La Penultima cosa

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Un racconto Singolare di Raffaele Riba

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LA PENULTIMA COSA

RAFFAELE RIBA

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Prima dell’apertura Celeste metteva fuori l’ingresso tutte le cose di immediato consumo che attirano i clienti. Sulla destra una griglia, per dimensioni e ricorrenza, con biglietti d’auguri, a fianco uno scaffale con quaderni, rubriche, agende e block notes. Dall’altra parte una cassettiera di legno con articoli di cancelleria.

Il negozio era anche quella porzione di marciapiede, in un comodato d’uso talmente remoto da non essere mai stato formalizzato, lì da sempre, da prima dei vigili che chiudevano un occhio perché nell’altro c’era l’osservanza e il rispetto di un esercizio che presto avrebbe terminato l’attività, lì da prima che certe usanze, come i piccoli furti che pure c’erano, Celeste pensava fossero appannaggio di bambini che bramano una penna o una gomma, piuttosto che sottrazioni fatte per punire l’ingenuità della proprietaria e del suo mondo antico.

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L’insegna recitava Cartolibreria Benedicenti e sotto “Articoli per la scuola, la casa e l’ufficio”.

Per quarant’anni sempre la stessa procedura, il negozio portato fuori l’ingresso, la disposizione degli oggetti, il mutamento appena percettibile dei marciapiedi, delle crepe, l’evolversi delle dimensioni e delle forme delle auto che passano davanti, gli altri esercizi che cambiano e si trasformano come i colleghi che li occupano comprando licenze e poi lasciandoli, magari per ingrandirsi, magari per cambiare attività o semplicemente domicilio. Le stesse persone che passano e salutano, le stesse mani che però accumulano pieghe e rughe e le voci che si lasciano andare come le bocche da cui escono. Abitudini talmente forti, e neanche più rassicuranti o insopportabili, che hanno dato ritmo e sequenza ad avvicendamenti e invecchiamenti, che non stupiscono, che, anzi, oramai Celeste sapeva e aspettava con la regolarità che aveva previsto.

Per questo in una delle ultime di quelle cinquantamila e rotte mattine, un evento tutt’al più curioso assunse per Celeste proporzioni inattese e definitive. Tra il tempo di rientrare, dopo aver occupato la parte destra del marciapiede con la griglia girevole e lo scaffale delle agende e quello

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di uscire per addobbare il lato sinistro dell’ingresso con la cassettiera per la cancelleria, un cestino di vimini che pendeva da una corda e sostava a mezz’aria immise un principio di caos nella misurata geometria di Celeste.

Le era capitato di ospitare in negozio due gatti su un cuscino per aiutare un’amica senza più tempo e spazio a intenerire qualche cliente, o aveva avuto con sé un ragazzo che le diede una mano in quel Natale in cui proprio le mancavano le forze. Tutto qui. Quindi, per godere di quell’apparizione che andava al di là dei soliti cambiamenti, Celeste accomodò la cassettiera nel posto preciso di ogni mattina, diede un’occhiata all’insieme per stabilire che tutto fosse dove doveva e, solo allora, dando il giusto spazio alla curiosità, si diresse verso il cesto.

Le ci volle un attimo per riuscire a vederne il contenuto. Dovette alzarsi sulle punte, inclinarlo e poi scendere con lo sguardo verso gli strati di intrecci. Solo allora colse una fotografia capovolta a cui era attaccata una banconota arrotolata. Prese tutto tra le dita per osservare in posizione migliore. Voltandola vide che la polaroid ritraeva una scatola vuota di puntine, un rotolo di scotch alla fine e un quaderno a quadretti sulla cui ultima pagina c’era scritto “Grazie”.