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La riforma della legge fallimentare e la novella di cui al cd. decreto correttivo Università degli Studi di Macerata 16 novembre 2007 “L’esperienza applicativa della riforma” Desidero innanzitutto ringraziare l’Associazione Forense Maceratese, il suo Segretario, Avv. Carla Paciaroni, ed il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Macerata, per avermi offerto l’opportunità di partecipare all’odierna giornata di studi. Ho accettato l’invito con entusiasmo. Trascorrere una giornata a Macerata è infatti per me sempre una grande emozione, legato come sono a questa Città da profondi vincoli di affetto, non solo familiari. Ma ciò che oggi mi rende ancora più emozionato è la possibilità di parlare nell’Aula Magna di questa Università e di rendere così omaggio a colui al quale, proprio in questo contesto, alcuni anni fa, è stata intitolata la Camera Penale di Macerata; mi riferisco - come molti dei presenti avranno compreso - all’Avv. Oscar, Ninì, Olivelli, che ha sempre rappresentato per me, come, ne sono certo, per tanti altri Colleghi, un esempio di amore per la professione e di rigore morale nell’esercizio della stessa.

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La riforma della legge fallimentaree la novella di cui al cd. decreto correttivo

Università degli Studi di Macerata16 novembre 2007

“L’esperienza applicativa della riforma”

Desidero innanzitutto ringraziare l’Associazione Forense Maceratese, il suo Segretario, Avv. Carla Paciaroni, ed il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Macerata, per avermi offerto l’opportunità di partecipare all’odierna giornata di studi.

Ho accettato l’invito con entusiasmo.

Trascorrere una giornata a Macerata è infatti per me sempre una grande emozione, legato come sono a questa Città da profondi vincoli di affetto, non solo familiari.

Ma ciò che oggi mi rende ancora più emozionato è la possibilità di parlare nell’Aula Magna di questa Università e di rendere così omaggio a colui al quale, proprio in questo contesto, alcuni anni fa, è stata intitolata la Camera Penale di Macerata; mi riferisco - come molti dei presenti avranno compreso - all’Avv. Oscar, Ninì, Olivelli, che ha sempre rappresentato per me, come, ne sono certo, per tanti altri Colleghi, un esempio di amore per la professione e di rigore morale nell’esercizio della stessa.

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1. Premessa

Obiettivo del presente intervento è quello di fornire, a poco più di un anno dall'entrata in vigore della riforma della legge fallimentare, alcune indicazioni in merito all’applicazione della nuova disciplina, evidenziando, da un lato, i maggiori nodi interpretativi e gli aspetti più problematici, e, dall’altro, segnalando, senza alcuna pretesa di completezza, le principali novità introdotte dal decreto correttivo, che, peraltro, saranno poi oggetto di approfondimento da parte degli altri relatori.

2. Il concordato preventivo

La riforma della legge fallimentare rappresenta senza dubbio una grande opportunità per i professionisti, in considerazione del fatto che la stessa, da un lato, ha disegnato una nuova figura di curatore, caratterizzata fra l’altro da forti elementi di interdisciplinarietà, e, dall’altro, ha introdotto nuovi strumenti grazie ai quali sarà possibile sottoporre ai clienti imprenditori la possibilità non solo di avvalersi di un nutrito ventaglio di opzioni per la risoluzione della crisi di impresa, ma anche di cogliere l’opportunità di compiere proficue operazioni di mercato grazie all’acquisizione di imprese insolventi (quando, naturalmente, vi siano le condizioni per una concreta possibilità di ristrutturazione).

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In quest’ottica, il lato migliore della riforma va senz’altro individuato nell'introduzione, nel nostro ordinamento, di una procedura di crisi (il concordato preventivo) ora concepita nel senso di consentire non solo la liquidazione, ma anche e soprattutto la ristrutturazione dell’impresa in difficoltà, attraverso un accordo con i creditori.

Il numero delle proposte di concordato presentate, peraltro, non sembra essere stato univocamente influenzato dalla nuova disciplina.

In alcuni tribunali le proposte sono infatti diminuite, mentre in altre sono aumentate (l’aumento più consistente si è registrato nel Tribunale di Ancona, dove, solo nel primo semestre del 2007, sono state presentate venti domande di concordato).

Lo scarso numero complessivo delle domande di concordato presentate all’indomani della riforma del 2005, evidenzia come i meccanismi ideati dal legislatore per incentivare le soluzioni concordate siano stati, sulle prime, insufficienti.

Un aspetto di rilievo deve certamente essere individuato nella mancata possibilità di soddisfacimento in percentuale dei creditori privilegiati, punto sul quale è peraltro intervenuto, ponendo rimedio, il decreto correttivo.

Da un punto di vista di diritto, la prassi – come risulta da un’indagine condotta in proposito dall’Assonime – ha inoltre registrato una notevole incertezza interpretativa

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sull'ampiezza dei poteri valutativi del giudice, tanto in fase di ammissione alla procedura quanto in fase di omologa, pur se nei principi della riforma appariva ben delineato il ruolo del giudice cui veniva riservato un giudizio sulla convenienza della proposta del debitore solo nell’ipotesi in cui ci fosse stata una divisione in classi dei creditori ed essendo ormai esclusa una valutazione della meritevolezza del debitore all’ammissione della procedura.

La giurisprudenza si è in effetti divisa (17c/17f):

- secondo un primo orientamento, infatti, al giudice non è stato riconosciuto spettare alcun potere di sindacato circa il merito della proposta, dovendosi egli limitare ad una verifica formale della completezza e della regolarità della documentazione ad essa acclusa e, quindi, ad un controllo di legittimità in relazione al dettato dell’art. 161 L.F.; così come si è ritenuto che il giudice non potesse rigettare la domanda in sede di omologazione ove vi fosse stata l'approvazione dell'adunanza dei creditori e non vi fossero state opposizioni (salvo il potere di verifica della corretta formazione delle classi);

- altre corti, invece, hanno riconosciuto al giudice, pur non potendo questi sindacare la proposta nel merito, la possibilità di controllare la fattibilità della proposta, verificando la relazione redatta dall'esperto ex art. 161, comma 3, L.F., nel senso di accertarne la serietà, la completezza e la redazione secondo le regole della scienza ragionieristica;

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- altre corti ancora, infine, hanno riconosciuto al giudice la possibilità di compiere un sindacato di merito, attribuendo allo stesso il potere di verificare l’attendibilità e la fattibilità del piano, e cioè la coerenza del programma di azione prospettata dal debitore, da valutare in relazione alle relative concrete modalità di articolazione.

Tale questione non è stata certamente di poco conto, essendosi fra l’altro intrecciata con quella riguardante la possibilità per il tribunale di dichiarare il fallimento d'ufficio in caso di inammissibilità della domanda ovvero ex art. 173 L.F. (17h) A un orientamento che ha ritenuto non più previsto dall'ordinamento il fallimento d'ufficio a seguito della modifica dell'art. 6 L.F., si è in effetti contrapposto altro orientamento, minoritario, secondo cui il fallimento avrebbe invece potuto essere dichiarato d'ufficio, in quanto le norme che prevedevano tale facoltà nell'ambito della disciplina del concordato preventivo non sarebbero state abrogate espressamente ed avrebbero dettato una disciplina eccezionale.

Su questi punti è intervenuto il decreto correttivo con alcune modifiche.

Da un lato, si è così opportunamente precisato che la dichiarazione di fallimento - in caso di inammissibilità della domanda o di esito negativo della votazione o di mancata omologazione o di ricorrenza delle ipotesi di cui all’art. 173 L.F. - sarà possibile solo su istanza del creditore o del P.M.

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Dall’altro, tuttavia, le modifiche apportate dal decreto correttivo in merito ai poteri del giudice in sede di esame della proposta di concordato non sembrano aver risolto le predette questioni interpretative.

Vero è, infatti, che la dottrina, in sede di primo commento delle nuove norme, appare già divisa sul punto.

Da una parte, infatti, si è ritenuto che con il decreto correttivo sia stata recepita la tesi interpretativa che ritiene possibile per il tribunale, in fase di ammissione alla procedura, un'indagine di merito sul contenuto della proposta, e ciò sul presupposto che il nuovo art. 162, primo comma, L.F. prevede ora la possibilità per il tribunale di chiedere al debitore integrazioni al piano e nuove allegazioni, peraltro con due non trascurabili conseguenze:

- il rischio di un notevole ampliamento dei tempi dell’istruttoria;

- la possibilità che la “contrattazione” sui contenuti della proposta non avvenga più tra il debitore ed i suoi creditori, con attenuazione della spinta innovatrice della riforma del 2005, che - com’è noto - si era invece proposta l’eliminazione del controllo del giudice sul merito della proposta concordataria e la dislocazione della gestione della crisi in favore del commissario giudiziale e dei creditori.

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Dall’altra, si è invece giunti ad affermare, in senso diametralmente opposto, che il decreto correttivo avrebbe affermato, ancor più chiaramente e perentoriamente del legislatore del 2005, che, nella sede di cui si discute, spetterebbero all’autorità giudiziaria solo ed esclusivamente controlli formali di legittimità, essendosi valorizzata la lettera del secondo comma dell’art. 162 L.F., che prevede come la verifica del tribunale all’atto della presentazione della domanda di concordato debba avere per oggetto “i presupposti di cui agli artt. 160, commi primo e secondo, e 161”.

Secondo tale dottrina, pertanto, l’esame del tribunale sulla domanda di concordato preventivo potrebbe riguardare i contenuti della stessa solo nel senso di verificare che non manchino, per l’appunto, gli elementi richiesti dagli artt. 160, primo e secondo comma, e 161 L.F. (ad esempio: che si sia specificato se si persegue la liquidazione o la ristrutturazione; se siano o meno state previste diverse classi di creditori; in caso positivo, se sia stato precisato quale trattamento sia stato riservato a ciascuna classe; se sia stata depositata la relazione dell’esperto; se tale relazione abbia il contenuto richiesto dall’art. 161 L.F.; se l’esperto abbia i requisiti richiesti; ecc.).

A mio avviso, deve essere riconosciuta al tribunale la possibilità di effettuare un giudizio di fattibilità, ma certamente non in via diretta.

La fattibilità deve infatti essere valutata dai creditori.

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Ma al tribunale deve peraltro essere riconosciuto il ruolo di garante del fatto che i giudizi di fattibilità e, indirettamente, di convenienza siano effettuati dai creditori in modo trasparente e non inquinato, con una effettiva consapevolezza.

A tal proposito, la legge prevede che il piano debba essere accompagnato da una relazione del professionista ed è proprio questa relazione che deve essere costruita in modo tale che i creditori, in base al relativo contenuto, possano capire veramente quale sia il contenuto della proposta concordataria e quali siano le concrete possibilità che la proposta vada in porto.

In altre parole, la fattibilità è direttamente oggetto della relazione del professionista ed ecco che, allora, il controllo che il tribunale può esercitare è quello diretto a valutare, non le conclusioni adottate dal profesisonista, ma le regole che quel professionista abbia adottato per giungere ad un determinato risultato valutativo.

Se l’attestazione del professionista tale è formalmente, ma non lo è sostanzialmente perché non dice nulla di quello che i creditori devono sapere per esprimere un consenso informato, quel tipo di sindacato il tribunale lo può fare.

E come lo può fare all’inizio, in sede di ammissione, lo può fare alla fine, in sede di omologazione.

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E forse lo può fare anche meglio, perché può prendere atto, per l’effetto di eventuali opposizioni e di un contraddittorio che nella fase di ammissione non c’è, che le considerazioni che il professionista aveva svolto erano assolutamente inidonee a rappresentare la vera situazione dell’impresa.

In sostanza, il tribunale può valutare la fattibilità vista attraverso la lente del professionista.

3. Soluzioni concordate della crisi d’impresa

Altri interventi fondamentali della riforma del 2006 sono stati quelli relativi agli accordi di ristrutturazione e ai c.d. piani attestati (art. 67, terzo comma, lett. d, L.F.). Per quanto concerne gli accordi di ristrutturazione, molti hanno evidenziato le grandi potenzialità dell'istituto. E’ infatti indubbio che il debitore possa avvantaggiarsi di una procedura che, per il fatto di non essere pubblica nella sua prima fase, consente trattative riservate con i creditori e che permette, tramite l'omologazione da parte del tribunale, di beneficiare dell'esonero da revocatoria.

Il nuovo istituto risulta tuttavia essere stato scarsamente utilizzato (18a) e pochi risultano essere stati i provvedimenti di omologa (18e)

Tra le ragioni del ridotto numero di accordi, è da ritenere che abbia avuto rilievo l’incertezza nella disciplina contenuta nel D.Lgs n. 5/2006, che non chiariva quali ne

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fossero i presupposti, il contenuto e gli effetti.

Ciò ha determinato il sorgere di numerosi nodi interpretativi.

Ci si è interrogati, innanzitutto, sui presupposti dell'istituto.

Mentre l'art. 1 L.F. individua il presupposto soggettivo della dichiarazione di fallimento e dell’ammissione alla procedura di concordato preventivo nella qualità di imprenditore medio-grande, l’art. 182 bis L.F. si limitava infatti ad indicare come soggetto legittimato a depositare l’accordo il debitore (18b)

Sul presupposto soggettivo, pertanto, l'interrogativo che ci si è posti è stato quello se potessero proporre l'accordo soltanto gli imprenditori commerciali non piccoli ovvero se questa soluzione fosse esperibile anche dagli esclusi dalla procedura fallimentare (e di concordato preventivo): il dato raccolto dall’Assonime ha mostrato come siano stati presentati accordi da questi ultimi soggetti solo avanti al Tribunale di Roma

Quanto al presupposto oggettivo, ci si è chiesti se fosse sufficiente che il debitore versasse in stato di crisi o se fosse necessario lo stato di insolvenza.

L’ultimo intervento del legislatore ha in primo luogo precisato i presupposti dell'istituto.

Con il decreto correttivo si è in particolare affermato che la

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domanda va presentata dall'imprenditore in stato di crisi, così chiarendosi che l’ambito di applicazione dell’istituto coincide con quello del concordato preventivo.

Peraltro, si segnala che parte della dottrina continua a sostenere, anche dopo l’intervento correttivo, che la domanda possa essere formulata anche da chi non è imprenditore commerciale e, quindi, anche dall'imprenditore agricolo e dall'imprenditore che non soddisfa i requisiti dimensionali stabiliti dall'art. 1 L.F. –

Tuttavia, tale interpretazione non sembra corretta, atteso che la disciplina degli accordi di ristrutturazione è inserita a pieno titolo nel contesto della legge fallimentare, l’art. 182 bis L.F. riformato utilizza la stessa formula definitoria di cui all’art. 160 L.F. e, infine, l’accordo di ristrutturazione è diretto ad ottenere il beneficio dell'esonero dall’azione revocatoria fallimentare, con la conseguenza, pertanto, che risulta assai difficile, se non addirittura impossibile, ritenere che l’istituto in questione non riguardi il solo imprenditore commerciale di cui all’art. 1 L.F. –

Il presupposto oggettivo, inoltre, è stato ora precisato nello stato di crisi, ma è ragionevole ritenere che anche l'imprenditore in stato d'insolvenza possa proporre domanda, posto che l'art. 160, secondo comma, L.F. prevede tale possibilità nel caso di concordato preventivo, precisando che lo stato di crisi comprende lo stato d'insolvenza.

Inoltre, nel contesto della Relazione illustrativa è stato

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specificato il concetto di “regolare pagamento dei creditori estranei”, la dove si è affermato che “nulla è stato cambiato quanto alla necessità che i creditori estranei all’accordo vedano il loro credito pagato in modo regolare, ossia per l’intero e alla scadenza”.

E’ stata pertanto risolta in senso negativo la questione se i creditori estranei possano essere soddisfatti nella stessa percentuale offerta ai creditori aderenti; nonchè, conseguentemente, il quesito se gli accordi di ristrutturazione dei debiti costituiscano una variante procedimentale semplificata del concordato preventivo e siano, pertanto, riguardati dagli effetti conseguenti alla domanda di ammissione ed alla omologazione del concordato (artt. 168 e 184 L.F.).

A definitiva conferma dell’autonomia dell’istituto rispetto al concordato preventivo si pone, infine, il nuovo secondo comma dell’art. 182 bis L.F., introdotto dal decreto correttivo, con cui si è prevista, nelle more del procedimento omologatorio e comunque per un tempo non superiore a sessanta giorni, la sospensione ope legis degli atti esecutivi e delle azioni cautelari sul patrimonio del debitore.

Tale periodo di inibitoria, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe facilitare l’esecuzione dell’accordo, senza rischi di eventi impeditivi.

Tuttavia, si deve rilevare come la pendenza di un procedimento mediante il quale si voglia perseguire una

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soluzione della crisi di impresa dovrebbe essere ostativa ad iniziative che tendano ad intralciarne il corso sino alla sua conclusione.

In effetti, sarebbe stato più efficace precludere ai creditori non aderenti ogni iniziativa cautelare o esecutiva non solo per sessanta giorni, ma fino alla definitività del decreto di omologazione o di rigetto dell’accordo, tanto più che i creditori estranei all’accordo sono in ogni caso legittimati ad opporsi all’omologazione e a proporre reclamo avanti alla corte di appello avverso il decreto di omologazione.

D’altronde, la limitazione a soli sessanta giorni (dalla data di pubblicazione dell’accordo sul registro delle imprese) del divieto di azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore può:

- rivelarsi insufficiente ove siano presentate opposizioni all’omologazione;

- consentire di pregiudicare un accordo omologato in prima istanza, ove il termine di legge maturasse in pendenza del reclamo alla corte di appello: è di tutta evidenza, infatti, che il reclamante ovvero ogni altro creditore estraneo potrebbe in tal caso agire esecutivamente o cautelarmente nelle more del procedimento di reclamo.

Il legislatore è inoltre positivamente intervenuto anche con riguardo alla disciplina fiscale, prevedendo anche per gli accordi di ristrutturazione che il debitore possa effettuare la proposta di transazione, prevista per il concordato

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preventivo dall'art. 182 ter, primo comma, L.F., nell'ambito delle trattative che precedono la stipula dell'accordo.

In tal modo si è inteso rimuovere, come indicato dalla Relazione illustrativa, uno dei maggiori ostacoli all'utilizzo degli accordi stragiudiziali.

Tuttavia, e probabilmente tale circostanza rappresenterà il maggior ostacolo all’applicazione dell’istituto, non è stato chiarito se il c.d. bonus di concordato, ovvero l'esclusione della tassabilità della plusvalenza costituita dalla riduzione del passivo, prevista per il concordato, si applichi anche agli accordi di ristrutturazione.

4. Soglie di fallibilità

Uno degli obiettivi principali della riforma del 2006 era quello di ridurre il novero dei soggetti per i quali poteva essere dichiarato il fallimento, con finalità principalmente ‘deflattiva’ sulle attività dei tribunali e di semplificazione complessiva del sistema di liquidazione dei crediti (2a)

La disciplina sulle soglie di fallibilità introdotta dal D.Lgs. n. 5/2006 ha in effetti determinato una drastica riduzione delle procedure aperte (pari, in media, al 45/50%), forse anche al di là delle previsioni del legislatore.

Il decreto correttivo ha pertanto interamente riscritto l’art. 1 L.F., abolendo ogni riferimento alla nozione di piccolo imprenditore, rivedendo i requisiti dimensionali previsti per l’esclusione del fallimento, prevedendo che l’onere della

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prova del possesso congiunto delle soglie di fallibilità gravi sul debitore.

E’ stato in particolare introdotto un terzo requisito dimensionale, rappresentato dall'entità dell'indebitamento e si è inoltre previsto che non potrà farsi luogo a fallimento soltanto quando risulti il possesso congiunto dei tre requisiti dimensionali, relativi all’attivo patrimoniale, ai ricavi lordi e all'ammontare dei debiti, anche non scaduti.

Il legislatore del correttivo ha inoltre risolto, in termini negativi, la questione della residua possibilità di applicare l’art. 2083 cod.civ., sopprimendo ogni riferimento a tale norma.

Peraltro, secondo alcuni interpreti, in forza dell'art. 2221 cod.civ. sarebbe pur sempre possibile ritenere sottratti al fallimento i piccoli imprenditori che siano tali ai sensi della definizione dettata dall'art. 2083 cod.civ. –

Soluzione, peraltro, da ritenersi inaccettabile alla luce dei lavori preparatori e del testo della legge delega, proponentesi la deflazione dei fallimenti (impossibile se la tesi in esame fosse fondata) e della stessa ratio del legislatore del decreto correttivo.

E’ pertanto ragionevole ritenere che l'art. 2221 cod.civ. debba ritenersi abrogato per essere stata la materia interamente regolata ex novo.

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Infine, la chiara affermazione che l'onere della prova della sussistenza dei requisiti in parola grava sul debitore risolve la querelle sorta in materia subito dopo l'entrata in vigore della riforma del 2006, secondo il criterio per cui la prova deve essere data da chi è in genere in possesso dei dati e documenti ad essa relativi, e dunque dal debitore (e non dal creditore, che nulla può sapere in proposito) (2b) Al riguardo, si era infatti osservato da alcuni tribunali che, costituendo i limiti dimensionali elementi costitutivi della domanda di fallimento, l’onere probatorio relativo avrebbe dovuto gravare sul creditore.

Il legislatore del correttivo non ha così inteso in alcun modo “premiare” (come si legge nella Relazione illustrativa accompagnatoria) chi non voglia prestare collaborazione nel corso dell’istruttoria prefallimentare, scegliendo di non difendersi o di non fornire la documentazione contabile necessaria per l’accertamento della sussistenza dei parametri quantitativi.

Vero è, infatti, che l’imprenditore può avere interesse a fallire, per poi beneficiare dell’esdebitazione o, più semplicemente, per sottrarsi alle azioni esecutive individuali o, ancora, per proporre un concordato fallimentare.

Il fallimento, a seguito della riforma del 2006, è d’altronde divenuto una tecnica di liquidazione dell’insolvenza e può pertanto certamente rappresentare un risultato appetibile per l’imprenditore, venute fra l’altro meno le cause di indegnità

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e di incapacità previste dalla legge del 1942.

La sussistenza di tale onere a carico del fallendo non esonera peraltro il giudice dall'utilizzare i poteri istruttori d’ufficio, che sono stati mantenuti dal nuovo testo dell'art. 15 L.F. e ai quali egli dovrà far ricorso tutte le volte che gli elementi forniti dalle parti non consentano di porre rimedio ad una situazione di incertezza.

La soluzione prescelta merita consenso perché pone l’onere della prova a carico della parte per cui è più agevole assolverlo, senza però che venga meno l’onere del giudice di integrare la prova nel caso in cui la situazione sia incerta.

5. Diritto transitorio

L'art. 150 del D.Lgs. n. 5/2006 disponeva che i ricorsi per la dichiarazione di fallimento e le domande di concordato fallimentare depositate prima dell'entrata in vigore del presente decreto, nonché le procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti alla stessa data, fossero definiti secondo la legge anteriore.

Tale disposizione ha sollevato dubbi interpretativi in merito alla disciplina applicabile ai fallimenti dichiarati dopo la data di entrata in vigore della nuova legge fallimentare (16 luglio 2006), sulla base di ricorsi presentati antecedentemente alla data stessa.

La norma transitoria ha aperto due filoni interpretativi (1a):

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- secondo una prima tesi, l'intera procedura fallimentare avrebbe dovuto essere regolata dalla vecchia normativa, in virtù dell’unitarietà della procedura e per esigenze di certezza del diritto;

- secondo altro orientamento, invece, la nuova disciplina avrebbe dovuto applicarsi a tutti i fallimenti dichiarati dopo tale data.

Il primo filone interpretativo si è dimostrato maggioritario. I tribunali sono stati infatti quasi unanimemente concordi nell'applicare la nuova disciplina solo ai ricorsi presentati dopo l'entrata in vigore della riforma e dunque dopo il 16 luglio 2006.

Strettamente connessa a questo problema è stata la questione della disciplina delle impugnazioni delle sentenze dichiarative di fallimento successive al 16 luglio 2006, sulla base di ricorsi proposti secondo il vecchio rito (6a)

Il problema che si è posto ha riguardato l’individuazione del rito applicabile, camerale o ordinario, e dunque se l’impugnazione si dovesse proporre con opposizione, secondo la disciplina anteriore alla riforma, o con appello, secondo il nuovo testo dell'art. 18 L.F. –

L’indagine condotta dall’Assonime ha evidenziato come l'impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento, nel maggior numero dei casi, sia stata proposta con

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opposizione.

Rarissimi sono stati i casi di sospensione della liquidazione dell’attivo in ragione dell’impugnazione della sentenza (Tribunali di Firenze e Roma) (6b)

6. Azioni revocatorie

Con la nuova disciplina delle azioni revocatorie è stato sensibilmente ridotto il periodo sospetto anteriore al fallimento, entro il quale è compiuto l'atto soggetto a revoca.

La riduzione di tale periodo ha determinato una riduzione significativa del numero delle azioni revocatorie proposte (9a)

Anzi, è possibile affermare che tale diminuzione è stata drastica in ogni circondario. 7. Accertamento del passivo

Il dato relativo alla funzionalità del nuovo rito dell'accertamento del passivo è tendenzialmente positivo (11d)

Il problema più rilevante è stato quello relativo al rispetto dei termini di presentazione della documentazione

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necessaria ai fini dell'accertamento del passivo, in conseguenza del fatto che il legislatore della riforma del 2006 aveva previsto all'art. 93, settimo comma, L.F., la facoltà per i creditori di depositare i documenti non presentati con la domanda di insinuazione fino a quindici giorni prima dell'udienza di verifica, mentre l’art. 95 L.F. prevedeva che il curatore dovesse depositare il progetto di stato passivo nello stesso termine.

Ciò ha fatto sì che il curatore si potesse trovare a formare il progetto senza tener conto dei documenti depositati sì nei termini, ma troppo tardi perché egli ne potesse tener conto, con conseguenti deposito di un progetto di stato passivo non aggiornato e sfalsamento del dibattito processuale.

La questione è stata affrontata dal decreto correttivo, che ha abrogato l’art. 93, settimo comma, L.F. e modificato l'art. 95, secondo comma, L.F., prevedendo che i creditori possano ora esaminare il progetto di stato passivo redatto dal curatore e presentare osservazioni scritte e documenti integrativi fino all'udienza.

Il risultato è che il giudice delegato, quando i documenti siano presentati all'udienza, non potrà che rinviare la verifica a data successiva.

In questo modo si perpetuano i difetti del vecchio sistema previsto dalla legge del 1942.

Sarebbe stato probabilmente più opportuno modificare i termini, in modo tale che il termine di deposito dei

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documenti per i creditori scadesse prima del termine di redazione del progetto di stato passivo da parte del curatore.

Per quanto riguarda le domande di insinuazione tardive, il termine di presentazione è stato indicato nella sentenza dichiarativa di fallimento solo in pochi casi. Alcuni autori avevano infatti ritenuto che l'indicazione in sentenza di tale termine potesse rappresentare una semplificazione, evitando ulteriori comunicazioni agli organi della procedura.

La maggior parte dei tribunali non è stata peraltro di tale avviso e il decreto correttivo non contiene innovazioni sul punto.

Da rilevare, invece, che il decreto correttivo ha abrogato la norma che prevedeva che il giudice delegato, con il provvedimento di ammissione al passivo, effettuasse la graduazione dei crediti.

E’ prevalsa l’opinione, conforme alla giurisprudenza costante, che tale operazione debba essere eseguita in sede di riparto.

8. Esercizio provvisorio dell'impresa e affitto d'azienda

L’art. 104 L.F. ha introdotto la possibilità per il tribunale di disporre con la sentenza dichiarativa di fallimento l’esercizio provvisorio dell'impresa.

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Il secondo comma dell'art. 104 L.F. ha attribuito tale potere anche al giudice delegato, su istanza del curatore, previo parere favorevole del comitato dei creditori.

Il nuovo istituto, che consente la prosecuzione dei rapporti pendenti e la valorizzazione del patrimonio aziendale nel suo complesso, dovrebbe consentire di restituire in breve termine al mercato le imprese funzionanti, laddove possibile, e di evitare liquidazioni atomistiche dei beni del debitore (12a)

Tuttavia, tale strumento è stato scarsamente utilizzato nei primi mesi di applicazione della riforma.

Non risulta essere mai stato disposto con la sentenza dichiarativa di fallimento, ma sempre successivamente all'apertura della procedura dal giudice delegato, su proposta del curatore. Va peraltro detto che già in passato, nella vigenza della legge fallimentare del 1942, curatori e giudici delegati erano restii a ricorrere all'esercizio provvisorio per l’elevato rischio che ne derivassero debiti per la massa dei creditori (13a)

Più frequentemente è stato invece utilizzato lo strumento dell’affitto d’azienda.

9. Liquidazione dell'attivo

La fase della liquidazione dell'attivo è stata completamente

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ridisegnata dal D.Lgs. n. 5/2006.

In conformità dei principi ispiratori della riforma, in particolare di quelli del recupero dell’efficienza e della semplificazione operativa nelle regole procedurali, questa fase è venuta ad incentrarsi, per effetto della modifica del 2006, sulla predisposizione da parte del curatore del programma di liquidazione e sulla eliminazione dei rinvii alle norme sulle vendite delle esecuzioni coattive individuali.

La finalità di abbandonare il rinvio alle norme del codice di rito è stata quella di rendere possibile il ricorso ad un ampio numero di schemi e soluzioni negoziali, volti a consentire la massimizzazione del valore dell'attivo aziendale.

Il decreto correttivo è intervenuto in misura rilevante sulla disciplina introdotta dalla riforma.

L'intervento sembra, tuttavia, rappresentare un passo indietro rispetto agli obiettivi fissati e raggiunti con le modifiche del 2006.

Ma di questo si parlerà più approfonditamente nella seconda parte della giornata, coinvolgendo tale questione una rivisitazione del ruolo degli organi della procedura.

10. Esdebitazione e riabilitazione

L’art. 142 L.F., come modificato dal legislatore del 2006, ha previsto l'istituto dell’esdebitazione, istituto grazie al

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quale il fallito, qualora ricorrano determinate condizioni, può essere ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorrenti.

Con tale disposizione è stato implicitamente abrogato il precedente istituto della riabilitazione dalle incapacità personali che colpivano il fallito per effetto della sentenza dichiarativa di fallimento.

La questione interpretativa riguarda il rapporto tra la riabilitazione e l’esdebitazione, ed in particolare:

a) l’applicabilità del vecchio istituto a soggetti dichiarati falliti prima del 16 luglio 2006;

b) la possibilità di concedere l’esdebitazione ai soggetti dichiarati falliti in vigenza della vecchia disciplina.

Ora, presso molti tribunali sono state presentate istanze per ottenere la riabilitazione.

Alcuni tribunali hanno pronunciato il non luogo a provvedere in ragione di una riabilitazione ex lege.

Altri tribunali hanno invece dichiarato le istanze inammissibili e ordinato la cancellazione del debitore dal registro dei falliti.

Domande per ottenere l’esdebitazione per i soggetti dichiarati falliti prima dell'entrata in vigore della riforma sono state sì presentate, ma sono state per lo più rigettate.

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Il decreto correttivo ha previsto, nell’ambito della disciplina transitoria, che l’esdebitazione si applichi anche ai fallimenti dichiarati prima del 16 luglio 2006 e che, in tal caso, ove il fallimento risulti chiuso, la domanda possa essere presentata entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto correttivo.

La riforma del 2006 prevedeva, inoltre, che rimanessero al di fuori dall’esdebitazione soltanto i debiti derivanti da rapporti di “natura strettamente personale”.

Il decreto correttivo ha invece ora stabilito che l’ex fallito rimanga vincolato per tutti i debiti “estranei all’esercizio dell’impresa”, formula che riduce i vantaggi derivanti dal beneficio e che si presta a problemi interpretativi (le obbligazioni derivanti da una fideiussione prestata a favore di una società terza sono o meno estranee all’esercizio dell’impresa?

Avv. Francesco Tardella