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la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 7 GIUGNO 2015 NUMERO 535 Cult Le ingiustizie, la musica, Obama, l’Italia e un film (che si intitola “The Wall”) Intervista esclusiva al leader dei Pink Floyd Roger Waters Ho ancora da un muro abbattere L’attualità. L’arabo del futuro abita tra Homs e Parigi La storia. Duecento anni fa Waterloo, ecco come andò davvero Spettacoli. “Hai preso il Ritalin?”, scene da casa Cobain L’incontro. Francesco Pannofino: “Se Clooney impara l’italiano io sono fritto” La copertina. La curiosità è morta, viva la curiosità Straparlando. Luigi Ontani: “I curatori distruggono l’arte” Mondovisioni. Una tintura per capelli a Sana’a ROGER WATERS NEL 2010 DURANTE IL “THE WALL” TOUR / ©ED/CE / CAMERA PRESS Repubblica Nazionale 2015-06-07

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la domenicaDI REPUBBLICADOMENICA 7 GIUGNO 2015 NUMERO 535

Cult

Le ingiustizie, la musica,Obama, l’Italia e un film(che si intitola “The Wall”)

Intervista esclusivaal leader dei Pink Floyd

Roger Waters

Ho ancora

daun muro

abbattere

L’attualità. L’arabo del futuro abita tra Homs e Parigi La storia. Duecento anni fa Waterloo, ecco come andò davvero Spettacoli.“Hai preso il Ritalin?”, scene da casa Cobain L’incontro. Francesco Pannofino: “Se Clooney impara l’italiano io sono fritto”

La copertina. La curiosità è morta, viva la curiositàStraparlando. Luigi Ontani: “I curatori distruggono l’arte”Mondovisioni. Una tintura per capelli a Sana’a

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la RepubblicaDOMENICA 7 GIUGNO 2015 32LA DOMENICA

La copertina. Roger Waters

ENRICO FRANCESCHINI

LONDRANMURODIVIDEancora il mondo innord e sud, in ricchi e poveri, dauna parte chi perseguita e dal-l’altra chi soffre», mi dice RogerWaters. E lui continua a cercaredi tirarlo giù, un mattone allavolta. Prima con le canzoni, oraanche con il cinema.

L’appuntamento con il leg-gendario leader dei Pink Floydè a Londra, in una sala d’alber-go quasi di fronte ai grandi ma-

gazzini Harrods. È qui che ha temporaneamente stabilito il quartier generaleper il lancio promozionale del suo film, The Wall, appunto. Capelli grigi ma lun-ghi come ai vecchi tempi, jeans, maglietta nera, giacca blu, alto e dinoccolato, asettantadue anni Roger Waters ne dimostra almeno dieci di meno e ha ancoral’aria della rockstar — appena un po’ più rilassata. È come se il tempo, per la ge-nerazione sua, di Mick Jagger, di Paul Mc Cartney, di questi splendidi, incor-reggibili settantenni, non dovesse passare mai. The Wall, dunque, film-concer-to sullo strepitoso tour omonimo portato in giro per il mondo tra il 2010 e il 2013,road-movie sul suo passato di stella del rock e documentario pacifista, sarà incontemporanea sui grandi schermi di tutto il pianeta il prossimo 29 settembre,e in Italia, caso unico, per tre giorni anziché uno solo. Un grande avvenimentoche includerà anche una conversazione fra Waters e Nick Mason, in cui il duo del-la band di The Dark Side of the Moonsi riunisce per rispondere alle domande in-viate loro dai fan.

Mister Waters, che tipo di messaggio vuole lanciare con questo film?«Prima mi lasci dire l’unica cosa che so dire in italiano: Sono molto felice di es-

sere qui. Ah, no, aspetti, ne so anche un’altra: Signore, guidi piano per favore,mia moglie aspetta un bambino. Molto utile quando un’autista ti porta da Fie-sole a Firenze, con tutte quelle curve. Dunque, dove eravamo?».

Al suo The Wall che esce nei cinema di mezzo mondo.«Ah sì. Penso che la gente sarà colpita e sorpresa, anche quelli che hanno vi-

sto dal vivo il concerto, perché il film offre molto di più. Per me è stato il modo diriflettere sull’apparente indifferenza della nostra civiltà verso coloro che sof-frono, verso i diseredati, le vittime delle guerre, le persone private della libertà,censurate, sfruttate, verso tutti coloro che sono tenuti ai margini della società».

È un caso che soltanto in Italia il film sarà proiettato per tre giorni, o inveceriflette i suoi sentimenti per il nostro Paese, per la terra in cui ha perso la vi-ta suo padre?«La verità? Non lo sapevo, ma ora che me lo dice mi fa piacere, come mi fa sem-

Lo splendido settantaduenne è a Londra

per presentare il suo film.E a “Repubblica” svela:

“Appena finito il nuovo album farò un tour

Mi piace ancora andare ai miei concerti”

pre piacere parlare dell’Italia. Ho pranzatodi recente con un nuovo amico, Harry Shind-ler, un veterano inglese della Seconda guer-ra mondiale che vive da tanti anni nelle Mar-che, e che mi ha aiutato a scoprire il luogo incui fu ucciso mio padre (un soldato britanni-co che perse la vita combattendo in Italia nel1944, quando Waters aveva pochi mesi di vi-ta: una storia raccontata in anteprima pro-prio da Repubblica nel 2013, ndr). Prima an-cora avevo partecipato alla cerimonia diinaugurazione di un monumento alla me-moria di mio padre ad Aprilia, la cittadina incui perse la vita durante la battaglia per la li-berazione di Roma. È stato un momentoprofondamente commovente per me. Danon molto ho letto Napoli ‘44, il libro di me-morie di un ufficiale inglese durante l’avan-

zata da Salerno fino alla capitale. Quel li-bro descrive benissimo l’umanità degli

italiani, i sentimenti del vostro popo-lo. Quando sono a casa mia e ho un

po’ di ospiti attorno al tavolo, al-zo sempre un bicchiere e dico,

in italiano: La famiglia! E poiaggiungo rivolto ai familiarie agli amici: questo è quelloche deve voler dire essereitaliani. Io vi ringrazio

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Per fortunaai tempi

dei Pink Floydnon c’eraX Factor

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GINO CASTALDO

EPENSARE CHE LA STORIA DI THE WALL, la più colossale e

ambiziosa delle opere rock, nacque da uno sputo che

Roger Waters indirizzò a un fan troppo esuberante.

Quello che allora era l’incontrastato leader dei Pink

Floyd lo visse come uno shock: cosa poteva averlo

spinto a un gesto così riprovevole? La risposta, nel tempo,

sarebbe stata appunto The Wall, il simbolo di tutti i muri, quelli

della mente, quelli che ci isolano dai nostri simili, quelli della

repressione scolastica, quelli della geopolitica che dividono

popoli e nazioni, la magistrale messa in scena che Waters in

questi anni ha ripreso, senza gli ex compagni d’avventura, e

portato in giro per il mondo in un allestimento ancora più

faraonico e gigantesco di quello originale del 1980.

Quell’episodio ci dice molto della personalità di Waters, il suo

temperamento ideologico, il disprezzo per un certo tipo di

divismo superficiale e invasivo, la sofferenza per un mondo che

invece di guarire esaspera le diseguaglianze. Anche la sua

leadership all’interno della band la visse con un certo tormento,

anche perché cresciuta all’ombra del mito di Syd Barrett, il

primo genio visionario che aveva letteralmente inventato la

visione dei Pink Floyd e poi si era perso nei suoi labirinti

psichedelici. La sognò come un incubo e la rappresentò

addirittura in una canzone, Cymbaline, anche se a cantarla era

David Gilmour, che sarebbe diventato, dopo un feroce

procedimento legale, il terzo dei leader dei Pink Floyd.

Eppure non c’è dubbio che tra conflitti, litigi, machiavelliche

progettazioni, il ruolo di Waters sia stato determinante. Fu lui a

spingere la band a voler raggiungere le più alte vette

dell’ambizione, ad affrontare, per quello che era possibile fare

in un disco, i grandi temi dell’esistenza: il tempo, il denaro, la

nascita, la pazzia, la morte, come fece in The Dark Side of the

Moon, poi la tragedia psicologica di Barrett raccontata in Shine

On You Crazy Diamond, il più struggente omaggio a

quell’incrocio perverso tra creatività e follia che è al centro di

molte delle pagine più emozionanti della storia dell’arte.

Fu lui, infine, quando le tensioni all’interno dei Pink Floyd erano

arrivate al massimo e livello, a spingere per un altro e definitivo

progetto, The Wall, l’opera tra i cui molti significati si poteva

leggere anche il muro che inesorabilmente stava spezzando

l’unione dei quattro componenti della band. Di certo Roger

Waters è uno che pensa in grande, che insegue con tenacia e

determinazione le sue ossessioni e le mette in scena, convinto

che le sue ossessioni possano essere condivise da un pubblico

molto grande. E va detto che i fatti gli hanno dato ragione

considerando la potenza ancora oggi intatta della leggenda che

il gruppo inglese ha costruito. Grazie a lui i Pink Floyd hanno

radicato nell’immaginario del popolo della musica la più

singolare commistione tra intimità e grandiosità. Anzi, sono

stati loro, e nessun altro come loro, a lasciarci credere che la più

riservata delle pulsioni interiori potesse diventare una

rappresentazione gigantesca, un’esaltante condivisione

collettiva. Nei loro dischi più belli c’è sempre qualcosa di

sublime e profondo, come se avessero catturato attraverso la

liquida e sognante qualità dei loro suono, quella indeterminata

zona che fa da raccordo tra la nostra razionalità e l’inconscio. Di

tutto questo Waters rimane il tormentato pifferaio, l’araldo di

una malinconia planetaria che canta il suo blues dedicato alla

mancanza di empatia tra gli esseri umani. E questo, al fondo di

tutto, rimane il tema dominante della sua vita.

Il pifferaio magicoche trasformòle sue ossessioniin un’opera rock

ADESSO È TUTTAROBA TIPO TALENT,PRENDONO

UN RAGAZZINOE LO SCARAVENTANOIN UN CIRCUITO INFERNALESENZA DARGLI IL TEMPOPER MATURARE. IN QUESTOMODO È DEL TUTTONATURALE CHENON NASCANO PIÙGRANDI ROCK BAND

BLAIR NON L’HO MAISOPPORTATO. OBAMAMI PIACE. MA ANCHE

LUI COZZA CONTROUN MURO. SI È RESO CONTODI NON POTER FAR MOLTO.FORSE ANCHE PER QUESTOOGGI MI SENTOPIÙ GARANTITODALLA DEMOCRAZIAEUROPEA CHE DAQUELLA AMERICANA

PASSANDO DAVANTIA BATTERSEA PARKNON MI SONO

NEANCHE RICORDATODI GUARDARLA. STAVOLEGGENDO UN LIBRO.UN’ALTRA EREDITÀDEGLI ANNI SESSANTA:L’ERA IN CUI SI AMAVANOI LIBRI E NON SOLOQUELLO CHEARRIVA DAL WEB

LA BAND

I PINK FLOYD (SENZA SYD BARRETT).DALL’ALTO, NEL 1970: DAVID GILMOUR,NICK MASON, ROGER WATERS E RICKWRIGHT; NEL 1967 (WATERS È IL PRIMOA SINISTRA); NEL 1973 (ILTERZO A DESTRA)

IL FILM, LA MOSTRA E LA LEZIONE

IN CONTEMPORANEA MONDIALEIL 29 SETTEMBRE 2015, E, SOLO PER L’ITALIAANCHE IL 30 SETTEMBRE E IL PRIMOOTTOBRE, VERRÀ PROIETTATO NELLE SALEIL FILM “ROGER WATERS - THE WALL”.LE PREVENDITE ONLINE SARANNO APERTEDAL 19 GIUGNO. INOLTRE DA IERIAL MUSEO PAN DI NAPOLI E NEI PROSSIMIGIORNI A POMPEI SONO IN MOSTRATRENTA SCATTI INEDITI REALIZZATIDURANTE IL MITICO CONCERTO“PINK FLOYD AT POMPEI”. INFINE,SU REPUBBLICA.IT, LA “LEZIONE DI ROCK”TENUTA DA ERNESTO ASSANTEE GINO CASTALDO NEI GIORNI SCORSIALLA “REPUBBLICA DELLE IDEE” A GENOVAE DEDICATA AI PINK FLOYD

per il dono che avete fatto al mondo».È caduto il muro di Berlino, da quando leiha scritto The Wall. Ma quanti muri an-cora dividono il mondo?«Tanti. Il muro tra il nord e il sud del pia-

neta. Tra i ricchi e i poveri. Tra chi persegui-ta e chi soffre. E anche tra chi ha le chiavi delprogresso, dell’informazione, e chi è con-dannato a vivere nell’ignoranza, nel buio.Non so come o quando li abbatteremo, ma al-meno proviamoci, anche solo con una can-zone se necessario».

La musica ha provato a lungo ad abbatte-re il muro della fame in Africa, nel TerzoMondo, dal Live Aid al Live 8: ci è riuscita?Servono a qualcosa questi concerti di be-neficenza, ad alcuni dei quali ha parteci-pato lei stesso?«Una volta ho detto che, come minimo,

male non fanno. Oggi dico di più: se ancheservissero solo a dare a Bob Geldof un palco-scenico da cui denunciare le ingiustizie com-messe dall’Occidente, la dittatura del Mer-cato, la diseguaglianza fra chi ha tutto e chiniente, varrebbe la pena averli fatti. L’hocantato anch’io in una canzone: ci sono mon-tagne di burro, e troppi bambini che nonhanno niente da mangiare».

Qualche giorno fa un famoso promoterin-glese ha detto che per i grandi concertirock è iniziato il declino, per il semplicefatto che non ci sono più grandi rock band.È d’accordo?«Io ho avuto la fortuna di essere giovane

negli anni Sessanta-Settanta, quando quat-tro ragazzi potevano formare una band eavere il tempo e le opportunità per crescere,sviluppare un proprio pubblico, migliorarela qualità musicale. Adesso è tutto come queireality show tipo X Factor o America’s GotTalent. Non c’è più alcuna sostanza. Prendo-no un ragazzino e lo scaraventano nel circui-to senza dargli né il tempo né le occasioni permaturare. In questo modo è naturale non na-scano più grandi rock band».

E lei? C’è ancora qualche grande concertonel suo futuro?«Sono a metà di un nuovo album. Quando

sarà pronto, fra un anno, un anno e mezzo,sì, mi piacerebbe portarlo in tour. Ai mieiconcerti mi diverto ancora».

Lei è stato a lungo un sostenitore del par-tito laburista, un militante della sinistra.Ci crede ancora, nella sinistra britannicae europea?«Dopo la Thatcher e Reagan, la sinistra ha

rinunciato a essere una vera sinistra. Perso-nalmente trovavo Tony Blair insopportabi-le. Come se il socialismo, per vincere, doves-se diventare timido e moderato. E però ledirò una cosa: con tutti i suoi limiti, oggi pre-ferisco il liberalismo occidentale alle sue pre-sunte alternative. Almeno difende ancora ivalori della Magna Charta, lo stato di diritto,i diritti umani. E comunque mi sento più ga-rantito dalla democrazia europea che daquella americana».

Obama non le piace?«Obama mi piace. È sicuramente un uomo

molto intelligente e si è sinceramente bat-tuto per migliorare le cose. Ma cozza controun muro, anche lì, un altro, e si è reso contodi non poter far molto».

Le ha dato più soddisfazioni, per passarea un argomento più leggero, la vittoriadell’Arsenal nella Coppa d’Inghilterra?«Naturalmente sì, sono ancora un grande

tifoso dell’Arsenal, anche se da quando abi-to a New York vedo le partite in tivù e non piùallo stadio».

Perché preferisceNew York a Londra?«Perché New York ha

quattro stagioni. Suonaassurdo detto da un in-glese, vero? Non sop-portavo più il clima lon-dinese».

Posso chiederle, perconcludere, da dovele è venuta l’ispira-zione per scriverecanzoni che sono di-ventate la colonna so-nora della nostra ge-nerazione? Penso aWish You Were Here,a TheDark Side of theMoon? Lei è uno deipiù grandi autori dirock del nostro tem-po: da dove le arriva-no la musica e le paro-le?«Potrei darle la rispo-

sta convenzionale, che èparzialmente vera: misiedo al pianoforte, op-pure prendo la chitarra,inizio a giocare con le no-te, tengo un taccuino aportata di mano, e poiquando trovo il versogiusto mi chiudo nel miostudio e ci lavoro sopra.Ma la risposta più vera èquesta: quando unadonna resta incinta, manon ha ancora i sintomi,lo sa già? C’è qualcosache le dice che dentro dilei c’è un bambino? Pa-role e musica arrivanonello stesso modo, mi-sterioso, indecifrabile,magico. Davvero nonsaprei dire né come, né perché».

E un’ultima cosa, semplice curiosità: sedovesse capitarle di passare davanti allacentrale di Battersea, quella che appari-va sulla copertina del vostro album Ani-malse che adesso stanno trasformando inun grande complesso di appartamenti eshopping-center, cosa pensa che potreb-be provare? Quel luogo ha ancora un va-lore per lei?«Ce l’ha. Però le confesso che ci sono pas-

sato davanti proprio da poco, ero in treno, enon mi sono neanche ricordato di guardarla.Perché? Perché stavo leggendo un libro e illibro mi prendeva così tanto da farmi di-menticare tutto il resto. È un’altra fortunache abbiamo ereditato dagli anni Sessanta-Settanta, l’epoca in cui si amavano i libri enon solo quello che passa internet».

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SU RTV-LA EFFE

DOMANISU REPTV NEWS(ORE 19.45,CANALE 50DEL DIGITALEE 139 DI SKY)VIDEOINTERVISTAA ROGER WATERS

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la RepubblicaDOMENICA 7 GIUGNO 2015 34LA DOMENICA

Siriano e francese, Riad Sattouf racconta

in un graphic novel di grande successo

la vita tra due culture. “Sentirmi fuori posto

mi ha fatto capire chi sono: un disegnatore”

FABIO GAMBARO

PARIGIRAVISSIMO, ACUTO, SPIAZZANTE. Considerato oggi uno dei protago-nisti del mondo internazionale del fumetto, Riad Sattouf, padresiriano e madre francese, ha trascorso i primi anni della sua vitain Medio Oriente. Li ha raccontati in un graphic novel di gran-dissimo successo, L’arabo del futuro, il cui primo volume arrivaora nelle librerie italiane mentre in Francia sta uscendo il se-condo dei quattro previsti. Trentasette anni, parigino, fresco dipremio al Festival d’Angoulême, Sattouf — che è anche il regi-sta di due film molto divertenti, Les beaux gosses e Jacky auroyaume des filles — è persona affabile e autoironica. Nei localidel suo editore parigino, tra caffè e ca-ramelle alla menta, ci parla della ge-

nesi di questo libro molto personale, in cui ha raccontato la sua in-fanzia accanto a un padre ossessionato dal panarabismo e che lo haeducato nel culto di Gheddafi e di Hafiz al-Assad. «Era da parecchiotempo che pensavo di raccontare la mia esperienza in Libia e in Si-ria, paesi in cui non sono mai più tornato». Ma ha cominciato a far-lo solo con lo scoppio della guerra civile in Siria. «Alcuni membridella mia famiglia vivevano ancora a Homs. Per salvarli, ho decisodi aiutarli a rifugiarsi a Parigi. Ma se farli uscire dalla Siria in guer-ra è stato facilissimo, farli entrare in Francia è stato infinitamente più difficile. La burocra-zia ha fatto di tutto per non accoglierli. Negli uffici della prefettura ho scoperto che il paese-dei-diritti-dell’uomo non è un paese accogliente per chi ha bisogno di aiuto. Così ho deciso diraccontare tutto, ma per farlo avevo bisogno di partire dall’inizio, dalla mia famiglia franco-siriana e dalla mia infanzia in Medio Oriente».

Quali sono stati i modelli a cui si è ispirato?«Naturalmente ho letto i fondamentali, Art Spiegelman, Marjane Satrapi, David B.,

BL’arabo

PARIGI. COME CLEMENTINE E ABDEL SI CONOBBERO ALL’UNIVERSITÀ TRIPOLI. COME E PERCHÉ IL PAPÀ DI RIAD DECICE DI ANDARE IN LIBIA CON LA FAMIGLIA

L’attualità. Oriente-Occidente

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la RepubblicaDOMENICA 7 GIUGNO 2015 35

Hergé, ma a influenzarmi di più è stato Jean-Christophe Menu. Da lui ho imparato so-prattutto la necessità dell’ironia e dell’au-toironia. Certo, non è facile fare dell’ironia supersonaggi come Assad o Gheddafi. Però èvero che nei dittatori arabi c’è spesso unacomponente machista a renderli grotteschi.Pensi a Gheddafi, con quei suoi vestiti ridi-coli e la guardia del corpo tutta femminile».

Cosa pensa di quanto sta accadendo in Li-bia e in Siria?«Come tutti, sono sconvolto di fronte al-

l’orrore. Ma il fatto di aver vissuto molti an-ni fa in quei paesi non mi conferisce alcun sa-pere supplementare utile all’analisi politica.La Libia e la Siria che ho conosciuto appar-tengono a un’altra epoca. Erano dittaturesenza libertà, ma in Europa nessuno sem-brava farci caso. In nome della realpolitik,tutti chiudevano gli occhi di fronte al non ri-spetto dei diritti dell’uomo».

Vivere tra due culture, due lingue, duemondi è stato difficile?«Avevo l’impressione di essere sempre

fuori posto. In Francia ero un arabo, in Siriaun diavolo biondo (da piccolo ero biondissi-mo). Insomma, non riuscivo mai a sentirmiparte della comunità in cui vivevo, venivosempre respinto più o meno apertamente.Sentirmi diverso è stata la condizione di tut-

lo. Così scaricano le colpe sull’immigrazionee dunque sui musulmani».

È possibile leggere L’arabo del futuro co-me un libro sulla fine degli ideali?«Forse sì. L’arabo del futuro sognato da

mio padre — il nuovo cittadino arabo colto eindipendente — è un ideale che non si è rea-lizzato. Forse è per questo che diffido di tut-ti gli ideali di salvezza e cambiamento, mo-tivo per cui non sono mai stato tentato dalla

militanza politica. Dopo aver vissuto in Siria,mi sento vaccinato contro qualsiasi tenta-zione idealistica».

Essere senza ideali non significa però di-sinteressarsi della società in cui si vive...«Naturalmente no. Considero fondamen-

tale la battaglia per l’uguaglianza tra uomi-ni e donne, soprattutto nel mondo arabo. Lesocietà egualitarie sono più ricche e libere,mentre le società che discriminano le donnerestano arretrate. Ma attenzione, non credoche questo sia un problema specifico dellareligione islamica, piuttosto il risultato diuna tradizione patriarcale molto più anticadell’Islam. Quindi anche nel mondo islami-co la situazione alla fine evolverà, come stagià accadendo in Tunisia e anche in Turchia,sebbene non manchino le forze conservatri-ci. Anche in Francia la parità tra uomini edonne è una conquista recente, frutto di unlungo processo».

Quindi è ottimista sul divenire del mondoarabo?«Sono convinto che il mondo arabo evol-

verà verso più democrazia, più libertà e piùeguaglianza. Aldilà delle violenze e delle in-voluzioni oggi sotto i nostri occhi, il processomi sembra inevitabile. Se vogliono soprav-vivere, le società arabe dovranno muoversiin questa direzione».

Lei ha collaborato per diversi anni a Char-lie Hebdo.«Pubblicavo una striscia settimanale inti-

tolata La vita segreta dei giovani, l’avevo in-terrotta sei mesi prima della tragedia. Nonandavo mai alle riunioni di redazione e ades-so me ne pento perché non potrò più incon-trare quelle persone straordinarie. Davantiall’orrore di quella violenza sono rimastosenza parole. Lo sono tuttora. Mi sento inca-pace di una qualunque analisi politica. Sonoancora troppo sconvolto».

Si è molto discusso sugli eventuali limitidella satira. Lei cosa ne pensa?«Posso solo dire che in Francia esiste la li-

bertà d’espressione, che quindi va esercita-ta e difesa. Mentre il reato di blasfemia è sta-to abolito molti anni fa. Per me valgono leleggi, e le leggi vanno rispettate anche quan-do non ci piacciono. Poi, naturalmente, inuna democrazia le leggi possono essere cam-biate con il voto della maggioranza. Tutta-via, mi sembra che spesso si alimentino falsiproblemi per distogliere l’attenzione dell’o-pinione pubblica dalle questioni cruciali. Og-gi si agita il dibattito sui presunti eccessi diCharlie Hebdo e nel frattempo non ci preoc-cupa il cinismo della realpolitik che fa affaricon le dittature».

ta la mia giovinezza. Ho imparato così a nonpreoccuparmi delle origini e a rifiutare ogninazionalismo. Oggi non mi sento né france-se né siriano, sono solo un autore di fumetti.La mia identità nasce nel disegno. Vivo benecon le mie due origini, anche se so bene chenella società francese la presenza degli stra-nieri e dell’Islam diventa ogni giorno più pro-blematica. La Francia sta perdendo la sua su-perbia, e i francesi fanno fatica ad accettar-

ALCUNI NOSTRI PARENTI ABITANOANCORA A HOMS. PER SALVARLI,APPENA SCOPPIATA LA GUERRA, HOCERCATO DI FARLI VENIRE A PARIGIUSCIRE È STATO FACILISSIMO, FARLIENTRARE NELLA PATRIA DEI DIRITTIDELL’UOMO MOLTOMENO

© RIPRODUZIONE RISERVATA

IL LIBRO

IL GRAPHIC NOVEL DI RIAD SATTOUF, “L’ARABODEL FUTURO. UNA GIOVINEZZA IN MEDIO ORIENTE1978-1984”, (RIZZOLI LIZARD, 160 PAGINE, 16 EURO,TRADUZIONE DI ELISABETTA TRAMACERE,VOLUME PRIMO) È IN LIBRERIA DA GIOVEDÌED È DISPONIBILE ANCHE IN EBOOK A 9,99 EURO.IN FRANCIA, DOVE STA PER USCIRE IL SECONDO VOLUME,HA VENDUTO DUECENTOMILA COPIE ED È STATOPREMIATO AL FESTIVAL DEL FUMETTO DI ANGOULÊME

TER MAALEH. IN SIRIA RIAD GIOCA A SOLDATINI CON I CUGINETTI. LUI FA “L’EBREO” PARIGI. IN AEROPORTO NUOVI PICCOLI SHOCK CULTURALI ATTENDONO IL GIOVANE RIAD

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la RepubblicaDOMENICA 7 GIUGNO 2015 36LA DOMENICA

STEFANO MALATESTA

COME NAPOLEONE È STATO il soggetto sucui si è più scritto dopo Gesù Cristo, co-sì la battaglia di Waterloo è stata lapiù studiata di tutte le battaglie, an-tiche e moderne. Tutti questi contri-buti, francamente in eccesso, nonhanno aiutato a far chiarezza masemmai a rendere le modalità delloscontro più oscure. Le tesi su come andò veramente sulcampo di Waterloo sono innumere-voli e tutte in contrasto tra loro. C’è la

versione trash per i giornali popolari: Napoleone era in cattive con-dizioni perché sofferente di emorroidi, una tesi buona per Il Verna-colieredi Livorno ma ovviamente non per una ricostruzione storica.La maggior parte degli autori è comunque convinta che Napoleonenon fosse più lui, fisicamente e intellettualmente. Aveva messo supancia, i capelli — seppure pettinati alla Bonaparte — non gli copri-vano più il cranio ed erano ridotti a un ricciolino sulla fronte. Ma que-sto non prova che il Generale avesse perso le sue doti di tattico e di

stratega, le stesse che gli avevano fatto vincere fino ad allora qual-cosa come settanta battaglie.

La marcia che lo portò a Waterloo era riuscita perfettamente ed èstata una delle più veloci, se non la più veloce, mai compiuta dai sol-dati francesi. La rapidità degli spostamenti delle sue truppe era sem-pre stata la base delle sue vittorie: Napoleone non è stato l’invento-re della guerra totale, è stato semplicemente il primo esecutore equello che l’ha sfruttata al meglio delle sue possibilità, talmente gliera congeniale. Una cultura della guerra ereditata dai classici greci,che combattevano totalmente e in modo spietato facendo pochi pri-gionieri. Una volta, prima del periodo moderno, le battaglie faceva-no parte della vita quotidiana, come il raffreddore o le tasse. Ogni co-munità ne combatteva un’altra e si aspettava di essere combattuta.Gli scontri avvenivano secondo rituali prestabiliti. Spesso i coman-danti non erano dei veri comandanti, ma dei dandy in trasferta mi-litare: il duca di Cumberland si lasciava dietro dei cannoni per far po-

sto alle centoquarantacinque tonnellate di bagaglio indispensabilial suo ménage; il principe di Soubise, il comandante della spedizio-ne franco-austriaca contro Federico II, travolto da una famosa cari-ca della cavalleria prussiana guidata da von Seydlitz, si trovava me-glio a Versailles a ciaccolare ininterrottamente con la Pompadour,la sua protettrice, che sul campo di battaglia. O che dire del duca diRichelieu, che era celebre per la forte scia di profumo che lasciavaovunque andasse.

Comunque. Un’altra versione sostiene che la pioggia caduta inmaniera anomala nella settimana prima di Waterloo avrebbe im-pedito all’artiglieria di avanzare nel terreno diventato una paludefangosa e di appoggiare la famosa carica della cavalleria pesante gui-data dal maresciallo Ney. Napoleone era stato un eccellente ufficia-le di artiglieria e aveva dato prova, durante l’assedio di Tolone, del-la sua capacità straordinaria di maneggiare cannoni che si trasci-nava sempre con sé a costo di durissime fatiche. Tutti i suoi piani dibattaglia erano studiati in funzione delle armi pesanti. La chiave del-le sue vittorie stava nel far convergere l’artiglieria in un punto pre-ciso. Trattava gli eserciti nemici come una cittadella, da abbatterein breccia. Sfondare i quadrati, polverizzare i reggimenti, romperele linee, tritare e disperdere le masse: tutto questo era a carico delcannone.

Un racconto accuratissimo della battaglia venne scritto ventidueanni più tardi da Victor Hugo nella parte seconda del primo libro deLes Miserables. Per orientarsi lo scrittore era andato sul posto, visi-tando tutti i luoghi ormai entrati nel mito come le colline di SaintJean e il castello di Hougoumont. E proprio da Hougoumont parte ilsuo grande affresco del feroce scontro: “...A fianco della cappellaun’ala del castello, il solo avanzo che rimanga del maniero di Hou-goumont, si staglia distrutta, si potrebbe dire sventrata. Il castelloservì da torrione, la cappella da fortezza. Vi si fece uno sterminio. (...).La spirale delle scale, screpolate dal pianterreno al soffitto, apparecome l’interno di una conchiglia spezzata. Tutto il resto somiglia auna mascella sdentata. Vi sono due vecchi alberi: uno è morto, l’al-tro è ferito al piede, e rinverdisce in aprile. Dopo il 1815 si è messo agermogliare...”.

Secondo Hugo, il piano di battaglia dell’imperatore, per ricono-scimento unanime, era un capolavoro: i francesi dovevano andareverso il centro della linea alleata il più rapidamente possibile, sfon-darla, tagliarla in due, spingere le truppe britanniche su Alle e quel-le prussiane su Tengres, superare le colline di Saint Jean, dove eraattestato Wellington, gettarlo in mare, gettare nel Reno Blucker earrivare a Bruxelles. Alle quattro del pomeriggio, la situazione del-l’armata inglese si era fatta preoccupante. Wellington non aveva piùHougoumont, conquistato dalla fanteria francese, come copertura

Come andòdavvero

a Waterloo

La storia. A la guerre

Repubblica Nazionale 2015-06-07

la RepubblicaDOMENICA 7 GIUGNO 2015 37

difensiva. Un suo subalterno gli chiese: «My lord, che cosa dobbiamofare?» e Wellington seccato dalla domanda rispose urlando a pienagola come non aveva mai fatto «Dobbiamo resistere!». Se Napoleo-ne fosse riuscito a portare anche solo una parte dei suoi duecento can-noni, in modo da mettere sotto tiro le colline di Saint Jean, allora lacarica della cavalleria sarebbe stata molto facilitata. Ma ogni batta-glia ha una sua sorte e quella di Waterloo è stata molto differente daAusterlitz, dove all’inizio Napoleone era costretto a muoversi allacieca per la nebbia che invadeva tutto il campo di battaglia. Poi lanebbia venne sgomberata dal sole e allora l’imperatore, avendo da-vanti a sé una chiara prospettiva di vallate e di colline, poté mano-vrare a suo piacimento, e le truppe francesi si mossero con l’elegan-za di una parata. A Waterloo, dove aveva piovuto per tutta la setti-mana precedente, il terreno non fece in tempo ad asciugarsi e il ten-tativo di trascinare i cannoni più avanti finì nel fango.

A quella stessa ora, dicevamo, nel campo francese tutti sembra-vano tranquilli e certi della vittoria, o almeno così volevano far ve-dere. Napoleone era di ottimo umore, aveva scherzato con la truppae con i marescialli. Durante la colazione, alle otto, erano stati invita-ti parecchi generali. Mangiando, avevano raccontato che alla vigiliaWellington era stato visto a Bruxelles, al ballo della duchessa di So-merset. E Soult, rozzo soldato con la faccia da arcivescovo, aveva

commentato: «È oggi che si balla sul serio». Il primo pomeriggio, pas-sò in rassegna la cavalleria: erano tremilacinquecento uomini, rap-presentavano un fronte di un quarto di lega. Erano ventisei squa-droni, appoggiati da centosei gendarmi scelti, millecentonovanta-sette cacciatori e lancieri della Guardia, portavano l’elmo senza cri-niera e la corazza in ferro battuto, le pistole di arcione nelle custodiee la lunga sciabola a spada. Durante la rivista, la banda suonò: Veil-lons au salut de l’Empire. Gli ussari avevano i dolmans e gli stivalirossi a mille pieghe, i soldati della Garde portavano i loro colbacs afiamma, o sable taches fluttuanti. All’estrema sinistra c’erano i co-razzieri di Kellermann e all’estrema destra i corazzieri di Milaud.

Napoleone guardava al binocolo i movimenti dei quadrati dellegiubbe rosse. Quando si accorse che gli inglesi stavano indietreg-giando, si sentì più sicuro e diede il via alla più grande carica di ca-valleria mai registrata nelle storie militari.

Hugo racconta che “prima di salire per l’ultima erta, la cavalleriasi trovò davanti un burrone più che una fossa, inaspettato e profon-do, aperto a picco. I cavalli si impennarono, si gettavano indietro, ca-devano sulla groppa agitando le quattro zampe in aria, pestando erovesciando i cavalieri. Non c’era più modo di indietreggiare perchéla colonna era diventata un proiettile e la forza acquistata per schiac-ciare gli inglesi, schiacciò invece i francesi. Nel burrone inesorabil-mente, cavalieri e cavalli ruzzolarono dentro, triturandosi gli uni

con gli altri, formando una carne sola in quel baratro. Si dice che due-mila cavalli e millecinquecento uomini furono sepolti in quell’orridoluogo”. I superstiti continuarono la loro carica, raggiunta la collinadi Saint Jean sempre al galoppo “ventre a terra, briglie sciolte, scia-bole tra i denti, pistole in pugno, attaccarono i quadrati delle giubberosse. Non fu più una mischia, fu una furia, un vertiginoso impeto dianime e di corazze, un uragano di spade scintillanti. In un istante, imillequattrocento dragoni e guardie si ridussero a ottocento. Ci fu-rono dodici assalti, Ney ebbe quattro cavalli uccisi sotto di lui. Lametà dei corazzieri rimase sul poggio. Questa lotta durò due ore. Lacarica era fallita”.

La catastrofe raccontata in maniera splendida da Hugo è all’al-tezza della sua fama romanzesca, ma è una balla colossale. Non fini-rono in nessun burrone i cavalieri francesi, semplicemente furonorespinti dai quadrati delle giubbe rosse, che sembravano dei porco-spini che sputavano fuoco, con tutte le baionette innescate dai sol-dati inginocchiati nella prima fila e i fucilieri in piedi che sparavanoa colpo sicuro. Le cariche non furono dodici ma cinque e sul campo dibattaglia. E su tutti dominava la figura di Wellington, che Napoleo-ne non considerava un grande generale: in mattinata aveva dettoche gli avrebbe dato la lezione che si meritava. Ma ora la lezione lastava prendendo lui. Verso sera quando le sorti della battaglia era-

no ormai segnate, Napoleone fece un ultimo gesto, accompagnan-do l’estremo attacco della guardia imperiale per qualche centinaiadi metri. La Garde scomparve nelle alture per qualche decina di mi-nuti e nel campo francese qualcuno ancora sperava nel miracolo. In-vece si sentì un urlo mai udito prima in tutte le battaglie napoleoni-che: «La garde recule!».

Quando venne la notte solo un quadrato francese resisteva. A ognicarica gli uomini del quadrato diminuivano, ma quelli che rimane-vano continuavano a combattere, riuscivano sempre a risponderecon la mitraglia. Tutta l’armata inglese aveva circondato il quadra-to. Un generale, secondo alcuni Colville, secondo altri Maitland,gridò loro: «Prodi francesi, arrendetevi!». Cambronne rispose conuna parola sola, diventata la più celebre di tutta la storia militarefrancese. Hugo sostiene che questa parola era censurata e che fu luiil primo a scriverla in originale. La parola era: «Merde!».

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Duecento anni fa, il 18 giugno 1815, nella campagna belga

andava in scena la più studiata e raccontata delle battaglie,

costata la vita a cinquantamila uomini e l’esilio a Napoleone

Appassionato del genere, uno scrittore ha rievocato per noi

quella giornata. Facendo le pulci a un certo suo collega

Non senza averne ricordato almeno un merito

I SOLDATINI

PER IL NATALEDI CINQUANT’ANNIFA “LINUS” FECEUN REGALOAI PROPRI LETTORI:UNA GRANDEMAPPADELLA BATTAGLIADI WATERLOODISEGNATA,INSIEME A OLTRECENTO SOLDATINIDI CARTA,DA GUIDO CREPAX.ALCUNIDI QUEI MITICISOLDATI,PER GENTILECONCESSIONEDI ANTONIOCREPAX,ILLUSTRANOOGGI QUESTEPAGINE:NELLAFASCIAIN ALTO(IN BLU)L’ESERCITOFRANCESECON ALLA TESTANAPOLEONEBONAPARTE.IN QUELLAIN BASSO (IN ROSSO)GLI INGLESIGUIDATIDAL DUCADI WELLINGTON

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Repubblica Nazionale 2015-06-07

la RepubblicaDOMENICA 7 GIUGNO 2015 38LA DOMENICA

Spettacoli. American Idol

DON COBAIN IL PAPÀ

A BAMBINO ERA SEMPRE sudi giri, andava a centoall’ora. Immagino fossel’effetto del Ritalin, an-che se non ricordo esat-tamente cosa prendes-se all’epoca. Recitava incontinuazione. È perquesto che era sempreincazzato. Non riusciva

a controllarsi. Non era capace di esprimersi. Ab-biamo cercato di fare del nostro meglio, ma lui ave-va un talento straordinario e quella vena di folliatipica di molti geni. Era più avanti degli altri e se-guiva la sua strada. Le persone con molto talentodi solito hanno problemi. Quando cominciò a fu-mare marijuana e assumere altre sostanze, io pro-babilmente non me ne accorsi, oppure fu Jenniferche non me lo disse. Non ci pensavo nemmeno, nonl’avevo mai visto alterato. Sapevo che si stava met-tendo nei guai, non era dove avrebbe dovuto esse-re, non faceva quello che avrebbe dovuto fare, manon immaginavo che ci fosse di mezzo la droga.

Non ho mai capito il suo gesto. Aveva il mondoin pugno e ha rinunciato a tutto.

WENDY O’CONNORLA MAMMA

Un giorno sono salita in camera sua per portar-gli i vestiti lavati e stirati e ho sentito qualcosascricchiolare sotto il tappeto. Ho vissuto gli annidella rivoluzione hippie, non sono una stupida.L’ho sollevato e ho scoperto che aveva tagliatoun’asse del pavimento per nasconderci sotto la pi-pa e la marijuana. Gettai tutto nell’immondizia enon dissi nulla. Anche lui non disse nulla, ma peruna settimana si comportò in modo molto stranocon me. Un giorno mi chiamò in ufficio per chie-dermi: «Come si fa a sapere quando gli spaghettisono cotti?» e io gli avevo risposto: «Lanciane unocontro il muro, se resta attaccato è pronto». Quan-do rientrai, dal soffitto pendeva un’intera confe-zione di spaghetti! All’inizio rimasi allibita e fui lìlì per arrabbiarmi, poi scoppiai a ridere, pensandoa quant’era divertente. Li lasciammo dov’erano,avrebbero dato un tocco personale alla cucina.

Dedicava ore e ore alla scrittura, oltre che a di-pingere e a disegnare. Sapevo quando suonavaperché lo sentivo dal piano di sotto. Guardava spes-so Mtv per vedere le novità. Gli piacevano molto ivideoclip. Gli davano nuovi spunti. Una volta midisse: «Un giorno sarò anch’io su Mtv”». Non lo pre-si sul serio.

Non sapevo che avesse provato l’eroina. Quan-do scoprii che aveva cominciato a farsi ad Aber-

deen, rimasi molto sorpresa. Penso l’abbia prova-ta per i suoi problemi di stomaco. Era intolleranteal lattosio e mangiava gelati a tutto spiano. Credol’abbia usata per combattere i dolori. All’epoca erauna delle droghe più facilmente reperibili e lui havoluto provarla. E l’effetto è stato euforico, non siera mai sentito così bene in vita sua.

Una domenica mattina, io sono in bagno. Luibussa piano alla porta e dice: «Mamma?». «Sì?», ri-spondo io. «Ho un nastro». Apro la porta e me lo tro-vo davanti con quel nastro in mano. «Che cos’è?»,gli chiedo. «È il master del mio nuovo album», falui. «Posso metterlo su?». «Sì, e sparalo forte».Ascolto sempre la musica a volume molto alto. Co-sì continuo a truccarmi e poi a un tratto esclamo:«Porca troia!». Mi precipito fuori dal bagno e mi sie-do sul bordo del divano con un sorriso compiaciu-to come quello di un gatto che ha appena mangia-to il canarino. «Oh, mio Dio! Oh, mio Dio!» urlo, fis-sandolo negli occhi e picchiettando con un dito sul-la sua spalla. «Lo sai cos’hai fatto?», e lui risponde:«Lo dici soltanto perché sei mia madre». Io per po-co non scoppio a piangere. Non per la gioia, ma perla paura. «Questo disco cambierà tutto nella mu-sica», dico. «Faresti meglio ad allacciare la cintura,non sei pronto per quello che succederà».

Nel 1991 ricevetti una telefonata da Kurt. Eraappena rientrato da Londra. «Ehi, mamma, sonoKurt». Diceva sempre così. Era divertente. «Devodirti una cosa». «Cosa?». «Sto per sposarmi!», urlalui. «La conosco?», gli chiedo. «No», risponde lui.«Che tipo è?», domando. «Pazza», risponde Kurt.«Davvero? Più pazza di me?». «Oh, sì», dice lui. Poimi parla un po’ di lei e ho subito l’impressione chequella ragazza mi passerà sopra come un rullocompressore.

Courtney mi telefonava in piena notte: «Kurt èandato in overdose». E poi: «Adesso sta bene». Eraorribile. E sapendo che aspettava un figlio, mi sispezzava il cuore. Ogni settimana stava peggio. Avolte veniva a casa mia. Per nascondersi, forse. Sta-va davvero male. Aveva la pelle coperta di piaghe,era dimagrito e faceva ciondolare la testa. Ero si-cura che sapesse che l’avevo capito, ma per la pri-ma volta decisi di affrontare direttamente l’argo-mento. Salii in camera sua, mi sedetti sul bordo delletto e gli chiesi se l’eroina era diventata una di-pendenza. Lui scoppiò in lacrime. Si vergognava.

Quando ho visto l’ultima cosa che ha fatto nel1993, mi si è spezzato il cuore. Era a Seattle, ave-vano suonato lì perché era troppo conciato per spo-starsi. Non riesco a credere che l’abbiano lasciatocontinuare in quello stato. È la cosa più orribile cheabbia mai visto, era fuori di sé, dovevano farloscendere dal palco. Ho dovuto spegnere il televi-sore. Non riuscivo a guardarlo. E poi, quattro mesidopo, è morto. È questa l’industria della musica.

JENNY COBAINLA MATRIGNA

Kurt cambiò negli anni dell’adolescenza. Dice-va che a scuola lo picchiavano e se la prendevanocon lui perché era piccolo, eppure io e i suoi amicinon ci accorgevamo di nulla. Infatti venne fuoriche si inventava tutto e che in realtà il bullo era lui.Scoprire queste dinamiche mi fece aprire gli occhi.Quando venne a vivere da noi, Kurt picchiava miofiglio, lo prendeva a calci nell’inguine, ma lui nondiceva mai niente. Quando lo scoprii, ero fuori dime per la rabbia. Era tutto coperto di ematomi. Michiesi cosa c’era in lui che non andava.

Era molto sensibile alle critiche. Si sentiva comese gli altri ce l’avessero con lui e si teneva quasisempre tutto dentro. Non si arrabbiava mai sul se-rio, non l’ho mai visto esplodere. Assorbiva tutto,ci rimuginava sopra e a volte ne riparlava a di-stanza di tempo. La sua sensibilità lo faceva soffri-re molto.

Kurt stava talmente male che sfogava il suo do-lore sulla madre, il padre, i fratelli e le sorelle. Eraconvinto di non valere nulla perché si sentiva re-spinto dagli altri. E quando ti senti rifiutato dallatua famiglia, la vita non deve essere per niente fa-cile. Spedirlo da un centro di riabilitazione all’altronon era servito a niente e lui non voleva smettere.Penso fosse arrivato al punto in cui sapeva che nonavrebbe mai smesso. E così, un giorno ha deciso difarla finita.

KIM COBAINLA SORELLA

La mente di Kurt era sempre in movimento. Isuoi pensieri non si fermavano mai. Rimuginavaincessantemente. Per qualche ragione Kurt si ver-gognava di molte cose. Se qualcuno lo zittiva o loridicolizzava, ci rimaneva malissimo.

Si faceva le canne, usciva con gli amici e non da-va mai una mano in casa. Stava sempre per contosuo. Voleva una vita normale, una vita felice, conmamma, papà e i ragazzi. Ma al tempo stesso la ri-fiutava e lottava contro quello che voleva vera-mente.

Trovava belle le cose più disgustose. Era tal-mente attento ai dettagli, così infatuato dal corpoumano e dal suo funzionamento, che probabil-mente sarebbe stato un ottimo chirurgo, se aves-se avuto quella passione. Ma penso che sarebbestato una sorta di dottor Frankenstein, più che unvero medico. Avrebbe voluto trapiantare la testadi un asino sul primo che passava.

Qual è il confine tra genio e follia? Penso che luistesse proprio su quel confine. E questo gli pro-curava un senso di alienazione che lo facevasprofondare nella depressione. Non credo sof-frisse di qualche disturbo mentale specifico. Pen-

sava che tutti sarebbero stati meglio senza di lui.Che Courtney si sarebbe disintossicata e Francesavrebbe avuto la sua fantastica madre tutta persé. Era convinto di essere lui il problema, ma il pro-blema erano le droghe, che controllavano tutto.

COURTNEY LOVELA MOGLIE

Insieme eravamo perfetti. Due splendide ani-me in sincronia totale. Ci amavamo alla follia,ognuno di noi poteva finire le frasi dell’altro, quan-do Kurt parlava, sembrava che dalla sua boccauscisse polvere di fata, era un’anima bella.

Oh, Dio, sì. Volevamo avere un figlio e avevo con-cepito Frances a dicembre. Ma il problema non erala gravidanza, era viverla accanto a un drogato,per di più drogata anch’io, sapendo che una voltanato il bambino avrei festeggiato sparandomi unabella dose in vena. La nostra vita era questa. Nonso se oggi saremmo ancora sposati, perché non sose saremmo riusciti a liberarci dall’eroina. So cheio ce l’avrei fatta.

Il momento in cui l’ho visto più felice nel suoruolo di rockstar — poco prima della morte, conguardia del corpo e limousine, attorniato da al-tre band, strisce di coca e modelle — fu all’Hol-lywood Rock Festival di Rio. Se l’era spassata al-la grande a Rio. Se l’era spassata perché si sen-tiva una rockstar. Ho cercato di convincerlo a fa-re sesso a tre. Ma lui non voleva, diceva che eratroppo monogamo. Gli avevo proposto: «Fac-ciamolo in tre. Lei è una modella. Perché nonvuoi? Sei una rockstar, non puoi tirarti indie-tro. E poi io non sono nemmeno lesbica». Manon c’era stato niente da fare. Non l’ho maitradito, ma una volta, a Londra, ci è man-cato poco. Avrei potuto farlo e lui pre-se sessantasette Rohypnol e finìin coma perché avevo pensa-to di tradirlo. Una reazionetotalmente psicotica.

Era molto innamoratodi sua figlia e credeva ve-ramente che suicidan-dosi le avrebbe reso lavita più facile. L’ulti-ma riga della letterache ha lasciato primadel suicidio dice:«Andrà meglio sen-za di me». È statoun gioco al massa-cro. Un massa-cro duratov e n t ’ a n n i .Un incubo.

È stato l’ultimo maledetto del rock’n’roll: giovane, bello, ribelle. E suicida

Ora, dopo il docu-film, un libro racconta il leader dei Nirvana

attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto molto da vicino:

tra Ritalin, eroina e Mtv ecco il più spietatamente intimo dei suoi ritratti

ALBUM

DA SINISTRA: UNA SCIMMIAGIOCATTOLO MODIFICATA DAL PICCOLO KURT. UN FILMINO DI CASA COBAIN: KURT SI ESIBISCECON UNA CHITARRA GIOCATTOLO. LA CASSETTA INTITOLATA“MONTAGE OF HECK”DOVE LA FUTURA ROCKSTARAVEVA REGISTRATO CANZONI,SPOT E VARIA UMANITÀ E DA CUI BRETT MORGENHA TRATTO MATERIALEPER IL FILM E IL LIBRO

Famiglia

D

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Cobain

Repubblica Nazionale 2015-06-07

la RepubblicaDOMENICA 7 GIUGNO 2015 39

LUCA VALTORTA

ADISTANZA DI VENTUNO ANNI

anni dalla sua morte,

ascoltare la voce di Kurt

Cobain provoca ancora

dolore. C’è sempre stato

qualcosa di magico in quelle parole “With

the lights out, it’s less dangerous/ Here

we are now, entertain us” con cui il

singolo Smells Like Teen Spirit esplose

come un fuoco d’artificio alle più diverse

latitudini segnando l’entrata del rock

alternativo nel mainstream. Era il

settembre del 1991. L’album Nevermind

segnava l’evoluzione dei valori del punk

che si reincarnava con il nome di

“grunge”. Era la “Generazione X”

raccontata da Douglas Coupland, una

cultura minoritaria e anticonformista,

che conquistava il mercato di massa:

l’ultima volta in cui qualcuno sognò che il

rock potesse cambiare il mondo. Le

parole di Smells Like Teen Spirit non

avevano un significato logico, non erano

un appello contro il sistema, eppure per il

modo in cui le cantava Kurt Cobain,

colpivano allo stomaco. Erano rabbia,

forza, speranza, vita. E lo sono ancora.

Succede ogni volta che metti sullo stereo

quella canzone. Ma adesso sono anche

tristezza, sconfitta e morte. Il potere

magico di quel “profumo di spirito

adolescente” del titolo, dopo la morte di

Kurt risuona sinistro: troppa gioia,

troppa rabbia che stridono con il rumore

dello sparo che il cinque aprile del 1994

mise fine alla vita di un ragazzo (About a

boy, diceva una sua canzone) bello come

un angelo («ma lui non lo sapeva», diceva

la moglie Courtney Love). Smells Like

Teen Spirit era la “perfetta canzone pop”

che univa due amori dissonanti: la

melodia e il punk rock, i Beatles e i Black

Flag, i Boston e i Pixies. Una delle canzoni

più belle della storia in uno dei dischi più

belli della storia. La voce di Cobain,

cristallina il momento prima, potente

quello dopo: “siamo qui/ intratteneteci”

minacciava, sovvertendo le regole della

logica e dello show business: i Nirvana

non erano lì per intrattenere il pubblico,

ma il contrario. Vedere questo film,

leggere questo libro è come riaprire una

ferita mai rimarginata: Kurt bambino,

Kurt felice, Kurt che ride con in mano

una chitarra giocattolo, Kurt davanti a

folle sterminate, Kurt strafatto, Kurt che

bacia Courtney con tenerezza, che gioca

con la sua bimba Frances Bean, Kurt

perso, Kurt che dice «il punk rock è

libertà», Kurt che ride nel sole. Lights

out. E adesso intratteneteci.

Il doloredi riascoltarequellamusica

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IL LIBRO E IL FILM

IN LIBRERIA IN QUESTI GIORNI “MONTAGE OF HECK” (RIZZOLI, 160 PAGINE, 28 EURO) DI BRETT MORGEN, REGISTA DEL DOCUMENTARIO IN USCITA IN DVDL’11 GIUGNO. NELLA FOTO QUI SOTTO,IN SENSO ORARIO: WENDY O’CONNOR(MAMMA DI KURT), DON COBAIN (IL PAPÀ),KURT E LA SORELLA MINORE KIM

AMORE E MORTE

BACIO TRA KURT E COURTNEY. PAPÀCOBAIN CON LA FIGLIA FRANCES BEAN (IL NOME VIENE DALL’ATTRICE RIBELLE DI SEATTLE FRANCES FARMER). UN FOGLIOCON SCRITTO “MI ODIO E VOGLIO MORIRE”

Repubblica Nazionale 2015-06-07

10 ricettestellate

La degustazione

Dedicato al food design, tra paesaggi del cibo

e quelli dell’anima, “Mens-a. Stili Conviviali” chiude stasera

il suo weekend bolognese per spostarsi domani a Ferrara

con una sostanziosa appendicedi incontri, degustazioni

e laboratori sensoriali

L’appuntamento

Nel prossimo fine settimana, le Officine Farneto di Roma

ospiteranno “Sugo - condimenti per la casa”, passerella

di marchi indipendenti, designerinternazionali e artigiani

di talento sul tema casa&cucina, con un occhio alle produzioni

sostenibili e riciclate

Il libro

Si intitola “Gravner. Coltivare il vino” il libro scritto da Stefano

Caffarri per le edizioni CucchiaioD’Argento, dedicato al viticoltore

friulano Joško Gravner, uno dei più amati dai cuochi

per la qualità dei suoi vini, senzachimica e vinificati in anfora

con lunghe macerazioni

DA OGGI A MARTEDÌSI RITROVANO

A VICO EQUENSE I MIGLIORI CHEF

DEL NOSTRO PAESEABBIAMO CHIESTO

A DIECI DI LORO DI PRESENTARCI

I PIATTI CHERIPROPORRANNOIN QUESTI GIORNI

DAL MAIALINOAL CAFFÈ AI RAVIOLI

DI POLENTA E LUMACHE. CONUNA SPRUZZATA

DI PENISOLA

Andrea BertonCAPESANTE E CAVOLFIOREElegante commistione di orto e mare, a partire dai molluschi immersi un secondo nel caffèespresso a 60°, asciugati e appoggiati in un piatto con spicchi di piccoli cavolfiori rosolati, portati a cottura con poca acqua e una maionese di pesce, ottenuta lavorando a filod’olio un fumetto ridotto

Riccardo MoncoRAVIOLINI DI POLENTA E LUMACHEUna pasta ripiena diversa,dove la farcitura è costituitada una polenta bianca,mantecata e frullata con extravergine, burro,Parmigiano e sale. A parte,lumache spurgate, cotte con vino bianco e aglio per due ore, poi spadellate. Nel piatto, briciole di pane al prezzemolo saltate

Chicco CereaFAGOTTINI DI MAIALEPiatto povero e goloso:orecchie bollite, privatedella cartilagine, farcite con cappelle di funghi e formaggio (formai de mut), richiuse a mo’ di fagottini, avvolte nella retina di maiale. Si rosolano infarinate, primadi sfumarle col Marsala,unendo burro e fondo di vitello. Con purè di patate

la RepubblicaDOMENICA 7 GIUGNO 2015 40LA DOMENICA

Sapori. Italiani

Nino Di Costanzo SPAGHETTONE AI CINQUEPOMODORIMagia della semplicitànella pasta Gerardo di Nola rifinita in padellacon ciliegini crudi passatie pomodori ramati passatidopo cottura breve con aglioe olio. A fuoco spento, SanMarzano sbucciati a dadini,pomodori del piennolo,datterini appassiti in forno,extravergine e basilico

Massimo BotturaA PROPOSITODI PARMIGIANO Per il cuoco numero duedel mondo, cinque bocconi“didattici” che declinanoil formaggio secondostagionature, consistenze e temperature diverse,dal demi-soufflé alla salsa. Nel piatto,anche una galletta croccante,una spuma e perfino un’ariafatta col Parmigiano

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ANDREA BERTON

I magnifici 10Metti una seraa cena Bottura,Cerea e gli altri

BERTON

MILANO

OSTERIA FRANCESCANA

MODENA

DA VITTORIO

BRUSAPORTO (BG)

IN ATTESA

DI UN NUOVO RISTORANTE

ENOTECA PINCHIORRI

FIRENZE

RICCARDO MONCO

NINO DI COSTANZO

CHICCO CEREA

MASSIMO BOTTURA

Repubblica Nazionale 2015-06-07

GENNARO ESPOSITO

RICORDO BENISSIMO LA PRIMA

volta della festa, anzi la

numero zero, perché

nessuno di noi pensava ci

sarebbero state altre

edizioni oltre a quell’appuntamento un

po’ casuale e un po’ pazzerello messo in

piedi all’ultimo momento per far stare

insieme noi cuochi.

Tutto iniziò dodici anni fa. Avevamo

ospitato un evento, di quelli che

chiamano a raccolta chef di tutta Italia.

Per molti di loro la costiera sorrentina era

solo una cartolina o poco di più. Per me,

che a Vico sono nato e vivo da sempre, si

trattava di un’occasione irripetibile.

Quando mai cuochi friulani e altoatesini,

sardi e marchigiani, tutti insieme o

anche da soli sarebbero venuti una

seconda volta nelle nostre campagne?

Conoscevo già la risposta e non mi

rassegnavo all’idea di chiudere

l’appuntamento istituzionale senza

lasciare loro un ricordo vero, intriso della

voglia di tornare a trovarci. Per questo mi

inventai una festa. Trovai una bella

terrazza sul mare di Massa Lubrense, un

posto magico, incantato, e insieme ai

miei ragazzi misi in piedi un bel teatrino:

banchi di ostriche, zeppoline, vini super,

molto del meglio che ci regala la

Campania Felix. Avevo pensato alle

macchine, a far coincidere gli orari,

perfino alla musica, con una piccola

band-tributo dei Blues Brothers che

avrebbe fatto ballare anche i tavoli.

L’unica cosa che non avevo messo in

preventivo era il temporale. Cinque

minuti dopo che la gente aveva

cominciato ad arrivare, venne giù il

diluvio. Niente di tremendo, un

bell’acquazzone di inizio estate. Ma quei

minuti furono eterni: tutto rovinato,

occasione sprecata, altro che far tornare i

miei colleghi in costiera...

Eppure, la voglia di stare insieme era così

grande, che finita di cadere l’ultima

goccia d’acqua tirammo fuori tutto

quanto avevamo precipitosamente

accatastato e coperto, ostriche e

strumenti musicali compresi.

Mangiammo e ballammo e ridemmo fino

a non poterne più. E furono in tanti,

tantissimi a dirci: una festa così bisogna

farla tutti gli anni! Li abbiamo

accontentati. Anno dopo anno, abbiamo

allargato i confini del paese, cercando di

coinvolgere la gente del nostro territorio

e di farla interagire con gli ospiti,

utilizzando quel fantastico mezzo che è il

cibo, la sua condivisione. La festa è

diventata una scatola da riempire di

contenuti. Nel 2014, ha richiamato quasi

diecimila persone. I cuochi, super stellati

e giovani speranze, fanno a gara per

partecipare, nessuno prende un

compenso, la maggior parte viene a

proprie spese. Cucinano uno accanto

all’altro, si aiutano, niente competizioni,

niente classifica, solo la voglia di stare

insieme, di offrire del buon cibo a chi

partecipa. E alla fine, naturalmente, si

balla.

L’autore è lo chef

della “Torre del Saracino”

di Vico Equense, due stelle Michelin

Niente garené classifichequesta èla nostra festa

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Giancarlo PerbelliniRAVIOLI AL LATTE COI RICCITerra&mare declinati a partire da una sfoglia tiratamolto sottile, farcita di lattecagliato con l’acido citrico.Ravioli cotti e nappaticon poco burro,poi appoggiati nel piatto su una dadolata di porribrasati. Sopra, polpadi ricci di mare freschissimi e un ciuffo di tartufo nerograttugiato

Niko RomitoAGNELLO, AGLIO E POMPELMOPer dare profumo senza appesantire, spicchisbucciati, privati dell’anima,sbianchiti tre volte in acqua e una nel latte, prima di frullarli. A parte, cotturanel latte del carré e breveaffumicatura. Nel piatto,germogli un poco conditisopra la carne, l’aglio e una gelatina di pompelmo

Davide ScabinMAIALINO AL CAFFÈAbbinamento insolito per il cosciotto cotto a bassatemperatura, sporzionato in cubi e arrostito dalla parte della cotennasotto la salamandra (grill).Per napparlo mentre si colora, viene usata una glassa ottenuta tostando i chicchi macinatiin padella con poco burro e il fondo di cottura

migliore, passa inesorabilmente dal rappor-to con gli artigiani. Così, l’unica difficoltàper Chicco Cerea e Riccardo Monco, MauroUliassi e Pino Cuttaia è stato scegliere unosolo tra i fornitori dei rispettivi ristoranti daportare con sé. Piccoli eroi del nostro tem-po, restii a lasciare le loro aziende iper-fa-miliari, capaci di lavorare venti ore al gior-no per fare la mozzarella più buona del mon-do e cocciuti nel produrre poco — il giusto,rispondono — preservando la qualità mas-sima. Una scelta che comporta notti inson-ni e guadagni risicati. Ma si sa, la passione èpassione, anche e soprattutto nel cibo.

LICIA GRANELLO

QUILAFESTA. DAVANTIAUNMARECHEINQUESTEGIORNATEdi quasi estate met-te in fila le isole di fronte come fossero paperelle. In un tripudio di giac-che bianche e grembiuli, pentoloni e sac-à-poche, cassette di pesce, frut-ta, verdura. Se esistesse un Guinness dei primati per la quantità di stel-le Michelin lavoranti insieme, Festavico vincerebbe a mani basse: da og-gi a martedì, il borgo di Vico Equense, arroccato in collina ma provvistodi dependance in riva al mare, accoglie e fa cucinare in strada la crèmede la crème della gastronomia italiana, ventaglio di tre stelle e talentiragazzi, imprenditrici culinarie e gelatieri fulminati sulla via del latte dipascolo, attempati sommelier e bartender di ultima generazione. Cen-tinaia tra chef, commis e apprendisti pronti a lavorare gomito a gomito.Imprecando e correndo, sudando e faticando, ma anche molto sorri-

dendo. Niente di tutto questo sarebbe possibile senza Gennaro Esposito, il vero erede diAlfonso Iaccarino, lo storico chef pluristellato che ha trasformato la penisola sorrentina — eil ristorante “Don Alfonso” — in tappa obbligata per i gourmet di tutto il mondo, e il pro-montorio di Punta Campanella — tra i golfi di Napoli e Salerno — in un paradiso di agricol-tura buona, pulita e giusta. Esposito, che ha mutuato da Iaccarino un talento indiscutibile ela capacità visionaria di promuovere il proprio territorio, ha avuto un’intuizione geniale el’ha trasformata in appuntamento irrinunciabile. Lontani per una volta dalle belle e gelidevasche di vetro che sono le nuove cucine stellate, i cuochi vengono letteralmente messi in

piazza, a contatto con la gente. Certo, ognuno di loro arriva adeguatamente provvisto deimagici sacchettini sottovuotati, dove vengono conservate al meglio le basi delle

ricette. Ma finitura e offerta dei piatti (di cui trovate qui accanto qualcheesempio), avvengono lì, a distanza di braccio: al posto di starchef e divi

dei gastro-reality, solo bravi, bravissimi cuochi pronti a racconta-re e raccontarsi.

Questo virtuoso esempio di democratizzazione dell’altacucina — i biglietti per le degustazioni sono assolutamen-

te accessibili — è diverso da tutti gli altri anche grazie al-la presenza degli artigiani del cuore. Il gioco delle ma-

ni amiche, come l’ha battezzato Esposito, prevedeche dalla passerella di questa sera nei centoventi

negozi di Vico Equense trasformati in altrettantiatelier del gusto, alla cena itinerante di MarinaAequa martedì, contadini e allevatori, casari epanificatori, maestri cioccolatieri e raccoglito-ri di erbe selvatiche siano co-protagonisti ditutti gli appuntamenti della festa. Perché sec’è un futuro disegnato per la nostra cucina

NIKO ROMITO

REALE

CASTEL DI SANGRO (AQ)

la RepubblicaDOMENICA 7 GIUGNO 2015 41

GIANCARLO PERBELLINI

CASA PERBELLINI

VERONA

DAVIDE SCABIN

COMBAL.ZERO

RIVOLI (TO)

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È

Valeria Piccini MAIALINO DI CINTA SENESECON VERDUREElegante e terragna la carnein doppia cottura (a bassatemperatura, poi rosolandola cotenna in extravergine),servita con una salsa a base di cipollotti, piselli, fave,carciofi e basilico.A côté, spicchi di carciofospadellati, cipollotti stufaticon aceto, insalatinadi fiori di fave e glicine

VALERIA PICCINI

DA CAINO

MONTEMERANO (GR)

= 1 STELLA MICHELIN

Mauro UliassiMOZZARELLA PIAN DEL MEDICO Il trionfo del Mediterraneo: su un velo di stracciatellasi appoggiano cubetti di mozzarella, pois di basilico e salsa di peperone, cubetti di pomodoro confit, acciughee anguilla affumicata. Perdecorare, filetti di peperone e capperi fritti, pistacchi,briciole di pane nero

MAURO ULIASSI

ULIASSI CUCINA DI MARE

SENIGALLIA (AN)

Repubblica Nazionale 2015-06-07

la RepubblicaDOMENICA 7 GIUGNO 2015 42LA DOMENICA

Prima si è fatto conoscere grazie al doppiaggio. “Per il Tom Hanks di

Forrest Gump al provino mi dissero: non vai bene ma ti prendiamo

lo stesso, sei quello che si è avvicinato di più”. Poi in tv è diventato

anche un volto, quello di René Ferretti (“Boris”), e una stazza, quel-

la di Nero Wolfe. E se ha appena inciso un disco (“Oh, una delle mie

canzoni è piaciuta a De Gregori”) l’anno scorso al cinema è stato Sal-

vo, l’operaio di “Patria”: “In quel

film c’è pure la strage di via Fani.

Abitavo lì. Quella mattina ero

sceso per andare a comprare il

giornale. Ho ancora il ricordo del-

l’odore della polvere da sparo”

FrancescoPannofino

SILVANA MAZZOCCHI

ROMA

IL RUOLO PIÙ RECENTE, QUELLO DI SALVO, operaio siciliano trapiantato a Torino,rozzo ma giusto, lo interpreta in Patria, film di Felice Farina ispirato al librodi Enrico Deaglio. È invece il padre di uno dei componenti della band musi-cale, Le frise ignoranti, nella commedia omonima di Antonello De Leo e Pie-tro Loprieno. Lui è un talento eclettico, doppiatore di attori mito del calibro

di George Clooney e Denzel Washington, indimenticabile voce metallica e stru-sciante del Tom Hanks di Forrest Gump, animatore di cartoni animati e telefilmamericani. Attore ironico e versatile di cinema, teatro, radio e audiolibri, mat-tatore di spot pubblicitari e protagonista di fiction amatissime, dal disincanta-to René Ferretti nelle serie Boris, film compreso, a Nero Wolfe, l’investigatoremaniacale e misogino inventato da Rex Stout. Infine, perfino cantautore con undisco che uscirà il prossimo autunno. «Sedici canzoni scritte da me quasi per ca-so… Titolo provvisorio: AAA. Vendesi emozioni...».

Francesco Pannofino, cinquantasei anni, pugliese d’origine, nato in Liguriae romano d’adozione, è come te l’aspetti, spiritoso e sarcastico, curioso e di-sponibile, soddisfatto del suo lavoro e ottimista quanto basta. «Il disco? Spe-riamo bene, comunque non mi monto la testa. Il doppiaggio è la mia stabi-lità, anche se il teatro e il cinema sono più solenni e ci si mette la faccia». E,se gli chiedi che cosa vorrebbe ancora fare, azzarda che gli piacerebbe pro-vare con la regia, «ma non ho ancora la storia giusta e ho bisogno della squa-dra». E un romanzo? «Me lo avevano chiesto ben due editori; ne avevo sceltouno, ma alla fine ho rinunciato».

Arriva all’appuntamento puntuale, reduce da una riunione dedi-cata ai trailer del nuovo film di George Clooney, Tomorrowland.«Lui non l’ho mai incontrato, una volta però mi ha telefonato. Mifa: “Thank you very much, bravo, bella voce”. E io: “Che fai, im-

pari l’italiano?”. Lui: “Poco, pochino”. ”Non farlo troppo bene,sennò io che faccio?”». Gigioneggia, beve un caffè, segue si-garetta. Inizia con Patria: «Sono appassionato di storia italia-na, quella recente, e poi il libro di Deaglio si apre con la stragedi via Fani. Io ero lì quella mattina del 16 marzo 1978. Abitavoa pochi metri, ed ero appena uscito di casa per andare a pren-dere il tram; andavo all’università, frequentavo matematica,avevo lezione di algebra. Mi fermai all’edicola e comprai Il Mes-saggero; la Juventus aveva passato il turno di Coppa dei Campionie, quando sentii gli spari, stavo guardando la foto di Zoff. Mi girai, non vi-

di nulla, scappai. Solo dopo un po’ sono tornato indietro e ho visto i morti, il san-gue... Mi ricordo le facce, i bossoli per terra e l’odore del piombo. Qualche tempodopo ci scrissi una canzone, Sequestro di Stato». Accompagna i titoli di coda diPatria.

Le canzoni ha cominciato a scriverle tra il 2006 e il 2007. «Iniziai la prima se-rie di Boris, ogni giorno arrivavo sul set alle otto del mattino, ma poteva capita-re che girassi solo alle tre del pomeriggio. Allora ho avuto l’idea di portarmi lachitarra e quasi tutte le mie canzoni le ho scritte lì. Ogni tanto le facevo sentireagli amici, durante le pause. Una in particolare, Ciak, venne apprezzata niente-meno che da Francesco De Gregori. Gli scrissi una mail per ringraziarlo, mi ri-spose: “Sì era proprio bella”. Mi sono sentito incoraggiato. Da allora, le ho tenu-te tutte in un cassetto, fino all’estate scorsa. Alfredo Saitto, produttore vetera-no, ascoltò Ciakdurante le prove di un evento che si sarebbe dovuto tenere a Ro-ma e che io avrei dovuto presentare. Mi chiese di sentire anche gli altri miei pez-zi. Ed è nato il disco».

Padre carabiniere, pugliese di Cisternino, e mamma sarta, di Locorotondo.«Da grande avrei voluto fare il calciatore, oppure il giornalista sportivo. O l’at-tore. A scuola ci esibivamo spesso, eravamo in due o tre, “gli esibizionisti”, e fa-cevamo le imitazioni; io ero sempre quello che faceva ridere di più. All’univer-sità non ci ho mai creduto, l’avrei voluta lasciare da subito, ma mio padre mi sta-va addosso: “O lavori o studi”». L’occasione arriva a vent’anni: sostituire la se-gretaria tuttofare della Società attori italiani, andata in maternità. «Ero al barcon altri ragazzi. Arrivò un signore e chiese se ci fosse qualcuno disponibile. “Io,io!”, mi buttai. Ci rimasi un anno e mezzo; fu un bel periodo, in quella sede pas-savano un po‘ tutti, Volonté, Montesano… Io mi occupavo del ciclostile, nel frat-tempo però frequentavo le moviole dove si preparavano le scene per il doppiag-gio. E imparai tante cose, per esempio come si fa un piano di lavoro. Mi propose-ro di diventare assistente al doppiaggio. Il direttore era Aldo Massasso, vide su-bito che ero un ragazzetto sveglio. Il momento era favorevole, stavano nascen-do le tv private e il lavoro aumentava a dismisura».

Diventa la voce di decine di personaggi, fiction, serie, cartoni animati. «Ungiorno mi chiama Tonino Pavan, leader del Sindacato attori, e mi suggerisce dipresentarmi a Trieste al Teatro Stabile, dove si stava mettendo in scena L’affa-re Danton. “Ci sono trentacinque personaggi e una decina sono giovani. Vai afarti vedere”. Stavo facendo il servizio militare, andai al provino in divisa, ricor-do ancora le facce. Però mi presero».

Per Pannofino doppiatore fu Forrest Gump la pietra miliare. «Avevo già pa-recchia esperienza, avevo partecipato perfino a un film straordinario come GliIntoccabili, ma la mia voce non era quella di Hanks… Il direttore era Mario DeAngelis e la produzione americana gli aveva affiancato una supervisor, in quelperiodo era la normalità e tutto dipendeva da loro. Dovevo inventarmi qualco-sa, Tom Hanks parlava con l’accento dell’Alabama, un inglese strascinato, bra-silianizzato. Feci il provino, uno due, tre volte, alla fine il verdetto: “Non vai be-ne ma ti prendiamo, sei quello che si è avvicinato di più”».

Anche in teatro è uno spettacolo a portargli fortuna. Esercizi di stile di Que-neau, per vent’anni (anche se non continuativi) in palcoscenico, dal 1989 al2009. «In Esercizi di stile, la storia ripetuta dà modo all’attore d’interpretare ven-

ti personaggi diversi in altrettanti minuti. Fu dopo avermi visto lì che miproposero Boris, tante serie e un film. Ho molto amato il mio personag-gio, René Ferretti, e spero di tornare ancora a interpretarlo». Da BorisaNero Wolfe, una trasformazione totale: «Sono ingrassato venti chili perquella parte, ma adesso che sono tornato ai miei novanta, sto pensan-do di ricominciare a giocare a calciotto, la mia passione». Si è divertitocon il doppio ruolo in Ogni maledetto Natale. «Era la stessa banda di Bo-

ris, una garanzia per me. Fino all’ultimo momento non sapevamoche avremmo girato in entrambi gli episodi, soluzione che

si è invece rivelata una trovata. Ma io, con gli autori di Bo-ris, Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendru-scolo, vado a occhi chiusi, adoro il loro umorismo intelli-gente e paradossale».

Dice di essere una persona positiva, forse un po’umorale, ma equilibrata, concreta. «Con la mia ex mo-glie, Emanuela (Rossi, doppiatrice e attrice anchelei, ndr), ci separammo quando nostro figlio, An-drea, che ora ha diciassette anni, era ancora moltopiccolo. Siamo rimasti a lungo divisi, poi ci siamo ri-messi insieme, ma non ha funzionato e ora siamodi nuovo single. Abbiamo ottimi rapporti, ci vo-gliamo bene. Ecco, Emanuela è anche nel cast di Isuoceri albanesi di Gianni Clementi, per la regiadi Claudio Beccaccini, l’ultimo spettacolo teatra-le che porteremo in giro per l’Italia l’anno prossi-mo».

Siamo ai saluti e, all’elenco del prossimo futuro,si aggiunge ancora un corto in uscita Djinn tonic, ov-

vero Il genio della lampada di Aladino. È di un gruppodi cineasti di Modena, lo stesso che fece Tellurica dopo ilterremoto. «Io sono il genio…», scherza.

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DA GRANDE AVREI VOLUTO DIVENTARE CALCIATOREOPPURE GIORNALISTA SPORTIVO. O ATTORE A SCUOLA FACEVAMO LE IMITAZIONI.CI CHIAMAVANO “GLI ESIBIZIONISTI” ERO SEMPRE IO QUELLO CHE FACEVA RIDERE DI PIÙ

ARRIVAVO SUL SET OGNI GIORNO VERSOLE OTTO, E FINO ALLE TRE NON SI GIRAVALE CANZONI LE HO SCRITTE LÌ, E DURANTELE PAUSE LE FACEVO SENTIRE AGLI AMICILA COSA È NATA COSÌ

CLOONEY NON L’HOMAI INCONTRATO,

MA UNA VOLTAMI TELEFONÒ.

DISSE: THANK YOUVERY MUCH,

BRAVO, BELLAVOCE! GLI RISPOSI:

GEORGE,MA CHE FAI,

IMPARI L’ITALIANO?SCUSA EH,

MA SE TU TI METTIA IMPARAREL’ITALIANO

IO RESTOSENZA LAVORO

L’incontro. The voice

Repubblica Nazionale 2015-06-07