessivamente più alta del settore privato, anche una più consistente quota di
sindacalizzazione proveniente da associazioni sindacali autonome e di base. Grazie ai dati raccolti
81
dal Dipartimento della Funzione Pubblica, nel 1996 è possibile osservare come per una
sindacalizzazione complessiva dei comparti pubblici (ministeri, parastato, enti locali, aziende
autonome, sanità, scuola, università e ricerca) pari al 44,48%, la sindacalizzazione derivante da
CGIL, CISL e UIL si fermasse al 30,44%, essendo il rimanente 14,03% (cioè il 31,6% delle deleghe
sottoscritte) raccolto da sindacati extra-confederali [Bordogna 1999]. Dieci anni dopo, nel 2006, la
situazione sembra però essersi resa più favorevole a CGIL, CISL e UIL, che infatti riescono ora ad
aggregare mediamente l’80% delle deleghe e dei consensi nelle elezioni per le RSU del personale
dei comparti (in una situazione di dominio associativo della CISL, elettorale per la CGIL e di
costante crescita in entrambi per la UIL) [Bordogna e Carrieri 2008], nel contesto di un tasso di
sindacalizzazione complessivo nel settore pubblico stimato dall’Agenzia per la rappresentanza
negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) pari al 50,08% (dato comunque sovrastimato, a
causa del fenomeno delle tessere doppie, sottoscritte cioè dallo stesso dipendente in favore di più
federazioni sindacali). Anche nel settore pubblico esistono però rilevanti differenze intra-settoriali.
In particolare le figure dirigenziali risultano complessivamente le più sindacalizzate in assoluto, con
una forte predominanza dei sindacati occupazionali e autonomi (sempre secondo l’ARAN, per il
2006 nel comparto scuola più del 90% dei dirigenti risultavano sindacalizzati, intorno al 70% per il
comparto sanitario, quasi il 98% per gli enti pubblici non economici, mentre intorno al 50% nei
rimanenti comparti, dati sostanzialmente stabili dal 1996 [Bordogna 1999]). I diversi comparti
risultano poi differenti rispetto ai rapporti di forza tra sindacati confederali e autonomi. Nel
personale della scuola risulta particolarmente forte la SNALS-CONFSAL (col 21,37% delle
deleghe, ma con una comunque robusta rappresentanza, mediamente del 10%, negli altri comparti),
che viene a porsi come una vera e propria quarta confederazione accanto a CGIL, CISL e UIL
[Bordogna e Carrieri 2008], e la Gilda degli insegnanti (col 6,18%), nata nel 1988 dal movimento
dei Cobas della scuola [Bordogna 1991]. Di minore ma non trascurabile importanza risultano poi le
Rappredentanze di Base (Rdb), che raccolgono una proporzione di deleghe tra il 2 e il 7% a seconda
del comparto, mentre di scarsa rilevanza risulta l’Unione Generale del Lavoro (UGL, filiazione
della CISNAL), che di rado supera l’1-2% delle deleghe (ma con un certo radicamento, intorno al
7%, nel nuovo comparto che raggruppa i dipendenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri).
La situazione di estrema frammentazione nel pubblico impiego risulta però in diminuzione nel
decennio 1998-2008. Nel 1996 nel settore pubblico esistevano ben 714 associazioni sindacali di
prima affiliazione (di cui il 52% raccoglievano meno dello 0,1% delle deleghe, l’11,5% con una
sola delega sottoscritta, e con una dimensione media, escludendo CGIL, CISL e UIL, di appena 565
membri), e 412 di seconda, con una particolare concentrazione nei comparti più piccoli e soprattutto
per le qualifiche dirigenziali [Bordogna 1999]. Un’opera di grande semplificazione viene perciò
82
operata dal Dlgs 396/1997, che fissa come soglia minima per la partecipazione alla contrattazione
nazionale di comparto una rappresentatività del 5% come media tra dato associativo e dato
elettorale. In questo modo «l’impianto legislativo, costruito in funzione della selezione dei soggetti
ammessi ai tavoli negoziali, ha operato una spinta culturale oltre che pratica verso meccanismi di
aggregazione del consenso. Le modifiche che ne sono derivate hanno spostato in molti casi la stessa
razionalità organizzativa in direzione della logica di intermediazione degli interessi e dei gruppi su
scala più larga che del passato. […] Questo incentiva le organizzazioni autonome a essere meno
specializzate e più trasversali nella loro logica di azione e di rappresentanza» [Bordogna e Carrieri
2008, 68]. Pertanto la principale evoluzione registrata nel decennio risulta una progressiva
“confederalizzazione” dell’azione sindacale nel settore pubblico (con la nascita della CGU,
Confederazione Gilda degli insegnanti-UNAMS, nel 2003, e un’azione dei principali sindacati
autonomi, UGL, CONFSAL e Rdb, sempre più affine a quella di CGIL, CISL e UIL), spinta anche
dall’azione dell’ARAN tesa a incentivare affiliazioni stabili tra i sindacati, riducendo i cartelli di
comodo nati al solo scopo di superare le soglie di rappresentatività minima [Bordogna e Carrieri
2008].
Le determinanti della sindacalizzazione
In conclusione, resta da chiarire se, sottoposta a un’analisi multivariata, l’Italia presenti delle cause
differenti rispetto al resto d’Europa per quanto riguarda i livelli o l’aumento e la diminuzione del
tasso di sindacalizzazione netto. Nonostante i pochi studi condotti sul caso italiano, si possono
comunque trarre delle conclusioni non del tutto differenti da quelle riferite nei modelli presentati nel
paragrafo 2.2.
Cominciando dalle variabili cicliche (cfr. par. 2.2.1), un primo studio di Daniele Checchi e
Giacomo Corneo [2000], riferito al periodo 1951-1994, testa le possibili variabili esplicative della
sindacalizzazione in un’ottica di lungo (in relazione al livello complessivo del tasso di
sindacalizzazione netto, calcolato solo sugli iscritti a CGIL e CISL), e breve periodo (in relazione
alle variazioni del tasso). Viene innanzitutto trovata, per quanto riguarda i fattori relativi al ciclo
economico, una relazione positiva tra la partecipazione dei lavoratori dipendenti ad attività di
sciopero, relative a questioni di lavoro, e sia la densità sindacale complessiva che la sua variazione.
Anche Davide La Valle [2001], analizzando il periodo 1960-1999, trova un impatto positivo e
statisticamente significativo dell’aumento del numero di giornate perse per sciopero e la crescita del
numero di iscritti attivi di CGIL e CISL nell’anno successivo, per quanto tale effetto risulti sempre
più di scarsa intensità, a causa della odierna minore attività conflittuale rispetto agli anni ’60-‘70. In
particolare l’effetto risulta, disaggregando, significativo per la sindacalizzazione del settore
83
industriale, ma non per quella nei servizi. Una peculiarità riguarda, poi, il fatto che il numero di ore
perse in conflitti estranei dal rapporto di lavoro tenda a ridurre la sindacalizzazione della CISL,
probabilmente in quanto «la crescita dei conflitti estranei al rapporto di lavoro in genere è collegata
all’insediamento di un governo “non amico” [della CISL…], nella quale hanno maggiore peso gli
iscritti nel settore pubblico, ossia una categoria di lavoratori per i quali il rapporto fra sindacato e
governo ha particolare importanza» [La Valle 2001, 110-111]. Sempre da Checchi e Corneo [2000],
poi, viene trovato nel breve periodo un forte effetto della crescita dei salari reali (per la maggior
parte contrattati dai sindacati) sulla crescita della densità sindacale, per quanto è più probabile che
l’effetto causale funzioni all’inverso, risultando le due variabili determinate congiuntamente (una
maggiore forza sindacale determina salari reali più elevati, risultato che non costituisce un beneficio
selettivo utile ad attrarre nuovi membri, vista la sostanziale applicabilità erga omnes dei risultati
della contrattazione). Una congiuntura economica favorevole, inoltre, approssimata con la crescita
dell’indice della produzione industriale, determina un aumento degli iscritti attivi dei sindacati
confederali. Il ciclo economico positivo aumenta i costi per l’imprenditore nell’opporsi al sindacato
(potendo scaricare eventuali aumenti del costo del lavoro su un mercato in espansione), rendendo
più facile l’opera di proselitismo. In particolare risulta avvantaggiata la CISL, in quanto per la sua
natura di sindacato-associazione risulta più facilitata nel fornire ai potenziali membri incentivi
basati sull’aumento di risorse materiali disponibili agli iscritti, più che sull’unità di classe come per
la CGIL [La Valle 2001]. Anche la disponibilità di un crescente surplus (inteso come la quantità di
risorse disponibili per la contrattazione collettiva eccedenti il salario di riserva, calcolato come
salario medio dei settori non sindacalizzati), gioca un ruolo positivo sulla densità sindacale, in
quanto «i funzionari sindacali italiani sembrano comportarsi strategicamente, promuovendo più
attivamente campagne di reclutamento laddove più grande sia il surplus disponibile» [Checchi e
Corneo 2000, 172]. In analogia con la letteratura internazionale, poi, anche in Italia l’aumento della
disoccupazione risulta avere un effetto negativo sulla sindacalizzazione [Checchi e Visser 2005],
colpendo in particolare la CGIL, vista la sua presenza maggioritaria in settori più soggetti a
fluttuazioni occupazionali in caso di congiuntura negativa (come quello industriale), rispetto alla
CISL, più rappresentativa nei settori protetti (come la pubblica amministrazione) [La Valle 2001].
Per quanto riguarda il ciclo politico, infine, la percentuale di voti ottenuti dai partiti di sinistra alle
elezioni più vicine non risulta una variabile significativa nello spiegare i livelli e le variazioni della
sindacalizzazione in Italia [Checchi e Corneo 2000]. E’ comunque da rilevare come, tra gli iscritti ai
diversi sindacati in condizione di lavoro dipendente nel settore privato, risulti esservi una differente
propensione di voto: tra gli iscritti alla CGIL, nel 2006, il 70% ha votato per la coalizione di centro-
sinistra, mentre solo il 17% per il centro-destra. Nella CISL, fatto che sottolinea la maggiore
84
indipendenza della confederazione da logiche partitiche definite, gli iscritti si sono divisi
sostanzialmente a metà tra le due coalizioni (42% al centro-sinistra e 40% al centro-destra), mentre
la UIL risulta leggermente meno divisa e caratterizzata da una maggiore propensione verso il
centro-sinistra (per cui ha votato il 48% dei membri, contro il 37% di consensi per lo schieramento
avverso). Risulta, comunque, come la maggior parte dei lavoratori dipendenti del settore privato
iscritti ai sindacati confederali siano in misura non indifferente orientati politicamente verso i partiti
di centro-sinistra [Feltrin 2006].
Una prima variabile strutturale (cfr. par. 2.2.2) presa in considerazione per il caso italiano è la
proporzione della forza lavoro maschile sul totale del lavoro dipendente: un aumento di tale
proporzione risulta avere un effetto intenso e significativo sulla crescita della sindacalizzazione nel
breve periodo, per quanto tale risultato non tenga conto delle caratteristiche del posto di lavoro.
Anche una maggiore proporzione di dipendenti del settore pubblico rispetto al totale gioca un ruolo
positivo sui livelli di sindacalizzazione, per quanto non significativo, coerentemente con quanto
discusso nel paragrafo 2.2.2 [Checchi e Corneo 2000; Checchi e Visser 2005]. La proporzione di
lavoratori nell’industria, solitamente intensamente correlato con una maggiore densità sindacale
[Lee 2005], in Italia non risulta esercitare un effetto significativo [Checchi e Corneo 2000].
Addirittura, a un’analisi statica non basata su serie temporali, Gabriele Ballarino [2005b] trova
come l’effetto della dimensione dell’occupazione dipendente nel settore industriale risulti negativo,
per quanto non superando di poco il test di significatività, nei confronti della densità sindacale, a
causa della frammentarietà del tessuto produttivo industriale italiano. Un ruolo interessante nel
promuovere la sindacalizzazione, invece, risulta essere il tessuto associativo presente sul territorio.
Un maggiore livello di capitale sociale o senso civico, misurato come numero di associazioni ogni
10.000 abitanti, risulta essere correlato positivamente a un maggiore livello di sindacalizzazione
complessivo, ed esercitare un effetto positivo e significativo, a parità di altri fattori, sulla
membership della CGIL [Ballarino 2005b]. La correlazione ecologica tra voto e sindacato risulta
particolarmente forte e intensa per la CGIL, ma non per la CISL (che sembra sfuggire a una logica
di appartenenza guidata da fattori politico-culturali), per quanto, a partire dagli anni ’80, si assista a
un’ampia diminuzione nella forza di tale relazione, soprattutto tra il voto a partiti di sinistra e il
sindacato “rosso” [Feltrin 2006]. Paolo Feltrin rileva, però, come curiosamente la percentuale di
voti ottenuti dal PCI nel 1987 sia correlata positivamente e in modo robusto con la
sindacalizzazione della CGIL nel 2002, più di quanto non lo siano i voti per i partiti del centro-
sinistra nel 2001. Questo indicherebbe come, anche in passato, fosse «infatti la subcultura politico-
territoriale la variabile che spiegava bene l’adesione al sindacato “rosso”, e non, genericamente, il
85
voto a sinistra» [Feltrin 2005, 83], confermando l’importante ruolo di fattori legati al capitale
sociale e alla cultura associativa, per lo meno per il principale sindacato italiano, nell’adesione.
I fattori istituzionali (cfr. par. 2.2.3), infine, al pari della maggioranza dei paesi europei, risultano
essere di grande importanza per l’esperienza italiana. Checchi e Corneo [2000] trovano come
l’introduzione dello Statuto dei lavoratori, nel 1970, abbia giocato un ruolo di gran lunga superiore,
rispetto agli altri fattori ciclici e strutturali analizzati, sull’aumento della densità sindacale in Italia,
confermando il ruolo cruciale di una legislazione promozionale alla presenza del lavoro organizzato
sul posto di lavoro nell’incentivare la crescita delle associazioni sindacali. Tale variabile assume un
ruolo forte e significativo anche nel modello di Checchi e Visser [2005], qualora applicato alla sola
Italia. Un ultimo fattore, coerentemente con la teoria, utile nello spiegare la crescita della
sindacalizzazione, risulta la centralizzazione della contrattazione, in quanto utile nel ridurre
l’opposizione al sindacato in azienda da parte del management [Checchi e Corneo 2000].
In conclusione, l’Italia sembra presentare diversi tratti affini, per quanto riguarda il percorso della
sindacalizzazione, rispetto allo scenario europeo, pur con alcune peculiarità. Accanto a fattori
comuni (come il ruolo negativo della disoccupazione o quello positivo della crescita dei dipendenti
pubblici), vi sono delle differenze che tendono ad allontanarla da uno scenario condiviso,
primariamente la particolarità di un settore manifatturiero fondato sulla piccola impresa di difficile
sindacalizzazione, una discreta capacità nell’intercettare la nuova domanda in alcuni settori del
terziario privato (come il credito: contrariamente alla maggior parte dei paesi, la nuova occupazione
sembra avere un effetto positivo sulla densità sindacale, seppur non raggiungendo la significatività
[Checchi e Visser 2005]), e un buon rapporto del sindacato con la crescente immigrazione (cfr. par.
2.2.2). Inoltre, il relativamente tardo riconoscimento del sindacato sul luogo di lavoro, dopo una
strenua opposizione imprenditoriale durante gli anni ’50 [Pepe 1996], ha contribuito a creare una
cesura netta nel 1970, rendendo il trend di sindacalizzazione profondamente diverso dagli altri paesi
conservatori, e composto da due massimi (l’inizio degli anni ’50 e la fine dei ’70) e due minimi (gli
anni ’60 e gli anni dopo il 2000) molto distanziati tra loro (mediamente di venti punti percentuali),
invece che da un andamento più regolare, pur caratterizzato da oscillazioni (per quanto meno ampie,
cfr. par. 2.1). Anche la più elevata conflittualità (per quanto riguarda sia frequenza, partecipazione
che giornate di lavoro perse), esplosa negli anni ’60 e ’70 con non trascurabili strascichi negli anni
’80, rispetto agli altri paesi europei (anche particolarmente colpiti dall’ondata del ’68, come la
Francia), può aver contribuito a far assumere un andamento del tutto particolare alla
sindacalizzazione in Italia [Bordogna e Cella 2001].
86
III.
IL FUTURO DELLA PRESENZA DEL SINDACATO
3.1 L’attore sindacale
Declino o ripiegamento?
Il declino della sindacalizzazione nella maggior parte delle economie occidentali è un dato ormai
costante da circa trent’anni, e, per quanto i tassi di sindacalizzazione dei diversi paesi non abbiano
ancora cominciato a convergere, sembra poco probabile una ripresa della crescita, generalizzata o
anche localizzata in quei paesi che storicamente hanno costituito un terreno fertile per la presenza
sindacale (cfr. par. 2.1). Per quanto le differenze istituzionali contribuiranno a mantenere una
pluralità di livelli di membership sindacale estremamente differenziata, le associazioni di
rappresentanza dei lavoratori si trovano ora più che mai di fronte a sfide comuni di larga scala, con
caratteristiche difficilmente affrontate in precedenza [Calmfors et al. 2002]. I sindacati europei si
trovano in particolare di fronte a due importanti sfide: il rapido cambiamento tecnologico e
l’integrazione economica europea (intesa sia come controllo centralizzato della politica monetaria
che come allargamento a est dell’Unione) [Boeri 2003; Visser 2005]. Il mercato del lavoro delle
società dei servizi è sempre più caratterizzato da un generale upskilling delle competenze
occupazionali (pur con possibili effetti di polarizzazione a causa dell’espansione dell’occupazione
nei servizi a bassa qualificazione) [Reyneri 2005b], mentre cresce a un ritmo incalzante la
proporzione dei lavoratori della conoscenza rispetto alle occupazioni manuali: i knowledge workers,
cioè sostanzialmente gli scienziati, gli artisti, i manager, i professional e i technician, sono passati,
nel 2005, a rappresentare tra il 40 e il 50% dell’occupazione, rispetto al 30-40% di un decennio
prima in Italia, Regno Unito, Francia, Stati Uniti e Germania, mentre in Spagna sono aumentati dal
20 al 30% [Butera 2008]. A ciò si accompagna un’espansione delle «opportunità di carriera
precedentemente sconosciute e maggiore responsabilità, potere e controllo sulla vita dell’impresa, a
quei lavoratori che sanno giostrarsi fra le diverse aree funzionali dell’impresa. Ma solo a loro»
[Boeri 2003, 118]. Se uno degli obbiettivi storici del sindacato è sempre stato quello di contenere i
divari retributivi, evitando la concorrenza tra i lavoratori e fornendo un’assicurazione ai dipendenti
anche di diversa qualificazione nel mantenimento del posto di lavoro e dei livelli retributivi, tale
evoluzione della società non può che rimettere in discussione tali obbiettivi. Laddove i sindacati
sono più deboli (ove, cioè, la sindacalizzazione è inferiore), i differenziali retributivi risultano più
elevati, e tale correlazione è diventata sempre più intensa nel passare dagli anni ’80 ai ’90 [Boeri e
Checchi 2001]. La crescita nella richiesta di professionalità elevate e la flessibilizzazione del
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mercato del lavoro, portano sempre più a una situazione in cui «l’assicurazione offerta dal sindacato
costa troppo, nel senso che comporta rinunce a salari molto più alti e conta di meno la stabilità
dell’impiego, che peraltro il sindacato è sempre meno in grado di garantire» [Boeri 2003, 119].
Risulta, infatti, come l’aumento dei divari retributivi sia sistematicamente correlato a un declino
della sindacalizzazione nel periodo immediatamente successivo: tale effetto si eserciterebbe
nell’allontanarsi sia delle retribuzioni più alte che di quelle più basse dalla retribuzione mediana.
Questo effetto si eserciterebbe in quanto «da un lato, le prime trovano “troppo elevato” il costo
della protezione sindacale, dall’altro le seconde (su cui è aumentato significativamente il rischio di
disoccupazione) trovano la stessa protezione sempre meno “efficace”» [Boeri e Checchi 2001, 103].
Allo stesso tempo, se il nuovo proletariato è destinato a crescere nei servizi a bassa qualificazione e
basso salario, lontani dalle aggregazioni lavorative e produttive di massa [Paci 1996], vi è la
possibilità che venga meno anche la base sociale storicamente associata all’attività sindacale, cioè la
grande massa di lavoro a medio-bassa qualificazione. Il processo di globalizzazione e l’integrazione
europea, infine, «stanno rendendo più difficile e costoso in termini di performance economica la
fornitura di assicurazione contro il rischio di mercato con vecchi strumenti, quali regimi di
protezione dell’impiego molto restrittivi» [Boeri 2003, 119]. Le politiche monetarie vengono poi
sottratte agli stati nazionali e centralizzate nella Banca Centrale Europea, in un’ottica di
contenimento dell’inflazione. In tal modo l’offerta di moderazione salariale offerta dai sindacati,
sempre meno credibile anche a causa del crollo degli iscritti [Visser 1994], diviene soltanto una
second best (contrariamente alle precedenti prassi corporative), risultando più efficace un controllo
di tipo monetarista dell’offerta, sottraendo così sempre più ambiti d’azione alle organizzazioni
sindacali [Visser 2005; Streeck 2006].
Tuttavia, accanto alle seppur evidenti difficoltà di azione del sindacato, amplificate dal declino della
sindacalizzazione del lavoro dipendente, è possibile parlare di un declino del sindacato tout court?
Secondo Guido Baglioni [2008], più che di un declino vero e proprio (di cui si potrebbe parlare solo
in caso di scomparsa delle funzioni e dei significati dell’esperienza sindacale), si starebbe
assistendo a un ripiegamento, manifestatosi in una riduzione della presenza e del peso sindacale e
della conseguente capacità di perseguimento degli obbiettivi, e determinato da una situazione di
“accerchiamento”. Ad oggi le condizioni del lavoro dipendente non sarebbero più la questione
sociale decisiva, subendo la concorrenza di numerosi altri fattori, divenuti “problemi sociali più
rilevanti del rapporto di lavoro”. L’invecchiamento della popolazione sposterebbe l’attenzione dai
rapporti di lavoro agli aspetti previdenziali degli stessi, mettendo al centro della scena nuovi
problemi sempre più rilevanti, come l’assistenza agli anziani e la tutela della salute, a cui sarebbero
dedicate sempre più risorse. Inoltre, il processo di integrazione economica e monetaria europea e la
88
collegata lunga fase di moderazione salariale, hanno riportato al centro dell’attenzione politica e
sociale il tema della difesa del consumatore, la cui superiorità di «impostazione sarebbe ravvisabile
nel fatto che i consumatori sono meno tutelati dei lavoratori; il soggetto di riferimento diventa il
nucleo familiare; i provvedimenti assunti riguardano tutti i cittadini […]. Il lavoratore vede svanire
la sua identità collettiva per diventare una parte, una quota indifferenziata, nell’universo dei
consumatori. In più, una tutela del lavoro con obiettivi rivendicativi potrebbe essere un ostacolo ai
vantaggi prodotti dalla concorrenza» [Baglioni 2008, 96]. Infine, a causa della maggiore flessibilità
occupazionale richiesta dal sistema produttivo e la maggiore eterogeneità dei rapporti di lavoro, la
tutela tende a spostarsi sempre più dal rapporto di lavoro al mercato del lavoro, accerchiando la
tutela sindacale nell’impresa e spingendola verso l’esterno. Della stessa opinione sembrano essere
Philippe Pochet e Giuseppe Fajertag, secondo cui gli anni ’90 hanno visto l’emergere, accanto alla
tradizionale contrattazione degli interessi funzionali dei lavoratori, della rilevanza di nuove
questioni sociali relative alla qualità della vita, come la non discriminazione delle minoranze, lo
stress, l’esclusione sociale, la mobilità e i costi abitativi, tali da spiazzare le coalizioni di interessi
tradizionali. Infatti, «se le ore di lavoro sono ridotte ma i tempi di spostamento per lavorare
crescono, e se la crescita dei salari è assorbita dai crescenti prezzi di proprietà della casa, il risultato
netto è effettivamente meno favorevole di quanto le cifre implicherebbero. In questi campi la
legittimità dei sindacati non può essere data per scontata, e altri gruppi di pressione o associazioni
di cittadini prendono il centro della scena» [Pochet e Fajertag 2000, 37].
Una prova ulteriore contro l’ipotesi del declino del sindacato in generale può essere portata dal
consenso di cui ancora gode la sua azione, nella società in generale e tra i lavoratori in particolare.
Secondo una rilevazione del 2002 dell’European Social Survey, condotta su un campione
rappresentativo di oltre 40.000 cittadini europei, il consenso sociale all’azione del sindacato nella
difesa delle condizioni di lavoro sarebbe ancora molto elevato. Alla domanda “Secondo Lei i
lavoratori hanno bisogno di sindacati forti per proteggere le condizioni di lavoro e i salari?” si sono
dichiarati “d’accordo” o “molto d’accordo” sistematicamente più del 70% degli intervistati. Vi sono
naturalmente delle differenze di opinione tra paesi, con percentuali di accordo minime in Germania,
Regno Unito e Belgio (con valori comunque elevati, tra il 65 e il 68%), e massime in Grecia,
Ungheria e Polonia (tra l’83 e il 90%), mentre valori intermedi, comunque sempre molto elevati, si
trovano nei restanti paesi (tutti compresi tra il 70 e l’80%). La percentuale di intervistati favorevoli
si dimostra sistematicamente più alta tra gli iscritti al sindacato, mentre tra i non iscritti (né
attualmente, né in passato) l’accordo non scende comunque in nessun caso al di sotto del 60%
(spesso arrivando addirittura a superare il 70 o l’80%) [Feltrin 2007]. Anche la legittimità del
sindacato all’interno dell’impresa non sembra essere contestata. A metà degli anni ’90, la
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partecipazione dei lavoratori alle elezioni per le diverse forme di work council risultava ancora
molto elevata, coinvolgendo il 65-80% degli aventi diritto al voto nei principali paesi europei. E,
nonostante l’appartenenza al sindacato non sia un prerequisito per l’elettorato passivo in tale
particolare forma di rappresentanza, il tasso di sindacalizzazione degli eletti oscillava tra il 65-75%
in Olanda, Francia e Germania, e l’80-100% in Belgio, Austria, Spagna e Italia [Calmfors et al.
2002]. Questi dati non confermano perciò l’ipotesi del netto declino dei significati dell’azione
sindacale, e, anzi, ne forniscono un’immagine di forza e legittimazione ben diversa da quella
registrata dalla misurazione meramente quantitativa della sindacalizzazione del lavoro dipendente.
Si starebbe, piuttosto, allargando la forbice tra “presenza e influenza”, ponendo indubbiamente dei
problemi inediti sulle possibilità rivendicative del sindacato, ma non minando necessariamente, «in
non pochi casi, il grado di coinvolgimento, il ruolo condizionante del sindacato sulle principali
scelte di politica economica [che] non sembra avere minimamente risentito della tendenza al calo
degli iscritti» [Boeri e Checchi 2001, 89].
Reazioni adattive
Le profonde trasformazioni del tessuto produttivo e della struttura di classe delle società occidentali
negli ultimi vent’anni del ‘900 hanno, inevitabilmente, indotto le associazioni sindacali a profonde
trasformazioni, sia di struttura che nei metodi di tutela del mondo del lavoro. Uno dei problemi
principali a cui si trovano a far fronte i sindacati riguarda le ristrettezze finanziarie causate dal
profondo declino degli iscritti. In diversi paesi europei il declino delle entrate è stato parzialmente
compensato dall’aumento del numero di tesserati ritirati del mercato del lavoro (come in Italia, con
le federazioni dei pensionati) [Visser 2006], ma il problema non può considerarsi risolto, a causa
dei solitamente inferiori costi di tesseramento richiesti a queste categorie di iscritti [Streeck e Visser
1998]. Una delle strategie seguite dai sindacati nel contrastare una situazione di risorse disponibili
decrescenti è quella dei mergers tra federazioni, tesi a sfruttare nuove economie di scale fondate su
nuovi sindacati inter-settoriali con un maggiore numero di membri e minori costi amministrativi.
Tra il 1980 e il 1995-97, il numero di federazioni affiliate alla confederazione principale in ogni
paese si è ulteriormente ridotto, passando da 15 a 14 nella Österreichischer Gewerkschaftsbund
(OGB) austriaca, da 18 a 12 nella Deutscher Gewerkschaftsbund (DGB) tedesca, da 17 a 15 nella
Federatie Nederlandse Vakbeweging (FNV) olandese, nella Landsorganisationen (LO) danese da 35
a 24, da 35 a 28 in quella norvegese e da 24 a 21 in quella svedese, mentre da 108 a 73 nel Trade
Union Congress (TUC) inglese [Streeck e Visser 1998; Ebbinghaus e Visser 2000]. Una teoria
economica della riorganizzazione del sindacato è elaborata da Wolfgang Streeck e Jelle Visser
[1998]. La spinta principale nel razionalizzare la struttura organizzativa tramite fusioni tra
90
federazioni è data dalle declinanti economie di scala dei sindacati settoriali: dal momento in cui il
calo della membership nei settori storicamente più sindacalizzati non viene compensato dalla
crescita, trainata dall’aumento occupazionale nel terziario, degli iscritti nei settori meno
sindacalizzati, il costo unitario per membro nel fornire servizi e attività si alza notevolmente, a
causa delle minori entrate assicurate da una sempre più ridotta base associativa. Inoltre, la tendenza
verso l’outosurcing e l’economia dei servizi, che sposta il baricentro del sistema dalla grande
azienda alla rete di piccole imprese, rende più costoso il mantenere il contatto coi membri ormai
dispersi sul territorio. Pertanto, «la pressione verso le fusioni è, ovviamente, più impellente se la
crescita naturale delle iscrizioni sta stagnando o è diventata molto costosa. Questo può sicuramente
essere il caso anche di molti sindacati tradizionali, che possono in passato essersi appoggiati
sull’organizzazione dei lavoratori delle grandi imprese, ma ora si trovano di fronte alla sfida non
solo di organizzare, ma anche di servire la dispersa e mobile popolazione impiegata nelle piccole
imprese e in relazioni d’impiego instabili» [Streeck e Visser 1998, 37]. Un altro punto tocca i
problemi di “malattia da costi” che possono sorgere nei sindacati come in qualsiasi altra
organizzazione distributrice di servizi labour intensive. L’aumento degli stipendi dei funzionari
deve essere compensato da un parallelo aumento delle entrate raccolte col tesseramento, e, inoltre,
vista la natura sempre più complessa del mercato del lavoro, i sindacati saranno spinti ad acquisire
personale sempre più professionale, specializzato e costoso (per funzioni di ricerca o di pubbliche
relazioni). In tal modo si rende necessaria una compressione dei costi del personale, ad esempio
accentrando le funzioni più specializzate in federazioni sindacali più encompassing, costituite dalla
fusione di più federazioni. Inoltre, l’aumento dei costi associativi rende, tendenzialmente, i membri
molto più esigenti rispetto ai servizi forniti dal sindacato, aumentandone la domanda soprattutto nei
momenti di crisi. Il paradosso risiede nel fatto che «l’economia dell’organizzazione sindacale
richiede che la maggior parte dei membri, la maggior parte del tempo, non abbiano bisogno del
sindacato e non richiedano i suoi servizi se non per la protezione collettiva offerta» [Streeck e
Visser 1998, 41]. Pertanto, secondo i due autori, un sindacato potrà mantenersi in vita e autonomo
solo in caso superi una “dimensione assoluta”, determinata «soprattutto dalle condizioni
geografiche, specialmente le dimensioni del territorio servito, la densità spaziale degli stabilimenti
sul territorio, e la distribuzione dei membri tra le unità lavorative» [Streeck e Visser 1998, 46]. Le
conseguenze di tale situazione si esplicano fondamentalmente nell’assorbimento di piccoli
sindacati, al di sotto di una dimensione assoluta di sopravvivenza, da parte delle grandi federazioni,
interessate a espandere la propria area di influenza: sacrificando l’omogeneità interna per una
ripresa delle economie di scala, «i conglomerati sindacali rappresentano un nuovo equilibrio tra le
considerazioni economiche e politiche delle organizzazioni sindacali» [Streeck e Visser 1998, 47].
91
In particolare, le vecchie federazioni dell’industria, con una base sempre più ristretta ma con una
forte struttura organizzativa, possono risultare interessate nell’associarsi alle più recenti federazioni
dei servizi, con una membership potenziale in forte espansione ma ancora pochi mezzi ed
esperienza [Calmfors et al. 2002]. Il risultato sarebbe un processo verso le conglomerate unions,
sempre più simili ai sindacati generali anglosassoni, risultanti in una fornitura di servizi sempre più
centralizzata e una rappresentanza e partecipazione più decentralizzata allo stesso tempo (a causa
dell’elevato numero di settori, e relativi contratti collettivi, entrati nel dominio del nuovo
conglomerato sindacale).
Secondo Paolo Feltrin il sindacato, a seguito della crisi degli anni ’80, ha risposto al declino della
sindacalizzazione concentrandosi principalmente su due arene: «l’arena delle relazioni sindacali
(negoziazione), trainata dalla logica della membership (più iscritti); l’arena politico-istituzionale,
trainata dalla logica dell’influenza (più voti)» [Feltrin 2006, 37]. Negli ultimi 15-20 anni la seconda
strategia sembra, però, essere stata preferenziale e strumento privilegiato nel tentare di compensare
le difficoltà esperite sul terreno delle relazioni industriali a causa del calo della militanza
complessiva. Il risultato sarebbe stato lo scostamento dell’attività sindacale, nella maggior parte dei
paesi occidentali, dai modelli prevalenti nella fase del capitalismo fordista: il sindacalismo di tipo
unionista, fondato sulla negoziazione a favore degli iscritti (tipico del mondo anglosassone); il
sindacalismo di classe, basato sull’incentivo identitario di unità della classe lavoratrice; il
sindacalismo corporatista, tipico dei paesi centro-nord europei, e costruito sulla concertazione delle
politiche economiche. Il sindacato del nuovo millennio rientrerebbe invece in una logica di social
coalition, sarebbe cioè fondato sulla tutela di interessi sociali generali, fortemente sbilanciato verso
l’azione politica e di lobbying parlamentare (per quanto in modo meno sistematico e strutturale
rispetto al modello corporativo), e altrettanto fortemente indirizzato alla fornitura di servizi ai
membri, sempre più intesi in una logica di incentivo selettivo in modo da contrastare il calo delle
iscrizioni, o di sub-fornitura di servizi pubblici a favore dell’intera collettività, in una logica di
influenza sociale. In particolare, le organizzazioni dei lavoratori si sarebbero convertite nell’ultimo
baluardo di difesa del welfare, supplendo ai vuoti di rappresentanza politica in tale ambito per cui
esiste ancora una forte domanda [Feltrin 2006]. Rispetto all’impegno profuso principalmente nelle
relazioni industriali, il modello politico agisce in un’ottica più difensiva che adattiva (cfr. par. 2.1),
«preferendo una tutela contrattuale o legislativa che preservi la relativa omogeneità dei trattamenti
piuttosto che la loro articolazione» [Baglioni 2008, 195]. Tale modello potrebbe anche essere
destinato ad avere più chances grazie alla molteplicità dei suoi obbiettivi (c.d. issue linkage, cioè
l’idea che l’allargamento delle negoziazioni a un numero elevato di oggetti renda più facile il
raggiungimento di un accordo [Acocella et al. 2006]), e al suo minore risentire della modestia dei
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risultati conseguiti, rispetto ai risultati percettibili e misurabili, riguardanti un numero inferiore di
obbiettivi, tipici dell’agone delle relazioni industriali [Baglioni 2008].
Un altro problema di sempre maggiore rilievo per i sindacati europei riguarda la crescente
proporzione di lavoratori assunti con contratti atipici o non-standard (comprendendo, sotto questa
definizione in negativo, tutti i tipi rapporto di lavoro differenti dal contratto full-time in posizione di
dipendenza e stipulato a tempo indeterminato: part-time, lavoro parasubordinato, autonomo di
seconda generazione, interinale, a tempo determinato, etc…) [Cella 2001; Ballarino 2002]. Lungi
dall’aver soppiantato il lavoro full-time a tempo indeterminato, i lavoratori atipici rappresentano
comunque una quota non trascurabile dell’occupazione, in ulteriore aumento negli anni ’90 e nel
primo decennio dopo il volgere del secolo: secondo Eurostat la percentuale di lavoratori dipendenti
con contratto a tempo determinato, tra i paesi aderenti all’Unione Europea, è passata dall’11,2% nel
1992 al 14,5% nel 2007, mentre i lavoratori part-time, nello stesso periodo, sono passati dal 14,2%
al 18,2% dell’occupazione complessiva. Il lavoro autonomo non agricolo, dal 1980 al 2000, ha
subito un certo incremento, pur non uniformemente distribuito, aumentando in media dell’1,68%
nell’Europa a 15 più la Norvegia, aumento però sostanzialmente concentrato nei soli anni ’80 (nel
decennio seguente si è anzi assistito a una lieve flessione) [Eiro 2002b]. Il lavoro parasubordinato,
invece, per quanto di più difficile stima, non presenta cifre significative (essendo compreso,
all’inizio del nuovo millennio, tra meno dell’1% dell’occupazione non agricola in Danimarca,
Grecia, Portogallo e sotto il 3% in Belgio, Germania, Olanda e Austria), per quanto in alcuni paesi
risulti in rapida crescita (soprattutto Austria, Germania, Grecia e Portogallo) [Eiro 2002b; Pernicka
2005]. Ciò nonostante, vista la solitamente minore protezione legislativa e il più forte rischio di
disoccupazione, il lavoro atipico può presentare un ulteriore bacino di espansione del sindacato,
utile a compensare la perdita di adesioni nei settori tradizionali e in quelli in espansione. Secondo
Gian Primo Cella [2001], la protezione del lavoro non-standard non può più fondarsi sui
presupposti del lavoro tipico della cui protezione si sono fatti portatori i sindacati negli anni d’oro
del fordismo. La forte mobilità e l’elevato turn over di questi lavoratori rende, infatti, impossibile
un sistema di rappresentanza fondato sull’appartenenza continuativa a reti di solidarietà locali
costruite a livello di stabilimento. Il metodo della rappresentanza, invece, potrebbe giovarsi di una
ripresa di tecniche sindacali ormai appartenenti al passato, superate dal moderno sindacalismo
industriale. Si riproporrebbe, a un secolo di distanza, l’opportunità «di rappresentare i lavoratori
mobili del XXI secolo, per i quali si sono erose le chiare e tradizionali linee di demarcazione fra
lavoro dipendente e autonomo, attraverso modelli organizzativi e contrattuali tipici di quel
sindacalismo “occupazionale” (intesa come variante più aperta di quello di mestiere) che sembrava
inesorabilmente sconfitto dai trionfi del sindacato industriale […]. In contesti di alta mobilità del
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lavoro, quello che sindacalmente più conta non è tanto la difesa e la rappresentanza di quanto
“dipendente” vi è nel lavoro, bensì il rafforzamento del potere contrattuale di ciascun lavoratore (o
di ciascun gruppo)» [Cella 2001, 209-210]. Il riferimento storico per eccellenza è il sistema di
“indennità di migrazione” diffuso nelle craft unions inglesi tra il settecento e l’ottocento, indennità
pagate agli artigiani organizzati, durante la loro ricerca itinerante di lavoro sul territorio nazionale:
«la migrazione aumentava molto il potere contrattuale degli operai […]. Col sistema di trasferire i
disoccupati via dalle zone morte e di tenerli in circolazione, la migrazione permetteva di contenere
l’offerta sul mercato del lavoro» [Hobsbawm 1972, 50]. Pertanto, in analogia con tale sistema, la
rappresentanza dei lavoratori atipici, per risultare più efficace, dovrebbe riprendere alcuni elementi
risalenti alla nascita del sindacalismo, puntando verso un «rafforzamento che si ottiene impedendo
la caduta della capacità negoziale dei singoli (attraverso benefici, assistenza, reti solidaristiche) e
controllando la concorrenza operante in una determinata occupazione» [Cella 2001, 210].
Le risposte dei sindacati europei rispetto all’organizzazione dei lavoratori atipici sono state diverse.
Per quanto considerati meno “appetibili” [Calmfors et al. 2002], e dopo una fase iniziale di rifiuto,
l’organizzazione di lavoratori a tempo determinato o part-time ha preso piede nelle federazioni
industriali in modo non troppo differente dalle forme classiche, grazie anche alla parità di
trattamento solitamente assicurata da leggi o contrattazione collettiva per lavoratori, per quanto
non-standard, rientranti nell’alveo del lavoro dipendente [Ballarino 2002; Pernicka 2005]. Di più
difficile soluzione è risultata la rappresentanza dei lavoratori parasubordinati (gli economic
dependent self-employed workers). A causa della loro natura formalmente autonoma, solo di recente
le strategie sindacali si sono mosse in controtendenza rispetto all’iniziale rifiuto della loro
rappresentanza (derivante dal considerare una distorsione e un indebolimento degli interessi
omogenei del lavoro dipendente l’assunzione della loro tutela). Le direzioni di azione più recenti si
sono suddivise, accanto a una sostanziale indifferenza delle confederazioni francesi, belga,
portoghesi e la CNV olandese, tra un intervento di integrazione dei lavoratori subordinati nelle
esistenti federazioni e la creazione di strutture ad hoc per tali posizioni. Nel primo caso rientrano,
tra le altre, la HK danese (sindacato del commercio e dei lavoratori white-collar), con la nascita di
una sezione apposita per i lavoratori freelancer nel 2001, la GPA austriaca (lavoratori dei servizi),
con il lancio del progetto “work@flex”, nel 2001, per attirare i parasubordinati, e la tedesca VerDi,
col progetto “connexx” partito nel 1999, prima ancora della sua costituzione a seguito della fusione
di cinque sindacati dei servizi. Nella seconda area di intervento rientrano l’Italia (vedi infra), la
Spagna, con la costituzione per la sola Catalogna di un sindacato nuovo dedicato esclusivamente ai
lavoratori economicamente dipendenti ma formalmente autonomi nel 2000 (TRADE, affiliato alla
CCOO catalana), e l’olandese FNV, con la nascita dell’FNV-Zelfstandigen nel 1999, dedicato ai
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lavoratori autonomi [Eiro 2002b]. Esistono in realtà esperienze precedenti, rispetto
all’organizzazione dei lavoratori parasubordinati, per quanto solitamente limitate ai sindacati legati
ai settori dell’informazione e delle comunicazioni dove, ad esempio nel settore del giornalismo,
sono molto diffusi i lavoratori freelance (è il caso del Regno Unito, della Svezia, dell’Austria e
della Germania) [Eiro 200b; Pernicka 2005]. Le strategie più diffuse nella tutela del lavoro
parasubordinato riguardano, principalmente, l’offerta di protezione sociale e assicurativa atta a
coprire i rischi derivanti dallo statuto formalmente non dipendente del lavoro, la messa a
disposizione di servizi e supporto al collocamento e la fornitura di nuovi servizi orientati verso la
consulenza e la formazione professionale, oltre alla più classica assistenza legale nelle dispute di
lavoro [Eiro 2002b]. Allo stesso tempo è presente una crescente attività di pressione politica tesa a
garantire una maggiore tutela legislativa a tali categorie di lavoro (per esempio tramite una
parificazione al lavoro dipendente relativamente all’assistenza sociale), e diversi tentativi di
contrattazione collettiva, per quanto di non particolare successo al di fuori dei settori delle
comunicazioni dove era già precedentemente diffusa [Pernicka 2005].
Un caso sostanzialmente unico nel panorama europeo è quello italiano dove, da ormai circa un
decennio, esistono tre sindacati specifici, affiliati alle tre principali confederazioni, dedicati ai
lavoratori atipici: il NIdiL-CGIL (Nuove Identità di Lavoro, nata nel 1998), l’ALAI-CISL
(Associazione Lavoratori Atipici e Interinali, 1998) e il CPO-UIL (Coordinamento Per
l’Occupazione, 1997). Mentre il NIdiL associa soprattutto lavoratori autonomi (occasionali,
coordinati e continuativi, con partita IVA, soci di cooperativa) e interinali, «ALAI e CPO, pur non
trascurando quest’area di intervento, si rivolgono anche a quelle tipologie di lavoratori derivate
dalla legislazione a sostegno dell’occupazione e, ma ciò vale unicamente per il CPO, ai
disoccupati» [Vettor 1999, 626]. Una rappresentanza specifica per queste tipologie di lavoratori è
emersa anche in alternativa all’atteggiamento delle categorie tradizionali nei confronti di tali forme
contrattuali. Le strategie classiche del sindacato italiano, infatti, si configurano innanzitutto nel
rifiuto dell’introduzione in azienda di tali rapporti, o, laddove impossibilitati a impedirne l’accesso,
in varie strategie di stabilizzazione degli stessi: vengono solitamente richieste garanzie
sull’assunzione dei lavoratori non dipendenti, o, nei settori solitamente caratterizzati da ampie
sacche di lavoro nero o grigio come l’edilizia, si tenta di contrattualizzare la posizione lavorativa,
prendendo atto del continuum regolativo disponibile e tentando di avvicinare quanto più possibile i
lavoratori al sistema delle garanzie [Ballarino 2002]. La rappresentanza dei tre nuovi sindacati
atipici si differenzia in modo sostanziale dai modi e dagli strumenti delle federazioni, e questo non
avviene in assenza di conflitti con i sindacati storici. In particolare, mentre ALAI e CPO riescono a
muoversi in un’ottica territoriale contattando i lavoratori singolarmente, il NIdiL è costretto ad agire
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con strumenti di “copromozione” in stretto coordinamento con i sindacati di categoria operanti in
azienda (i cui dirigenti siedono nel comitato direttivo del NIdiL) [Ballarino 2002; 2005a]. L’azione
di tutela, poi, raccogliendo alcuni dei suggerimenti di Cella sopra esposti, si delinea lungo tre
direzioni principali. Innanzitutto l’asse portante dell’intervento diventa la dimensione territoriale
piuttosto che quella settoriale: questo crea non pochi problemi, in quanto l’incontro tra i membri,
sparsi tra le diverse aziende della provincia e spesso in contesti di assenza sindacale, risulta
particolarmente difficoltoso, e non tutte le strutture territoriali confederali sono disposte a investire
tempo e risorse in tal senso. L’azione, poi, è improntata a un certo pragmatismo, che tenga conto,
anche nel definire gli obbiettivi, dei vincoli e delle opportunità offerte dal contesto. Infine, «l’azione
ha luogo in base a strategie diversificate, che comprendono iniziativa contrattuale, assistenza
associativa su base individuale, intervento istituzionale, a livello nazionale e a livello locale»
[Ballarino 2002, 243]. L’assistenza individuale, con la fornitura, oltre ai servizi tipici delle
organizzazioni sindacali, di strumenti mirati per i lavoratori non-standard (come i corsi di diritto del
lavoro, sui colloqui di formazione o sulla gestione della partita IVA forniti dal NIdiL), è finalizzata
in particolare a fornire ai lavoratori strumenti per aumentare la propria forza di mercato [Ballarino
2002]. Più modesti appaiono invece i risultati derivanti dall’attività di contrattazione collettiva, in
quanto «la contrattazione ha avuto esito positivo solo quando il datore si è reso disponibile: in molti
altri casi, l’opposizione del datore ha vanificato gli sforzi di lavoratori e dirigenti sindacali»
[Ballarino 2005a, 186]. Questo può derivare dalla ancora scarsa diffusione del tesseramento
sindacale e dalla inferiore mobilitazione del lavoro atipico, in particolare in riferimento alle tre
neonate strutture confederali. Tra il 1998 e il 2008 le tessere di ALAI e NIdiL sono passate da 3.600
circa a più di 65.000, un’espansione notevole, ma del tutto insufficiente rispetto alla base di
lavoratori autonomi o non standard potenzialmente sindacalizzabili. Dal punto di vista istituzionale,
infine, le pressioni politiche dei sindacati degli atipici sono dirette verso una riforma dello stato
sociale più favorevole agli stessi e tale da creare una cittadinanza sociale non sfavorevole al lavoro
autonomo, «nel senso di estendere la rete delle protezioni sociali mediante l’utilizzo, in particolare,
della leva della fiscalità generale, allargare le tutele del lavoro e predisporre per tutti, a prescindere
dalla qualificazione del rapporto, diritti generali indisponibili» [Vettor 1999, 628-629].
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3.2 Il futuro dei sistemi di relazioni industriali
Posto l’ormai trentennale declino della membership sindacale nel mondo occidentale, pur
accompagnato, nella maggior parte dei casi, da una persistenza del ruolo politico degli interessi
organizzati all’interno della società, resta da chiedersi in che direzione si stiano evolvendo i sistemi
di relazioni industriali nazionali. Le posizioni non sono unanimi, e, ancora una volta, si dividono tra
le teorie che indicano come possibile evoluzione una crescente convergenza sistemica, e quelle che
prevedono una persistenza delle diversità istituzionali, o, eventualmente, un’ulteriore
differenziazione. Nella prima delle seguenti sezioni verranno perciò analizzate le direzioni
intraprese dai diversi sistemi di relazioni industriali a seguito del periodo di crisi del sindacalismo
degli ultimi trent’anni, mentre nella seconda verrà esplorata la particolare rinascita delle politiche di
concertazione nazionale negli anni ’90 tramite la prassi dei c.d. “patti sociali”.
Convergenza o divergenza?
A seguito della crescente liberalizzazione e integrazione dei mercati mondiali si assiste alla
possibilità che regimi, una volta protetti e differenziati tra loro, siano spinti ad assomigliarsi sempre
più, dovendo adattarsi, a causa della crescente competizione internazionale, a convergere verso un
unico modello economico e di relazioni industriali, potenzialmente più adatto nel rispondere alle
sempre più forti pressioni competitive. In quest’ottica, in analogia con quanto già ipotizzato da
Clark Kerr e colleghi negli anni ’60 rispetto a una necessaria convergenza istituzionale causata dalla
“logica dell’industrialismo” sempre più diffusa e omogeneizzante [Trigilia 2002], alcuni autori
ipotizzano per il futuro una crescente convergenza tra i regimi economici, «in cui il meccanismo
che genera l’omogeneità delle economie politiche nazionali non è più la tecnologia ma la
competizione economica in un mercato mondiale aperto» [Streeck 2006, 35]. Una versione più
“indiretta e sofisticata” [Regini 1999] di tale approccio è proposta da Colin Crouch e Wolfgang
Streeck [1997]. Secondo i due autori, l’accelerazione del mutamento tecnologico, la rinnovata
concorrenza sui prezzi e la globalizzazione dei mercati finanziari, sono una serie di elementi che,
combinati, tenderanno a favorire sempre più quelle economie dotate di una grande rapidità di
reazione, cioè «un veloce cambiamento dei prodotti e l’abilità di tagliare i costi nel breve periodo.
Ciò risulta vero al punto che tale situazione favorisce i decision-makers che possono agire senza
dover cercare l’accordo all’interno delle proprie organizzazioni» [Crouch e Streeck 1997, 10-11].
Una struttura istituzionale più “snella”, dove ogni cambiamento sostanziale di politica economica
non vada discusso preventivamente a livello nazionale con le associazioni dei lavoratori e dei datori
di lavoro, risulterebbero comparativamente sempre più avvantaggiate. A ciò si aggiunge la radicale
97
“scoperta”, degli anni ’80, di come la sopravvivenza dei governi democraticamente eletti può essere
assicurata anche con livelli di disoccupazione molto elevati, facendo apparire sempre più costose, in
un’ottica di mantenimento del consenso, generose concessioni ai sindacati: lo stesso elevato livello
di disoccupati, anzi, costituisce una potente arma per moderarne le rivendicazioni. Una seconda
“scoperta” fu quindi la possibilità dell’utilizzare le banche centrali indipendenti, sotto auspici
monetaristi, come strumento per contenere l’inflazione, piuttosto che dispendiosi accordi di tipo
corporativo [Streeck 2006]. Questo, però, non è significato necessariamente lo smantellamento di
qualsiasi tipo di regolazione sociale dell’economia: anche i mercati più deregolati (come
solitamente sono considerati gli Stati Uniti), presentano una serie di rigidità ed esperienze di micro-
regolazione tali da favorire quel clima di fiducia e quelle risorse creative che hanno un ruolo
fondamentale nello strutturare un’economia dinamica e competitiva, e la cui esistenza non può in
alcun modo essere assicurata dal semplice funzionamento del mercato (ad esempio l’utilizzo di reti
etniche e comunitarie negli Stati Uniti per il reclutamento di manodopera sulla base di estesi
rapporti di fiducia, o la densa rete di relazioni che unisce le imprese finanziarie, pur in concorrenza
tra loro, nella “City di Londra”). Piuttosto, le istituzioni formali largamente encompassing (come gli
organi corporativi di concertazione), «hanno maggiori probabilità di essere caratterizzate da un forte
potenziale di beni collettivi di quanto non siano i sistemi di mercato, ma ne hanno minori se si
considera la capacità di adattamento» [Crouch e Streeck 1997, 12]. In un contesto sempre più
competitivo, la globalizzazione economica crea una forte pressione a favore di politiche nazionali di
deregolamentazione e privatizzazione, ratificando la perdita di controllo degli stati sull’economia,
producendo tre effetti principali: la distruzione, o l’indebolimento, dell’insieme dei meccanismi
istituzionali atti ad assicurare una buona performance macroeconomica tramite il sostegno dello
stato alle organizzazioni di interessi (sindacati fortemente rappresentativi in primis); il crescente
vantaggio di quelle economie storicamente basate su un intervento dello stato relativamente
limitato; la convergenza delle economie capitaliste verso una “monocultura istituzionale” fondata su
mercati deregolamentati, causando una potenziale perdita della capacità complessiva di
performance. Perciò, riprendendo quanto sopra accennato, più che un avvicinarsi a una
regolamentazione di mercato pura basata su transazioni condotte da soggetti atomistici, «la
distruzione o la svalutazione della capacità statale provocate dalla globalizzazione svantaggiano le
economie istituzionali socialmente governate dalla politica a livello nazionale rispetto a quelle che
derivano i propri vantaggi istituzionali da costruzioni sociali di livello subnazionale-regionale o di
impresa» [Crouch e Streeck 1997, 23]. E’ quindi probabile che il processo di convergenza porterà
verso un sempre minore ruolo persuasivo e regolativo dello stato in modo generalizzato, ma
rimarranno delle persistenti differenze, relative però sempre più a «regioni subnazionali, settori
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internazionali ed imprese istituzionali attive a livello globale» [Crouch e Streeck 1997, 25]: ad
esempio le peculiari forme di comunità aziendale giapponesi o i distretti industriali del centro Italia
e del Nord-Est. E’ altresì possibile una crescente associazione tra queste comunità locali e le forze
di mercato, tesa a spiazzare le istituzioni nazionali della contrattazione collettiva e la regolazione
governativa della politica sociale (un esempio di tale tendenza è fornita dal caso italiano, con
l’elezione di Antonio D’Amato alla presidenza di Confindustria nel 2000 a seguito di una stagione
di rinascita della concertazione, e «supportato da una larga coalizione di piccolo-medio imprenditori
delle regioni del nord-est, centrali e del sud, con un programma apertamente critico rispetto al
metodo della concertazione, considerato troppo rigido, istituzionalizzato e troppo spesso sottomesso
ai veti sindacali» [Pochet e Fajertag 2000, 33]).
L’internazionalizzazione dei mercati, con la conseguente convergenza delle politiche economiche e
del ruolo delle istituzioni, non significa però necessariamente de-nazionalizzazione. Riguardo al
processo di integrazione economica europea, sempre secondo Streeck, continuerà a esistere una
certa varietà di arrangiamenti istituzionali nella regolazione del mercato, dipendenti dalle specificità
nazionali. Piuttosto, una «accelerata convergenza funzionale sotto la pressione della competizione
tra regimi – cioè una crescente equivalenza funzionale – coincide con una lenta, o nulla,
convergenza strutturale, a causa della persistenza delle istituzioni nazionali e la limitata capacità di
intervento della governance sovranazionale» [Streeck 1998, 17]. Questo deriverebbe
fondamentalmente da un paradosso: il processo di integrazione europea si baserebbe sulla creazione
di istituzioni sovranazionali di mero coordinamento tra paesi, ma atte alla liberalizzazione dei
mercati, lasciando agli stati nazionali la responsabilità delle politiche sociali. In questo modo si
creerebbe uno spazio economico sempre più competitivo, ma, a causa della gelosia dei singoli stati
rispetto alle proprie prerogative politiche, verrebbe preclusa la costituzione di organismi di ri-
regolazione dell’economia a livello europeo realmente efficaci. Perciò, «in assenza di alternative
sovranazionali, le politiche nazionali e le relazioni industriali rimangono il luogo privilegiato per le
risposte ri-regolative all’espansione dei mercati. Questo a prescindere del fatto che i sistemi
nazionali dell’Europa odierna debbano operare contemporaneamente sotto le restrizioni istituzionali
di un regime di competizione sovranazionale e le restrizioni economiche della competizione
internazionale tra regimi» [Streeck 1998, 18]. L’interzia dei sistemi di relazioni industriali europei,
storicamente tesi ad assicurare sia l’espansione del mercato che la correzione delle sue inefficienze,
farebbe in modo che le stesse istituzioni si spostassero sempre più verso l’obiettivo di costruire
mercati competitivi, abdicando però alla funzione della loro correzione (un esempio ne sono i “patti
sociali” degli anni ’90 atti a rendere più competitive le economie nazionali senza pretendere le
contropartite caratteristiche dei patti corporativi dei decenni precedenti). Pertanto, un’inversione di
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tendenza rispetto alla convergenza funzionale delle istituzioni di regolazione del mercato potrebbe
avvenire esclusivamente se, a fianco delle forti istituzioni di integrazione del mercato, si
affiancassero istituzioni di ri-regolazione dello stesso dotate di sufficiente forza. Un’evoluzione in
senso corporativo dell’Unione europea (ben oltre il semplice Dialogo sociale) risulta però
estremamente improbabile, secondo Philippe Schmitter e Jürgen Grote [1997], fondamentalmente a
causa della mancanza da parte dell’Europa istituzionale di una capacità redistributiva autonoma e di
un equilibrio relativo delle forze di classe, per non parlare della possibilità di un’ulteriore crescita di
poteri analoghi a quelli degli stati nazionali. Tali sviluppi sembrano oltretutto essere costantemente
frenati in quanto «la maggior parte delle organizzazioni degli interessi nazionali non sono
disponibili a “sopranazionalizzarsi” ed a spostare la propria attenzione e la propria lealtà
esclusivamente a Bruxelles. I costi sono troppo elevati e l’incertezza di dipendere dalla
cooperazione di altri è troppo grande – specialmente quando ulteriori ampliamenti significano un
numero crescente di altri meno conosciuti e più variegati» [Schmitter e Grote 1997, 211].
Autori meno pessimisti, come Marino Regini o Franz Traxler, ritengono che, pur mutandosi e
riadattandosi alle nuove condizioni economiche, i sistemi di governo del mercato e le relazioni
industriali di tipo corporativo, lungi dal perdere le loro funzioni, stiano giocando e continueranno a
giocare in futuro un ruolo di primo piano, per quanto evolvendosi in direzioni differenti rispetto al
passato. Contrariamente a quanto sostenuto dalla “tesi della disorganizzazione” (cioè la previsione
del declino dei sistemi corporativi a causa della dannosità per la loro sopravvivenza delle imperanti
forze di mercato), Traxler [2003] rileva come tra il 1970 e il 1996 sia avvenuto uno spostamento
solo limitato, nella maggior parte dei paesi occidentali, dai sistemi di coordinamento volontario dei
salari nel rispetto dei requisiti macroeconomici (ragion d’essere del corporativismo) ai sistemi
pluralisti (ovvero del tutto non coordinati). Mentre tra il 1970-73 poco più del 10% dei 20 paesi
OCSE analizzati da Traxler assumevano forme non coordinate di politica salariale, nel 1994-96 tale
percentuale sarebbe salita al 30%. Contrariamente a quanto ipotizzato da Streeck, secondo Traxler
le funzioni corporative di coordinamento rimarrebbero maggioritarie (per quanto distribuite in modo
sempre più variegato tra diverse modalità possibili), mentre ne cambierebbero sempre più le forme:
si avrebbe in particolare un passaggio dal corporativismo classico di tipo scandinavo, alle forme di
coordinamento sostenute o imposte dallo stato, sempre più diffuse a partire dagli shock petroliferi
dei primi anni ’70, o a forme di pattern bargaining (in cui contratti di settore o d’azienda chiave
servirebbero a coordinare le rivendicazioni negli altri settori-aziende). In particolare l’autore
sostiene la non coincidenza tra funzioni e strutture del corporativismo: le funzioni di coordinamento
permarrebbero, mentre le strutture (identificate principalmente nel livello di contrattazione della
politica salariale e nel grado di governabilità del sistema, cioè il riconoscimento legislativo degli
100
effetti salariali della contrattazione collettiva e l’obbligo di pace durante la vigenza di un contratto)
subirebbero una generalizzata evoluzione verso il decentramento contrattuale. La crescente
disoccupazione degli anni ’70 e ’80 avrebbe infatti spinto sempre più verso un maggiore ruolo della
contrattazione aziendale: ma «il fatto che un livello di contrattazione cresce in importanza, non
significa necessariamente che prenda spazio a spese degli altri livelli […]. Questo segue dalla
complessa interazione delle multiformi questioni di contrattazione, dei sistemi di contrattazione
multi-livello e dall’interdipendenza degli agenti contrattuali, che aprono molteplici opzioni nel
distribuire gli obiettivi contrattuali tra i differenti livelli e attori» [Traxler 1995, 9]. Pertanto, più che
muoversi in un’ottica di decentralizzazione disorganizzata, i sistemi di relazioni industriali europei
starebbero subendo un processo di organized decentralization: vista la forza e il ruolo dei sindacati
ben oltre i confini delle singole imprese nella maggior parte dei paesi europei all’inizio degli anni
’80, un processo di decentramento tendente a eliminare completamente le precedenti forme di
contrattazione centralizzata sarebbe risultato addirittura controproducente rispetto alla performance
economica complessiva [Traxler 1995]. In particolare, negli anni ’80 il decentramento organizzato
si sarebbe volto alla devoluzione di un maggior numero di questioni ai livelli di contrattazione
settoriale, pur in un quadro di coordinamento centralizzato, mentre negli anni ’90 sarebbe cresciuto
il ruolo della contrattazione aziendale all’interno di una struttura di norma fissata a livello di settore
[Traxler 2003]. Il risultato sarebbe quindi il passaggio da forme di corporativismo classico a forme
di corporativismo “snello”: la crescente pressione competitiva internazionale e il concomitante
passaggio all’ortodossia economica, hanno alleggerito il “fardello” portato dai sistemi di
concertazione di interessi inclusivi e centralizzati nell’imporre la disciplina macroeconomica ai
gruppi di interesse, rendendo possibile un equipaggiamento meno pesante, fondato su una rete di
soggetti e livelli contrattuali differenti e più articolati. In questo modo «le forze di mercato vengono
deliberatamente utilizzate come veicolo per far corrispondere le politiche salariali coordinate
(incorporate nella contrattazione pluriaziendale e nella partecipazione associativa alle politiche
pubbliche) alle esigenze macroeconomiche» [Traxler 2003, 466].
Anche secondo Marino Regini [1999] i sistemi economici europei si starebbero muovendo in
maniera ambigua tra esigenze di mercato ed esigenze di coordinamento, non privilegiando una
direzione univoca, e facendo emergere, accanto ad aree effettivamente sottoposte a una crescente
deregolazione, un’alternativa concertativa, caratterizzata dalla «ricerca di un maggiore
coordinamento salariale per controbilanciare gli effetti del decentramento, di un maggiore controllo
per garantire il carattere selettivo e sperimentale dei processi di flessibilizzazione, e di un
coinvolgimento delle parti sociali per rendere il welfare compatibile con le esigenze di competitività
senza pregiudicarne la fondamentale funzione di consenso» [Regini 1999, 19]. La direzione
101
intrapresa dai diversi sistemi nazionali risulterebbe condizionata, ma non determinata, dai vincoli e
dagli incentivi offerti dal contesto istituzionale. Infatti, lungi dall’agire in perfetta coerenza con tale
contesto, «gli attori nazionali possono essere indotti a dare priorità a quella condizione che nel
proprio sistema è meno presente, [ad esempio decentralizzando laddove la contrattazione è molto
centralizzata], anche a costo di mettere a rischio i tradizionali vantaggi competitivi di cui godono
[…]. E’ altrettanto possibile che gli attori imprenditoriali siano determinati a sfruttare i vantaggi
competitivi di cui già godono, quanto invece che siano preoccupati di colmare le debolezze di cui
soffre il sistema in cui operano» [Regini 1999, 24]. Mentre in alcuni contesti la direzione del
mutamento può essere stabilita più facilmente e, spesso, consensualmente (a causa di un eccessivo
sbilanciamento di partenza verso il polo della coordinazione o del decentramento), nei sistemi già
vicini, o vicini in misura crescente, a una situazione intermedia tra i due poli (come nel caso
tedesco), tenderebbero a crescere le situazioni di incertezza, le ambiguità e le difficoltà degli attori a
concordare al proprio interno le priorità collettive. Pertanto, le diverse risposte tenderanno ad essere
in misura maggiore determinate dall’assenza o dalla presenza di vincoli e incentivi atti a mantenere
una situazione di equilibrio tra le esigenze di deregolazione e concertazione: «ciascuno degli attori
trova minori incentivi a rimettere in discussione i punti di convergenza già raggiunti se anche gli
altri continuano a sostenerli con convinzione» [Regini 1999, 28]. In situazioni di incertezza, la
cooperazione degli attori può rompersi molto più facilmente «in assenza di vincoli esterni, o di
regole del gioco modificabili solo con costi molto elevati ed effetti sistemici» [Regini 1999, 29], e i
mutamenti derivati tenderebbero a dipendere sempre meno dalle istituzioni preesistenti, e sempre
più dall’interazione strategica degli attori, determinando una varietà di risposte possibili sempre più
difficili da determinare a priori (in particolare dividendosi tra spinte di deregolazione o
decentralizzazione come principio generale o in un contesto di coordinamento centralizzato).
Un’evoluzione sempre più frequente delle vecchie strutture corporative centralizzate potrebbe
consistere nel crescente sviluppo di un corporativismo decentrato, basato su concertazione a livello
meso o micro [Streeck 2006]. Secondo Marino Regini [2003] i sistemi corporativi si starebbero
muovendo, in un’ottica di decentramento organizzato, in due direzioni principali: dalla
contrattazione collettiva centralizzata tra imprese e lavoratori come principio generale alla
contrattazione individuale (spinta dalla crescita dei lavoratori ad alta qualificazione e dalla
frammentazione del lavoro), e dalla contrattazione collettiva alla concertazione istituzionale tramite
patti sociali. Questo, come già messo in luce da Crouch e Streeck [1997], aprirebbe spazi per forme
concertative a livello inferiore, regionale o di impresa. Pertanto, se c’è un futuro «per il
collettivismo politico istituzionalizzato dopo la sterzata neo-liberale, molti credono sia nella
disposizione di beni collettivi richiesti per la competitività delle comunità locali, nel tentativo di
102
realizzare una visione negoziata di vantaggi competitivi nazionali o regionali» [Streeck 2006, 30].
Se gli accordi a livello nazionale sono sempre più caratterizzati da un coordinamento senza
contropartite sostanziali per le associazioni dei lavoratori e una crescente devoluzione della
decisione degli standard a livelli inferiori, «una diffusione della concertazione a livello territoriale
può favorire lo sviluppo locale e contribuire a plasmare le istituzioni sociali necessarie perché si
sviluppino forme di “solidarietà competitiva”» [Regini 2003, 103]. Uno degli strumenti a sostegno
di una “localizzazione” della concertazione previsti dalla contrattazione collettiva in misura
crescente negli anni ’90 è la prassi delle c.d. opening clauses. Queste sono clausole di apertura,
solitamente contenute nei contratti collettivi negoziati a livello di settore, che permettono di
derogare in pejus, solitamente a livello di singola impresa o di area territoriale e sotto determinate
condizioni, ai minimi contrattuali negoziati ai livelli superiori. Possono essere distinte in clausole
d’uscita di emergenza, che permettono deroghe solo in determinate e temporanee condizioni di
particolare difficoltà economica, e clausole di deroga specifiche per particolari tipologie di imprese,
solitamente medio-piccole, che non riuscirebbero a rimanere sul mercato senza condizioni salariali
più favorevoli [Visser 2005]. Tale strumento normativo rientra pienamente nelle forme di organized
decentralization ipotizzate da Traxler, in quanto le modalità della deroga in pejus sono stabilite
categoricamente nei contratti di settore o nazionali, evitando così una deregolamentazione
incontrollata. Esperimenti di questo tipo si sono sviluppati con grande forza in Germania negli anni
’90, al fine di fronteggiare situazioni contingenti di crisi e assicurare la conservazione dei livelli
occupazionali. Sempre più contratti di categoria demandano la possibilità di derogare ai minimi
salariali, o alla contrattazione collettiva aziendale svolta dai sindacati, o al contratto d’azienda
stipulato dal betriebsrat; in casi “patologici” la flessibilità salariale o di orario è ottenuta tramite un
accordo informale tra il consiglio d’azienda e l’imprenditore, senza che vi siano disposizioni in
merito nel contratto di settore [Santagata 2005]. Attualmente, circa il 40% delle imprese tedesche
sotto la giurisdizione dell’IG-Metall presentano accordi di deroga al contratto di settore. Clausole
simili sono comparse anche in Danimarca, mentre in Olanda, Belgio e Austria, per venire incontro
alla richiesta di flessibilità delle le imprese, i contratti di settore hanno stabilito la possibilità di
scelta da parte dei lavoratori di diverse strutture salariali e di orario à la carte [Visser 2005]. In
Francia, già dagli anni ’80 sono state previste possibilità di deroga, contrattate collettivamente, a
norme di legge in ambito lavorativo, mentre con la legge Fillon nel 2004 si è arrivati a un maggiore
livello di flessibilità: sono aumentate le possibilità per cui un contratto d’impresa può derogare a
norme di legge, mentre, pur non potendo derogare ai minimi salariali disposti ai livelli superiori,
viene abolita la gerarchia normativa tra contratti di diversi livelli, rendendo valida per il lavoratore,
tranne nei casi in cui sia esplicitamente impedito dalla contrattazione collettiva condotta a livelli
103
superiori, la norma negoziata al livello più vicino [Supiot 2005]. Infine, in Italia, clausole di
apertura soft sono state recentemente negoziate nel CCNL del settore chimico nel 2006, per quanto
solo in relazione agli aspetti normativi e fatti salvi i minimi salariali e i diritti individuali
irrinunciabili [Cella e Treu 2009], mentre nella direzione dell’introduzione di opening clauses alla
tedesca va il recente accordo interconfederale (firmato dalle sole CISL e UIL da parte sindacale il
15 aprile 2009), attuativo dell’Accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio
2009, laddove viene prevista (art. 5.1) la possibilità che «il contratto aziendale – se stipulato dalla
coalizione sindacale maggioritaria – deroghi al contratto nazionale, sia in materia retributiva, sia in
materia “normativa”; e questo sia in situazioni di difficoltà economica, dove è necessaria una
riduzione dello standard retributivo, sia, al contrario, nelle situazioni in cui la deroga è necessaria
per introdurre un’innovazione nell’organizzazione del lavoro non compatibile con il modello fissato
dal contratto nazionale» [Ichino 2009].
Patti sociali
Una delle particolarità del periodo di crisi del sindacato è stato, dopo il disorientamento portato
dagli anni ’80, la riscoperta delle pratiche corporative a partire dagli anni ’90 in quasi tutti i paesi
europei [Schmitter e Grote 1997]. In particolare, hanno guadagnato terreno quelle forme di
coordinamento e concertazione tra le parti definiti “patti sociali”, fondati su accordi tripartiti
(associazioni sindacali, imprenditoriali e stato), e tendenti sempre più a soppiantare le forme
corporative fondate sull’autonomia interassociativa di capitale e lavoro, con l’attore statale in
posizione di mediazione o di semplice supporto [Acocella et al. 2006]. I patti sociali possono venire
definiti analiticamente come «contratti formali tra il governo e le parti sociali, pubblicamente
annunciati, sulle linee di intervento riguardanti il reddito, il mercato del lavoro o le politiche di
welfare, che identifichino esplicitamente questioni e obiettivi di intervento, i mezzi nel conseguirli e
i compiti e le responsabilità dei firmatari» [Visser 2008, 6]. Tale definizione esclude, pertanto, gli
accordi taciti non pubblicizzati, le intese bilaterali senza un ruolo del governo e le dichiarazioni
d’intento generiche che non pongano particolari compiti o responsabilità (per quanto includa,
invece, anche gli accordi bipartiti in cui il governo abbia un ruolo determinante, per quanto
indiretto, per esempio tramite la minaccia di agire per via legislativa in caso di mancato accordo).
Per quanto i patti sociali facciano parte da tempo delle prassi corporative, pur con una distribuzione
irregolare e una diversa incidenza nel tempo, è possibile distinguerne due tipologie: i patti di prima
e di seconda generazione [Acocella et al. 2006]. La prima generazione, tipica degli anni ’60 e ’70,
era ispirata a principi keynesiani, cioè fondata su politiche monetarie accomodanti, espansione del
welfare state e redistribuzione del reddito, in un quadro di moderazione salariale assicurata dalla
104
social partnership, di piena occupazione e maggiore regolazione del mercato del lavoro. Dagli anni
’90 (pur con qualche anticipazione negli ’80), la situazione risulta profondamente cambiata, e la
concertazione risulta sempre più mirata alla restrizione delle politiche sociali, a una moderazione
salariale atta a sostenere la competitività delle imprese e alla flessibilizzazione del mercato del
lavoro, in condizioni di crescente globalizzazione, alta disoccupazione e politiche monetarie
restrittive [Pochet e Fajertag 2000]. In pratica, «i patti nazionali degli anni novanta, a differenza
dello scambio politico degli anni settanta, hanno operato sotto gli auspici monetaristi piuttosto che
quelli keynesiani ed erano finalizzati, se non vincolati, a conformarsi ai mercati piuttosto che a
correggerli» [Streeck 2006, 25]. In una forma intermedia tra centralizzazione e
decentralizzazione\deregolamentazione (contrariamente alla solitamente elevata centralizzazione
degli accordi precedenti), i nuovi accordi tripartiti sarebbero tesi a mantenere quella “soglia sociale”
minima tra le esigenze di flessibilità e solidarietà, equità ed efficienza, inscrivendosi nel solco delle
tradizioni neo-corporative della maggior parte dei paesi europei [Negrelli 2000]. In contrasto con le
precedenti forme di coordinamento, le nuove prassi concertative possono essere ridefinite come
“corporativismo competitivo”: tratti caratterizzanti ne sarebbero la minore routinizzazione, la
relativa instabilità dovuta ai minori costi di uscita dall’accordo e il ruolo sempre più presente dello
stato direttamente nelle negoziazioni (rispetto alla consultazione periodica, gli elevati svantaggi
derivanti dalla defezione e il ruolo dello stato come mediatore esterno, tipici del corporativismo
classico scandinavo). Nella sostanza, invece, i nuovi patti sociali sarebbero tesi a perseguire due
classi principali di obiettivi: obiettivi distributivi, cioè relativi alle politiche dei redditi, alla riforma
dei sistemi di sicurezza sociale e al riavvicinamento, a un livello intermedio, delle protezioni tra
lavoratori centrali e marginali; obiettivi di produttività, cioè tesi a costruire un clima cooperativo
all’interno delle imprese, implementando la flessibilità funzionale del lavoro, contrattandone la
gestione il più vicino possibile al luogo di produzione [Rhodes 2001].
Tra il periodo ’70-’80 e il successivo ’90-’07, il numero di negoziazioni tentate nel concludere un
patto sociale, in un campione di 26 paesi OCSE, è aumentato, passando da 62 tentativi nel primo
periodo a 80 nel secondo. Anche la probabilità che i negoziati si concludessero positivamente con
un accordo è aumentata, passando dal 56% al 64%. Inoltre, col passaggio al ventennio ’90-’07, la
probabilità che fossero aperti dei negoziati è aumentata solo leggermente in aggregato, ma di molto
in alcuni singoli paesi (come l’Irlanda, la Finlandia e l’Olanda) [Visser 2008]. Anche i contenuti
sono variati notevolmente: i patti di seconda generazione tendono, una volta raggiunto l’obiettivo
della moneta unica, a riguardare sempre meno le politiche salariali, mentre entrano a far parte
dell’agenda della concertazione soprattutto la riforma del mercato del lavoro, dei sistemi di
sicurezza sociale e del loro finanziamento, anche spostando l’attenzione sui costi complessivi del
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lavoro, in buona parte derivanti dai contributi per le assicurazioni sociali [Pochet e Fajertag 2000;
Regini 2007]. In particolare, accordi tripartiti sui livelli salariali si sono diffusi nei primi anni ’90 in
un’ottica di contenimento dell’inflazione in vista dell’introduzione dell’Euro, per poi dedicarsi
principalmente ad altri temi negli anni successivi [Visser 2008]. La crescita dei patti sociali negli
anni ’90 ha, per molti paesi (soprattutto mediterranei), costituito un’importante possibilità
nell’istituzionalizzare una prassi concertativa tra le parti sociali e lo stato, partendo da una
situazione di sua sostanziale assenza (come in Spagna, Portogallo, Italia, Grecia e Irlanda). La
contemporanea assenza, l’instabilità o la sporadicità di tale prassi in Austria, Germania e Belgio (in
cui sono falliti diversi tentativi di patto sociale), pone invece dei problemi di de-
istituzionalizzazione di una prassi concertativa precedentemente presente, mentre in Olanda la
riscoperta della concertazione ha riportato a una re-istituzionalizzazione della stessa, già a partire
dall’accordo di Wassenaar del 1982, che anticipava i contenuti poi diventati tipici dei patti di
seconda generazione (riforma del welfare e rigore di bilancio, moderazione salariale, convergenza
delle tutele tra lavoratori centrali e marginali, decentramento della contrattazione) [Schmitter e
Grote 1997; Rhodes 2001]. Nei paesi scandinavi, con l’eccezione della Finlandia, non si è invece
assistito a una crescita della contrattazione tripartita, rimanendo i sistemi fondamentalmente basati
in modo volontaristico sulla concertazione tra associazioni dei lavoratori e delle imprese, per quanto
sempre più caratterizzata da una crescente articolazione dei livelli contrattuali, a favore di quelli
inferiori [Visser 2008].
Le motivazioni alle spalle della rinascita delle prassi concertative in Europa risiedono
sostanzialmente nella necessità, percepita dagli stati nazionali e spesso dalle associazioni dei
lavoratori e delle imprese, del rilanciare la competitività complessiva del sistema economico. In un
contesto di crescente globalizzazione, i mercati nazionali diventano meno appetibili in caso di
elevata inflazione o eccessiva tassazione delle rendite, il che spinge verso l’austerità monetaria e al
riaggiustamento della spesa sociale. L’evoluzione delle strutture socio-economiche verso la
specializzazione flessibile e l’economia dei servizi, inoltre, spinge verso una ristrutturazione dei
sistemi di lavoro, rendendo necessario una correzione dei presupposti del sistema fordista. Infine,
«sia la competizione da costi che la stabilità richiede un mezzo per prevenire lo slittamento salariale
e le pressioni inflazionistiche» [Rhodes 2001, 174]. In modo particolare, la crescente
disoccupazione e la scarsa crescita e produttività, hanno spinto innanzitutto i governi (da cui il loro
accresciuto ruolo di parte negoziale), nel cercare delle soluzioni negoziate con le parti sociali. La
possibilità di accordi tripartiti deriva principalmente dall’emergenza di «un’analisi consensuale tra
le parti delle implicazioni del cambiamento del sistema di produzione e la formulazione di
preferenze comuni per un basso livello di inflazione e un sistema di tassi di cambio stabili» [Pochet
106
e Fajertag 2000, 18]. In particolare, l’interesse a partecipare dei sindacati può essere ascritto al
tentativo di mantenere (o creare ex novo) una certa influenza sul policy making e assicurare la
propria sopravvivenza come attori collettivi (ad esempio rafforzando il riconoscimento reciproco tra
le parti) [Regini 2003], mentre, in diversi casi, la condivisione degli obbiettivi dell’unificazione
monetaria hanno spinto le organizzazioni del lavoro ad accettarne i sacrifici necessari (in termini di
riduzione del deficit e del tasso di inflazione). Allo stesso modo, da parte delle associazioni degli
imprenditori, in una situazione di crescente incertezza può aver giocato a favore di una prassi
concertativa la ricerca di accordi con un ampio consenso, utili a stabilire un clima di fiducia e
cooperazione, piuttosto che puntare a un incerto e rischioso processo di decentramento sul modello
inglese [Pochet e Fajertag 2000], soprattutto in paesi in cui il sindacato è ancora un attore
particolarmente forte sia dentro che al di sopra delle singole imprese [Traxler 1995]. La crescente
integrazione economica, a livello europeo e globale, può poi portare a una «ridefinizione
“nazionalistica” degli interessi all’interno di un mercato internazionale, [e] può aprire opportunità
politiche, per quanto strettamente circoscritte possano essere, per i sindacati e i governi nel
negoziare patti sociali che sfruttino la dialettica dell’efficienza e dell’equità nella zona grigia tra
l’ampliamento e la distorsione del mercato» [Streeck 1998, 19]. In questo contesto, la necessità di
rispettare i criteri stabiliti per la partecipazione al sistema monetario europeo (bassi livelli di deficit,
debito pubblico e inflazione), è risultato, in paesi come Italia, Belgio, Grecia, Spagna e Portogallo,
uno stimolo particolarmente forte nello stabilire o nel riscoprire le prassi concertative [Rhodes
2001; Acocella et al. 2006], mentre specularmente l’assenza di patti sociali tripartiti negli anni ’90
nei paesi scandinavi è in parte riconducibile alla loro decisione di non aderire all’UME (oltre alla
disponibilità di un sistema di relazioni industriali ben collaudato) [Visser 2008]. La comunanza di
vedute su una situazione di forte crisi produttiva e occupazionale, invece, è stato un potente
incentivo nello stimolare l’inizio di una lunga stagione di patti sociali e concertazione in Olanda e
Irlanda già negli anni ’80 (a partire dal 1982 e dal 1987, rispettivamente), quindi ben prima che il
rispetto dei criteri di Maastricht si facesse pressante [Rhodes 2001]. Di contro, uno stato incapace di
sottrarsi al veto delle parti sociali (anche a causa di una struttura statale di tipo federalista), e meno
efficace nel suo ruolo di contrattazione con gli interessi sociali, può essere stato uno dei motivi dei
fallimenti dei tentativi di concertazione tripartita in Austria e Germania [Streeck 2004]: infatti
«l’implementazione, la continuazione e la reiterazione dei patti sociali può dipendere da un
intervento dello stato che “premi” la cooperazione e renda le strategie alternative costose per gli
attori. Questo presuppone che lo stato sia sufficientemente potente e abbia la capacità di minacciare
in modo credibile gli altri attori nei loro domini di pertinenza» [Visser 2008, 17].
La prassi dei patti sociali, in conclusione, non può essere considerata la “fine della storia” delle
107
relazioni industriali europee. Nati in situazioni di emergenza, o in previsione del raggiungimento di
obiettivi contingenti (la partecipazione all’UME), i patti sociali «diventano sempre più difficili via
via che l’emergenza si allontana, a meno che tutti gli attori coinvolti abbiano nel frattempo
sviluppato capacità di apprendimento strategico. In assenza di nuovi e forti vincoli esterni […], la
capacità degli attori delle relazioni industriali di perseguire beni collettivi, o semplicemente i loro
interessi di lungo periodo, non si può affatto dare per scontata» [Regini 2007, 121]. Come nota Jelle
Visser, per quanto in un’ottica più ottimistica sulla persistenza di sistemi istituzionalizzati di
cooperazione tra le parti sociali, «tali investimenti in interdipendenza tendono ad avere effetti
cognitivi su come gli attori definiscono i loro interessi […]. Essi imparano a capire cosa non
chiedere [… Però] i risultati necessitano non solo di essere percepiti come un successo, in
qualunque modo, ma necessitano anche di essere visti come equi e giusti sul piano distributivo»
[Visser 2008, 20]. Quindi, mentre una prolungata (ormai lunga un ventennio) interazione strategica
tra i tre attori delle relazioni industriali spinge certamente verso una persistenza nella cooperazione,
«se nell’agenda della concertazione rimangono solo la deregolazione del mercato del lavoro e la
riforma del welfare, appare chiaro che acquisire influenza non porta più risultati apprezzabili, e i
sindacati sono tentati di passare dalla partecipazione a rapporti più antagonistici» [Regini 2003,
102-103]. Questo potrebbe portare a una impasse definitiva, in quanto, una volta persa la forza
associativa basata sul numero degli iscritti, perdere anche le capacità di influenza istituzionale sulla
regolazione dell’economia e del mercato del lavoro potrebbe rivelarsi il colpo di grazia per il
movimento sindacale. Molto del suo futuro, pertanto, dipenderà da come sarà capace di intercettare
le nuove domande di tutela provenienti da un mercato del lavoro in rapido cambiamento, in
particolare rendendosi appetibile per la crescente proporzione di lavoratori qualificati. Questo non
può avvenire in assenza di cambiamenti delle strategie sindacali. In particolare, non può avvenire se
la tutela rimarrà centrata esclusivamente su una base sociale che viene sempre più a mancare (il
lavoro full-time a tempo indeterminato nella grande impresa), e non si estenderà invece verso la
crescente proporzione di outsiders (i lavoratori marginali, flessibili e meno tutelati, localizzati in
piccole unità produttive), allontanandosi dalla tutela del posto e ampliandosi verso la tutela del
potere di mercato del lavoratore (cfr. par. 3.1). Allo stesso modo, una presenza più capillare a
livello di impresa, in grado, oltre che di fornire una protezione più vicina alle esigenze del
lavoratore, di giocare un ruolo positivo nella performance aziendale in un’ottica di condivisione dei
risultati della maggiore produttività, aiuterebbe a coinvolgere un maggior numero di lavoratori,
riportando a salire il numero di iscritti, e fornendo più garanzie di quelle che, con sempre maggiore
difficoltà, vengono fornite dai welfare states nazionali [Regini 2003; Ichino 2006]. Probabilmente
un sindacato “post-moderno” non assomiglierà al sindacalismo industriale affermatosi nel secondo
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dopoguerra. E’ però possibile, paradossalmente, che il sindacato torni a riscoprire le proprie radici,
recuperando vecchi strumenti ormai dismessi «del suo ricco patrimonio passato, proprio nel
momento nel quale a esso si rivolgeranno richieste pressanti di accettazione delle esigenze più
innovative dell’economia globalizzata e della produzione ad alta tecnologia. Anche da questi motivi
contrastanti nasceranno i suoi caratteri di post-modernità. Se il sindacato saprà interpretare questi
caratteri con coraggio e saggezza, con lungimiranza e passione, la speranza di continuare a giocare
ruoli di protagonista non sarà del tutto infondata. E il pericolo di perdere con il sindacato molti dei
tratti fondativi della democrazia pluralista potrà essere evitato» [Cella 2004, 130-131].
109
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