Il colonialismo Italiano da Adua all'Impero

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IL COLONIALISMO ITALIANO L’ avvento al potere di Mussolini nell’ ottobre del 1922 non segnò un immediato mutamento nella politica coloniale del governo italiano; tuttavia questa data segnò l’ inizio di graduali cambiamenti negli elementi ideologici, nelle direttive programmatiche, nei rapporti economici e sociali, nella politica verso gli indigeni. Nell’ arco di tempo dal 1922 al 1940 è opportuno individuare tre distinte fasi: 1) gli anni della transizione (1922-36); 2) gli anni della definizione (1927-36); 3) gli anni della maturità (1936-40). 1. Per quanto riguarda il primo periodo, il governo fascista non adotta idee nuove nella politica coloniale. L’ unica novità è costituta dall’ esistenza di un governo forte che può adottare una politica dura nei rapporti con gli indigeni senza bisogno di mascherarla di fronte al parlamento o all’ opinione pubblica. Durante questa prima fase, la politica estera coloniale registra, il 14 luglio 1924, la firma dell’ accordo italo – britannico per l’ Oltre Giuba, che dalla sovranità britannica passa a quella italiana; questo accordo avrebbe dovuto rappresentare uno dei compensi coloniali spettanti all’ Italia in base all’ art. 15 del “patto di Londra”, riguardante appunto la spartizione delle spoglie dei vinti alla fine del primo conflitto mondiale. Fu inoltre riconquistata la Tripolitania ad opera del governatore Volpi, una delle figure italiane di imperialista più complete. In Somalia il quadrumviro De Vecchi, portò i metodi terroristici dello squadrismo fascista e liquidò il regime dell’ indirect rule con i sultanati di Obbia e dei Migiurtini. Questa fase ha la sua conclusione nella visita ufficiale che Mussolini compie in Libia nell’ aprile del 1926. il viaggio del duce costituisce un avvenimento importante perché è la prima volta che un presidente di Consiglio italiano visita una colonia. Il governo fascista mostra, con l’ attivismo del suo capo, quell’ attenzione coloniale che è ancora prevalentemente una proiezione della politica dello stato forte e della nuova immagine di ordine e efficienza. 2. Con la seconda fase si delineano con sempre più spiccata evidenza i caratteri di un colonialismo fascista, sia a livello ideologico e programmatico che nella concreta azione politica, economica e militare del regime. Questo nuovo orientamento prende corpo attraverso l’ elaborazione di strategie coloniali diverse sulla base di confuse formulazioni di interessi italiani, in Africa e nel Mediterraneo, mentre appare sempre più marcata la tendenza all’ espansione. Gli elementi principali, che segnano l’ evoluzione del colonialismo fascista, sono, in primo luogo, la pacificazione 1

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Breve esposizione della storia del colonialismo italiano nel periodo fascista e confronto con il periodo coloniale italiano dopo la disfatta di Adua.

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IL COLONIALISMO ITALIANO

L’ avvento al potere di Mussolini nell’ ottobre del 1922 non segnò un immediato mutamento nella politica coloniale del governo italiano; tuttavia questa data segnò l’ inizio di graduali cambiamenti negli elementi ideologici, nelle direttive programmatiche, nei rapporti economici e sociali, nella politica verso gli indigeni. Nell’ arco di tempo dal 1922 al 1940 è opportuno individuare tre distinte fasi: 1) gli anni della transizione (1922-36); 2) gli anni della definizione (1927-36); 3) gli anni della maturità (1936-40).1. Per quanto riguarda il primo periodo, il governo fascista non adotta idee nuove

nella politica coloniale. L’ unica novità è costituta dall’ esistenza di un governo forte che può adottare una politica dura nei rapporti con gli indigeni senza bisogno di mascherarla di fronte al parlamento o all’ opinione pubblica. Durante questa prima fase, la politica estera coloniale registra, il 14 luglio 1924, la firma dell’ accordo italo – britannico per l’ Oltre Giuba, che dalla sovranità britannica passa a quella italiana; questo accordo avrebbe dovuto rappresentare uno dei compensi coloniali spettanti all’ Italia in base all’ art. 15 del “patto di Londra”, riguardante appunto la spartizione delle spoglie dei vinti alla fine del primo conflitto mondiale. Fu inoltre riconquistata la Tripolitania ad opera del governatore Volpi, una delle figure italiane di imperialista più complete. In Somalia il quadrumviro De Vecchi, portò i metodi terroristici dello squadrismo fascista e liquidò il regime dell’ indirect rule con i sultanati di Obbia e dei Migiurtini. Questa fase ha la sua conclusione nella visita ufficiale che Mussolini compie in Libia nell’ aprile del 1926. il viaggio del duce costituisce un avvenimento importante perché è la prima volta che un presidente di Consiglio italiano visita una colonia. Il governo fascista mostra, con l’ attivismo del suo capo, quell’ attenzione coloniale che è ancora prevalentemente una proiezione della

politica dello stato forte e della nuova immagine di ordine e efficienza. 2. Con la seconda fase si delineano con sempre più spiccata evidenza i caratteri

di un colonialismo fascista, sia a livello ideologico e programmatico che nella concreta azione politica, economica e militare del regime. Questo nuovo orientamento prende corpo attraverso l’ elaborazione di strategie coloniali diverse sulla base di confuse formulazioni di interessi italiani, in Africa e nel Mediterraneo, mentre appare sempre più marcata la tendenza all’ espansione. Gli elementi principali, che segnano l’ evoluzione del colonialismo fascista, sono, in primo luogo, la pacificazione militare della Libia ad opera di Badoglio e Graziani e, successivamente, la pacificazione civile del governatore Balbo. Quest’ ultimo, escluso dal centro del potere in Italia per volontà del duce, si impegnò con slancio nella nuova azione di governo coloniale, mostrando un certo interesse per migliorare le condizioni di vita della popolazione araba, e varando, fra l’ altro, un vasto programma di opere pubbliche. Ma la vera svolta nella politica coloniale fascista si ebbe con l’ attacco militare vittorioso all’ Etiopia (1934), grande successo conseguito dagli elementi più aggressivi del regime. La conquista dell’ Etiopia fu il salto di qualità dell’ imperialismo coloniale fascista, che fece assumere all’ Italia gli atteggiamenti di grande potenza dotata ormai di un impero coloniale di notevole estensione in Africa più vicino agli ordini di grandezza britannico e francese. Tale evento è legato al rivendicazionismo intorno ai compensi derivanti dall’ art. 15 del “patto di Londra”. A favorire il successo dell’ impresa, a parte l’ efficienza delle operazioni militari, furono i

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fattori internazionali legati alla debolezza degli avversari. Inoltre, l’ aggressività italiana contro l’ Etiopia e la conseguente mobilitazione in forze della terza potenza mediterranea in funzione antagonistica alla Gran Bretagna, mentre in Egitto c’ è grande tensione politica e la Palestina va verso una rivolta che sarà duramente repressa dalle autorità britanniche, mette in evidenza l’ inadeguatezza militare della corona.

3. La vittoria sull’ impero negussita e la conquista di quel tormentato mosaico di territori e di popoli da parte dell’ Italia fu il fatto fondamentale che segnò la svolta in tutto l’ atteggiamento colonialista del fascismo. Seppure tale guerra (dei sette mesi: ottobre ‘35 – maggio ‘36), creò il problema del completamento dell’ occupazione e del porre l’ impero sotto l’ effettivo controllo italiano, ad ogni modo, al di là della contingente situazione etiopica, si stava affermando nell’ atteggiamento coloniale italiano una posizione più decisa. Si tratta della politica del diretto dominio, ovvero la concentrazione del potere civile nelle mani di funzionari coloniali ai vari livelli. Le tre caratteristiche del dominio coloniale italiano erano quindi il dominio diretto, il razzismo e la colonizzazione demografica. L’ esigenza di una larga presenza dei quadri direttivi coloniali, che fin dall’ inizio è sentita negli ambienti coloniali italiani, è dovuta essenzialmente all’ idea che prima o poi le nostre colonie avrebbero dovuto servire come sbocco alla nostra emigrazione. Diventa evidente che in questa prospettiva il governo delle colonie debba essere, anche alla periferia, per quanto è possibile nelle mani del colonizzatore. Il sistema politico coloniale italiano non presentò caratteri coerenti e non seguì un modello fisso come ad esempio fecero inglesi, olandesi e belgi. Se si esaminano gli ordinamenti politico-costituzionali della Libia e dell’AOI, vigenti allo scoppio della seconda guerra mondiale, si rileva che essi sono tendenzialmente ispirati, il primo al sistema dell’assimilazione, il secondo a quello della differenziazione. Gli ordinamenti per la Libia e quelli per l’AOI, sebbene presentino marcate differenze, s’inseriscono senza grandi contraddizioni nella logica generale della politica coloniale fascista. da un esame dei testi degli ordinamenti e dell’amministrazione sembra che la tendenza all’assimilazione in Libia sia stata più apparente che reale ed è spiegabile per 2 ordini di motivi: il primo è l’elemento propagandistico ad uso del mondo arabo (in funzione antibritannica), il secondo è dovuto alla personalità dinamica del governatore Balbo ( l’uomo della pacificazione civile). In un provvedimento del 1934 una cittadinanza di seconda categoria veniva estesa a tutti i libici. Nel 1939 vengono esclusi gli ebrei libici, perché la legge tratta esplicitamente di libici musulmani. Ciò avvenne in seguito all’emanazione delle leggi razziali, attraverso le quali si cercò di proteggere la preservazione della razza ariana da contaminazioni. Il fenomeno razzista, nella sua espressione giuridica, è strettamente collegato alla conquista dell’Etiopia: il Gran Consiglio del Fascismo, in seguito alla conquista dell’impero, dichiara l’attualità urgente dei problemi razziali. Il razzismo fascista quindi, non consistette essenzialmente dell’aspetto antiebraico, bensì esso fu un fenomeno generale che prese forma definitiva dopo la conquista dell’Etiopia.La terza componente dell’imperialismo coloniale fascista è la colonizzazione demografica. L’eccedenza demografica rispetto alle risorse nazionali, la massiccia emigrazione di manodopera dall’Italia e le cattive condizioni di vita degli emigrati, avevano costituito fin dall’inizio uno dei temi di agitazione e riflessione dei colonialisti italiani. Essi erano partiti da questi dati per arrivare alla conclusione che il paese doveva per necessità avviare una politica espansionistica a fini di popolamento, giustificandola con i miti del populismo

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imperiale nazionalista. La colonizzazione agricola demografica fu iniziata sia in Libia sia in AOI. Nel 1928 fu fondato l’Ente per la Colonizzazione della Cirenaica, nel 1932 quello per la Tripolitania.Il quarto elemento che contribuisce a definire i caratteri dell’imperialismo coloniale fascista è il ruolo del Partito, che acquista un nuovo slancio dopo la conquista etiopica. Il P.N.F. venne meccanicamente trasferito in colonia con lo stesso tipo di struttura burocratica metropolitana e con gli stessi compiti organizzativi e propagandistici, associativi ed assistenziali della madre patria, ma in più gli venne affidato anche il settore corporativistico aumentandone così le competenze e facendone dopo il governo e i comandi militari il terzo polo di potere coloniale. Vi è un’ultima considerazione da fare, per concludere il nostro discorso sull’imperialismo fascista: durante il regime l’Italia impiegò nelle colonie una misura di gran lunga superiore di risorse rispetto ai governi precedenti. L’imperialismo italiano fu figlio di un paese povero di risorse, con pochi capitali da esportare e fu diretto su quei territori dai quali all’epoca c’era poco da accaparrare. L’Italia, povera e ultima fra le grandi potenze vincitrici della prima guerra mondiale, ma pur sempre potenza europea, agisce su scala internazionale in un ambito dove gli imperi coloniali erano importanti, dove certe ragioni strategiche non potevano essere ignorate. L’Italia visse la sua avventura cercando di colmare il ritardo con la fretta e durante il ventennio fascista l’accelerazione del processo coloniale subì un’ulteriore spinta.

I PROGRAMMI, I MITI, LE REALIZZAZIONI

Nella visione di Giuseppe Bottai (gerarca fascista), gli aspetti immediati del problema del colonialismo italiano vengono individuati nel Mediterraneo e nell’Islam. Il primo incentrato sulla Libia, che è il punto su cui fare leva per divenire una grande potenza mediterranea e per espandersi all’interno fino al Sudan settentrionale. L’aspetto islamico è visto sia come un momento della politica libica, sia come un riconoscimento della grande realtà internazionale rappresentata dall’islamismo. Di tutt’altra levatura politica è l’opinione di Dino Grandi che alludeva ad un’azione diplomatica italiana che mirasse ad ottenere una sorta di redistribuzione dei territori degli imperi coloniali in Africa nell’ambito dei grandi accordi internazionali con le grande potenze imperialiste. In un opuscolo propagandistico redatto da Tommaso Santoro per l’Istituto Coloniale Fascista, l’Italia doveva fare in Eritrea una politica islamica con l’intento di limitare l’influenza britannica nell’Oriente arabo. Compito dell’Italia secondo il redattore è quello di mediazione e congiunzione del mondo musulmano con l’Occidente. L’Istituto Coloniale Italiano aveva tra i suoi compiti istituzionali quello di divulgare le idealità imperialistico - coloniali e, ai vari livelli, la conoscenza delle colonie italiane e dei loro problemi.Egli fissa alcuni punti chiave della propaganda:1. le colonie italiane non sono vaste se paragonate all’estensione del continente africano e ai possedimenti delle potenze straniere2. nelle colonie italiane vi sono terre fertilissime3. la scarsità della popolazione indigena in confronto con la sovrappopolazione nazionale4. scuole italiane missionarie che insegnano la nostra lingua ai piccoli indigeniNel gennaio del 1940 Mussolini presiedette la prima assemblea del Consiglio Nazionale delle Consulte Corporative per l’Africa Italiana e in quell’occasione delineò

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le sue idee riguardo la colonizzazione: il ruolo centrale dei contributi della madrepatria, l’idea autarchica dell’Impero (doveva bastare integralmente a sé stesso), l’integrazione delle risorse della madrepatria (doveva fornire le materie prima e ospitare le popolazioni metropolitane).Giuseppe Bottai, affrontò il problema dell’espansione italiana come problema politico. Le sue principali argomentazioni erano di carattere demografico e territoriale, le quali devono essere considerate dalle nuove generazioni come un problema politico e morale. La Libia, in quel momento peculiare della sua storia, era considerata per l’ Italia il problema dei problemi: incuneata tra i due imperi nordafricani dell’ Inghilterra e della Francia, essa rappresentava il solo punto sul quale gli italiani avrebbero potuto far leva, per non subire la stretta degli accerchiamenti irresistibili. Prendendo per esempio l’ espansione turca di Kemal, egli afferma che questi sono sintomi di quanto in tempi non lontani (primi del ‘900) sia stata forte la spinta del mondo islamico sulle nazioni occidentali; la sua preoccupazione riguardava la manifesta ostilità dell’ oriente contro l’ occidente. L’ Islam, il più politico tra i movimenti religiosi orientali, ne sarà il propulsore e l’ agente. Tale posizione è garantita geograficamente e storicamente dalla nostra funzione di ponte di passaggio fra l’ oriente e l’ occidente: noi siamo in definitiva gli occidentali con i quali sempre hanno dovuto e dovranno prendere contatto gli orientali, ogniqualvolta nella loro storia si sviluppano fenomeni di accostamento o di interessamento al’ Europa. Carlo Giglio si occupa delle motivazioni per cui l’ Italia avrebbe dovuto essere una nazione coloniale: se noi italiani vogliamo portare a compimento il nostro programma di politica mediterranea, se vogliamo sostenere validamente i nostri diritti di potenza coloniale, è necessario che una nazione per possedere delle colonie abbia quattro capacità fondamentali (proliferare, produrre, conquistare, organizzare). L’ Italia, ultima arrivata nella grande competizione per il possesso di colonie, a causa dell’ incomprensione di statisti (critica ai precedenti regimi liberali), e della mancanza di una diffusa coscienza coloniale tra la massa, ha dinnanzi a sé un problema coloniale essenzialmente mediterraneo, che presuppone, oltre la necessaria preparazione bellica, una geniale ardita e oculata politica estera. 1) Eritrea: stringere vigorosi contatti con gli stati della penisola arabica, aumentare le relazioni commerciali con l’ Abissinia e rinsaldare le amicizie e simpatie che abbiamo contratte in questi territori; 2) Somalia: stessa funzione politica dell’ Eritrea, con speciale riguardo all’ africa centro – orientale; 3) Libia: ruolo centrale nella sua funzione mediterranea; era necessario crearle uno sviluppo economico e politico tale da aumentare efficacemente l’ influenza italiana nel Mediterraneo, e tale da creare uno sbocco nell’ Africa centrale. L’ Italia si trovava in una posizione svantaggiata rispetto alle altre nazioni ed era dunque necessario ridurre questo gap sfavorevole, in primo luogo per rafforzare la sua posizione in Europa; 4) Dodecaneso (isole greche): verso la Turchia che si va occidentalizzando ed in genere verso tutti paesi del Levante, importanza che si risolve in una duplice funzione, culturale e commerciale.Il fattore economico ha un ruolo centrale nella colonizzazione Italiana; difatti tramite la sua espansione in Africa avrebbe potuto migliorare la sua condizione economica precaria. Ciò è vero anche considerando le altre nazioni europee che si stavano gettando nell’ impresa coloniale per assicurarsi sempre maggiori fonti di sicurezza, basata sul completo e scientifico sfruttamento delle ricchezze e delle materie prime necessarie alla grande industria, sviluppando contemporaneamente le più celeri comunicazioni marittime ed aeree. Giglio afferma che, anche se le colonie italiane costituivano all’ epoca (1927), più che altro una spesa dell’ erario italiano, esse avrebbero potuto fornire in futuro una ingente fonte di ricchezza. Egli si concentra particolarmente sul ruolo della Libia, fiore all’ occhiello dell’ Impero Italiano, e sul suo

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ruolo di risorsa agricola. L’ emigrazione italiana dovrebbe essere diretta verso le colonie italiane in modo da arricchire la madrepatria, e non come prima verso altri paesi (America); ciò compone uno dei principali cambiamenti di rotta del governo fascista. L’ eccesso di popolazione dovrà essere incanalato e organizzato entro i confini della patria, e dunque nei nuovi territori coloniali, in modo da fornire sia una risorsa economica sia una via di sfogo di tale eccesso. Ernesto Cucinotta, in un libro educativo per ragazzi, fa una descrizione delle nostre colonie sia dal punto di vista territoriale sia dal punto di vista della popolazione; ciò dimostra lo sforzo del regime fascista per educare le nuove generazioni alla conoscenza coloniale, sintomo di un particolare interesse propagandistico volto alla incitazione per l’ emigrazione. Dino Grandi, argomenta la necessità di espansione coloniale, con toni revanscisti, in quanto ricompensa per gli sforzi compiuti durante il primo conflitto mondiale, negata dagli alleati in sede di trattativa. Alberto Giaccardi, fa un discorso circa l’ avvaloramento economico delle colonie italiane: l’ importanza dell’ Eritrea è data dalla sua posizione commercialmente strategica nei confronti dell’ Arabia e dell’ Abissinia; la Somalia è invece adatta alle grandi colture tropicali; Tripolitania e Cirenaica sono allo stesso modo colonie agricole, di uso differente, in quanto situate nella zona temperata. Egli afferma che per rendere fruttuoso i territori coloniali, è necessario spendere ingenti quantità di denaro, come spese di impianto, e gettando così le basi per la ricchezza futura. In una comunicazione presentata al secondo congresso di studi coloniali (1935), Annibale Grasselli, espone un piano programmatico per lo sfruttamento delle colonie riguardo al ruolo della famiglia. Egli afferma la necessità dell’ intervento statale volto al sostentamento delle famiglie coloniche: lo stato fornisce sotto forma di presititi somme di denaro che andranno a coprire le spese per la casa, le attrezzature, ed altre spese necessarie. Tali prestiti saranno gradualmente restituiti dal colono nel corso di cinque anni in parte in moneta, in parte in prodotti. Al termine del quinquennio, il colono dovrà dichiarare se intende acquistare il fondo bonificato o venderlo; nel caso di rinuncia all’ acquisto il colono verrà licenziato senza titolo di indennizzo.Ernesto Massi, prendendo in considerazione la colonizzazione inglese, sostiene che l’ Italia non avrebbe dovuto come gli inglesi apportare una colonizzazione di sostituzione, che consisteva nel sostituire i contadini indigeni con quelli bianchi, senza incrementare la produttività delle terre, bensì, avrebbe dovuto creare ampissime colture ti tipo industriale su vasta scala. Egli collega la infruttuosità delle coltivazioni africane alla scarsità di popolazione (un territorio che era tre volte quello dell’ Europa era abitato da appena 150 milioni di abitanti), giungendo anch’ egli alla conclusione che, per incrementare la produttività, era necessario incrementare in primo luogo l’ emigrazione, e dunque la quantità di forza – lavoro. Egli inoltre introduce nella sua analisi un elemento razzista, sostenendo che la popolazione nera è spesso restia al lavoro. Se la nazione colonizzatrice ha forte pressione demografica, sarà possibile al governo determinare un afflusso sufficiente di coloni, perché la loro opera non sia di semplice sfruttamento: mediante l’ obbligo dell’ istruzione elementare a base professionale abituare l’ uomo al lavoro, creargli dei bisogni perché sia spinto a soddisfarli, e gradualmente, attraverso la sensazione dell’ utilità del lavoro per l’ individuo, avviarlo alla comprensione del principio che il lavoro è un dovere sociale (missioni educative). Il vantaggio derivante da un possesso coloniale è inoltre anche extra – economico, ad esempio può consentire di ottenere posizioni militarmente strategiche. Nella sua digressione c’ è inoltre posto per una giustificazione morale della colonizzazione: l’ industrializzazione coloniale è per gli indigeni un modo per raggiungere l’ autonomia economica e dunque l’ autonomia politica.

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La colonia rappresenta un mercato di consumo e di acquisto, che attrae non solo il commercio della madrepatria ma anche quello delle nazioni straniere. Due problemi fondamentali nell’ ambito della colonizzazione non vanno trascurati: il comunismo e il nazionalismo indigeno. Egli afferma che il comunismo sovietico si sia trapiantato tra le popolazioni dell’ africa; a tale fenomeno si oppone il nazionalismo indigeno.L’ Europa, stretta ad oriente dall’ imperialismo asiatico, e ad occidente da quello americano, necessita come sbocco commerciale per i suoi mercati l’ espansione nel continente africano. Giuseppe Volpi, tessendo le lodi della nuova politica fascista, afferma che con l’ avvento del duce, terminava la politica di abbandono e si introduceva la politica di prestigio, dando alle popolazioni soggette alla superiorità militare italiana un nuovo slancio morale. Con Mussolini si cessò di declinare le responsabilità giuridiche della situazione di instabilità e di anarchia formatasi nei protettorati italiani (scontri armati nelle colonie italiane e possibili attriti con le potenze coloniali europee confinanti). Citando le cifre di ettari di terra e colture indemaniate, dopo l’ avvento del regime fascista, egli afferma che l’ opera compiuta dal regime fascista in Libia in 15 anni, è proporzionalmente superiore a quella francese compiuta in Algeria in 100 anni.Tommaso Santoro, delineando la politica italiana nel Mar Rosso, sostiene che lo sviluppo economico di quelle terre coloniali congiunte, darà all’ Italia una certa indipendenza da mercati stranieri. Inoltre creando uno stabile polo economico nell’ AOI, si creerebbe una forza di attrazione degli stati vicini (in primo luogo lo Yemen), con cui instaurare felici e solidi rapporti commerciali. L’ azione dell’ Italia verso l’ oriente arabo avrebbe dovuto essere di mediazione, di congiunzione di tutto il mondo musulmano con l’ occidente. Egli si incentra dunque sul ruolo di instaurazione di rapporti prolifici con l’ oriente tramite la colonizzazione: dato il processo di industrializzazione che era in atto, l’ oriente aveva bisogno di macchine, tecnici, grandi commercianti che avrebbero dovuto organizzare i traffici. Livio Livi traccia i fondamenti bio - demografici della colonizzazione di popolamento: al contrario delle politiche attuate dagli altri paesi europei, con emigrazioni omogenee, l’ Italia avrebbe dovuto implementare un immigrazione degli interi nuclei familiari, evitando una composizione esclusivamente maschile degli emigranti (donne e bambini). L’ equilibrio numerico dei due sessi avrebbe dovuto essere mantenuto in particolare fra le fasce di età adatte alla procreazione, dando così la possibilità di costituirsi in famiglia. Per il trapianto di una nuova civiltà il migrante non deve essere l’ individuo ma la famiglia. Egli condanna il danno sociale apportato dal concubinato con donne indigene, a motivo della procreazione di gruppi notevoli di meticci illegittimi (siamo nel 1937), gruppi difficili ad assorbirsi nei quadri di un civile ordinamento. Il concubinato di tal genere, largamente praticato da larghe masse immigrate costituite da soli uomini, disturba il normale rapporto dei sessi nelle popolazioni indigene, ne altera l’ ordinamento demografico e non risana quello dei metropolitani immigrati. Livi mostrava dunque tutto il suo supporto per l’ immigrazione ordinata, cioè avente la dovuta proporzione di elemento femminile.Nell’ ottica della politica fascista l’ emigrazione coloniale avrebbe dovuto riflettere il volto della patria in territori lontani, creando una nuova società e trapianta la civiltà. Una colonizzazione che doveva dunque essere non solo sfruttamento economico ma anche manifestazione della civiltà portata dall’ Italia fascista. L’unità tra i coloni avrebbe dovuto essere mantenuta al fine di ricreare un ambiente sociale favorevole; lo scopo era dunque quello di creare colonie il più possibili simili alla madrepatria. La piena normalità sociale non avrebbe potuto essere raggiunta con poche centinaia di membri, era dunque necessario promuovere un emigrazione abbastanza vasta.

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Trevisani sostiene la necessità della conquista al fine di sviluppare in via pacifica un opera di penetrazione economica, laddove questa era stata precedentemente respinta da Negus. La conquista era inoltra nata dalla necessità impellente di trovare uno sbocco alla pressione demografica italiana, e di acquisire quelle materie prime che il suolo della madrepatria non possedeva. Vittorio Gorresio, in un articolo sul Messaggero del 1938, parla delle modalità di popolazione dell’ impero: popolare l’ impero di italiani. In Etiopia furono costituiti tre enti: Romagna d’ Etiopia, Puglia d’ Etiopia, Veneto d’ Etiopia. Ogni ente avrebbe dovuto inviare ogni anno e per cinque anni consecutivi 500 famiglie coloniche: partiranno per primi i capifamiglia che saranno seguiti a due anni di distanza dai rispettivi familiari. I coloni saranno inquadrati immediatamente a cura del Partito e della MVSN (milizia volontaria della sicurezza nazionale). Alla scadenza del biennio i lavoratori più produttivi sarebbero stati immessi nella responsabilità del podere. A suo parere era necessario associare il lavoro indigeno a quello italiano, così da rendere i coltivatori e i pastori abissini compartecipi delle culture e degli allevamenti in ausilio ai coloni proprietari. Ai confini esteri di ogni poderi sarebbero stati situati i Tukul degli indigeni ausiliari e compartecipi. Gorresio auspicava la costruzione di strade e centri urbani. Nell’ alta valle dell’ Auasc, nelle terre circondanti la capitale (Addis Abeba), si avrà così una serie di tre capisaldi di colonizzazione demografica accanto ai quali verranno via vi costituiti i successivi fino a raggiungere, mediante la bonifica che l’ Opera ha in programma, una completa saldatura. Così facendo, l’ industrializzazione avrebbe portato alla ricchezza della regione, e si sarebbero aperti come mercati di sbocco le regioni del Sudan. L’ ultimo punto dell’ analisi di Gorresio, è un problema politico, che viene determinato dall’ istallazione di grandi nuclei di bianchi, nei paesi popolati dai negracci, dai contatti che le due razze sono chiamate ad avere, sia sul terreno della collaborazione economica, sia su quello della convivenza quotidiana. Egli mette in guardia i coloni riguardo ai concubinati misti: il meticciato è un fenomeno da condannare. Gennato Pistolese, in un saggio sulla provincializzazione della Libia, elenca quattro fasi: 1) fase Volpi: inizio e consolidarsi della riconquista in molti dei centri libici che erano stati abbandonati a seguito dell’ incalzare del ribellismo. Tale fase coincide inoltre con l’ inizio dell’ indemaniamento, attraverso il quale lo stato colonizzatore acquista la disponibilità di quelle estensioni di terreno necessarie al suo programma di valorizzazione agricola. 2) fase De Bono: viene continuata la marcia della riconquista militare, e vengono gettate le basi di quella colonizzazione demografica che, sostenuta dallo stato, ha create le prime zone di verde nella colonia, e ha consentito che accanto a un agricoltura indigena ne sorgesse una più efficiente su basi metropolitane. 3) fase Badoglio: segna la fine della ribellione e l’ occupazione integrale della colonia fino a Sud. 3) fase Balbo: può ritenersi la fase conclusiva del processo di avvaloramento libico per quanto riguarda l’ impostazione del metodo. Egli pone alla base del programma di governo la piccola proprietà coltivatrice.La provincializzazione consisteva nella stretta aderenza di quel territorio mediterraneo al restante del territorio nazionale. La legge organica della Libia (1934), prevedeva la costituzione di quattro commissariati provinciali, con capoluogo rispettivamente a Tripoli, Misurata, Bengasi e Derna. A capo di questi commissariati vi erano dei prefetti.Le prospettive che secondo Pistoiese la Libia avrebbe offerto all’ Italia erano: nel capo politico essa avrebbe portato sulla Quarta Sponda lo stesso slancio e la stessa vitalità che erano negli altri lembi della penisola. La diciassettesima regione era la regione dell’ espansione, che manteneva vivi ed operanti tutti i caratteri di intraprendenza, di pionierismo, di dinamismo della popolazione. Nel campo della politica indigena, la

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Libia avrebbe realizzato quella fusione ideale e che aveva le sue basi in una netta discriminazione fra la razza dominatrice e quella soggetta, e nella comprensione operosa della prima verso la seconda. Nel campo strategico la Libia sarebbe stata in grado di svolgere la sua funzione pacifica di intense relazioni con i paesi vicini i quali, nelle evolute 4 provincie libiche avrebbero avuto più diretti ed intensi motivi di richiamo; nonché la sua funzione di ordine militare a difesa del suo territorio. Nel campo della produzione la Libia sarebbe stata in grado di sviluppare una produzione agricola ed industriale, la quale, oltre ad essere destinata al soddisfacimento del fabbisogno locale, avrebbe dovuto costituire l’ apporto libico all’ autonomia delle altre 16 regioni nelle quale si organizza l’ economia italiana. Giuseppe De Michelis parla della questione dello spazio vitale. La questione fondamentale dalla quale era travagliata l’ intera Europa sarebbe stata quella dello spazio vitale necessaria alle nazioni. L’ aggressore era quella nazione che si preoccupava di meglio allocare sul lavoro i propri uomini e che cerca di raggiungere questo scopo a qualsiasi costo, anche con la guerra. L’ Africa sarebbe stato il continente a cui sarebbero stati indissolubilmente legati gli stati e i popoli d’ Europa, perché da un lato le sue terre erano quasi esclusivamente sotto possesso diretto o mandato o protettorato degli stati europei, mentre dall’ altro essa rappresentava un immenso serbatoio di ricchezza aperto all’ espansione, all’ avvaloramento agricolo e commerciale. Se l’ Europa avrebbe voluto mantenere ed avvalorare l’ ufficio di portatrice di civiltà nel mondo, avrebbe dovuto scegliere l’ Africa come campo di azione coordinata e di applicazione sistematica delle sue forze demografiche, economiche, morali, ed intellettuali. Egli sostiene che la colonizzazione era una necessità storica ed economica: storica perché l’ Europa si sarebbe dovuta sentire spinta dalla sua vocazione di civiltà a portare la luce del pensiero in regioni che vivevano ancora nelle barbarie o appena ai margini della vita civile; economica perché essa, a riparare la perdita dei suoi mercati d’ oltremare sugli altri continenti, non poteva che ampliarli o crearli nel continente nero dove ha già fissato i segni del suo dominio. Due ordini di attività si proiettavano dunque nell’ avvenire etiopico: l’uno di costruzione interna, l’ altro di espansione. Iacopo Mazzei tratta dell’ importanza delle colonie nell’ incrementare la potenza dello stato. 1) le colonie avrebbero aumentato tale potenza come apporto di soldati. La colonia di popolamento avrebbe impedito di perdere ai fini militari gli emigranti, i quali, se passati in altri paesi, sarebbero invece andati perduti (Commonwealth). 2) le colonie avrebbero aumentato la potenza dello stato per la loro posizione strategica dominante le grandi vie di comunicazione, minaccianti i domini altrui ecc (era un vecchissimo aspetto della politica coloniale inglese quello di cercare il dominino dei passaggi obbligati marittimi. Es.: Gibilterra e Malta). 3) le colonie avrebbero aumentato la potenza della madrepatria in quanto fornitrici di viveri e materie prime. Gli ultimi 2 punti, a parere dell’autore, avevano acquistato una speciale e nuova importanza quando la S.d.N. tentò con le sanzioni di indurre la nuova tecnica internazionale all’affamamento dei popoli. Mazzei continua la sua argomentazione trattando la valutazione economica della colonie: egli sostiene che tale valutazione debba essere non soltanto finanziaria ma anche storica riguardo all’utilità di una colonia. Perciò sarebbe stato necessario distinguere la parte politica (aumento di potenza), la parte etica (diffusione della civiltà nel mondo). Si sarebbe dovuto poi valutare l’attivo e il passivo economico ponendo da un lato tutti gli oneri economici e cioè oneri finanziari, derivanti dal rialzo dei prezzi per preferenze coloniali, dal rialzo degli interessi e dei profitti verso impieghi coloniali ponendo i vantaggi sotto i mille aspetti derivanti dalla vita economica del paese. Per quanto riguarda le colonie come sbocco demografico, l’autore ci dice che essere può essere valutato sotto due aspetti:

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1) possibilità di conservare per il paese l’accrescimento demografico quando pur sempre esso abbia la possibilità di emigrare in altri paesi. 2) possibilità di sistemare produttivamente l’accrescimento demografico, essendo ad esso, dalle leggi degli altri paesi, vietata l’immigrazione. L’acquisizione di una colonia nella quale sotto il dominio politico della madrepatria un lavoratore avrebbe trovato un’adeguata rispondenza naturale al suo sforzo produttivo, si sarebbe tradotto non solo nel conservare integralmente alla patria il risultato delle sue fatiche, ma aggiungere anche ad esso l’apporto del nuovo contributo naturale dei nuovi territori. Egli conclude dicendo che dal punto di vista demografico una colonia non significa soltanto un’espansione in essa di popolazione operaia, ma anche di popolazione professionista (ingegneri, medici). L’ultimo argomento trattato riguarda le colonie come impiego di capitale:in quegli anni in cui si giudicava rischioso il passaggio di capitali all’estero, l’impiego di capitali in colonia avrebbe potuto offrire una soluzione del problema dell’eccesso di essi, e avrebbe automaticamente eliminato l’opzione di abbassare salari e spese industriali a livello nazionale per il paese richiedente per attirare capitali e investimenti stranieri. Nell’ analisi futurista, Marinetti parla dell’ Africa come ispiratrice di poesia e arti, auspicando di interpretare profondamente e insieme dominare italianamente l’ anima diversa di ogni razza colonizzandola con l’ arte. Davide Fossa, nel suo saggio “Il partito nel governo dell’ impero”, elenca una vasta gamma di compiti che il partito avrebbe dovuto eseguire nelle colonie (economia generale, controllo e ricerca, enti e servizi connessi con lo sviluppo dei territori). Il partito avrebbe dovuto organizzare e coordinare tutti i trasporti e le comunicazioni. Come molti altri autori egli sostiene che la colonizzazione italiana avrebbe dovuto “associare” i nativi, senza abbatterli, al sistema di vita italiano, determinando per essi un esistenza migliore di quella schiavistica e feudale che essi vivevano da secoli. Questa volontà di associare al regime italiano i nativi avrebbe comunque dovuto in considerazione i principi di dignità e del prestigio della razza. Carlo Giglio, sempre a proposito dei compiti di partito, ci dice che il partito avrebbe dovuto creare e alimentare nelle nuove generazioni, non lo spirito imperiale, ma lo spirito espansionistico (in senso dinamico). Egli auspica dei corsi di preparazione alla vita coloniale per donne e uomini (operai, coloni e soldati), in funzione di una futura emigrazione. Una delle principali fonti nello studio della storia della colonizzazione fascista sono gli atti dell’ istituto coloniale fascista. A proposito dell’ educazione della donna si possono leggere documenti che elencano le funzioni della donna per poter assolvere in colonia ai doveri e alle funzioni particolarmente ad essa spettanti nella vita sociale e familiare. La presenza della donna sarebbe stata funzionale alla riproduzione di un ambiente familiare ove i coloni avrebbero potuto operare più produttivamente. Inoltre le donne avrebbero potuto svolgere funzioni quali dattilografe, telefoniste, contabili e insegnanti. Ovviamente ruolo importanza centrale a proposito della presenza della donna aveva l’ elemento demografico: la formazione di nuove generazioni nate e cresciute in Africa, avrebbe contribuito a creare i più saldi quadri per l’ esercito dei lavoratori futuri; inoltre la donna era vista come l’ elemento conservatore del sangue, nell’ ambito della continuità della razza. La colonia vecchio stile, ovvero la colonia di sfruttamento concepita secondo la mentalità demo liberale, aveva, secondo l’ autore, qualcosa di caotico ed avventuroso, che ripugnava la mentalità fascista. La vita coloniale era allora una breve parentesi volta ad afferrare ciò che si poteva e quanto più si poteva, per tornare in patria col proponimento di non rimettere più piede in Africa. Ben altra cosa avrebbe dovuto essere l’ impero fascista, come impero del lavoro e della costruzione, degna palestra per le migliori energie della stirpe,

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prolungamento trans - marino dell’ Italia. Il coloniale fascista, non avrebbe dovuto avere più bisogno di essere considerato un’ eccezione, ma un rappresentante della stirpe italiana.

LA REPRESSIONE DEL RIBELLE E LA COSTRUZIONE DELLA SOCIETA’ COLONIALE

Una volta avvenuta la colonizzazione, il potere coloniale aveva il problema di reprimere ogni attività di rivolta. Mentre in età liberale si facevano tentativi che cercavano, sia pure in modo subordinato, di associare gli arabi al governo della colonia libica, durante l’epoca del fascismo emersero quegli umori sciovinisti più radicali. La diversità trai due tipi di regime consiste nel fatto che si acuirono gli elementi di differenziazione con le popolazioni indigene, fino a quando, dopo la conquista dell’Etiopia, si affermarono con le leggi razziali, delle linee di separazione netta tra il bianco colonizzatore e l’indigeno. Nel brano di Balbo, tratto da ‘’La politica sociale fascista verso gli arabi della Libia’’, illumina molto bene quella che è la linea seguita dal quadrumviro della Libia: concepire gli arabi della colonia come strumento favorevole e base necessaria per caratterizzare la propria politica nei confronti di tutto il mondo islamico. Questo strumento andava trattato paternalisticamente per quanto riguarda le popolazioni dell’interno, mentre per quelle della costa, più avanzate, si doveva creare le condizioni necessarie per una più diretta partecipazione ad una più diretta partecipazione alla vita civile dell’impero fascista.Tra gli elementi di propaganda troviamo il presentarsi come ‘’liberatori dalla schiavitù’’ ma anche racconti quale ‘’l’anello di Salomone’’ di Panetta, il quale si proponeva di diffondere l’immagine magico-paternalistica del Duce, il quale sarebbe giunto in possesso del mitico anello del re Salomone. La politica indigena del fascismo è comunque caratterizzata dal razzismo che parte come direttiva dello stesso Benito Mussolini. Nel marzo del 1940 uscì il primo numero di ‘’Razza e civiltà’, rivista mensile del Consiglio Superiore della Direzione Generale per la demografia e la razza del Ministero dell’Interno. Era questo l’organo razzista ufficiale che univa al tema razzista quello demografico, dove i filoni di studio della popolazione e quelli più propriamente razziali e razzisti venivano trattati ad alto livello culturale e scientifico. All’interno di tale rivista vi era uno spazio dedicato a una rubrica ove venivano segnalate e commentate le sentenze più interessate emanate dai tribunali del Regno delle colonie in materia razziale( reati sessuali di arabi su italiane). L’attività militare in colonia può essere considerata come un momento della politica indigena, perché l’imperialismo coloniale nasce da un atto di appropriazione, compiuto con la forza e la violenza e spesso con la guerra, di territori le cui popolazioni vengono sottomesse alle regole del dominatore. Da questo ne conseguì la necessità, per la potenza occupante, di tenere delle forze sempre pronte all’intervento. In un discorso di Luigi Federzoni ai notabili di Misurata nel 1924 si tratta l’argomento dell’episodio di Giamurria. L’autore descrive tale evento come un folle tentativo contro la sovranità italiana aggiungendo peraltro che i fatti avevano dimostrato l’inutilità di tale gesto. Egli esalta la supremazia dell’Italia il cui valoroso esercito fu sempre coronato dalla vittoria. Egli sosteneva che le popolazioni indigene ricevevano netti vantaggi dalla sottomissione alla Madre Italia e che la loro lealtà sarebbe stata premiata. Nei dispacci del Maresciallo Badoglio al governatore generale della Libia, al generale Graziani vice governatore della Cirenaica e al generale De Bono ministro delle colonie,

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vengono affrontati i temi della ribellione. Badoglio sosteneva che la popolazioni indigena aveva perfettamente capito che la forza era nelle mani del governo italiano e che esso era deciso a prendere qualsiasi provvedimento per ottenere l’esecuzione perfetta degli ordini impartiti. Egli ordina un censimento della popolazione al fine di ottenere la sua vera consistenza per facilitare l’azione del governo. I ribelli dovevano essere repressi radicalmente; la pressione contro di essi non si sarebbe mai dovuta allentare. Dal lato politico era necessario completare il movimento di concentramento dei sottomessi e mantenere un servizio di sicurezza intorno ad essi; era necessario svolgere una continua pressione verso i sottomessi affinché essi avrebbero attratto i loro parenti e convinti ad abbandonare Dor. Egli afferma inoltre che se il movimento di sottomissione dei ribelli non si sarebbe accentuato sarebbe convenuto passare ad un’altra serie di provvedimenti, tra i quali di unire tutti i parenti dei ribelli in uno stretto e molto sorvegliato campo di concentramento, arrestare i notabili che avessero esplicato azioni contrarie rispetto al governo italiano. dal punto di vista militare si sarebbe dovuto provvedere con le forze di polizia e con le forze regolari all’isolamento dei concentramenti di sottomessi e dislocare le altre forze in gruppi mobili col compito del pattugliamento continuo di un determinato settore. Si sarebbero inoltre dovute ridurre le forze irregolari sostituendole con formazioni regolari eritree e procedere al ritiro delle armi della popolazione della Cirenaica. Badoglio sosteneva che la ribellione fosse imperniata sulla figura di Omar El Mukatar, il quale non divideva con nessuno il suo potere ed aveva luogotenenti devoti e disciplinati. Il Maresciallo sosteneva dunque che si doveva escludere la possibilità di adoperare il solito sistema di incunearsi fra le gelosie, le rivalità e gli odi che sempre esistono quando vi sono capi diversi. Omar aveva a disposizione un perfetto servizio d’informazioni che gli permetteva di rifiutare il combattimento quando la situazione non era favorevole; una perfetta conoscenza del territorio agevolava inoltre ogni sua mossa. I suoi gregari erano persone che da anni non esercitavano altri che il mestiere del ribelle. I vantaggi di tale movimento erano dunque evidenti ma altrettanto evidente era, secondo Badoglio, il fatto che un nucleo simile non sarebbe potuto durare a lungo contro forze almeno 10 volte superiori se non si fosse appoggiato ad una potente e complessa organizzazione che gli assicurasse l’esistenza. Era dunque la popolazione che forniva al Dor denaro, mezzi di sussistenza, munizioni, uomini di rimpiazzo dei caduti, che informava di ogni mossa italiana. Inoltre, lo stesso elemento indigeno che si arruolava nei reparti italiani, conteneva , secondo Badoglio, il germe del parteggiamento per il Dor. Gli stessi soldati italiani non combattevano a fondo tale stato di cose poiché convinti che da uno stato di ribellione fosse possibile trarre vantaggi di carriera. Era dunque necessario isolare anzitutto il Dor dalla rimanente popolazione e stroncare tutto l’intreccio della organizzazione tra la popolazione e il Dor. In questo modo i ribelli avrebbero dovuto seguire a distanza il movimento della popolazione, altrimenti le comunicazioni e gli scambi sarebbero diventati troppo difficili. Spostando la popolazione si sarebbero tolti i ribelli dalle zone più difficili dell’altopiano e allo stesso tempo ridotto lo spazio da sorvegliare. Badoglio sosteneva che contemporaneamente si sarebbe dovuto tendere ad approfittare di ogni occasione per assestare colpi alle forze ribelli: un nucleo di truppa si sarebbe dovuto attaccare alle calcagna dei ribelli per ottenere informazioni, nuclei mobili di truppa avrebbe invece dovuto sorvegliare una speciale zone incessantemente. In questo modo la strategia del Maresciallo si delineava come un’azione di logoramento e non come uno scontro frontale. Badoglio disponeva inoltre che le formazioni dei reparti regolari libici, che riteneva inaffidabili, fossero sostituiti con truppe provenienti dall’Eritrea. Si sarebbe inoltre dovuto lavorare per dare tono e aggressività a queste truppe e per purificare lo spirito dei quadri. Stabiliti questi capisaldi si sarebbe dovuto

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lasciare al vice governatore la più ampia libertà di azione senza collaudare ogni suo atto, e questo allo scopo di rendere l’azione più rapida ed efficace. Il punto centrale della nuova strategia di Badoglio era dunque quello di far rifluire in uno spazio ristretto tutta la popolazione sottomessa, in modo da poterla adeguatamente sorvegliare ed in modo che vi fosse stato uno spazio di assoluto rispetto fra essa ed i ribelli. Tale strategia prevedeva inoltre la creazione di una banda (Banda Akif) che fosse diventata il segugio dei ribelli; le altre truppe organizzate a gruppi mobili, con dovuto autonomia logistica, dovevano essere sempre pronte a dare colpi tutte le volte che le organizzazioni nemiche, segnalate dalla Banda Akif, si fossero prestate ad essere colpite. Era questo il sistema che senza esaurire le truppe in lunghe marce e in infruttuosi rastrellamenti avrebbe dato all’Italia un tale predominio necessario per la soluzione del problema.In una circolare del comandante superiore dell’AO, generale De Bono, si affrontano i rapporti tra soldati italiani e popolazioni africane. Egli affermava la necessità che il tratto di tutti gli italiani, militari e civili, verso le popolazioni indigene fosse ispirato ai più elevati sensi di dignitosa benevolenze e di umana comprensione. Era nell’interesse italiano avere buoni rapporti con le popolazione eritree, poiché esse fornivano delle truppe necessarie agli sforzi coloniali. Gli ufficiali avrebbero pertanto dovuto essere solleciti del benessere delle popolazioni, rispettosi delle abitudini locali, e avrebbero dovuto sorvegliare con cura il comportamento dei subordinati verso gli indigeni. l’addensamento di truppe nella parte meridionale della colonia (AO) rendeva necessario uno stretto accordo ed una leale collaborazione tra autorità civili e comandi militari. In un promemoria del ministero della guerra del 1936 si riprende il tema dei rapporti fra coloni e indigeni trattando nei termini di rispetto ma allo stesso tempo necessario distacco. L’ufficiale avrebbe dovuto essere per gli Ascari maestro, consigliere, giudice, medico, padre ma allo stesso tempo avrebbe dovuto in ogni occasione manifestare la sua superiorità morale ed intellettuale e mantenere costante ed assoluto il suo prestigio dimostrandosi esemplare in tutto ed irreprensibile in servizio e fuori servizio. L’ufficiale, nuovo assegnato ai reparti eritrei, avrebbe dovuto al più presto formarsi una cultura coloniale, e in particolare rendersi edotto delle caratteristiche particolari della colonia, nonché degli usi, costumi, e consuetudini della vita indigena,m della credenze, delle superstizioni e delle religioni. L’attività di un reparto indigeno era resa più vasta dalla presenza delle famiglie dei militari; anche ad esse l’ufficiale doveva estendere le proprie cure, seguendo le norme consuetudinarie. La fiducia illimitata che a tale riguardo gli Askari avevano per il proprio ufficiale era largamente dimostrata, ciò nonostante in materia disciplinare occorreva essere intransigenti: mancanze contro la subordinazione, la precisione, il rispetto e l’ordine devono essere sempre seguite da una sanzione disciplinare sia pure lieve. L’indigeno aveva infatti un culto speciale per la giustizia e quindi l’ufficiale avrebbe dovuto evitare qualsiasi parzialità sforzandosi di essere obiettivo in ogni circostanza. L’indigeno, secondo il Ministero, aveva innato il sentimento formale dell’obbedienza e della subordinazione; ma soltanto all’ufficiale che stimava ed apprezzava agli avrebbe concesso la propria fiducia. Tale promemoria proseguiva poi descrivendo le caratteristiche degli Askari eritrei come forti, robusti e violenti ma dalle qualità intellettuali molto modeste. In base a tali caratteristiche si doveva perciò provvedere al loro addestramento ricorrendo molto al metodo imitativo, sorvegliare l’azione dei graduati poiché per mentalità congenita erano portati considerare come attributo del grado, la possibilità di esercitare a danno degli inferiori abusi personali. Era necessario inoltre addestrare gli Askari alla convinzione che il combattimento fosse la risultate di sforzi coordinati e collettivi. Nel regolamento dei militari indigeni dei regi corpi delle truppe coloniali, il

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ministero delle colonie, fa riferimento ai doveri morali dei militari indigeni, i quali avrebbero dovuto avere sempre nel pensiero che essi vestivano e portavano le armi del re d’Italia, un re buono e potente. Essi doveva pertanto mostrarsi degni di questo onore. Dovevano rispettare la religione degli altri poiché i re d’Italia regnava ugualmente su cristiani e musulmani e voleva la giustizia per entrambi. In tale testo il re viene quasi equiparato a Dio e vengono tracciati una serie di precetti (simili ai 10 comandamenti) a cui l’indigeno si doveva attenere. Tuttavia anche qui si ritrovano dei tratti di distinzione tra la popolazione indigena e quella italica; ad esempio l’arresto di un colpevole bianco, anche se sorpreso in flagranza di reato non poteva essere operato dagli indigeni. In un numero speciale di una rivista dell’occupazione italiana si possono leggere tra le righe di Mahmud Muntasser le sue lodi alla politica mussoliniana ne riguardi dei musulmani. Egli parla del Duce dicendo che voleva legare la Libia alla Madre Italia; parla dell’istituzione della scuola superiore islamica, l’istituzione della GAL e dell’aspirazione dei giovani musulmani fedeli al Duce di andare a Roma per sfilare al loro Capo. L’autore sostiene la sincerità della politica mussoliniana verso l’islam; i musulmani per lunghissimi anni, hanno sofferto la tirannia degli etiopici i quali, con mezzi barbari, cercarono di distruggere la loro religione e di spogliarli dei loro averi e del potere dei loro capi. Se questa politica del Negus fosse durata ancora qualche altro anno, l’islam in Etiopia si sarebbe estinto. Mussolini viene dunque visto come un salvatore che, all’ombra del tricolore, simbolo di giustizia e di comprensione, salvaguardia i diritti e le libertà del musulmani. Da queste righe dunque si evince che Mussolini riuscì a capire l’importanza della religione islamica per tale popolazioni e la utilizzò con successo come elemento di propaganda per ottenere il loro appoggio. Ne ‘’la politica sociale fascista verso gli arabi della Libia’’ Italo Balbo sosteneva che i rapporti tra indigeni e colonizzatori non doveva essere sulla falsa riga di dominatori e dominati ma come italiani cattolici e italiani musulmani. Le popolazioni della Libia dovevano essere considerate come uno strumento favorevole e basi necessarie per caratterizzare la politica italiana nei confronti di tutto il mondo islamico. In tale testo si fa una distinzione alla suddivisione della Libia nel Sahara libico, abitato da genti di razza negroide, e nelle province a tipo metropolitano di Tripoli, Misurata, Bengasi, Derna. Gli abitanti di quest’ultimo territorio venivano considerati come una popolazione di razza superiore, influenzata dalla civiltà mediterranea, e dunque capace di assimilare lo spirito delle leggi italiane e di evolversi sul piano di un’elevata vita sociale. Tale popolazione doveva essere dunque posta nelle condizioni necessarie per una più diretta partecipazione alla vita civile italiana. Ciò sarebbe potuto avvenire innanzitutto migliorando il tenore di vita della popolazione accrescendone il benessere economico. Tra i vari provvedimenti presi dal governo a questo fine vi erano: l’introduzione di consorzi e cooperative, la regolazione dei prezzi della manodopera e una serie di fondi stanziati per incrementare la produttività agricola, l’istituzione di centri d’istruzione ed educazione, rimboscamenti di dune che proteggono i giardini delle oasi dall’invasione delle sabbie e scavi di nuovi pozzi. Balbo riteneva dunque che una volta apportate tali riforme i tempi fossero maturi per concedere agli arabi della Libia la dignità di cittadini italiani; una volta avvenuta tale concessione i cittadini sarebbero dovuti essere inquadrati nelle tipiche organizzazioni economiche e sociali intonate alle nuove concezioni della vita fascista. elevare il livello culturale e sociale degli arabi libici significa anche creare la condizione necessaria per consentire a questi arabi di collaborare in maggior numero e più espressamente al governo della Libia nelle cariche pubbliche e nei pubblici impieghi. Inoltre Balbo fa riferimento al riferimento della GAL, che ha risposto in pieno a quella politica indigena che ispira la concezione fascista dell’impero: impero che non è

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soltanto espressione territoriale, o militare, o mercantile ma manche e soprattutto entità spirituale e morale. La serie di provvedimenti che il governo fascista ha emanato in tutti i campi a favore delle genti libiche, l’orientamento, lo sviluppo, il complesso di tutta la nostra politica indigena, miravano a creare un nuovo tipo di cittadino libico che si fosse distaccato nettamente dal tipo della tradizione colonialistica e si fosse inquadrato perfettamente nella nostra vita sociale. La partecipazione dell’arabo libico alla vita sociale italiana doveva iniziare dalla più tenera età sia con la frequenza degli allievi alle scuole istituite sia con l’inquadramento dei ragazzi nelle formazioni della GAL. Si sarebbe poi giunti al servizio militare. Ciascun individuo sarebbe dovuto uscire dal tradizionale e primitivo aggregato etnico per inserirsi nell’ambito dei municipi, delle residenze, delle prefetture e del governo. L’arabo libico sarebbe dunque dovuto uscire da quella specie di anonimato in cui veniva confuso dall’uso tradizionale che doveva essere sostituito dalle precise e inconfondibili indicazioni dell’anagrafe municipale. In una circolare di Guglielmo Nasi vengono esposti i principi ai quali si devono attenere i residenti quali esempi di civiltà e lealtà e purezza d’animo rispetto alle popolazioni indigene. Il residente avrebbe dovuto tenere soggette le popolazioni in modo da mantenere un naturale distacco ma allo stesso tempo cercando di ascoltare i problemi della popolazione autoctona in modo da fondare la propria legittimità ottenendo da essa il rispetto. Il residente, tramite il suo comportante impeccabile, sarebbe dovuto apparire agli occhi dell’indigeno come un uomo superiore: il governo di popolazioni indigene era visto innanzitutto come un apostolato. L’autore elenca inoltre una serie di comportamenti incongrui che il residente avrebbe dovuto evitare; fra questi vi era il ‘rassismo’ (il padrone sono me) che portava ad un’interpretazione arbitraria indipendente da leggi che aveva le sue manifestazioni in atteggiamenti despotici quali ad esempio le pretese allo ius primae noctis, o un sadico ritorno ad azioni di polizia simili a quelli dell’Inquisizione. Un altro comportamento incongruo che viene elencato sono i trattamenti inumani verso gli Askari colpevoli di reato. Tali trattamenti, seppur apparentemente funzionali ad ottenere importanti informazioni, sono tuttavia condannati poiché goccia a goccia avrebbero portato alla rivolta. Viene poi fatto riferimento, condannandola, alla febbre dell’oro, ovvero la corsa all’affare che colpisce molti dei funzionari dell’impero coloniale. Per quanto riguarda la manodopera indigena viene condannata la tratta dei negri, usanza aliena al colonialismo fascista. vengono condannate razzie, incendi e violenze. I funzionari del governo dovranno essere uomini onesti ed ottenere in questo modo la fiducia degli Askari. Per quanto riguarda la politica razzista del regime fascista nelle colonie, dai vari documenti emerge la necessità di distacco fra metropolitani ed indigeni per conservare la purezza della razza e il prestigio indispensabile al dominatore sul dominato: il tratto del colono dev’essere in ogni circostanza corretto, calmo, paziente, ma se occorre fermo e autoritario. La colonizzazione italiana in Africa orientale, mettendo a contatto grandi masse di lavoratori e soldati con la popolazione indigena, ha reso per l’Italia di grandissima importanze il problema di tutela della purezza della razza. Il problema non era tanto la Libia, in quanto terra abitata da popolazioni arabe di razza bianca e considerati di cultura superiore, bensì l’AOI. In queste terre, a differenza delle donne musulmane, quelle indigene non ripugnavano concedersi, sia pur temporaneamente, agli europei. Gli inconvenienti a cui si sarebbe andato incontro se si fosse lasciata la piena libertà ai bianchi di accoppiarsi con donne di colore sarebbero stati: avvicinamento dei dominatori europei ai sudditi indigeni, e quindi minor rispetto di questi per i primi; pericolo di diffusione delle malattie di cui erano affetti quasi tutti gli indigeni; abbrutimento dei bianchi in seguito alla convivenza con

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persone di razza e mentalità inferiore; allontanamento del colono dai suoi doveri familiari rispetto all’Italia e alle donne italiane, con conseguente diminuzione delle nascite; procreazione di meticci i quali, essendo generalmente poco amati dai genitori, conducono una vita infelice e finiscono con rappresentare un elemento di disordine e un pericolo sociale. Il 9 gennaio 1939 il Consiglio dei Ministri approvava uno schema di decreto legge per garantire la difesa della razza e regolare i rapporti tra italiani e indigeni. gravi sanzioni penali erano stabilite a carico del cittadino italiano che avesse tenuto relazione di indole coniugale con persona suddita dell’AOI. Nel suo discorso di Trieste, pronunciato nel settembre del 1938, il Duce parlò del problema razziale in relazione con la conquista dell’Impero e con il mantenimento del prestigio, per mantenere il quale occorreva una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime. La civiltà era vista come contagiosa: si diffonde spontaneamente tra popolazioni portate all’imitazione. La politica razzista, anche se poteva a prima vista sembrare allontanante, contribuiva all’elevazione dei soggetti più che quella politica di fratellanza universale che, mescolando bianchi e neri, ottiene, come risultato, il meticcio. Prendendo come presupposto la superiorità culturale europea rispetto alla cultura negra, era necessario per entrambe mantenere una superiorità della prima sulla seconda. L’Italia, affermando la sua superiorità, manteneva e rispettava comunque l’organizzazione sociale degli eritrei, ispirata ad un sano senso di gerarchia; conserva le tribù dei somali, con i loro capi e le loro assemblee, ma non lasciava, come avveniva in molte colonie britanniche, che le organizzazioni indigene rimanessero abbandonate a sé stesse. Così le popolazioni erano costantemente protette contro gli arbitri, mentre tutta una serie di provvidenze dirette contribuiva al loro materiale benessere e alla loro elevazione intellettuale e morale, sviluppando in esse sentimenti di gratitudine verso il dominatore.

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