Il Colonialismo Di Crispi, Gianpier Nicoletti

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Università della terza età Montebelluna Anno accademico 2011-12 ITALIA COLONIALE 2. Il colonialismo di Crispi Gianpier Nicoletti Il testo di queste lezioni è disponibile sotto forma di registrazione vocale presso la nostra Segreteria

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Università della terza età MontebellunaAnno accademico 2011-12

ITALIA COLONIALE

2. Il colonialismo di Crispi

Gianpier Nicoletti

Il testo di queste lezioni è disponibile sotto forma di registrazione vocale presso la nostra Segreteria

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2. Il miraggio etiopico

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Solo l’esigua minoranza socialista in Parlamento era contraria al colonialismo.

La maggior parte dell’opinione pubblica e i gruppi liberali erano favorevoli, ma le risorse erano scarse.

Il giornale governativo scriveva: "...l'anno che stava nascendo avrebbe deciso le sorti dell'Italia come grande potenza.”

La strategia dei governi fu quella di cercare un successo eclatante, sproporzionato alle reali forze disponibili.

Filippo Turati

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In Africa, in un primo tempo le tribù etiopiche non contrastarono gli italiani.

Nel 1887 ras Alula attaccò con diecimila uomini il fortino di Saati.

Una colonna di 500 uomini, comandata dal ten.col. De Cristoforisaccettò lo scontro in campo aperto in località Dogali.

Una costante dell’esercito italiano sarà di sottovalutare le capacità militari delle popolazioni africane.

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La sconfitta provocò il ripiegamento dei presidi italiani.

In Italia l’episodio di Dogali provocò forte emozione e tanta retorica patriottica.

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Le istruzioni date al generale Di San Marzano, inviato a Massauacon 20.000 soldati erano:

“rivendicare il prestigio delle nostre armi senza impegnarsi a fondo per la conquista dell’Abissinia.”

Così si evitò lo scontro quando nel 1888 il negus Giovanni Kassa avanzò con forse 100.000 uomini.

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Il generale Antonio Baldissera, successore del San Marzano, dopo aver organizzato le truppe coloniali italiane e aver creato una componente indigena (gli ascari eritrei) nel 1888 prendeva Cheren (2 giugno) e Asmara (3 agosto), portando così l’occupazione italiana in pieno altipiano.

Gli ascari erano volontari con ferma annuale, inquadrati da ufficiali italiani.

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La morte (marzo 1889) di Giovanni durante una battaglia con i dervisci aprì la lotta per la successione alla corona imperiale tra il Capo della regione del Tigrai Mangascià, figlio del precedente Negus, e il Capo della regione dello Scioà Menelik.

Menelik, al fine di ottenere l’appoggio italiano, sottoscrisse il 2 maggio 1889 con l’inviato italiano conte Pietro Antonelli il Trattato di Uccialli.

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Il trattato di Uccialli stabiliva la pace perpetua tra il Re d’Italia e il Re dei Re d’Etiopia.

Delimitava genericamente il confine italo-etiopico demandando a una commissione di stabilirlo nei particolari.

Il trattato garantiva l’immunità degli agenti diplomatici rispettivamente accreditati e conteneva norme riguardanti le carovane, i commerci, l’estradizione dei delinquenti, l’impegno a reprimere la tratta degli schiavi e altre norme che andavano a regolare questioni bilaterali di diritto privato.

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Il cuore del trattato era però rappresentato dall’art. 17 che nel testo italiano così si esprimeva:

«S. M. il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del Governo di S. M. il Re d’Italia per tutte le trattazioni di affari che avesse con altre potenze o Governi». Di fatto facendo dell’Etiopia un protettorato italiano.

Ma i testi in italiano e in lingua etiope erano diversi.

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L’altopiano etiopico aveva un’economia di sussistenza basata sull’agricoltura e l’allevamento.

Le tribù si dedicavano anche alla razzia periodica nei confronti dei vicini.

Le difficoltà di comunicazione determinavano una divisione in regioni autonome, rette da potentati locali (i ras), e con un’organizzazione di tipo feudale (dove operavano vassalli: degiac, fitaurari, degiasmac).

Un ras particolarmente potente poteva assurgere al ruolo di sovrano (negus).

L’imperatore aveva il titolo di negus neghesti(re dei re).

Ras Maconen

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La penetrazioni italiana nel territorio si concretizzo nella costituzione della colonia dell’Eritrea (1890).

La presenza italiana allarmò Menelik.

Gli italiani sviluppavano la loro presenza anche lungo le coste Somale.

Nel 1887 intanto era morto Depretis.

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L’ascesa al trono di Menelik aveva permesso di consolidare il suo stato.

Aveva allestito un forte esercito (almeno 100.000 uomini) in parte equipaggiati con armi da fuoco moderne.

Nel febbraio 1893 il trattato di Uccialli fu denunciato.

Anche i dervisci riprendevano le ostilità.

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Ad Agordat (dicembre 1893) i dervisci furono battuti dalle truppe italiane.

Crispi, ritornato presidente del consiglio, decise di riprendere le ostilità con il negus (in Italia imperversava la crisi economica e le tensioni sociali – Fasci siciliani).

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Barattieri attaccò i dervisci conquistando Cassala (luglio 1894).

Nel dicembre 1894 nei domini italiani scoppiò una rivolta a seguito delle confische di terre arabili (400.000 ettari).

Nel gennaio 1895 le truppe italiane e ascare attaccarono ras Mangascià, occupando il Tigrè.

Il governo negò però rinforzi a Barattieri, sottovalutando le forze abissine.Menelik aveva 100.000 uomini di cui 80.000 armati di fucili.

Meharisti a Cassala

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Il maggiore Toselli e 2.300 ascari furono soprafatti all’Amba Alagi (7 dicembre 1895).

La montagna dell'Amba Alagi si trova nella regione di Tigrè, ed è posta sulla principale via che collega l'Etiopia all'Eritrea.

Per via della sua posizione strategica, la montagna era stata temporaneamente occupata, nell'ambito dell'invasione italiana del Tigrè, nell’ottobre del 1895.

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Il comandate delle truppe italiani Arimondi, informato che un grosso contingente etiope al comando del negus Menelik forte di 30.000 uomini si stava ammassando ai confini della regione, inviò sullamontagna, con compiti di osservazione e presidio truppe indigene per un totale di 2350 uomini e una batteria di artiglieria con quattro cannoni al comando del maggiore Pietro Toselli.

Ai primi di dicembre ci furono i primi scontri. Toselli, conscio della schiacciante inferiorità numerica, fece ripiegare tutte le sue truppe sull'Amba Alagi. Il generale Arimondi ordinò di mantenere la posizione ed informò Toselli che il 6 dicembre sarebbe giunto egli stesso con un contingente di rinforzo, ma il 5 dicembre Baratieri ordinò di non muoversi e di far ripiegare sulla città il contingente di Toselli. L'ordine di ripiegamento non giunse mai Toselli, che, ubbidendo al precedente ordine di resistere in attesa dei rinforzi, si preparò al combattimento sull'Amba.

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La battaglia ebbe inizio al mattino del 7 dicembre, quando una colonna etiope attaccò frontalmente le posizioni della compagniaCanovetti, venendo respinta con gravi perdite. Successivamente le colonne etiopiche travolsero le difese.

Alle 12 e 40 Toselli diede ordine di iniziare la ritirata a scaglioni.Quando anche la resistenza delle bande dell'ala destra cedette, la ritirata si trasformò in una fuga disordinata, e i reparti italiani furono annientati. Il maggiore Toselli, che procedeva in coda alla colonna in ritirata insieme ai capitani Canovetti, Persico e Angherà, venne ucciso dagli etiopi con i suoi ufficiali nei pressi della chiesa di EndàMedàni Alèm (o di Bet Mariàm). Il contingente di Toselli venne quasi completamente annientato, con la perdita di 19 ufficiali e 20 graduati e soldati italiani, e di circa 2.000 tra ascari ed irregolari.

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Monumento al maggiore Toselli

I pochi superstiti, guidati ora dai tenenti Pagella e Bodrero, raggiunsero alle 16 e30 il villaggio di Adrerà, dove trovarono una colonna di 1.500 ascari italiani guidati dal generale Arimondi, partita la sera del 6 dicembre da Macallè per appoggiare il previsto ripiegamento di Toselli; raccolti i superstiti, la colonna, sotto attacco da parte degli etiopi, ripiegò in direzione di Macallè, ove giunse all'alba del giorno dopo.

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Dopo la sconfitta fu ordinato il ripiegamento di tutte le forze italiane comandate dal Generale Arimondi su Adigrat.

Nel fortino di Endà Iesus a Macallé una guarnigione composta da:3 compagnie del 3º battaglione indigeni;1 compagnia dell'8º battaglione;1 sezione di 4 pezzi da montagna;In totale c'erano 21 ufficiali, 170 soldati bianchi e poco più di 1.000 ascari ad affrontare 20-30.000 abissini. A capo della guarnigione fu posto il Maggiore Giuseppe Galliano.

Rovine del fortino di Maccalè

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Il 7 gennaio 1896, al comando di Ras Maconnen, 60.000 abissini iniziarono l'assalto, che però venne respinto. Il giorno seguente l'attacco riprese con esito felice per gli etiopici, che si impadronirono della fonte a cui si approvvigionavano gli italiani, mettendone in seria difficoltà la sopravvivenza. Nei giorni seguenti si susseguirono gli attacchi abissini finché il 19 gennaio il governo italiano ordinò a Galliano di sgomberare il forte e di arrendersi. La posizione fu abbandonata il 21 gennaio con gli onori militari e la promessa di essere avviato a Adigrat dove giunsero pochi giorni dopo.

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Crispi e gli ufficiali di Baratieri chiesero una “dimostrazione offensiva”.

”Codesta è una tisi militare, non una guerra: piccole scaramucce, nelle quali ci troviamo sempre inferiori di numero dinanzi il nemico; sciupio di eroismo senza successo. Non ho consigli a dare perché non sono sul luogo, ma constato che la campagna è senza un preconcetto e vorrei fosse stabilito. Siamo pronti a qualunque sacrificio per salvare l'onore dell'esercito ed il prestigio della monarchia”.Telegramma di Francesco Crispi a Baratieri

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Secondo le informazioni ricevute, Baratierivalutava la forza dell'esercito etiope tra i 30.000 e i 40.000 uomini, demoralizzati dalle malattie e dalla penuria di viveri.

Le truppe di Menelikammontavano tra i 100.000 e i 120.000 uomini, di cui circa 80.000 dotati di un qualche tipo di arma da fuoco.

Gli etiopici non disponevano di un vero e proprio servizio logistico, e la principale fonte di viveri e vettovaglie era costituita dai contadini della regione dove l'esercito si trovava. Dopo venti giorni trascorsi nella conca di Adua, l'esercito etiope aveva consumato quasi tutte le risorse della regione, e nel suo accampamento si stavano incominciando a diffondere le malattie.

Conscio di questa situazione, Menelikaveva cominciato a progettare un assalto in massa contro il campo italiano per il 2 marzo seguente.

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Mappa topografica consegnata dal Generale Baratieri ai suoi generali poco prima della battaglia di Adua insieme all'"Ordine di operazione".

La posizione dei colli Chidane Meret e Rebbi Arienni(indicati in rosso) è sicuramente errata.

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5.000 morti tra gli italiani e 1000 tra gli ascari; 500 feriti messi in salvo; 1.700 prigionieri; Il resto sbandati e in fuga.Baratieri fu travolto dalla sconfitta.

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La battaglia di Adua in un dipinto etiope

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“[…]E molto meno potrebbe invocare scusa ed attenuazione per il modo con cui […] difficilmente essendo comprensibile una marcia offensiva per la quale si sarebbero spinte in avanti tre colonne di truppe, per tre diversi corridoi, senza che l'una potesse sostenere l'altra, e senza nemmeno che potessero valersi delle artiglierie di cui il nemico si poté da ultimo impossessare.

La Tribuna, 4 marzo 1896

Militarmente parlando questa disposizione non è giustificabile, soprattutto in un uomo di guerra che il terreno doveva conoscere. […] Molte, l'abbiamo detto più volte, sono le responsabilità implicate in codesta disgraziata faccenda d'Africa. Se ne sono avute di varia indole, determinate ora da ignoranza, ora da debolezza, ora da resistenze inesplicabili davanti al pericolo, ora da titubanze suggerite daconsiderazioni di equilibrio parlamentare.”

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“[…] I nemici frattanto con molta audacia salivano alla posizione e penetravano nelle nostre file sparando quasi a bruciapelo sugli ufficiali. Allora non valse nessun ritegno, nessun ordine per ritirata successiva. Invano ufficiali cercavano trattenere soldati su qualcuna delle successive posizioni, perché nemici irrompenti e pochi cavalieri scioani scorrazzanti in basso bastarono a travolgere tutto. Allora cominciarono le vere perdite; soldati come pazzi gettavano fucili e munizioni per l'idea che se presi senzaarmi non sarebbero stati evirati, e quasi tutti gettarono viveri e mantelline. Invano io col generale Ellena, con i colonnelli Stevanie Brusati e Valenzano cercammo dirigere la corrente verso la sua base Saurià, tutti volgevano verso nord per la via più larga. […]”

Telegramma di Oreste Baratieri al governo (3 marzo 1886)

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Dopo la battaglia Menelik non volle avanzare oltre Adua, preferendo ritirarsi verso Maccallè e lo Scioà e inviando solo 12.000 uomini a investire il presidio di Adigrat, dove si era rinchiuso il maggiore Prestinaricon un battaglione di circa 2.000 uomini.

Menelik a causa la penuria di viveri, per le malattie che decimavano i suoi soldati e il sopraggiungere della stagione delle piogge fu impossibilitato a sfruttare la vittoria, non osando aggredire la Colonia Eritrea.

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Morirono ad Adua più soldati che in tutte le guerre del Risorgimento.

In Italia socialisti e anarchici gridavano “Viva Menelik”.

Il governo Crispi cadde. Fu sostituito da Di Rudinì, uomo di destra ma anticolonialista.

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Il Governo Rudinì ordinava di sgomberare interamente il Tigrai e faceva reimbarcare la gran parte delle truppe, adoperandosi al fine di ottenere al più presto la fine delle ostilità e la liberazione dei prigionieri, per la cui sorte il Paese si trovava da mesi in uno stato di collettiva, morbosa agitazione sull’onda di voci di orrende torture. Nell’ottobre 1896 si concluse la pace di Addis Abeba. Con il nuovo accordo si abrogava Trattato di Uccialli, riconoscendo la piena indipendenza dell’Etiopia. Annessa al trattato era una convenzione per il rilascio dei prigionieri, ottenuto dietro pagamento di dieci milioni di lire.

Antonio Di Rudinì

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Il commissario straordinario in Eritrea, Ferdinando Martini, riassestò la situazione della colonia.

Una parte delle terre confiscate furono restituite, anche perché gli esperimenti di colonizzazione erano stati infruttuosi.

Solo sul bassopiano occidentale fu possibile un’agricoltura moderna per la produzione del cotone.

In generale lo sviluppo fu lento, sia per le difficili condizioni di clima e terra, sia per la scarsità di capitali.

Le velleità espansionistiche verso l’Etiopia furono accantonate.

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Negli stessi anni si avviò la penetrazione in Somalia, territorio allora sotto la sovranità del sultano di Zanzibar.

Era un territorio povero e poco popolato dove si praticava l’allevamento e un’agricoltura di sussistenza.

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Dopo alcuni tentativi coloniali caratterizzati dalla presenza di imprese private (che diedero scarsi risultati), nel 1905 la Somalia divenne una colonia regolare.

In termini economici, se l’Abissinia costava poco e rendeva poco, la Somalia non rendeva nulla.

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3. Gli italiani in Cina: la legazione di Tientsin

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Durante la guerra dei Boxer del 1901 l'Italia intervenne con un corpo di spedizione.

Con il trattato di pace all'Italia, come alle altre potenze straniere, fu data una concessione commerciale nell'area della città di Tientsin (l'odierna Tianjin) in Cina.

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La Concessione italiana, di 46 ettari, fu una delle minori concessioni fatte dal Celeste impero alle potenze europee.

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Dopo la fine della "Grande Guerra" la concessione austriaca tornò alla Cina, ma nel giugno 1927 fu inglobata in quella italiana.

Nel 1935, la concessione italiana raggiunse una popolazione di 6.261 persone: circa 110 italiani residenti, oltre diverse centinaia di italiani che vi avevano sedi commerciali, circa 5.000 cinesi e 536 di altra nazionalità.

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Il 10 giugno 1940, al momento dell'entrata in guerra dell'Italia, la concessione era presidiata da 300 marinai del Reggimento San Marco.

I giapponesi subito dopo l'intervento in guerra occuparono le concessioni e, con il pretesto di mantenere l'ordine, avevano invaso il territorio internazionale della città, saccheggiando le caserme e chiudendo nei campi di concentramento ufficiali e truppe delle varie nazionalità.

Per gli italiani invece, considerati degli alleati, era stato adoperato un certo riguardo e gli uomini della San Marco avevano avuto il permesso di rimanere nella loro caserma e di conservare le armi.Formalmente fino al 25 luglio 1943 la sovranità rimase italiana.

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Gli uomini della San Marco furono portati in un campo di concentramento in Corea.

La concessione venne di fatto sospesa, a seguito di un accordo intervenuto il 27 luglio 1944 tra la Repubblica Sociale Italiana e il governo dello stato fantoccio filogiapponese della Repubblica di Nanchino.

L'8 settembre 1943, poco dopo l'annuncio dell'armistizio tra l'Italia e gli Alleati, le truppe giapponesi irruppero nella caserma con le armi spianate.

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Alla fine della seconda guerra mondiale gli italiani della concessione furono fatti prigionieri dagli Alleati e la concessione di Tientsin, così come i quartieri commerciali italiani a Shanghai, Hankow e Pechino, furono formalmente soppressi.ùIl 10 febbraio 1947, furono assegnati alla Cina con il Trattato di Parigi.

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