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La penultima sfida, a Napoli Il ceto politico del maggioritario Ottorino Cappelli Che il deputato sia eletto dalla maggioranza degli elettori è una supposizione legale, che per quanto formi la base del nostro sistema di Governo, per quanto sia ciecamente accettata da tutti, pure si trova in perfetta contraddizione col fatto reale... Chiunque abbia assistito ad una elezione sa be- nissimo che non son gli elettori che eleggono il Deputato, ma ordinariamente è il Deputato che si fa eleggere dagli elettori: se questa dizione non piacesse, potremmo surrogarla con l’altra che so- no i suoi amici che lo fanno eleggere. (Gaetano Mosca, Elementi di scienza politica) Uno degli effetti più rilevanti delle prime elezioni maggioritarie svoltesi in Italia il 27 e 28 marzo 1994 è indubbiamente quello di aver favorito, o comunque messo in luce, due tendenze destinate ad avere un impatto profondo sul sistema politico italiano. Da un lato, la polarizzazione del conflitto lungo l’asse destra-sinistra, dove però entrambi i poli, e segnatamente il primo, presentano un alto grado di disomogeneità interna. Dall’al- tro lato, la divisione del paese in distinte aree geopolitiche. Queste due tendenze si so- no intersecate producendo un quadro politi- co nuovo ed un ceto politico parlamentare, di governo e di opposizione, molto differen- ziato sia in termini sociologici, politici e cul- turali, sia in termini di radicamento territo- riale. Qui analizziamo il profilo sociopolitico, i valori e le opinioni di una sezione territorial- mente definita di questo ceto politico: i can- didati e gli eletti dei collegi uninominali di Camera e Senato nell’area di Napoli e pro- vincia. Lo studio è basato su un questiona- rio fatto compilare durante la campagna elettorale. Una parte del questionario utiliz- Questo saggio presenta i primi risultati di una ricerca condotta durante la campagna elettorale del marzo 1994. Una monografia più estesa è in via di pubblicazione. Un ringraziamento non formale va a Rita Di Leo, titolare della cattedra di Politica comparata presso l’Istituto universitario orientale, che ha creduto fin dall’inizio alla realizzabi- lità di un progetto che poteva apparire fin troppo ambizioso; e ad Aris Accornero, che ha contribuito con preziosi suggerimenti alla costruzione del questrionario. Robert D. Putnam, Percy Allum, Mauro Calise, Annarita Crisci- tiello, Guido D’Agostino, Gianni Riccamboni e Salvatore Vassallo mi hanno variamente incoraggiato con critiche e suggerimenti. Ma il contributo essenziale, senza il quale nulla sarebbe stato possibile, è venuto dai circa venti stu- denti, laureandi e collaboratori della cattedra di Politica comparata, che con grande entusiasmo e determinazione hanno inseguito, rintracciato e intervistato decine di candidati durante una campagna elettorale particolarmente te- sa e difficile. Da questa esperienza sul campo hanno imparato in un mese più di quanto noi saremmo riusciti ad in- segnar loro nell’intero anno accademico. Un particolare ringraziamento, per la loro cortese disponibilità, va anche ai responsabili degli uffici elettorali del Pds e del Msi, dottori Tarantino e De Marco. “Italia contemporanea”, dicembre 1994, n. 197

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La penultima sfida, a NapoliIl ceto politico del maggioritario

Ottorino Cappelli

Che il deputato sia eletto dalla maggioranza degli elettori è una supposizione legale, che per quanto formi la base del nostro sistema di Governo, per quanto sia ciecamente accettata da tutti, pure si trova in perfetta contraddizione col fatto reale... Chiunque abbia assistito ad una elezione sa be­nissimo che non son gli elettori che eleggono il Deputato, ma ordinariamente è il Deputato che si fa eleggere dagli elettori: se questa dizione non piacesse, potremmo surrogarla con l’altra che so­no i suoi amici che lo fanno eleggere.

(Gaetano Mosca, Elementi di scienza politica)

Uno degli effetti più rilevanti delle prime elezioni maggioritarie svoltesi in Italia il 27 e 28 marzo 1994 è indubbiamente quello di aver favorito, o comunque messo in luce, due tendenze destinate ad avere un impatto profondo sul sistema politico italiano. Da un lato, la polarizzazione del conflitto lungo l’asse destra-sinistra, dove però entrambi i poli, e segnatamente il primo, presentano un alto grado di disomogeneità interna. Dall’al­tro lato, la divisione del paese in distinte aree geopolitiche. Queste due tendenze si so­no intersecate producendo un quadro politi­

co nuovo ed un ceto politico parlamentare, di governo e di opposizione, molto differen­ziato sia in termini sociologici, politici e cul­turali, sia in termini di radicamento territo­riale.

Qui analizziamo il profilo sociopolitico, i valori e le opinioni di una sezione territorial­mente definita di questo ceto politico: i can­didati e gli eletti dei collegi uninominali di Camera e Senato nell’area di Napoli e pro­vincia. Lo studio è basato su un questiona­rio fatto compilare durante la campagna elettorale. Una parte del questionario utiliz-

Questo saggio presenta i primi risultati di una ricerca condotta durante la campagna elettorale del marzo 1994. Una monografia più estesa è in via di pubblicazione. Un ringraziamento non formale va a Rita Di Leo, titolare della cattedra di Politica comparata presso l’Istituto universitario orientale, che ha creduto fin dall’inizio alla realizzabi­lità di un progetto che poteva apparire fin troppo ambizioso; e ad Aris Accornero, che ha contribuito con preziosi suggerimenti alla costruzione del questrionario. Robert D. Putnam, Percy Allum, Mauro Calise, Annarita Crisci- tiello, Guido D ’Agostino, Gianni Riccamboni e Salvatore Vassallo mi hanno variamente incoraggiato con critiche e suggerimenti. Ma il contributo essenziale, senza il quale nulla sarebbe stato possibile, è venuto dai circa venti stu­denti, laureandi e collaboratori della cattedra di Politica comparata, che con grande entusiasmo e determinazione hanno inseguito, rintracciato e intervistato decine di candidati durante una campagna elettorale particolarmente te­sa e difficile. Da questa esperienza sul campo hanno imparato in un mese più di quanto noi saremmo riusciti ad in­segnar loro nell’intero anno accademico. Un particolare ringraziamento, per la loro cortese disponibilità, va anche ai responsabili degli uffici elettorali del Pds e del Msi, dottori Tarantino e De Marco.

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za domande elaborate dal Comparative Eli­tes Project sponsorizzato dalla Michigan University nei primi anni settanta, e fa rife­rimento, in particolare, alla sezione su Ita­lia, Gran Bretagna e Germania occidentale diretta da Robert D. Putnam. Ciò consente di inserire il caso Italia, e in particolare il ca­se study sub-regionale di cui ci occupiamo, in un quadro comparato di più ampio respi­ro. Abbiamo scelto di studiare gli uomini piuttosto che i partiti perché mai come nelle ultime elezioni essi apparivano tanto in crisi. Travolti dal clima antipartitocratico inne­scato dalle campagne referendarie e dalle in­dagini giudiziarie, emarginati dalla persona­lizzazione del confronto politico veicolata dai media, simboli, appartenenze, strutture organizzative che per mezzo secolo avevano dominato la scena politica italiana sembra­vano doversi dissolvere nel nulla. “Votare il candidato non il partito” era lo slogan del Grande Cambiamento1. Poteva la ricerca non adeguarsi? Studiamo dunque il candi­dato, non il partito. La nostra attenzione esclusiva va ai collegi uninominali poiché è precisamente da quegli scontri elettorali, che la retorica della riforma voleva ad alto tasso di novità, che ci si attendeva l’emergere di un nuovo ceto politico, di un nuovo stile po­litico e, in prospettiva, di un diverso sistema politico. Ci interessa dunque capire che tipo di persone si sono schierate sul fronte della battaglia uninominale, e quali siano le carat­teristiche di quelli che tra loro sono risultati eletti.

Infine, la scelta del napoletano come case study è giustificata, in prima battuta da due fattori. Innanzitutto il voto nel napoletano, apparentemente in “controtendenza” se comparato al dato complessivo nazionale, è in realtà piuttosto rappresentativo di ciò che

è avvenuto nella maggior parte dei collegi uninominali del Mezzogiorno peninsulare: vittoria della sinistra, sia pur di misura; scomparsa quasi totale delle forze politiche di centro a livello di seggi (ma non di voti); e nettissima affermazione, alTinterno della coalizione di destra, dei candidati di Allean­za nazionale-Msi. In secondo luogo, vi sono una serie di elementi che fanno ritenere che la competizione elettorale appena conclusasi abbia rappresentato, in particolare nell’Ita­lia meridionale, solo la “penultima sfida” : qui non vi è stata quella affermazione nettis­sima che ha caratterizzato la vittoria della destra in gran parte del Nord o della sinistra nelle tradizionali zone rosse dell’Italia cen­trale2. Il relativo equilibrio delle forze in quest’area geopolitica, e in particolare in Campania e nel napoletano, lascia ritenere che qui si svolgerà una parte cruciale della prossima sfida, quella decisiva per consoli­dare o per ribaltare gli attuali rapporti di forza nel paese. Se è così, il ceto politico emerso qui dalla competizione elettorale si troverà a svolgere un ruolo di grande rilievo nei prossimi anni, sia che faccia parte della maggioranza sia che si trovi schierato all’op­posizione.

In relazione a questo quadro complessivo, e con particolare riferimento allo scenario meridionale e napoletano, la nostra ricerca individua tre cruciali nodi problematici.

Le caratteristiche dell’offerta. Secondo le aspettative di molti riformatori, la “moder­nizzazione maggioritaria” avrebbe dovuto sospingere il nostro sistema politico verso un tipo di competizione bipartitica ad anda­mento centripeto. In questo contesto le for­ze in campo si sarebbero tendenzialmente omologate al modello del catch-ali party, re­

1 Una esposizione lucida e articolata di questo argomento riformatore si trova in Gianfranco Pasquino (a cura di), Votare un solo candidato, Bologna, Il Mulino, 1992.

Per una prima analisi dell’andamento del voto rimandiamo a Ilvo Diamanti, Renato Mannheimer, Milano a Ro­ma. Guida all’Italia elettorale del 1994, Roma, Donzelli, 1994.

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clutando un ceto politico sostanzialmente omogeneo, inteso alla conquista indiscrimi­nata dei voti su un mercato elettorale fluido e aperto. Si tratterebbe di uno scenario “americano” , con partiti deboli e poco dif­ferenziati e una competizione elettorale alta­mente personalizzata, ma priva di forti e chiari contenuti politici o ideologici. La stes­sa contrapposizione destra/sinistra sarebbe così una vecchia botte senza vino, una ritua­le e sterile riproposizione di steccati ormai superati3. Anticipiamo qui che i nostri dati mostrano che, al contrario, i candidati e gli eletti dei diversi schieramenti presentano forti differenze di fondo, secondo quasi tutti gli indicatori utilizzati. Ciò suggerisce che le strategie di reclutamento, e dunque l’offerta politica, riflettono la natura per nulla omo­genea delle forze politiche e forse, si potreb­be aggiungere, rispondono a diversi tipi di domanda politica, si rivolgono cioè a bacini elettorali di riferimento tra loro molto diver­sificati.

La logica della rappresentanza. Nella transi­zione ad un sistema maggioritario, cambian­do le regole in base alle quali si compete e si vince, dovrebbero cambiare la logica della rappresentanza, le strategie elettorali, lo stesso codice operativo della politica. Do­vrebbe risultare privilegiato il localismo, la capacità individuale dei candidati di dar vo­ce alle esigenze di specifiche realtà locali a scapito di tutto ciò che ne trascenda i confi­ni, e penalizzato invece lo spirito di partito, con tutti i suoi connotati organizzativi e ideologici di coesione, di appartenenza e di identificazione. Sarebbe ancora una volta

uno scenario “americano” , poiché in altri sistemi maggioritari ciò non avviene. In Gran Bretagna, ad esempio, il maggiorita­rio convive con partiti nazionali forti e strutturati, divisi da chiare linee di demar­cazione ideologica e da una profonda, stori­ca frattura sociale. Questo tema del “locali­smo” contro lo “spirito di partito” sarà uno dei filoni portanti della nostra analisi. In che misura il cambiamento del sistema elet­torale sta effettivamente contribuendo a mutare la natura e il codice operativo dei soggetti della rappresentanza dei partiti e del loro ceto politico? E quale scenario idealtipico si profila all’orizzonte del nostro sistema politico, quello americano o quello britannico? Per quanto è dato di vedere dal nostro osservatorio, nessuna delle due alter­native si è ancora chiaramente delineata. Questo è un altro dei motivi per cui parlia­mo di queste prime elezioni maggioritarie come della “penultima sfida” .

La destra del Sud. Nell’Italia del 1994, il maggioritario ha sgretolato il centro, rimet­tendo in campo la destra, e al tempo stesso ha spaccato politicamente il paese. Questo è macroscopicamente evidente a livello nazio­nale, poiché è sostanzialmente la vittoria plebiscitaria della destra al Nord che deter­mina gli attuali equilibri politici: la maggior parte dei parlamentari eletti nel Centro-Sud, infatti, appartengono all’opposizione4. Ma la frattura è visibile anche all’interno delle stesse forze governative, nella contrapposi­zione tra la Lega, che esprime il gruppo più folto di parlamentari eletti nei collegi del Nord, e Alleanza nazionale, che è largamen-

3 Una appassionata disamina critica di questo tipo di argomentazioni è in Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ra­gioni e significati di una distinzione politica, Roma, Donzelli, 1994.4 Si considerino i seguenti dati. Su un totale di 630 deputati, 367 (il 58,2 per cento) appartengono ai gruppi parla­mentari che sostengono l’attuale maggioranza. Ma dei 241 deputati eletti nelle regioni settentrionali, l’attuale mag­gioranza ne conta 191 (il 79,2 per cento): mentre dei rimanenti 389 provenienti dalle altre regioni, appartengono al­la maggioranza solo 176 deputati (il 45,2 per cento). Di questi 176, ben 100 (il 57 per cento) sono di Alleanza nazio­nale.

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te egemone tra i parlamentari di destra eletti nel Mezzogiorno. Nei collegi di Napoli e del Sud, infatti, destra significa quasi esclusiva- mente Alleanza nazionale. E d’altronde so­no rarissimi i parlamentari di An eletti a nord del Lazio5. Da ciò discendono due con­siderazioni. Primo, è che il Mezzogiorno, dove la destra è stata sconfitta solo di misu­ra, sarà nel prossimo futuro un luogo cru­ciale della lotta politica: se infatti gli equili­bri si ribalteranno qui in favore della destra, la frattura Nord-Sud si potrà “ricucire” , al­meno sul piano dei numeri parlamentari. Se­condo, che il Mezzogiorno è il luogo dove si delineerà la futura fisionomia ideologica e politica della destra italiana: se continuerà la sua avanzata al Sud, Alleanza nazionale riu­scirà a imporre una forte ipoteca al resto di questo schieramento. Per An dunque con­quistare il Sud sarà un obiettivo assoluta- mente prioritario. Se ciò è vero, allora è molto importante conoscere meglio il ceto politico di questa “Destra del Sud” , sia pu­re, per il momento, attraverso l’osservatorio napoletano. Quali sono i suoi peculiari tratti distintivi? E sono effettivamente giustificati i timori espressi da molti osservatori, in Ita­lia e all’estero, all’indomani delle elezioni? Quel che possiamo dire alla luce della nostra indagine è che la destra napoletana presenta un profilo al tempo stesso fortemente elitista e marcatamente populista, e mostra una ac­centuata diffidenza, quando non ostilità,

verso le regole e le istituzioni della democra­zia parlamentare. Sono atteggiamenti politi­ci assai diversi da quelli tipici di una destra “modello Tory” , di ispirazione liberista e di sicuro orientamento liberaldemocratico, di cui tanti auspicavano la nascita6.

In ultimo, converrà avvertire che non è nostro primario obiettivo cercare di spiegare i motivi della vittoria elettorale di uno schie­ramento e della sconfitta dell’altro. Meno che mai intendiamo farlo considerando co­me variabile indipendente gli orientamenti e le preferenze politiche dell’elettorato. Ci in­teressa l’offerta più che la domanda, e la nostra variabile indipendente non è chi sce­glie, ma chi cerca di farsi scegliere. Compa­rando perciò le caratteristiche dei due sotto­gruppi del nostro campione (i candidati e gli eletti), cercheremo di mettere in luce per cia­scuno schieramento quelle caratteristiche che si associano con maggiore regolarità alla “ fortuna elettorale” dei rispettivi candidati. Ovvero, per dirla con Gaetano Mosca, quei tratti che qualificano chi è capace di “ farsi eleggere” dai propri elettori.

Il campione e il questionario

Il nostro campione abbraccia esattamente la metà dell’intero universo dei candidati pre­sentatisi nei 37 collegi uninominali del napo­letano (87 individui), e il 64 per cento degli

5 Dei 109 deputati di An, ad esempio, 94 vengono dal Mezzogiorno o dal Lazio e solo 15 dalle altre regioni dell’Italia centrale o settentrionale. Si noti anche che dei 17 membri di An presenti nell’esecutivo ben tre sono stati eletti in collegi del napoletano: i sottosegretari Antonio Parlato, Antonio Rastrelli e Francesco Pontone. Altri 3 sottosegretari vengono dall’Italia centrale: Maurizio Gasparri (Lazio), Giulio Conti (Marche), Filippo Berselli (Emilia); 1 dalla Calabria (Fortunato Aloi); e 5 dalle isole: Carmelo Porcu e Gian Franco Anedda (Sar­degna); Guido Lo Porto, Domenico Nania e Vincenzo Trantino (Sicilia). Dei 5 ministri di An, 1 è stato eletto in Toscana (Altero Matteoli), 2 nel Lazio (Publio Fiori e Domenico Fisichella) e 2 in Puglia (Giuseppe Taran­tella e Adriana Poli Bortone).6 Esistono a tutt’oggi pochissimi studi politologici che affrontino in modo sistematico il tema dell’identità storica, politica e culturale del Msi. Cfr. per tutti Piero Ignazi, Il polo escluso. Profilo del Movimento sociale italiano, Bo­logna, Il Mulino, 1987. Questo grave ritardo va probabilmente attribuito alla previsione, inopinatamente contrad­detta dagli eventi recenti, che “senza una ‘Bad Godesberg’ che ridefinisca in maniera definitiva, visibile e traumati­ca il problema del rapporto tra Movimento sociale e democrazia, il polo di destra del sistema politico italiano è de­stinato a rimanere escluso da ogni ipotesi coalizionale” (P. Ignazi, Il polo escluso, cit., p. 414).

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eletti, inclusi gli eletti con il recupero pro­porzionale (29 individui). Tutti sono stati in­tervistati prima della conclusione della cam­pagna elettorale. Dei tre schieramenti princi­pali, gli unici che hanno ottenuto seggi, ab­biamo sempre raggiunto almeno il 50 per cento dei candidati. Tra gli eletti, la propor­zione degli intervistati è del 57 per cento per la Destra e supera il 68 per cento per la Sini­stra (l’unico eletto del centro, pure rientra nel nostro campione). Meno coperte, invece, le 13 liste minori “fuori schieramento” , che non hanno espresso alcun vincitore. Le 16 persone intervistate (che comunque costitui­scono il 25 per cento di questo gruppo di complessivi 65 candidati), sono concentrate nelle liste più numerose e visibili: l’Ucr e la Lista Pannella, di cui è stato intervistato il 45 per cento dei candidati7.

Per le interviste abbiamo adoperato il me­todo del questionario strutturato chiuso, au­tocompilato alla presenza di un nostro colla­boratore che spiegava le finalità della ricer­ca. Il questionario era composto di due par­ti: la prima volta a fornire una “sociologia politica” dei candidati; la seconda intesa alla rilevazione dei loro valori fondamentali, delle motivazioni, della percezione del ruolo e delTatteggiamento verso alcuni cruciali principi democratici. Un gruppo di doman­de di quest’ultima parte sono state tratte da quelle elaborate per il Comparative Elites Project8. Non accade spesso nelle scienze so­ciali che alcuni ricercatori adottino strumen­

ti elaborati da altri, con il risultato che trop­po spesso il patrimonio di conoscenze acqui­sito è difficilmente cumulabile e soprattutto la comparazione diacronica diventa impossi­bile. La nostra scelta è andata nella direzio­ne contraria. È bene sottolineare, tuttavia, che sotto alcuni aspetti il nostro campione non può considerarsi immediatamente com­parabile con quelli utilizzati dal Comparati­ve Elites Project. Le difficoltà sorgono da tre fattori: in primo luogo il nostro campio­ne è su base regionale anziché nazionale; in secondo luogo esso include non solo parla­mentari in carica ma anche candidati che so­no poi risultati non eletti, e per di più le in­terviste sono avvenute nel corso della cam­pagna elettorale; infine, diversamente dal nostro, il progetto statunitense su alcuni te­mi si rivolgeva sia ad élite parlamentari che burocratiche (tuttavia, quando possibile ab­biamo scorporato i dati relativi ai soli parla­mentari). Nonostante queste difficoltà, non abbiamo voluto perdere la suggestiva occa­sione di offrire una base di confronto tra le risposte date ad alcune domande-chiave da­gli intervistati del nostro campione e dai parlamentari italiani (e stranieri) intervistati da Putnam e altri un quarto di secolo fa.

Sociologia di un ceto politico

L’analisi del profilo sociologico del nostro campione dovrà aiutarci a rispondere a due

7 Visto lo scarso peso politico oggettivo di queste liste nella campagna elettorale, non riteniamo che ciò costi­tuisca un serio handicap per la ricerca. Abbiamo anzi ritenuto di non dedicare una elaborazione separata alle caratteristiche e agli atteggiamenti di questo gruppo di individui, come facciamo invece per i principali schiera- menti. I dati ad essi relativi compaiono solo in forma aggregata nelle colonne “totale candidati” delle nostre ta­belle.8 II Comparative Elites Project della University o f Michigan durò 13 anni, dal 1968 al 1980. Oltre a Robert Put­nam ne erano responsabili Joel D. Aberbach e Bert A. Rockman (per la sezione sugli Stati Uniti); Ronald Inglehart e Thomas Anton (rispettivamente per la Francia e la Svezia); la sezione sui Paesi Bassi fu curata da Samuel J. El- dersveld, che era anche il coordinatore generale del progetto. I risultati di questi studi furono pubblicati in numero­si saggi e volumi. Quelli qui utilizzati sono: R.D. Putnam, The Beliefs o f Politicians: Ideology, Conflict and Demo­cracy in Britain and Italy, New Haven, Yale Uiversity Press, 1973; R.D. Putnam, The Comparative Study o f Poli­tical Elites, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1976; R.D. Putnam et al., Bureaucrats and Politicians in Western De­mocracies, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1981.

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quesiti. Il primo riguarda le strategie di re­clutamento. I diversi schieramenti, ci chie­diamo, presentavano nelle proprie liste un personale politico omogeneo o difforme quanto a caratteristiche sociologiche? In al­tre parole, ci sono e quali sono i tratti che distinguono il ceto politico (o aspirante tale) di destra, di sinistra e di centro? Il secondo quesito è se vi sia una correlazione tra que­ste caratteristiche dei candidati e la loro for­tuna elettorale. Non si tratta di fare qui l’i­potesi semplicistica che gli elettori privilegia­no nelle loro scelte certi “tipi” di candidati piuttosto che altri. Non diamo per scontata la mitologia del supermercato elettorale do­ve un “utente” indifferenziato si reca di vol­ta in volta a scegliere il candidato che più lo convince, magari considerandone l’età, il sesso, il profilo professionale, eccetera. Troppi indizi suggeriscono che gli schiera- menti si siano rivolti soprattutto a quello che consideravano il proprio “elettorato di riferimento” . E, siccome gli elettori votava­no in collegi uninominali, non potevano neanche scegliere, all’interno del “proprio” schieramento, questo o quel candidato. Tut­tavia, se apparisse con una certa regolarità che ciascuno schieramento riesce a fare eleg­gere un particolare tipo di candidato, questo andrebbe registrato. Come andrebbe regi­strata una eventuale difformità tra la com­posizione sociologica degli eletti e quella del­le liste. Si tratterebbe di indizi che mostrano come, sia pure in relazione ai diversi eletto­rati di riferimento in cui ciascuno schiera­mento tende soprattutto a pescare i propri voti, c’è un particolare tipo di candidato che riesce più facilmente di altri ad essere eletto, e su cui dunque conviene puntare: è questo che ci interessa capire, ed è questo ciò che intendiamo per “fortuna” (o “capacità di riuscita”) elettorale.

Il genere. Solo 15 donne (il 9 per cento del totale dei candidati) hanno partecipato alla competizione elettorale nei collegi uninomi­

nali di Napoli e provincia; e solo nel caso del collegio Napoli 1 per la Camera, dove corre­vano Alessandra Mussolini e Maria Fortuna Incostante, la principale competizione (quel­la destra-sinistra) avveniva tra due donne. Quasi la metà delle candidate (sette) erano nello schieramento di sinistra, due in quello di destra e una in quello di centro. Dunque la lista della sinistra era composta per il 19 per cento da donne: una proporzione quasi quadrupla rispetto alla destra e sei volte maggiore rispetto al centro. Ciò vuol dire che solo i progressisti hanno orientato la propria strategia di reclutamento in favore della componente femminile, e anch’essi in misura tutto sommato limitata. Di queste 15 candidate, solo 4 sono giunte in parlamento, e dunque le donne sono circa il 10 per cento del totale degli eletti nei collegi uninominali. Si tratta di Alessandra Mussolini (che, nata nel 1962, è la più giovane) per la destra; e di Ersilia Salvato, Maria Grazia Pagano e An­na Maria Procacci per la sinistra (tutte nella fascia d ’età compresa tra i 40 e i 49 anni). Si noti anche che tutte e quattro erano parla­mentari uscenti e dirigenti politici di notevo­le rilievo.

Si può dunque dire che, almeno sul terre­no del genere, il “nuovo” non sembra aver trionfato. È vero che l’offerta dei partiti era limitata, ma è anche vero che l’essere donna non si è rivelata una variabile indipendente e forse nemmeno una componente decisiva della fortuna elettorale di un candidato. Sembrerebbe anzi che più del genere possa aver pesato, in favore delle poche elette, l’autorevolezza di una posizione politico-i­stituzionale già conquistata precedente- mente.

L ’età. Solo tre i candidati “giovanissimi” (con meno di trent’anni), uno dei quali è il neosindaco De di Calvizzano, Giuseppe Sa- latiello, ventisette anni. Nonostante che in tutti gli schieramenti la maggior parte dei candidati si concentri nelle fasce di età 40-49

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e 50-59 anni, le liste più “giovani” sono de­cisamente quelle della destra, dove circa un quinto di candidati hanno tra i 30 e i 39 an­ni, mentre le liste più “anziane” sono quelle della sinistra. Per prendere una data simbo­lica: il 57 per cento dei candidati di destra è nato dopo la Liberazione, contro il 53 per cento dei candidati del centro e il 49 per cen­to di quelli di sinistra. Appare evidente che destra e sinistra hanno due strategie di reclu­tamento diverse quanto all’età dei propri candidati.

La composizione generazionale degli eletti dei due schieramenti però non riflette, anzi contraddice la composizione delle rispettive liste. La sinistra porta in parlamento più tentenni e quarantenni della destra, e gli eletti di destra comprendono proporzional­mente più cinquantenni e sessantenni. Si po­trebbe suggerire che su questo punto in en­trambi gli schieramenti le strategie di reclu­tamento non sono in sintonia con ciò che, in relazione ai rispettivi elettorati di riferimen­to, risulta associato alla fortuna elettorale di un candidato. Noi non abbiamo fondati ele­menti per sostenere che chi vota a destra tende a preferire i candidati anziani nono­stante l’offerta relativamente alta di giova­ni, mentre l’opposto accade per chi vota a sinistra. Se così fosse, se cioè l’età dei candi­dati avesse una qualsiasi influenza sull’esito del voto, la sinistra avrebbe dovuto puntare maggiormente sui giovani e la destra mag­giormente sui più anziani: esattamente il contrario di ciò che è avvenuto. Ciò che è certo, però, è che per un giovane aspirante parlamentare è comparativamente più facile ottenere una candidatura nelle liste della de­stra, ma è più facile ottenere l’elezione in una lista di sinistra. Un’età relativamente giovane risulta frequentemente in relazione con la fortuna elettorale di un candidato di sinistra; a destra questo è più raro.

L ’estrazione sociale. Come si vede dalla Ta­bella La, sono i candidati del centro ad ave­

re maggiormente una estrazione “popola­re”: quasi un terzo di loro dichiara di essere figlio di operai e, soprattutto, di coltivatori diretti o imprenditori agricoli, contro I’ll per cento dei candidati di destra e appena l’8 per cento di quelli di sinistra. I settori di oc­cupazione paterna più ricorrenti tra i candi­dati della destra sono invece il commercio e l’imprenditoria (16,6 per cento), mentre a si­nistra prevalgono le professioni medica e fo­rense e l’insegnamento. Curiosamente nelle liste della sinistra è anche proporzionalmen­te più facile trovare candidati il cui padre fosse un militare. I candidati di centro e di destra, dunque, hanno entrambi una estra­zione più popolare di quelli di sinistra, con una prevalenza al centro di origini contadi­ne. È interessante riassumere soprattutto la differenza tra destra e sinistra: vi sono più figli di medici, avvocati, insegnanti e profes­sori universitari tra i candidati di sinistra (ciò che chiamiamo origine “borghese-intel­lettuale”), e più figli di commercianti, im­prenditori, operai e “contadini” tra i candi­dati di destra (ciò che chiamiamo origine “popolare e piccolo-borghese”). Queste dif­ferenze si riproducono, e anzi si accentuano, se si considerano gli eletti di questi due schieramenti. Sia che guardiamo al recluta­mento sia che consideriamo la fortuna elet­torale di un candidato, la differenza tra de­stra e sinistra appare dunque piuttosto net­ta: un personale politico di estrazione socia­le comparativamente più borghese-intellet­tuale, trova più spazio nelle liste di sinistra ed è qui che ha maggiori probabilità di esse­re eletto. Queste considerazioni sul back­ground familiare possono essere completate da un rapido accenno alla condizione delle madri e delle mogli dei nostri intervistati (Tabella l.b). Innanzitutto notiamo come, comprensibilmente, i candidati di sinistra, provenienti da famiglie più “intellettualizza­te” o se si vuole “borghesi”, presentino il minor numero di madri casalinghe (60 per cento) rispetto ai candidati di estrazione più

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Tabella 1. - Il profilo sociologico

Candidati Elettia) Occupazione del padre

T otale Sin Des Cen Totale Sin Des

Professionisti e lavoratori autonomi 26.4 28.0 33.3 17.8 22.2 16.6 25.0— Medici e avvocati 14.9 5.7 3.4 3.4 11.1 11.1 0.0— Commercianti e imprenditori 11.5 8.0 16.6 7.0 1.1 5.5 25.0

Insegnanti e professori universitari 8.0 8.0 5.5 10.7 7.4 11.1 0.0

Operai e contadini 14.9 8.0 11.1 28.5 14.2 11.1 25.0— Operai 6.8 4.0 5.5 10.7 7.4 5.5 12.5— Coltivatori diretti e imprenditori

agricoli 8.0 4.0 5.5 17.8 7.4 5.5 12.5

Militari 10.3 12.0 5.5 7.0 14.2 16.6 12.5

b) Madri e mogli casalinghe Totale Sin Des Cen Totale Sin Des

Madri casalinghe 68.9 60.0 66.6 75.0 70.3 55.5 100.0Mogli casalinghe-1- 25.0 10.0 33.3 33.3 20.0 6.2 50.0

c) Livello di istruzione Totale Sin Des Cen Totale Sin Des

Liceo classico* 48.2 52.0 38.8 60.7 51.8 55.5 37.5Liceo scientifico* 18.3 16.0 16.6 21.4 11.1 11.1 12.5Istituti professionali* 13.7 20.0 11.1 10.7 22.2 22.2 25.0

Non laureati 17.3 20.0 27.8 14.3 26.0 22.3 37.5Laureati 82.7 80.0 72.2 85.7 74.0 77.7 62.5Laurea in :— Giurisprudenza 29.8 24.0 38.8 32.1 33.3 27.7 37.5— Medicina 21.8 12.0 22.2 21.4 14.8 11.1 25.0— Lettere 9.1 20.0 0.0 10.7 14.8 22.2 0.0— Economia, Sociologia, Scienze

Politiche 9.1 8.0 5.5 10.7 3.7 5.5 0.0— Ingegneria 4.5 4.0 5.5 7.1 3.7 5.5 0.0

d) Professione Totale Sin Des Cen Totale Sin Des

Medici 21.8 12.0 22.2 21.4 14.8 11.1 25.0Avvocati 16.0 4.0 27.7 17.8 18.5 5.5 37.5Insegnanti 13.7 28.0 5.5 10.7 14.8 22.2 0.0Professori universitari 6.8 12.0 0.0 10.7 11.1 16.6 0.0Funzionari medio-alto livello 10.3 16.0 5.5 10.7 11.1 16.6 0.0+ Dati relativi al solo campione maschile.* Solo l’80 per cento degli intervistati ha risposto a questa domanda.

La penultima sfida, a Napoli 661

popolare della destra (67 per cento) e soprat­tutto del centro (75 per cento) dove all’inter­no della componente popolare è prevalente l’origine contadina. Se dalla “tradizione” fa­miliare di origine si passa poi ad esaminare la situazione nella famiglia attuale dei candida­ti maschi, le differenze si fanno ancora più stridenti. Solo il 10 per cento dei candidati di sinistra ha una moglie casalinga, contro un terzo dei candidati degli altri due schiera- menti. In tutti i casi, dunque, vi è stata una notevole “modernizzazione” socio-culturale nelle famiglie: la gran parte dei candidati di tutti gli schieramenti non assomigliano ai propri padri nel pretendere, o nel tollerare, che le proprie compagne si dedichino esclusi­vamente al lavoro domestico. Ma questo “progresso” è notevolmente più visibile tra i progressisti che altrove. Infine, guardando agli eletti, notiamo che a sinistra si riduce ul­teriormente la percentuale di uomini con mo­gli non inserite nel mercato del lavoro. Ciò può anche essere messo in relazione con il già notato abbattimento dell’età media degli eletti di sinistra rispetto ai candidati del me­desimo schieramento: infatti un solo indivi­duo tra gli eletti di sinistra intervistati, Aldo Masullo, nato nel 1923, ha una moglie casa­linga. Lo stesso non si può dire per gli eletti di destra, poiché quelli con moglie casalinga sono quarantenni e cinquantenni.

Il livello di istruzione. Coerentemente con la loro più marcata origine popolare, i curricu­la studiorum dei candidati della destra pre­sentano la minore incidenza della maturità classica (39 per cento contro il 52 per cento della sinistra e il 61 per cento del centro) e la maggiore incidenza di non laureati: 28 per cento, contro il 20 per cento della sinistra e il 14 per cento del centro (cfr. Tabella l.c). Sono i candidati del centro a presentare la più alta percentuale di laureati e ad aver fre­quentato più degli altri il liceo (classico o scientifico), mentre nelle liste di sinistra si trova una percentuale doppia di persone che

hanno frequentato istituti tecnici, industria­li, commerciali e magistrali (20 per cento). Mentre dunque sia i candidati di destra che di centro presentano caratteristiche marcata- mente popolari e “non intellettuali” riguar­do all’origine sociale, quelli del centro sem­brerebbero aver poi sperimentato una più forte mobilità sociale verticale, almeno a giudicare dai livelli di istruzione. Si noti infi­ne che la differenza tra destra e sinistra si ri­propone perfino accresciuta tra gli eletti, so­prattutto per quanto riguarda la minore in­cidenza a destra della maturità classica e la maggiore proporzione di non laureati. Se ne può dedurre che il non avere un livello di scolarizzazione particolarmente alto non danneggia in termini elettorali il candidato di destra, almeno nei confronti del proprio elettorato di riferimento.

Tra i laureati, le discipline decisamente più diffuse a destra e al centro sono, nell’or­dine, giurisprudenza e medicina. I laureati in giurisprudenza sono in maggioranza an­che nelle liste di sinistra (sebbene con per­centuali notevolmente più basse), seguiti pe­rò dai laureati in lettere e filosofia. Su que­st’ultimo punto la differenza è veramente notevole: mentre il 20 per cento dei candida­ti di sinistra è laureato in lettere, nessuno lo è tra i candidati di destra intervistati e solo il 10,7 per cento tra quelli del centro. Se si guarda agli eletti, si nota come i neoparla­mentari di destra risultino laureati esclusiva- mente in giurisprudenza e medicina, e con percentuali notevolmente più alte rispetto ai colleghi di sinistra, tra i quali aumenta anco­ra il peso della laurea in lettere.

Il profilo professionale. Non meraviglierà dunque che, passando al profilo professio­nale del nostro campione di candidati (Ta­bella l.d), la sinistra schieri nelle sue liste la percentuale di gran lunga più alta di inse­gnanti e professori universitari (esclusi i do­centi in medicina, qui compresi nella catego­ria “medici”), mentre la destra non presenta

662 Ottorino Cappelli

alcun professore e solo il 5,5 per cento dei suoi candidati sono insegnanti (nessuno tra gli eletti). Di contro, avvocati e medici sono molto presenti nelle liste di centro e soprat­tutto di destra, e sembra particolarmente notevole che gli avvocati siano in una pro­porzione sette volte maggiore a destra che a sinistra, con il centro in una posizione più o meno intermedia, ma più vicina alla destra. (Una curiosità riguarda i “funzionari di me­dio-alto livello”: coloro che si sono autode­finiti funzionari o dirigenti, e non impiegati: il 16 per cento nelle liste della sinistra, 1*11 per cento in quelle di centro e appena il 5,5 per cento in quelle di destra, e nessuno tra gli eletti di quest’ultimo schieramento).

Per riassumere ciò che si è trovato finora: nelle liste di sinistra vi sono proporzional­mente più donne ma anche meno giovani; l’estrazione sociale prevalente è il ceto me­dio; oltre la metà dei candidati di sinistra ha fatto studi classici e l’80 per cento si è lau­reato; la professione di gran lunga più diffu­sa è l’insegnamento, scolastico o universita­rio. Nelle liste di destra, invece, accade esat­tamente il contrario. Vi sono meno donne ma più giovani; vi è una maggiore incidenza di estrazione sociale popolare e piccolo-bor­ghese; meno del 40 per cento dei candidati di destra ha fatto studi classici e meno di due terzi si è laureato; le professioni più dif­fuse sono avvocatura e medicina. Il centro infine assomiglia alla destra per ciò che con­cerne la ridotta presenza di donne e la mag­giore presenza di giovani nelle sue liste. An­che al centro (e in misura ancora maggiore che a destra) l’estrazione sociale popolare è assai comune; e anche qui le professioni fo­rense e medica sono prevalenti. Solo su un punto i candidati del centro assomigliano di più a quelli di sinistra: per l’alta percentuale di essi che hanno frequentato il liceo classico e si sono laureati. Questo dà un quadro piuttosto completo delle differenze sociolo­giche tra il personale politico che viene re­clutato nei diversi schieramenti. Si tratta di

differenze piuttosto visibili e che per lo più si ripropongono tra gli eletti, sembrano cioè ricevere una sanzione positiva dal corpo elettorale (sotto un solo aspetto, quello ge­nerazionale, ciò non è vero: il voto ha infatti restituito ai rispettivi schieramenti un corpo di eletti la cui composizione generazionale era diversa da quella delle liste di prove­nienza).

Sulla base di questi dati, non si può certo sostenere che sinistra, destra e centro siano distinzioni artificiali. Le forze politiche che queste etichette contraddistinguono si perce­piscono e si costruiscono come universi di­stinti, spesso opposti, anche sul terreno dei referenti sociali. Il profilo sociologico del ri­spettivo ceto politico lo mostra chiaramente. Sono diversi i candidati, e dunque le scelte e le strategie dei reclutatori che determinano la qualità dell’offerta politica di ciascuno schieramento. E diversi sono gli eletti, e dunque le caratteristiche che troviamo asso­ciate alla fortuna elettorale di un candidato, alla sua capacità di farsi eleggere. Che poi questo rifletta anche una diversità di orien­tamenti e preferenze nei rispettivi elettorati di riferimento, dunque sul lato della doman­da, possiamo indirettamente ipotizzarlo, an­che se non è nostro compito dimostrarlo.

Tutto ciò premesso, possiamo cercare ora di capire se e in che misura queste diversità riguardino anche l’universo valoriale, la per­cezione del ruolo, gli stili e gli orientamenti politici e culturali, e la visione della demo­crazia che questo ceto politico esprime.

I valori, le motivazioni, i ruoli: una prospet­tiva comparata

I “valori fondamentali”: incerte frontiere. Nei primi anni settanta, Robert D. Putnam e i ricercatori del Comparative Elites Project intervistarono, tra gli altri, un campione di 79 parlamentari inglesi e 82 italiani. Parten­do dall’assunto che “il tessuto della politica

La penultima sfida, a Napoli 663

in ogni età è costituito dall’interazione tra visioni configgenti della società buona”, the good society, essi rivolsero al loro campione una domanda che doveva servire a catturare l’universo valoriale di quei parlamentari: “Sotto quali aspetti la società che lei deside­rerebbe per i suoi figli e i suoi nipoti differi­sce da quella della Gran Bretagna (o dell’I­talia) di oggi?” Dai risultati ottenuti essi conclusero che, sebbene taluni valori fossero ampiamente comuni sia ai parlamentari di destra che di sinistra, un tessuto di differen­ze ideologiche rimaneva molto evidente. Si riscontrarono infatti “definizioni diverse del progresso sociale [che] inevitabilmente con­dizionano le scelte politiche quotidiane dei leaders” . In termini secchi: “i politici della sinistra si preoccupano di più ddVeguaglian­za sociale e politica, mentre i rappresentanti del centro e della destra danno invece priori­tà alla libertà” (termine che qui va inteso nel senso di libertà economica di mercato)9.

Putnam non mancava però di rilevare co­me altre differenze fossero da ricondursi ai diversi contesti politico-culturali delle due nazioni. La distanza tra destra e sinistra in termini di valori fondamentali, o “visioni della società buona”, è infatti molto chiara e netta se si guarda ai dati inglesi, lo è meno se si guarda a quelli italiani. In Gran Breta­gna la grande maggioranza dei deputati di entrambi i partiti maggiori, laburisti e con­servatori, dichiarava di desiderare “migliori standard di vita” : in entrambi i casi questo valore si presentava al secondo posto tra quelli scelti. Ma sul valore da mettere al pri­mo posto la differenza destra/sinistra diven­tava assai netta: per oltre i due terzi dei la­

buristi si trattava di “maggiore giustizia so­ciale” , scelta invece da appena il 37 per cen­to dei conservatori. Diversamente, l’80 per cento dei conservatori, contro un mero 6 per cento dei laburisti, indicavano “maggiore li­bertà”. Il caso britannico sembra dunque proporsi come un caso da manuale per illu­strare la distanza ideologica tra destra e sini­stra (vedi Tabella 2). Lo stesso non può de­dursi, però, dalle risposte dei parlamentari italiani dell’epoca. Al di là di differenze che si spiegano facilmente con i diversi contesti politico-istituzionali dei due paesi (ad esem­pio era molto più marcata e diffusa in Italia rispetto alla Gran Bretagna la richiesta di un diverso sistema politico, mentre era meno pressante l’attenzione per la “moralità pub­blica”) altre e più interessanti differenze tra i due paesi vanno notate. Sottolineiamo so­prattutto che spesso le distanze tra centro- destra e sinistra si presentavano meno dram­matiche in Italia che in Inghilterra; e che gli orientamenti del centro-destra in Italia spes­so non coincidevano con quelli dei conserva- tori inglesi10. Posto che anche in Italia l’o­biettivo di “migliori standard di vita” era al secondo posto per i parlamentari di entram­bi i versanti, questo apparente accordo tra destra e sinistra riguardava anche altri ambi­ti in cui in Inghilterra v’era invece grande contrasto. Ad esempio, era certamente la si­nistra a chiedere con più forza una maggiore giustizia sociale, ma ciononostante il 56 per cento dei deputati italiani di centro e destra menzionavano questo come un obiettivo im­portante per costruire un mondo migliore: una percentuale assai alta per questa parte politica, circa il 20 per cento in più rispetto

9 R.D. Putnam, The Comparative Study of Political Elites, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1976, p. 82. In un successivo lavoro, commentando gli stessi dati, Putnam specifica che “the value of liberty, as expressed in these an­swers, represents the free-market ideology of a modern conservatism that grew out o f the nineteenth-century libera­lism”. Cfr. R.D. Putnam et al., Bureaucrats and Politicians in Western Democracies, cit., p. 139.10 Putnam divise i parlamentari italiani in tre classi: 1) centro e destra; 2) sinistra non comunista; 3) comunisti. Noi abbiamo invece riaggregato quegli stessi dati in due classi (“riunendo” la sinistra), soprattutto per permettere una più agevole comparazione con i dati del nostro campione.

664 Ottorino Cappelli

Tabella 2. - 1 valori dei parlamentari in Gran Bretagna e in Italia nei p rim i anni settanta.

Risposte alla domanda: “Sotto quali aspetti la società che lei desidererebbe per i suoi figli e i suoi nipoti differisce da quella della Gran Bretagna (o dell’Italia) di oggi?”

Gran Bretagna Italia

Totale Labu- Conser- risti vatori Totale Sinistra Centro

e destra

Più giustizia sociale 61.0Migliori standard di vita 68.0Un diverso sistema politico 11.0Maggiore libertà 34.0Maggiore moralità pubblica 42.0Più senso della comunità e sicurezza 33.0

76.0 37.0 77.0 93.0 56.065.0 73.0 66.0 72.0 58.016.0 3.0 62.0 63.0 61.06.0 80.0 46.0 41.0 53.0

47.0 33.0 35.0 24.0 50.039.0 23.0 27.0 26.0 28.0

Fonte: Robert Putnam, The Comparative Study o f Political Elites, Englewood Cliffs. Prentice-Hall, 1976, p. 83.

Tabella 3. - 1 valori dei candidati e degli eletti

Risposte alla domanda: “Quali obiettivi ritiene prioritari per costruire un mondo migliore per i suoi figli?”

Candidati Eletti

Totale Sin Des Cen Totale Sin Des

Più giustizia sociale 67.8 88.0 61.1 57.1 81.4 94.4 62.5Più senso della comunità e della solidarietà civile 59.7 64.0 50.0 64.2 59.2 61.1 50.0Maggiore moralità pubblica 58.6 64.0 55.5 64.2 66.6 61.1 75.0Un diverso sistema politico 29.8 32.0 44.4 7.1 29.6 27.7 37.5Più libertà civili per il cittadino 22.9 16.0 22.2 17.8 11.1 16.6 0.0Migliori standard di vita 14.9 24.0 5.5 14.2 18.5 22.2 0.0Più ordine pubblico 6.8 4.0 27.7 0.0 11.1 5.5 25.0Maggiore libertà d’impresa 5.7 0.0 5.5 10.7 0.0 0.0 0.0

Tabella 4. - Le m otivazioni alla politica dei candidati e degli eletti

Risposte alla domanda: “Nella sua decisione di candidarsi, quali delle seguenti motivazioni hanno pesato di più?”

Candidati Eletti

Totale Sin Des Cen Totale Sin Des

— Dare risposte concrete aiproblemi della gente 71.2 84.0 72.2 60.7 85.1 88.8 87.5

— Identificazione con una causa 45.9 76.0 38.8 32.1 66.6 77.7 50.0— Assolvere un dovere civico 35.6 16.0 22.2 57.1 7.4 5.5 0.0— Rappresentare gli interessi del

proprio collegio 27.5 8.0 50.0 25.0 25.9 11.1 50.0

La penultima sfida, a Napoli 665

ai conservatori britannici. Né si tratta dell’u­nico caso in cui gli orientamenti dei parla­mentari italiani di centro e destra appariva­no piuttosto diversi da quelli dei loro colle­ghi d’oltremanica e, paradossalmente, più simili a quelli della sinistra italiana. Sembra cruciale, ad esempio, che solo il 53 per cento di loro indicasse l’obiettivo di una “maggio­re libertà” contro l’80 per cento dei parla­mentari conservatori. Inoltre, sulla desidera­bilità di questo valore la distanza tra centro- destra e sinistra in Italia era di soli 10 punti percentuali, mentre in Inghilterra oltre 70 punti separavano i conservatori dai labu­risti.

Queste peculiarità italiane risultano ancor più accentuate nell’analisi del nostro cam­pione, cui abbiamo posto la domanda, che parafrasa quella di Putnam: “Quali obiettivi ritiene prioritari per costruire un mondo mi­gliore per i suoi figli?” I candidati da noi in­tervistati avevano la possibilità di scegliere non più di tre opzioni tra le otto che offriva­mo. Alcune delle opzioni offerte ricalcano quelle elaborate per il Comparative Elites Project: “Più giustizia sociale”; “Migliori standard di vita”; “Maggiore moralità pub­blica”; “Un diverso sistema politico” . Altre, invece, sono state modificate o introdotte ex novo. L’opzione che suonava in inglese greater freedom è stata sdoppiata in “Mag­giore libertà d’impresa” e “Più libertà civili per il cittadino” per non ingenerare confu­sioni circa i possibili significati, economico e politico, del termine libertà. L’opzione “Se­curity and a sense of community” è stata modificata in “Più senso della comunità e della solidarietà civile” . Introdurre il termi­ne, oggi tanto controverso nel dibattito ita­liano, di solidarietà, ci fa perdere natural­mente su questo punto la comparabilità tra i dati dei due questionari, ma era utile per noi pesare l’opzione favorevole alla solidarietà contro quella favorevole ad una maggiore li­bertà di mercato (la nostra aspettativa, che la prima caratterizzasse la sinistra e la secon­

da la destra, è andata però delusa). Infine, abbiamo aggiunto ex novo l’opzione “Più ordine pubblico”, che insieme a “Maggiore libertà d’impresa” ci attendevamo dovesse catalizzare la gran parte dei favori a destra (aspettativa che i dati hanno dimostrato, di nuovo, errata).

Il risultato più notevole di questo test va espresso in termini negativi: non è possibile costruire una vera e propria tipologia dei nostri candidati in base ai valori (almeno ai valori identificati da queste opzioni). La grande maggioranza sia dei candidati che degli eletti di tutte e tre gli schieramenti con­centra il proprio universo valoriale sulle pri­me tre opzioni: “Più giustizia sociale”, “Più senso della comunità e della solidarietà so­ciale”, e “Maggiore moralità pubblica” su­perano il 50 per cento delle menzioni da par­te di tutti gli intervistati. Mentre le altre cin­que opzioni si collocano, nella grande mag­gioranza dei casi, al di sotto del 30 per cento (vedi Tabella 3).

Cominciando dalle opzioni meno gettona­te, è innanzitutto interessante notare quanto scarsa sia l’attenzione per un miglioramento degli standard di vita: solo tra i candidati e gli eletti della sinistra essa viene menzionata con una frequenza maggiore del 20 per cento. Lo stesso dicasi dell’opzione di valore in favore di “maggiore libertà” : sia sotto l’aspetto delle “libertà civili” che sotto quello della “libertà d’impresa” . Poco più di un quinto dei candi­dati (e del 10 per cento degli eletti) usa una delle tre possibilità a propria disposizione per scegliere “maggiori libertà civili per il cittadi­no”; e solo il 5,7 per cento dei candidati (nes­suno dei quali eletto) fa riferimento a “mag­giore libertà d’impresa” per raffigurarsi un “mondo migliore per i propri figli” . Non può non colpire quanto poco sensibili siano gli aspiranti parlamentari napoletani, del centro e soprattutto della destra, al fascino discreto del libero mercato.

Al contrario, è molto alta la sensibilità dei candidati di tutti gli schieramenti per il vaio-

666 Ottorino Cappelli

re “moralità pubblica”, e comprensibilmen­te, dato il clima moralista e giustizialista che ha pervaso il paese negli ultimi anni, e in particolare la campagna elettorale del 1994. Si noti però che in particolare per gli eletti della destra, che lo menzionano nei due terzi dei casi, l’argomento moralistico sembra es­sere stato un vero e proprio cavallo vin­cente.

Per quanto riguarda la disposizione favo­revole verso un “maggior senso della comu­nità e della solidarietà civile”, scelto da circa il 60 per cento dei nostri intervistati, la com­parazione con i dati dello studio di Putnam, come abbiamo detto, non è possibile. In compenso, i dati da noi raccolti aumentano un poco le nostre conoscenze sull’universo valoriale della classe politica Italiana (meri­dionale) di oggi. Se non meraviglia che i candidati della destra scelgano con frequen­za relativamente minore degli altri i valori della comunità e della solidarietà, si noti pe­rò che una proporzione del 50 per cento è molto più alta di quanto sarebbe lecito at­tendersi da una destra “normale” . E va an­che notato che tali valori sono scelti in iden­tica proporzione (64 per cento) dai candidati di sinistra e dagli ex democristiani del cen­tro. Si dovrebbe aprire qui un lungo discor­so sui complessi rapporti culturali e politici tra solidarismo cattolico, comuniSmo Italian style e statalismo assistenziale, specie nel Mezzogiorno, ma qui possiamo limitarci so­lo ad un accenno.

Infine, si consideri che l’opzione in asso­luto più gettonata è quella di una maggiore giustizia sociale. I candidati e gli eletti di de­stra e di centro la scelgono, in media, nel 60 per cento dei casi, mentre fanno riferimento ad essa l’88 per cento dei candidati e il 94 per cento degli eletti nella coalizione di sini­stra. Se si guarda alla tabella di Putnam, si può dedurre che, sotto questo aspetto, è cambiato ben poco in un quarto di secolo. Da un lato, l’aspirazione ad una “società più giusta” si conferma indubbiamente co­

me parte integrante del patrimonio di valori che accomuna la sinistra in ogni tempo ed in ogni paese (si compari ad esempio nella ta­bella l’atteggiamento dei laburisti inglesi su questo punto: 76 per cento). Dall’altro lato, però, si conferma anche una nota peculiarità delle culture di centro e di destra in Italia, che rispetto ai conservatori inglesi si mostra­no notevolmente più inclini a valori comuni­tari, solidaristici e di equità sociale. L’obiet­tivo di una maggiore giustizia sociale pesava meno del 40 per cento per i conservatori in­glesi mentre per gli uomini politici italiani di centro e di destra esso era, e rimane, intorno al 60 per cento.

Che cosa si deve dedurre da questi dati? Innanzitutto che, come abbiamo detto all’i­nizio, non è possibile evidenziare una netta distinzione tra i nostri candidati di destra, centro e sinistra in base alle opzioni di valo­re proposte, mentre invece questo è possibile in Gran Bretagna. In secondo luogo, che l’universo valoriale della destra e del centro in Italia, e segnatamente nell’Italia meridio­nale, appare diverso da quello di un “nor­male” partito conservatore di tipo anglosas­sone.

Proviamo a suffragare ulteriormente que­ste conclusioni con un esercizio di manipola­zione dei nostri dati (Tabella 5). Consideria­mo cioè la frequenza con cui alcune opzioni di valore vengono accoppiate dagli intervi­stati. Definiamo ad esempio chi sceglie insie­me “Più giustizia sociale” e “Maggiore mo­ralità pubblica” come moralista-, consideria­mo che l’accoppiata di “Più giustizia socia­le” e “Più senso della comunità e della soli­darietà civile” identifichi un socialista-, e che chi sceglie “Maggiore moralità pubblica” in­sieme a “Più senso della comunità e della solidarietà civile” possa dirsi un solidarista. Il risultato di questo esercizio tipologico è evidenziato nella Tabella 5. Come si vede, non vi è una linea netta di demarcazione: i candidati dei diversi schieramenti si dispon­gono un po’ in tutte le caselle, anche se c’è

La penultima sfida, a Napoli 667

Tabella 5. - Un tentativo di tipologia dei candidati in base ai valoriRisposte alla domanda: “Quali obiettivi ritiene prioritari per costruire un mondo migliore per i suoi figli?”

(Accoppiamenti più frequenti tra le opzioni scelte dagli intervistati: valori assoluti)

APiù giustizia

sociale

BMaggioremoralitàpubblica

CPiù senso

della comunità e della solidarietà

civile

A Più giustizia sociale 100% (n = 59)

Moralista Sin = 14 Cen = 9 Des = 7

Socialista Sin = 15 Cen = 13 Des = 5

B Maggiore moralità pubblica n = 36

8

h ^

G

Solidarietà Sin = 9

Cen = 13 Des = 3

D Più senso della comunità e della solidarietà civile n = 39 n = 30 100%

(n = 52)

Tabella 6. - Tipologia dei candidati in base alle motivazioniRisposte alla domanda: “Nella sua decisione di candidarsi, quali delle seguenti motivazioni hanno pesato di più?”

(Accoppiamenti più frequenti tra le opzioni scelte dagli intervistati: valori assoluti)

A B C DDare risposte Identificazione Assolvere Servire gliconcrete ai con una a un interessi delproblemi

della gente“causa” dovere civico proprio

collegio

Progettuale Responsabile NotabileA Dare risposte concrete ai

problemi della gente S _

-Il

8 Sin = 15 Cen = 4

Sin = 1 Cen = 11

Sin = 2 Cen = 2

Des = 3 Des = 1 Des = 7

B Identificazione con una “causa” n = 23

100% (n = 40)

Sin = 3 Cen = 2 Des = 2

Sin = 0 Cen = 1 Des = 3

C Assolvere un dovere civico n = 19 n = 7 100% (n = 31)

Sin = 0 Cen = 3 Des = 0

D Servire gli interessi del proprio collegio

n = 14 n = 7 n = 3 100% (n = 24)

668 Ottorino Cappelli

qualche differenza. I candidati del centro, ad esempio, sono in maggioranza social-so- lidaristi, piuttosto che moralisti. I candidati di destra sono prevalentemente social-mora­listi, piuttosto che solidaristi. E la definizio­ne di social-moralisti si adatta bene anche alla maggioranza dei candidati di sinistra, sebbene ce ne siano diversi anche nella casel­la dedicata al solidarismo.

Possiamo dunque ribadire il nostro punto iniziale. Se in base al tipo di opzioni di valo­re proposte in una “normale democrazia oc­cidentale” si possono distinguere nettamente destra e sinistra, questo non è così semplice in Italia, e particolarmente nel Meridione d’Italia. L’impressione è che qui il solidari­smo del centro cattolico, il tradizionale pa­ternalismo della destra, e i valori più pro­priamente socialistici della sinistra, finisca­no per sovrapporsi in un confuso amalgama che ha il sapore antico del populismo.

Questo giudizio andrà in seguito meglio definito e qualificato. Ma ora dobbiamo chiederci: questo quadro di apparente indif­ferenziazione sul piano dei “valori fonda- mentali” non contraddice le nostre prece­denti conclusioni sull’esistenza di tre mondi socio-politici separati che si identificano con i politici di sinistra, di centro e di destra? Nelle prossime pagine vedremo che le cose non stanno così. Quelle differenze che non sono visibili guardando all’aspetto astratta- mente valoriale di questo nostro spezzone del ceto politico meridionale, tornano invece quando trattiamo delle motivazioni all’atti­vità politica, della percezione del ruolo che un parlamentare deve svolgere, degli orien­tamenti rispetto alla democrazia politica e alle sue istituzioni.

Le motivazioni: il progettuale, il responsabi­le, il notabile. Nel nostro questionario la do­manda che doveva servire ad individuare le motivazioni o gli incentivi all’attività politi­ca era: “Nella sua decisione di candidarsi, quali delle seguenti motivazioni hanno pesa­

to di più?” (vedi Tabella 4). A questa do­manda seguivano sei opzioni tra cui era pos­sibile sceglierne non più di due. Sulla base di queste risposte abbiamo costruito una tipo­logia dei candidati articolata in tre tipi: “pro­gettuale” , “responsabile” e “notabile” .

L’opzione più gettonata è stata: “Dare ri­sposte concrete ai problemi della gente” , che noi abbiamo formulato in modo da sottoli­neare quel sapore “efficientista-tecnocrati- co” (capacità di dare risposte concrete) e va­gamente “populista” (il riferimento alla cate­goria debole e indifferenziata di gente) che ha così tanto caratterizzato il discorso pub­blico in Italia negli ultimi anni. Si noti che questa è la motivazione più cara ai candidati di tutti gli schieramenti, ma soprattutto alla sinistra (84 per cento), meno al centro (60 per cento), con la destra in una posizione esatta­mente intermedia (72 per cento). Ma è anche assai notevole che tra gli eletti sia di destra che di sinistra la percentuale di coloro che hanno fatto questa scelta cresce e raggiunge un livello praticamente identico, intorno all’88 per cento. Dobbiamo dedurne che en­fatizzare questo punto piace a tutti i candida­ti, indipendentemente dall’ideologia, e fa premio nei confronti dell’intero corpo eletto­rale, indipendentemente dalla fede politica? Di certo dobbiamo registrare che, da qualun­que parte provenga, l’aspirante parlamenta­re del napoletano ritiene indispensabile im­pegnarsi pubblicamente su questo terreno: e se pensa che questo impegno contribuirà a fare le sue fortune elettorali, non trova di certo nell’esito del voto elementi che con­traddicano tale convinzione.

Ma posto che questa motivazione è comu­ne quasi a tutti, con quali altre motivazioni essa si intreccia? E può questo dato contri­buire a caratterizzare “tipi” diversi di uomi­ni politici (o aspiranti tali)? E, infine, questi diversi tipi coincidono con i tre schieramenti politici che si sono scontrati nelle elezioni appena svoltesi? La risposta è indubbiamen­te sì. La Tabella 6 mostra in modo evidente

La penultima sfida, a Napoli 669

come vi siano tre altre motivazioni che si di­stribuiscono in modo tale da caratterizzare nettamente i candidati e gli eletti dei diversi schieramenti. I due terzi dei candidati della sinistra (in una proporzione più che doppia rispetto a quelli degli altri schieramenti) di­chiarano che nella propria decisione di can­didarsi ha pesato molto l’identificazione con una “causa” . Oltre il 57 per cento dei candi­dati del centro menzionano la volontà di as­solvere ad un dovere civico (più del doppio rispetto alla destra e oltre tre volte rispetto alla sinistra). La metà dei candidati della de­stra, infine, dichiara apertamente di voler rappresentare gli interessi del proprio colle­gio: appena l’8 per cento dei candidati di si­nistra e un quarto di quelli di centro fanno altrettanto11. Queste proporzioni si rispec­chiano sostanzialmente tra gli eletti, anche se va notato che qui la proporzione dei par­lamentari di destra che dichiara di identifi­carsi con una causa cresce di oltre dieci pun­ti percentuali.

Questi primi dati, seppure già molto signi­ficativi, sono ulteriormente confermati se guardiamo agli accoppiamenti più frequenti tra questi tipi di motivazioni alla politica. Si ricordi che un simile esercizio era risultato infruttuoso nel caso precedente, quando gli accoppiamenti riguardavano generici “valo­ri” come giustizia sociale, solidarietà e mo­ralità pubblica che risultavano condivisi un po’ da tutti e in proporzioni analoghe: il che impediva qualsiasi netta differenziazione ti­pologica. In questo caso, invece, avviene il contrario (Tabella 6).

Definiamo la casella di chi entra in politi­ca per dare risposte concrete ai problemi della gente, ma nel contempo si identifica con una “causa” , come “politico progettua­

le” (o, si potrebbe anche dire, un “servitore della causa”): la troveremo affollata soprat­tutto da uomini di sinistra, assai meno pre­senti nelle altre caselle. Chi dice di conside­rare la politica una attività che, oltre ad es­sere indirizzata a risolvere i problemi della gente, si caratterizza come un “dovere civi­co”, l’abbiamo definito un “politico respon­sabile” (o, se si vuole, un “servitore dello stato”): la casella corrispondente è popolata quasi esclusivamente da candidati del cen­tro. Se infine la spinta a risolvere i problemi concreti della gente si accoppia con l’inten­zione di rappresentare gli interessi del pro­prio collegio, abbiamo ciò che si può defini­re un “notabile” (o un “servitore del colle­gio”): sono i candidati della destra a collo­carsi in maggioranza in questa casella.

Tutto questo ci conferma che esiste una li­nea di demarcazione tra i tre schieramenti piuttosto netta: se non sul piano un po’ astratto dei valori come prima definiti, di certo su quello dell’atteggiamento verso la politica pratica. A sinistra, al centro, a de­stra si decide di entrare nell’arena politica per motivi diversi. Dobbiamo supporre che vi si entri, anche, per fare cose diverse e che, in ogni caso, nel “fare” si agirà in modo di­verso, con diversi stili. È quello che cerchia­mo di capire ora.

La percezione del ruolo: il mediatore, il lo- calista, l’uomo di partito. Si ritiene da più parti che a diversi tipi di motivazioni ad en­trare nell’arena politica debbano corrispon­dere diversi comportamenti o stili di azione da parte di una élite politica12, o almeno di­verse visioni del processo politico e del ruolo che il rappresentante eletto deve svolgervi. Cerchiamo dunque di capire se e in che mi-

11 Nessuno invece dichiara di sentirsi motivato dal desiderio soggettivo di fare 1 esperienza di una carriera politica. Quasi nessuno, ben curiosamente, cita la rappresentanza degli interessi di un gruppo sociale, solo tre dei nostri in­tervistati lo fanno, e sono equamente distribuiti fra tre schieramenti.12 Cfr. ad esempio Oliver H. Woshinsky, The French Deputy: Incentives and Behavior in the National Assembly, Lexington, D.C. Heath, 1973.

670 Ottorino Cappelli

sura i nostri tre tipi di motivazioni siano in relazione con le seguenti visioni della politi­ca: la politica come organizzata e disciplina­ta attività di partito; la politica come ricer­ca della mediazione e del compromesso; la politica come rappresentanza di interessi e clientele locali. A queste diverse visioni fac­ciamo corrispondere, in base alla percezione del proprio ruolo, tre tipi di uomo politico: l’uomo di partito, il mediatore, il localista. Premettiamo, come argomenteremo subito, che la politica italiana nella prima repubbli­ca è stata caratterizzata da una peculiare combinazione di questi tre elementi rispetto ad altri paesi; si può ipotizzare l’esistenza di una correlazione tra questi elementi e il si­stema elettorale (il maggioritario tende a fa­vorire le spinte localistiche, a rendere meno rilevanti le capacità mediatone, e — da più parti si sostiene — a indebolire le caratteri­stiche pratiche). Sarebbe dunque di grande interesse sapere se e in che misura il muta­mento del sistema elettorale in Italia abbia contribuito al declino di un tipo di uomo politico e all’emergere di un altro.

Partiamo innanzitutto da un quadro comparato. La Tabella 7 mostra la diffusio­ne dei nostri tre tipi di politici in Italia e in altri paesi occidentali nei primi anni settan­ta, così come riportata dai ricercatori del Comparative Elites Project13. Si noti, in­nanzitutto, come la situazione appaia per molti versi in relazione diretta con il tipo di sistema elettorale allora vigente in quei pae­si: maggioritario puro in Usa e Gran Breta­gna, “misto” nella Repubblica federale te­desca e proporzionale puro in Italia. I par­lamentari che percepivano il proprio ruolo come volto soprattutto ad una attività di mediazione erano due volte più diffusi nei paesi dove vigeva una qualche forma di si­

stema proporzionale (e governi di coalizio­ne). Nel contempo, nei paesi a sistema elet­torale maggioritario era da due a tre volte più facile trovare parlamentari che facessero soprattutto riferimento alla rappresentanza di specifici interessi clientelari nei propri col­legi.

Ma si noti anche che per quanto riguarda il partisan, il parlamentare che si ritiene so­prattutto un “uomo di partito” , non vi è una relazione diretta e visibile con il sistema elettorale. Qui vale l’osservazione, esposta con particolare chiarezza, ad esempio, da Giovanni Sartori, che il sistema elettorale può favorire certe tendenze presenti nel si­stema politico, ma non crearle14. Sicché in un sistema politico a partiti assai deboli (Usa), in presenza di un sistema elettorale maggioritario puro si ha una bassissima percentuale di partisans-, mentre accade esattamente il contrario in Gran Bretagna, che pure ha un sistema maggioritario puro ma ha anche, tradizionalmente, partiti poli­tici molto solidi. D’altronde, dove ci sono forti e strutturati sistemi partitici la percen­tuale in parlamento di “uomini di partito” è forte anche in presenza di un sistema pro­porzionale misto (Germania occidentale) o puro (Italia). Se però non tutti ritengono di attribuire al sistema elettorale una influen­za causale decisiva, pochi negherebbero che esso può facilitare le spinte localistiche e l’indebolimento dello spirito partitico se questo trend già esiste. E dunque possiamo ipotizzare che nell’Italia del 1994, già carat­terizzata dal disgregarsi del sistema partiti­co (e, bisognerebbe aggiungere, dell’unità nazionale), il passaggio ad un sistema elet­torale maggioritario “aiuti” i candidati a proporsi come rappresentanti di interessi locali, e li renda meno inclini a presentarsi

13 In questo studio i tre tipi di politici sono definiti come Broker (“focuses on mediating and resolving conflicts of interests and political conflicts”); Facilitator (“focuses on protecting the interests o f specific clientele groups or constituents”) e Partisan (“focuses on partisan politics”).14 Cfr. a questo proposito Giovanni Sartori, Elementi di teoria politica, Bologna, Il Mulino, 1987.

La penultima sfida, a Napoli 671

Tabella 7. - Tre tipi d i parlam entari in Europa e Usa nei prim i anni settanta

Usa GB Rft Ita

Mediatore 23.0 27.0 47.0 40.0Localista 89.0 62.0 32.0 27.0Uomo di partito 13.0 83.0 74.0 75.0

Fonte: J.D. Aberbach, R.D. Putman, B.A. Rockman, Bureaucrats and Politicians in Western Democracies, Cam-bridge, Mass., Harvard University Press, 1981, p. 97.

Tabella 8. - N orm e democratiche e orientam enti elitisti. Valori percentuali = som m a delle risposte po -sitive ( “<d ’accordo” e “d ’accordo con riserva”)

Campione “Comparative Elites Project”. Tre paesi europei, primi anni settanta: élite burocratiche e parlamentari

Burocrati + politici Solopolitici

GB Rft Ita Totale Totale

Poche persone sono in grado di individuare i proprireali interessi nel lungo periodo 48.0 60.0 84.0 64.0 59.0

Certe persone sono maggiormente qualificate a guida­re il paese a causa di superiori competenze (') (20.0) (23.0) (37.0) (26.6) (22.0)

In un mondo così complesso come l’attuale non ha molto senso parlare di un maggiore controllo dei co­muni cittadini sull’attività legislativa e di governo 36.0 27.0 53.0 38.6 n.n.

Campione “Napoli 1994”. Napoli e provincia, 1994: candidati ed eletti al parlamento

Candidati Eletti

Totale Sin Des Cen Totale Sin Des

Poche persone sono in grado di indi­viduare i propri reali interessi nel lun­go periodo 82.1 72.0 88.8 86.0 85.7 72.0 100.0

Certe persone sono maggiormente qualificate a guidare il paese a causa di superiori competenze 69.8 64.0 77.0 77.0 67.8 66.6 87.5

In un mondo così complesso come l’attuale non ha molto senso parlare di un maggiore controllo da parte dei comuni cittadini sull’attività legislati­va e di governo 27.5 8.0 38.8 27.7 35.7 5.5 50.0

(*) Al campione del Comparative Elites Project questa domanda fu posta diversamente: essa faceva riferimento non a “superiori competenze”, ma a “tradizioni e background familiare”. Data la sostanziale differenza qualitativa tra le domande, dunque, le risposte non sono comparabili. Riportiamo i dati del Comparative Elites Project tra pa­rentesi solo per completezza informativa.

672 Ottorino Cappelli

come uomini di partito e anche meno dispo­sti alla mediazione e al compromesso. Prima di vedere se e fino a che punto ciò è vero, facciamo delle ipotesi preliminari su come, nella prima repubblica, i nostri tre tipi di politici si disponevano nei diversi schiera- menti.

La sinistra e in particolare il Pei, che pure non era certo alieno al compromesso politi­co, vantava probabilmente la più forte e so­lida identità di partito, mentre si può ben di­re che fosse estranea alla sua Weltan­schauung, la rappresentanza localistica. Il parlamentare di sinistra, più di altri leale e disciplinato membro del proprio gruppo parlamentare, dovrebbe fornire l’idealtipo dell’uomo di partito. Una visione della poli­tica come mediazione prevaleva invece al centro più che altrove, ed era anzi alla base della centralità democristiana. Nel contem­po una inclinazione al clientelismo su base localistica non mancava certo di caratteriz­zare le forze di centro. L’identità partitica e la coesione in parlamento di queste forze politiche erano invece andate negli anni pro­gressivamente indebolendosi. Il parlamenta­re di centro dovrebbe dunque essere soprat­tutto un mediatore, sebbene anche un nume­ro non indifferente di localisti dovrebbe tro­vare qui facile collocazione. Infine, la destra è sempre apparsa poco incline alla mediazio­ne (anche per mancanza di concrete oppor­tunità, vista la lunga esclusione dai circuiti del potere), ma caratterizzata da un senso piuttosto forte dello spirito di partito e, cer­tamente nel Sud ed in particolare a Napoli, da una discreta capacità di articolare gli in­teressi di specifiche clientele locali. La tipica figura del parlamentare di destra dovrebbe dunque dividersi tra l’idealtipo del localista

e quello dell’uomo di partito. Come vedre­mo subito, questa situazione è mutata solo sotto alcuni aspetti, e anche in questi casi il cambiamento può solo in parte essere ricon­dotto all’effetto del mutato sistema eletto­rale.

Abbiamo chiesto ai nostri candidati quali fossero a loro giudizio le caratteristiche con­crete che un parlamentare dovrebbe avere. Le risposte a questa domanda delineano i contorni di ciò che si può definire “percezio­ne del ruolo” . Il nostro questionario propo­neva sei diverse caratteristiche, ognuna delle quali poteva essere considerata indispensabi­le, piuttosto importante o non molto rile­vante. Due indicavano qualità piuttosto che un ruolo (“capacità e competenza per risol­vere i problemi concreti” , e “onestà e inte­grità personale”) ed erano state inserite co­me “domande di controllo”. Ben oltre il 90 per cento sia dei candidati che degli eletti, indipendentemente dallo schieramento, ha risposto che queste qualità sono indispensa­bili o piuttosto importanti. È dunque con­fermato pienamente ciò che ci si poteva fa­cilmente attendere: chi oggi cerca di entrare in politica, o di rimanervi, condivide o in ogni caso si adegua al clima prevalente nel­l’opinione pubblica, e tende a presentare di se stesso una immagine fortemente connota­ta in senso tecnocratico e moralistico15. Al­tre quattro caratteristiche invece identifica­no più propriamente la visione o la percezio­ne del ruolo di un parlamentare: capacità di mediare e persuadere, di conciliare i conflitti e raggiungere compromessi; attaccamento al proprio partito; disciplina di voto nel pro­prio gruppo parlamentare; capacità di sod­disfare le richieste provenienti dal proprio collegio. I risultati sono presentati, in forma

Ciò del resto è congruente con le alte percentuali di adesione che, come abbiamo visto sopra, vengono raggiunte dal valore “moralità pubblica” e dalla motivazione “risolvere i concreti problemi della gente” (cfr. le Tabelle 3 e 4). Sulla diffusione nell’odierno dibattito politico italiano delle categorie antipolitiche del moralismo e del tecnicismo si vedano le acute osservazioni di Angelo Panebianco, Fare a meno della politica?, “Il Mulino”, 1993, n. 348, pp. 637-645.

La penultima sfida, a Napoli 673

grafica, nella Figura 1. Se consideriamo la somma degli atteggiamenti positivi (“indi­spensabile” e “piuttosto importante”), ve­diamo come in tutti gli schieramenti sia pre­valente il tipo di politico localista, seguito al centro e a sinistra dal mediatore, mentre a destra al secondo posto si colloca l'uomo di partito. Si tratta, già a questo livello dell’os­servazione, di un dato notevole; la tendenza al localismo sembra essere molto più alta ri­spetto al campione intervistato da Putnam, mentre lo “spirito di partito” è sempre mol­to più basso, tranne che a destra. Sarebbe arduo escludere che differenze così notevoli dipendano, almeno in parte, dal mutamento del sistema elettorale. Ma guardiamo ai dati più in dettaglio, considerando solo gli atteg­giamenti decisamente positivi (“indispensa­bile”), e mettendo in relazione la percezione che gli intervistati hanno del ruolo di un par­lamentare, con le motivazioni alla politica analizzate sopra (cfr. Tabella 4 e Figura 1).

La sorte del politico mediatore è di certo grama. Non solo il nuovo sistema elettorale che privilegia lo scontro muro contro muro, ma anche l’ovvia identificazione dei termini mediazione e compromesso con il tanto vitu­perato consociativismo, fa sì che pochi can­didati si autodefiniscano esplicitamente in questo modo. Ma dove si trova, soprattutto, il politico mediatore? Lo troviamo, come potevamo attenderci, soprattutto tra i candi­dati dello schieramento di centro, nessuno dei quali è uscito vincitore dalle battaglie nei collegi uninominali. I candidati del centro corrispondono più di altri al tipo del politico mediatore: e questa è anzi la loro caratteri­stica distintiva, mentre i meno inclini alla mediazione sono gli eletti della destra. Que­sto atteggiamento politico culturale, quindi, rimane caratteristico degli uomini del centro anche se per diversi motivi può apparire pe­nalizzante sul piano elettorale. Ma va anche

ricordato che la maggioranza dei candidati del centro hanno dichiarato tra le proprie principali motivazioni alla politica il deside­rio di “assolvere ad un dovere civico”, e noi abbiamo definito questo tipo di risposta co­me caratteristica di un politico “responsabi­le”, un “servitore dello stato” . Ora, v’è una tendenza nella letteratura politologica a rite­nere che un uomo politico che si dichiara spinto da obbligazione morale e da senso del dovere civico, dovrebbe risultare anche “av­verso alla politica in generale e al compro­messo in particolare”16. Evidentemente non è così, o non è così nel contesto italiano. Co­me mostrano i nostri dati, infatti, da noi av­viene esattamente il contrario. Gli ex demo- cristiani erano e rimangono candidamente inconsapevoli della supposta incompatibilità tra servire responsabilmente lo stato e con­cepire la politica come una attività volta so­prattutto alla mediazione e al compromesso. E la loro sconfitta è la sconfitta di uno stile politico, di un codice operativo profonda­mente radicato nell’universo politico cultu­rale del centro. Di certo la sconfitta di que­sto schieramento porta in parlamento uomi­ni assai meno inclini alla conciliazione dei conflitti: una virtù che d’altra parte non è molto richiesta ai politici di un sistema mag­gioritario.

Per quanto concerne il politico localista l’ipotesi è più semplice da formulare e quasi tautologica: in quello schieramento politico dove prevale chi indica tra le principali mo­tivazioni alla politica il rappresentare gli in­teressi del proprio collegio, dovrebbero an­che prevalere coloro che considerano indi­spensabile per un parlamentare la “capacità di soddisfare le richieste provenienti dal pro­prio collegio”. Dovremmo cioè aspettarci che il politico localista si collochi soprattut­to a destra. E infatti è così. Questa caratteri­stica, che è indispensabile per il 40 per cento

16 J.L. Payne, O.H. Woshinsky, Incentives for Political Participation, “World Politics”, 1972, n. 4, pp. 518-546.

674 Ottorino Cappelli

La penultima sfida, a Napoli 675

di tutti i candidati e per il 30 per cento di tutti gli eletti, lo è particolarmente per i can­didati e gli eletti della destra (rispettivamen­te 67 e 75 per cento). I valori più bassi si ri­scontrano invece tra i candidati e gli eletti di sinistra (20 e 17 per cento), con i candidati del centro in posizione intermedia (32 per cento).

Chi invece, rispondendo sulle proprie mo­tivazioni alla politica ha sostenuto di identi­ficarsi con una causa, e come abbiamo visto si tratta soprattutto dei candidati di sinistra (ma anche di una buona parte degli eletti di destra), dovrebbe più facilmente di altri de­finirsi un uomo di partito. Non si può nega­re che in una realtà come quella italiana, do­ve la lotta politica è stata fino a ieri forte­mente ideologizzata e nel contempo mono­polizzata dai partiti, identificarsi con una “causa” era una caratteristica fondamentale per un uomo politico “di partito”, e vicever­sa. Ora, in base al nostro questionario un uomo di partito è uno che considera indi­spensabile caratteristica di un parlamentare “l’attaccamento al proprio partito” e la “di­sciplina di voto nel proprio gruppo parla­mentare” . Ci attenderemmo dunque che questi tratti siano soprattutto caratteristici degli uomini di sinistra, quelli appunto più votati ad una “causa” , e, in misura un po’ minore, in quelli di destra. Ma in realtà le cose non stanno affatto così. Per quanto possa apparire paradossale, è proprio a sini­stra che lo spirito di partito raggiunge i valo­ri più bassi, specialmente l’opzione “disci­plina di voto nel proprio gruppo parlamen­tare” , indicata come indispensabile dall’8

per cento dei candidati e da nessuno degli eletti di sinistra che abbiamo intervistato. E ciò nonostante il fatto che le liste di sinistra fossero numericamente dominate da membri dell’ex Pei e contenessero un’alta percentua­le di politici “vecchi”, o comunque non cer­to alle prime armi. Solo a destra, sembrereb­be, e soprattutto tra gli eletti di destra, si trova ancora qualche vero uomo di partito (il 50 per cento degli eletti di destra ritiene indispensabile l’attaccamento al proprio partito e il 38 per cento la disciplina di voto in parlamento). E ciò nonostante il fatto che la destra risulti soprattutto orientata al loca­lismo. Evidentemente, in certe condizioni, non v’è necessariamente contraddizione tra party ness e localism. Queste osservazioni naturalmente valgono soprattutto per il Msi: tra gli intervistati di Forza Italia lo spirito di partito è, come ci si può attendere, bassissi­mo. Ciò è d’altronde perfettamente con­gruente con l’esempio inglese, dove in pre­senza di un sistema elettorale maggioritario si riscontrano alti valori sia di localismo che di spirito di partito. Ma perché allora tale si­tuazione non riguarda anche la sinistra, che presenta valori molto bassi di localismo ma anche e soprattutto di spirito di partito?17 Il fatto è che le alterne fortune del politico lo- calista e dell’uomo di partito non possono essere spiegate solo in base al cambiamento del sistema elettorale. Bisogna anche consi­derare che la crisi del sistema partitico italia­no non ha quasi per nulla colpito il Msi, tan­to a lungo estraneo alle stanze del potere, e dunque i missini hanno potuto brandire l’ar­gomento antipartitocratico pur continuando

17 Si noti per inciso che la forte differenza di “spirito partitico” tra destra e sinistra non può attribuirsi solo al fatto che gli eletti di destra da noi intervistati provengono tutti da un solo partito, il Msi, mentre gli eletti di si­nistra hanno una provenienza partitica più differenziata: in realtà anche comparando gli eletti del Msi con quelli del solo Pds, il risultato non cambia. È vero che considerando i candidati di tutte le formazioni politiche della coalizione progressista solo tra quelli del Pds si trovano “uomini di partito” (come da noi definiti). Ma rimane il fatto che solo uno degli eletti del Pds da noi intervistati cita come caratteristica indispensabile di un parlamenta­re l’attaccamento al proprio partito, e nessuno la disciplina di voto in parlamento. Tra gli eletti del Msi che rien­trano nel nostro campione, invece, quattro ritengono indispensabile l’attaccamento al partito e tre la disciplina di voto.

676 Ottorino Cappelli

ad esprimere con orgoglio la propria appar­tenenza partitica. E non solo i candidati del Msi possono presentarsi apertamente come uomini di partito, ma l’elettorato di riferi­mento di quest’area mostra di apprezzare questa scelta, o almeno non la considera un motivo sufficiente per non votarli, e magari per scegliere il centro, dove l’identità parti­tica è molto più bassa. Infine, siccome d’al­tra parte la destra si presenta anche come fortemente incline alla rappresentanza loca- listica, essa appare complessivamente ben attrezzata alla battaglia politica in un siste­ma maggioritario — nonostante che da que­sta “penultima sfida” sia uscita sconfitta. Al contrario, a sinistra, il clima antipartito­cratico dominante a livello di opinione pub­blica e, soprattutto per l’ex Pei, anche le vi­cissitudini del comuniSmo internazionale hanno in parte accompagnato e in parte causato un indebolimento complessivo del­l’identità partitica e dell’orgoglio di partito. Di conseguenza, i candidati di sinistra non si presentano volentieri come uomini di par­tito. D’altra parte, però, poiché nella mag­gioranza dei collegi in cui si presentavano essi hanno vinto, bisogna anche dedurne che l’elettorato ha apprezzato o almeno ha ben tollerato questa scelta. Inoltre, se un elettore era disposto a votare a sinistra, questa decisione non è stata scalfita dal bas­so grado di localismo mostrato dai “suoi” candidati.

Per riassumere: il vero cambiamento in questo campo è avvenuto a sinistra. Al cen­tro e a destra, infatti, troviamo solo ciò che ci aspettavamo di trovare: una prevalenza, rispettivamente, del tipo mediatore e del ti­po localista. E troviamo anche che lo schie­ramento dove prevale il tipo localista vince rispetto all’altro. A sinistra, invece, dove ci attendevamo di trovare una prevalenza del- l’uomo di partito, ciò non avviene. E, so­prattutto, anche in presenza di una bassissi­ma offerta di rappresentanza localistica, la sinistra ha vinto le elezioni nel napoletano.

Si può dunque dire che l’impatto del siste­ma elettorale, se v’è stato, è stato diverso a seconda delle forze politiche che il cambia­mento ha investito. Dove le identità partiti­che erano già indebolite, un sistema elettora­le che di per sé tende a mettere l’accento più sulle persone che sui partiti ha favorito chi si è presentato con una identità partitica debo­le (la sinistra), anche in presenza di un basso appeal localistico. D’altra parte, però, i can­didati del centro, la cui identità partitica era bassa, hanno perso rovinosamente anche avendo un grado di localismo piuttosto alto, almeno rispetto alla sinistra. Contro di essi la polarizzazione ideologica e le indagini giudiziarie devono aver pesato almeno quanto le nuove regole elettorali. Chi infine (come la destra) aveva una forte identità partitica e un forte appeal localistico con il maggioritario ha potuto fare il pieno dei vo­ti in relazione al proprio elettorato di riferi­mento, ma non vincere le elezioni. In que­sto, la forte identità partitica dei candidati del Msi non ha penalizzato loro direttamen­te, anche se può aver reso più difficile alla coalizione di destra espandere i propri con­sensi molto al di fuori del proprio bacino elettorale “naturale” . In questo senso si può ipotizzare che l’orgoglio di partito sia un elemento importante della fortuna elettorale dei candidati del Msi, ma che al tempo stes­so sia elettoralmente penalizzante per la de­stra nel suo complesso.

Tra elitismo e populismo

L ’elitismo del ceto politico. Un altro gruppo di domande era destinato a far emergere gli orientamenti “elitisti” dei nostri intervistati. Il questionario chiedeva di indicare se si fos­se d ’accordo, d ’accordo con riserva, o con­trari con le seguenti proposizioni:

1) Poche persone sono in grado di individuare i propri reali interessi nel lungo periodo.

2) Certe persone sono maggiormente qualifica­

La penultima sfida, a Napoli 677

te a guidare il paese a causa di superiori compe­tenze.

3) In un mondo così complesso come l’attuale non ha molto senso parlare di un maggiore con­trollo da parte dei comuni cittadini sull’attività legislativa e di governo.

Queste domande sono tratte dal lavoro del Comparative Elites Project, ma la seconda è stata adattata per rispondere a esigenze di­verse; nella ricerca americana si chiedeva se alcune persone fossero maggiormente quali­ficate di altre a governare il paese a causa delle loro “tradizioni e background familia­re”: l’intento era qui di fare emergere gli at­teggiamenti “aristocratici” delle élite. Noi intendevamo invece misurarne gli atteggia­menti “tecnocratici” e abbiamo fatto riferi­mento a “superiori competenze”. Data la sostanziale differenza qualitativa tra le do­mande, dunque, le risposte su questo punto non sono comparabili (nella Tabella 8 ripor­tiamo i dati del Comparative Elites Project tra parentesi solo per completezza informa­tiva.) Inoltre il campione del Comparative Elites Project si rivolgeva sia alle élite buro­cratiche che a quelle politiche, e i dati ri­guardanti le risposte fornite dalle sole élite politiche non sono disponibili paese per pae­se ma solo in forma aggregata (e per una delle tre domande, la terza, non sono dispo­nibili neanche in questa forma). Va infine tenuto presente che, come avverte Putnam, in tutti i paesi gli orientamenti elitisti carat­terizzano maggiormente le élite burocratiche rispetto a quelle politiche (e le élite burocra­tiche italiane in particolar modo)18. Nono­stante queste limitazioni, la Tabella 8, deri­vata dallo studio statunitense, presenta una situazione di inequivoca lettura e che possia­mo almeno usare come immagine di contra­sto per leggere poi i nostri dati. Il grado di elitismo che emerge dalle risposte del cam­pione italiano è di gran lunga superiore ri­

spetto a quello tedesco-occidentale e britan­nico, ed è anzi sempre molto più elevato del­la media.

Se guardiamo ora al nostro campione, no­tiamo alcune differenze. Vi è una leggera flessione sul primo punto (l’incapacità dei cittadini di individuare i propri reali interes­si) tra in candidati intervistati, ma non tra gli eletti. E vi è una flessione notevole sul terzo punto: poco più del 27 per cento dei candidati e degli eletti da noi intervistati so­no disposti a dichiarare che il mondo attuale è troppo complesso perché si possa parlare di un maggiore controllo popolare sull’atti­vità politica. Nei primi anni settanta le ri­sposte positive erano state il 53 per cento: anche considerando che allora il campione comprendeva una parte di alti burocrati, la differenza è molto alta. Complessivamente, dunque, la situazione appare “migliorata” . Ciò nonostante, il grado di elitismo del no­stro campione rimane incomparabilmente più alto di quello dei parlamentari inglesi e tedeschi. Inoltre, è generalmente più basso a sinistra e molto più alto al centro e soprat­tutto a destra. In particolare sulla domanda più esplicita, quella che esclude decisamente l’opportunità di un controllo popolare, ri­spondono positivamente il 5,5 per cento de­gli eletti di sinistra e il 50 per cento degli eletti di destra.

Un diverso modo di aggregare questi dati è esposto nella Figura 2, che presenta quello che chiamiamo 1’“indice di elitismo” (una media dei valori percentuali delle risposte “d’accordo” e “d’accordo con riserva” a tutte e tre le domande). La distanza tra de­stra e sinistra è evidentissima (82 per cento contro 48 per cento), e lo è anche se si consi­derano solo gli atteggiamenti più decisamen­te elitistici, cioè i valori corrispondenti solo alla risposta “d’accordo” (49 per cento con­tro 24 per cento). Si noti che gli eletti di de-

18 R.D. Putnam et al., Bureaucrats and Politicians in Western Democracies, cit., p. 176.

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Media dei valori percentuali delle risposte “d’accordo” e “d’accordo con riserva” ad ognuna delle domande che identificano atteggiamenti elitistici:

1) Poche persone sono in grado di individuare i propri reali interessi nel lungo periodo. 2) Certe persone sono maggiormente qualificate a guidare il paese a causa di superiori competenze. 3) In un mondo così complesso come l’attuale non ha molto senso parlare di un maggiore controllo da parte dei comuni cittadini sull’attività legislativa e di governo.

100

87.5

75

62.5

50

37.5

25

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SINISTRA CENTRO DESTRA SINISTRA DESTRA

D'accordo m Contrario

Ü D'accordo con riserva □ Non risponde

Figura 2. - Indice di elitismo

La penultima sfida, a Napoli 679

stra presentano complessivamente valori molto più alti dei candidati del medesimo schieramento, cosa che non avviene a sini­stra. Dunque un tale atteggiamento si asso­cia con grande frequenza alla “fortuna elet­torale” di un candidato di destra, mentre per un candidato di sinistra vale semmai il contrario. Che a destra siano molto più dif­fusi che altrove atteggiamenti elitisti può ap­parire scontato. Può sembrare tautologico che un politico di destra consideri il cittadi­no comune incapace di individuare i propri reali interessi, che ritenga insensato parlare di controllo popolare sulla politica, e che so­stenga con decisione l’affidamento della gui­da del paese a poche persone dotate di supe­riori competenze. Il quadro però diviene più complesso e interessante se si passa a consi­derare ciò che abbiamo chiamato 1’“indice di populismo”.

La sindrome populista. Per populismo qui intendiamo una visione della politica e della democrazia fondata su una lettura radicale ed enormemente semplificata (se non sem­plicistica) del principio della sovranità popo­lare. Portata all’estremo, essa sostiene che l’unica “vera democrazia” è la democrazia diretta. Questa visione implica l’esigenza di una estesa e capillare partecipazione del po­polo all’attività decisionale-legislativa, e di un forte, pervasivo e continuo controllo po­polare sull’attività dei rappresentanti eletti. Niente delega fiduciaria, niente mandati in bianco, niente zone di segretezza: il popolo sovrano può e deve conoscere tutto, e deci­dere di tutto e su tutto. È intrinseca a questa visione una profonda e radicale diffidenza verso le regole e gli istituti della democrazia

rappresentativa. Si tratta di una vera e pro­pria “sindrome”, che potremmo definire “sindrome della diffidenza democratica” : in nome del popolo sovrano essa spinge a guar­dare con sospetto, indifferenziatamente, al­l’intera classe politica, a tutti i partiti, al parlamento. Questa visione populista della politica democratica ha le sue “istituzioni”. Innanzitutto il mandato imperativo, il dirit­to di revoca di un parlamentare prima della scadenza della legislatura, e il referendum (un uso estensivo del referendum, sia su sca­la nazionale che regionale e locale; sia abro­gativo che propositivo; e su ogni questione che possa interessare il popolo, incluse le questioni fiscali). Ha anche, come dire, le sue “contro-istituzioni” . Non contempla al­cun tipo di privilegi per i rappresentanti del popolo eletti in parlamento, e dunque abor­risce l’istituto dell’immunità parlamentare e anche quello del voto segreto, poiché “la gente” deve sempre sapere come agiscono e come votano i suoi rappresentanti19. Per mi­surare la presenza di questo atteggiamento populista abbiamo sottoposto ai nostri can­didati una complessa batteria di sette propo­ste di “riforma istituzionale” che toccavano tutti i punti sopra menzionati. Su ognuna di queste gli intervistati potevano dichiararsi favorevoli-, disposti a discuterne-, o contrari. Abbiamo scelto però di non presentare i ri­sultati in forma disaggregata, domanda per domanda, anche per rendere più agevole uno sguardo d’insieme sui dati. Abbiamo dunque in primo luogo calcolato la media dei valori percentuali corrispondenti alle ri­sposte favorevoli (senza distinguere cioè tra i “sì” e i “se ne può discutere”). In realtà que­ste “proposte” sono quasi tutte così dirom-

19 Quella di populismo è una delle categorie oggi più abusate e al tempo stesso peggio definite concettualmente e politicamente. L’adoperiamo dunque qui con grande cautela e circospezione. Tra le tante esperienze storiche che fanno variamente riferimento a questo filone, quella che più ha ispirato l’uso di questa categoria nel presente lavo­ro è l’esperienza del populismo statunitense. Devo riconoscere un particolare debito intellettuale al volume di Tho­mas E. Cronin, Direct Democracy. The Politics o f Initiative, Referendum and Recall, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1989.

680 Ottorino Cappelli

penti rispetto al quadro costituzionale di una democrazia liberale rappresentativa, che anche il solo essere disposti a discuterne è già di per sé molto significativo. In secondo luogo abbiamo accorpato i sette items in tre grandi blocchi tematici: il primo si riferisce al rapporto tra cittadini e rappresentanti (mandato imperativo e diritto di revoca); il secondo riguarda le proposte di modificare alcuni aspetti dello status dei parlamentari (l’abolizione deH’immunità parlamentare e del voto segreto); il terzo fa riferimento al­l’esercizio diretto della sovranità popolare (l’uso estensivo dei referendum, incluso quello propositivo e quello fiscale). Ne ri­sulta quello che chiamiamo “indice di po­pulismo”, esposto in forma grafica nella Fi­gura 3.

Notiamo immediatamente che l’indice del populismo è sempre molto alto: non scende mai al di sotto del 60 per cento. Notiamo anche che esso raggiunge i valori minimi tra i candidati e soprattutto tra gli eletti di sini­stra (rispettivamente 64 per cento e 60 per cento), mentre raggiunge i valori massimi tra i candidati di destra (76 per cento) e so­prattutto tra gli eletti di destra (87,5 per cento). Qui i candidati di centro si colloca­no in una posizione intermedia (ma più vici­ni alla sinistra che alla destra). Si consideri che i dati disaggregati per ciascuno dei sette items mostrano che in generale i maggiori consensi si ottengono sull’introduzione del referendum propositivo (91 per cento di ri­sposte favorevoli tra i candidati e 92,5 per cento tra gli eletti). Il livello minore di con­senso si riscontra sulla proposta del manda­to imperativo, che comunque si mantiene tra il 39 per cento (per i candidati) e il 48 per cento (per gli eletti). Coloro che risulte­ranno eletti avevano scelto in misura addi­rittura superiore alla media dei candidati di introdurre il referendum anche a livello lo­cale e di abolire completamente l’immunità parlamentare. Si erano invece tenuti più cauti (ma sempre con valori complessivi

molto alti) sul referendum fiscale, sul dirit­to di revoca e sull’abolizione del voto segre­to in parlamento.

Per quanto riguarda le differenze tra i candidati dei tre schieramenti, è a sinistra che si riscontrano quasi sempre i valori più bassi di “populismo” , benché su alcune que­stioni, e in particolare sul mandato imperati­vo, questi siano ancora più bassi al centro. I candidati di destra presentano invece quasi sempre i valori più alti, leggermente superati dai candidati di sinistra e del centro solo sul­l’abolizione dell’immunità parlamentare, e dai soli candidati del centro sull’introduzio­ne del referendum propositivo. Ma è tra gli eletti che la contrapposizione più significati­va, quella tra destra e sinistra, emerge con maggiore nettezza. Nella maggior parte dei casi gli eletti di sinistra presentano valori più bassi rispetto ai candidati del medesimo schieramento, e talvolta notevolmente più bassi. Ma presentano valori sempre molto più bassi rispetto agli eletti della destra. La distanza maggiore tra destra e sinistra si ri­scontra sul diritto di revoca dei parlamentari (54 punti percentuali), mentre tra i due schieramenti vi è apparentemente un forte accordo sull’introduzione del referendum propositivo (100 per cento a destra e 89 per cento a sinistra). Infine gli eletti di destra so­no unanimemente favorevoli (al cento per cento) nel privare i parlamentari dell’immu­nità e del voto segreto e nel promuovere l’u­so estensivo del referendum, anche proposi­tivo; la metà di loro sono anche favorevoli al referendum fiscale, i due terzi accettereb­bero il mandato imperativo e circa il 90 per cento guarderebbe con favore all’introdu­zione del diritto di revoca.

Emerge da questi dati, dunque, che la de­stra napoletana è caratterizzata da una for­tissima componente populista, e che anche il populismo può essere annoverato tra gli ele­menti costitutivi della capacità di riuscita di un candidato di destra nei confronti del pro­prio elettorato di riferimento.

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Rimane da chiedersi se tutto ciò non sia in contraddizione con quanto notato preceden­temente: che a destra vi sono altissimi valori di elitismo. Non è contraddittorio ritenere il popolo incapace di individuare i propri reali interessi e di controllare l’attività del gover­no, che andrebbe demandata a pochi com­petenti, e poi invocare a gran voce il manda­to imperativo, l’uso estensivo dei referen­dum e una “gabbia di vetro” per i parlamen­tari, sempre esposti alla sorveglianza degli occhi vigili del popolo? Non lo è. C’è infatti un filo rosso che collega elitismo e populi­smo: è lo stesso che collega, almeno sin da­gli anni venti e trenta di questo secolo, la de­mocrazia plebiscitaria ad esiti autoritari. La base di partenza di questo connubio è una confusa aspirazione ad un esercizio diretto della sovranità popolare, non mediato da partiti, elezioni, parlamenti. Il suo opposto speculare è l’accettazione della delega rap­presentativa, che si invera in quel fragile e imperfetto equilibrio poliarchico che chia­miamo “democrazia liberale”20. Si tratta in entrambi i casi di forme estreme, idealtipi- che, che in questo secolo hanno ispirato so­luzioni opposte al problema del governo del­la società di massa. Entrambe possono pro­durre esiti non previsti. Nell’una il popolo e il suo capo (o una oligarchia, magari selezio­nata in base ad “oggettive superiori compe­tenze”), sono uniti da un idem sentire pro­fondo che riceve la sua sanzione in grandi adunate pubbliche, dove la volontà popola­re si esprime per acclamazione — in tempi più moderni ci sono tecniche più sofisticate: le piazze teletrasmesse, i sondaggi, i referen­

dum. L’aspirazione alla democrazia diretta porta nel proprio patrimonio genetico dei tratti plebiscitari e carismatici che possono sfociare nell’autoritarismo e finanche nel to­talitarismo, se la sovranità del popolo divie­ne dittatura della maggioranza e poi dittatu­ra del capo, dei suoi luogotenenti e dei suoi esperti21. Nell’altra, tra popolo e capi stanno gli istituti e le regole della rappresentanza politica: la delega elettorale; quei “privilegi” che servono a proteggere i rappresentanti elettivi non solo dall’arbitrio dell’esecutivo, ma anche da quello del popolo, o in ogni ca­so della maggioranza di questo; il parlamen­to come sede istituzionale attraverso cui so­prattutto deve esprimersi la sovranità popo­lare. Ma la democrazia rappresentativa si fonda su presupposti liberali ottocenteschi che possono essere facilmente travolti qua­lora la sovranità popolare, delegata al parla­mento, venga poi monopolizzata da chi or­ganizza e domina quell’assemblea, trasfor­mando le immunità parlamentari in impuni­tà politica. Come si determini, nell’impatto con la società di massa, la trasformazione di una democrazia liberale in partitocrazia, e anche come e perché questo regime crolli, l’abbiamo visto in questi anni in Italia22. Ma ciò che oggi deve soprattutto preoccupare è il riemergere di quel filo rosso che unisce nel Giano bifronte della destra elitismo e popu­lismo. Dal nostro studio emerge una destra sociale e popolare, capace di affiancare ad un messaggio centralista e presidenzialista uno stile politico notabiliare e localista. Una forza politica che ha come cavalli di batta­glia gli argomenti dell’antipolitica, soprat-

20 II riferimento classico su questi temi è naturalmente ai tanti luoghi in cui Max Weber e Cari Schmitt analizzano, da opposte angolazioni, i rapporti tra democrazia liberale, democrazia plebiscitaria e potere carismatico. Più recen­ti, sistematiche analisi teoriche dei “dilemmi della democrazia moderna” sono in G. Sartori, The Theory o f Demo­cracy Revisited, Chatham, Chatham House, 1987; e Robert H. Dahl, Democracy and its Critics, New Haven, Yale University Press, 1989.21 L’espressione “democrazia totalitaria” non è un ossimoro più di quanto non lo sia la nozione di “democrazia li­berale”. Cfr. per tutti Jacob L. Talmon, The Origins o f Totalitarian Democracy, London, Seeker & Warburg, 1952 (ed. it. Bologna, Il Mulino, 1967).2“ Rimandiamo su questo punto al recente saggio di M. Calise, Dopo la partitocrazia, Torino, Einaudi, 1994.

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tutto il moralismo e il tecnicismo; una forza parlamentare disciplinata e coesa che fa pe­rò della diffidenza contro il parlamento e le sue regole la propria bandiera; un partito ben organizzato e orgoglioso di esserlo, che agita però con disinvoltura il popolare ves­sillo antipartitocratico. Quali fortune atten­dono questa destra che, a Napoli e nel Sud, ha perso di misura questa “penultima sfi­da” , ma appare ben attrezzata a vincere la prossima, quella decisiva, specialmente in un sistema maggioritario? Eppoi: sono que­ste caratteristiche della sola vecchia destra missina napoletana, o possono estendersi al­l’intero ceto politico di Alleanza nazionale, che è oggi nella sua grandissima maggioran­za di estrazione meridionale? E fino a che punto quei “nuovi” ceti produttivi e impren­ditoriali del Nord che esprimono le altre ani­me dell’attuale maggioranza, possono, o in­tendono, contenere il fiume in piena della “vecchia” destra? E infine, come possono le opposizioni impedire che il fiume straripi al­la prossima sfida? Destra e sinistra appaio­no da questo studio diverse sotto molti aspetti cruciali: primo tra tutti quello relati­vo alla concezione elitista e tendenzialmente autoritaria della politica, che la sinistra mo­stra di condividere in misura assai inferiore alla destra. Ma abbiamo anche notato che

l’intero ceto politico napoletano cresce im­merso in un medesimo humus valoriale con­fusamente condito di moralismo, paternali­smo e populismo. E abbiamo visto che la condivisione di questi valori, molto diffusi tra la stessa popolazione, è strettamente as­sociata con la fortuna elettorale dei candida­ti di qualunque schieramento. E sappiamo dalla nostra storia recente che anche la sini­stra ha finito per cavalcare la tigre anticon­sociativa e antipartitocratica che era stata a lungo allevata dalla polemica antiregime della destra. L’aver flirtato per due anni con la democrazia referendaria è un indicatore della serietà di questa situazione. Sebbene molto meno che a destra, tuttavia anche a sinistra riscontriamo una certa ambiguità nei confronti dei principi liberali della de­mocrazia rappresentativa, una certa inclina­zione ad alimentare la sindrome populista della diffidenza verso i partiti, la classe poli­tica, il parlamento. Quanto tempo dovrà an­cora trascorrere prima di riconoscere come tutto questo non potesse, non potrà che fa­vorire la destra?

A questo punto, abbiamo ormai posto più domande di quante risposte siamo riusciti a dare. Speriamo, almeno, che siano le do­mande giuste.

Ottorino Cappelli

O ttorino C appelli è dottore di ricerca in Scienza della politica e ricercatore di Politica comparata del­l’Istituto universitario orientale di Napoli. Ha pubblicato Governare Napoli. Le sinistre alla prova nel­la capitale del Mezzogiorno (Bari, De Donato, 1978). Negli ultimi dieci anni ha condotto ricerche in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Urss, occupandosi soprattutto del sistema politico sovietico. Tra le pubblicazioni più recenti il volume, curato insieme a Stephen White e Rita di Leo, The Soviet Tran­sition (London, Frank Cass, 1993).