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LA STAGIONE DELLA NARRATIVA LA STAGIONE DELLA NARRATIVA INSERTO DELLA RIVISTA COMUNITÀITALIANA - REALIZZATO IN COLLABORAZIONE CON I DIPARTIMENTI DI ITALIANO DELLE UNIVERSITÀ PUBBLICHE BRASILIANE ANO VII - NUMERO 84 Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente.

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LA STAGIONEDELLA NARRATIVALA STAGIONEDELLA NARRATIVA

INSERTO DELLA RIVISTA COMUNITÀITALIANA - REALIZZATO IN COLLABORAZIONE CON I DIPARTIMENTI DI ITALIANO DELLE UNIVERSITÀ PUBBLICHE BRASILIANE

ANO VII - NUMERO 84

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S e un libro fosse solo un agglomerato di carta con macchie di parole inci-se sopra, magari con foto tra un capitolo e l’altro, copertina semirigida che attiri l’attenzione in libreria, allora sì, il 6° posto di Antonella Clerici,

soubrette televisiva, che si occupa di cucina, nella classifica dei libri più venduti di novembre, sarebbe decisamente legittimato. Eppure nascosta nell’avvili-mento della globalizzazione e soprattutto dell’idea nostalgica di un romanzo, la nostra letteratura riesce a stuzzicare i palati dei lettori che hanno ancora il coraggio di comprare libri d’autore, con storie importanti, reali o immaginate. Se non sorprende dunque l’incalzare di Le ricette di casa Clerici o l’Oroscopo 2011 di Paolo Fox (di cui sono effettivamente accanita estimatrice) nella classi-fica dei libri più venduti di questo mese in Italia, sorprende piacevolmente la grondante e rassicurante presenza di alcuni dei più importanti autori italiani degli ultimi decenni.

Così, tirando un sospiro di sollievo, dall’estate fino, presumibilmente, a Natale, le librerie italiane sono invase da “grandi firme”. Da Umberto Eco, a Sandro Veronesi, da Niccolò Ammaniti ad Andrea Camilleri. Tutti i più grandi maestri della biro in una manciata di posizioni. Primo, secondo, terzo, quarto e quinto posto per Il cimitero di Praga (Eco), Io e te (Ammaniti), Il sorriso di An-gelica (Camilleri), Appunti di un venditore di donne (Faletti), XY (Veronesi)…E più si continuerà ad indagare nel fitto, e forse anche un po’ mistico, mondo delle classifiche della narrativa italiana, più si cascherà in un continuo sgam-betto ai piedi di una stagione letteraria ottima e proficua dove si incontrano le più variegate storie, i più strampalati personaggi, i paesaggi forse solo sogna-ti. Calcano le scene anche Sergio Campailla, Il segreto di Nadia B., Walter Siti, Autopsia di una ossessione, Alessandro Piperno Persecuzione.Il fuoco amico dei ricordi, Antonio Tabucchi Viaggi e altri viaggi, Giancarlo De Cataldo I tra-ditori, Carlo Lucarelli con I veleni del Crimine, Andrea De Carlo Leielui, Dacia Maraini La seduzione dell’altrove… e ancora altri.

Novembre 2010 nella letteratura ci ha colti impreparati, come ormai colpi-scono in lungo e in largo le piogge monsoniche che non ci appartengono. Che il mondo stia cambiando? Che veramente l’Italia dei lettori stia rinascendo dopo la tramontata sciattezza delle fiabe di adolescenti alla Moccia e di single scapestrati alla Fabio Volo? O che lo stia facendo il mondo editoriale?

Lidia Sirianni (saggista e scrittrice, curatore degli articoli sulla narrativa di questo numero di Mosaico)

Come sempre, non resta che augurare, buona lettura!

Gli editori

Dicembre / 2010

Editora ComunitàRio de Janeiro - Brasil

[email protected]

Direttore responsabilePietro Petraglia

EditoreFabio Pierangeli

GraficoWilson Rodrigues

COMITATO SCIenTIfICO

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Cecilia Casini (USP); Cristiana Lardo (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Daniele Fioretti (Univ. Wisconsin-Madison); Elisabetta Santoro (USP); Ernesto Livorni (Univ. Wisconsin-Madison); Fabio Pierangeli (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Giorgio De Marchis (Univ. di Roma III); Lucia Wataghin (USP); Luiz Roberto Velloso Cairo (UNESP); Maria Eunice Moreira

(PUC-RS); Mauricio Santana Dias (USP); Maurizio Babini (UNESP); Patricia Peterle (UFSC); Paolo Torresan (Univ. Ca’ Foscari); Rafael Zamperetti Copetti (UFSC); Roberto

Francavilla (Univ. de Siena); Roberto Mulinacci (Univ. di Bologna); Sandra Bagno (Univ. di Padova); Sergio Romanelli (UFSC);

Silvia La Regina (Univ. “G. d’Annunzio”); Wander Melo Miranda (UFMG).

COMITATO eDITORIALe

Affonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia

Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni;

Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo;

Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio

Michele; Victor Mateus

eSeMPLARI AnTeRIORI

Redazione e AmministrazioneRua Marquês de Caxias, 31

Centro - Niterói - RJ - 24030-050Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468

Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti

brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima

libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero

della direzione.

SI RInGRAZIAnO

“Tutte le istituzioni e i collaboratori che hanno contribuito in qualche modo all’elaborazione del presente numero”

STAMPATORe

Editora Comunità Ltda.

ISSN 2175-9537

Letteratura di “gran portata”oppure onore al dessertdegli astri e dei destini?

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SAGGI

Patricia PeterleI viaggi di carta tabucchiani

Paolo Di PaoloI “Lo zio di Lucca a Singapore”Intervista di Paolo Di Paolo ad Antonio Tabucchi.

Lidia SirianniXY. Le variabili dell’intangibile

Fabio PierangeliOncologia dell’anima. Alessandro Piperno

Giovanna ScarsiLetteratura tra testimonianza e arte. Il segreto di Nadia B. di Sergio Campailla.

Bernardina MoriconiConsiderazioni di un lettore su Il segreto di Nadia B.

Lidia SirianniUmberto Eco: Il Cimitero di Praga

Marzia ConsalviNiccolò Ammaniti, Io e te. La fulminea penna dell’autore su un imperscrutabile mistero:come diventare grandi

Roberto Di Pietro-Alessandro HellmannAlessandro Hellmann, Decadence lounge, Roma, Editrice Zona, 2010.

Francesca GiglioOssessione, Walter Siti

Francesco RizzoL’Italia che eravamo CANALE MUSSOLINI di ANTONIO PENNACCHI

RUBRICA

Francesco AlberoniSolo con la forza d’animo ci liberiamo dalle ossessioni - Dopo lo sconforto bisognacercare soluzioni alternative

PASSATEMPO

IndiceIndice

pag. 04

pag. 06

pag. 09

pag. 11

pag. 14

pag. 16

pag. 19

pag. 21

pag. 24

pag. 26

pag. 28

pag. 30

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Patricia Peterle

Univ. Federal de Santa Catarina

Come si sa, Tabucchi è un gran-de studioso di lusitanistica, ormai in pensione. È stato uno dei re-sponsabili per l’aumento del nu-mero di testi in lingua portoghese tradotti nel mercato editoriale italiano: Fernando Pessoa, Carlos Drummond de Andrade e José Lins do Rêgo sono solo alcuni nomi con i quali ha lavorato.

Un intellettuale presente ed attivo nell’universo culturale e po-litico della penisola. Un’inserzione nel mondo e nella società in cui vive che si traduce e si concretizza non solo mediante gli articoli scritti per la stampa italiana e straniera, ma an-che per mezzo della sua opera lette-raria e saggistica, oltre alle interviste.

Lo scrivere è per questo pisano cosmopolita una specie di viaggio attraverso le sensazioni ed espe-rienze e, allo stesso tempo, un re-cupero di esse. Sono i momenti vis-suti, i libri letti e gli autori ammirati che pian piano segnano la sua, solo apparentemente, semplice narrati-va, che è in realtà piena di simboli e segni. “Pessoa e Pirandello sono i due autori che posso citare: nel pri-mo la realtà può essere; nell’altro può sembrare”: ecco la risposta di Tabucchi a José Guardado Morei-ra, nel 1993, quando gli fu chiesto quali fossero gli autori con i quali si identificava di più. Tuttavia, non è possibile trascurare gli altri che di-

segnano una costellazione varia e complessa: Rilke, Conrad, Kavafis, Drummond, Baudelaire e Svevo.

Pessoa e Pirandello, dunque, due riferimenti fondanti, due cultu-re, due nazioni, Portogallo e Italia, che segnano un lungo periodo dei suoi interessi e della sua produzio-ne come artista e studioso. Due pa-trie, una data dalla nascita e l’altra fatta propria per adozione. L’Italia di Dante Alighieri, di Boccaccio, di Pirandello, di Montale, di Campana, di Calvino e il Portogallo di Vieira, di Camões, di Sóror Violante do Céu, di Eça, di Pessoa e di Cardoso Pires si intersecano in una prima fase della sua scrittura letteraria. Piazza d’Italia (1975), Il gioco del ro-vescio (1981), Piccoli equivoci senza importanza (1985), Sostiene Pereira (1994) sono alcuni esempi che con-fermano l’esistenza di questa dop-pia patria, la quale raggiunge il suo apice in altri due testi posteriori: I dialoghi mancati (1992) e Requiem (1994). Se nel primo, una piéce, l’autore immagina un incontro mai esistito fra Pirandello e Pessoa, che è pieno di significati simbolici, nel secondo l’identità e l’avvicinamen-to alla cultura portoghese trascen-dono questi significati, poiché la lingua, il codice della comunicazio-ne, del pensare e ragionare, non è più solo l’italiano, ma anche il por-toghese. In effetti, il libro è pubbli-

cato prima in lingua portoghese e solo dopo viene tradotto in italiano da Sergio Vecchi. Sarà stata un’allu-cinazione, anche da questo punto di vista, per riprendere il sottotitolo del libro?

La scrittura tabucchiana si pre-senta come un groviglio, che coin-volge il lettore, in un testo che il più delle volte deve essere prima deci-frato per essere poi interpretato. Tabucchi lascia al suo lettore delle orme nascoste nella fitta narrativa, che possono essere identificate dal lettore-detective, che deve es-sere sempre attento a riconoscere, identificare e decifrare le pagine come fosse una grande mappatu-ra, un registro; in alcuni casi, il let-tore tabucchiano diventa un inter-prete di simboli e segni. Alla manie-ra di uno Sherlock Holmes, che con la lente d’ingrandimento si presen-ta attento ad ogni segno che può essere trovato, Tabucchi ne ha una anche lui di lente, ma fittizia, che corrisponde ad una mescolanza tra il guardare e l’osservare. Un’attitu-dine che può rimandare al Tabuc-chi lettore di Pessoa, il quale cerca di raccogliere tutti i segni per svela-re, se possibile, i misteri, gli enigmi, le inquietudini (os desassossegos) del poeta, che poi diventano anche quelle dello scrittore italiano. Un gioco che può essere sul rovescio delle cose, ma è sicuramente sul

I viaggi di cartatabucchianiAntonio Tabucchi è uno di quegli scrittori che presta i suoi occhi e la sua percezione

ai suoi personaggi e che, ispirandosi a spazi reali, ne crea altri nella fiction, risultanti dalla sua esperienza di vita, di lettore e studioso. La sua è un’opera ibrida, intessuta di

varie immagini di città e culture, India, Italia, Portogallo, spazi che delineano anche il profilo di alcuni personaggi, abitanti di storie, racconti e libri diversi, che vanno e vengono da un testo all’altro e s’incastrano come in un puzzle.

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binomio visibilità/invisibilità. Questa tematica è presente

nella narrativa tabucchiana fin dai primi testi che trattano della storia italiana. La Storia, quella con la S maiuscola, che rappresenta gli av-venimenti importanti, in altri ter-mini, la macrostoria, si mescola alle infinite storie di personaggi ignoti che compongono le microstorie. Aspetti, questi, identificabili per-fino in un libro sulla morte, come può essere considerato Tristano Muore, pubblicato nel 2004. Ma non si deve dimenticare che, ac-canto alla morte, il tema forse prin-cipale, ruotano anche la memoria e delle riflessioni sulla scrittura.

Sicuramente, Antonio Tabuc-chi è un uomo legato al suo tem-po. La frammentazione, lo scrivere come forma di sperimentazione e la letteratura come modus operan-di sono tre aspetti concernenti le sue strategie e fondamentali per poter capire meglio la sua poetica. Discorsi brevi, personaggi che sal-tano da una storia all’altra, come se avessero una vita propria, pre-fazioni, postfazioni, sottotitoli ed altre tipologie di testi più o meno corti, che intersecano quello nar-rativo, sono importanti per la sua comprensione; sono strumenti che servono all’autore per far ope-rare e mettere “in moto” le sue storie. Tuttavia, anche se molto le-gato al piano del sogno, delle allu-cinazioni, del “sublime”, Tabucchi tratta anche e cerca di fare i conti con la realtà, sia mediante alcu-ni brani più letterari sia mediante quelli più saggistici. In La gastri-te di Platone (1998), una risposta al dibattito con Umberto Eco sul ruolo e la figura dell’intellettuale, riflette sulla problematica funzio-ne e sullo spazio che esso deve occupare nella società odierna. Un altro esempio dei suoi interventi più impegnati è il libro L’oca al pas-so - notizie dal buio che stiamo at-traversando (2006), che raccoglie i testi pubblicati sulla stampa mon-diale (El País, L’Unità, Il Corriere della Sera, Herald Tribune, Le Mon-de, Il Manifesto, La Repubblica). In essi, Tabucchi riflette e propone un dibattito al suo lettore su alcu-ne problematiche importanti della contemporaneità, tali come terro-rismo e antiterrorismo, un nuovo razzismo e la minaccia di un nuovo autoritarismo. Testi scritti in mo-

menti diversi e per giornali diversi, ma che, messi insieme, interro-gano la nostra realtà. Tabucchi, individuo, cittadino, scrittore, si vede e si confronta con le notizie e gli avvenimenti del suo tempo. Tempo frammentario, cosi com’è la realtà “discronica”, per usare una sua parola. Le ultime righe del libro confermano questa specie di spogliarsi davanti al mondo:

Misurarsi con la vita può far male, specie se lo si fa senza eccessive mediazioni lettera-rie o romanzesche. Lo hanno fatto altri scrittori in passato e l’ho fatto a lungo anch’io, come queste pagine testimoniano. Ma non lo si può fare per sempre. È giusto che uno scrittore, a un certo punto, ceda il testimone della visione diretta della real-tà e riprenda i suoi strumenti più consoni. È quello che faccio chiudendo questo libro.

Dal 2006 al 2010, Tabucchi ha pubblicato altri due libri che indica-no altre strade aperte dall’autore. Il tempo invecchia in fretta (2009) è composto da nove racconti che trattano di temi sottili e sfumati, di una carica esistenziale forte, come può essere per esempio il si-gnificato dell’assenza. Lo scenario delle prime opere dà spazio ad altri nuovi: Germania, Ungheria, Grecia, ex-Jugoslavia. Nuove scoperte let-terarie? Lo sguardo di Tabucchi or-mai tende a spostarsi anche verso l’Europa dell’est, uno spostamento che richiede altre tematiche forse più legate al vivere nella società contemporanea. È possibile citare le frontiere culturali sempre meno nette e più fluide: civilizzazione contrapposta a barbarie. Temati-che che in qualche modo sono pre-senti anche nei suoi interventi gior-nalistici, nelle interviste concesse o nella partecipazione a program-mi televisi, come è stato il caso di “Anno Zero” di Santoro. Viaggi e altri viaggi, in libreria dall’ottobre 2010, è il suo ultimo volume. Un libro particolare, forse un po’ più raccolto di quello del 2009. I viag-gi, sempre ricorrenti nei suoi testi, ritornano insieme alla memoria, altro elemento della sua poetica. Afferma Tabucchi: “Sono un viag-giatore che non ha mai fatto viaggi per scriverne, cosa che mi è sempre

parsa stolta. Sarebbe come se uno volesse innamorarsi per poter scri-vere un libro sull’amore”. In Viaggi e altri viaggi, ripercorre luoghi cari e importanti del suo percorso d’in-tellettuale e scrittore. I suoi lettori identificheranno spazi già frequen-tati prima, l’India di Notturno, il Portogallo di Requiem e di Sostiene Pereira, che si mescolano ad altri nuovi. Una specie di mappa deline-ata dalle parole e dalle geografie inventate nella finzione. Il viaggio come scoperta dell’altro e di sé.

In Brasile, Tabucchi è uno de-gli scrittori italiani contemporanei più tradotti. Di lui, infatti, sono editi tutti i libri narrativi, fino a Il tempo invecchia in fretta, appena pubblicato dalla Cosac&Naify in una bellissima edizione. Tabucchi è senza dubbio, in un momento di crisi letteraria e culturale, una delle voci più importanti e rappre-sentative della letteratura italiana in questo paese. Tuttavia, la sua fama è più legata a quello dello scrittore di narrativa, piuttosto che a quella di intellettuale, come si evince dalla mancata traduzio-ne, invece, dei testi più propria-mente saggistici e giornalistici.

I viaggi di cartatabucchiani

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Intervista di Paolo Di Paolo ad Antonio Tabucchi.

“Lo zio di Luccaa Singapore”Dell’ultimo libro di Antonio Tabucchi, “Viaggi e altri viaggi”, a cura di Paolo Di Paolo, Feltrinelli 2010, pubblichiamo l’intervista dello stesso Di Paolo premessa al volume.

È comprensibile che un giovane, dopo aver passato l’infanzia nell’orizzonte limi-tato di una campagna (seppur la bella cam-pagna toscana) e un interminabile anno dell’adolescenza inchiodato nel letto per una malattia a un ginocchio e sognando sui libri di Stevenson e di Conrad che mi forni-va mio zio, è comprensibile che quel giova-ne desiderasse di partire. Ma a muovermi non furono i romanzi di viaggi lontani, fu un film: La dolce vita di Federico Fellini. Il ritrat-to dell’Italia che Fellini forniva in quel film impietoso non corrispondeva a quello che l’Italia voleva che un liceale credesse. Dopo il liceo non ebbi animo di iscrivermi subito all’università e scelsi con la complicità di mio padre di andare a Parigi. A quel tempo non c’era l’Erasmus e da studenti ci si manteneva lavando i piatti, inoltre essere auditeur libre alla Sorbona non prometteva una brillante carriera. Ma Parigi fu la scoperta del mondo o almeno la scoperta che il mondo è gran-de. Non è vero che il mondo è piccolo. Non è neppure vero che è un “villaggio globale”, come pretendono i mass media. Il mondo è grande e diverso. Per questo è bello: perché è grande e diverso, ed è impossibile cono-scerlo tutto.

«Sono qui e nessuno mi conosce, sono un volto anonimo in questa moltitudine di volti anonimi, sono qui come potrei essere altrove, è la stessa cosa, e questo mi dà un grande strug-gimento e un senso di libertà bella e superflua, come un amore rifiutato», si legge nel racconto «Any where out of the world» (Piccoli equivo-

«Spesso immaginavo di partire. Mi vedevo salire su uno di quei treni nella notte...» dice il personaggio di un suo racconto, «I pomeriggi del saba-to» (Il gioco del rovescio, 1988). L’infinito “partire” quali immagini evo-

ca in lei? Quando ha cominciato a pensare che avrebbe potuto riguardare la sua vita?

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ci senza importanza, 1985). Capitare in un luogo: nascere significa anche questo. Ma poi, qualcosa comincia ad andarci stretto; allora partiamo. Ma non è così facile trovare un luogo che ci basti. Ecco: «farsi bastare i luo-ghi». Da dove cominciare?

La letteratura – ha detto un po-eta – è la dimostrazione che la vita non basta. Perché la letteratura è una forma di conoscenza in più. È come il viaggio: è una forma di co-noscenza in più, molte forme di co-noscenza in più. Molte cose ci pos-sono bastare, e devono bastare, nella vita: l’amore, il lavoro, i soldi. Ma la voglia di conoscere non ba-sta mai, credo. Se uno ha voglia di conoscere, almeno.

Il ragazzino del suo racconto «Ca-podanno» (L’angelo nero, 1991) viag-gia con i libri, con le storie. Viaggia stando fermo. Quanto l’esperienza della lettura ha a che fare con quella del viaggio? E la scrittura, come si sen-te dire, è un altro modo di viaggiare?

Scrivendo uno immagina di es-sere un altro e di vivere una vita altra. E di stare in un altro luogo. La scrittura è un viaggio fuori dal tempo e dallo spazio. Il viaggio, quello geografico, è un movimen-to in orizzontale, ma sempre anco-rato alla crosta del mondo.

C’è un libro di Carlo Emilio Gad-da che si intitola I viaggi la morte. Scritto così, senza virgola. I perso-naggi dei suoi libri si spostano, viag-giano e pensano spesso alla morte. Chi dice “io” nel romanzo Requiem (1992) attraversa Lisbona, ci viag-gia dentro e incontra di continuo, a ogni angolo, presenze-assenze che richiamano la morte, i morti.

Viaggiando si incontrano so-prattutto i vivi. A volte anche dei moribondi. E anche dei veri morti, dipende dai luoghi. Oggi in certi pa-esi, ad esempio, se ne può trovare una quantità ragguardevole. Ma anche i nostri morti, o i morti che abbiamo conosciuto quando erano vivi. Può capitare. Può capitare, per esempio, che in una modesta pen-sione di Lisbona, in una domenica d’agosto, quando la città è deserta, uno riceva la visita del proprio padre morto da tempo. Perché a casa non veniva? Una forma di timidezza che

hanno i defunti? Difficoltà a tornare in un luogo a lui troppo noto? Può capitare che in una anonima came-ra di un hotel di Singapore, lassù all’ultimo piano di un grattacielo, arrivi all’improvviso la voce dello zio di Lucca. Che potenza di voce, se arriva da Lucca, ed è ben strano, a pochi chilometri di distanza non era mai arrivata; uno sta dormendo in un hotel di Singapore e lo sveglia la voce dello zio di Lucca. Possibile che lo zio di Lucca avesse bisogno che il nipote si trovasse a Singapore per dirgli una cosa all’orecchio? Da cosa dipenderà? Sarà perché stase-ra non hai visto i telegiornali italiani, cosa del resto impossibile a Singa-pore? Sarà perché non hai appreso che il papa è uscito sulla piazza con un nuovo copricapo, che l’onorevo-le del partito della Manodura oggi non ha invitato a sparare su nessu-no, che il giornalista televisivo che di umano non ha quasi niente con-sidera sacro l’embrione? Sarà per-ché hai fatto pulizia delle scorie che inquinano la vita quotidiana? Sarà perché i morti, come i cetacei che comunicano con una specie di sonar naturale per non esser disturbati da tutti i suoni artificiali che inquinano gli oceani, hanno bisogno di acque

acusticamente pulite affinché la loro voce non si perda nel rumore di fondo da cui siamo avvolti?

E il tempo? Che cosa succede al tempo (alla nostra cognizione del tempo) mentre siamo in viaggio? Sembra strettissimo al momento di spostarci, di muoverci, ma poi si di-lata, lievita miracolosamente quan-do lo riconsideriamo da fermi.

Che cosa bella, gli orari! Gli ora-ri sono fatti di un tempo speciale che non appartiene al Tempo con la maiuscola, appartiene a un tem-po stretto, contabile, che entra nella pagina di un’agenda. Si fanno i calcoli: prendendo l’autobus delle quattro del mattino arrivo ad Oaxa-ca alle sette del pomeriggio. La ceri-monia degli stregoni zapotechi sulle colline è alle ventuno, se l’autobus non ritarda ce la dovrei fare. Questo lunedì. Per martedì poi si vede.

Crede che l’esperienza del viaggio

abbia inciso molto sui libri che ha scrit-to? Ci sono viaggi che oggi, ripensan-do al suo lavoro, considera decisivi?

È sempre difficile stabilire se le cose che pensiamo hanno più in-

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fluenza sulle cose che facciamo o se le cose che facciamo hanno più influenza sulle cose che pensiamo. Probabilmente funzionano in regi-me di par condicio. Ci sono viaggi che si sono trasformati in scrittu-ra. Questi viaggi non ci sono più, quasi me li sono dimenticati. O meglio, continuano ad esistere perché li ho trasformati in roman-zi. Vivere e scrivere sono la stessa cosa, però sono due cose diverse. La vita è una musica che svanisce appena l’hai suonata. La musica è più bella della sua partitura, non c’è dubbio. Ma della musica, quan-do è stata suonata, nella vita resta la partitura.

Lei che viaggiatore è? Lo spaesa-mento, il capovolgimento o l’inter-ruzione dell’abitudine, l’incontro con l’ignoto la spaventano?

Un viaggiatore che non ha mai fatto viaggi per scriverne, cosa che mi è sempre parsa stolta. Sarebbe come se uno volesse innamorarsi per poter scrivere un libro sull’amo-re. Forse molte volte la noia, nel senso più profondo, è stato un grande propellente. Però è difficile stabilirlo. Talvolta la noia, sempre nel senso più profondo, può essere un propellente ma anche una fasci-nazione a cui ci si abbandona fino a toccarne il fondo. E l’ignoto, il vero ignoto, dove lo troveremo, pren-dendo un aereo che va lontano o in fondo a quel pozzo di immobilità in una giornata passata a pensare senza muoversi di casa, guardan-do un muro senza vederlo? E poi l’ignoto ci spia sempre, e si presen-ta alla prima occasione.

Ci sono autori o libri che le han-no fatto da guida, che ha sentito come compagni di viaggio nei viaggi della sua vita?

Più che autori, direi dei versi, o brani di poesie. Uno se le porta dentro senza sapere di saperle, le poesie. E a volte arrivano da sole, come a siglare una circostanza in cui ti trovi, emergono dalla me-moria per associazioni di idee, per-ché definiscono una situazione, “danno un senso”, sono dei veri compagni di viaggio, quel tipo di compagno che ti dice la cosa giu-sta al momento giusto. Non so, per esempio, citando alla rinfusa versi

che mi sono venuti in mente e che magari ho ripetuto come un ritor-nello per tutto un viaggio: «Dete-sto il poema ciclico e non gradi-sco i sentieri calpestati da molti» (un viaggio sbagliato); «Straniero, poco ho da dirti: fermati e leggi» (una lapide trovata per caso); «Mio Dio, che secolo, dicevano i topi, e cominciavano a rodere l’edificio» (davanti a scene che avrei preferito non vedere); «Viaggiare, perdere paesi» (varie situazioni); «Sto dove non dovrei stare» (pensata spes-so); «Aria, mi riconosci tu, tu che un giorno conoscevi i luoghi che erano miei?» (certi ritorni); «Quan-do ti perderai nel deserto della sera e l’azzurro del mare lontano ti farà venire sete» (una premoni-zione che si avvera); «Succede che è dicembre in tutto il mondo ed è sabato in tutta la Colombia» (una vigilia di Natale chiedendosi cosa ci faccio qui); «Ho nostalgia di casa, il che è evidentemente una scioc-chezza, da quelle parti non sono mai stato uno stimato sciovinista» (può succedere).

«Mi piaceva leggere il viaggio sulla faccia degli altri». È una frase molto bella e sta dentro un suo li-bro. C’è un viaggio che le è capitato di vivere per averlo letto sulla faccia di qualcuno? Parenti, amici, persone incontrate per caso...

Una particolare meraviglia del viaggio si legge soprattutto sui volti di quelli che vanno “in gita”. «Gli italiani in gita», come direbbe Paolo Conte. Ma anche qui in Por-

togallo, da dove le sto risponden-do, quelli che la domenica fanno la gita a Fátima o nella località di mare, e in Francia quelli della peri-feria parigina che la domenica van-no a vedere la Cattedrale di Char-tres. Esistono ancora “le gite”, anche se sono destinate a sparire. Più di una volta sono andato ad aspettare l’autobus di ritorno da qualche parte, fingendo di aspet-tare qualcuno anche se non aspet-tavo nessuno, per guardare le persone che scendevano. Sul vol-to hanno meraviglia, eccitazione, stanchezza, a volte non sono più tanto giovani, qualcuno ha porta-to anche i nipoti più grandicelli. Mi piace guadarle, queste persone: hanno davvero fatto un viaggio, anche se solo di poche centinaia di chilometri. Magari, non so, dal mio paese in Toscana sono andati ad Assisi o sul lago Trasimeno. E il viaggio ce l’hanno negli occhi as-sonnati dove è rimasto il disagio e l’allegria di quella breve evasione. Invece, al contrario, mi è capitato di osservare certe giovani coppie, oggi, che magari non hanno mai visto gli Uffizi o il Colosseo e che quando si sposano vanno in viag-gio di nozze alle Seychelles o alle Isole Comore. Quando tornano, sul loro volto non c’è scritto nien-te. Del resto, cosa ci fa uno alle Isole Comore? Sono solo abbron-zati. Lo stesso risultato l’avrebbe-ro ottenuto standosene seduti nel cortile di casa o sul terrazzo.

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Lidia Sirianni

XY. Le variabilidell’intangibile

«L’ho detto ai carabinieri, l’ho detto al Procuratore, l’ho detto a tutti quelli che mi hanno chiesto “cosa avete visto?”: l’albero, abbiamo visto, l’albero ghiac-

ciato. E’ stata la prima cosa che abbiamo visto, appena arrivati al bosco – e anche dopo, quando abbiamo visto il resto, è rima-sto l’unica cosa intera che abbiamo visto. L’albero. Era lì, al suo posto all’imboccatura del bosco, cristallizzato come sempre nel suo cappotto di ghiaccio, la cui trasparenza era offuscata dalla neve fresca – ma era rosso. Era rosso, sì, come se Beppe Formento, nell’atto di ghiacciarlo, avesse messo dello scirop-po di amarena nel cannone. In quel bianco fatale era l’unica cosa che mantenesse una forma, e sembrava – non esagero

– acceso, pulsante di quell’intima luce aurorale che ancora oggi mi ritrovo a sognare. Sogno quella tra-sparenza rossa, sì, ancora oggi, e la sogno senza più l’albero, ormai, senza nemmeno più la forma dell’al-bero: sogno quel colore e nient’altro. Un tramonto imprigionato in un cielo di gelatina, un sipario di quarzo rosso che cala sul mio sonno, un’immensa caramella Charms che si mangia il mondo, ho con-tinuato a sognare quella trasparenza rossa e conti-nuo a farlo, perché è ciò che abbiamo visto, quando siamo arrivati al bosco. Cosa avete visto? Abbiamo visto l’albero ghiacciato intriso di sangue.»

Che sia l’irrazionale e l’intangibile la più grande paura dell’uo-mo, non è certo una novità. Ma se un libro dichiarato thriller si con-figura nell’impossibilità di trovare un vero e proprio capro espiato-rio, allora si riscopre un sapore antico, quello kafkiano, del peccato più intimo, quello globale dell’intera umanità.

Il nuovo romanzo di Sandro Veronesi, XY, edito da Fandango Libri e in tutte le librerie dal 21 ottobre 2010, rappresenta una nuo-va (o forse ripercorsa?!) strada tra l’esistente e l’inesistente, tra il mondo e la metafisica.

XY vuole stupire, vuol sembrare qualcosa di misteriosamente grande, eccelso; la modernità gli tende addirittura le mani svolgen-do il nastro in un vero e proprio fenomeno di massa, che abbatte i limiti della comunicazione tradizionale, della metodologia classica del criticismo, nella soggettiva dualità “bello-brutto”. XY non è re-censibile, XY non è tangibile. XY è un imbroglio, così mi viene da definirlo, uno scherzo letterario! E chi più può dare spiegazioni irra-zionali, più intervenga nel dibattito!

Si scansa così la Fandango Libri dalle critiche abitudinarie dei quotidiani, dalle alte considerazioni più didattiche, al fine di punta-re sull’inconsistenza, quella del virus, quella di internet. Così nasce il sito web del romanzo (www.x-y.it), nascono i gruppi sui social network, si cerca di effettuare quel Viral Marketing che tanto piace ai giovani comunicatori, quello che fa spargere la voce, nel bene o nel male, senza poi aver pretese sul reale valore della notizia e in questo caso del libro.

La nuova fatica di Veronesi, scritta in più di quattro anni, dopo l’eclatante ma sincero successo di Caos Calmo (uno dei pochi libri ad aver vinto di recente il Premio Strega, espressamente sull’idea geniale del concetto, più che sulla linea stilistica del romanzo), vie-ne dichiarata come un vero e proprio thriller. Allora si dà il via alle congetture, via alle ipotesi sulla colpevolezza, via alle discussioni su gruppi di facebook…Come se ci fosse davvero qualcosa da svelare. In realtà lo stesso autore non ha mai tenuto segreto il contenuto

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del suo caro romanzo e, leggendo interviste, recensioni abbozzate al volume, si può addirittura arrivare al vero e proprio spoiler. Non si può tenere nascosto il finale di XY, non si può evitare di additare il colpevo-le del delitto, perché semplicemen-te non c’è, non esiste.

Lo stesso Veronesi ha raccon-tato l’arcano che si rivela dietro a questo romanzo, cominciando pian pianino ad enumerare le inspiega-bili vicende che si susseguono e a ricavarne poi le giuste congetture.

Riassumendo: in un lontanissi-mo paesino di montagna, Borgo San Giuda, perduto tra la neve e la nebbia, come ogni giorno arriva una slitta con alcuni visitatori e gui-data da un paesano. Fin qui nulla di strano. Ma se la slitta arriva vuota, trainata solo da un cavallo su due, allora subito sorge il dubbio che qualcosa, in quel bosco, deve pur essere successo!

La paura si innalza vorticosa-mente quando il prete e gli altri del villaggio si dirigono a cercare gli scomparsi, ritrovandosi di fronte una scena raccapricciante e inve-rosimile. Ai piedi di un albero ghiac-ciato, intriso di sangue, giacciono i cadaveri degli scomparsi, cavallo compreso. Le morti sono tutte di-verse, assurde, inspiegabili; si parte dal più semplice enfisema polmo-nare, passando per un cancro, una decapitazione, uno svisceramento

per il traffico di organi…per arriva-re poi alla più assurda delle morti, quella per attacco di uno squalo. Tra le montagne del Trentino.

Da qui il thriller non esiste più. Da questo preciso istante narrativo tutti noi lettori abbiamo fin trop-po chiaro che qui la realtà non è di casa! Si potrà dare una spiegazio-ne a tutte le morti, magari tirando fuori l’effetto della casualità, ma di certo non si potrà dar risoluzione al morso di uno squalo, tra l’altro di razza australiana, sulle dolomiti. Il dubbio ora non si scaglia più di fronte al colpevole, ma si scaglia sul filo conduttore di tutti i decessi. XY non è più nemmeno un noir, ma diventa un vero e proprio romanzo psicologico, o meglio psichiatrico.

La giovane co-protagonista in-fatti è una psichiatra. Alla stessa ora della tragedia collettiva dei dieci, si ritrova nel suo letto imbrattato di sangue, con una cicatrice di quindi-ci anni prima, riaperta fino all’osso.

«Sangue. Sulle lenzuola, sul cusci-no, dappertutto. Mi hanno ammaz-zata? Sono entrati mentre dormivo e mi hanno tagliato la gola? Il cuore batte all’impazzata, ho paura: ho paura di scoprire che mi hanno am-mazzata. Eppure devo guardare, devo controllare. Sto bene, però, mi sento bene: potrebbe non esse-re il mio, il sangue. E di chi è? Que-sto mi fa ancora più paura. Mi alzo, fa freddo. Che ore sono? Le dieci e quarantacinque – cioè in realtà le nove e quarantacinque, perché non ho mai rimesso la radiosveglia con l’ora solare: non ho dormito niente – e questo sangue, sul letto, sul cuscino, è sangue mio. Eppure sono viva, sto ritta sulle gambe, e non sento dolore. Il sangue è sulla mano, la sinistra, sulle dita – è san-gue fresco. Devo sedermi di nuovo, sto per svenire. Sempre stato così. Anche all’università, la vista del san-gue mi faceva svenire. Ecco, seduta va meglio. Dovrei guardarmi allo specchio, lo so, ma ho paura che il sangue sia anche sul viso. Sfigurata non potrei vivere. Ma poi, sfigura-ta da chi? Alberto? Lui ha ancora la chiave: è impazzito, è venuto qui mentre dormivo e mi ha – ma che sciocchezza: povero Alberto, come mi salta in mente una cosa del ge-nere? Eppure qualcosa è successo, c’è sangue sulle lenzuola, sul cusci-no, sulla mia mano – rosso, fresco. Dalla mano sta ancora uscendo, ecco: gocce di sangue sul pavimen-to. Devo guardare assolutamente, devo controllare, non devo svenire. Sono un medico o no? Coraggio: la mano, la mano sinistra. Ecco. Le dita. Il dito indice, soprattutto, sulla falange – oh, Dio, no. La cicatrice.

Ma com’è possibile? Come diavo-lo è possibile? Eppure è proprio la cicatrice : s’è riaperta. Ma non è possibile che si sia riaperta – dopo quanto? Era l’ultimo anno in cui facevo le gare, avevo sedici anni – dopo quindici anni. »

Veronesi calcola il cuore del libro come un grosso ingorgo mentale; il Borgo di San Giuda con i suoi folli abi-tanti, un prete che in quanto tale non ha dubbi sul reale colpevole degli as-sassinii, una psichiatra che in nome della scienza traccia gli assi cartesiani per unire tutti i punti delle variabili, un sostituto procuratore che impaz-zisce di fronte alle evidenze inspie-gabili; tutto questo quando ormai l’edera è salita più in alto del muro che la sostiene… E se fosse solo un brut-to sogno? Un incubo da cui noi tutti potremmo fuggire? Si spiegherebbe quel morso di squalo, si spieghereb-be la ferita riaperta dopo 15 lunghi anni, in un gorgoglio di frenesie, di paure, instillate negli animi umani, dove ormai le scuse più fragorose della realtà, come quella dell’attac-co islamico usata dal governo per insabbiare le inspiegabili vicende di San Giuda, sarebbero davvero come tirare un sospiro di sollievo.

L’autore ha scoperto un nuo-vo modo di far letteratura, alme-no nuovo per i nostri tempi! Tutto è ben riuscito, ben congeniato, si palpa l’angoscia e la psicosi in ogni singola parola. Ormai la definizione di thriller non dovrebbe più essere contemplata nel nostro vocabo-lario, e se anche moltissimi lettori appassionati di Agatha Christie, leg-gendo XY, rimarranno con l’amaro in bocca, c’è da considerare che nella nostra era è l’impalpabile il vero cruccio dell’uomo, quello che si nasconde, fitto, nella mente.

Avanguardistico quindi nei suoi contenuti e nei suoi risvolti. XY inda-ga negli animi umani, sebbene tut-to si risolva, anche nella nostra vita quotidiana, in omicidi, suicidi, stragi di massa; quello che rimane ancora inspiegabile è la molla psichica che scatta nella testa degli assassini. Veronesi ne fa una molla globale, dove quello che sembra più contare è la conseguenza del sangue. Inve-ce c’è qualcosa…qualcosa in più da conoscere, e che forse non si cono-scerà mai: fa più paura di tutti i col-telli, fucili e bombe. E’ il castigo, è la fragilità della nostra mente. Sono X e Y, le variabili dell’intangibile.

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Fabio Pierangeli

Oncologia dell’anima.Alessandro Piperno

S quilibrato, imperfetto, con alcuni passaggi superflui, en-tusiasmante se si è disposti

ad entrare nel corpoanima di un uomo, persuade con l’acuta de-scrizione della condizione umana più autentica, ritratta in un quadro di formalità, trionfo, “persecuzio-ne” di un brillante borghese, im-provvisamente incastrato ai “ferri corti” con la giustizia. Si è ricor-dato Kafka, per l’impronta di una potenza insondabile al servizio di una realtà giudiziaria, gli anni Ot-tanta italiani, prima del colpo di spugna di tangentopoli, tangibile ed evanescente allo stesso modo. C’è chi ha sottolineato la presen-za di Proust, asciugato dai lirismi, nel fondo ebraico e alto borghe-se. Non escluderei qualche tratto sveviano facilmente rintracciabile nel gioco altalenante tra fortuna e inettitudine. In ogni caso, il ro-

manzo di Alessandro Piperno, edi-to da Mondadori, Persecuzione.Il fuoco amico dei ricordi, ha un tim-bro insolito e personale e supera di slancio la possibile paralisi della se-conda prova a fronte di un volume d’esordio, Con le peggiori intenzio-ni, salutato dalle ovazioni della cri-tica. Meno compatto dell’esordio, affidandosi ancora al dislivello tra la dolcezza del ricordo e angheria del tempo, tra l’improvvisa scoper-ta della totale incapacità a sceglie-re e il successo pubblico sulle cui macerie si assesta questo senti-mento, Persecuzione innalza anco-ra più in alto il sibilo della carne, della nostalgia, dell’impossibilità dell’amore filiale. Riesce in questo grazie alla preponderante centrali-tà della figura protagonista e anzi, in una sezione iniziale dove non è al centro dell’azione, si trovano le pagine più deboli, che si perdona-

no facilmente, immediatamente, dentro un sali e scendi continuo in fragili psicologie, accartocciate e iperboliche, ma dentro le quali può specchiarsi l’ansia di una con-dizione epocale. La struttura del romanzo gode proprio nella scelta di sfumare le ragioni per cui Leo Pontecorvo, quarantotto anni, si trova in quella situazione di reiet-to: in pochi mesi dai supremi altari della professione di oncologo per bambini alla polvere di non potersi nemmeno guardare allo specchio. Qualcosa deve essere accaduto (pag. 60 «per quanto incredibile potesse apparire, c’erano impiega-ti dello Stato il cui mestiere consi-steva nel dimostrare che Leo era un farabutto. Gente pagata per metterlo alla sbarra»), e come un fiume che si riempie lungo il per-corso di piogge torrenziali, arriva il momento in cui oscure ombre

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di tessitori che tramano per la sua rovina, sferrano l’attacco finale, devastante d’alluvione, sfruttan-do la personalità mitomane di una ragazzina, l’adolescente fidanzata di uno dei figli dell’oncologo che lo trascina d’innanzi al tribunale dell’opinione pubblica con le accu-se più infamanti. Qui siamo sicuri: è lei, la piccola vipera ad incastrarlo, dopo aver tentato un infantile gio-co di seduzione, portato avanti con delle lettere ridicole, quanto esplo-sive che l’inettitudine, la superficia-lità con cui si lascia tentare da certe lusinghe permettono a Leo di non cautelarsi, semplicemente distrug-gendole. Cadute in mano agli in-quirenti, diventano prove pesanti, con la famiglia della ragazzina che tenta in ogni modo di trarre profit-to dalla vicenda. Ma non c’è tempo per processi o indagini, l’interesse di Piperno è tutto sulle reazioni di lui, al terrore paralizzante (pag. 88 «perché anche stavolta sei rima-sto immobile in attesa che tutto precipitasse?») sull’andare avanti

e indietro nel tempo che quella as-surda situazione provoca, quando viene scacciato dalla famiglia, di fronte all’infamante accusa di mo-lestie sessuali alla fidanzata del fi-glio, che si aggiunge alle altre, non ben specificate, di corruzione. La vita di Leo spregiudicato e brillante nella professione, quanto del tutto inetto alla vita concreta, viziato pri-ma dalla madre e poi dalla moglie, non sa come reagire, specie davan-ti alla profferte e poi minacce della ragazzina. La terribile notizia della nuova inchiesta viene comunicata alla famiglia riunita nel cuore della casa borghese in diretta televisiva. Momento topico che segna anche l’incipit del romanzo. Leo non tro-va di meglio che fuggire, al piano di sotto della casa, dove rimarrà sepolto per la gran parte del ro-manzo, in quello che sembra, nar-rativamente, una sola lunga gior-nata da lui vissuta tra il presente e la pioggia battente dei ricordi. Si tratta di una condizione particola-rissima e apocalittica, singolare e applicabile ad altri soprusi, giusti o ingiusti che la condizione umana prevede, patisce, beve di amaro calice, brindando con sudore e san-gue, fango, ad un ignoto destino, capace di cambiare marcia quando più gli piace, portando il convoglio lindo e pulito contro un muro. Per esempio, mettendo in analogia il lavoro del medico, pietoso e allo stesso tempo doloroso e invasivo per i pazienti, con la visita medica e l’interrogatorio che Leo deve su-bire, non avendo, questa volta lui le redini sulla vita degli altri, ma su-bendo l’aggressione.

Piperno non offre né consola-zioni, né risposte, ad esempio alla domanda se il protagonista, con la sua yubris di potente del mon-do, merita la punizione, sia essa quella divina o sia essa quella del-la legge umana, per crimini di cui con una scelta felicissima, in buo-na sostanza, il libro tace. Produce pagine barcollanti, vedi la presen-za costante e ambigua della ma-dre, altre intelligentissime, vedi il ragionamento sulle foto, nell’in-capacità del pugile suonato a re-agire, fin dal primo pugno. Il suo allenatore-avvocato non gli è da aiuto: amico d’infanzia, ragazzino bruttino vissuto all’ombra della sua bellezza e del suo successo, conduce la difesa del processo in

un misto di rivalsa, invidia, inca-pacità, decisione a considerare le parti ormai rovesciate, conserva-to una ambigua condiscendenza. Scompare ad esempio quando Leo viene condotto in prigione, dove la verve tragicomica di Pi-perno raggiunge livelli sarcastici ed esilaranti, con il medico rin-chiuso in una cella costretto a su-bire le angherie degli altri ospiti della giustizia. Prima però il ro-manzo ci offre pagine convincen-ti, tese, quando la polizia viene a stanare Leo dal suo terribile e solitario rifugio casalingo per por-tarlo in cella. Tra gli uomini della giustizia c’è chi ha avuto il figlio guarito dall’operato del medico e lo ringrazia commosso, eppure deve svolgere il suo dovere. Leg-go a pag. 241 «La parte che separa la tua bella stanza coniugale dalla cella in cui da un momento all’al-tro potrebbero sbatterti è molto più sottile di quanto la tua pre-sunzione di inviolabilità sociale di abbia fatto credere. E’ questo ciò che devi capire? Bé, non ci vuole un cervellone per comprenderlo. Leo aveva lasciato che lo scortas-sero fuori come se lui non cono-scesse la casa dove aveva vissuto per tanti anni e che gli era costata un bel po’di quattrini. Aveva pro-vato sollievo nel constatare che lungo il tragitto del seminterrato all’ingresso non c’era nessuno. Probabilmente Rachel [la moglie di Leo] aveva fatto in modo che non ci fosse anima viva a presen-ziare all’arresto. Risparmiandogli una mortificazione, o risparmian-dola a se stessa e ai ragazzi. E le cose erano andate lisce. Uscendo all’aria aperta, in giardino, Leo era stato accolto da una sfavil-lante, soleggiata giornata di fine settembre. All’orizzonte un soli-tario, levigato fronte di nubi bian-che aveva assunto la forma di uno squalo con la bocca semichiusa, in allerta, pronto a slanciarsi sul-la preda». Tono e atmosfera che percorrono in lungo e in largo il romanzo: il dialogo, fermo restan-do il racconto in terza persona, del narratore che si rivolge diret-tamente al suo protagonista, non disdegnando, nelle fasi più acute della gaddiana indagine dolorosa sui delitti e sulle pene, con in alto i disegni senza senso e sublimi delle nuvole, qui pronti a divorare

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l’uomo “innocente”, un lirismo si-lenzioso e partecipe, più spiccato e convincente rispetto all’esordio di Piperno. Chissà c’è da scom-mettere, se il narratore, presi armi e bagagli, si sveli nella secon-da parte, magari come uno dei personaggi attorno a Leo, finora nascosto. Prigione, comunque, dopo l’atroce parentesi del carce-re, torna ad essere, come in quel primo giorno, la sua stessa casa. Da dimora ad antro infermale del dolore, nel modo descritto dalla fervida fantasia di Piperno, per cui la chiusura totale al mondo di fuo-ri, si oggettivizza nella sua stessa possibilità voluta dal prigioniero di viverla ascoltando voci, ru-mori, odori della sua famiglia ai piani superiori, fino alla conclu-sione nello stesso tempo aperta e classica, presentando, almeno a prima vista una soluzione radi-cale. Ma non si sa mai, la tastiera di Piperno può riservare sorprese anche deviando da quella lastra di marmo già stabilita. Del resto, altra azione insolita per l’odierna narrativa, si tratta di un dittico, di cui tra qualche mese uscirà la se-conda parte, sotto il titolo conclu-sivo di Il fuoco amico dei ricordi. La narrazione si interrombe di fronte ad un’altra silenziosa ma efficacis-sima nel completare l’atmosfera del romanzo, trovata inusuale: gli strepitosi disegni in bianco e nero in stile Diabolic che costellano in sequenza, gli episodi chiave del romanzo, come quadri di un pro-cesso psicanalitico di enorme por-tata. Sappiamo solo lì, in fondo al romanzo, del punto interrogativo

legato a queste immagini, essen-ziale, mentre fino a quel momen-to potevano credersi semplici illu-strazioni delle scene del roman-zo. Piperno si guarda bene dal rispondere al quesito, rimanendo lì in quella stanza prigione sotto la propria dimora. Cimitero, labi-rinto, abissoluogo dove affiorano i ricordi del condannato, mentre la vita della famiglia senza di lui sembra continuare la sua routine. Così, verso la fine del racconto, il prigioniero di se stesso osserva lui medico uno dei figli che si fa male ad una caviglia durante la partitella a pallone, per una dura entrata del fratello. È l’occasione per l’ultimo straziante ricordo di padre, confinato, lì vicino tanto che può guardare dalla finestra i figli, e abissalmente distante. Vorrebbe finalmente intervenire, per rifarsi vivo in quel mondo al di sopra che l’ha schiacciato, pro-vare a dire le sue ragioni. Ma la condanna alla paralisi (ma quale condanna siamo costretti a chie-derci fino alla fine?), lo ricaccia nei sotterranei del buio, nella totale incapacità di afferrare delle ragio-ni per cui dovrebbe difendersi dal-le accuse e affrontare la famiglia e dichiararsi innocente, cercando in loro gli alleati di sempre. Mentre sta per fare il primo passo, infat-ti, sopraggiunge la moglie, che gli appare bellissima, pag. 387: «No, non avrebbe sporcato tutta quella bellezza (una madre che soccorre sue figlio) con la brut-tezza che lui rappresentava. No, non l’avrebbe fatto. L’ultima oc-casione offertagli dal Padreterno

di provare a ricongiungersi con la sua famiglia veniva bruciata in po-chi secondi».

Le pagine più memorabili a mio avviso, riguardano la professione di oncologo per minori, in un os-simoro di grande suggestione: lo scrittore, servendosi della scelta narrativa del dialogo diretto, ma in terza persona, tra il narratore esterno e il personaggio, opera da chirurgo per descrivere un medico oncologo, ovvero uno delle profes-sioni più delicate che esistano ma che diventa anch’essa, con l’abitu-dine un mestiere. Eppure Leo, al-meno in una occasione, soffre tre-mendamente per la perdita di un bimbo che sembrava aver salvato e che invece ha una recidiva (pag. 316) «violentissima, spietata come tutte le recidive». Perché si chiede Leo, e la risposta non esiste: «Le cose erano precipitate. Perché? Si era chiesto il giovane medico. Semplice, perché le cose precipita-no. Perché nessun caso somiglia ad un altro». Rientrato a caso, dopo aver ricevuto i genitori del piccolo, trova i suoi due figli e la giovane moglie «Una scena così profumata e così puzzolente. E si era sentito in colpa. Si era sentito sporco». E’ un attimo, poi riesce a dividere il lavoro, la malattia, la morte dalla sua “vita” privata. Ora però davan-ti al quel tribunale di interrogato-rio il malato terminale è lui. Lui «il bambino che rischia la pelle». Ora capiva «quei malati che non lotta-no più, che sembrano aver trovato una pace interiore. Che non hanno più la forza nemmeno di lamentar-si. Le cui sole insofferenze riguar-dano le cure di cui vengono fatti oggetto, che non hanno alcuna uti-lità se non quella di acuire l’agonia, e procrastinare in modo crudele il tempo del nulla. Quello che lui sta-va subendo in aula era nient’altro che accanimento terapeutico, a un certo punto non aveva più po-tuto sopportarlo e aveva staccato la spina. Per questo se ne stava a casa, nel suo buco. Placidamente rassegnato». Se il problema di Leo era stato spiegare ai figli il suo la-voro in pagine tra le più belle del romanzo, ora deve dare le ragioni a se stesso della sua esistenza, del suo agire, del suo passato e del suo presente. E’ tardi, o avrà un’al-tra occasione nel secondo dei due volumi di Il fuoco amico dei ricordi?

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Sergio Campailla ha inaugurato la palestra letterario-artistica dei Martedì letterari della città di Salerno: il suo modello ci accompagnerà nella programmazione dei laboratori di scrittura creativa e nelle spe-rimentazioni teoriche e pratiche delle arti sorelle, letteratura e pittura. Più che un’analisi critica del ro-

manzo, voglio brevemente descrivere un succedersi di sequenze, un intrecciarsi di testi e contesti, la linea continuamente divagante dalla protagonista all’autore e viceversa.

Il titolo intrigante e l’immagine luminosa di coper-tina da un quadro di Schiele, l’eleganza della pagina editoriale ci immettono subito nella scenografia di un’atmosfera speciale, di un’epoca magica: la belle epoque, carissima ai miei studi e anche qui sullo sfon-do delle vicende del romanzo. Un’affiche, però, euro-pea: non Parigi e la belle epoque, ma Pietroburgo ed Odessa, la Russia complessa e fascinosa dei primi anni del Novecento in cui si preparava la grande guerra e la rivoluzione del’17 (Maiakowskij ”La guerra è dichiara-ta”). Da Pietroburgo a Firenze la scena si sposta: dalla ieraticità delle cattedrali e dal turbinio della grande Neva, all’apricità luminosa della maestosa piazza a Firenze dove sovrasta, simbolo della grandezza della tradizione, il David; da un lato la facoltà di lettere e la Scuola di Nudo, dall’altro i caffè letterari, Le Giubbe Rosse, il Gambrinus etc., centri della cultura e della politica del tempo.

1 Giovanna Scarsi, per decenni Preside di Scuola Superiore nei Licei di Salerno, promotrice culturale di primo piano, con i Martedì Letterari, studiosa di altissimo profilo, in particolare della Scapigliatura e dell’incrocio tra Letteratura e arte, è attualmente consulente per la Cultura del Comune di Salerno. Pubblichiamo il discorso introduttivo pronunciato all’inaugurazione del laboratorio dei Martedì letterari di Salerno con la presentazione del romanzo di Sergio Campailla. Si è voluto mantenere il carattere diretto della comunicazione orale.

di Sergio Campailla

Letteratura tra testimonianza e arte

Il segreto di Nadia B. Giovanna Scarsi1

“Etre libre du bonheur de

L’esclave, libre de l’adoration

Sans peur, effrayant, grand

Et seul-voilà le dèsir

De l’homme vrai”

Nadia Baraden Firenze 1907.

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Cala il sipario, seconda sequen-za: si leva dal contesto Nadia, la femme fatale che porta il messag-gio rivoluzionario. L’avventuriera russa così si presenta:

E’una dedica sul retro di una foto ad un suo amante, il marche-se Torrigiani. La foto esalta un viso luminoso sotto la capigliatura ful-va e folta in contrasto con il rigore dell’abito nero: una ragazza anima-ta da uno slancio ideale, sotto un carico troppo gravoso. La dedica è un tragico e ribelle manifesto, do-dici giorni prima del suicidio: parla di schiavi e di libertà, di solitudine e di grandezza […] Invoca l’ideale dell’uomo vero.” E gli uomini o le donne veri sono per Nadia i com-pagni rivoluzionari, con cui rimarrà sempre in contatto.

La vicenda di guerra, amore e morte di Nadia si leva a simbolo di un’epoca mitica e complessa Nadia, da un canto per la Russia, dall’altro Carlo Michelstadter per l’Italia, il poeta che inizia la serie dei poeti e degli artisti che han-no il fascino dei perdenti: anche lui suicida dopo Camerana e pri-ma di Pavese. Carlo come Nadia cui si lega il suo destino è il sim-bolo nell’Italia primo novecento ed il portatore di una cultura e di un’anima: la belle epoque. L’indivi-duale si leva a significato dell’uni-versale, l’universale prende corpo e consistenza nel particolare dei casi e dei protagonisti.

Terza sequenza. La tragedia dell’epilogo che commenta nel suicidio dei protagonisti l’èchec di una società: la grande guerra sta alla politica come il suicidio di Na-dia e di Carlo, di Gino ed altri, sta all’incompiuto, il segreto delle loro avventure di amore e di arte.

Ma quale il segreto di Nadia B.? La lettura del romanzo rende tutto quanto il film non può dare: la voce della cultura militante, la forza dell’impegno civile e politico, la tensione dell’ideale, la religione della Bellezza e dell’Arte, il rigore della filologia-filosofia, la passione dell’IDEA che unisce la protagoni-sta all’autore.

La vera matrice di questo ro-manzo è la passione dell’Idea che unisce la protagonista Nadia all’au-tore, lo scrittore al critico ed il cri-tico allo scrittore ed ha un nome: Carlo Michelstadter.

Sergio Campailla, giovanissi-

mo, ha scoperto, studiato e pub-blicato Michelstadter fino allora sconosciuto anche a noi addetti ai lavori. Per le edizioni Adelphi, ha pubblicato l’opera omnia, grazie a cui il poeta dalla brevissima vita entra di fatto nella letteratura e nella cultura europea. Nell’archivio di Michelstadter, a lui affidato dal-lo zio Carlo del poeta, rinviene un carteggio inedito nel quale coglie e matura la storia di Nadia. Campail-la nella letteratura emergente del periodo da Verga a Pirandello, al-trettante sorelle italiane di Nadia, e fa riferimento costante a Tolstoj e Dostoevskij.

In verità per noi la vera gene-si del romanzo è nella coscienza critica del suo autore, nel comune amore dello studioso e del narra-tore nei confronti del suo perso-naggio: una profonda pietas ver-so i vinti.

Invero, si individuano nel libro con chiarezza, due piani ribaltabili

ma non due livelli di scrittura. Lo spessore culturale della caratte-rizzazione dell’epoca attraverso il confluire della storia, della politica, della filosofia, della letteratura e dell’arte non è in conflitto con l’ide-azione e la ricreazione della narra-zione perché ne costituisce come il naturale sfondo ovvero, il fondale. Anzi, stimola la tensione narrati-va nell’alternarsi dei due registri, quello impegnato e quello leggero, e ne sorreggere il glissare unitario verso il giallo o il noir. Un’iden-tificazione, dunque, fra realtà e “fictio” a ribadire il ruolo primario della letteratura fra testimonianza ed arte”: il titolo dato dall’editore Studium ad uno dei miei libri recen-ti e anche una chiave d’accesso per le storie, tutte vere, di questo indi-menticabile libro. Ma, allora, qual è il segreto di Nadia B? Scopritelo voi, cari amici!.

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Considerazioni di un lettore su

Il segreto di Nadia B. Bernardina Moriconi

In qualche modo è anche un diario, il diario che, at-traverso le vicende di Nadia e di Carlo Michelstaedter, Sergio Campailla andava elaborando nel corso degli anni : un personale percorso formativo ed emotivo che forse ha condizionato, nel senso dell’arricchimento, la sua personale esperienza di uomo e di artista.

Dimenticavo. Il segreto di Nadia B. è naturalmente un thriller che non rinuncia a nessuna delle caratteristiche pro-prie del genere, a partire dalla suspense, che anzi in gran parte del libro gioca un ruolo fondamentale.

Per questo (ma non solo per questo) è un’opera che ha più piani di scrittura e che richiede più occasioni di lettura: sono troppi i punti e gli spunti, i personaggi e i riferimenti, i suggerimenti e gli arricchimenti (si pensi solo a tutto lo spaccato su vita società e cultura di santa madre Russia) che vengono dal lettore trascurati o rin-viati con propositi di successivo approfondimento per la fretta di sapere come va a finire la storia. Appunto, come va a finire. Per questo non basta una sola lettura: come ogni appassionato di gialli sa, se alla fine si svela il mi-stero, la rilettura a posteriori ti permette di cogliere o di dare altro valore agli indizi seminati dal bravo narratore durante il racconto.

Qualcosa di simile accade in questo libro. Dove in realtà la fine della storia la sappiamo fin dalle prime pagine, col racconto del suicidio di Nadia, avvenuto a Firenze l’11 aprile del 1907, ma le ragioni, quelle occa-sionali e quelle remote, in qualche modo potremmo dire il movente (o i moventi) li scopriamo, ancora una volta in un crescendo di suspense, solo in conclusione.

La protagonista, ce ne informa il titolo, è una don-na, di cui abbiamo solo il nome proprio e un’iniziale. Ben presto scopriremo il cognome e poi tutto il resto. Che è, cioè, una giovane donna, anzi una ragazza, che di ragaz-za (oltre all’avvenenza e alla sventatezza) ha ben poco.

Figura altrettanto intrigante del romanzo appare proprio Campailla, o meglio, il “personaggio” Sergio Campailla, che, attraverso circostanze non prive di sug-gestive combinazioni, sembra quasi essere predestinato

Che cosa non è Il segreto di Nadia B. Non è un romanzo. Non è un saggio. Non è un’inchie-sta giornalistica. Non è una biografia. Non è

niente di tutto questo ed è tutto questo assieme.

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o prescelto dalla sorte nel compito arduo e fascinoso di restituire alla vita, almeno a quella pirandelliana-mente vera e durevole dell’arte (e non solo con quest’opera, inten-do) quell’esistenza che i due giova-ni, Nadia e Carlo, si sono autonega-ti nella realtà.

Anche il personaggio Campailla è poco più di un ragazzo quando inizia ad addentrarsi nei meandri di questa storia. Ha ventisette anni (mi pare) : sarebbe un loro coeta-neo se non consideriamo lo stacco cronologico che lo separa dai primi due, resi però eternamente ragazzi dalla morte precoce.

Campailla s’imbatte per la pri-ma volta in Nadia quasi per caso, ma fin da subito con il giusto coin-volgimento intellettuale ed emoti-vo: intuisce che dietro a quel nome c’è di più e quel di più è tutto da scoprire e ricostruire.

Ciò che è nascosto e occulto se-duce da sempre Campailla. Perso-naggi, veri o di fantasia (cito a caso i primi che mi vengono in mente: Rosso Malpelo, Cagliostro, Van-ni Corvaia del suo Paradiso terre-stre…) che scompaiono nel nulla risucchiati da cave e caverne, pro-

fondità marine o recessi della ter-ra: o semplicemente si volatilizza-no. Il mistero della scomparsa, lui lo sa bene, alimenta la leggenda.

La morte per autosoppressione è in fondo un modo per scompa-rire, per sottrarsi ( a chi? a cosa?), contiene in sé un grumo di mistero che rivendica se non il nascere di una leggenda almeno una rispetto-sa meditazione, a un tempo razio-nale e sentimentale.

L’interesse che Campailla ri-serverà a Carlo Michelstadter sarà prevalentemente intellettuale: c’è tanto materiale – letterario e pitto-rico – da ordinare selezionare cata-logare intitolare pubblicare…

Nadia è un nome o poco più, che il nipote di Michelstadter vuole anzi tacere, per una forma di estre-ma discrezione e di rispetto, in quanto estranea alla famiglia. Ma quel nome si imprime nella mente del giovane intellettuale cui è sta-to affidato il prestigioso incarico di raccogliere l’eredità culturale e artistica dello scrittore e filosofo goriziano.

E’ potente quell’immagine, ancora una volta pirandelliana, della giovane donna – solo un

nome, ormai – che si affaccia periodicamente alla mente dell’ altrettanto giovane studioso a chiedere un risarcimento, forse una seconda possibilità di vita nelle pagine imperturbabili ed eterne della letteratura.

Campailla è uno studioso, ma è anche un artista, un’anima bella, dotato di un surplus di sensibilità emozioni intuizioni. Si butta a capo-fitto nell’impresa, che a lui appare più di una volta, in corso d’opera, disperata, a noi, oggi, incredibile.

Campailla si fa detective, nel senso letterale del termine: si met-te a indagare, spulcia giornali e ri-viste dell’epoca, rovista tra carte e oggetti di Carlo. Arriva a consulta-re gli archivi storici di Pietroburgo Cos’altro? E’ una ricerca talmente lunga e accurata che porta, seb-bene insperatamente, a dei frutti. Il nostro eroe raccoglie le tessere sparse e ricompone a poco a poco un puzzle che restituisce anche l’affresco di un’epoca.

E proprio come certi dipinti, ra-schiati, ne celano altri, così accade: il personaggio di Nadia (a lungo soltanto un nome) acquista len-tamente contorni reali, recupera quel corpo di ventenne che aveva scelto di liquidare con un colpo di pistola. Ma questa ricostruzione avviene attraverso un processo lungo e complicato. La vicenda di Nadia “si fa” poco per volta, sen-za coerenza cronologica e tanto meno logica; i passaggi, a volte an-che quelli sostanziali, bisogna ricu-cirli, valutando se e in quale modo i vari pezzi combaciano. Non tutto torna. La storia è ricostruita ma sfugge qualcosa, qualche pezzo resta fuori.

Poi il colpo di scena, anzi se vogliamo i colpi di scena perché assistiamo a più disvelamenti in chiusura: come nel gioco delle scatole cinesi, la soluzione di un mistero sembra contenere in sé quella di un altro, e via fino ad arrivare anche a quello che av-volgeva la fine di Gino, fratello maggiore di Carlo, anche lui, Cam-pailla ne trova conferma, morto suicida negli Stati Uniti un paio di anni dopo Nadia. Anche sullo stesso Carlo non mancano nuove sorprendenti rivelazioni..

Torniamo a lei.. Nadia è tutto troppo. Troppo bella, troppo gio-

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vane, troppo straniera, per quei tempi (non francese o austriaca: russa, appartiene cioè a una con-fusa lontananza biancheggiante di neve), troppo passionale e, in modo contraddittorio, almeno per noi italiani, troppo algida e di-stante: mi rievoca l’immagine del-la Ninotchka di Lubitsch. Sembra un personaggio letterario, anzi di cattiva letteratura passata: quei feuilleton a base di soffuso ero-tismo e di esotismo, in cui le no-bildonne slave grandeggiavano: Campailla cita non a caso Tigre reale del Verga mondano e vaga-mente scapigliato. Dopo la rivolu-zione e lo spodestamento dello zar, con la fuga verso occidente di molti aristocratici russi, ci sarà una ripresa di tali temi nella lette-ratura e teatro europei, il primo

titolo che mi viene in mente è una deliziosa commedia della metà degli anni Trenta, Tovarich, di Jac-ques Duval.

Non divaghiamo. Nadia, per di più, concentra nella sua brevissi-ma vita vicende che potrebbero riempire l’arco di una intera esi-stenza, forse anche più di una. L’ebraismo di origine. La vita agia-ta da figlia di papà nella terra del-le anime morte, la violenza, per di più incestuosa, subita da bambi-na, il senso di rivolta, il precoce acuirsi di una sensibilità che la por-ta a solidarizzare con gli operai di suo padre e poi con gli umiliati e offesi di quella terra, la scelta sov-versiva, l’anarchia, il nichilismo, la condanna per cospirazione, la de-portazione, l’esilio, il matrimonio con quello che scopre essere una spia che la polizia russa le aveva messo alle calcagna, l’ennesima disillusione, i lavori per mantener-si, la povertà sopportata con di-gnitoso orgoglio, l’arrivo in Italia, la scoperta dell’arte e la riscoper-ta della sua antica passione per il disegno, i legami, reali o presunti, con le cellule sparse di sovversivi, le intese intellettuali, le amicizie, gli amori o, forse, un amore…. Nadia vagheggia ideali, sogna le rivoluzioni, odia i tradimenti, po-litici e sentimentali, e deve subire entrambi. E’ una ragazza, ma ha già una personalità ben definita, che il suo look elegante e severo, esclusivamente nero con qualche piccolo dettaglio charmant, ri-specchia ed esalta. O forse serve

a camuffarsi, a celare una parte di sé, quella fragile, più volte tenta-ta a cedere. E’ sola, sebbene cir-condata da amici e ammiratori. Suscita curiosità e chiacchiere: è straniera, è bella. È anarchica: forse, si sussurra, pratica il libero amore. E’ donna.

Sembra tutto incredibile. O meglio: sarebbe incredibile se non fosse per un piccolo particolare: è tutto vero e oggi, grazie a questo straordinario volume, è tutto do-cumentato e documentabile.

Mi ha ricordato qualcosa del-la Pastorale americana di Philip Roth: anche qui, una famiglia ebrea, che dal niente diventa una potenza economica nella realiz-zazione di guanti, anche qui una ragazzina, con tutti i presupposti per diventare viziata e potente, anche qui una forma di violenza subita dall’infanzia ma causata dalla natura, fisiologica insomma: la bambina è balbuziente. Anche qui una ribellione adolescenziale e totale. La ragazza diventa ter-rorista e per contestare le guer-ra nel Vietnam porta la guerra in casa sua, fa saltare l’ufficio posta-le della sua cittadina, provoca un morto, è ricercata, si dà alla fuga. Anche qui c’è uno scrittore, il protagonista-voce narrante che a distanza di anni decide di ricostru-ire la complessa vicenda.

C’è insomma più di una analo-gia, ma il romanzo di Roth è am-bientato negli USA della guerra fredda, dove tutto sembrava pos-sibile e dove tutto veniva assorbi-to e ammortizzato dal fragore di sottofondo che accompagnava la costruzione del sogno americano e poi la sua dissoluzione; ne Il se-greto di Nadia B. lo sfondo di avvio è quello delle sterminate pianu-re russe, dove anche una pietra scagliata su di un lago ghiacciato fa rumore e rompe l’incanto (o l’incubo) soporifero, figuriamoci la rivolta d una adolescente, ricca rampolla ebrea.

La differenza sostanziale è però ben più corposa: lì, nell’opera di Roth, è tutto inventato, per quan-to verisimile, qui è tutto vero. Roth per dar vita alla sua ricostruzione si inventa il personaggio di Nathan Zuckerman, Campailla mette in gioco se stesso e una sua straordi-naria esperienza, a un tempo uma-na, storica e letteraria.

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Lidia Sirianni

Umberto Eco:Il Cimitero di Praga

Renato Minore «Ex falso se-quitur quodlibet» è massima del-la logica antica (spesso attribuita a Duns Scoto) che vaticina la maledi-zione della conoscenza: se partiamo da una premessa falsa avremo con-seguenze vere o false, ma senza po-ter distinguere le une dalle altre. Cie-chi davanti a verità e menzogna. Se-condo le «teorie della cospirazione» sul web, tutto quel che crediamo di sapere è falso, nessun ebreo è morto alle Torri Gemelle, l’Aids è diffuso dal-la Cia, il fluoro immesso nell’acqua dalla setta degli Illuminati, Clinton ha ucciso 60 rivali, Obama è un mu-sulmano di al Qaeda, Lady Diana è morta perché non rivelasse i piani ex-traterrestri di invasione del pianeta, la guerra in Afghanistan è scoppiata per costruire un oleodotto.

Testi estratti da: «“Il cimitero di Praga” di Umberto Eco, la costruzione del diverso»

di Renato Minore – Il Messaggero, 7 Novembre 2010 - «Odio è il nome della Rosa. Vi racconto il nuovo libro di Um-berto Eco» di Gianni Riotta – Il Sole24Ore, 31 Ottobre 2010

Ciascuno di voi sorriderà, salvo poi leggere che milioni di persone, spesso considerate perbene e in buona fede, sono persuase di queste fole. Mi capi-tò di partecipare qualche volta ai dibattiti di Bildeberg, che per i complottisti reggono segreta-mente il mondo, e quando via mail mi accusarono ribattevo sorridendo: «Ma se fossi uno dei 50 leader che in gran segre-to controllano la Terra, l’Inter andrebbe così male?», visto che in quegli anni i nerazzurri vince-vano poco o punto. Mai sottova-lutare i teorici delle trame: non appena la mia squadra tornò a vincere, gongolanti, si rifecero sotto: «Visto eh? Siete voi a tira-re le fila!».

Il cimitero di Praga, nuovo titolo del semiologo e scrittore Umberto Eco, è un feuilleton, un romanzo d’appendice. Narra del capitano Simone Simonini, otto-centesco nipote di un nonno rea-zionario, che gli inculca l’odio per gli ebrei, i massoni, i rivoluzionari e un cupo servilismo opportunista verso il potere, e quanto più occul-to e opportunista è, meglio.

Simone Simonini, l’unico per-sonaggio di pura invenzione, sia pure - come confessa Umberto Eco - “effetto di un collage” per cui gli vengono attribuite cose “fatte da persone diverse”, regge sulle sue spalle come Atlante quasi tutti i più clamorosi complotti dell’Ottocen-to, come una specie di macchina centripeta intorno a cui si adden-

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sano misfatti, persecuzioni, delitti, travestimenti d’ogni tipo. Il prota-gonista de Il Cimitero di Praga, se-sto romanzo di Eco (Bompiani, 518 pagine, 19,50 euro) è infatti una pasta tutta particolare di gagliof-fo, di falsario, di traditore, nonché impotente (con una sola, disastra-ta esperienza erotica) e ghiottone impenitente.

Di professione sarebbe no-taio. Diventa così lo spregiudicato calligrafo per cui il confine tra vero e falso è una linea di umo, disposto a tutto pur di essere servizievole nei confronti dei potenti di turno, gesuiti, repubblicani, massoni che siano, in un vertiginoso cambio di danza che abbraccia più paesi europei. Simonini comincia i suoi servigi con il re di Sardegna, come una spina nel fianco della spedizio-ne dei Mille in Sicilia dove, fin trop-po zelante, progetta e realizza la scomparsa in mare di Nievo, che porta le carte compromettenti dell’impresa garibaldina, e con un attentato davvero all’avanguardia per la tecnica esplosiva messa in azione. Nella sua febbre di falsi da vendere al numero più alto di acquirenti, Simonini non esita a diventare pluriomicida, passando per oscure cloache e riti satanici. Mette il malefico zampino nell’af-fare antisemita che porta alla per-secuzione nei confronti di Drey-fus in Francia, quella contro cui si schiera Zola. Sta in prima linea contro i comunardi nella Parigi del 1871 dove si mangiano i topi tra le barricate, al momento opportuno trasloca al servizio dell’occhiuto e temibile spionaggio dello Zar, fino ad essere coinvolto in un atten-tato “dimostrativo” che (forse) spezzerà per sempre la sua corsa folle di intrighi e tripli giochi in cui gli è capitato pure di incrociare il detestato cocainomane Freud, “il dottor Froide” o una mistica Suor Teresa, carmelitana di Lisieux. Insomma una vita davvero esem-plare, da santino del male, di fal-sario e spia internazionale che si muove tra i personaggi più discuti-bili del secolo come il massone tra-ditore (poi pentito) Taxil e il prete fondatore della setta satanica Boullan. Nel tapis roulant delle pe-regrinazioni di Simonini, Eco porta nel cuore pulsante di complotti, plagi, raggiri di tutte le nature, ne

mostra il meccanismo e la costru-zione mentre le carte si rovescia-no in ogni istante e tutti finiscono per essere ebrei o antisemiti. Ci porta, soprattutto, nel maelström di irrazionalità su cui si fonda la storia moderna, in quella sorta di piattaforma teorica di estrema fal-sificazione su cui si è alimentato l’orrore dello sterminio nel Nove-cento. Il capolavoro di Simonini, quello che negli anni gli sarà chie-sto di replicare e di perfezionare a seconda del committente, sarà la narrazione del falso di tutti i falsi, estratto in parte dai romanzi d’ap-pendice di Dumas, secondo l’inter-pretazione semiofilologica di Eco. E cioè la cospirazione notturna dei rabbini, il piano per domina-re il mondo steso fra le lapidi del cimitero israelitico di Praga che, nel tempo, darà linfa ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, la madre di ogni pamphlet antisemita: quel testo che, benché reputato apo-crifo, ha dominato per decenni la propaganda con la “novità” della figura dell’ebreo discriminato e reietto, trasformato nell’essere demoniaco dominatore nella fi-nanza internazionale, sovversivo per natura e vocazione.

Gianni Riotta Vari recensori, anche autore-

voli, hanno espresso il timore che il libro di Eco, con pagine spesso «forti» di linguaggio e tono anti-semita quando Simonini e i suoi danno sfogo al livore, possa ge-nerare ambiguità, contribuendo all’odio che l’autore vuole contra-stare. Un pericolo che, terminata la lettura del romanzo, ci sentia-mo di poter fugare: la violenza con cui il razzismo schizza da que-ste pagine non è endorsement, appoggio. È denuncia, accompa-gnata dal ricordo delle sofferen-ze, le umiliazioni e le torture nei ghetti d’Europa.

Altro è il punto cruciale de Il cimitero di Praga. A trent’anni da Il nome della rosa Eco, a lungo collaboratore del «manifesto» con lo pseudonimo «Dedalus», poi bat-tagliero pubblicista su Espresso, Repubblica e la vecchia Alfabeta – fino alle rivista online Golem, fon-data con Danco Singer e chi scrive –, sembra deluso davanti alle ide-ologie spente che dal XIX secolo

arrivano al XXI. Lo strapotere del falso germina, è questa la morale del Cimitero, sul disincanto seguito al fallimento delle rivoluzioni, dello scientismo, dell’istruzione, dell’in-tero impianto teorico illuminista, persuaso che la sola luce delle idee bastasse a scacciare il male e l’ignoranza dal mondo.

Come Littell, come Houel-lebecq, Simonini prospera nel relativismo contro cui si batte Benedetto XVI, bene e male, vero e falso, sono solo differenti versio-ni dello stesso testo. La crociata per la forza della verità contro la deriva postmoderna accomuna partner insoliti, dal Papa ai guru informatici, Carr e Lanier. Perché dico «Simonini» e non Eco? Per-ché, e qui l’ambiguità è fugata, nel corpus dei libri di Eco, anche solo a restare ai romanzi saltando la prosa scientifica sulla semiotica e gli articoli di polemica politica, l’imprinting di tolleranza è radi-cale. Ma se ne Il nome della rosa il monaco Guglielmo di Baskerville è l’eroe raziocinante nel Medio-evo di odio e sangue che così as-somigliava all’Italia di trenta anni fa, ne Il cimitero di Praga Simoni-ni è il macabro spettro del nostro presente. Dove l’odio smuove destra e sinistra, in Italia, in Euro-pa e in America, dove ciascuno si trincera con i suoi sodali di idee, disprezzando e insultando chiun-que dissenta. E quando troppo potere, politico o di mass media, si concentra in poche mani, la sta-gione dell’«odi ergo sum» diventa massacro quotidiano. «Occorre un nemico per dare al popolo una speranza... il senso dell’identità si fonda sull’odio... per chi non è identico. Bisogna coltivare l’odio come passione politica... l’odio riscalda il cuore». È l’incubo di un autore formato sui testi cattolici del tomismo razionale, passato per l’entusiasmo critico e illumini-sta delle avanguardie, e che all’al-ba del nuovo millennio ci mette in guardia ferito. Sola arma con-tro odio e intolleranza sarebbero amore e comunità: ma cercarle oggi nella stagione del populismo paranoico sembra sforzo vano. Un fallimento e un deserto dell’ani-ma occidentale perduta, secondo l’autore di un libro disperato, nel «cimitero di Praga». Perché al fal-so segue sempre una tragedia.

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Marzia Consalvi

Niccolò Ammaniti,Io e te. La fulminea penna dell’autore su un imperscrutabile mistero: come diventare grandi

P arliamo di adolescenza, di quella complicata fase della vita che ti costringe a vivere su in filo teso e sospeso in mezzo al vuoto, sopra

una moltitudine di potenziali te stesso in cui ancora non ti vedi, non ti riconosci, come un acrobata che traballa alle sue prime esibizioni, come un viandante in strada dopo la più epocale delle sbronze. Molti au-tori italiani hanno già affrontato il tema in modo radi-calmente diverso: gli adolescenti di Enrico Brizzi rifiu-tano la società e il provincialismo urbano rifugiandosi nel punk, quelli di Paolo Giordano preferiscono l’au-tolesionismo e gli enigmi matematici, per quelli di Fe-

derico Moccia è sufficiente innamorarsi e attaccare luc-chetti, simboli del loro stravolgente amore, sui ponti più famosi dell’eterna Roma. Ora tocca a Niccolò Ammaniti, scrittore romano, che a solo un anno di distanza dal suo ultimo romanzo, Che la festa cominci, torna nelle librerie con Io e te, collocato da pochi mesi nel settore novità. Una storia di 116 pagine, edita da Einaudi, che va ad ag-giungersi alla bibliografia dell’autore, in piena ascesa e attività da circa un quindicennio: Branchie (1994,1997), Fango (1996), Ti prendo e ti porto via (1999), Io non ho paura (2001), Come Dio comanda (2006), Che la festa co-minci (2009).

Che si voglia definire romanzo breve o racconto lungo, Io e te sancisce il ritorno di Ammaniti alle storie di formazione. Una storia ambientata a Roma, in cui il com-pito di superare la linea d’ombra delle più difficili delle età, è affida-to ad un giovanissimo antieroe, il quattordicenne Lorenzo Cuni, introverso, nevrotico, chiuso, sta-volta, non in una fossa in mezzo alla campagna meridionale, come era avvenuto al giovanissimo pro-tagonista del precedente roman-zo Io non ho paura, ma nella canti-na del suo stesso condominio ro-mano e borghese. E a differenza del protagonista del cult Io non ho paura, ci finisce per sua volontà. È lì, infatti, in quel bunker provviso-rio, che Lorenzo è intenzionato a trascorrere la sua settimana bian-ca, stravaccato su un divano, cir-

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L’idea del mimetismo gli era bal-zata nella mente una mattina in cui era rimasto a casa per un finto mal di testa e alla televisione ave-vano dato un documentario sugli animali imitatori.

Da qualche parte, ai tropici, vive una mosca che imita le vespe. Ha quattro ali come tutte quelle della sua specie, ma le tiene una sull’altra, così sembrano due. Ha l’addome a strisce gialle e nere, le antenne e gli occhi sporgenti e ha anche un pungiglione finto. Non fa niente, è buona. Ma, vestita come una vespa, gli uccelli, le lucertole, persino gli uomini la temono. Può entrare tranquilla nei vespai, uno dei luoghi più pericolosi e vigilati del mondo, e nessuno la riconosce.Avevo sbagliato tutto.Ecco cosa dovevo fare.Imitare i più pericolosi.Mi sono messo le stesse cose che si mettevano gli altri. Le scarpe da ginnastica Adidas, i jeans con i buchi, la felpa nera con il cap-puccio. Mi sono tolto la riga e mi sono fatto crescere i capelli.Volevo anche l’orecchino ma mia madre me lo ha proibito. In cambio, per Natale, mi hanno regalato il motorino. Quello più comune.Camminavo come loro. A gambe larghe. Buttavo lo zaino a terra e lo prendevo a calci.Li imitavo con discrezione. Da imi-tazione a caricatura è un attimo.Durante le lezioni me ne stavo al banco facendo finta di ascoltare, ma in realtà pensavo alle cose mie, mi inventavo storie di fanta-scienza. Andavo pure a ginnasti-ca, ridevo alle battute degli altri, facevo scherzi idioti alle ragazze. Un paio di volte ho anche risposto male ai professori. E ho consegna-to il compito in classe in bianco.La mosca era riuscita a fregare tut-ti, perfettamente integrata nella società delle vespe. Credevano che fossi uno di loro. Uno giusto.

Ma più Lorenzo inscenava que-sta farsa, più si sentiva diverso. Da solo era felice, con gli altri doveva recitare e ciò alle volte lo impauriva. Avrebbe dovuto recitare per tutto il resto della sua vita? No, Lorenzo

non poteva. Sentiva più ossigeno in quello scantinato, che non all’aria aperta, sotto lo sguardo indiscreto del resto del mondo. Ma quella ras-sicurante clausura non poteva re-stare indisturbata: a romperla sarà un’ospite inattesa che piomberà in quella cantina, portando con sé tut-to il mondo vero. È la sua sorellastra Olivia, problematica, nordica, venti-treenne, figlia del primo matrimonio di suo padre. Sarà lei a sconvolgere l’equilibrio di Lorenzo, e quello del suo microcosmo sotterraneo, pie-no di vecchie cianfrusaglie. Bella ed invadente, Olivia riporterà Lorenzo alla realtà. Costringerà suo fratello ad ospitarla, in cambio parlerà al te-lefono con la madre, fingendo di es-sere la mamma della compagna di scuola che gentilmente l’ha invitato in settimana bianca. Dovrebbe re-stare solo una notte, Olivia. E invece si ferma di più perché sta male, non può muoversi, ha dolori ovunque. Lorenzo è spaventato e solo dopo un po’ si rende conto che la sorella ha una crisi d’astinenza. Ed è in quel momento che il giovane capisce tutto: il silenzio di suo padre riguar-do a Olivia, tutti i problemi che lei gli procurava, ma che i suoi gli avevano solo accennato. Quello che succede in quella cantina è del tutto inaspet-tato per quei due ragazzi che appe-na sapevano della loro esistenza e ora, invece, si ritrovano a condivi-dere delle cose da non dire a nes-sun altro. Olivia gli parla di loro due bambini, di quei pochi ricordi che custodisce. L’affetto nasce, ritorna, si scopre nudo e semplice. E nella loro ultima sera insieme, si ritrova-no a ballare al suono di un vecchio giradischi ed, improvvisamente, Lorenzo si sente felice. Avverte un senso di pace e capisce che il gior-no dopo uscirà da quella cantina e potrà scegliere quello che fare o non fare nella vita. Tutto gli appare semplice, ora. Quando si risveglia, il mattino seguente, Olivia non c’è più. Gli ha lasciato un biglietto. Lo stesso biglietto che dieci anni dopo, Lorenzo leggerà prima di vederla (come non avrebbe mai voluto rive-derla) in una provincia del Friuli.

Una promessa a suggello di quella settimana condivisa, una di quelle promesse che si sentono, si vogliono, e poi non si mantengono.

1 N. Ammaniti, Io e te, Torino, Einaudi, 2010, p. 27.

condato da bottiglie di Coca-Cola, scatolette di tonno, romanzi hor-ror e video games, lontano da un mondo che non lo capisce e che per questo lui stesso inganna. A dare il via al racconto è infatti una piccola impostura, una bugia inof-fensiva e innocente, che divente-rà grande come una valanga, e si rivelerà utile per far riflettere Lo-renzo sulla propria vita, sulla sua famiglia e sul futuro che incombe.

Una settimana bianca organiz-zata da alcuni compagni di classe, che lo ignorano e lo scansano e che ovviamente non l’hanno in-vitato. Ma la voglia di ingannare benevolmente una madre affet-tuosa, ma ansiosa e preoccupata per l’evidente isolamento del suo unico pupillo, prende il soprav-vento. Sarebbe bello rassicurar-la, fargli credere che lui, ragazzo timido e invisibile, fosse stato in-vitato dai più forti della classe, in montagna, nella prestigiosa Corti-na D’Ampezzo, a casa della ragaz-za più bella della scuola. Avrebbe reso felice la persona che Lorenzo amava di più, l’unica con cui non fosse costretto a fingere, sua ma-dre, il pensiero che si fosse final-mente integrato, ma non Lorenzo che invece decide di rintanarsi nella cantina del suo palazzo, ar-mato di scatolette e autoabbron-zante, contento di passare sette giorni da solo, non in compagnia dei suoi coetanei, ma lontano dal mondo, in totale libertà, senza bisogno di piacere agli altri, di se-guire le regole e uniformarsi. Una vera vacanza, lontano dagli altri, da ansie e insicurezze, da faticose tecniche di mimetismo. Sì perché Lorenzo è un ragazzo acuto, sen-sibile, pieno di immaginazione e fantasia, ma è anche introverso e solitario, abituato a rendersi invi-sibile con moderazione: «Mi do-vevo tenere in disparte, ma non troppo, sennò mi notavano. Mi confondevo come una sardina in un banco di sardine. Mi mimetiz-zavo come un insetto secco tra i rami secchi»1. Per sopravvivere alla giungla dei feroci predatori era meglio omologarsi, fingere di essere come loro, quando invece Lorenzo si sentiva lontano, solo, e soprattutto debole e diverso.

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Mi sono spostato e lei mi si è sdra-iata accanto e mi ha abbracciato forte. Ho sentito il suo ginocchio ossuto. Le ho messo una mano su un fianco, le potevo contare le costole, poi le ho carezzato la schie-na. Sotto le dita, le vertebre appun-tite. - Olivia, mi fai una promessa?- Cosa? - Che non ti droghi più. Mai più. - Te lo giuro su Dio. Non ci casco più in questa merda,- lei mi ha sus-surrato in un orecchio. - E tu scemo mi prometti che ci rivedremo? - Te lo prometto.2

Così dall’incontro di un fratello e una sorella, che in realtà non si conoscono, comincia un processo di crescita fatto di dolore, di con-divisione, disperazione e rinasci-ta. Un incontro che farà varcare a Lorenzo la linea d’ombra, gli farà gettare la maschera di adolescen-te difficile e accettare il gioco ca-otico della vita là fuori. La scarsa empatia che il protagonista nutre per il prossimo verrà superata, infatti, proprio grazie alla sorella. La solidarietà con Olivia, che gli si mostra in tutta la sua sofferenza e con cui condivide la frustrazio-ne familiare, fornirà a Lorenzo la chiave per superare quel muro d’indifferenza ed estraneità che fino a quell’incontro gli avevano alienato il piacere che un indivi-duo normale ripone nelle relazio-ni umane.

La riforma del racconto pe-dagogico da parte di Ammaniti consiste in un’esplorazione ma-niacale, talvolta anche indiscre-ta, della psiche del protagonista, grazie ad una narrazione in prima persona che risulta oltremodo proficua poiché consente al let-tore una piena identificazione, o quantomeno, una certa parte-cipazione al travaglio interiore di Lorenzo, combattuto tra l’ac-cettazione di sé e il desiderio di normalità. Un romanzo nato «dall’idea di un adolescente che deve confrontarsi con i suoi co-etanei - racconta Niccolò Amma-niti -. È una prova pazzesca, alla quale in genere non pensiamo. Lorenzo, il protagonista, è un ra-

gazzo tormentato, chiuso, con-finato nel suo mondo. Non ha amici. Vive la famiglia e la scuola come entità estranee. Ma avver-te l’impulso di cambiare: perchè intuisce che per un diverso non c’è futuro». Uscire dal guscio, scoprire il mondo e diventare grandi: il più semplice e imper-scrutabile dei misteri.

I lettori più fedeli di Ammaniti, che hanno letto il recente Che la fe-sta cominci, oppure L’ultimo capo-danno dell’umanità e le altre pagi-ne forti di Fango, potranno magari rimpiangere la colorata ricchezza di personaggi e i ripetuti colpi di scena, ma Io e te predilige i toni tenui, e perfino il climax dramma-tico della vicenda risulta attutito, mai urlato, in piena sintonia con la prosa scarna tipica dell’autore. Tuttavia, Ammaniti non rispar-mia strali contro l’indifferenza e l’egoismo, contro le droghe e gli alcolici, che si “bevono” il cervel-lo dei giovani, contro l’apparente serenità borghese alle prese con l’ennesima deriva etica, contro la volatilità dei rapporti affettivi e la volgarità del nostro tempo, e contro la ferocia delle nostre cit-tà. Roma, per nulla caratterizzata dagli stereotipi usuali, è chiamata a rappresentarne il malessere più evidente. Un libro in cui l’autore mette da parte un po’ della sua ti-pica ironia per ritornare a parlarci

dell’adolescenza, con semplicità e naturalezza, del disagio di quegli anni, della voglia di farsi accettare sempre e comunque.

Una storia che si legge in poco meno di un’ora, il tempo di un viaggio in treno. Ma avvolge, invoglia, incuriosisce come sem-pre, rischiando di farti arrivare a leggere le ultime parole e di sen-tirle come tue; un sentirsi all’uni-sono con l’autore che non scatta molte volte, ma quando scatta si ha voglia che le pagine del libro non finiscano, che continuino in quella descrizione della vita che è anche nostra. Io e te di Ammaniti rievoca quegli stati giovanili che molti hanno attraversato: l’insi-curezza, la voglia di crescere, ma di rimanere bambini, gli slanci della coscienza e l’immobilità del corpo. Difficile non riconoscersi in questa anabasi e catabasi gio-vanile. Un racconto breve, dolce, ma che graffia nella piccola e sof-focata ferita finale. Un’unghiata all’anima che strappa dal cuore brandelli di ricordi che si riaffac-ciano e ritrovano in un soffio, il tempo di immergersi in apnea nel torbido e uscirne rafforzati, maturi, cresciuti se vogliamo, ma non per questo omologati.

2 Ivi, p. 112.

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Roberto Di Pietro / Alessandro Hellmann

Alessandro Hellmann,Decadence lounge, Roma, Editrice Zona, 2010.

Quando fu pubblicato per la pri-ma volta Marcovaldo (1963), il con-sumismo si affacciava in Italia saluta-to da una ventata di brio, sostenuta dal boom economico. Seppur ironi-co e precursore di una certa critica del superfluo, ciò che colpisce delle novelle di Calvino è l’idea di univer-salità dell’immagine data dell’homo oeconomicus, piuttosto che il ritrat-to peculiare, seppur fantasioso del personaggio in sé. Marcovaldo in città o al supermarket è, come uno qualunque di noi, un eroe tragico-mico “verosimile”. Così come vero-simili sono il supermarket e la città, seppur senza nome o indicazioni di luogo precise. E proprio da questi luoghi immaginari (possibili, non necessariamente esistenti) Calvino trarrà un altro libro (Le città invisibi-li), sottolineando il proprio gusto per le utopie. Allo stesso modo, in questi non luoghi (il riferimento ad Augè è d’obbligo), fotografati da Hellmann, l’arguzia e l’ironia serpeggiano tra le righe come i carrelli della famiglia Marcovaldo, con la differenza che ad essere esposta sugli scaffali qui c’è la propria esistenza, non quella di un personaggio letterario. Dagli anni 60’ ad oggi, infatti, le meraviglie cir-censi, un po’ cialtronesche del con-sumismo, del nuovo, del progresso e delle protesi da supereroe che la tecnologia dispensa a pie’ veloce, attraverso offerte paghi 2 prendi 3, si sono gradatamente rivelate un tragico effetto boomerang in termini di incomunicabilità, assenza di con-tatto, impossibilità di appartenenza e spersonalizzazione. Decadence lounge, «scritto estemporaneamen-te nell’arco di quasi cinque anni su scontrini, tovaglioli, ricevute, faz-zoletti, depliant, biglietti ferroviari, e-mail, pezzi di carta e pezzi di file» (dalla premessa dell’autore), è una porta scorrevole sui chiaroscuri del-la solitudine, generata dalla società dello spettacolo, in cui il personag-gio principale è proprio la decadenza ineluttabile, quasi romantica dell’uo-mo occidentale, ormai regresso a di-mensione zero (Marcuse docet).

Da Decadence Lounge (Edi-trice Zona, 2010) di Alessandro Hellmann

Osiedle Zawiszów, Świdnica, Poland

Il quartiere Zawiszów è un labi-rinto di palazzoni spogli, uguali, se-gnati da lunghi e anonimi passaggi di tempo. Dai cortili di terra battuta una manciata di strade vanno a mo-rire poco più in là su cumuli di sab-bia e rovi. Al pianterreno di uno dei palazzi un’edicola, una bottega di alimentari, un pub e un drugstore aperto fino a tardi. E’ l’ultimo avam-posto della città. Un mondo a parte, un dormitorio senza veglia, auto-sufficiente e disconnesso da ogni cosa. Stanno allargando la strada principale perché presto dovranno passarci molti camion. Camion che vengono da lontano. A Zawiszów abitano uomini che non hanno vi-sto la capitale e non sono mai stati al mare, uomini che avevano poco e che ora non hanno quasi nulla, non più contadini e non ancora operai, e le loro donne, sedute sulle panchine mentre i figli giocano tra le erbacce e le altalene, affacciate dove prima c’erano i campi e dove ora le ruspe stanno spianando il terreno per le fabbriche. Qualcuno sta venendo a portare lavoro perché qui c’è abbon-danza di manodopera da comprare con niente. Tomasz è seduto su un muretto, in fondo ad un piazzale incendiato di sole. Non ha ancora vent’anni. Il mese scorso ha finito la scuola e ha superato l’esame con il minimo dei voti. E’ intelligente ma non si applica, dicono. Aspetta gli amici e intanto guarda le ruspe an-dare avanti e indietro come giganti di pianura e sollevare onde di polve-re all’orizzonte. Pensa che sarebbe bello pilotarne una. Tomasz aspetta, nell’arsura dell’ultima estate.

Warner Village Multisala Par-co de’ Medici, Roma, Italy

Un lavoratore interinale travesti-to da coniglio dà il benvenuto nella fabbrica del divertimento. Odore di

popcorn, di gel, di macchina nuo-va, di plastica, di pavimento lucido, di trucco pesante, di gente volgar-mente accalcata, che fa la fila, che si chiama, che apre il portafoglio, che ride di qualsiasi cosa, che deve spas-sarsela, e gigantografie, e televisori incastonati ad alveare per immagini in movimento frenetico, incessante (chi si ferma è perduto), a ritmo di musica, musica gonfiata, modificata geneticamente, musica che stordi-sce, che ti obbliga ad alzare la voce per farti sentire, per mandare un se-gnale della tua presenza. A rendere più piacevole l’attesa provvedono tre ristoranti, una palestra, una pista di pattinaggio, un bowling, due sale giochi, una discoteca e vari negozi: The Village è stato concepito in base alle tue esigenze. Poi la verifica del biglietto, il corridoio, la sala, il brac-ciolo ergonomicamente sagomato per accogliere il bicchiere di Coca Cola. Il film inizia dopo un quarto d’ora di pubblicità. Un film comico in cui non c’è nulla da ridere.

Una libreria, Roma, ItalyLa vetrina è divisa tra venti copie

del libro di un noto personaggio te-levisivo e venti copie del libro di un

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giornalista che ha avuto il merito di saper navigare sempre in acque cal-me ad ogni giro di vento. Quaranta libri allineati come lapidi, come un esercito schierato a parata. Quaran-ta libri sotto i riflettori. Null’altro. Un segnale chiaro e preciso. Commetto l’errore di entrare ugualmente. At-traverso il corridoio, sfiorando pile di quegli stessi due libri esposti in vetrina. Supero lo stand delle agen-de e quello dei calendari. Davanti al PC c’è una ragazza sui venticinque, fresca di solarium, che sta parlan-do al cellulare e con l’indice indugia lungo il solco del proprio ombeli-co, anch’esso in esposizione. Dice all’interlocutore che quella sera si devono beccare da qualche parte e che ci deve stare assolutamente un certo Nando. Quindi, coprendo-si la bocca con la mano, inizia a ri-ferire circa alcune indiscutibili virtù di Nando. Aspetto con malcelato imbarazzo che abbia concluso il suo scambio di confidenze, che non su-bisce alcun tipo di accelerazione in conseguenza della mia attesa. Non appena la ragazza ritiene sia giunto il momento di dedicarsi a me, le do-mando se per caso abbia Il giovane Holden di Salinger. Mi chiede se è un libro, ed è una domanda piuttosto curiosa, se si considera che ci trovia-mo all’interno di una libreria e non di un autoricambi. Faccio cenno di sì. Lei mi dice che queste cose non le tengono perché la libreria è pic-cola. La ringrazio ed esco facendo-mi largo nel corridoio di quella pic-cola libreria, costipato da cumuli di copie di due soli libri.

Di fronte ad un televisore ac-ceso, Gavi (AL), Italy

Il concorrente sorridente è chia-mato a scegliere tra la scatola nu-mero uno, la scatola numero due e la scatola numero tre. Il primo piano impietoso della telecamera lo coglie in un’espressione di allarmante idio-zia. Il concorrente sorridente, d’altra parte, non è preparato su nulla. Non gli è richiesta alcuna specializzazione o abilità. Deve soltanto indicare una scatola. Questione di fortuna. La for-tuna è importante nella vita. Lo dice anche il presentatore sorridente. Poi aggiunge che la fortuna aiuta gli audaci, avendo cura di sottolineare quanto il concorrente sorridente sia dotato di tale virtù e quindi assolu-tamente meritevole di successo. Il pubblico sorridente applaude, non è chiaro cosa o chi. Nonna Lucia ha navigato per ottant’anni attraverso le intemperie e le bonacce della vita. Ha visto la guerra e la pace, la fame e il pane. Ora guarda fissa verso lo

schermo dalla poltroncina del tinello come se stesse guardando la cosa più interessante del mondo. Ora dormi, Lucia. Dormi e riposa. Forse sognerai la vendemmia, i falò, le cor-se nei campi. O forse il bagno nel fiu-me, il profumo della stoppia, il vesti-to buono della domenica. Ora dormi, Lucia. Dormi e riposa. E’ meglio.

Una farmacia, Roma, ItalyEntro a testa bassa, scuotendomi

di dosso la pioggia e il freddo, e tutto il resto. Fuori le auto congestionano la strada, accostate in doppia fila con i bagagliai spalancati ad ingo-iare umidità, gas di scarico, braccia, auguri e buste traboccanti di regali e panettoni. Le farmaciste attendono sorridenti al banco. La mia mente re-gistra qualcosa di inconsueto, incon-gruente, come in certi sogni in cui le persone, le cose, il tempo e i luoghi si combinano e si sovrappongono in modo insensato. Non riesco a fo-calizzare immediatamente la causa di quel senso di straniamento, che continua a vagare all’interno della mia testa alla ricerca di una connes-sione in grado di decodificarlo. Forse la musica, forse gli integratori in of-ferta, forse le gigantografie di donne felicemente snelle e orgogliose della ritrovata regolarità del loro intesti-no... Solo dopo qualche istante il mio cervello affaticato riesce ad elabora-re compiutamente l’informazione anomala catturata dallo sguardo: le farmaciste indossano entrambe un cappello rosso da Babbo Natale. La bionda, sempre sorridendo, mi chie-de come può servirmi. Senza il cap-pello, le dico con un filo di voce. Mi guarda disorientata, con aria interro-gativa, ma continuando a sorridere. Non ha capito. Ripete la sua doman-da, con lo stesso tono, il sorriso ap-pena un po’ indurito, ormai privo di ogni naturalezza, se mai ne avesse avuta. Io non dico nulla. Non c’è nul-la da dirsi. Abbasso gli occhi e poso sul banco la prescrizione medica per la morfina.

Supermercato PIM, Roma, ItalyCome in tutti i supermercati, i

generi di prima necessità e scarso valore economico vengono nasco-sti con sistematica cura negli angoli più remoti e meno transitati, possi-bilmente sul primo scaffale in bas-so o sull’ultimo in alto, lontano da dove lo sguardo tenda per natura a posarsi: mentre giri a vuoto in cerca dello zucchero ti capiterà senz’altro di trovare qualcos’altro da compra-re. Nel frattempo, mentre cerchi lo zucchero e riempi il carrello di cose che non ti sarebbe mai venuto in

mente di acquistare, puoi goderti la musica. I successi pop del momento iniettano buonumore in filodiffusio-ne accompagnando ipnoticamente il percorso. “Incrementa i consumi sti-molando nei clienti una propensione all’ottimismo”, sostengono le sta-tistiche. Uno studio dell’Università del Wisconsin ha dimostrato come l’ascolto di Mozart incrementi del 7,5% la produzione di latte nelle muc-che. Le mucche ascoltano Mozart. Io sto ascoltando Anna Tatangelo. Avessi almeno trovato lo zucchero...

Starbucks Coffee, Geneva, Swit-zerland

Se mi dici che questo liquido scuro dentro il bicchiere da bibita con la cannuccia ha qualcosa a che fare con il caffè io ti credo. Ti credo perché mi sorridi. E in fondo non mi importa, ora, che il sorriso sia par-te integrante del tuo lavoro e che tu sorrida a tutti. Ti credo perché ti chiami Corinne e perché è scritto sulla tua divisa. Ti credo perché sei tu che mi stai di fronte. Ti credo per-ché qui sono al riparo. Ti credo per-ché fuori fa freddo e sta piovendo su tutta la Svizzera, sul lago, sulle banche, sulle borse firmate, sulle pellicce e sui burka delle donne che le hanno comprate. Ti credo perché sei bella. Ti credo perché sono solo. Ti credo perché questa malinconia deve trovare una giustificazione umana. Ti credo, Corinne. Crederei a qualsiasi cosa.

Cimitero, Garbagnate (MI), Italy

Il Dott. Bigogno è rimasto fede-le al suo titolo anche nella tomba. La sua bara non contiene i miseri resti di un corpo qualunque, diligen-temente indaffarato nella propria decomposizione, ma le reliquie di un Dottore. E’ giusto che chi si trovi a passare lì davanti lo sappia, e ma-gari chini il capo compostamente, in segno di ammirazione e riverenza. Il profilo marmoreo dell’angelo che spicca il volo evoca un paradiso di vil-lette videosorvegliate con giardino e posto auto, adagiate tra ipermer-cati, stazioni di servizio e fabbriche. Villette frutto di una vita di lavoro, di una vita per l’azienda, di riunioni, di giacche e cravatte, di contatti e con-tratti, di sveglie nella nebbia dell’al-ba e ritorni con i fari accesi, di cene riscaldate davanti alla TV, di poche consuete e scarnificate parole alla moglie, di figli già a letto. Di fronte alla lapide, nella cappella di famiglia, un mazzo di garofani di plastica co-lor polvere e un moccolo spento. Ri-posi in pace, Dott. Bigogno.

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Walter SitiOssessione,

Francesca Giglio

L’ossesso (è così che Siti talvolta designa l’ossessionato), sigilla nel buio di una stanza i suoi misteri per un fatto di garbo e di decenza civi-le, più che di vergogna. Il suo desiderio di assoluto, e quindi di divinità, consiste in una ricerca privata, fuori dal tempo e decontestualizzata per necessità, e si proietta nelle immagini, le «quinte di un paesaggio ideale» (p. 184), che provano a guerreggiare con la cultura e a porsi ad un livello ontologico più alto rispetto alla realtà. Di Danilo importa sapere che è un signore raffinato, molto ricco di famiglia, con una «culturalissima gay-ness» (p. 10) da vantare nel pedigree. Persino la sua ossessione chiama in causa la cultura come supporto, ma per distruggerla inevitabilmente. Sin dalle prime pagine si accenna alla litania dell’odio di Danilo contro il Rivale, beffeggiato sempre con diversi e fantasiosi epiteti, uno scrit-tore (dietro cui il lettore avvezzo a Siti fa presto a riconoscere il Walter dei precedenti romanzi) che usurpa e contamina, con l’amore, proprio Angelo e fa fermentare di frustrazione la tragedia privata del protago-nista. L’ossessione è scandagliata, sottoposta ad autopsia appunto, in proposizioni che vanno da zero a n, negli intermezzi dell’autore dall’an-damento e dagli scopi filosofici. Le foto di nudo hanno la vocazione di te-stimoniare la «sproporzione patologica del desiderio» (p. 53) e la volga-rizzazione dei miti: le istantanee in bianco e nero si alimentano, infatti, di stereotipi che sono la versione degradata degli archetipi sul modello dei quali i miti si erano archiviati nell’innocenza del bambino Danilo, gon-golante sulle gambe del nonno siciliano Salvo. Sono foto molto kitsch, e non artisticamente perfette, così da rispondere meglio all’ossessione del committente.

La storia dei miti e degli eroi e, insieme, delle arti figurative popola il libro in quanto su di essa si è sempre fondata la comunicazione del protagonista con la sua famiglia, e con la madre in particolare. L’arte in-gombra la vita di Danilo per testimoniargli continuamente la sua impos-sibilità di essere artista e per contrapporsi al lato disdicevole della sua esistenza. Di Danilo Pulvirenti si apprendono tutte le “stazioni”: infan-zia, adolescenza, maturità, senescenza; lo si segue, giovanotto dispe-rato, degradato, patito, insomma stile Schiele (come una delle innume-revoli citazioni colte suggerisce), per l’Europa e dalla prigione familiare

Protagonista dell’ultimo libro di Siti (Autopsia dell’ossessione, Mondadori 2010, pp. 299) è Danilo Pulvirenti e «chi sia lo capiremo» (p. 9), spiega l’autore, il quale si è congedato sia dall’autofiction della precedente trilogia che dal Contagio con la borgata romana. Nella stanza detta “di Barbablù”,

o “delle rondini”, del suo appartamento capitolino, Danilo, di professione antiquario, custodisce un segreto esorbitante: le foto, squadernate anche dinanzi al lettore, di un sempre nudo Angelo, body builder, ancora di borgata, che incarna la sua ossessione.

di Modena sino a Roma. Magrezza spirituale, eccesso di stile, inquietudine di correre die-tro al desiderio ingordo conducono, di con-seguenza, all’ossessione che, con gli anni, vegeta rigogliosa nel buio. La vita decolla a fatica e con la madre Candida, il crogiuolo più interessante del libro, in cui si realizza la fusione del migliore e del peggiore Danilo, non si parlerà mai di come si passi «dall’arte all’abbraccio» (p. 50), dalla natura morta alla natura viva. Il protagonista trova molto chic ed esatto esprimersi attraverso i simboli e la parodia e cadenzare la sua vita con sessioni erotiche assurte a riti della sera. Le suo foto “di Barbablù” sono simboli che negano la re-altà, benché prima di negarla abbiano avuto

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bisogno di esaminarla con la mas-sima minuzia. Angelo, nel nuovo lemmario di Siti, non è più magni-fica merce, ma moneta vivente, simbolo che finisce col decadere e sporcarsi di terra. Il lettore, in una graduale disillusione, viene con-dotto alla proposizione perentoria “n”, l’ultima per eccellenza, quella che afferma la fine dell’ossessione per la sopraggiunta decadenza del suo oggetto. Alla fine decadono tutti: il Rivale professore, Angelo, la fortuna, in verità sempre mode-sta, della bottega d’antiquariato, e «l’ossessione si autoesilia in attesa di tempi migliori» (p. 297). Decade soprattutto la madre, “baciata” da Alois Alzheimer e soffocata dal cu-scino matricida di Danilo. Questo gesto, «come una nota estesa su cinque ottave» (p. 289), che cono-sce le prove generali nell’uccisione di un coniglio, come già in Scuola di nudo di una gattina, fa regredi-re il tempo e Danilo «può tornare a essere com’è stato, fiducioso e grassottello» (p. 289), il bambino che giocava col cavalluccio e si abbeverava alla fontana dell’arte, alla musica che non avrebbe mai imparato a suonare. Il Rivale e Da-nilo sono vittime della stessa sug-gestione: quella di affidare al mon-do, e anche al suo immondezzaio, una parvenza simbolica. Il primo la scaccia ponendo Angelo al livello della sua vera realtà di apparte-nenza e si predispone, per effetto di un contagio d’amore che non è ossessione, a condividerne la deca-denza («niente al mondo merita di esser letto come simbolico, se qua-lunque simbolo è destinato a finire; sulla terra non c’è che la terra. In cielo una parte misteriosa si chiu-de», p. 297). Danilo si libera dalla prigione del simbolo incarnato in Angelo regredendo e regredisce quando si affranca dalla prigione della famiglia, il cui ultimo baluar-do, sontuosamente divertente, è rappresentato dalla madre. La storia della sua ossessione si confi-gura, infatti, come una storia di fa-miglia. La trama del romanzo non è un caso sia partita, come Walter Siti racconta nell’avvertenza al let-tore posta in chiusura, dall’ultima foto presente nel libro, quella di un Danilo bambino, quasi a voler ac-certare la vera causa dell’ossessio-ne in un esonero, in primo luogo, dall’infanzia, vale a dire da qualco-sa di sacro ed arcaico, e poi dalla musica, dalla fantasia, dal comple-

to adempimento di una vita e di un’identità, dalla contemplazione della perfezione. Un incontro con un corpo empirico, «all’insegna vergognosa della sottocultura» (p. 116), col miraggio del possesso del-la perfezione, distoglie il protago-nista dall’ultrarealtà «dove regna-no l’esattezza e l’armonia: quella rispecchiata dalla musica, dalla poesia pura, dall’arte tradizionale non figurativa. La calligrafia araba, i nodi leonardeschi» (p. 135). Dani-lo si è ridotto ad una quasi identità, condannato a vivere contempora-neamente in due dimensioni incon-ciliabili, tra normalità e fantasmi del buio, tra nostalgia della purez-za della polis e impurità di un’espe-rienza personale: «la dimensione mistica lo attira a sé ma lui ci entra con le scarpe sporche» (p. 78). La stessa ossessione è un’ansimante scalata: «tutto è un quasi-come» (p. 184) senza appagamento e l’anima si crogiola in una rissa eter-na: «si bemolle maggiore contro si minore» (p. 115). Un corpo non ma-nifesta nessuna sacralità soprat-tutto quando si mostra per quello che è: un corpo dialettale di borga-ta che sghignazza nell’immoralità; recuperare il sacro attraverso l’os-sessione corrisponde ad un errore di secolarizzazione, in sintonia con lo scandalo sessuale che imperver-sa sulla cosa pubblica, « “catastro generico d’una vulveria collettiva”, come diceva Gadda» (p. 124).

Danilo disdegna ogni forma di contagio col peccato originale, che è la realtà, e disprezza il voler-bene («La sua schiatta non è certo nella Storia […] è quella degli arti-sti severi e matematici, dei grandi anatomisti e chirurghi; quella di Alessio il Calmissimo, santo zar di tutte le Russie, detentore di una tecnica per la rigorosa autorità sui subordinati – e di calma ce ne vuole davvero, quando il conteni-tore del divino trasuda sottopro-letaria volgarità», p. 168). Ha in odio, inoltre, le velleità autobio-grafiche del Rivale: è in virtù della presa di distanza del suo prota-gonista, tanto dall’autobiografia quanto dal contagio, che Walter Siti si dimette dalle scelte lette-rarie del recente passato. Danilo, infatti, non solo non si mettereb-be mai nei panni di un se stesso ossessionato, così svolgendo la sua ossessione in un romanzo, ma neppure si offrirebbe quale alter ego dell’autore per una nuova au-

tofiction. Il compito di una autop-sia non spetta a lui ma guida alla sorpresa di vedere identificato nel Rivale il Walter Siti di sempre, riconsegnato dall’inedito punto di vista di un uomo che lo odia.

Anche la musica nel libro fa la sua parte: Danilo la fa corrispon-dere alla vera sublimazione, capa-ce di sfarinare il suo caos nel caos «organizzato e completo dei finali di Rossini» (p. 226). È la bellezza estrema contro la vita, il tramite privilegiato per enfatizzare un af-fetto di cui non è capace, il vero piacere che contrasta con un al-tro piacere, quello della violenza che umilia Dio nel suo Angelo. Il protagonista crede di poter far leva sull’intransigenza, distrarre la sua inettitudine con la logica, mascherare con la passione per la filosofia l’ansia di possesso e le incursioni nelle «catacombe lea-ther» (p. 143) del sesso. La realtà è «il Golia informe che succhia forza dal caos» e la cultura, in tutte le sue manifestazioni, «la fionda ru-stica di Davide» (p. 220). La figura mitologica non va infettata con la «la confusione, il trasformismo e la vergogna italiana» (p. 229) né l’empireo confuso con l’empiria. Lui, Berlusconi, di cui il profes-sore sarebbe «perfetto comple-mentare» (p. 229), non è un mito, ma neppure la sinistra che va allo sbando, quella sinistra ridondante della stessa sterile passione civile di Danilo. Il Professore, doppio speculare del protagonista, «for-se il fratello che non ho avuto?» (p. 209), declina e possiede, con prepotenza, lo stesso suo mito, l’Angelo-Minotauro; rappresen-ta, per Danilo, l’untuoso scrittore conforme al Paese, che di ingenuo ha soltanto l’apparenza. Odia in lui il peculato delle idee, l’onni-potenza privata, il successo della cultura infangatasi, in nome della condivisione, con la realtà. Danilo resta con la sua solitudine e i suoi esempi artistici di Flagellazioni sul-la giostra dell’universo dove tutto è già accaduto; non ama gli artisti che scendono alle bassezze del mondo: «gli piacciono quelli che si torcono le mani per l’ipocondria, i manieristi di tutte le epoche» (p. 100). Battuto anche sul suo terre-no più caro, quello della cultura, di cui è stato l’untore, Danilo pen-cola irrimediabilmente insieme al mondo. L’armonia e il profumo di rose restano un miraggio.

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Quando mi consigliarono per la prima volta Canale Mussolini, nel momento in cui mi dissero che era una saga familiare che si sviluppa-va sull’arco del ventennio fascista, storsi la bocca non poco. Venivo infatti da un’esperienza letteraria in quell’ambito che da qualche mese mi tormentava, tanto che al solo sentire le parole ”saga familiare” passavo notti insonni ossessionato dal fantasma dei Buendia e dal ter-rore che me ne fossi perso qualcuno per strada. Quando allora una mia amica mi consigliò questo libro e mi disse che trattava di questa famiglia di migranti, i Peruzzi, e che spiegava molto bene il periodo del fascismo in Italia, mentre pensavo tra me “Non lo leggerò mai”, ebbi la bril-lante idea di dirgli “allora quando ci rivediamo portamelo”, pensando che quel futuro sarebbe stato mol-to lontano. Il caso volle che lei aves-se finito il libro proprio mentre veni-va al nostro appuntamento e quindi mi ritrovai da un momento all’altro con in mano un libro che non ave-vo alcuna intenzione di leggere. E così, un po’ per caso e un po’ per dovere, mi misi a leggere Antonio Pennacchi, Premio Strega 2010, un suo libro che inaspettatamente per me fu una vera e propria scoperta. Sì, è vero le mie aspettative non erano molto alte, ma vi posso assi-curare che questo romanzo piacerà e sorprenderà anche quelli che non partono dal mio punto di vista. Non che io voglia farvelo piacere per for-za, per carità, voglio solo dire che, a mio parere, il brio e la vivacità di questo libro difficilmente lasceran-no indifferente chi lo leggerà. Uno dei punti di forza di questa epopea familiare è proprio il lin-guaggio con il quale questa viene narrata: veloce, brillante e asciutto senza essere superficiale. E’ la voce di quel tempo e di quei luoghi che ci fa entrare dentro questa storia

italiana; sono i dialetti e le voci ge-nuine dei personaggi che ci parlano delle persone e dei paesaggi agrico-li ormai perduti. Questa è secondo me la colonna principale sulla quale si regge questo libro, il narrare la storia degli italiani con la voce degli italiani. Proprio in questo devo rico-noscere l’abilità eccezionale dell’au-tore nel districarsi in un dialetto veneto che ci porta dentro, ci fa vedere la famiglia e i volti del tem-po senza rinunciare ad una vena ironica a tratti veramente esilaran-te. Basti solo pensare ai dialoghi in veneto tra Mussolini e Hitler oppu-re l’esilarante diatriba tra Giolitti e i socialisti per un’alleanza di go-verno. Detto questo però è altret-tanto importante l’attenzione che Pennacchi dedica alla storia d’Italia in quegli anni. Come abbiamo già detto il romanzo si svolge nell’arco del ventennio fascista in particolare nei luoghi che videro una delle più grandi opere del Fascio, la bonifica dell’Agro Pontino. L’epopea della famiglia Peruzzi è una delle molte storie di migranti veneti venuti dal nord per sfruttare le nuove grandi possibilità di quel terreno vergine fresco di bonifica. Pennacchi utiliz-zando la loro storia ci fa entrare nel-la vita dell’Agro pontino in quegli anni, oltre che tratteggiare con li-nee decise e chiare la vita in Italia ai tempi del Duce. Un’altra delle gran-di virtù di questo libro è la maestria con la quale l’autore riesce a legare le vicende della piccola famiglia con quelle del movimento fascista, sen-za trascurare nulla della “grande storia”, facendoci immergere an-che in una prospettiva dalla quale finora non avevamo mai guardato. Questo a mio parere è molto impor-tante poiché è difficile oggigiorno conoscere la storia del ventennio fascista senza cadere in retoriche dettate dal nostro tempo, soprat-tutto perché la “grande storia” che

ci viene raccontata spesso è diversa da quella che vivevano gli italiani in quei tempi. Con questo non voglio esprimere giudizi politici o altro, ma voglio solo dire che questa versio-ne di quegli anni, vista un po’ “dal buco della serratura” che Pennac-chi dà, ci rende coscienti dell’Italia del tempo e di come il regime fosse vissuto dalla povera gente. Tutta questa storia d’Italia è comunque amalgamata alla perfezione con la narrazione, tanto che a volte ci si trova un Mussolini a pranzo in casa Peruzzi e un Rossoni amico fede-le del nonno. In questo libro tutto succede attorno alla famiglia che è prima attrice e insieme spettatrice della storia italiana, che qui è così piena e allo stesso tempo così sem-plice da sembrarci molto vicina.

Non è solo la storia però ad es-sere al centro dell’ultima opera di Pennacchi: una parte fondamenta-le spetta anche ai luoghi e alle terre della pianura Pontina che, rappre-sentate in maniera attenta e vivace, ci descrivono l’opera della bonifica dell’Agro da parte del Fascio, il qua-le, coinvolgendo le popolazioni mi-granti, diede luogo a quella che fu una delle più grandi opere di politi-ca agricola di sempre e che ebbe il suo perno nel famoso Canale Mus-solini. L’attenzione dell’autore non tralascia neanche la descrizione della sua Latina, alla quale sembra professare il suo amore ogni vol-ta che ne descrive una piazza o ne racconta lontani aneddoti. E’ vivo in lui il debito verso la sua terra e in questo libro in particolare vediamo come questo attaccamento, suo e dei suoi paesani, sia strettamente legato ad una riconoscenza verso il regime per la bonifica di queste terre. Infatti questi luoghi, come ci racconta Pennacchi, sono nati con il Duce e per volontà del Duce, quindi è quasi impossibile scindere la storia dei posti dalla storia del

L’ITALIA CHE ERAVAMOCANALE MUSSOLINI di ANTONIO PENNACCHI

Francesco Rizzo

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ventennio fascista. Ma a parte que-sto particolare, è evidente come l’autore abbia un debito di ricono-scenza verso la gente del luogo, questo misto fra migranti veneti e gente del basso Lazio, ai quali l’au-tore dedica amorevolmente que-sto libro, quasi come se questi lo avessero scritto insieme a lui. Dice Pennacchi in un’intervista - Quando sono andato al bar tra la mia gente mi sono sentito dire “Avemo vinto lo Strega”. Capisci, non mi han-no detto “Bravo hai vinto lo Strega”, hanno proprio detto “Avemo vinto lo Strega”. È questo che mi importa. Che la mia gente lo ha letto come una cosa sua.-

Non è nient’altro che questo, il libro della gente scritto per la gente.

Molti ci si sono visti dentro e molti hanno rivisto nella storia dei Peruzzi quella della loro famiglia, perché quello che è narrato in questo libro non è nient’altro che un pezzo d’Italia ormai lontano che riaffiora tra le pagine, e in que-ste ci dà anche l’impressione che la storia del nostro paese sia stata scritta anche dalla gente normale, dai semplici.

Possiamo dire così, senza ab-bandonarci a facili retoriche, che fi-nalmente l’Italia ritorna con questo libro al grande romanzo popolare, con la particolarità di un punto di vista storico d’eccezione e uno spi-rito gioviale che ci fa riguardare a quegli anni senza quell’alone di ma-linconia e pregiudizio con il quale ci rapportiamo a quei tempi.

Molti hanno confrontato que-sto libro con i classici del genere, “Cent’anni di solitudine” in primis (i miei iniziali timori non erano del tutto infondati), ma Pennacchi ha sempre cercato di scansare qualsia-si accostamento ad un altro libro. In particolare dice: “questo è il roman-zo della mia terra e della mia gente, per il resto potete paragonarmi a chi vi pare” . Certo, questo tipo di affermazione non limita affatto la nostra libertà di associarlo ad altri libri, ma personalmente mi sento di difendere l’originalità di questo

testo perché lo reputo unico e per certi versi coraggioso nel suo rap-porto con la storia. Accostarlo ad altri romanzi del genere non fareb-be per me che svilirne la portata e l’importanza storica e sociale, ol-tre che a ridurlo a essere un nuovo capitolo di una storia narrata mille volte. Vorrei che di Canale Mussoli-ni si difendessero l’eccezionalità e sua forza nel raccontare la nostra Italia passata, senza avvicinarlo a uno o a un altro scrittore. Canale Mussolini è una nostra storia, nostra in quanto italiani e, leggerla e conoscerla, non può che renderci parte di un passato vissuto del qua-le oggi siamo eredi troppo spesso inconsapevoli e lontani.

Scrive Pennacchi all’inizio del libro:

Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo . Fin da bambino ho sempre saputo di dover fermare questa storia e rac-contarla prima che svanisse. Nient’al-tro. Solo questo libro.

Ogni altra cosa che ho fatto – bella o brutta che sia – l’ho sempre sentita come preparazione e interlu-dio a questa. Anche gli altri libri sono nati in funzione di questo e solo per lui mi sono messo a studiare le storie più strambe del mondo, dall’uomo di Neanderthal all’architettura e bo-nifiche fasciste: solo per poter fare questo libro. Non sembrerà quindi strano se a un certo punto capiterà

di imbattersi in brani o cose già lette negli altri. Non è lui che copia da loro. Sono loro che furono scritti per lui.

Questo romanzo è tutto qui, in queste poche parole, le quali non fanno altro che dirci che questo c’è sempre stato e noi solo ora lo stiamo scoprendo. E’ un po’ come se queste parole ci venissero a dire: tali storie sono sempre esistite, ma soltanto rileggendole e riascoltan-dole possono diventare storie vere.

Detto questo, mentre mi sto apprestando a concludere il mio articolo e mentre il giorno in cui do-vrò restituire il libro alla mia amica si sta avvicinando, mi sono accor-to che non vi ho raccontato nulla dei Peruzzi, nulla delle loro storie e dei loro amori, nulla dell’Armida e delle sue api, niente del Pericle e delle sue battaglie. Mi dispiace ami-ci miei, ho saltato qualcosa e qual-cos’altro ho sicuramente anche di-menticato, scusatemi, veramente. Adesso, però, mi manca poco spa-zio e poche battute e accennarvi ora le mille storie dei Peruzzi sareb-be solo levare spazio alla vostra cu-riosità (che spero avervi instillato); quindi vorrei lasciarvi così, con mille punti interrogativi e soltanto una certezza affiorata: le storie belle ci sono, esistono, dobbiamo solo rac-contarle.

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Cos’è la forza d’animo? Vi sono delle persone che sono sopravvissu-te per decenni in orribili celle senza luce, altre nell’incubo dei gulag so-vietici e dei campi di sterminio hitle-riani. Altre, invece, appena imprigio-nate crollano, si ammalano perché cedono le loro difese immunitarie, ed alcune arrivano al suicidio. E ciò che abbiamo detto per la prigionia vale per ogni altro grande trauma, perdita, dolore.

Io credo che nel nostro animo si scontrino due forze. La prima è lo slancio vitale, il desiderio di vive-re, di affermarsi, di lottare. Essa ci spinge verso il futuro, ci fa cerca-re sempre delle soluzioni alterna-tive. L’altra, invece, è lo sconforto che ci spinge alla resa. Essa blocca il nostro desiderio di vivere e di agi-re, inchioda la nostra mente sul pre-sente, le impedisce di immaginare alternative e di sfuggire alla sua os-sessione.

Lo sconforto è una droga, una terribile lusinga, una pericolosa seduzione. Nel film di Kurosawa, «Sogni», due soldati vengono sor-presi da una tormenta di neve. Ad un certo punto appare loro una donna bellissima che li accoglie fra le sue braccia amorose. Sono ten-tati di abbandonarsi. Poi capisco-no che quella donna è la tormenta stessa, che promette loro la pace

della morte. Allora la scacciano, si coprono e, con la luce del mattino, si accorgono di essere accanto al lo-ro accampamento. Il racconto ci di-ce che bisogna lottare contro la ten-tazione.

Ma come? Osservando coloro che sanno resistervi ho capito che vince chi riesce a gettarsi in una at-tività impegnativa che distoglie la sua mente dalla ossessione. Alcuni prigionieri si sono dedicati ad ad-destrare un topo, un ragno. Prefe-risco, però, ricordare una ragazza che, dopo il fallimento del suo pri-mo amore, si è lanciata in una vita piena di rischio e di avventura e ha avuto un grande successo. E alcune persone di genio che, dopo la catas-trofe hanno reagito creando, per-correndo strade nuove. Machiavelli, costretto all’esilio, ha scritto le sue opere più importanti e Nietzsche, lasciato da Lou Salomé, ha scritto Così parlò Zarathustra.

Ma ci sono certo altre strade, come cambiare lavoro, iniziare una nuova attività o dedicarsi al volon-tariato. La chiave è sempre la stes-sa, evitare l’ossessione, cercare il diverso e incanalarvi tutte le nostre energie vitali. Vi riesce bene chi ha un ideale, una grande meta come Nelson Mandela che, nei ventisette anni di prigione, ha sempre lottato per la libertà del suo popolo.

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Solo con la forza d’animo ci liberiamo dalle ossessioni

Dopo lo sconforto bisogna cercare soluzioni alternative

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PASSAT E M P O

DIVERTIMENTO

CRUCIVERBA

SOLU

ZIO

NI

CRU

CIV

ERB

A

In Iran, durante un’operazione, tra il chirurgo e l’anestesista è scoppiata una lite, perché quest’ultimo per l’ennesima volta non era riuscito a infilare il tubo del respiratore nella bocca chiusa della paziente. La situazione è degenerata ed è scoppiata una scazzottata a cui hanno preso parte anche gli assistenti che tentavano di dividerli. La signora, che dovena essere operata ed era sotto anes-tesia, al risveglio si è ritrovata come prima ma con un dente in meno.

CURIOSITÀ

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