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RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Colonialismo G eorge W. Baer, La guerra italo-etiopica e la crisi dell’equilibrio europeo, Bari, Laterza, 1970, pp. 536, L. 5.000. Il titolo italiano è esatto solo nella sua seconda parte, che pure ha scarso ri- lievo tipografico sulla copertina del libro, perchè la narrazione del Baer si arresta proprio quando la guerra italo-etiopica inizia: il centro di interesse del volume è infatti l’incapacità dimostrata dalla So- cietà delle Nazioni di opporsi validamen- te all’aggressione italiana, nel periodo che va dall’incidente di Ual-Ual, che aprì uf- ficialmente la crisi, allo scoppio delle osti- lità il 3 ottobre 1935. Il titolo originale, The Corning of the Italian-Ethiopian War, è indubbiamente più aderente al conte- nuto. La ricostruzione che il Baer traccia del- la politica europea nel 1935 è precisa e interessante, sorretta da una notevole co- noscenza della bibliografia e da una buona capacità di sintesi espositiva. Sono chia- ramente indicate le responsabilità dei governi francesi ed inglesi, entrambi de- cisi a non opporsi alla iniziativa imperia- listica di Mussolini se non nella misura necessaria a salvarsi la faccia dinanzi al- l’opinione pubblica internazionale; ne de- rivò la completa crisi della Società delle Nazioni, incapace di una reazione auto- noma che sovvenisse all’inerzia della Francia e della Gran Bretagna. Ci sembra tuttavia che il volume del Baer non costituisca un sostanziale pro- gresso rispetto agli studi di Salvemini, sintetizzati in quel Preludio alla seconda guerra mondiale (Milano, Feltrinelli, 1967) che apparve in edizione inglese nel 1953. La disponibilità di una più ricca biblio- grafia (per es. del diario Aloisi e dei documenti diplomatici americani) ha ta- lora permesso al Baer di fornire maggiori dettagli, che però riconfermano l’interpre- tazione salveminiana. Da notare inoltre che il quadro di Salvemini è assai più ampio e convincente: si veda l’importanza assai maggiore (rispetto al Baer) data al- l’avvento di Hitler che, rompendo l’equi- librio europeo, lasciò all’iniziativa del- l’Italia fascista lo spazio per un’espansione imperialistica, alzando il prezzo dell’al- leanza italiana per inglesi e francesi. Nel volume del Baer apprezziamo 1* chiarezza con cui viene indicata la premi- nenza delle preoccupazioni per l’ordine interno nella decisione fascista. Come scri- ve l’autore, « per evitare le conseguenze del suo fallimento nel risolvere i pro- blemi della politica interna, Mussolini cercò di coinvolgere la nazione nella con- quista dell’Etiopia» (p. 43). Tuttavia il Baer giunge a questa conclusione sulla base di un’analisi della natura della dit- tatura fascista del tutto insufficiente, pre- scindendo dai suoi legami di classe fino a prendere sul serio le declamazioni musso- liniane in materia di corporazioni e di giustizia sociale. Secondo l’autore, Musso- lini si sarebbe deciso a puntare il prestigio del regime nell’avventura etiopica solo dopo aver visto l’impossibilità « di attuare per l’Italia un programma globale di ri- forma sociale ed economica » (p. 43). In questo ed in analoghi giudizi per gli altri stati sono evidenti i limiti dell’imposta- zione personalistica della ricerca del Baer, che sembra ridurre la storia al gioco di pochi personaggi. Non è ad un’opera di politica diplomatica che si deve chiedere lo studio delle forze sociali ed economiche che stanno dietro le decisioni dei diversi governi, ovviamente; si può però chiedere la consapevolezza che i singoli uomini di stato sono condizionati da un insieme di fattori, che invece non hanno alcuna men- zione nel Baer. E’ indicativa, a questo proposito, la genericità dei suoi accenni a problemi che esulano dalla storia diplomatica, come il comportamento dell’opinione pubblica. Ad esempio, il Baer parla brevemente del successo popolare che l’impresa etiopica ebbe in Italia, ma lo addebita soprattutto al comportamento inglese; e scrive che « l’opposizione britannica fu l’elemento che trasformò gli italiani, avversi o indif- ferenti alla avventura personale di Mus- solini, in vigorosi, patriottici sostenitori dell’imperialismo italiano e del diritto dell’Italia ad agire in maniera indipen- dente » (p. 210; il concetto è ribadito a p. 476). Tesi interessante, ma priva di qualsiasi sostegno documentario! E così l’autore fornisce molte interessanti infor- mazioni sulla concorde decisione dei diri- genti britannici (civili e militari) di non

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RASSEG NA BIBLIOGRAFICA

Colonialismo

G eorge W. Baer, La guerra italo-etiopicae la crisi dell’equilibrio europeo, Bari,Laterza, 1970, pp. 536, L. 5.000.

Il titolo italiano è esatto solo nella sua seconda parte, che pure ha scarso ri­lievo tipografico sulla copertina del libro, perchè la narrazione del Baer si arresta proprio quando la guerra italo-etiopica inizia: il centro di interesse del volume è infatti l’incapacità dimostrata dalla So­cietà delle Nazioni di opporsi validamen­te all’aggressione italiana, nel periodo che va dall’incidente di Ual-Ual, che aprì uf­ficialmente la crisi, allo scoppio delle osti­lità il 3 ottobre 1935. Il titolo originale, The Corning of the Italian-Ethiopian War, è indubbiamente più aderente al conte­nuto.

La ricostruzione che il Baer traccia del­la politica europea nel 1935 è precisa e interessante, sorretta da una notevole co­noscenza della bibliografia e da una buona capacità di sintesi espositiva. Sono chia­ramente indicate le responsabilità dei governi francesi ed inglesi, entrambi de­cisi a non opporsi alla iniziativa imperia­listica di Mussolini se non nella misura necessaria a salvarsi la faccia dinanzi al­l’opinione pubblica internazionale; ne de­rivò la completa crisi della Società delle Nazioni, incapace di una reazione auto­noma che sovvenisse all’inerzia della Francia e della Gran Bretagna.

Ci sembra tuttavia che il volume del Baer non costituisca un sostanziale pro­gresso rispetto agli studi di Salvemini, sintetizzati in quel Preludio alla seconda guerra mondiale (Milano, Feltrinelli, 1967) che apparve in edizione inglese nel 1953. La disponibilità di una più ricca biblio­grafia (per es. del diario Aloisi e dei documenti diplomatici americani) ha ta­lora permesso al Baer di fornire maggiori dettagli, che però riconfermano l’interpre­tazione salveminiana. Da notare inoltre che il quadro di Salvemini è assai più ampio e convincente: si veda l’importanza assai maggiore (rispetto al Baer) data al­l’avvento di Hitler che, rompendo l’equi­librio europeo, lasciò all’iniziativa del­l’Italia fascista lo spazio per un’espansione

imperialistica, alzando il prezzo dell’al­leanza italiana per inglesi e francesi.

Nel volume del Baer apprezziamo 1* chiarezza con cui viene indicata la premi­nenza delle preoccupazioni per l’ordine interno nella decisione fascista. Come scri­ve l’autore, « per evitare le conseguenze del suo fallimento nel risolvere i pro­blemi della politica interna, Mussolini cercò di coinvolgere la nazione nella con­quista dell’Etiopia» (p. 43). Tuttavia il Baer giunge a questa conclusione sulla base di un’analisi della natura della dit­tatura fascista del tutto insufficiente, pre­scindendo dai suoi legami di classe fino a prendere sul serio le declamazioni musso- liniane in materia di corporazioni e di giustizia sociale. Secondo l’autore, Musso­lini si sarebbe deciso a puntare il prestigio del regime nell’avventura etiopica solo dopo aver visto l’impossibilità « di attuare per l’Italia un programma globale di ri­forma sociale ed economica » (p. 43). In questo ed in analoghi giudizi per gli altri stati sono evidenti i limiti dell’imposta­zione personalistica della ricerca del Baer, che sembra ridurre la storia al gioco di pochi personaggi. Non è ad un’opera di politica diplomatica che si deve chiedere lo studio delle forze sociali ed economiche che stanno dietro le decisioni dei diversi governi, ovviamente; si può però chiedere la consapevolezza che i singoli uomini di stato sono condizionati da un insieme di fattori, che invece non hanno alcuna men­zione nel Baer.

E’ indicativa, a questo proposito, la genericità dei suoi accenni a problemi che esulano dalla storia diplomatica, come il comportamento dell’opinione pubblica. Ad esempio, il Baer parla brevemente del successo popolare che l’impresa etiopica ebbe in Italia, ma lo addebita soprattutto al comportamento inglese; e scrive che « l’opposizione britannica fu l’elemento che trasformò gli italiani, avversi o indif­ferenti alla avventura personale di Mus­solini, in vigorosi, patriottici sostenitori dell’imperialismo italiano e del diritto dell’Italia ad agire in maniera indipen­dente » (p. 210; il concetto è ribadito a p. 476). Tesi interessante, ma priva di qualsiasi sostegno documentario! E così l’autore fornisce molte interessanti infor­mazioni sulla concorde decisione dei diri­genti britannici (civili e militari) di non

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inimicarsi Mussolini, ma non tenta alcuna spiegazione dell’orientamento anti-italiano e filo-societario dell’opinione pubblica in­glese; le contraddizioni della politica bri­tannica sono così registrate ma non ana­lizzate, con un impoverimento di tutta la narrazione.

In definitiva il volume del Baer si raccomanda per chiarezza espositiva e ricchezza di informazioni, anche se non per originalità di interpretazione e risul­tati; si muove inoltre nel campo di una vicenda diplomatica limitata -a pochi pro­tagonisti, i cui legami con le rispettive realtà nazionali non sono neppure accen­nati.

Il volume è corredato da una ricca bi­bliografia, in cui lo studioso italiano può trovare utili indicazioni sulla produzione anglo-americana; sono invece ignorate ope­re italiane del valore de La guerra d’Abis- sinia del Dei Boca (Milano, Feltrinelli, 1965) e le pubblicazioni dell’Ufficio sto­rico dell’esercito sulla preparazione della campagna. Correggiamo infine due piccoli errori della narrazione: Badoglio non fu in Eritrea nel 1934 (p. 50), e non è pos­sibile parlare di integrazione tra milizia ed esercito, sulla scorta di una frase di Mussolini del 1° febbraio 1935 (p. 141).

Giorgio Rochat

J. L. M iè g e , L'impérialisme colonial ita­lien de 1870 à nos jours, Paris, SEDES, 1968, pp. 418.

Segnaliamo con qualche ritardo questo studio sull’imperialismo coloniale italiano che, per quanto destinato esplicitamente agli studenti delle università francesi, viene ad acquistare un certo rilievo anche in Italia per la scarsezza di opere generali sulla nostra politica coloniale. E infatti il volumetto, malgrado la sua rapidità ed i vari limiti che indicheremo, ha un’am­piezza di analisi ed uno spirito critico sconosciuti alla nostra produzione fascista e post-fascista. Non che il Miège abbia condotto studi rinnovatori in materia: egli dipende sostanzialmente dalla pro­duzione esistente (né coglie tutte le aper­ture del volume del Battaglia su La prima guerra d’Africa), ma, non essendo chiuso da un’ottica nazionalista, non passa sotto silenzio i limiti più evidenti della politica italiana. Le pagine dedicate alla Libia tra le due guerre, ad esempio, sono estre­

mamente generiche sulle cause della pro­lungata resistenza araba, ma danno utili notizie sulla condotta e sul costo della repressione e ridimensionano opportuna­mente i dati ufficiali sui successi della colonizzazione, richiamandone il prezzo e la modestia dei risultati in confronto alle reali esigenze dell’Italia come della Libia.

Il volumetto, in sostanza, costituisce un utile approccio allo studio della politica coloniale italiana, anche se deve i suoi pregi più alle lacune della produzione italiana che alla profondità della sua ana­lisi. Già il titolo del volume è una con­cessione ai tempi più che la conclusione di una ricerca scientifica: il concetto di imperialismo, a nostro avviso, presuppone un’analisi generale delle strutture econo­miche e sociali nazionali, nel quadro di un giudizio di classe; e invece il Miège si limita a trattare della politica coloniale italiana nei termini tradizionali, in cui rientrano le sue rapide considerazioni sulle vicende parlamentari, sugli orienta­menti dell’opinione pubblica e sugli in­teressi immediati coinvolti nell’espansione africana. Gli è così possibile illustrare la politica coloniale fascista senza dedicare un rigo ai legami tra il regime e gli am­bienti finanziari ed industriali, concedendo al personaggio Mussolini (come prima a Crispi) un rilievo spropositato. D’altra parte il Miège dedica alcune pagine assai interessanti alle ripercussioni internaziona­li della vittoria italiana in Etiopia, ma dimentica completamente la lunga resi­stenza abissina che protrasse la lotta negli anni successivi.

Pregi e limiti del volumetto sono una conseguenza dell’evidente predilezione del­l’autore per un certo tipo di fonte fran­cese coeva degli eventi narrati, partico­larmente per i documenti diplomatici fran­cesi e per il Bulletin du Comité de l’Afrique française. Si tratta di fonti che sono immuni dal provincialismo e dallo sciovinismo della produzione italiana ed incoraggiano il Miège ad una visione am­pia dei fatti, ma nel medesimo tempo lo rinchiudono in una problematica diplo­matico-parlamentare molto datata e limi­tata. Si veda l’appendice documentaria del volumetto, in cui predominano i testi diplomatici, specie di origine francese, senza che sia possibile identificare un coerente criterio di selezione. Certo l’au­tore utilizza anche molte opere italiane (né gli si può fare addebito della loro povertà!), ma anche in questo la sua scelta ci sembra talora occasionale: si

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-veda la ricca ma disorganica bibliografia, che non costituisce né una guida ad un approfondimento degli argomenti, né una rassegna motivata delle opere principali, né un catalogo completo della produzione esistente.

L’aspetto più deficitario del volumetto è però l’inqualificabile frequenza degli errori di stampa che colpiscono i nomi ed i titoli italiani contenuti nel testo e nelle note. Siamo purtroppo abituati alla disinvolta ignoranza con cui gli editori francesi trattano l’ortografia italiana, ma non possiamo non protestare contro il record di errori che troviamo proprio in un testo dedicato alla storia italiana. A questo livello, la frequenza degli errori di stampa non può essere addebitata solo al tipografo, ma rientra purtroppo nel giudizio di superficialità che il volumetto merita. Che malgrado queste riserve si sia ancora indotti a consigliarne la let­tura, la dice lunga sulle carenze della storiografia italiana di argomento colo­niale.

Giorgio Rochat

P aolo Maltese, La terra promessa. La guerra italo-turca e la conquista della Libia 1911-12, Milano, Sugar, 1968, pp. 377, L. 3.000. Il

Il Maltese non proviene dalla storiogra­fia accademica, ma dall’attività di pubbli­cista nel cinema e nel teatro; e questo è un vantaggio, dato l’argomento di cui si occupa. La storiografia ufficiale ha in­fatti concesso alla guerra di Libia una attenzione limitata ma sicuramente pa­triottica, in cui non c’è spazio per ripen­samenti o autocritiche. Il Maltese invece affronta la materia con l’aggressività che viene da un impegno politico dichiarato, che lo porta a sottoporre a revisione i miti consolidati sulla conquista della Li­bia. Sulla base di ricerche ampie anche se un po’ disordinate nasce così una « cronaca storico-politica », come la defi­nisce l’autore, cioè una ricostruzione del­le origini e delle fasi della guerra che non è stretta in schemi preordinati, non pretende di tutto spiegare, ma si allarga sulla spinta della narrazione e della pole­mica.

Il maggior pregio del volume è la ri­presa della battaglia salveminiana, cioè l’utilizzazione della pubblicistica anti-colo­

niale della sinistra democratica e sociali­sta dell’epoca in una prospettiva politica analoga. L’autore si sofferma particolar­mente sullo sviluppo della campagna di stampa scatenata dalle destre a favore della conquista della Libia, analizzandone le spudorate falsificazioni e la costruzio­ne strumentale di miti senza fondamento. Concede invece assai minor rilievo alla preparazione diplomatica del governo Gio­lito, mentre poi dedica molta cura alla ricostruzione senza retorica delle opera­zioni italiane in terra libica, dagli sbarchi alle battaglie dei primi mesi. L’autore è assai parco di note e citazioni, tuttavia le sue pagine sono sufficientemente do­cumentate ed equilibrate, per quanto di­chiaratamente polemiche verso le esage­razioni e le menzogne della tradizione patriottica.

I limiti dell’opera stanno nella rinun­cia ad una ricerca autonoma, che vada oltre la pubblicistica e la stampa dell’epo­ca. Il Maltese infatti si muove nell’ambito degli interessi dell’opinione pubblica di allora: nulla quindi può dire sul sotto­fondo economico della guerra, di cui pure intuisce l’importanza, e ben poco sulle condizioni di vita e le aspirazioni delle popolazioni libiche. È soprattutto indica­tivo che il volume si chiuda con la pace italo-turca, proprio quando si apre l’ef­fettiva conquista italiana della Libia; e invece l’autore liquida in poche pagine la guerriglia ventennale sostenuta dagli arabi e la dura repressione condotta da­gli italiani: argomento su cui esiste po­chissimo materiale e tutto di parte colo­niale, ma che pure è fondamentale per qualsiasi storia che voglia rovesciare la prospettiva tradizionale.

Anche nei limiti di una riscoperta della posizione salveminiana, il volume è utile e vivo, e può essere di stimolo ad una revisione della consueta visione patriot­tica della presenza italiana in Africa.

Giorgio Rochat

Francesco Malgeri, La guerra libica (1911-1912), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1970, pp. 429, L. 7.000.

È questo il primo studio sulla guerra italo-turca del 1911-12 condotto con ri­cerche sistematiche negli archivi dello stato, del ministero degli esteri e di quello dell’Africa italiana, oltre che attraverso la

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consultazione della memorialistica, della pubblicistica di battaglia e delle fonti di­plomatiche edite. Esiste però, a nostro avviso, un’evidente sproporzione tra l’am­piezza di queste ricerche ed i risultati dell’opera del Malgeri, che rettifica in di­versi punti l’interpretazione tradizionale della guerra, ma non la sottopone mai ad un esame critico serrato. Il limite di fondo dell’opera è proprio l’ampiezza di una ri- costruzione che vuole abbracciare tutti i problemi connessi alla guerra italo-turca e non può quindi approfondirne alcuno; ecco i titoli degli otti capitoli in cui è diviso il volume, che danno un’idea della vastità degli argomenti trattati in 380 pagine di testo: 1) La penetrazione pa­cifica e il Banco di Roma; 2) La campagna di stampa a favore dell’impresa. Consen­si, critiche, opposizioni; 3) Dalla prepa­razione diplomatica alla dichiarazione di guerra; 4) I problemi militari e la resi­stenza araba; 5) I movimenti politici ita­liani e l’impresa libica; 6) La guerra « fu­turista ». Miti e realtà; 7) L’Europa di fronte alla guerra libica; 8) Le operazioni nell’Egeo e la pace. Come si può vedere, l’autore spazia dalla politica estera alla stampa, dalle operazioni militari alla let­teratura, dalla resistenza araba al malcon­tento dei soldati, dicendo quasi sempre cose interessanti, ma interrompendo ogni volta la sua analisi prima di giungere a conclusioni proprie, che costituiscano un reale progresso degli studi storici. Gli av­venimenti diplomatico-militari del 1911-12, infatti, non costituiscono un centro unifi­cante sufficiente per un’analisi che finisce col disperdersi in troppe direzioni.

Esemplifichiamo le nostre riserve con le pagine che il Malgeri dedica all’esame dell’atteggiamento dei soldati e dei loro familiari verso la guerra (pp. 276-299), che sono tra le più interessanti ed insie­me tra le più deludenti. L’autore registra che « la tesi dell’unanime consenso [dei soldati] all’impresa sembra accettata con maggiore o minore convinzione da gran parte della storiografia intorno alla guer­ra italo-turca » (p. 280); ne dà anzi chiari esempi e nota la continuità tra la propa­ganda 1911-12 e quella 1915-18. Conclu­de che indubbiamente « la ventata nazio­nalistica e patriottica contagiò [...] gran parte dell’opinione pubblica del paese », soffocando le resistenze all’impresa, che risultano « limitate, isolate, inoffensive » (p. 280). A questo punto però il Malgeri si distacca dall’interpretazione ufficiale e

avanza l’ipotesi che i non molti gesti di protesta anarchici indichino un più vasto malumore di base. Studi in materia non ne esistono, però l’autore. ha meritoria­mente cercato e trovato negli archivi di polizia materiale di un certo interesse, ossia lettere anonime di minaccia indiriz­zate a Giolitti dal fronte e dal paese e notizie su tutta una serie di manifestazioni di malcontento nelle caserme. « Questi episodi, egli commenta, dimostrano chia­ramente come tra una parte dei soldati la guerra non fosse affatto sentita, come su di essi la propaganda nazionalista e l’adesione di una gran parte dell’opinione pubblica all’impresa non riuscì a incidere » (p. 292); i più avveduti tra i testimoni « col passare dei mesi si ricredettero sul giudizio emesso nei primi giorni di guer­ra, nel clima eroico e patriottico creato intorno all’impresa tripolina », quando « tutti avevano salutato il comportamen­to dei soldati italiani con accenti lusin­ghieri ed espressioni di grande ammira­zione » (p. 296). Il discorso così impo­stato è assai interessante e sembra aprire una verifica critica di tutta un’imposta­zione politica e storiografica; e qui invece si ferma il Malgeri, che passa ad altro argomento lasciando deluso il lettore al­lettato, dopo aver concluso bruscamente che in Libia « il soldato fu visto anche come uomo, con le sue esigenze e i suoi limiti » (p. 299), grazie specialmente alle preoccupazioni di Giolitti per gli umori del paese. Una conclusione veramente sor­prendente, senza alcun appoggio documen­tario, che tronca il promettente discorso già avviato riportandolo nell’alveo del pa­triottismo moderato ufficiale.

Lo stesso atteggiamento si ritrova, ad esempio, nelle pagine dedicate alla resi­stenza araba (pp. 176-201). Il Malgeri de­scrive l’assoluta incomprensione dimostra­ta dalle autorità a tutti i livelli per la situazione libica reale (anche se, ci sem­bra, non ne trae le dovute conseguenze sul piano più generale); ma quando poi si occupa, sia pur brevemente, delle cause della resistenza araba, non fa che ripren­dere le posizioni più scontate. Già le sue prime righe sono caratteristiche: quella araba, egli scrive, « fu una ostilità decisa, sotto certi aspetti veramente e difficil­mente comprensibile, se non con la men­talità e con il metro del mondo arabo »- (p. 176): come se dovesse essere possibile comprendere gli arabi con la mentalità dei nazionalisti italiani! Tutte le vicende del­

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la repressione e della resistenza sono se­guite con l’animo benigno di chi si sente superiore; è così possibile al Malgeri ri­prendere senza riserve le conclusioni di Luigi Barzini: « L’errore di fondo fu quello di non aver compreso la mentalità araba, di averla giudicata attraverso la mentalità europea, di non aver studiato l’organizzazione sociale di quei popoli, di ignorare i nomi, la potenza, l’autorità dei singoli capi, di andare loro incontro col sorriso e col gesto amichevole, senza nul­la sapere del loro carattere sospettoso, incredulo e diffidente, di averli conside­rati come popolazione, senza sapere che in paesi arabi gli abitanti sono un mate­riale di guerra» (p. 185; il corsivo è no­stro). Che in fondo gli arabi avessero il diritto di difendere la loro terra da una invasione, è un pensiero che non sfiora nè il Barzini nè il Malgeri, che liquida un accenno agli orrori della repressione con un « imparziale » distacco: « Questi fatti erano poi una prova evidente dell’asprez­za e della difficoltà che la guerra com­portava per entrambe le parti » (p. 198). Nessuno pensa che nell’economia del vo­lume dovesse rientrare una compiuta ana­lisi delle cause della resistenza araba; l’autore avrebbe però dovuto evitare del tutto l’argomento oppure trattarlo seria­mente (la resistenza non durò un anno, ma un ventennio!), anziché limitarsi a recepire i giudizi paternalistici del Bar­zini, riprendendo anche le critiche all’at­teggiamento della stampa straniera.

Uguali riserve abbiamo per gli altri ca­pitoli, ognuno dei quali apporta qualcosa di nuovo e di stimolante che non è mai adeguatamente valorizzato. Si veda la chiu­sa delle pagine dedicate ai nazionalisti: « Dietro il nazionalismo c’erano, invece, forze politiche ed economiche che mira­vano ad impostare su nuove basi i rap­porti all’interno della vita politica italiana [...] su una piattaforma di più accentuato autoritarismo conservatore » (p. 259).Quali fossero queste forze politiche ed economiche, il Malgeri non dice; la sua analisi della situazione italiana si riduce così ad una rivalutazione di Giolitti assai più che della politica giolittiana, di cui si indica la crisi senza una ricerca delle cause.

Un appunto minore, infine, è la scarsa utilizzazione della produzione storiogra­fica contemporanea. Ci sembra che il la­voro del De Leone sulla Colonizzazione dell’Africa del Nord avrebbe potuto essere

consultato e citato con utilità, mentre mag­gior rilievo avrebbe forse meritato il Mal­tese che nel suo volume La terra promes­sa ha anticipato buona parte dell’esame della campagna di stampa nazionalista del 1911 condotto dal Malgeri e trattato assai più ampiamente i problemi della repres­sione.

Il nostro giudizio conclusivo sul volu­me del Malgeri è quindi solo parzialmente positivo. Gli riconosciamo l’ampiezza e l’interesse delle ricerche compiute, specie in archivi poco accessibili, ma riteniamo che il suo lavoro avrebbe tratto giova­mento da un maggior approfondimento di un minor numero di temi.

Giorgio Rochat

Antifascismo e resistenza

Agostino Conti (« Augusto ») - Franco F iorensoli, Le « Matteotti » nel CVL. Storia della divisione « Renzo Catta­neo », Torino, Associazione partigiani Matteotti del Piemonte, 1970, pp. 333.

Il tema della partecipazione socialista alla Resistenza è stato finora, com’è noto, studiato poco e in modo non approfon­dito: e ciò sia per responsabilità dei so­cialisti stessi, che non hanno dato agli studi sulla lotta di liberazione un contri­buto pari all’importanza della parte avuta dal loro partito, sia per ragioni di ordine storico e oggettivo. Non si può negare infatti che al contributo di rilievo dato dal PSIUP sul piano dell’elaborazione po­litica negli organismi nazionali e regio­nali della Resistenza non abbia corrispo­sto un ruolo altrettanto significativo nella lotta armata, nell’organizzazione e dire­zione delle formazioni partigiane. Anche se molte lacune devono essere colmate, anche se dallo studio di situazioni locali particolari potrà emergere in futuro una rivalutazione della stessa attività militare socialista, non c’è dubbio che essa si avvicina per importanza ed incisività più a quella relativamente modesta delle for­mazioni autonome che a quella delle for­ze garibaldine e gielliste.

Questo volume di Conti e Fiorensoli, frutto della collaborazione di un valoroso comandante partigiano con uno studioso che alle vicende del PSIUP nella Resi­

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stenza ha già dedicato altre preziose ri­cerche, deriva il suo interesse proprio dal modo in cui, da un lato, contribuisce a mettere in piena luce il ruolo politico e militare svolto da una brigata Matteotti nell’Astigiano, secondo la migliore tradi­zione di una storiografia « locale » che continua ad essere ricca di frutti; e, dal­l’altro, fa toccare con mano, sulla base di una fitta documentazione tratta dal­l’archivio della brigata stessa, i limiti che caratterizzarono in generale l’attività del­le « Matteotti ».

La storia della divisione « Renzo Catta­neo » (già brigata « Tre Confini ») è sot­to questo riguardo esemplare. Le sue origini e la sua iniziale caratterizzazione sostanzialmente apolitica si inquadrano nella visione della Resistenza, che pre­valse inizialmente in seno al gruppo diri­gente del PSIUP: quella, come ha scritto Arfé, di un movimento spontaneo, più o meno caratterizzato da una carica classi­sta, animato da una forte spinta unitaria, da incoraggiare, da favorire, entro il quale seminare idee, al quale partecipare con tutte le proprie forze, ma senza proporsi fini egemonici di guida. Sulla base di que­sta concezione il PSIUP, come mettono bene in rilievo anche gli autori, non si preoccupò di dare vita a formazioni parti- giane caratterizzate in senso di partito, e indirizzò i propri iscritti ad aderire alle formazioni partigiane già operanti. Si può dire che questo iniziale ritardo non venga più ricuperato: anche quando viene pre­sa la decisione di costituire e di raffor­zare le « Matteotti », il legame fra il par­tito e le formazioni resta piuttosto labile, quando non è puramente organizzativo. Ci sembra che anche la divisione « Renzo Cattaneo » confermi, almeno in parte, questa impressione: non si può dire una formazione con una forte e precisa carat­terizzazione in senso socialista. Socialisti sono, certo, molti dei suoi quadri miglio­ri: e la storia personale del comandante Gino Cattaneo e della sua famiglia sem­bra esemplificare molto bene l’importan­za della gelosa conservazione, durante il fascismo, di un patrimonio di tradizioni socialiste (i Cattaneo sono proprio quelli che Nenni, in un suo famoso scritto del 1932, aveva definito i « segnali di rico­noscimento » socialisti); ma la brigata nel suo complesso, a giudicare dagli stralci riportati dal suo giornale, La Voce di Renzo, dal tipo di provvedimenti che adotta nella propria zona operativa nei rapporti con i contadini, e ancor più dal­

la sua stessa struttura (in cui è significa­tiva la mancanza di commissari politici di battaglione e di distaccamento, e il ruolo marginale svolto da quelli di bri­gata), non pare avere un chiaro e definito colore politico, o nutrire propositi che vadano al di là di quelli generosi di un generico rinnovamento sociale che ani­marono si può dire tutte le formazioni partigiane. È chiaro che con questo nulla si toglie al valore della sua esperienza (che, fra l’altro, appare particolarmente importante come esemplare applicazione di una tattica di guerriglia radicata in zone collinari): oltretutto è da notare, da un lato, come una maggiore sensibilità politica prenda gradatamente forma negli ultimi mesi della lotta, e, dall’altro, co­me proprio l’assenza di un’accentuata ca­ratterizzazione politica abbia il suo ri­svolto positivo nell’atteggiamento aperto e unitario verso le altre formazioni, spe­cie le autonome e le « GL » che opera­vano nella zona: atteggiamento che trova il suo coronamento nella battaglia di Ci­sterna d’Asti (marzo 1945), sicuramente una delle più importanti della Resistenza piemontese, a cui parteciparono, con una dimostrazione di efficienza militare e di coordinamento politico di tutto rilievo, formazioni « Matteotti », « GL », garibal­dine e autonome, infliggendo una severa sconfitta alle forze fasciste.

Aldo Agosti

I giorni della Liberazione, redazione di O. Zappi, ricerca fotografica di F. Mon- tevecchi, Imola, Amministrazione co­munale, 1970, 32 pp., sip (allegato al bilancio di previsione 1970).

Questo innanzitutto (prima ancora di scendere su giudizi di merito o meno dal punto di vista scientifico) ci sembra da sottolineare: a quanto ci consta è la prima volta che un’amministrazione co­munale presenta come allegato al proprio bilancio, quindi come documento fonda- mentale della vita politico-amministrativa locale, una breve « storia » della propria lotta di liberazione. Se poi passiamo ad esaminare direttamente il contenuto del­l’opuscolo, siamo immediatamente colpiti dalla ricchezza del repertorio fotografico in gran parte inedito e proveniente oltre che da raccolte private locali, da impor­tanti archivi esteri quali quelli di Londra

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« Stoccarda. Forse un po’ scarso e « tra­dizionale » il testo che accompagna il ricco materiale iconografico ma certamente più che valida e da ricordare l’iniziativa.

Luciano Casali

G iorgio Braccialarghe, Nelle spire diUrlavento. Il confino di Ventatene negli anni dell'agonia del fascismo, Fi­renze, L’autore libri, 1970, pp. 105, L. 1.800.

In forma narrativa memorie e conside­razioni di un confinato di Ventotene, catturato dopo complesse vicende — ac­cennate solo indirettamente nel testo — che lo portarono in Spagna, a fianco dei repubblicani, e in esilio in Francia; da dove tentò all’inizio del conflitto mondiale di organizzare una spedizione in Italia, la quale fu stroncata ancor prima di nascere dalla polizia francese, che consegnò il promotore ai fascisti.

Il largo spazio lasciato alle meditazioni personali o alle notazioni, anche un po’ maligne, sul conto dei confinati non lascia molto respiro per notizie più precise sull’orientamento politico personale del­l’autore e sulla sua attività quale collabo­ratore all’elaborazione del programma fe­deralista. Poche le notizie su questo argo­mento nella corrente memorialistica (so­prattutto nelle lettere di Ernesto Rossi a Salvemini): non sarebbe stato male cono­scere più da vicino e più precisamente il panorama ideologico da cui il federa­lismo italiano nasceva, alla vigilia della caduta del fascismo. Dal libro non rimane altro che tentar di spremere qualche in­dicazione di nomi e di vicende da tener da parte nel caso che altri contributi me- morialistici venissero a integrare le co­noscenze per ora sparse e lacunose che possediamo su questo particolare settore.

Luigi Ganapini

J ack O lsen, Silenzio su Monte Sole. La prima cronaca completa della strage di Marzabotto, Milano, Garzanti, 1970, pp. 361, L. 3.200.

Fino al 1949 non si volle credere alla -effettiva realtà della strage di Marzabotto

e non sappiamo fino a qual punto abbia influito su questa voluta « incredibilità » l’enorme numero delle vittime (mai esat­tamente accertato, ma valutato somma­riamente per difetto in 1.830); o il fatto che (come scrive l’Olsen) essendo avvenuto il massacro in provincia di Bo­logna, in una zona cioè « rossa », i comu­nisti furono accusati di « strumentalizza­re » anche in questo la lotta di libera­zione. Cosi, continua Olsen, « i politici cattolici respinsero l’intera storia assumen­do una posizione che fu appoggiata da certi circoli tedeschi, coincidendo con la comprensibile riluttanza della Germania ad ammettere simili atrocità ».

Con queste parole conclude la sua Prima cronaca completa della strage di Marzabotto il giornalista statunitense Jack Olsen e molto opportunamente giunge la voce di questo ex ufficiale dell’OSS ad affiancare quella di Renato Giorgi le cui pubblicazioni (Marzabotto parla, Milano- Roma, Avanti!, 1955, pp. 149 e La strage di Marzabotto, Bologna, ANPI, 1954, pp. 163) restavano le uniche ricostruzioni obiettive di quei giorni del settembre 1944 durante i quali si tentò di cancd- lare l’esistenza di tutti gli abitanti del Monte Sole, in comune di Marzabotto. Molto opportunamente, dicevamo, perchè le opere dell’inglese F. J. P. Veale e, so­prattutto, la nota La menzogna di Mar­zabotto (Monaco, Schild-Verlag, 1961) del tedesco occidentale Lothar Greil (ol­tre che la campagna di stampa internazio­nale scatenata nel 1967, quando i soprav­vissuti rifiutarono la grazia al maggiore SS Raeder, responsabile della strage) ten­devano ancora recentissimamente ad avva­lorare la tesi diffusa da II Resto del Car­lino nell’ottobre 1944: « non è affatto vero che il rastrellamento abbia prodotto la decimazione ed il sacrificio nientemeno che di 150 elementi civili ».

La cronaca ricostruita dall’Olsen si av­vale ora della testimonianza di 65 soprav­vissuti e — grazie ad una capacità gior­nalistica veramente inconsueta — attra­verso esse e documenti non citati viene rivissuta nei minimi particolari l’intera vicenda umana degli abitanti del Monte Sole negli anni della seconda guerra mon­diale. Ed è l’ambiente contadino del Monte Sole che fa da sfondo alla vicenda, un ambiente che viene perfettamente rico­struito nei suoi aspetti sociali ed econo­mici almeno esteriori e più appariscenti: la vita quotidiana su un terreno estrema­

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mente avaro, che tuttavia da generazioni dava possibilità di « vivere » a centinaia di mezzadri. Quello che manca in Jack Olsen è la comprensione del fenomeno partigiano, del perchè i contadini poveri del Monte Sole si ribellarono ai bandi repubblichini, del perchè nacque in quella montagna una delle più leggendarie bri­gate garibaldine, la Stella rossa del Lupo. Ne risulta quindi che la ricostruzione del sorgere e dei primi tempi della formazione partigiana sono troppo spesso fedeli alla « leggenda » piuttosto che alla realtà ef­fettiva, esattamente al contrario di quanto riguarda i giorni della strage.

Su un fatto, tuttavia, vorremmo sof­fermarci. Secondo quanto scrive l’Olsen, la Stella rossa si ristabilì sul Monte Sole alla fine dell’agosto 1944 in seguito ad ordini « portati da un agente dell’OSS »; compito della brigata era « tenere in pu­gno la zona » per favorire l’avanzata al­leata in corso. A tale scopo furono anche effettuati tre aviolanci alla formazione. Tali ordini costrinsero il Lupo per oltre un mese in una zona facilmente indivi­duabile (come costrinsero i partigiani bo­lognesi a confluire in città fino alla bat­taglia di Porta Lame ed i partigiani mo­denesi a predisporre l’insurrezione e la marcia di avvicinamento alla pianura). Ma di tali « ordini » non si è più trovato traccia al termine del conflitto, per cui spesso si è scritto di una volontà anglo- americana di gettare allo sbaraglio le for­mazioni garibaldine emiliane come sembrò confermare qualche mese dopo il « pro­clama Alexander ». Il ritrovarli in questo volume ci fa porre immediatamente un interrogativo: sono essi frutto delle te­stimonianze raccolte dall’Olsen fra i pro­tagonisti della vicenda di Marzabotto, op­pure sono attinti direttamente dalle fonti dell’OSS americano, di cui l’A., ripetiamo, fu membro e delle quali quindi può es­sere a diretta conoscenza?

Niente di preciso è possibile desumere dal testo, ma resta il fatto che questa è ancora una conferma della « strana » si­tuazione dell’autunno 1944 in Italia, quando gli alleati sembrarono volere va­licare l’Appennino e ritardarono invece di sette mesi la liberazione della pianura padana.

Luciano Casali

E. Apih , M. Fabbro, G. Fogar, E. Ma- serati, T. Sala, C. Silvestri, S. Spa- daro, Fascismo, guerra, resistenza. Lotte

polìtiche e sociali nel Friuli-Venezia Giulia 1918-1945, a cura dell’Istituto di Storia medioevale e moderna della fa­coltà di Lettere e Filosofia (gruppo di lavoro CNR) dell’Università di Trie­ste, Trieste, Edizione libreria interna­zionale « Italo Svevo », 1969, pp. 451, L. 5.000.

È evidente che la crisi di trasformazione del vecchio stato agricolo-industriale ita­liano dopo la prima guerra mondiale si presenta con connotati diversi nel Friuli,, invaso e riconquistato, estrema appendice delle campagne venete, e nel territorio triestino neo-annesso al Regno. Qui la funzione già europea del grosso centro commerciale e industriale è degradata — o meglio tende a una riconversione — nella specifica realtà postbellica contrad­distinta dalla sistemazione degli interessi complessivi del capitale italiano nell’area adriatico-danubiana. I contadini smobili­tati che riaffluiscono nelle campagne friu­lane creando fenomeni di disoccupazione di massa (mentre rimangono interrotti i tradizionali canali di sfogo dell’emigra­zione) sono diversamente preparati, ri­spetto all’anteguerra, ad una politicizza­zione che trova i suoi presupposti nel « solidarismo di trincea », nelle promesse di terra sciorinate dopo Caporetto dai servizi propaganda militari, negli echi ri­voluzionari dell’ottobre rosso.

È il basso clero friulano, legato per estrazione e pratica di vita al mondo con­tadino — un clero già sospetto di paci­fismo durante il conflitto — che contri­buisce in modo determinante al definitivo superamento del vecchio clerico-modera- tismo e all’affermarsi anche in Friuli del popolarismo e del leghismo bianco. Ma l’organizzazione economica del movimento cattolico, vincolata alle numerose ramifi­cazioni del sistema bancario veneto e na­zionale, contraddice profondamente alla fame di terra propria degli strati conta­dini più poveri.

Lo scontro di classe violentissimo che investe la provincia friulana soprattutto nella primavera-estate del 1920 e che sembra voler colpire alle radici lo stesso assetto proprietario semifeudale delle cam­pagne trova riscontro nel movimento pre­insurrezionale in cui è coinvolto il prole­tariato urbano. Ma con irriducibile quasi manichea divisione di schieramento socia­le e politico: cattolici nelle campagne e socialisti nelle città sembrano partecipare di due mondi inconciliabili.

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Isolato dalle campagne, il socialismo friulano oscilla tra vetero-riformismo e massimalismo velleitario e non sa dare uno sbocco alternativo alle lotte di massa; non riesce nemmeno a far coagulare forme interessanti di spontaneo cooperativismo che intraprende di propria iniziativa la­vori di pubblica utilità le cui spese ven­dono addebitate alle amministrazioni lo­cali e ai ceti abbienti appositamente ta­glieggiati.

La giovane pattuglia comunista riuscirà soltanto a impostare un’opera di chiari­mento ideologico e di riorganizzazione di­fensiva dello schieramento di classe ormai messo alle corde.

Il blocco agrario solidissimo in Friuli per peso economico e politico adotta la propria risposta di classe tra remore e incertezze, compatibili tutte però con una linea di fondamentale coerenza. I gruppi intransigenti di tale blocco, disposti an­che alla scissione, collegati più organica- mente ad una visione regionale e nazionale dei loro problemi, coglieranno meglio la possibilità di razionalizzare la risposta col ricorso flessibile alle squadre fasciste (ri­sulteranno esse stesse trasformate in ele­mento d’ordine alla vigilia della presa del potere) e con una diversa utilizzazione degli strumenti offerti dall’apparato sta­tale (questura, prefettura, forze armate). Il fascismo acquista tardi, alla fine del ’21, un proprio spazio politico in Friuli.

È interessante come a rinsanguarne le file con dirigenti e gregari — nelle spedi­zioni punitive -— giungessero in più occa­sioni forti gruppi di fascisti giuliani. Il fascismo triestino, in particolare, aveva già nell’estate del ’20 offerto un’alterna­tiva di stabilizzazione antioperaia e anti­slava ai gruppi industriali (armatoriali e assicurativi soprattutto). Questa alterna­tiva (momento di un più profondo pro­cesso di riconversione degli interessi lo­cali nelle strutture economiche nazionali) verrà precisandosi nei due anni successivi pur tra battute d’arresto e crisi interne del fascio triestino (soltanto l’ipotesi di ordine consentirà, tra l’altro, di superare le contraddizioni derivanti dall’appoggio concesso all’impresa fiumana e dal succes­sivo disimpegno nei confronti di D’An­nunzio). Il fascismo triestino, elemento di m’ dazione tra vecchio e nuovo nazional- imperialismo, per la sua stessa strumen­tale disponibilità, consentirà ai gruppi del­la destra economica e politica dominante nella regione, di conservare una propria sostanziale individualità oltre la presa del

potere e nella costruzione stessa dello stato totalitario.

Va piuttosto notato come l’intervento nelle campagne friulane di nuclei fascisti giuliani sottolineasse il ruolo accentuata- mente territoriale che Trieste nel dopo­guerra veniva ad assumere verso la regio­ne veneta (dovrebbe essere esaminata la diversa gravitazione che sul centro adria- tico ebbe la penisola istriana). Erano spente le vestigia di « città-stato » che Trieste aveva sostanzialmente conservato nel quadro politico-amministrativo austria­co, ruolo esaltato dalle specifiche funzioni di ampia intermediazione economica e che rendevano secondarie quelle di centro pi­lota in una regione economicamente, etni­camente e storicamente differenziata. Ora, nel quadro di tendenziale trasformazione politico-istituzionale e di riassetto econo­mico della società italiana, nella prospet­tiva della nuova politica di potenza euro­pea, il « confine orientale » ipotizzava un blocco regionale omogeneo nella organiz­zazione amministrativa, nella ricomposi- schematico ai problemi sollevati nei primi difensivi-offensivi degli alti comandi mi­litari. E la conseguente riduzione-elimina­zione dei movimenti « sovversivi ».

C’è parso utile un richiamo pur così schematico ai problemi sollevati nei primi tre saggi della raccolta di contributi usciti dal gruppo di lavoro CNR facente capo all’Istituto di storia della facoltà di Let­tere dell’Università di Trieste (e a cui ha collaborato anche l’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione): il volume ripropone, pur nei limiti del sag­gio monografico, le possibilità che si apro­no ad una storiografia « locale » che vo­glia utilizzare correttamente nuove fonti documentarie, ma sappia soprattutto inse­rirsi nelle prospettive aperte da un più ampio dibattito storiografico.

Il saggio di Silvestri, Storia del fascio di Trieste dalle origini alla conquista del potere (1919-1922), dà un ulteriore con­tributo alla conoscenza dei complessi svi­luppi del fascismo giuliano e dei suoi rap­porti con i gruppi imprenditoriali locali. Il taglio stesso dato alla ricerca travalica le vicende triestine per ricollegarsi a quelle più generali della crisi di trasformazione dello stato italiano: notevole il ricorso ad uno spoglio minuzioso degli Atti parla­mentari.

I saggi di Fabbro, Le origini del fasci­smo in Friuli (1920-1922) e di Spadaro, Leghe bianche e lotte contadine in Friuli (1919-1920) sono strettamente compie-

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mentari. Più legato alla ricostruzione del quadro politico-amministrativo locale (ma anche qui vengono colti i legami con la situazione nazionale) il lavoro di Fabbro individua i termini del ritardato sviluppo del movimento fascista in Friuli; si avvale dello spoglio di alcuni fondi dell’Archivio centrale dello Stato e di una lettura atten­ta della stampa periodica coeva. Singolare e particolarmente degno di nota il saggio di Spadaro (ma ci auguriamo il prossimo adempimento della promessa dell’autore di completare l’arco cronologico della ri­cerca che dovrebbe giungere fino al 1924). L’attenzione di Spadaro alla nascita di un moderno movimento cattolico nel Friuli del primo dopoguerra è molto opportuna­mente ricondotta ad un ambito regionale più vasto. Si veda a questo proposito il richiamo alle vicende del Trevigiano, cen­tro importante di tutto il cattolicesimo sociale e politico veneto. Vengono indivi­duate le sollecitazioni non solo culturali di un certo modernismo che aveva messo radici non trascurabili nel seminario di Udine e che spiegano, malgrado l’inter­vento repressivo della gerarchia e oltre l’accostamento al sociologismo del To­molo, la formazione di un nuovo clero friulano, protagonista primario nell’opera di ricomposizione del movimento cattolico in Friuli. Corretta e ricca di dati (Spa­daro utilizza proficuamente una documen­tazione di prima mano proveniente non solo dagli Archivi centrali dello Stato ma anche da quelli vescovili della diocesi di Concordia) l’analisi del movimento econo­mico, degli sviluppi impetuosi del leghi­smo bianco (con alcune vivaci notazioni d’ambiente), delle prime inestricabili con­traddizioni che si manifestano nel movi­mento.

La seconda parte della raccolta anto­logica, Guerra e resistenza, è dedicata ad una serie di saggi che giungono a ridosso della seconda guerra mondiale, alla crisi incipiente del fascismo o affrontano temi della lotta politico-militare della resisten­za, dell’occupazione tedesca nel « Litorale Adriatico ». Ci sembra che il filo condut­tore delle ricerche conservi una fonda- mentale coerenza nel metodo e nelle pro­poste di « fondazione » che ne derivano.

Si veda il saggio di Fogar, Le brigate Osoppo-Friuli: qui l’analisi dei problemi complessi della resistenza, del partigianato friulano, ha sostanzialmente superato ogni intento commemorativo. Al di là degli aspetti militari, studiando la nascita e gli sviluppi di quella importante componente

della resistenza nella regione che fu il fe­nomeno delle « Osoppo », Fogar coglie i termini organizzativi, i limiti della dia­lettica: spontaneismo-politicizzazione, pro­pri della lotta in Friuli, le molteplici com­ponenti ideologiche e sociali che conflui­rono nella formazione e nella vita del movimento osovano. E le interne contrad­dizioni del raggruppamento: pur nella di­versa e specifica collocazione cronologica e tenendo conto dei mutamenti intervenuti in un ventennio con la presenza perife­rica del regime fascista (mutamenti tutti da studiare: è uno dei limiti più rimar­chevoli della raccolta questa cesura di ri­cerca per gli anni del regime), come non riandare a quel cattolicesimo — presente massicciamente nel movimento osovano — alle vicende del primo dopoguerra, al rapporto clero-contadini, alle sue interne contraddizioni analizzate da Fabbro e Spa­daro nella prima parte del volume?

Anche nel saggio di Fogar, come del resto in quelli di Sala e di Apih e in quello finale di Maserati, l’attenzione è ricondotta alle vicende nazionali e, spe­cificamente per questa seconda parte del volume, a quelle internazionali che condi­zionarono strettamente sviluppi ed esiti della lotta politico-sociale e militare nel Friuli e nella Venezia Giulia. È evidente a questo riguardo, per l’utilizzazione ad esempio delle fonti documentarie, il van­taggio della collaborazione che il gruppo di ricerca ha mantenuto con l'Institut za zgodovino delavskega gibanja di Lubiana.

Proposta di verifica quella che viene dalle pagine di Sala dedicate alla specifica situazione locale (Opinione pubblica e lotta politica a Trieste dalla « non belli­geranza » alla « guerra parallela » 1939- 1941). Esse ripropongono tra l’altro il tema rilevante della prima crisi pubblica del fascismo quando, col sostanziale falli­mento della campagna di Grecia, tramon­tano per il fascismo italiano le velleità di un’autonoma « guerra parallela » rispetto ai piani bellici dell’alleato tedesco e si giunge alla crisi Badoglio del dicembre 1940.

Ad Apih va il merito di aver sviluppato e approfondito i termini nuovi di una sto­riografia della regione non più meramente « localistica » con la ricerca e la stimo­lante sintesi interpretativa offerte dal suo libro apparso nel 1966 (Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia 1918- 1943, nella prima serie di studi curata dal­l’Istituto nazionale). Qui (Documenti sul­la politica economica tedesca nella Venezia

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Giulia) egli affronta minuziosamente alcu­ni aspetti specifici dell’occupazione nazista nel « Litorale Adriatico ». Ne risulta ben documentata l’ipotesi di una specifica li­nea « austro-nazista » fatta propria dal Gauleiter Rainer, rilevante anche per i tentativi di « paternalismo giustiziafista » —- come lo definisce Apih — che il Rainer volle sperimentare in campo sociale (e specificamente per la politica salariale).

Chiude il volume una bibliografia cri­tica dei periodici clandestini della Vene­zia Giulia in lingua italiana o bilingui (1943-1945) curata da Maserati. Dal suo saggio, frutto di un paziente lavoro di reperimento e di classificazione, risulta sottolineato l’aspetto anche di metodo e di indicazione implicito in un’attività di gruppo attenta ad impostare un discorso storiografico che dia spazio alla elabora­zione di alcuni strumenti di lavoro fon­damentali per gli ulteriori sviluppi della ricerca.

Ruggero G iacomini, Urbino 1943- 1944.

Cronache e documenti, Urbino, Arga-lla, 1970, pp. 300, L. 2.700.

Al libro di Giacomini, che è corredato da una ricca e inedita appendice docu­mentaria, nuoce un po’ quell’impressione limitativa che il titolo Urbino 1943-44 gli conferisce. In realtà si tratta di una seria e accurata ricerca, non tanto sulle vicen­de della città di Urbino, quanto sulla classe operaia, sui contadini e su altre forze sociali dell’urbinate durante il fa­scismo e la resistenza. Un libro quindi nuovo e originale, che tenta una nuova lettura della resistenza marchigiana a partire dall’analisi di una concreta situa­zione di classe. Ma vediamolo più da vi­cino. In una zona come quella urbinate, con una economia totalmente agricolo- mezzadrile, con una situazione sociale fortemente statica, il quadro politico che riemergeva, alla caduta del fascismo, era sostanzialmente quello prefascista: da una parte i gruppi politici espressione di forze borghesi e piccolo borghesi citta­dine, dall’altra comunisti e, in parte, so­cialisti che ritrovavano intatto nelle cam­pagne il loro seguito di mezzadri e ope­rai, ma che, per il momento, subivano l’egemonia dei partiti moderati. In questa situazione, il disorientamento, il caos mi­litare e civile che seguirono l’8 settembre

offrirono l’occasione a gruppi e maggio­renti locali (fascisti ed ex fascisti) di farsi portavoce della necessità di costituire, « in queste ore gravi e difficili », un comitato di solidarietà e di unità civica, che com­prendesse i cittadini più autorevoli e rap­presentativi di tutte le tendenze politiche. Questo in Urbino. In precedenza, già il 12 settembre, in Ancona, era compar­so sul Corriere adriatico un appello, di ex squadristi, di eguale contenuto. Óra, la stessa manovra riusciva parzialmente in Ancona (questa « avance » fu, infatti, accolta), veniva ripetuta alcuni giorni do­po a Pesato, Fano, Urbino ed in altre città delle Marche. Ci sembra che Giaco- mini metta bene in luce le motivazioni immediate che spingevano gli ex fascisti o filofascisti a proporre un accordo di quel genere; quello che invece l’autore non coglie appieno, secondo noi, sono le ragioni di classe che portavano alcuni settori dell’antifascismo ad approvare e sostenere tali alleanze. Era insomma il tentativo di ricostituire un blocco borghe­se-urbano che voleva, sì, seppure solo fino a un certo punto, opporsi ai tede­schi, ma che in realtà mirava ad arginare e ad imbrigliare, per quello che era pos­sibile (fino all’arrivo degli anglo-america­ni), la vivace presenza comunista nelle campagne e tra le file operaie. Ciò che diventa, invece, più difficile a spiegarsi è l’iniziale atteggiamento di alcuni nuclei comunisti che, in alcuni casi, non seppe­ro, con sufficiente prontezza, far fallire queste operazioni. Ad ogni modo via via che il partito comunista si rafforzava e le sue parole d’ordine cominciavano ad essere più diffuse e conosciute, l’inizia­tiva passava decisamente nelle mani delle masse popolari ed il rapporto di subordi­nazione in cui finora era venuta a trovarsi la « campagna » rispetto alla « città » in gran parte si capovolgeva. La seconda parte del libro di Giacomini è dedicata ad alcuni momenti della resistenza nella provincia di Pesaro.

L’autore rileva subito che la guerriglia, nel pesarese, nasce un po’ tardi: nel gen­naio ’44 si erano formati appena due gruppi partigiani, il « Picelli » con 50 uomini e il « Gramsci » con 20. È neces­sario, però, sottolineare che se le « ban­de », all’inizio del ’44, erano ancora de boli, tuttavia ben presto raggiunsero un livello qualitativo tale che superarono di gran lunga le altre formazioni della re­gione. Il Battaglia che, per primo, evi-

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denziò e cercò di spiegare questo dato scrisse: « La classe operaia costituisce la maggioranza dell’apparato direttivo... è questo — riteniamo — il segreto del successo ottenuto dalla « Pesaro », la ra­gione della sua maggiore forza rispetto alle molte unità dell’Italia centrale ». Ma aggiungeva: « [questa classe -operaia]...non ha ancora assolto in pieno alla sua funzione di classe dirigente suscitando attorno a sè e al suo fianco i suoi alleati, ed è sintomo di ciò la mancata formazio­ne di quadri contadini ». Il Giacomini, che tenta una più puntuale analisi dei rapporto città-campagna nella resistenza marchigiana, precisa ulteriormente il giu­dizio del Battaglia, dimostrando, attra­verso un dettagliato esame delle origini della resistenza urbinate-pesarese, che l’ap­porto delle masse contadine delle frazioni fu determinante per il sorgere del movi­mento partigiano, e che, poi, la stessa classe operaia locale, di cui scrive il Bat­taglia, « presenta caratteristiche peculiari che la distinguono, per esempio, dal pro­letariato industriale del Nord, si tratta infatti nella maggior parte di occupati in piccole imprese artigianali, lavoratori edili e manovali in genere, i quali spesso pro­vengono da famiglie contadine e parte­cipano tuttora saltuariamente ai lavori dei campi ». In sostanza, però, lo studio di Giacomini non è una acritica rivaluta­zione del ruolo della « campagna » nella resistenza pesarese, bensì un utile contri­buto ad una sua più aggiornata valuta­zione.

Paolo Giannotti

A ristodemo Maniera, Nelle trincee del­l’antifascismo, Urbino, Argalìa, 1970, pp. 225, L. 2.200.

È questo il primo volume di una nuova collana editoriale promossa dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, che si prefigge la pubblicazione di documenti, ricerche e memorie sulla storia dell’antifascismo e della resistenza marchigiana.

Nel libro l’A. narra in prima persona — come giovane studente socialista an­conetano prima e come comunista sin dal 1921 —, le vicende da lui vissute in Italia e all’estero dall’immediato periodo prebellico della prima guerra mondiale

sino al crollo del nazifascismo. Tali vi­cende si presentano strettamente connes­se alle lotte condotte dal movimento ope­raio europeo in quegli anni. Lo ritrovia­mo infatti nel 1925 impegnato nelle lotte della classe operaia di Torino da dove, esule, ripara clandestinamente nel 1929 nella vicina Francia. Combatte quindi nelle brigate internazionali in Spagna; ritorna in Francia ed è internato al Ver- net; evade .e si collega ai maquis e, final­mente, dopo una ennesima avventurosa fuga dal carcere, rientra in Italia nel 1944. Qui lo troviamo nuovamente nelle Mar­che, emissario del CLNAI, alla direzione del Comitato militare del CLN regionale.

Il libro è scritto con spontanea sempli­cità, la stessa — come annota nella pre­sentazione Fausto Nitti — con la quale il Maniera ha vissuto e sofferto gli avve­nimenti di cui è stato testimone ed auto­re. La narrazione è stringata, avvincente e molti sono i personaggi, gli antifascisti italiani e stranieri, noti e meno noti, con i quali egli viene a contatto e collabora.

Ci pare che questo volume possa es­sere diviso in tre parti principali: la resistenza in Italia alla penetrazione del fascismo; l’intervento attivo nei vari fron­ti europei di lotta; la resistenza armata in Italia. In appendice gli atti del proce­dimento penale per gli episodi del 1922 nei quali l’autore è coimputato assieme ad altri 53 antifascisti della sua città.

La prima parte del libro, sia nei limiti di una narrazione autobiografica, aggiun­ge particolari di notevole interesse alla ricostruzione della situazione locale, alla azione che i giovani socialisti anconetani di sinistra conducono tra il T8 ed il ’21 nonché al contributo da essi apportato alla nascita del partito comunista nella città e nei centri rurali ed artigiani limi­trofi. E la narrazione, dal momento in cui investe fatti di risonanza nazionale, quali la rivolta dei bersaglieri del giu­gno 1920 e gli scontri avvenuti per con­trastare l’occupazione terroristica della città da parte delle forze fasciste alla vi­gilia dell’ottobre 1922, assume un anda­mento corale ed illuminante.

Forse più personalistica —- cosa abba­stanza ovvia trattandosi di un lavoro au­tobiografico — si presenta l’esposizione del periodo torinese e dell’arrivo in Fran­cia. Poi il discorso riassume il tono e l’andamento consono alle grosse vicende politiche e belliche di quegli anni di vita comunitaria degli esuli italiani. Avvin-

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■centi e toccanti si presentano le pagine dedicate all’attività e alla lotta politica a Nizza e Tolosa; ai combattimenti e al­l’eroismo delle brigate internazionali in terra di Spagna (dove in uno scontro armato presso Argando, l’autore viene ferito); alla resistenza al Bosch.

Passando infine agli avvenimenti ita­liani (o più propriamente, marchigiani) del 1944 con la rievocazione di episodi spesso inediti o trascurati dalla storiogra­fia locale corrente, i giudizi che l’A. espri­me confermano quanto già autorevolmen­te espresso (dallo stesso Battaglia per esempio) sulle cause che ritardarono il formarsi di un comando ciellenista regio­nale unitario. Interessante sarebbe stato conoscere più dettagliatamente, a propo­sito dell’incontro che l’A. ebbe con Parti e Pajetta, l’opinione ed il giudizio di quest’ultimi sulla resistenza marchigiana. Emerge comunque da queste pagine un elemento oggettivamente importante, e cioè che se anche si giunse alla forma­zione di un comando unico regionale solo il 21 giugno 1944, non si deve ignorare che le Marche vengono liberate proprio fra il giugno e la fine d’agosto dello stesso anno e che quindi solo pochi mesi erano trascorsi dall’inizio vero e proprio della resistenza armata su scala offensiva.

Con la narrazione delle missioni effet­tuate a Roma, a liberazione della zona avvenuta, per contrastare il disarmo o quanto meno regolare l’utilizzazione delle forze armate partigiane nel loro incontro con gli alleati, chiaro esempio di ciò che più tardi sarebbe successo al Nord, si chiude questo volume autobiografico di 25 anni di vita e storia politico-mili­tare di un rappresentante del proletariato italiano.

Gianfranco Bértolo

Domenico Tarizzo, Come scriveva la Re­sistenza, Firenze, La Nuova Italia, 1970, pp. 279, L. 2.400.

Ottanta pagine di introduzione e quasi duecento di antologia costituiscono la du­plice struttura di questo interessante la­voro curato da D. Tarizzo. L’antologia ripropone una serie di articoli e docu­menti usciti sui giornali della Resistenza, nell’ambito delle diverse correnti politiche antifasciste, formazioni militari e zone

geografiche. Trattandosi di testi spesso non facilmente rintracciabili il libro avrebbe già una sua utilità pratica come raccolta di testi; tuttavia esso vuole an­dare al di là della compilazione e vi rie­sce, pur prestando il fianco a riserve, po­nendosi come un intervento che tiene conto sia del dibattito storiografico avvia­to sull’antifascismo e la resistenza, sia delle discussioni politiche attuali.

Mettendo a partito le sue doti origina­rie di scrittore e critico letterario, Tarizzo nell’introduzione accumula meriti parti­colari quando dà corpo a quella che deve essere stata la prima intuizione del lavo­ro; e — analizzando finemente come scriveva la Resistenza — riesce a trarre significativi dati storico-politici da un ap­proccio ai testi che è insieme psicologico e sociologico. L’esempio migliore di que­sta filologia politicamente rivelatrice — che forse vien da rimpiangere l’a. non abbia deciso di applicare metodicamente, facendone fino in fondo l’asse portante del lavoro — è rappresentato dall’esame de La parola del Bonsenso (pp. 25-28): un dialogo socio-politico sulla guerra e sul dopoguerra tra un erudito e un umile — uscito su Patria e Fede, periodico ciclostilato dalla brigata « Giovane Ita­lia », formazione autonoma di Bassano — che, abilmente interpretato e chiosato dal Tarizzo, mette bene in luce il timbro par­ticolare di una certa resistenza veneta. Altri suggestivi spunti di lettura in fili­grana dei testi antifascisti l’a. li offre esaminando il meccanismo dell’ubbidien­za interiorizzata — « il patriota è nobile d’animo, accetta e impone la disciplina, non critica, ragiona e obbedisce » — pro­posta come Legge del patriota nei volan­tini cattolici del Bresciano (pp. 29-30); studiando il lessico moralistico e tradi­zionalista, tipico della stampa clandestina veneta (p. 38); e, ancora, l’immagine pa­terna di Stalin proposta dai fogli comu­nisti (pp. 39-40); il pessimismo cattolico di De Gasperi, circa i limiti della demo­crazia e delle riforme (p. 71); e infine il « perbenismo » del Combattente, orga­no dei distaccamenti e delle brigate di as­salto Garibaldi, nell’enumerare i titoli di merito del governo Badoglio (maggio 1944) e la necessità di una assoluta disci­plina nazionale (pp. 55-58). Nella stessa direzione si pone l’individuazione che il Tarizzo compie della « espressione tema­tica di fondo che ricorre [...] nella stam­pa comunista più qualificata ». L’a. osset-

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va infatti che « l’inserzione nello Stato italiano delle masse socialiste è una co­stante che riflette bene il pensiero di Togliatti in merito alla funzione finali­stica della Resistenza: non rivoluzione del quarto stato contro la dittatura bor­ghese, ma inserzione del quarto stato nella società borghese ’ammodernata’ » (pp. 73-74).

È proprio per questa tesi di fondo riguardo la scelta moderata del PCI che il saggio di Tarizzo si espone a critiche. Non solo da parte di chi intenda negare pregiudizialmente la sola ipotesi di una messa in discussione dell’ortodossia e del fatto compiuto; ma anche di chi -— pro­prio perchè ritiene maturate le condizioni per un riesame storiografico e politico della resistenza e in essa, in particolare, della forza fondamentale del PCI — può ritenere indicativo dei tempi e stimolante, non però sufficiente, il serpeggiare ad ogni riga di una tesi siffatta, ma nel contesto di un lavoro pensato originariamente se­condo un taglio particolare che non con­sente al lavoro stesso di affrontare mai esplicitamente l’argomentazione e la do­cumentazione della tesi; e che quindi la lascia priva di quella struttura portante che sarebbe necessaria per porre con sal­dezza d’impianto un discorso critico di tal genere.

Così com’è, nel saggio di Tarizzo coe­sistono in modo irrisolto due tagli di discorso: quello filologico-politico, privi­legiato nel titolo, e quello politico-pole­mico, prevaricante nelle conclusioni.

In particolare — per quanto si possa ammettere che il linguaggio si trasformi e si adegui più lentamente dei fatti — non riesce facile saldare la rilevazione iniziale effettuata dal Tarizzo dei moduli espressivi e ideologici d’impronta ancora ottocentesca, moralistica, perbenista, di molta stampa partigiana, specie di pro­vincia, con il passaggio — a un certo punto del volume — all’ipotesi di una base più a sinistra del vertice, ma imbri­gliata e deviata dal moderatismo cielleni- stico della linea di Togliatti. Certo, molte cose oggi fanno pensare — o desiderare — che una tale dialettica possa esservi stata effettivamente; documenti in questo senso escono p. es., di recente, da L’Ita­lia dei quarantacinque giorni dell’Istituto per la storia del movimento di libera­zione; o dal saggio del comandante parti­giano Mario Bernardo, che — nei con­fronti del ruolo frenante dei partiti e dei

CLN — rivaluta il potenziale di lotta del movimento partigiano combattente (Il momento buono, Roma, Edizioni di « Ideologie », 1969). Ma dal momento che il linguaggio dei testi riportati nel­l’antologia in esame appare, proprio co­me linguaggio, piuttosto congruente alla impostazione patriottica del PCI che a quella d’una asserita alternativa di classe fermentante alla base del movimento, dal- l’a. ci si sarebbe potuto attendere un contributo specifico assai utile, in linea con le sue particolari competenze e con l’ideazione originaria del lavoro: che cioè avesse cercato di sciogliere il nodo costi­tuito dal contrasto, appunto, tra l’arre­tratezza ideologica apparentemente denun­ciata dall’arretratezza dei moduli espres­sivi della resistenza e, per contro, l’asse­rito carattere avanzato del movimento sul piano delle istanze e dei programmi poli­tici di base.

A questo proposito, mi sembra si debba pur constatare che il materiale documen­tario riprodotto in Come scriveva la Re­sistenza non pare, nel complesso, tale da suffragare per ora in modo probante l’ipo­tesi di una vasta e consistente contesta­zione di base al disegno strategico risul­tante dallo scontro-incontro dei partiti an­tifascisti al vertice. Una molteplicità di spunti eversivi — non tutti riconducibili alla dialettica unitaria della ricostruzione nazionale — pare semmai di veder rie­cheggiare da una parte del materiale pro­pagandistico raccolto in L'Italia dei qua­rantacinque giorni. Il che consente, na­turalmente, di mantenere aperta e sugge­stiva l’ipotesi di fondo dell’esistenza, al­l’interno del movimento partigiano, di rilevanti spinte centrifughe rispetto al disegno vincente. Senza peraltro miscono­scere l’opportunità di alcuni dei rilievi che muove Quazza •— intervenendo appunto in tema di Antifascismo, Resistenza e Ri­voluzione (Problemi, n. 22-23, luglio- ottobre 1970) — quando argomenta intor­no all’assioma che « non può essere Rivo­luzione mancata ciò che non è mai stato Rivoluzione » (pp. 942-943).

Ora — pur tenendo nel giusto conto il fatto che è Tarizzo il primo a dichiarare onestamente che i testi scelti sono lontani dall’esaurire l’argomento — arriverei qua­si a dire che la lettera di questi testi, se una suggestione propone, piuttosto che quella di una frattura rivoluzionaria, è quella di una continuità. Voglio dire — anche se qui può essere solo un accenno — che una lettura della stampa del 1943-

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45 sui due fronti, cioè una lettura in parallelo della stampa antifascista e della stampa della Repubblica Sociale, potreb­be condurre a rilievi di indubbio interesse per il nostro discorso; e in particolare a rilevare la concordia discors con cui fa­scisti e antifascisti organizzano la batta­glia ideologica e politica gli uni contro gli altri anche e proprio disputandosi l’eredità del patrimonio ideologico tradizionale del­la Patria e della Nazione. Un quadro di riferimento e un patrimonio di valori, cri­teri, miti, a proposito dei quali si potrà discutere chi potesse vantare più fonda­tamente il proprio buon diritto, o quanto fosse dovuto alle opportunità tattiche e alle necessità di alleanza del momento ecc.; ma che è già di per sè significativo vedere disputati da fascisti e antifascisti; e pro­posti da tutt’e due le forze in campo come proprio retroterra storico rispetto al quale si reclama la propria continuità; come sistema di legittimazioni nello scon­tro e nella differenziazione dall’avversa­rio, del quale invece si cerca di dimostra­re, rispetto alla tradizione nazionale, la discontinuità e la contraddizione; e, in­fine, come orizzonte generale della lotta politica del dopoguerra.

Mario Isnenghi

Luca Pallaj « Donato », Le Fiamme Verdi della « Italo », Edizioni a cura dell’ALPI di Reggio Emilia, pp. 296, L. 1.500.

Luca Pallaj, sacerdote di Reggio Emilia e combattente della Resistenza, ha pub­blicato recentemente, a cura dell’Associa­zione liberi partigiani italiani di Reggio Emilia medesima, un interessante e nu­trito volume di testimonianze e di ricordi sull’attività militare svolta nella provincia reggiana, durante la guerra di liberazione nazionale, dalla 284a Brigata Fiamme Verdi di estrazione cattolica. Tale bri­gata, che condusse varie azioni di com­battimento con estrema decisione e con energia (tra l’altro il 1° aprile 1945 con un sicuro contrattacco, in unione a reparti del battaglione alleato e del reparto ar­diti del Gufo nero, ristabilì le linee partigiane sconvolte da una profonda pun­tata germanica oltre il Secchia), non aveva ancora una sua storia ufficiale — se si eccettuano le pagine a essa dedicate da Guerrino Franzini nella sua fondamentale

Storia della Resistenza reggiana — e par­ticolareggiata, e si rischiava pertanto la dispersione di un vasto e prezioso mate­riale di ricordi e di documenti testimoniali. Molto opportunamente il Pallaj, dunque, ha raccolto con la collaborazione di altri combattenti della brigata (tra i quali la sorella Agata Luisa, don Domenico Orlan- dini, Luigi Ferrari, Romolo Fioroni, Sal­vatore Rotanti, Ivo Ghinoi, Bruno Mon­tanari, Bruno Piacentini, Mescenzio Feli­ci) testimonianze ex ore e documenti — molti dei quali assolutamente inediti, co­me diverse fotografie scattate in zona par- tigiana — per offrire agli ex combattenti della brigata e agli studiosi della Resisten­za il suo saggio. Esso, condotto con di­screto rigore storiografico, anche se non appesantito da soverchie note erudite, si presenta come un diario antologico di quelle difficili e impegnate giornate: si tratta, quindi, di un libro di notevole inte­resse che merita di essere letto e diffuso. Un unico appunto si potrebbe rivolgergli: qua e là tra le righe traluce un certo trionfalismo rievocativo che tuttavia si può giustificare nel ricordo dei sacrifici compiuti per la riconquista della libertà in un clima di operosa democrazia repub­blicana.

Guido Laghi

Berto Perotti, Tra littòrio e svastica. Memorie delTaltro asse, Quaderni del « Ponte », Firenze, La Nuova Italia, 1970, pp. 204, L. 2.000.

Il valore di questa raccolta di scritti, già editi per lo più in forma ridotta ri­spetto a quella attuale, risiede soprattutto nelle testimonianze dirette dell’autore e nei tentativi di ricostruzione in base alle testimonianze altrui. Sono notevoli i ri cordi relativi all’attività cospirativa attorno al 1930 (l’autore fece parte del gruppo milanese di giovani intellettuali scoperto nel 1937) non tanto e non solo perchè riescono a dare nuovi elementi attorno allo stile cospirativo di quegli anni, ma soprattutto per la ricostruzione dell’itine­rario culturale dell’autore e per le vicende che lo portano all’acquisizione di una co­scienza politica. È straordinario — ed è anche questo un elemento da capire e non, ovviamente, solo sul piano psicologico — come attraverso le testimonianze vengano posti in risalto, quali elementi determi-

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nanti ai fini della ribellione contro il re­gime, i dati di una sorta di vocazione in­teriore, di un’istintiva ripugnanza alla pro­paganda e alla massificazione del regime. In questo c’è, sicuramente, anche una ca­renza di prospettiva storica, che non per­mette al memoralista di dare una dimen­sione oggettiva e una qualificazione cultu­rale a questo elemento. La parte dedicata a questa vicenda non costituisce, del resto, che una parte del libro; due altri saggi cercano di esplorare la dimensione di due fenomeni della Germania nazista: la per­secuzione antisemita e l’opposizione anti­hitleriana da parte dei giovani. Anche qui il piano personale si impone, conforme­mente del resto all’intonazione letteraria di tutti questi scritti; e non è difficile scorgere, nella ricostruzione delle vicende della Rosa bianca, una trasposizione di esperienze personali, un’identificazione tra l’autore e i giovani del movimento, i quali provenivano « dalle organizzazioni del re­gime e studiavano all’università » (pp. 131- 132). Tra gli altri saggi si segnala quello dedicato all’Assalto agli Scalzi, una pun­tuale ricostruzione della liberazione di Roveda dalle carceri di Verona: la rico­struzione dell’episodio, anche se non esce dai limiti della fin troppo accentuata at­tenzione agli aspetti militari della Resi­stenza, è certo pregevole per l’attenta com­parazione delle testimonianze.

Luigi Ganapini

Movimento operaio e socialista

Yves Collari, Le parti socialiste suisse et l’Internationale, 1914-1915, De l’Union nationale à Zimmerwald, Gine­vra, Droz, 1969, pp. 373, frs. 60, « Pu­blications de l’Institut universitaire de Hautes Etudes Internationales », n. 49.

Non solo in Italia l’attenzione degli studiosi del movimento operaio va ripro­ponendo il dibattito su quel nodo che nella storia del socialismo è costituito dalla grande guerra. L’ultimo numero del­la Rivista storica del socialismo, intera­mente dedicato al PSI di fronte al con­flitto europeo (ed in cui sono ripresi gli studi di Leo Valiani), è venuto ad arric­chire un quadro in cui dominante per­

maneva il volume di Luigi Ambrosoli, Né aderire né sabotare. Ma non v’è dub­bio che, almeno dal momento dell’inter­vento, il socialismo italiano subisca una svolta, per la cui valutazione la parteci­pazione al conflitto costituisce il punto di riferimento obbligato.

Non cosi appare la grande guerra nel­l’opera del Collart.

Questi si domanda se il 1914 non rap­presenti che una semplice pulsazione del­l’evoluzione del socialismo, giacché, te­nendo conto di tutto, ci si stupirebbe assai più se nel 1914 uno sciopero gene­rale avesse risposto alle decisioni delle cancellerie. Da tempo infatti, « il socia­lismo era in ritirata » (p. 7). La tensione internazionale, i mezzi per prevenire un esito catastrofico dominavano a tal punto le riflessioni socialiste che la conservazio­ne della pace sembrava condurle assai lontano nelle preoccupazioni comuni sul­l’obiettivo di edificare una società nuova (P- 13).

Ma si avrebbe torto, tuttavia, a non di­stinguere le masse socialiste (o, più am­piamente, « operaie ») ed i quadri orga­nizzati. Questi ultimi, da tempo avevano provocato la concrescenza di un’ala mo­derata e riformista, in tutti i paesi euro­pei. E soprattutto in Svizzera, ove il riformismo aveva due ragioni in più che negli altri paesi: il rapporto con gli ope­rai immigrati e la necessità di conservare la posizione neutrale del paese, scelta, quest’ultima, che innestava il socialismo sugli interessi « nazionali ». Per gli stessi motivi il partito socialista svizzero trovò, sin dalle prime settimane del conflitto, il suo principale interlocutore nel partito socialista italiano, giacché il confine con il Regno era l’unica « bocca di aerazione » (p. 75) che ancora salvasse la repubblica elvetica dall’isolamento e dal soffoca­mento.

Perciò, proprio perchè la guerra aveva praticamente sospeso l’Internazionale, i dirigenti socialisti non corresponsabilizza- ti nella guerra danno vita ad un nuovo corso del socialismo, di cui la conferenza di Lugano e quella di Zimmerwald co­stituiscono le due prime, fondamentali tappe.

Collart documenta che, a differenza di quanto generalmente sostenuto, l’iniziativa della conferenza di Lugano — che viene quindi ad assumere un notevole ruolo non solo in vista della conservazione del­la pace in Svizzera ed in Italia, a ribadire

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gli obiettivi strettamente pacifisti del mo­vimento (pp. 110-118), ma anche ad av­viare verso la scelta di posizioni autenti­camente rivoluzionarie — venne proget­tata in ambienti svizzeri, non senza un appello al « Herrn Mussolino» (p. 118) non ancora scivolato tra gli interventisti.

Ma a Lugano, rileva Collart, lo spirito prevalente è quello di un honnête cour­tier e del cavalier seul (pp. 139 e sgg.), più animato da generico pacifismo demo­cratico che da vero e proprio socialismo, senza ipotesi di cogliere dalla guerra l’oc­casione per trarre deduzioni pratiche nel­la lotta di classe di cui il conflitto euro­peo veniva a ribadire drammaticamente l’attualità e la asprezza.

Ma verso la fine dell’anno, quando è ormai chiaro per tutti che le armi non verranno deposte e che altri paesi potran­no essere trascinati nella mischia, il clima inizia a cambiare nel senso di una più aperta ostilità. Nel marzo 1915, « fatto assai inconsueto in Svizzera» (p. 201) si verificano manifestazioni di massa contro l’aumento dei prezzi, e tutto il movimen­to operaio di quel paese, senza margini, si ritrova su una piattaforma che induce Grimm ad attribuire al partito socialista svizzero il ruolo di prendere in mano le redini della lotta per un risveglio effet­tivo della lotta di classe (cfr. Wir miissen wagen, in Neues Leben, 3 marzo 1915, pp. 65-70): scelta su cui non dovette es­sere senza peso la paralisi del PS in Italia ormai incapace di frenare la corsa verso la guerra.

Di fatto, la pace ed il rovesciamento dell’ordine sociale venivano ad unirsi in un unico disegno, divenendo fine e stru­mento l’uno dell’altro (p. 215). Ma a questo punto riaffiora la frattura tra il movimento socialista e l’union sacrée na­tionale, sia pure quella « neutralistica » della Svizzera, più preoccupata a gestire e giovarsi della propria pace, che a rag­giungere la pace europea con l’obiettivo di rinsaldarla e rafforzarla per mezzo di radicali rinnovamenti sociali.

È in questa situazione che s’inserisce il viaggio di Oddino Morgari in Svizzera (aprile 1915), che determina l’avvio verso la conferenza dei neutri (su cui cfr. il recente Renata Allio, Oddino Morgari socialista, in Bollettino storico-bibliografi­co subalpino, Torino, LXVIII, 1970, III-IV quadrimestre, pp. 367-392). Il 25 maggio — giorno dell’inizio delle opera­zioni di guerra tra l’Italia e l’Impero absburgico —, nel comitato centrale del

PSS, l’orientamento che condurrà a con­giungere « gli sforzi di individui molte­plici e fin là separati, in ordine sparso » (p. 236) appare maturo.

Il cammino verso lo « spirito di Zim- merwald » è tuttavia assai lungo, non solo perchè « la neutralità comportava privi­legi che si avvertono spontaneamente por­tati a compensare con una vocazione me­diatrice » (p. 275), ma anche perchè, men­tre nuove manifestazioni di massa — ot­tobre 1915 — pongono in evidenza la lotta politica nella guerra, tranne Grimm, tra i dirigenti socialisti svizzeri, preval­gono le preoccupazioni di non indebolire la compagine, di non mettere in forse la organizzazione e il rapporto con le poten­ti strutture sindacali scegliendo l’estre­mismo leninista e rompendo con l’oppo­sizione di destra (pp. 240-241).

Sarà solo nel giugno del 1917, al con­gresso straordinario del PSS, che viene definitivamente rifiutato il principio del­la difesa nazionale (p. 284). Ove si abbia presente che nello stesso momento i socialisti italiani si apprestavano a met­tere la sordina al formalismo neutralisti- co, parrebbe che i soli socialisti svizzeri — come partito —- abbiano rotto con la tradizione riformistica e si siano proposti una nuova Internazionale. In realtà, scri­ve Collart, c’è in essi, dai quadri diri­genti alle masse, una « preoccupazione di continuità, una volontà di unire più che di rottura », e il « fine assolutamente prioritario di servire la pace » (p. 289), senza necessariamente passare attraverso la rivoluzione. Sicché pare lecito afferma­re che con l’allontanamento di Lenin dalla repubblica elvetica si smorza la stretta connessione tra rivoluzione e guer­ra europea, individuata a Zimmerwald, e proiettata inevitabilmente verso una nuo­va Internazionale.

Il reflusso dei socialisti svizzeri, con­clude Collart, è all’origine dello scarso interesse prestato dagli studiosi anche al momento più intensamente creativo del PSS, al biennio 1914-1915, quando si formano al suo interno le condizioni fa­vorevoli alla promozione di nuovi orien­tamenti, di cui, tuttavia, gli stessi diri­genti svizzeri non prevedono chiaramente gli sviluppi.

Anche nella ricerca condotta dal Collart —- che si conclude con un’appendice di lettere scambiate tra Grimm e Martov, con il rapporto di Grimm a Zimmerwald, il 6-IX-1915 ed una bibliografia di 30 pagine, una delle più ricche tra quante

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sia dato disporre sul socialismo italiano d’inizio secolo, anche per i riferimenti archivistici — l’indagine sul socialismo svizzero è condotta più per le opportu­nità da esso offerte a socialisti di altri paesi che per la sua stessa vitalità; e non è detto che tale disponibilità debba es­sere attribuita ad una sua particolare vocazione internazionalistica. Approfon­dendo lo studio sui sindacati si potrà forse rinvenire una risposta più analitica, in cui gli interessi prevalenti delle masse lavoratrici dal punto di vista economico e della difesa della condizione privile­giata offerta dalla confederazione elvetica costituiscono il correttivo e il freno co­stante nei confronti della politicizzazione del movimento operaio.

Infine, non potrà essere taciuta la lar­ghezza dei mezzi che Y. Collart ha avuto a disposizione e di cui s’è giovato: da borse di studio alla costante assistenza di numerosi autorevoli collaboratori e mae­stri. E ciò non già per diminuire in qualche modo il merito di Collart, la cui opera piace soprattutto per la forza cri­tica che la anima e per il gusto della di­scussione ideologica, ma al fine di ricor­dare una volta di più la estrema povertà in cui, viceversa, sono abbandonati gli studi e gli studiosi in questa penisola che non manca occasione di millantare il suo « senso storico ».

Aldo A. Mola

Lotta di classe e democrazia operaia. I metalmeccanici e i consigli di fabbrica, a cura di E. M ia ta , M. Ba ld a ssa rr i, A. P epe , Roma, 1970, 2 voli, di pp. 937, « Quaderni di Sindacato Moder­no, n. 5 ».

È accaduto in questi ultimi due o tre anni che il movimento sindacale italiano, mentre ha visto crescere la sua influenza fra i lavoratori e si è indiscutibilmente affermato come forza dirigente e unifi­cante delle loro lotte, ha preso altresì co­scienza della sua storia e, in mancanza di apprezzabili contributi di studiosi di pro­fessione, ha cominciato se non altro a promuovere la pubblicazione di quelle fonti e di quel materiale documentario che sono la base indispensabile per qual­siasi seria indagine storiografica. Vanno considerate in questo quadro la pubblica­zione degli atti dei Congressi della CGIL

dal 1944 al 1965, la biografia di G. Di Vittorio di cui si parla più avanti in questa stessa rassegna bibliografica, l’im­portante contributo alla storia recente del­la CGIL fornito da tre giovani sindaca­listi cattolici (Cella-Manghi-Pasini, La con­cezione sindacale della CGIL, Adi, 1968) e vari altri lavori, di valore e impostazio­ne differenti, apparsi dopo il 1966 L

A questi contributi si viene ora ad ag­giungere, con una dimensione cronologica più ampia e impegnativa, il Quaderno n. 5 di Sindacato moderno, organo della FIOM, che, nonostante la modestia con cui lo presentano i curatori, risulta di notevole interesse per gli studiosi del mo­vimento sindacale operaio in Italia. Si tratta, in sostanza, di un’antologia di scritti e documenti (per lo più non ine­diti) incentrata sul tema del rapporto fra sindacato metalmeccanico e organismi ope­rai di base (Consigli di fabbrica, comitati di agitazione, delegati di squadra e di reparto): rapporto non sempre facile ed anzi caratterizzato, in alcune fasi, da una sostanziale incomprensione della FIOM per le nuove forme di lotta e di orga­nizzazione create dalle avanguardie ope­raie.

I due volumi si articolano in quattro sezioni. La prima fa il punto sulla situa­zione organizzativa e sull’iniziativa poli­tica e rivendicativa della FIOM all’indo­mani della sua nascita, riproducendo i due capitoli più importanti di un raro volu­metto pubblicato nel 1907 dall’allora se­gretario dell’organizzazione, Ernesto Verzi: I metallurgici d’Italia nel loro sindacato, libro ancora oggi interessante dal punto di vista storico, perchè riesce a dare un quadro ampio non soltanto dello sviluppo dell’organizzazione in rapporto allo svi­luppo industriale, ma di tutta la proble­matica sindacale e politica dell’epoca, for­nendo in particolare una ricostruzione esauriente dei contenuti rivendicativi e della linea strategica della FIOM in que­gli anni.

La seconda sezione comprende una scel­ta molto ampia (oltre 400 pagine) di scritti e documenti sui Consigli di fabbrica fra il 1919 e il 1921. In particolare è seguita attentamente in tutto il suo svolgimento la polemica sui Consigli che divise l’« Or­dine Nuovo » e il « Soviet » di Bordiga, — polemica già nota nelle sue linee gene-

1 Per una rassegna completa di questi lavori, si veda l ’ultima parte (1945-1969) del volume II movimento sindacale in Italia. Rassegna di studi, Torino, Fondazione Einaudi, 1970.

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rali ma, per quanto ci risulta, mai rac­colta e presentata organicamente in un unico volume — ad inquadrare la quale nel più generale contesto politico italiano ed europeo j iova la breve ma ottima in­troduzione di Adolfo Pepe. Emerge dalla lettura di queste pagine come — lo rileva proprio Pepe — « la ’necessità determi­nata’ del consiglio operaio fosse nella stra­tegia ordinovista complementare e stretta- mente legata alla ’azione consapevole’ del partito, del sindacato » e come proprio su questo problema avvenisse la differenzia­zione polemica dal gruppo bordighista, il quale, mettendo Faccento principalmente sul partito rivoluzionario come agente mo­tore del processo di conquista del potere, vedeva nell’esperimento ordinovista il ri­schio della trasformazione del Consiglio in « rinnovato strumento di una politica sindacalista e gradualistica, rivolta, al di là di tutte le intenzioni rivoluzionarie, alla collaborazione efficientista con le forze produttive del capitale sul luogo stesso in cui esse avevano più bisogno di collabo- razione, la fabbrica» (pp. 119-121). In­sieme a questi documenti sono pubblicate, sempre nella seconda sezione, alcune prese di posizione ufficiali della FIOM sui Con­sigli, che rivelano appunto la sordità e l’incomprensione di cui si diceva, anche se, come rileva giustamente Pepe, conten­gono alcuni elementi di fondatezza quan­do mettono in guardia dal rischio di fra­zionamento aziendalistico delle lotte ,e della strategia rivendicativa. Purtroppo i documenti della FIOM pubblicati sono relativamente pochi, e rigorosamente uffi­ciali, mentre sarebbe interessante amplia­re ii quadro delle posizioni sindacali in­cludendo nella documentazione ordini del giorno locali e d’azienda (non sappiamo quanto facilmente reperibili).

Il secondo volume, che contiene la ter­za e la quarta sezione, presta il fianco ad alcuni rilievi critici. La terza sezione è dedicata alla Resistenza e riproduce in­tegralmente i documenti pubblicati da R. Luraghi in appendice al suo II movimento operaio torinese durante la Resistenza-, do­cumenti estremamente interessanti, ma la sezione sarebbe stata più ricca se si fosse tenuto conto anche di documentazione più generale, e riferita a una gamma più vasta di situazioni locali (pensiamo per esempio al materiale reperito da Antonio Gibelli per Genova, in particolare per quanto ri­guarda i rapporti fra Comitati d’agitazione e CLN di fabbrica, o all’inchiesta condotta nel 1944 a Milano da Lelio Basso in varie

fabbriche della città, pubblicata dalla ri­vista del PSIUP Politica di classe).

Dal periodo della Resistenza si passa con un salto un po’ brusco agli anni 1964- 1970, a cui è dedicata la IV sezione. Del tutto scoperto resta il periodo 1945-1964: eppure non sono certo mancate in questi anni esperienze che abbiano posto in ter­mini nuovi il problema del rapporto fra sindacato e organismi di fabbrica: si pensi soltanto ai commissari di reparto e ai consigli di gestione, sui quali sono dispo­nibili fonti e documenti di importanza non secondaria. La lacuna nuoce quindi abbastanza gravemente all’unità e alla completezza dei due volumi.

Per quanto riguarda la quarta ed ulti­ma sezione, essa documenta con ampiezza la nuova sensibilità via via dimostrata dal­la FIOM — a partire dal Congresso di Rimini del 1964 —• per le nuove forme organizzative a livello di fabbrica. Se un appunto si può muovere, è che la scelta è limitata anche in questo caso a docu­menti nazionali e ufficiali, mentre man­cano quei documenti di organizzazioni lo­cali e di fabbrica che spesso esprimono le posizioni nuove con un’efficacia e una chiarezza d’impostazione quali non sempre è dato di riscontrare nel clima un po’ unanimistico dei congressi e delle confe­renze.

Aldo Agosti

P aolo Spriano , Storia del partito comu­nista italiano, voi. I l l : I fronti po­polari, Stalin, la guerra, Torino, Ei­naudi, 1970, pp. XII-362, L. 4.200.

Questo nuovo volume dello Spriano riapre la discussione che si è sviluppata negli ultimi anni attorno alla storia del partito comunista italiano e che in­veste questioni di metodo e valutazioni di merito. Le critiche che sono state rivolte all’impostazione seguita da S. nei volumi precedenti, e anche in quest’ulti­mo (cfr. la recensione di Amendola in Rinascita, a. XXVIII, n. 1, 1° gennaio 1971), si appuntano, sia pure con intenti diversi, sulla preminenza assegnata al quadro internazionale, ai legami del PCI con ITC, e sulla riduzione della storia del PCI a quella del suo gruppo diri­gente. Questi elementi sono indubbia­mente presenti nella storia di S. ma me­ritano, a nostro giudizio, un esame di­stinto e più approfondito, che del resto

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solo in parte sarà possibile condurre a termine nei limiti di questa recensione.

L’immagine tradizionale che i comuni­sti avevano dato della loro azione nel periodo tra il 1935 e il 1939 prima del volume di S. tendeva a sottovalutare il ruolo determinante svolto da Stalin e dal- l’IC nell’impostare la politica dei fronti popolari. E’ sufficiente rileggere le con­siderazioni in più occasioni svolte da Amendola o da Sereni per ritrovare, ac­canto ad un apprezzamento largamente positivo della « giusta » linea dei fronti popolari, l’invito a non considerare tale linea quale espressione dello stalinismo e a porre l’accento piuttosto sulla sua corrispondenza con le esigenze delle mas­se popolari. Nel volume di S., al con­trario, l’analisi parte, correttamente, dalle parole d’ordine dell’IC, dall’analisi delle loro motivazioni, dal ruolo di Stalin, e solo successivamente si restringe a con­siderare le ripercussioni di tali scelte sulla sezione nazionale italiana, sul suo gruppo dirigente, sulla situazione italia­na. Anzi, in questo terzo volume, lo spazio dedicato alle motivazioni « ester­ne », alla stretta autoritaria e repressiva delle « grandi purghe » staliniane, alle caratteristiche del quadro internazionale, prende un rilievo ancor maggiore che nei precedenti. In particolare, la subordina­zione dell’IC alle scelte operate dal grup­po dirigente del partito comunista so­vietico, e, ormai, del solo Stalin, l’iden­tificazione, che, di conseguenza, la stessa IC opera, degli interessi del proletariato mondiale con le esigenze della politica estera sovietica, non solo non vengono sottaciute ma escono al contrario in pri­mo piano con grande rilievo. Si vedano ad esempio le pagine assai equilibrate dedicate al patto germano-sovietico, lad­dove, se si riconoscono le ragioni che determinarono la scelta sovietica, si cri­tica l’adeguamento meccanico dei par­titi comunisti occidentali (quello france­se in primo luogo) alle direttive dello stato sovietico.

Senonché, quello che costituisce, a no­stro giudizio, un corretto punto di par­tenza non viene sostenuto da un adegua­to approfondimento. S. avverte la neces­sità di spiegare l’intreccio, innegabile, tra la politica dei fronti popolari — che anche per lui costituisce l’approdo posi­tivo di una pluriennale elaborazione — e le esigenze dello stato sovietico nel periodo del massimo potere di Stalin e dell’eliminazione violenta di ogni op­

posizione. Su quest’ultimo problema, le- pagine di S. sono assai informate ed elo­quenti: i dati sulla repressione, sul mo­do in cui vennero allestiti i- processi degli anni 1935-’38 costituiscono una documen­tazione schiacciante dei « crimini » di Stalin. Ma il discorso si arresta qui: sal­vo pochi e non risolutivi accenni ini­ziali, la falsariga lungo la quale S. si muove è quella del XX Congresso, della denuncia degli errori e dei crimini, appun­to, del « dittatore ». Non che, natural­mente, non siano da tenere presenti le osservazioni dello stesso S. circa l’impos­sibilità, allo stadio attuale della docu­mentazione, di produrre un contributo davvero soddisfacente all’analisi dello stalinismo nel periodo in questione. Tanto più che, a rigore, una tale analisi non costituiva l’oggetto specifico della sua ricerca. Tuttavia, proprio il punto di vi­sta dal quale egli osserva e valuta la politica del PCI avrebbe richiesto un giudizio meno epidermico e capace di individuare gli elementi strutturali della società sovietica e del quadro interna­zionale (non esaminato perciò soltanto al livello diplomatico) che contribuiscono a spiegare la « stretta » degli anni 1935- ’38, secondo le indicazioni che anche re­centemente sono venute da più parti e che consistono, per dirlo con una for­mula, nella necessità di applicare il mar­xismo all’analisi della società sovietica. E’ fin troppo ovvio che, sul piano storio­grafico, non può essere accettata una sor­ta di « culto della personalità » alla rovescia che attribuisca, come una volta tutti i meriti, così ora tutte le colpe alla persona, alla volontà tirannica di Stalin.

Nel volume di S. si tende a presentare la politica dei fronti popolari e l’ege­monia staliniana in URSS e nellTC come due facce contrapposte: la politica dei fronti popolari è vista come il positivo ed i riflessi dell’egemonia staliniana sul­l’azione del PCI e degli altri partiti comunisti europei semplicemente come l’ostacolo che si oppone allo svolgimento della giusta politica unitaria. I due pro­blemi vanno al contrario affrontati nel loro complesso e il giudizio non può non essere globale: né, pertanto, allasua determinazione concorre sufficiente- mente il criterio, da altri sostenuto con forza, dell’« analisi differenziata », che prevede una assunzione statica di tutti gli elementi costitutivi del quadro, non raggiunge mai, appunto, una conclusione

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soddisfacente e sintetica e, con un proce­dimento falsamente dialettico, sanziona il già avvenuto.

Ma torniamo all’oggetto specifico del volume di S., alla storia del PCI nei secondi anni trenta. Sono giustificate le critiche che rimproverano all’a. lo scarso spazio dedicato all’azione del PCI in Italia e la preminenza assegnata alle vicende del suo gruppo dirigente? In questi termini, il problema ci sembra po­sto male: a molte di queste critiche è sottesa una concezione populistica e giu- stificazionista dell’azione del PCI in I- talia. Cerchiamo al contrario di verificare attraverso uno dei problemi chiave del periodo, l’analisi della politica di fronte popolare, quelli che a noi sembrano i limiti della impostazione di S. Il suo discorso, anche a questo riguardo, parte correttamente dall’analisi delle esperienze internazionali, spagnola e francese, che indubbiamente influenzano la politica del PCI. Di esse, nel quadro di un giudizio sostanzialmente positivo, si pongono in luce anche alcuni elementi negativi: in primo luogo — il riferimento è esplicito per la Francia — lo svolgersi del proces­so unitario sempre più « dall’alto » e quindi, sembra di capire, il suo tenden­ziale contrasto con esigenze unitarie di segno opposto. Non è chiaro, tuttavia, se questo limite venga inteso come un limite obiettivo e non contestabile della situazione francese o come un limite al­meno in parte soggettivo e imputabile alla stessa impostazione della strategia dei fronti popolari e coinvolgente per­tanto una critica all’operato del PCF. Manca invero nel volume di S., che pre­ferisce sciogliere i nodi teorici e politici generali nell’ambito di una narrazione di­stesa dei « fatti », un giudizio comples­sivo su tutta intera l’esperienza dei fron- d popolari. Si veda ad esempio l’analisi dell’applicazione, da parte del PCI, della nuova strategia. L’impianto del discorso non esce dal quadro tradizionale: S. il­lustra, utilizzando con ampiezza le fonti e la documentazione più recente, la pre­senza dell’antifascismo italiano (e del PCI in modo particolare) nella guerra di Spagna, le ripercussioni anche psicologi­che che l’eco di quelle vicende ha nel paese, chiarisce i momenti e i termini del processo di aggregazione unitaria degli antifascisti in esilio in Francia, insiste nel rilevare le crepe che cominciano ad aprirsi nel blocco fascista di potere e di organizzazione del consenso ■— di

cui espressione più consistente appaiono i nuovi atteggiamenti della giovane ge­nerazione intellettuale. Ma tutto questo, invece di risolvere, pone una serie di in­terrogativi. Che rapporto esiste tra la politica di fronte popolare e di unità di azione con il partito socialista elaborata nell’emigrazione, e perciò con evidenti caratteristiche di vertice, e l’atteggiamen­to e la lotta delle masse popolari italiane? Non è significativo che 1’affermarsi della strategia « frontista » coincida con il cre­scere in Italia di una leva di intellettuali comunisti e non manifesti un’analoga forza di attrazione nei confronti della classe operaia e delle masse contadine? Anzi, è proprio in questo periodo che cominciano a manifestarsi le resistenze dei quadri e della base del partito alla nuova politica (si cfr. il rapporto di Grie- co del novembre 1937, p. 230). La stret­ta burocratica, il riferimento ossessivo alla « vigilanza rivoluzionaria » che por­teranno alla crisi nella direzione del par­tito — processo che S. sottolinea criti­camente — hanno, nell’interpretazione del gruppo dirigente italiano, come, del resto, più in generale e salvo irrigidi­menti tattici, nella linea generale dell’IC, un contenuto esplicitamente antigauchiste: non è casuale che, nello stesso rapporto di Grieco, proprio le accuse di riformismo lanciate da alcuni settori della base alla politica del partito vengano poste alla origine della necessità di una maggiore vigilanza contro le insidie del « trocki- smo-bordighismo-massimalismo ». Del re­sto, sia pure entro un’ottica strumentale e mistificatoria, le critiche di Manuil’skij e dell’Internazionale (p. 253) colgono nel segno quando rimproverano al PCI di agitare in Italia parole d’ordine ecces­sivamente « nazionali » e opportunistiche.

Non si tratta perciò tanto di lamentare10 scarso spazio dedicato all’Italia o l’ec­cessiva attenzione per i dibattiti interni al gruppo dirigente del partito, che rive­stono, in ogni caso, un notevole inte­resse. Le stesse considerazioni svolte sopra sulle « resistenze » della base del partito rischiano di non andare oltre11 livello di uno sterile ribaltamento « po­litico » e demagogico, se non vengono sostanziate da un’analisi che investa le strutture e la dinamica sociale della so­cietà italiana durante il fascismo. E’ il taglio generale della ricostruzione, pertan­to, che si presta a rilievi critici. Rilievi che, d’altronde, più che investire i risul­tati della ricerca di S. denunciano il ri-

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tardo con cui la storiografia italiana ha affrontato il problema.

Nicola Gallerano

Varie

C h r is t ia n Z en t n er , La guerra del dopo­guerra. Storia documentata dei conflitti militari dal 1945 ad oggi, Milano, Biet- ti, 1970, pp. 523, L. 7.500.

L’idea da cui parte questo volume (uscito in edizione tedesca nel 1969) è interessante e viva: dare una ricostruzione sintetica delle tante guerre che tormen­tano il nostro tempo, stabilendo alcuni collegamenti e punti di riferimento. Pur­troppo lo spunto iniziale è sprecato per la fragilità dell’impianto dell’opera: l’au­tore si ferma sempre e solo agli aspetti più superficiali e drammatici dei conflitti evocati, con un taglio che non è neppure ideologico (malgrado il facile anticomu­nismo dominante) quanto qualunquistico e giornalistico nel senso peggiorativo del termine. L’opera vive quindi solo per l’apparato fotografico assai ricco, anche se non particolarmente nuovo, mentre an­che i dati utili che fornisce vanno presi con beneficio d’inventario data la super­ficialità dell’insieme.

Giorgio Rochat

C esa re D e Sim o n e , Soldati e generali a Caporetto, Roma, Tindalo, 1970, pp. 322, L. 3.200.

Dopo tanti inutili e vuoti libri pa­triottici sulla grande guerra, ben venga questo di De Simone che, rovesciando la prospettiva solita, presenta la guerra che i soldati vissero realmente, una guer­ra atroce condotta da generali esperti soltanto nella repressione e nell’arrivi­smo. Il De Simone raccoglie testimo­nianze note, meno note e inedite (per es. lettere di soldati all Avanti!) della repressione sistematica e brutale, del mal­contento delle truppe, dell’incompetenza e della limitatezza dei comandi. Si po­trebbero avanzare riserve su singoli punti della ricostruzione, su alcune interpre­tazioni e su strani silenzi (per es. riguardo

alle opere dissacratrici dell’Isnenghi), co­me pure si potrebbero elencare diversi errori di informazione; tuttavia il libro non ha ambizioni scientifiche, si presen­ta come una violenta e appassionata re­quisitoria contro tutta una guerra ed una storiografia. Di requisitorie del genere sentiamo un estremo bisogno, dato il per­durare dei miti patriottico-fascisti che ancora avvolgono la grande guerra; au­guriamo quindi il massimo successo a quest’opera appassionata, viva e stimo­lante.

Giorgio Rochat

Sil v io Ber to ld i, Vittorio Emanuele III,Torino, UTET, 1970, pp. 492, L. 6.200.

Vittorio Emanuele III: l’uomo sbaglia­to nel posto sbagliato, come spesso accade di incontrare nella storia delle monarchie rette a principio dinastico, un di coloro che, come dice il Machiavelli « non aveva parte alcuna di re, altro che il regno ».

Un pover’uomo, che ha esercitato il re­gno come un modesto borghese governa la sua famiglia; interessi limitati, molta prudenza, un po’ di furberia e piccole na­scoste passioni. Unico desiderio: liberarsi, senza correr pericoli, del pesante fardello; in silenzio sparir dalla scena e rifugiarsi nel suo ristretto mondo; se questo non si può fare, sopporta in silenzio con quelle sue tenaci e segrete aspirazioni nel cuore.

I suoi carcerieri sono tutti per lui buoni ed intelligenti, ci tiene a dirlo forte, anche se il suo pensiero è ben diverso. Ignora o finge di ignorare tutto; governa solo pavidamente l’equilibrio del suo circoscrit­to ambiente personale. Farebbe pena se non fosse un transfuga di ben più alte responsabilità.

Ha un suo moralismo spicciolo, che gli fa pronunciare spesso retti apprezzamen­ti; ma odia tutto quello che dovrebbe in­vece essere affermazione di una persona­lità consapevole del suo alto grado; si scambierebbe subito con il più oscuro dei suoi servitori, pur di fare la tranquilla vita che gli piace: caccia, pesca, passeg­giate in campagna, letture. Sente forte­mente gli affetti famigliari, ma li avvolge in una rigida atmosfera di autoritarismo da piccolo borghese reazionario e chiuso.

Non gli sfugge un solo giudizio com­promettente verso il regime e gli uomini del regime finché sono al potere, dai quali

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sopporta umiliazioni ed offese senza ri­bellarsi, limitandosi talvolta coi più fidi a qualche timido mugolio di protesta, che subito tace.

Si affretta allora a dichiarare che Mus­solini è una gran testa, un uomo buono e generoso, e pieni di buone qualità sono un po’ tutti i suoi padroni; la paura lo fa mentire anche con se stesso.

È incapace nel modo più assoluto di valutare atteggiamenti nobili e coraggiosi; ignorante per ostinata volontà delle vere condizioni dell’Italia, si manifesta ostile agli uomini di cui pur conosceva il valore e che erano passati all’opposizione: a te­stimoniare questo suo animo arido e cat­tivo basterebbero questi suoi giudizi su Amendola e su Croce che leggiamo nel diario del suo aiutante di campo gen. Sca- roni, nel febbraio 1934: « Amendola si è è trovato dall’altra parte per una pura coincidenza di fatti; non per temperamen­to suo. Era un uomo di valore, lo rico­nosceva anche Mussolini al quale dispia­ceva in fondo che gli si fosse messo contro.

Anche a Croce è toccata la stessa cosa; sono state le discordie locali del suo paese che lo hanno mandato con gli avversari del fascismo. Era in lotta politica con una famiglia dello stesso paese. Poi, sa, un po’ anche la tirannia di qualche piccolo gerar­ca del posto, di quelli un po’ esuberanti, giovani, che non sempre sanno interpreta­re le direttive dei capi. Sa, quello, però10 l’ho avuto due anni come ministro, non mi è mai piaciuto molto, non so, non vo­glio dire nulla, non mi piaceva troppo ». Per compiacere al regime si dilettava di essere dispregiatore di quegli uomini che pur avevano sostenuto il suo regno; dice11 Bertoldi: « Di Giolitti diceva soltanto: ’la sua forza era nella regolarità della sua vita’. Un giudizio miserabile, oltre che irriconoscente. Giolitti aveva messo su il regno, gli aveva concesso una etichetta di democratico non meritata, era stato il più grande uomo politico italiano dopo Ca­vour. Lui lo liquidava con una battuta. Vittorio Emanuele si conosce attraverso queste luci equivoche » (p. 329).

Il libro del Bertoldi analizza con piace­vole stile la personalità di Vittorio Ema­nuele III, dall’infanzia fino alla morte nel- l’ignominioso esilio.

Il biografo segue le tappe del lungo re­gno orientando la ricerca su di un motivo fondamentale, quello che portò Vittorio Emanuele a prendere decisioni gravi per il paese senza tenere alcun conto dell’auto­

rità del parlamento: la dichiarazione di guerra del maggio del 1915 e la chiamata di Mussolini al governo nell’ottobre 1922.

Cedeva per paura alla piazza dimenti­cando che il suo potere era condizionato dallo Statuto; si richiamava poi allo Sta­tuto, già largamente violato, quando avreb­be dovuto assumere atteggiamenti chiari ed energici.

Il 4 novembre 1926, alla proclamazione delle leggi eccezionali, il gen. Caviglia scri­veva nel suo diario: « La dinastia dei Sa­voia con Vittorio Emanuele III è scesa dal suo altare. Essa ha permesso la viola­zione della Costituzione, ha lasciato ma­nomettere la libertà accordata ai cittadini dallo Statuto, ha proscritto molti cittadini per ragioni extra-statutarie che hanno ca­rattere di persecuzione ».

Il re si rifiutò sempre di fare il minimo sforzo per capire le situazioni, perchè ca­pire vuol dire trarre conseguenze ed assu­mersi responsabilità, cose dalle quali ri­fuggiva per istinto; non è stato, quindi, mai possibile ad alcuno informarlo della vera situazione: le sue orecchie erano pe­rennemente chiuse a questi discorsi, si ri­fugiava allora nel suo impegno costituzio­nale, egli che aveva tollerato in silenzio la liquidazione dello Statuto fino alle pre­rogative del Gran Consiglio in materia di successione dinastica.

La vergognosa fuga di Pescara fu il si­gillo naturale di una vita in cui la pavi­dità cieca ed un represso umiliante com­plesso di inferiorità furono i motivi do­minanti.

Mal tollerato e odiato da Mussolini e dai fascisti, disprezzato e sospettato dai tedeschi, tutto fu sempre disposto a per­dere, dignità, stima, onore, pur di conser­vare un posto ormai svuotato di ogni con­tenuto concreto ed ideale.

Le pagine del Bertoldi sono una testi­monianza eloquente degli atti e dei com­portamenti di questa triste figura di re, al quale toccò, per un fatale destino, chiu­dere nell’ignominia le vicende di una di­nastia, cui la retorica ed una tradizione agiografica avevano attribuito meriti e vir­tù troppo grandi di fronte alla realtà della storia.

Bianca Ceva

M aria G razia M el c h io n n i, La politica estera di Carlo Sforza nel 1920-21, in Rivista di studi politici internazionali, ottobre-dicembre 1969, pp. 537-570.

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Il saggio raccoglie le conclusioni di una ricerca che l’A. ha condotto principal­mente sul Diario prefascista di Sforza (apparso sulla Nuova Antologia, nel 1967- 1968, fase. 2004 e 2005) e sulle carte inedite dell’Archivio Sforza. Il discorso, infiorettato di cenni aneddotici sulle pose esibizionistiche del personaggio, si ac­centra nella rivendicazione degli orienta­menti sforziani come unico vero tentativo, si vedano le pagine su Rapallo, di porre su basi solide e in lunghe prospettive V inorientamento della politica italiana. Dapprima come plenipotenziario a Corfu, poi come alto commissario a Costantino­poli, quindi alla Consulta, infine in qualità di ministro degli Esteri dell’ultimo go­verno Giolitti, Sforza avrebbe svolto con coerenza, muovendo dall’eredità degli idea­li mazziniani, le fila di una nuova presenza italiana nei Balcani e in Mediterraneo, una presenza intesa ad assicurarci funzioni di guida e di garanti della situazione gene­rata dalla dissoluzione dell’Austria-Un- gheria e dell’Impero ottomano. Su questo terreno si misuravano le divergenze ri­spetto a Sonnino e ai nazionalisti, alla loro sopravvalutazione dei problemi territoriali (Dalmazia).

Utile per la messa a punto di alcuni aspetti collaterali, lo studio presenta peraltro due motivi di grave insufficienza. Da un lato esso è prigioniero del perso­naggio Sforza e obbedisce all’assioma che vede nella genesi della politica estera un puro prodotto delle cancellerie; dall’altro, conseguenza della prima constatazione, recide ogni possibile collegamento tra po­litica interna e politica estera. Così, il problema di decifrare le accoglienze, in Parlamento e tra le forze politiche, del trattato di Rapallo viene sostanzialmente eluso. Affermare dapprima che « l’opi­nione pubblica, che attraversa apparente­mente un periodo di stanchezza, parve accettarlo » e poi che, all’opposto, « sotto sotto, lo spirito d’avventura pervadeva il paese e reclamava una pace gloriosa, ca­pace di impressionarlo, di sedurlo, di esal­tarlo », significa annegare il problema in notazioni psicologiche che si commentano da sole. In realtà, a mezzo il ’21, quando cadono Giolitti e Sforza, la situazione ita­liana si muove su linee che pongono de­cisamente in secondo piano la politica estera, per cui fare di questa, come l’A. pure inclina, una protagonista del mo­mento, comporta accogliere una prospet­tiva di indagine distorta e superficiale.

Massimo Legnani

Comuni e province nella storia dell’Emi­lia-Romagna. Cento anni di politica di sinistra, a cura di L. Arbizzani e A. D ’Alfonso, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 313, L. 5.000.

' «Uno dei temi più ricorrenti nel di­battito politico, ormai da molti anni, è la ragione per cui l’Emilia è rossa ». Con queste parole Luigi Arbizzani ed Aldo d’Alfonso aprono la loro vasta antologia che illustra l’operato delle amministrazioni « di sinistra » nella regione emiliano-ro­magnola fino al 1969. Pur se traspare, forse troppo chiaramente, il fatto politico che ha spinto all’edizione del volume (e cioè le elezioni regionali del giugno ’70), la fatica dei due curatori riesce, in gran parte, a trascendere quello che potrebbe essere uno stimolo politico contingente ed a presentare — specialmente nella prima parte del lavoro, che riporta documenti redatti fino al 1945 — una scelta di vivo interesse e spesso per opere di difficile reperimento.

Se, comunque, ci è permessa una os­servazione, dobbiamo rilevare che, a pa­rer nostro, se scopo degh AA. era lo « spiegare » il perchè la regione emiliano­romagnola sia rossa-, ebbene tale obiet­tivo non è stato conseguito. Nel senso che i documenti che ci vengono presentati non servono al lettore a giustificare le scelte politiche dell’elettorato di tale re­gione. Questa carenza è dovuta necessa­riamente al « taglio » che è stato dato al volume. Esaminando ed illustrando l’o­perato delle amministrazioni social-comu­niste dell’Emilia-Romagna non può essere possibile dare un quadro completo della partecipazione di gran parte dei cittadini alla « gestione del potere ». In tale re­gione, più vive e numerose che altrove sono state e sono le organizzazioni co­siddette « di massa » a portare avanti determinate scelte politiche, a sostenere la lotta per una democrazia più reale e più diretta. Ne appaiono esempi probanti nei momenti culminanti della storia emi­liano-romagnola: la lotta contro il fasci­smo e la guerra di liberazione. A tale pro­posito, Arbizzani e d’Alfonso presentano alcuni documenti inediti sulle giunte po­polari del Ravennate che hanno costituito il primo (ed unico) esempio di una ap­plicazione integrale di alcuni assunti por­tati avanti nella lotta clandestina attra­verso i Comitati di liberazione: la ge­stione diretta, popolare, « unitaria » e- decentrata del potere locale.

Il contributo emiliano-romagnolo alla Resistenza è del resto testimoniato più che ampiamente dal numero di decora­zioni al valor militare e civile concesse ai gonfaloni dei suoi comuni, le cui motiva­zioni occupano ben sei pagine (115-120): 11 al VM, 3 al VC (ma ci si è dimen­ticati del comune di Cotignola, decorato nel 1964).

La parola d’ordine, lanciata da Andrea Costa e fatta propria dai socialisti roma­gnoli: « impadroniamoci dei comuni »,costituì una svolta storica per l’intero paese, in quanto rappresentò la prima presa di coscienza della classe operaia della necessità di passare ad una fase « attiva » nella opposizione al liberalismo (e la « conquista » di Imola risale al 1889, se non erriamo). Le amministra­zioni che pian piano passavano ad una gestione socialista, costituivano una nuo­va realtà stimolante anche per gli avver­sari, ed in questo senso sono di partico­lare valore la Relazione sull’operato del­l’amministrazione Zanardi di Bologna (1914-1920, pp. 86-93); il discorso di in­sediamento di Anseimo Marabini: « non in nome del re, ma in nome del popolo io dichiaro costituito ed insediato il Con­siglio comunale socialista d’Imola » (ot­tobre 1920, pp. 93-94). Storicamente im­portanti ci sembrano pure le parole con le quali Ennio Gnudi salutò la propria nomina a sindaco di Bologna il 21 no­vembre 1920: alle sue parole i fascisti risposero dando il via a quelle azioni che portarono all’eccidio di 10 bolognesi: la prima azione squadrista in Emilia, l’ini­zio dell’azione dei fasci contro le ammi­nistrazioni democratiche della regione.

Un ultimo documento che vogliamo ricordare è quello che sancisce il 26 giu­gno 1944 la nascita della prima « repub­blica » nel territorio nazionale, quella di Montefiorino, liberata dai partigiani di Armando e Barbolini unitamente ad altri sei comuni modenesi e reggiani il 18 giu­gno: la prima amministrazione « eletta dal popolo con libera votazione » chiudeva simbolicamente il periodo fascista; anche se altri dieci mesi dovevano passare per la sconfitta militare della RSI e del nazi­smo in Italia, la nascita della « repub­blica » di Montefiorino ne segnava una assoluta ed irreversibile sconfitta morale.

Luciano Casali

Luciano G allino, L’evoluzione d e l l astruttura di classe in Italia, in Quaderni

di sociologia, a. XIX, 1970, fase. 2, pp. 115-156.

Scritto per un seminario sulle strutture di classe in Europa tenutosi in Gran Bretagna nel 1969 e pubblicato in ita­liano in una rivista specializzata ed a dif­fusione oggettivamente limitata, il saggio del Gallino presenta a nostro avviso al­cuni spunti interessanti e tali da auspi­carne un’ampia lettura. Alcuni dati con­tenuti risulteranno forse ovvi al lettore italiano, ma il modello di struttura di classi che viene delineato può risultare stimolante per chi sia interessato ad una analisi della società italiana odierna.

Centro dell’attenzione e del modello di società sviluppato è la « classe » intesa come attore storico, sia che agisca con­sapevolmente come classe, sia che agisca come classe « in sè ». Dopo aver criticato i modelli ricavabili dal Lensky (secondo il Gallino esiste un unico « sistema di clas­si » e non molti), dal Runcisman (viene ribadita l’importanza di distinguere tra « classe », « status » e « potere ») e dal Dahrendorf (le società europee sono so­cietà miste riguardo al modello di mu­tamento strutturale) il Gallino delinea i tratti fondamentali di un sistema di classi riscontrabile ed applicabile alla si­tuazione italiana.

L’Italia, si legge, non presenta un si­stema omogeneo derivato da un’unica for­mazione sociale, ma diverse formazioni tra regione e regione: all’interno della forma­zione generale genericamente « borghese » coesistono tre formazioni sociali distinte, storicamente determinabili, in lotta Luna contro l’altra per adattare la società totale a se stesse. Una formazione « tradizio­nale », basata sulla proprietà e sulla pro­duzione agricola e localizzabile ora nelle regioni centro-meridionali; una formazione « moderna » di capitalismo concorrenziale sviluppatasi nelle regioni settentrionali ed una formazione « contemporanea » carat­terizzata da un capitalismo dirigistico e localizzata nelle regioni nord-occidentali.

Riconoscere la realtà sociale italiana co­me composta da tre formazioni distinte e coesistenti permette così di eliminare gli ambigui termini di « settore arretrato » e di « residuo » e costringe il ricercatore a scontrarsi con la realtà, quale essa sia, senza correre l’errore di scartare dall’ana­lisi settori comunque perduranti ed agenti. Inoltre proprio la coesistenza delle tre formazioni consente di capire come mai

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una classe, pur mantenendo la sua omo­geneità, può presentarsi contemporanea­mente con diverse modalità sulla scena nazionale.

Le classi che il Gallino individua sono: proprietari terrieri, imprenditori indipen­denti, classe di servizio (professionisti), al­ti dirigenti, politici di professione, fun­zionari dello stato, lavoratori industriali, lavoratori agricoli non proprietari, coltiva­tori diretti, artigiani e piccoli commer­cianti, intellettuali, tecnici.

Ogni classe è analizzata sommariamente all’interno delle tre formazioni e, utiliz­zando i criteri di « prestigio », « potere » e « reddito », il Gallino individua per ogni singola formazione la classe effettiva­mente dominante: i proprietari terrieri in quella tradizionale, gli imprenditori indi- pendenti in quella moderna e gli alti diri­genti nella contemporanea.

L’analisi che il Gallino conduce può rappresentare a parer nostro solo l’esem­plificazione di un uso possibile del mo­dello interpretativo più che avere valore in sè: il materiale usato è ancora scarso per presentare margini sopportabili di scientificità che permettano di ben defi­nire le classi e la loro posizione all’interno delle tre formazioni. Nè altrimenti saprem­mo spiegarci alcune evidenti lacune: gli alti dirigenti sarebbero tali « in base alla loro preparazione ed esperienza » ( ! ), i politici di professione (e qui sono com­prese anche le alte sfere dei partiti di opposizione) ad un’analisi più approfon­dita potrebbero non presentare rispon­denza ai criteri costitutivi della classe (formerebbero una classe nella misura in cui anteponessero i propri interessi per­sonali, di potere, a quelli delle parti che tutelano), l’analisi degli intellettuali è un po’ sommaria e dal quadro totale mancano completamente gli impiegati, il clero e i militari di professione.

Ma sarebbe errato pretendere di tro­vare in poche pagine un’analisi completa della struttura di classe in Italia: pur con alcune carenze, l’esemplificazioae di un uso del modello che il Gallino dà per­mette di concludere che è applicabile alla situazione italiana e che da un suo uso corretto e serio è possibile ricavare un quadro soddisfacente della realtà delle classi oggi in Italia. A nostro parere tutto questo lavoro è ancora da svolgere e ci sembra prematuro parlare, come il Gal­lino, di conclusioni: due schieramenti di classe, da una parte lavoratori agricoli e industriali e dall’altra imprenditori, pro­

prietari terrieri e alti dirigenti con tre classi in posizione di « testimoni » (tec­nici, coltivatori diretti e politici di profes­sione); conclusioni interessanti, ma pre­mature e al limite nocive se volessimo im­padronircene. Da troppo tempo « bor­ghesia » e « proletariato » non servono più ad identificare due classi, ma due schieramenti di classi e strati diversi: crediamo valga la pena di astrarre momen­taneamente dall’interesse diretto, politico, per studiare un sistema di classi organi­camente, per tornare poi sul terreno pra­tico con idee leggermente più chiare. Prima o poi chi è interessato alla situa­zione politica italiana, alla struttura dello stato ed ai conflitti sociali potrà scon­trarsi con la esigenza di un modello teo­rico razionalizzante elementi sparsi: ilsaggio del Gallino può rappresentare un punto di partenza, uno dei molti, forse.

Sergio Bova

M artino A ic h n er - G iorgio E v a n g e l ist i, Storia degli aerosiluranti italiani e del gruppo Buscaglia, Milano, Longanesi 1969, pp. 296, L. 2.000.

Non si tratta nè di una storia organica degli aerosiluranti italiani nè di una sto­ria del gruppo Buscaglia. Siamo di fronte ad uno dei tanti libri di memorialistica a sfondo nostalgico che aggiunge ben poco a quanto già si sapeva intorno al coraggio ed allo spirito di sacrificio di molti aviatori italiani ed in particolare di quelli dei reparti aerosiluranti. Qua­lità queste che, anche se si potesse con­siderarle in modo avulso dal contesto po­litico-morale in cui si manifestarono, non ci sembrano trarre giovamento dal tono vagamente goliardico e stucchevole della rievocazione. Degne d’attenzione però le prime 47 pagine del libro dove si tratta delle origini e dello sviluppo della spe­cialità e dei relativi mezzi in Italia e in altri paesi dal 1914 all’inizio del secondo conflitto mondiale. Vi si rinvengono no­tizie interessanti anch’esse purtroppo inor­ganiche e tutt’altro che complete. Se gli Autori avessero curato e sviluppato questa parte avrebbero reso un servizio agli sto­rici contribuendo alla conoscenza della guerra aerea italiana fin qui più celebrata che studiata. Materiale fotografico ab-

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bondante con qualche « pezzo » inedito o poco noto, comunque interessante.

Lucio Ceva

G iovanni Busino, Vilfredo Pareto fra l’agiografia e la critica, Napoli, Edizio­ni Scientifiche Italiane, 1970, pp. 255- 336, « Ricerche storiche ed economiche in memoria di Corrado Barbagallo », voi. III.

Va segnalato questo studio, che costi­tuisce un aggiornamento della nota ante­posta da G. Busino al tomo XI delle Oeuvres complètes di Vilfredo Pareto, in pubblicazione, a cura dello stesso, dal­l’editore Droz, di Ginevra. Non è qui il caso di riprendere le note polemiche su­scitate da quel lavoro, — i cui termini essenziali e più radicalmente opposti ci pare possano essere ripresi nelle pagine di G. De Rosa (Rassegna di politica e storia, 1967, dicembre, pp. 355-361) e dello stesso Busino (in Rivista storica italiana, LXXX, 1968).

Il saggio di Busino raccoglie critica- mente i contributi più recenti offerti da studiosi di economia, sociologia, dottrine politiche, tra cui vanno annoverati N. Bobbio, T. Giacalone-Monaco, L. Iraci, G. De Rosa, curatore della preziosa edi­zione delle lettere di Pareto al Pantaleo- ni, e G.-H. Bousquet, a tacere, ovvia­mente, di Busino che tanta parte ha avu­to in Italia e soprattutto all’estero nel ridare impulso alla conoscenza diretta dei testi paretiani, premessa indispensa­bile per sottrarre la discussione su Pareto alla ripetizione di luoghi comuni.

La massa delle produzioni e la varietà degli spunti tematici relativi al P. indu­cono ormai ad un lavoro di disboscamen­to, al fine di recuperare una visione chiara del contributo della presenza pa- retiana alla cultura del secolo XX, senza identificarvelo sino a fargli perdere la sua identità specifica, rischio quanto mai incombente, ora per una postuma difesa dall’accusa di collusione col fascismo, ora per opera di chi miri a ribadirla facendo coincidere Pareto con l’irrazionalismo e l’antistoricismo reazionario emergenti in opposizione al socialismo nei primi anni del nuovo secolo (p. 329). Tuttavia, Bu­sino non intende affatto sottrarre Pareto ad un confronto con il suo tempo. Egli

infatti scrive: « Che si voglia o non si voglia ammettere, la riflessione del P. nasce dalla constatazione di un conflitto di classe osservabile nella società europea dell’epoca, al quale i nascenti partiti so­cialisti tentano di dare un involucro sod­disfacente ed una direzione non velleita­ria. Quindi, che si voglia o non si voglia, l’opera paretiana deve essere interpretata anche alla luce di questa realtà» (p. 291).

Ma è appunto questo confronto che conduce L. Iraci — citato da Busino — a scrivere: « In sostanza Pareto non riu­scirà mai a comprendere il pensiero mar­xista: le analisi della società capitalistica dei marxisti gli appariranno sempre argo­menti polemici che nascondevano propo­ste di riforme, e queste riforme gli appa­riranno non tendenti ad uno sviluppo progressivo della società ma immediata­mente incorporate in un ideale paradigma di società socialista »: senonché, appunto, dalla non coincidenza con posizioni mar­xiste al condividere (o addirittura a « fondare ») il fascismo, il cammino è as­sai lungo; né può essere liquidato con argomentazioni polemiche, ma, come in­vita Busino, con metodo critico.

Aldo A. Mola

Telford Taylor, Norimberga e Vietnam.Una tragedia americana, Milano, Gar­zanti, 1971, pp. 211, L. 2.200.

Lo scopo di partenza del volume è l’esame giuridico della guerra americana nel Vietnam, alla luce del diritto interna­zionale e di quell’insieme di norme etico­politiche sulla limitazione degli orrori della guerra che fanno abitualmente rife­rimento ai processi di Norimberga ai cri­minali nazisti. Il Taylor, che fu capo del collegio di accusa a Norimberga ed è au­torevole studioso di diritto, ricostruisce in primo luogo l’evoluzione attraverso i secoli dei limiti posti ai belligeranti dalla coscienza morale dell’epoca, per poi ana­lizzare i processi ai criminali di guerra tedeschi e giapponesi e soprattutto lo spirito democratico che mosse gli ameri­cani a farsi promotori di questi procedi­menti. Continuando la sua analisi giuri­dica, egli deve concludere che pratica- mente tutti i massacri commessi dalle truppe statunitensi nel Vietnam non rientrano tra i crimini di guerra perse­

guiti a Norimberga, sostanzialmente per­ché commessi con l’approvazione del go­verno alleato del Sud-Vietnam che, a norma del diritto internazionale, non de­ve rispondere a nessuno di come tratta i suoi sudditi.

A questo punto però il volume esce dal livello strettamente giuridico e passa a quello politico: il Taylor lucidamente studia l’involuzione delle posizioni ame­ricane dal 1945 al 1965 (si vedano le amare citazioni di MacArthur che suo­nano condanna ai generali giapponesi di ieri e statunitensi di oggi), rilevando tut­tavia che la maggioranza della popola­zione americana o per lo meno del Con­gresso ha di fatto avallato la politica di

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aggressione nel Sud-Est asiatico.In definitiva il libro più che un’analisi

giuridica è una vigorosa testimonianza della frattura creata dalla guerra del Vietnam all’interno dell 'establishment sta­tunitense, di cui il Taylor è autorevole esponente. I capitoli conclusivi sono in­fatti una vibrante protesta contro i cri­mini commessi dalle truppe e dai comandi americani, che vengono ad indebolire da tutti i punti di vista una politica di su­perpotenza in cui il Taylor crede, o per lo meno credeva prima di vederne le tragiche contraddizioni ed il disperato costo umano.

Giorgio Rochat

P E R I O D I C I I T A L I A N I 1 9 7 0 *

I. - STORIA GENERALE TRA LE DUE GUERRE

GENERALI

A ldo Agosti, Rosa Luxemburg e i pro­blemi della democrazia operaia. Ballo scio­pero generale «arbitrario» a quello « spon­taneo » di massa, in Resistenza, a. XXIV, n. 10, pp. 10-11.

Celina Bobinska, Questione nazionale e contadina nella visione leninista del so­cialismo, in Critica marxista, a. 8, n. 4, pp. 74-85.

Salvatore Bono, Problemi di « storia con­temporanea » dell’Africa. Periodizzazione e fonti, in Storia contemporanea, a. I, n. 3, pp. 595-610.

J ean Bouvier, Rapports entre systèmes bancaires et entreprises industrielles dans

la croissance européenne au XIXème siè­cle, in Studi storici, a. XI, n. 4, pp. 623- 660.

Alfredo Breccia, Le fonti per lo studio della storia delle relazioni internazionali dei paesi jugoslavi nel periodo 1870-1945 (I), in Storia e politica, a. IX, fase. IV, pp. 579-620.

Furio Jesi, Rosa Luxemburg e i proble­mi della democrazia operaia. Il giusto tem­po della rivoluzione, in Resistenza, a. XXIV, n. 10, p. 11.

G aetano P erillo, L’America Latina al VI Congresso dell’Internazionale comu­nista. In appendice: Documenti, in Mo- vimento operaio e socialista, a. XVI, n. 2- 3, pp. 99-158.

* Sono stati presi in considerazione i seguenti periodici: Belfagor (Firenze), La civiltà cattolica (Roma), Civitas (Roma), Classe (Bari), Critica marxista (Roma), Critica sociale (Milano), La Cultura (Roma), Humanitas (Brescia), Mondo operaio (Roma), Il movi­mento di liberazione in Italia (Milano), Movimento operaio e socialista (Genova), Nord e Sud (Napoli), Nuova antologia (Roma), Nuova rivista storica (Milano), L'osser­vatore politico letterario (Milano), Il Ponte (Firenze), Quaderni storici (Ancona), Ras­segna degli archivi di stato (Roma), Rassegna di politica e storia (Roma), Rassegna storica del risorgimento (Roma), Resistenza (Torino), La resistenza in Toscana (Firenze), Ricerche storiche (Reggio Emilia), Rinascita (Roma), Rivista geografica italiana (Fi­renze), Rivista di storia della chiesa in Italia (Roma), Rivista di studi di politica internazionale (Firenze), Rivista storica italiana (Napoli), Rivista di studi crociani (Napoli), Storia e politica (Milano), Studi storici (Roma), Trieste (Trieste).

Lo spoglio è stato effettuato a cura di Luigi Ganapini e Massimo Legnani.