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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 MARZO2012 NUMERO 366 CULT La copertina MAGRELLI E SIMIC La nuova vita della poesia tra boom di vendite e social network La recensione FILIPPO CECCARELLI Il racconto di Nesi: speranza e umiltà della letteratura al tempo della crisi All’interno L’intervista SUSANNA NIRENSTEIN Sem-Sandberg “Quei dimenticati del ghetto di Lodz fuori dalla storia” Teatro RODOLFO DI GIAMMARCO Non c’è Brando nel Tennessee Williams di Antonio Latella Il libro ALESSANDRO BARICCO Una certa idea di mondo: “Goldman e la fiaba della principessa” Zen, scienza e Lsd, la fisica quantistica salvata dagli hippy La storia FEDERICO RAMPINI Qui si parla yiddish, viaggio a caccia della lingua perduta Il reportage MAREK HALTER NEW YORK I l divo del rock che camminava sul lato selvaggio della vita a settant’anni ha ancora gli incubi di un debuttante qual- siasi. «Mi trovo nel deserto: e ho dimenticato le scarpe. Faccio per prendere l’autobus: e non riesco più a trovare il biglietto. Sono sull’autobus: e ho dimenticato la chitarra. Final- mente arrivo al concerto: ed è già tutto finito. Ecco, questo è il più ricorrente». Ecco, questo è Lou Reed. L’ex ragazzo che a quattor- dici anni visse l’orrore dell’electroshock, per superare quelle che allora chiamavano “turbe omosessuali”, il 2 marzo ha compiuto settant’anni, ma la moglie Laurie Anderson («L’artista più genia- le che conosca: ma forse sono un po’ di parte») ha dovuto orga- nizzargli una festa a sorpresa per superare la ritrosia a festeggia- re il Big Birthday. Una carriera lunga e provocatoria come il vero rock: dai Velvet Underground fondati da Andy Warhol ai Metalli- ca snobbati dai critici, che lui solo poteva portare a reinterpreta- re insieme Lulu, il capolavoro espressionista di Frank Wedekind. ANGELO AQUARO «E i loro fan ora mi odiano» dice nell’ufficio-studio nel cuore del West Village, muri a vista e parquet («Niente scarpe, please»), le chitarre in un angolo e il mega-iMac da 22 pollici nell’altro. «Paz- zesco: mi odiano — devono avere il quoziente intellettuale di una sedia». Lou Reed ha settant’anni: e come si sente? «Fortunato. Non mi muovo con la sedia a rotelle e posso alzar- mi da solo sulle mie gambe». Woody Allen dice che quando si guarda allo specchio rivede lo stesso ventenne. «Abbastanza vero: anche per me. Del resto l’Oscar per la sce- neggiatura l’ha preso lui: lasciamogli la battuta». Segue il cinema? La sua prima e ultima volta in un film è stato Blue in the Face di Paul Auster: diciotto anni fa. «Veramente io volevo fare l’attore». E perché ha cambiato idea? «Perché ho sempre avuto una cattiva memoria. E non pensavo di essere bravo abbastanza. Così ho cominciato a scrivermi i miei mo- nologhi in musica: piccole commedie con me come protagonista». (segue nelle pagine successive) Anni Settanta Nel giorno del suo compleanno intervista esclusiva a una leggenda del rock “Sono fortunato, mi reggo ancora sulle mie gambe” FOTO TIMOTHY GREENFIELD SANDERS LOU REED Repubblica Nazionale

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 4MARZO2012

NUMERO 366

CULT

La copertina

MAGRELLI E SIMIC

La nuova vitadella poesiatra boom di venditee social network

La recensione

FILIPPO CECCARELLI

Il racconto di Nesi:speranza e umiltàdella letteraturaal tempo della crisi

All’interno

L’intervista

SUSANNA NIRENSTEIN

Sem-Sandberg“Quei dimenticatidel ghetto di Lodzfuori dalla storia”

Teatro

RODOLFO DI GIAMMARCO

Non c’è Brandonel TennesseeWilliamsdi Antonio Latella

Il libro

ALESSANDRO BARICCO

Una certa ideadi mondo:“Goldman e la fiabadella principessa”

Zen, scienza e Lsd,la fisica quantisticasalvata dagli hippy

La storia

FEDERICO RAMPINI

Qui si parla yiddish,viaggio a cacciadella lingua perduta

Il reportage

MAREK HALTER

NEW YORK

Il divo del rock che camminava sul lato selvaggio della vitaa settant’anni ha ancora gli incubi di un debuttante qual-siasi. «Mi trovo nel deserto: e ho dimenticato le scarpe.Faccio per prendere l’autobus: e non riesco più a trovare il

biglietto. Sono sull’autobus: e ho dimenticato la chitarra. Final-mente arrivo al concerto: ed è già tutto finito. Ecco, questo è il piùricorrente». Ecco, questo è Lou Reed. L’ex ragazzo che a quattor-dici anni visse l’orrore dell’electroshock, per superare quelle cheallora chiamavano “turbe omosessuali”, il 2 marzo ha compiutosettant’anni, ma la moglie Laurie Anderson («L’artista più genia-le che conosca: ma forse sono un po’ di parte») ha dovuto orga-nizzargli una festa a sorpresa per superare la ritrosia a festeggia-re il Big Birthday. Una carriera lunga e provocatoria come il verorock: dai Velvet Underground fondati da Andy Warhol ai Metalli-ca snobbati dai critici, che lui solo poteva portare a reinterpreta-re insieme Lulu, il capolavoro espressionista di Frank Wedekind.

ANGELO AQUARO «E i loro fan ora mi odiano» dice nell’ufficio-studio nel cuore delWest Village, muri a vista e parquet («Niente scarpe, please»), lechitarre in un angolo e il mega-iMac da 22 pollici nell’altro. «Paz-zesco: mi odiano — devono avere il quoziente intellettuale di unasedia».

Lou Reed ha settant’anni: e come si sente?«Fortunato. Non mi muovo con la sedia a rotelle e posso alzar-

mi da solo sulle mie gambe».Woody Allen dice che quando si guarda allo specchio rivede

lo stesso ventenne.«Abbastanza vero: anche per me. Del resto l’Oscar per la sce-

neggiatura l’ha preso lui: lasciamogli la battuta».Segue il cinema? La sua prima e ultima volta in un film è stato

Blue in the Face di Paul Auster: diciotto anni fa.«Veramente io volevo fare l’attore».E perché ha cambiato idea?«Perché ho sempre avuto una cattiva memoria. E non pensavo di

essere bravo abbastanza. Così ho cominciato a scrivermi i miei mo-nologhi in musica: piccole commedie con me come protagonista».

(segue nelle pagine successive)

Anni Settanta

Nel giornodel suocompleannointervistaesclusivaa unaleggenda

del rock“Sonofortunato,mi reggoancorasullemie gambe”

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LA DOMENICA■ 30

DOMENICA 4 MARZO 2012

Andy Warhol è il suo eroe.«Io non ho eroi. Detto questo: un uo-

mo incredibilmente grande. E che for-tuna averlo incontrato. Terribile nonavere intorno, oggi, uno del suo genio».

Oggi abbiamo il digitale, internet,YouTube: tutto un altro mondo.

«Mi devo ricordare di ripulire il mioprofilo su Google: in questi giorni scat-tano le nuove regole della privacy. Manon è incredibile? Voglio dire: io sono ilprimo a passare lì sopra tutto il tempo— ma che diritto hanno di conservare imiei dati? Oppure YouTube: ormai tut-to è su YouTube. Interviste di cin-quant’anni fa, che avresti voluto bru-ciare, dove sei al peggio di te: Dio mio!».

Le fa paura?«Guardate Amy Winehouse: così gio-

vane e perseguitata fino alla morte dal-la stampa. Senza scampo».

Accusa i media della sua morte.«Oh yes. Voglio dire: non aveva scam-

po. Tutta quella attenzione su di sé. Seilì che vomiti, e c’è subito una bella fotoin rete di te che vomiti. Buona fortuna».

Ma non è piuttosto il frutto dell’i-deologia del rock maledetto? “Forsesono destinato a morire giovane: infondo tutti i grandi cantanti di bluessono morti giovani”. Lo scriveva LouReed: nel 1970.

«L’ho scritto io? Ah sì, dopo la mortedi Brian Jones dei Rolling Stones. Mache dicevo? Non lo ricordo più».

Che viene un momento nella vita diogni rocker in cui la pressione del pub-blico ti costringe a rispondere alleaspettative create dalla maschera.

«Nessuno dovrebbe rispondere alleaspettative di nessuno. E poi: ma qualipressioni? E allora chi lavora in minie-ra? Respiri tutta quella merda, paga or-ribile. Altro che aspettative: riempito dibotte a morte — come un cane. Mentrei signori di Wall Street vengono salvatidal governo e ti fottono tutto quello chepossono. A proposito: dov’è finito il no-stro uomo? Barack Obama...».

Deluso?«Mi piace pensare che si tenga le ali

ben strette per ottenere un secondomandato. Ma avete visto l’opposizio-ne? Rick Santooooorum? Oh my God:

ANGELO AQUARO

Il peso della celebrità: “Andatelo a dire ai minatori”. Il peso dell’età:“Non sto su una sedia a rotelle”. Obama: “Già, dove è finito?”. Israele: “Trasferiamolo nello Utah”. New York: “Troppo cara”Soddisfatto? “Mai”. Intervista alla rockstarche amava passeggiare sul lato selvaggio della vita

La copertinaAnni Settanta

Lou Reed“Ero uno che dormiva sui treniora faccio rock dentro un ufficio”

that’s fantastic. Se fossi uno di quei pa-ranoici direi che Obama ha organizza-to il tutto per farsi rieleggere. Però fino-ra dov’è stato? Un giorno dà un discor-so davanti alla statua di Martin LutherKing: ma Martin Luther King quel gior-no sarebbe stato con i ragazzi di OccupyWall Street. È per quello che l’abbiamoeletto. E invece no: Obama missing inaction. Disperso in battaglia».

Quando gli chiedono della rivolu-zione anni ’60, Ralph Metzer, il profes-sore che con Timothy Leary diede il làalla cultura psichedelica, oggi dice:“Ma quale rivoluzione. Gli anni ’60 so-no stati solo un pallido assaggio diquello a cui stiamo assistendo adesso”.

«Per forza. Oggi è l’intero mondo abruciare. Guardate in Siria. In Egitto èancora tutto all’aria. E che succederàcon l’Iran? Ha diritto ad avere l’atomi-ca? Ok, saranno dei pazzi fottuti — eprobabilmente davvero pensano chesia una bellezza mandare all’aria ilmondo intero. Io non lo so: spetta amenti più eccelse della mia. E la Siria?Perché questo tizio non prende e se neva? Ecco, questi sono tutti i soldi chevuoi, ma prendi la tua bella moglie-tro-feo e sparisci. Ma spetta poi a noi conti-nuare a fare i poliziotti del mondo? La-sceremo fare agli israeliani?».

Lei che ne pensa?«Dice un mio amico che dovremmo

prendere Israele e trasferirlo nello

RITRATTI

Per i suoi 70 anni

Lou Reed ha posato

per Repubblica

davanti all’obiettivo

di Timothy Greenfield-

Sanders (a sinistra),

il grande fotografo

e premio Grammy

per il documentario

Lou Reed: Rock

and Roll Hearth

IVelvet Undergroundsembrano il frutto delmatrimonio segreto traBob Dylan e il marchesede Sade”.«Chi l’ha detto?».

Richard Goldstein, lo storico repor-ter dei diritti gay, New York Magazine,1967. Ma senta quest’altra: “Tre mesiprima di Sgt. Pepper’s, i Velvet Under-ground hanno chiuso il gap tra il rock el’avanguardia”. E questo è Alex Ross,2010, l’acclamatissimo critico del New

Yorker. Quale definizione sceglie.«Non ci penso proprio. Paragoni e

confronti non mi piacciono. Solo i gior-nalisti lo fanno. Ti danno i voti: come ascuola».

Questa fama di non sopportare igiornalisti: ma non ha studiato giorna-lismo? Lo scrivono tutte le biografie...

«Ho studiato scrittura. Regia». Niente giornalismo.«Appena un semestre: e ne ho avuto

abbastanza. Ti insegnavano comeesporre tutte le informazioni all’iniziodell’articolo. Dicevano: le opinioni te-netele per voi. Mollato subito. Ma noncredo che la categoria abbia sentito lamia mancanza».

Però lei col giornalismo, una voltafamoso, ci ha comunque provato: è ve-ro che una celebre rivista le rifiutò unarticolo?

«Come no: Rolling Stone. Volevanofare qualche correzione. E io: voivoletefare qualche correzione a me?».

Magari qualche suggerimento.«Qualche suggerimento, certo: ma io

non voglio suggerimenti. Dicono che ticorreggono la grammatica e tutt’a untratto suoni come chiunque altro.Quando Andy Warhol fondò Interviewle interviste erano tutte piene di “Oh!”,“Uh!”, “Ah!”. Lui voleva che si scrivessecome la gente parla davvero».

‘‘

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 4 MARZO 2012

© RIPRODUZIONE RISERVATA

COPERTINEThe Velvet Underground & Nico (1967);White Light/White Heat (1967); The Velvet Underground (1968); Loaded

(1970); Live at Max’s Kansas City (1972); Lou Reed (1972); Transformer (1972); Berlin (1973); Live 1969 Vol. 1 e

Vol. 2 (1974); Rock’n’Roll Animal (1974); Sally Can’t Dance (1974); Lou Reed Live (1975); Metal Machine Music

(1975); Coney Island Baby (1976); Rock’n’Roll Heart (1976); Take No Prisoners (1978); Street Hassle (1978);The Bells (1979); Growing Up In Public (1980); The Blue Mask (1982); Legendary Hearts (1983); New

Sensations (1984); Live In Italy (1985); Mistrial (1986); New York (1989); Songs for Drella (1990); Magic and Loss

(1992); Live MCMXCIII (1993); Set The Twilight Reeling (1996); Perfect Night In London (1998); Ecstasy (2000);American Poet (2001); The Raven (2003); Animal Serenade (2004); Le Bataclan ’72 (2004); Hudson River Wind

Meditation (2007); Metal Machine Music Live (2007); The Creation Of The Universe (2009); Lulu (2011)

‘‘Vivere pericolosamenteSu un antico rotolo giapponese c’è uno scheletroseduto nella posizione del fior di loto, cerca di ottenereun buon karma dopo una vita vissuta pericolosamenteForse un po’ troppo tardi, no?

Utah: adesso basta, ragazzi, fuori daqui. Insomma: è terribile quello chesuccede con i palestinesi».

Sta dicendo cose molto discutibili epoliticamente scorrette: Israele è unpaese sotto minaccia. E poi, scusi, leinon è ebreo?

«Ebreo di origine russo-polacca. Miconsidero democratico senza confini».

Ha detto: “Vorrei realizzare nellamia musica il Grande Romanzo Ame-ricano”.

«Ogni disco è un capitolo».Molti ambientati a New York.«Non sono mica Gore Vidal, seduto

nella sua bella villa italiana a scriveredell’Italia».

E com’è cambiata la sua New Yorkdai tempi in cui cominciò?

«Dovremmo andare avanti a parlar-ne per cinque giorni... Molto gentrifica-ta, tutti giovani professionisti. Gli artistinon possono viverci più. Molto moltomolto molto molto molto molto moltopiù cara. La gente si sposta a Brooklyn eanche Brooklyn è ormai cara».

Lei è nato a Brooklyn: le manca?«Mi mancano così tante cose».“Penso che la vita sia troppo breve

per concentrarsi sul passato. Io guar-do piuttosto al futuro”: Lou Reed,1988. Che cosa vede nel futuro ?

«È vero: non mi interessa rivangare ilpassato. Preferisco il presente».

Sì, ma il futuro?«Vivo nel presente: o almeno cerco

di. E poi: quale futuro? Per carità: ades-so non voglio fare filosofia spiccia. Sonosolo un musicista di rock’n’roll».

Forse qualcosa in più.«Diciamo che ho mandato avanti an-

che un altro paio di cosette».Soddisfatto?«Mai saputo cosa voglia dire».“Sarebbe divertente avere un bam-

bino da portare in giro”: così cantava inNew York, 1989. Le manca un figlio?

«Sarebbe davvero divertente: maFO

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non ne ho. Lì mi divertivo a immaginar-lo. La parola chiave è: sarebbe».

Solo fantasie.«Ma chi l’avrebbe detto, per esem-

pio, che uno come me avrebbe dovutoavere un ufficio? Ho fatto di tutto nellamia vita per non finire in un ufficio: poialla fine hai bisogno di un posto doveportare avanti tutte le tue cose ed ecco-mi qua. In un ufficio. Naturalmente è inun palazzone di artisti: e non mi ci tro-vo poi così male».

Una rockstar in ufficio.«Ma io dormivo sui treni, nelle lobby

degli hotel, c’erano le sale dei cinemache restavano aperte tutta la notte: tan-ti non avevano dove andare a dormire».

“La celebrità esige ogni tipo di ec-cesso”. È l’inizio di Great Jones Street, ilromanzo del rock di Don DeLillo. Ed èil 1973: un anno dopo la sua Walk on

the Wild Side, la canzone-simbolo diuna vita tutta sesso, droga e rock’n’roll.

«La celebrità non richiede un belniente. E ciò che fai della tua vita e deltuo corpo dipende solo da te. Nessunoti ha chiesto nulla. E non c’è nessunaclausola da rispettare nel contratto».

Mai sentito schiacciato dalla cele-brità?

«Ripeto: la vera pressione la senti inminiera. Avere a che fare con questestronzate della celebrità non è pressio-ne: è un gioco».

Rimpianti?«Nessuno». Niente da recriminare?«C’è questo bellissimo rotolo giap-

ponese di quattro secoli fa. Mostra unoscheletro seduto nella posizione del fiordi loto che cerca di ottenere un buonkarma: dopo una vita vissuta pericolo-samente. L’ho mostrato a Laurie cheme ne ha fatto una copia: bellissima. Maavete presente? Uno scheletro che cer-ca la posizione per avere un buon kar-ma: forse un po’ troppo tardi, no?».

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 32

DOMENICA 4 MARZO 2012

Il reportageTrain de vie

A Birobidzhan!A Birobidzhan!MAREK HALTER

hi conosce il Birobidzhan, la repubblica autonoma ebraicacreata nel 1932 da Stalin, in Siberia, sul fiume Amur, di fronte al-la Cina? Nella mia cerchia di conoscenze, nessuno. Io stesso, chepure ne avevo sentito parlare, la credevo scomparsa da tempo.E invece una sera, a Mosca, con mio grande stupore, vedo un te-legiornale che racconta della visita ufficiale del presidente dellaFederazione russa Dmitrij Medvedev a… Birobidzhan. Noncredo ai miei occhi: c’è una delegazione, di cui fanno parte an-che due rabbini, ad accoglierlo. Insieme visitano la sinagoga eassistono a un matrimonio ebraico. In questo inizio di XXI se-colo, il Birobidzhan esiste ancora e la sua lingua ufficiale è lo yid-dish, la mia lingua madre!

Sono nato in un mondo che pensavo ormai risucchiato dalleacque, come Atlantide. Ho sempre sognato di mostrare quelmondo al mondo e di apostrofare i miei contemporanei: «Guar-date! Guardate quelle persone, ascoltatele. La lingua che senti-te, lo yiddish, oggi non la parla quasi più nessuno. Quando erobambino era parlata da più di undici milioni di persone». Ed ec-co che vengo a sapere che esiste un posto dove lo yiddish è an-cora parlato, dove è addirittura insegnato.

Come avrei potuto non precipitarmi laggiù?Ci sono andato in treno, novemila chilometri da Mosca, co-

me gli ebrei degli Anni ’30. Novemila chilometri sono tanti, maa differenza di quelli che li percorsero a bordo di vagoni merciappena riadattati, equipaggiati con grandi stufe centrali che bi-sognava alimentare con ciocchi di legno ammassati nelle sta-zioni, io viaggio sul Transiberiano, con quattro cuccette perscompartimento coperte da vecchi materassi a righe.

«Dove va?» mi domanda con curiosità il controllore capo ve-dendo che sono accompagnato da un fotografo e da un’équipetelevisiva. «A Birobidzhan». «Ah, gli ebrei!», fa lui. E aggiunge,non molto fiero: «Da noi perfino gli ebrei hanno la loro repub-blica». Due minuti più tardi ritorna con una divisa nuova di zec-ca sperando di farsi fotografare. La stazione di Birobidzhan è uncasermone in mattoni rossi, con un’insegna, bene in vista, inrusso e in yiddish. Speravo di incontrare qualche ebreo sul bi-nario. Ne intravedo tre nell’atrio, con la kippahsulla testa. Mi av-vicino. Mi presento e chiedo di cosa stanno parlando. Stanno di-scutendo del nuovo rabbino, troppo giovane secondo loro.Scoppio in una risata tinta di infinita nostalgia, tanto quantoquesti ebrei di Birobidzhan assomigliano agli attori del teatroyiddish della mia infanzia.

Quanti ebrei sono rimasti a Birobidzhan, in questa città di set-tantasettemila abitanti? Non lo sa nessuno. Ufficialmente otto-mila, ma un abitante su due ha una bisnonna o un prozio ebrei,compresi i numerosi coreani e cinesi.

Allo scoppio della rivoluzione bolscevica, gli ebrei nell’impe-ro dello zar erano quasi cinque milioni. Cinque milioni confinatiin zone di residenza, banditi dall’amministrazione pubblica edalle scuole. Eppure si organizzarono, crearono le loro scuole ei loro sindacati, ma restavano i più poveri dei poveri, i più sfrut-tati degli sfruttati. Il giorno in cui i commissari bolscevichi li chia-marono «compagni», in yiddish, si sentirono finalmente rico-nosciuti e aderirono in massa alla Rivoluzione. A partire dagliAnni ’20 e ’30 li si ritrovava in tutte le istituzioni della nuova Rus-sia: la politica, i giornali, la letteratura e il cinema, il teatro e le ar-ti plastiche. I più grandi si chiamano Sergej Ejzenstein, Isaac Ba-bel, Boris Pasternak, Marc Chagall, El Lissitzky, Ossip Mandel’-stam, Vasilij Grossman, Mark Donskoj, David Ojstrach, Emil Gi-lels, Alexis Granowsky, Solomon Michoels…Perfino la sorellamaggiore di Lenin, Anna Uljanova, raccontava a chi voleva sa-perlo che il loro nonno materno, figlio di Moise Blank, di Zhito-mir, era ebreo. Stalin si affrettò a far scomparire questa infor-mazione. Cominciava a trovare i suoi amici ebrei troppo visto-si. E troppo irrequieti. Il presidente del Soviet supremo, il vec-chio Michail Kalinin, ebbe un’idea. Perché non regalare agliebrei una repubblica, una regione autonoma come tutti gli altripopoli dell’Unione Sovietica? In questo modo i loro diritti sa-rebbero stati garantiti e le autorità, senza essere tacciate di anti-semitismo, avrebbero avuto la possibilità di rimuoverli dai nu-merosi posti di responsabilità che occupavano nelle varie re-pubbliche.

Gli ebrei si rallegrarono del progetto. Speravano nel Caucasoe invece ricevettero un pezzo di Siberia, una regione alla fron-tiera con la Cina, sul fiume Amur, che si chiamava Birobidzhan.Le autorità ci spedirono migliaia di famiglie ebree: Stalin preve-deva centomila persone. Molti partirono volontariamente. UnoStato ebraico, e per di più socialista! Mancavano ancora quindi-ci anni alla proclamazione dello Stato di Israele. Per opporsi al-l’ebraico raccomandato dai sionisti, che i comunisti all’epocaconsideravano la lingua della sinagoga, il governo dichiarò loyiddish, la lingua del proletariato ebraico, idioma ufficiale del

Birobidzhan. La guerra e le persecuzioni degli ebrei in Europa enella parte di Russia occupata dai nazisti spingono migliaia diebrei verso il Birobidzhan, l’Israele siberiana, come alcuni lachiamano all’epoca. La vita culturale si sviluppa. L’agricolturaanche. Il kolchoz Waldheim (“La casa della foresta”) diventa unodei più esemplari di tutta l’Unione Sovietica. Nasce addirittura,negli Stati Uniti, un’associazione per aiutare gli ebrei del Biro-bidzhan. La diaspora acquista con entusiasmo macchine agri-cole e medicinali che spedisce ai suoi fratelli in Siberia. Centi-naia di ebrei americani, francesi, argentini, in maggioranza co-munisti, raggiunsero il Birobidzhan per partecipare a questaprima avventura nazionale ebraica.

Ben presto le purghe staliniane frenarono questo slancio ge-neroso. Diciassette anni dopo, nel 1953, la morte del padrone delCremlino aprì le porte del Birobidzhan. Gli ebrei sovietici par-tono in massa verso Israele, svuotando progressivamente la re-gione autonoma della sua sostanza ebraica. La lenta agonia delBirobidzhan, sommata alla scomparsa delle comunità ebraichedell’Europa centrale, segnò la fine della cultura e della linguayiddish. Mi sembrava di essere il testimone della sparizione de-finitiva di quel mondo di cui anch’io, con la mia memoria, la miatradizione e il mio accento, faccio parte.

Appena usciti dalla stazione, capiamo subito dove ci trovia-mo: c’è un monumento che domina la piazza, una menorah, ilcandelabro a sette braccia che è anche l’emblema della regione,appollaiata in cima a una sorta di torre. Qualche metro più in là,un’imponente scultura in bronzo che rappresenta l’eroe popo-lare ebraico inventato da Sholem Aleichem: Tewje il lattivendo-lo. In città ci sono due sinagoghe. La prima, quella grande, è af-fiancata da un altro edificio che ospita un centro culturale eun’associazione di beneficenza. Nella biblioteca trovo, conemozione, i libri di poesie di mia madre. Al primo piano una doz-zina di donne si riuniscono tre volte la settimana per cantare del-le melodie tradizionali yiddish. La seconda sinagoga è un’isba(tipica casa di campagna russa, ndr) degli anni ’40. Ce n’era an-che una terza, più antica, ma è stata distrutta da un incendio.«Era all’epoca di Krusciov», mi dice il rabbino Andrej Lukatski.«Non è da escludere che si sia trattato di un incendio doloso». Ilrabbino mi racconta che suo padre riuscì a salvare dalle fiammei rotoli della Torah, rotoli che lui è riuscito a far restaurare grazieall’aiuto della vicinissima comunità ebraica giapponese. «Livuole vedere?».

Siamo nella sua sinagoga, la sua isba, ornata di un’enormestella di David intagliata nel legno. All’interno, su una panca, ad-dossata al muro, la moglie del rabbino e tre vecchie signore chein inverno vengono qui a riscaldarsi. Il rabbino prende un maz-zo di chiavi e apre non l’armadio che tradizionalmente ospita irotoli della Torah, ma una cassaforte. Commosso, lo aiuto a to-gliere la mantellina di velluto elegantemente ricamata che pro-tegge i rotoli. Il rabbino ha due figli adulti in Israele. Gli chiedo:«E lei, perché non ci va?». Il rabbino si meraviglia della doman-da: «E chi custodirà la sinagoga?». «E quando lei sarà morto?».Andrej Lukatski mi racconta che ha un terzo figlio di sei anni, eche l’ha concepito, insieme a sua moglie, perché si faccia caricodella tradizione quando lui non ci sarà più. «Il ricambio è assi-curato», dice soddisfatto.

L’ex attrice Polina Moissenevna Kleinerman ci tiene a canta-re per me Mein yiddische Mame, “La mia mamma ebrea”. Nonha più voce, ma le restano i gesti e la mimica. La ascolto e pian-

go. È in compagnia di questa piccola comitiva che visito il vec-chio cimitero di Birobidzhan. Polina Kleinerman non ha di-menticato di portarsi dietro una busta riempita di sassolini, inmodo che ognuno di noi, secondo la tradizione ebraica, possalasciarne uno sulle tombe a testimonianza del suo passaggio.

Birobidzhan non è soltanto una città. È una vasta regione,grande il doppio del Belgio, annunciata al suo ingresso da unedificio monumentale con un’iscrizione in caratteri cirillici edebraici. I kolchoz ormai sono chiusi, come in tutta l’Unione So-vietica, ma alcuni ebrei hanno acquistato dei pezzetti di terrache continuano a coltivare. Ziama Michailovic Geffen ha no-vantadue anni. Sta appoggiato a un bastone mentre ci mostra ilsuo cortile e le sue capre. «Capiscono lo yiddish!», dice ridendo.Il suo occhio azzurro si anima quando rievoca il suo arrivo nellaregione. Era proprio all’inizio, negli Anni ’30. Aveva undici anni.«Non c’era niente qui, nient’altro che la taiga. Abbiamo fatto tut-to noi. Abbiamo dissodato i campi, costruito la città, la stazione,le scuole. Abbiamo perfino lanciato un giornale…». Il Biro-bidzhaner Stern, “La stella di Birobidzhan”, esiste ancora. Origi-nariamente era un quotidiano, pubblicato integralmente inyiddish. Oggi è un settimanale in russo, con soltanto quattro pa-gine in yiddish. La direttrice non è ebrea. Elena Ivanovna Sara-shevskaja, che ha appena trent’anni, ha sposato un ebreo e haimparato lo yiddish all’università. Quanti lettori ha il giornale?Non sa rispondere. La tiratura è di cinquemila esemplari ven-duti nelle edicole. Ne compro due copie come ricordo. Dopoaver scelto due riviste in russo un uomo, piuttosto giovane ebiondo, ne prende una copia anche lui. Gli chiedo se è ebreo.«No. Lo pensa perché ho comprato il Birobidzhaner Stern? Locompro tutte le settimane. Mi piace sapere che succede tra gliebrei. Con loro c’è sempre da imparare…». La sua risposta mi ri-corda quell’altro abitante del Birobidzhan che cercava dellavodka kasher al mercato. Quando gli ho chiesto il motivo, mi harisposto: «Se è una vodka ebraica, sicuramente dev’essere piùbuona». È forse questo il motivo del successo della trasmissioneYiddishkeit (“Ebraicità”), che va in onda sulla televisione localee che offre un’introduzione alla cultura e alle tradizioni ebrai-che? «Prima», mi dice Tatjana Kandinskaja, la presentatrice, «fa-cevamo la trasmissione in yiddish. Oggi non ci sono più moltiche lo capiscono. Ma da quando siamo passati al russo, questatrasmissione è diventata una delle più popolari della nostra re-te e viene mandata anche alla radio». Nella macchina coreanache ci porta in giro per la città, cerco di sintonizzarmi sulla suatrasmissione. A Birobidzhan tutti girano a bordo di macchinecoreane, con il volante a destra. Qui la Corea è vicinissima e l’Eu-ropa, distante diecimila chilometri, è qualcosa di vago e indi-stinto. Finalmente sento la voce di Tatjana Kandinskaja. An-nuncia una puntata sul significato dello shabbat e le tradizioniculinarie che accompagnano questo giorno di riposo. Tra qual-che minuto tutti sapranno come si prepara il Gefilte fish, la car-pa farcita. Nell’attesa si sente la voce profonda di un uomo checanta: «Ho traversato oceani e continenti e non ho trovato nes-sun paese bello come il mio Birobidzhan».

Arriviamo davanti al Teatro nazionale ebraico, inauguratonel 1936 dal numero due del regime di Stalin, Lazar Kaganovicin persona. Quando entro nella sala, gli attori stanno provandouna commedia musicale, I cercatori di felicità, da un film di pro-paganda realizzato nel 1936. Rimango turbato a vedere questigiovani che ballano e cantano sul ritmo della musica di IsaacDunajevskij: «Addio America, addio Europa, buongiorno patrianostra, nostro Birobidzhan». Eppure siamo nel XXI secolo e loStato di Israele esiste da quasi sessantacinque anni. Ma qui, con-trariamente a Israele, si studia lo yiddish. In una classe che visi-to, una giovane maestra insegna l’alfabeto ai bambini. Sconvol-to dal fatto di ritrovarmi a casa, sì, a casa, a più di undicimila chi-lometri da Parigi, incrocio uscendo una cinese, madre di uno de-gli alunni, e le domando: «Perché fa imparare lo yiddish a suo fi-glio?». Lei mi risponde: «Può servire…». Scoppio a ridere. I cine-si sono un miliardo e duecento milioni e gli ebrei appenaquattordici milioni. E tra di loro, solo una manciata ormai parlaancora lo yiddish!

Ho sempre pensato che Hitler avesse perso le sue due scom-messe: cancellare gli ebrei dalla faccia della Terra e trasformar-li in qualcosa di diverso dagli esseri umani. Credevo però che suun punto avesse avuto successo: distruggere una civiltà ebraica,la civiltà dello yiddish. Credevo che il nazismo avesse annienta-to completamente quel mondo. E ora quaggiù, nel Birobidzhan,quel mondo è ancora vivo e pulsante, come l’eco lontana di unaciviltà ferita. Seppellire la memoria, e in particolare la memoriadi una lingua, è più difficile che seppellire i corpi.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Fondata da Stalin ottant’anni fa, celebratacome “l’Israele siberiana” e poi dimenticata,

la prima repubblica ebraica ancora oggiè uno sperduto baluardo della cultura e della lingua yiddishA riscoprirla ci ha pensato uno scrittore che qui raccontail suo viaggio felice ai confini della memoria

L’AUTORE

Scrittore, ma anche pittore

e fondatore con Bernard-Henri Lévy

del movimento SOS Racisme,

Marek Halter nasce nel 1936

in Polonia, la madre poetessa

in lingua yiddish, il padre tipografo

A cinque anni fugge con i genitori

dal ghetto di Varsavia. La famiglia

si rifugia in Russia e poi in Francia

dove Halter ancora vive

Collabora con numerose testate

tra cui Libération, Paris Match,

El Pais e Repubblica. Il suo ultimo

libro uscito in Italia è Il cabalista

di Praga (Newton Compton)

C

Repubblica Nazionale

Page 5: LA DOMENICAdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2012/04032012.pdfIl libro ALESSANDRO BARICCO Una certa idea di mondo: “Goldman e la fiaba della principessa” Zen, scienza e Lsd,

LA SCUOLA. Una giovane maestra insegna l’alfabeto yiddish

ai bambini: la maggior parte di loro non sono ebrei

IL GIORNALE. Halter davanti alla sede del Birobidzhaner Stern:

nato in yiddish, ora è un settimanale scritto in russo

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A TAVOLA. La colazione dentro la sinagoga: la donna seduta

al centro è una ex attrice, Polina Kleinerman

IL PASTORE. Ziama Michailovic Geffon è il più vecchio

lavoratore dell’antico kolchoz: parla in yiddish alle sue capre

LA STAZIONE. Tre amici con la kippah davanti alla stazione di Birobidzhan, un casermone in mattoni rossi, con l’insegna bene in vista in russo e in yiddish: vivono qui da quando erano piccoli

LA SINAGOGA. La più vecchia delle due sinagoghe della città

è ospitata in una isba degli anni Quaranta

IL CIMITERO. I fedeli rendono omaggio a un amico scomparso

nel vecchio cimitero ebraico di Birobidzhan

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Ritiri zen sulle spiagge della California, esperimenti di telepatia,lezioni di yoga e di buddismo, spinelli e l’Lsd. Ma anche rigoree preparazione. Ecco il libro che racconta l’avventura di un gruppo di studiosi “scontenti, squattrinati e sottoccupati” che rivoluzionò la teoria quantistica

La storiaIlluminazioni

ANTICONFORMISTIIl Fundamental

Fysiks Group

nel 1975:

da sinistra,

Jack Sarfatti,

Saul-Paul Sirag,

Nick Herbert,

Fred Alan Wolf

Nella foto grande

al centro, terapia

di gruppo durante

un incontro

all’Esalen Institute,

a Big Sur,

in California,

nel 1968

FisicaSAN FRANCISCO

In un prossimo futuro i nostri dati per-sonali più preziosi, dal conto banca-rio alla carta di credito, forse sarannofinalmente al sicuro dai furti degli

hacker informatici. Se questo accadrà, saràuna delle applicazioni della crittografiaquantistica. La stessa tecnologia, secondol’astronomo John Gribbin della Universityof Sussex, consentirà il tele-trasporto di par-ticelle che sarà alla base di una nuova gene-razione di “quantum computer”: la loro po-tenza sarà tale che «i nostri pc attuali ci sem-breranno dei pallottolieri». La teoria quanti-stica è un ramo della fisica delle particelle eoggi attira migliaia di ricercatori nel mondointero. Riceve finanziamenti per miliardi didollari dalle grandi università e fondazioniscientifiche in America e non solo. Ma appe-na quarant’anni fa gli studi di fisica erano inuno stato di profonda crisi: la guerra del Viet-nam concentrava i fondi nel Pentagono; lostesso conflitto del sudest asiatico avevaspinto Washington a inviare al fronte anchemolti giovani dottorandi (abrogando il privi-legio del rinvio del servizio militare per gliuniversitari); i campus delle facoltà ameri-cane erano paralizzati dalla contestazionepacifista; una grave crisi economica provo-cata da shock petrolifero e stagflazione ina-ridiva le spese per la ricerca pura. Quelli checontinuavano a occuparsi di fisica erano perlo più degli “integrati” al servizio del com-plesso militar-industriale.

A rilanciare gli studi di fisica quantistica cipensarono gli hippy californiani. Per la pre-cisione, un gruppo di giovani studiosi «scon-tenti, squattrinati, sotto occupati e semprecuriosi», si riunì all’università di Berkeley,sulla baia di San Francisco, per «liberarsi dalconformismo accademico e avventurarsinell’esplorazione del lato selvaggio dellascienza». Fondarono un club esoterico, ilFundamental Fysiks Group, i cui metodi diricerca erano a dir poco eterodossi. Si riuni-vano come congiurati in luoghi di ritiro zensulle spiagge californiane. Passavano oreimmersi in vasche di idromassaggio. Fuma-vano marijuana e qualcuno sperimentaval’Lsd. Si appassionavano di religioni orienta-li e trasmissione del pensiero. La loro storiaviene ricostruita da un altro scienziato, Da-vid Kaiser del Massachusetts Institute of Te-chnology (Mit), autorevole esponente dellastessa disciplina: è stato eletto Fellow dell’A-merican Physical Society. Come gli hippysalvarono la fisicaè la sua opera. Sottotitolo:Scienza, contro-cultura e il revival dei quan-tum. Questo libro è anche un gesto di grati-tudine. Kaiser, che era un liceale quando «glihippy salvarono la fisica», confessa di averesubìto «un’attrazione e un fascino per le ope-re di quel gruppo di giovani scienziati»: perlui fu la nascita di una vocazione.

I personaggi al centro di quell’epopea so-no pittoreschi. Fred Alan Wolf, socio fonda-tore del Fundamental Fysiks Group, è de-scritto come un «attore di vaudeville dellaNew Age», seguace del guru delle droghe psi-chedeliche Timothy Leary, convinto di poterraggiungere poteri paranormali di comuni-cazione extrasensoriale. L’italo-americanoJack Sarfatti, un altro membro dello stessoclub, riceveva i finanziatori a cui chiedevafondi per le ricerche in una saletta privata alCaffè Trieste, mitico ritrovo nel quartiere ita-liano North Beach di San Francisco. FritjofCapra divenne il più celebre nel 1975 graziea un best-seller rimasto un classico di quel-l’èra: Il Tao della fisica. Quasi altrettanto suc-cesso ebbe Gary Zukav con il libro I maestridanzanti Wu Li. Una volta all’anno, la riu-nione del gruppo avveniva sulla costa di BigSur, presso l’Esalen Institute, fra sessioni diyoga, lezioni di buddismo, e happening col-lettivi di autocoscienza. Erano a tutti gli ef-

fetti “figli dei fiori”, tipici rappresentanti diun’epoca in cui la California era attraversatadalla corrente della New Age, quando i gio-vani si riunivano a vivere in campagna nellecomuni egualitarie e ambientaliste, conte-stavano al grido di «fate l’amore non la guer-ra», ascoltavano Jimi Hendrix e Janis Joplin,i Grateful Dead e Jefferson Airplane.

Il fenomeno degli scienziati hippy nonpassò inosservato neppure in quegli anni.Tra i più acuti nell’avvistarlo ci fu un certoFrancis Ford Coppola, la cui carriera di regi-sta spiccava il volo proprio allora. Con i soldiguadagnati grazie a Il Padrino e alla produ-zione di American Graffiti, l’italo-california-no Coppola si comprò il magazine City of SanFrancisco. Uno dei primi numeri della rivistasotto la sua direzione fu dedicato ai «nuovi fi-sici che lavorano con la telepatia e s’immer-gono nel subconscio per sperimentare lamobilità psichica». Dalla lettura del pensie-ro alla reincarnazione, dalla comunicazione

con gli extraterrestri al misticismo induista,la confusione dei generi era totale. Eppure,come spiega Kaiser, «quel gruppo di outsi-der, di emarginati e di reietti riuscì a ravviva-re la fiamma della scienza». Perché dietro leapparenze hippy c’erano «veri scienziati,con solide basi di preparazione, metodi an-ticonformisti eppure rigorosi». Del resto c’e-ra una sottile continuità tra loro e il gruppo dipionieri della meccanica quantistica, cioèAlbert Einstein, Niels Bohr, Werner Heisen-berg, Wolfgang Pauli, Erwin Schroedinger:anche loro erano tutt’altro che “aridi” scien-ziati, adoravano discutere di filosofia, politi-ca, massimi sistemi. Le implicazioni delle lo-ro scoperte li portavano a spaziare in campimolto diversi dello scibile umano. Anche i“padri”, come dimostra il pacifismo di Ein-stein, avevano perseguito strade anticonfor-miste e contestatrici. Che i fisici hippy nonfossero degli sprovveduti, lo dimostra il fattoche uno dei loro saggi, Quantum Reality di

Scienza, droga e rock’n’roll

HippyFEDERICO RAMPINI

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ECCENTRICOL’italo-americano Jack Sarfatti nel 1979:

riceveva i suoi finanziatori al Caffè Trieste

di North Beach, a San Francisco

MISTICOFritjof Capra presenta Il Tao della fisicanel 1977: teorizza l’avvento di un nuovo

paradigma ispirato al misticismo orientale

Nick Herbert, è tuttora usato come manualenelle facoltà di fisica americane.

Scavando sotto la superficie tutta “sessodroga e rock’n’roll”, Kaiser individua in duecontributi decisivi l’eredità rivoluzionariadel gruppo riunito a Berkeley negli anni Set-tanta. I ragazzi del Fundamental FysiksGroup si misero in testa di poter trasmetteredei segnali a una velocità superiore a quelladella luce. Un obiettivo impossibile, in basealla teoria della relatività di Einstein. La ri-cerca sui “segnali superluminali” fu conte-stata da altri fisici, i quali però furono co-stretti a dimostrare l’errore, approfondendole conoscenze sui quantum. Due dei fisicihippy, Herbert e John Clauser, fecero espe-rimenti sul cosiddetto teorema di Bell, se-condo cui due particelle subatomiche unavolta entrate in contatto resteranno allaccia-te anche dopo essere state allontanate: unprincipio da cui altri arrivarono alla possibi-lità di criptare i messaggi per renderne im-possibile l’intercettazione. È in questo pro-cesso di “refutazione” che alla fine si arrivòallo sviluppo della crittografia quantica, lecui potenziali applicazioni cominciano soloora a essere comprese. Kaiser traccia un pa-rallelo con quel che era accaduto nell’Otto-

cento quando alcuni scienziati si erano mes-si in testa di mettere a punto le macchine delmoto perpetuo: lo sforzo dei loro colleghi-avversari di dimostrarne l’impossibilità fececompiere dei progressi decisivi nella com-prensione delle leggi termodinamiche.

L’altro lascito dei fisici hippy fu perfino piùimportante nel lungo periodo. Grazie al suc-cesso di libri come Spazio-Tempo e oltre diSarfatti, oltre al Tao della fisicadi Capra, unagenerazione di giovani cominciò a sentirsiattratta dagli studi di fisica nucleare. Im-provvisamente quell’orientamento di studinon fu più associato con l’asservimento allestrategie militari della Guerra fredda. Neicampus delle accademie scientifiche si mol-tiplicarono i corsi con titoli come “The Zen ofPhysics”. Fu l’inizio di un lungo boom nelleiscrizioni a quelle facoltà. Se Bill Gates e Ste-ve Jobs resero sexy l’informatica negli anniOttanta, nel decennio precedente i giovaniscienziati cultori dell’Lsd e della New Ageerano riusciti a rendere cool una delle scien-ze più complesse e raffinate. E questo fu unodei fiori sbocciati davvero, nel clima caoticoe trasgressivo dei movimenti che ribollivanonella baia di San Francisco quarant’anni fa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

IL LIBROCome gli hippie hannosalvato la fisica di David

Kaiser (Castelvecchi,

380 pagine, 22 euro)

è ora in libreria. A destra,

la bozza di un articolo

del 1973 di Jack Sarfatti

e Fred Alan Wolf. Sopra,

i partecipanti a una

conferenza di fisica teorica

della fondazione est nel ’78:

al centro Stephen Hawking

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Jeanne Moreau col fiatone portata in braccio da Jules e Jimdopo aver giratola sequenza simbolodella Nouvelle VagueÈ uno degli scatti di Raymond

Cauchetier,fotografo di scenaOra, novantenne, viene celebrato

a Parigi e Los Angeles“E pensare

che ci pagavanocome manovali”

SpettacoliRivoluzioni

PARIGI

a scena dura trenta secondi. Jeanne Moreau corre a perdi-fiato sopra un cavalcaferrovia con i suoi spasimanti, HenriSerre e Oscar Werner, che la inseguono. Sembrano spicca-re il volo. Di quello slancio di libertà è rimasta un’immagi-ne, l’icona del film, Jules e Jim, ma anche di un movimentoche ha segnato per sempre il cinema. Raymond Cauche-tier era accanto a François Truffaut con la sua Rolleiflex,macchina fotografica solitamente usata nei reportage diguerra e che lui aveva preso in Indocina, arruolato nell’aviazio-ne militare. Nello scatto successivo si vede Moreau, esausta,portata in braccio dai due uomini dopo le riprese. In un altromomento inedito l’attrice gioca a fare la maglia.

Cauchetier è l’occhio nascosto. Dietro la telecamera, e dietroi registi. Per dieci anni spettatore di alcuni dei più grandi set del-la Nouvelle Vague, ha catturato tutto ciò che ruota intorno aquella strana umanità di celluloide. Mentre Truffaut, Jean-LucGodard, Agnès Varda, Claude Chabrol e tanti altri reinventava-no il modo di girare, lui trasformava lo sguardo del backstage.«Quando ho capito cosa stava accadendo, mi sono detto chedovevo comportarmi come un giornalista davanti a una rivo-luzione» racconta lui, novantaduenne, celebrato in questi gior-ni da due mostre, alla galleria Polka di Parigi e all’Academy ofMotion Pictures Arts and Science di Los Angeles. All’inizio de-gli anni Sessanta, il fotografo di scena era ancora consideratodalla troupe come un fastidioso intruso. Poteva scattare solo unattimo dopo che il regista urlava «Coupez!». Gli attori restavanoin posa, lui doveva limitarsi a ricalcare la stessa inquadratura,fornire un prodotto immediato per la promozione. «Prima dime non veniva riconosciuto un valore artistico al nostro me-stiere. Eravamo pagati come i manovali. Alcuni registi ci consi-deravano delle spie del produttore che spesso scrutava le no-stre immagini per sorvegliare le riprese, vigilare sull’opera in di-venire». Tutto parte da un’intuizione, racconta Cauchetier:«Ogni set racchiude una storia che integra e completa il verofilm». Quell’avanguardia un po’ folle diventa così un album dasfogliare. Nel 1959 Godard sta parlando in un café con Jean Se-berg e Jean-Paul Belmondo prima delle riprese di A bout de souf-fle. Lo guardano perplessi. Gli attori iniziano la giornata senzacopione. Il regista scarabocchia qualche foglio, spiega frettolo-samente. Sul tavolo, una tazza di caffé, il mensile Positif. Ciak,si gira. E Cauchetier è il primo testimone di quest’improvvisa-zione permanente. Mostra la telecamera nascosta in un carrel-lo della posta che segue Seberg e Belmondo sugli Champs-Ely-sées. Riprende la stanza 12 dell’Hotel de Suéde, rive gauche, do-ve in pochi metri quadrati si gira la scena d’amore. Senza luceartificiale, né fonico. Il regista sussurra le battute agli attorimentre stanno recitando. Seberg, che ha già lavorato con il di-spotico Otto Preminger, minaccia di andarsene. «Godard ave-va un disprezzo totale delle regole cinematografiche, non face-

“Prima e dopoc’era un altro film”

LANAIS GINORI

BackstageL’uomo

il che inventò

SUL SETGodard spinge

l’operatore seduto

in carrozzella durante

le riprese di A boutde souffle (1960)

A destra, i protagonisti

Jean Seberg

e Jean-Paul Belmondo

IMMAGINIIn alto, in senso

orario: Jeanne

Moreau

fa la maglia

con Sabine

Haudepin

sul set di Julese Jim (1961)

di François

Truffaut;

Anouk Aimée

in Lola (1960)

di Jacques

Demy; Jean-Luc

Godard e Raoul

Coutard (dietro

la telecamera)

mentre girano

La donna è donna (1961)

Nella pagina

accanto,

Jeanne Moreau

corre sul

cavalcaferrovia

inseguita

da Oscar Werner

e Henri Serre

in Jules e Jim

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va neanche i raccordi per il montaggio». Cauchetier si adatta, ri-scrive anche lui i canoni della sua professione, inventa una nar-razione propria. Incomincia a muoversi intorno al set, ruban-do momenti di ansia, discussioni, esplosioni di felicità.

Oggi è anche grazie al suo archivio che si può capire come la-voravano quei giovani artisti con pochi mezzi e tanta fantasia.Godard che spinge l’operatore seduto in carrozzella, come unamacchina bionica. Claude Chabrol che fa il pagliaccio. «Amavafare le smorfie, sapeva che non avrei resistito alla tentazione discattare». Truffaut a bordo di una Citroen 2Cv riadattata per leriprese di Adieu Philippine. «Era un talento puro, un inquieto,aveva bisogno di essere costantemente rassicurato».

Nella sua casa parigina, Cauchetier conserva migliaia di scat-ti, la memoria di un’epoca, ha fatto la cronaca della genesi ditanti capolavori. Per molto tempo, non ha avuto neppure ilcopyright delle sue immagini. Solo nel 1992, grazie a una leggesul diritto d’autore, si è rimpossessato dei suoi archivi, conqui-standosi la stima di molti cultori di quel cinema. Mezzo secolodopo, gli resta un po’ di nostalgia. È convinto che il suo sia unmestiere finito. Molte produzioni tagliano i costi del fotografodi scena. Con le riprese in digitale è possibile avere un’instan-tanea direttamente dal girato. Il dietro le quinte si è spettacola-rizzato con video, interviste, director’s cut. Lo chiamano “bo-nus”. Forse non è più tempo di bizzarre utopie.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Dai tempi dello studio sy-stem, le fotografie di sce-na hanno avuto sempre

una funzione fondamentale perpropagandare il mito del cine-ma, e in particolare il cuore diquesto mito: i divi, con la loro

prossimità e abissale lon-tananza. Ma negli an-

ni della Nouvelle Va-gue, in tutto il mon-do cambia qualco-sa. Intanto, in questi

film girati con appa-recchiature più legge-

re, con troupe ridotte, dagiovani, si ha un rapporto

meno rigido, meno ufficiale,con la macchina-cinema. Fareun film è un’avventura, una sco-perta, o come aveva scritto Truf-faut «un atto d’amore». E il foto-grafo di scena coglie momentiche non sono più quelli, sempreun po’ artificiali, del cinema fat-to negli studios.

Ma c’è anche un altro dato. Inquegli anni è sempre più il regi-sta stesso a diventare nome, di-vo quasi. E la foto di scena, oltreche ritratto di volti famosi, di-venta anche ritratto d’artista, diuomini che fanno il cinema. Nelcinema italiano, se Rosselliniera soprattutto soggetto da ro-tocalchi per le sue turbinose sto-rie d’amore, il primo vero regi-sta-divo è Federico Fellini. Ladolce vitaè un crocevia anche inquesto, e porta oltretutto alloscoperto il connubio con un al-tro genere di foto “di cinema”,

meno nobili: quelle dei papa-razzi, che proprio esso bat-

tezzava. I film francesi immorta-

lati da Cauchetier hannoin più un tono di gio-

ventù all’arrembaggio, di scam-pagnata tra coetanei, ma anchedi sfida assai seria. Ma negli an-ni successivi, anche i cosiddettimovie brats (la generazione diSpielberg, Coppola, Scorsese)vanno all’assalto di Hollywood,e anche lì restano famose foto diquesti trentenni, talvolta bar-buti, alle prese con macchineproduttive a volte colossali. Leimmagini più toccanti, però, ri-mangono forse quelle di un out-sider come John Cassavetes, at-torniato da un gruppo di attori-amici, impegnati a concepire ifilm come un happening o unoscavo crudele. Mentre nel frat-tempo le foto dei divi in scena efuori si fanno assai meno gla-mour, con le facce umanissimedi De Niro o Dustin Hoffman.

Oggi, in Italia, le foto di scenasono un ambito che ha vistoemergere talenti notevoli (ba-sti citare tra i tanti, Angelo Tu-retta o Philippe Antonello), an-zi forse è uno dei generi checonsentono una creatività par-ticolare, tra realtà e finzione.Specie quando lo sguardo suifilm è anche sguardo sui luoghiche le troupe attraversano, su-gli angoli di una penisola che iregisti riscoprono (talvolta) disaper guardare. E nell’incrociotra set, fotografo e regista va ri-cordato anche un exploit para-dossale: il viaggio di Ferdinan-do Scianna sul set di Baarìa, inTunisia, ma a film finito, a visi-tare i fantasmi del cinema e del-la memoria.

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Così il pubblico scoprìche a fare il cinema sono i registi

EMILIANO MORREALE

Repubblica Nazionale

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NextPassaparola

Si compra un testo elettronico su Amazon, lo si scorre e lo si sottolinea su Kindle. Le notefiniscono in un sito insieme a quelle degli altri lettori Così si condividono frasi, passaggi,pensieri. Così nasce il meta-libroe così cambierà il nostro modo di leggere

CATCHING FIRE

di Suzanne Collins

“Perché a volte le cose

accadono alle persone

e queste non sono

in grado di affrontarle”

frase sottolineata

13.983 volte

Primaviene la Bibbia. Seconda la bio-grafia del profeta Steve Jobs. Al sestoposto le tavole delle legge di TimothyFerris, il guru di 4 ore alla settimanaper il tuo corpo («Regola numero 1:evitate i carboidrati “bianchi”»). So-

no tra i libri più sottolineati di Amazon, riduzio-ne digitale della biblioteca di Babele. La classifi-ca è affidabilissima perché siamo noi a compi-larla quando, leggendo un ebook, evidenziamocon un dito un passaggio che ci piace. A quelpunto l’algoritmo calcola quante altre personehanno segnato lo stesso titolo o apprezzato lastessa frase e compila la graduatoria sul sito. Co-sì la lettura diventa statistica. I libri degli altri di-ventano i nostri. Non necessariamente dall’ini-zio alla fine, magari solo alcune righe rimarche-

voli. Tra qualche anno, alla domanda «l’hai let-to?», si potrà rispondere senza mentire «sì, masolo le dieci frasi più annotate». ProbabilmenteBorges non sarebbe contento. Bauman, invece,potrebbe intenderlo come l’ennesimo invera-mento della «modernità liquida», con tutta laframmentarietà che l’accompagna.

Filosofie a parte, il salto è davvero forte. E di re-cente sempre più persone si sono convinte a far-

lo. L’inglese Penguin ha appena annunciato chei suoi introiti da ebook sono raddoppiati in unanno e costituiscono il 12 per cento del fattura-to. Sempre in Gran Bretagna è avvenuto il sor-passo dei titoli elettronici rispetto alle nuoveuscite in brossura, 35mila contro 28mila nel2011. Accelerazione fortissima anche in Italia:1.600 titoli nel 2009, 7.000 un anno dopo e quasi20mila all’ultimo Natale. Il problema, da noi, è

che tanta offerta partorisce per ora lo 0,1 per cen-to del fatturato. Ma a giudicare dall’attivismoeditoriale sembra chiaro a tutti che il conto eco-nomico cambierà in fretta. Chi supera l’ostaco-lo culturale difficilmente torna indietro. L’argo-mento dei tradizionalisti è quello cui Luciano DeCrescenzo aveva appiccicato un’etichetta for-tunata: «libridine», ovvero il godimento di averetra le mani l’oggetto di carta. L’esperienza tatti-le si perde, e non è perdita da poco, ma quella co-gnitiva viene aumentata in così tanti modi chenel complesso la compensa con gli interessi.

Riassumendo, una volta comprato un titolo,con un risparmio minimo di un terzo rispetto alprezzo cartaceo, si può leggere su Kindle, il let-tore della casa, o sulle app gratuite per visualiz-zarlo su smartphone, tablet o computer. A quelpunto si possono sottolineare delle parti e ancheaggiungere commenti propri. Gli uni e gli altri

Il romanzo a più maniscritto coi nostri touch

RICCARDO STAGLIANÒ

Questo è probabilmente il mio ultimo librocartaceo perché l’attenzione ormai è altroveLa gente trascorre sempre più tempo su cose che succedono sugli schermi Non è mancanza di amore per i libri, è che il centro della cultura si è spostato

‘‘

MOCKINGJAY

di Suzanne Collins

“Ci vuole dieci volte

più tempo per rimettere

insieme che per fare

a pezzi”

frase sottolineata

8.482 volte

ORGOGLIO E PREGIUDIZIO

di Jane Austen

“È verità universalmente

riconosciuta che uno

scapolo con un solido

patrimonio debba essere

in cerca di una moglie”

frase sottolineata 8.340 volteKevin Kelly fondatore di Wired

WIKI20milaI titoli di ebook in Italia nel 2011:

nel 2009 erano 1.600

35milaI titoli elettronici in Gran Bretagna nel 2011:

hanno sorpassato le nuove uscite in brossura (28mila)

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 4 MARZO 2012

Ebook Epub Kindle

La funzione

che Amazon offre

ai suoi utenti

per archiviare

i libri online

e “ripassare”

le annotazioni

Daily ReviewSi vedono le frasi

sottolineate

in schede singole,

versione digitale

delle flash card

cartacee usate

dagli studenti

Flash card

verranno “salvati” sui server di Amazon e lì re-steranno per consultazione. Ed è qui che il valo-re aggiunto si manifesta. Di ogni volume apparela lista delle sottolineature. Potete vederle una diseguito all’altra e, in colore diverso, anche quel-le altrui. Per una banale considerazione di “in-telligenza collettiva”, se centinaia di personehanno sottolineato un passaggio che a voi è sfug-gito, può valere la pena dargli un’occhiata. Perfavorire il ripasso Amazon si è inventata la fun-zione “Daily Review”. Cliccandoci sopra vedre-te le sottolineature una scheda per volta, comele flashcard mnemoniche che usano gli studen-ti americani di ogni ordine e grado. Ed è provatoscientificamente che ripercorrere i propri ap-punti aumenta in maniera significativa la riten-zione delle informazioni. Ideale per la saggisti-ca, ma anche per la narrativa non dispiace.

La prospettiva più entusiasmante si apprezza

nel lungo periodo. Perché se cominciate a leg-gere tutto in formato elettronico vi costruite unarchivio personale cercabile per parole chiave.Sorprendentemente per il momento non si puòfare dal sito, ma è solo questione di tempo (e co-munque esistono vari stratagemmi per esporta-re le note in formato testo e ricercarle libera-mente). Mentre è già possibile all’interno del let-tore o dalle app. Vi ricordate solo un pezzo diquella bella citazione che inizia con «solum cer-tum» in quello strepitoso libro sulla vita di Mon-taigne? Basta digitare anche solo un termine e latrovate tutta («l’unica cosa certa è che niente ècerto»), compresa la rivelazione della paternitàdi Plinio il Vecchio. Provate a farlo sfogliandoquel malloppo da 450 pagine e ne riparliamo. Lasomma delle vostre letture diventa conoscenzaattivabile on demand, anche quando i neuronifanno le bizze e le sinapsi si incantano. Lo stesso

Borges, che ha scritto della memoria totale di Fu-nes, stavolta apprezzerebbe.

Ma non è che l’inizio delle cose in più che l’e-book di Amazon consente rispetto alla concor-renza digitale e a quella analogica. Una volta re-gistrato al sito, per dire, Kindle vi assegna un in-dirizzo di posta elettronica dedicato. Basteràspedirgli un qualsiasi file pdf personale, un ar-ticolo lungo da leggere con calma, un rapporto,tutto ciò che non volete stampare, perché il si-stema lo renda leggibile e ben impaginato.Niente cavi. Niente complicate sincronizza-zioni. Giusto un’email. Questi ebook possonoanche essere prestati a chi volete: basterà auto-rizzare un nominativo e, nel tempo che l’avràlui, non potrete leggerlo voi. Per non dire del di-zionario incorporato che traduce e spiega ogniparola evidenziata.

Fosse ancora vivo Roland Barthes, forse ri-

spolvererebbe per l’occasione la sua dicotomiatra «testi leggibili» e «testi scrivibili». I primi, sem-plificando molto, sono quelli che non chiedonoun grande sforzo al lettore, offrendogli immagi-ni pronte al consumo. I secondi pretendonoun’interazione più forte, che completa il lavorodello scrittore. In qualche modo è ciò che succe-de qui, con le glosse della comunità dei lettoriche si moltiplicano e si stratificano, aggiungen-do livelli di senso. Ma non è per questo che l’al-tra sera ho annullato l’ordine della versione ta-scabile di The Big Shortdi Michael Lewis — il mi-glior libro in circolazione sulla crisi — per sosti-tuirlo con quella Kindle. Per quanto sia scrittobenissimo, la materia — tra derivati, credit de-fault swaps e altre tecnicalità finanziarie — è er-metica. Il ripasso elettronico sarà indipensabile.E tanto, tanto più comodo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LA BIBBIA

“Credi in Dio con tutto

il tuo cuore, e non peccare

di presunzione

Cerca in tutti modi

di conoscerlo, e Lui

ti indicherà la strada”

frase sottolineata

1.100 volte STEVE JOBS

di Walter Isaacson

“Fingi di avere

tutto completamente

sotto controllo

e le persone penseranno

che ce l’hai”

frase sottolineata

3.748 volte

Frai motivi per preferire il libro all’ebook, gli appunti a marginearrivano normalmente per secondi, subito dopo l’odore dellarilegatura. In realtà ora annotare libri elettronici si può anche

ma siamo molto lontani da quello che Roland Barthes chiamava «ilpiacere di costellare (étoiler) il testo». La procedura è tuttora troppofarraginosa e tocca agire con tastiere progettate da qualcuno cheodia la scrittura più di quanto ne diffidasse il dio Thamus di Platone.

Il grado zero della chiosa è la sottolineatura semplice, a mano li-bera o con righello, quest’ultimo tratto distintivo di tipi assai preci-si o così parsimoniosi da prevedere la rivendita del volume sotto laspecie merceologica: «in buono stato». Attorno: esclamativi, frecce,note, lampadine, interrogativi, irrisioni, insulti. Si proclama così iltesto come geniale, confutabile, stupido o anche trascurabile,quando nulla lo costella o addirittura sui suoi margini vi appaianoappunti relativi ad altro o scarabocchi insensati. Altre scelte checompongono l’identikit del chiosatore: matita, penna, pennarelloo evidenziatore? Sottolineare quasi tutto (gente ansiosa, portata aimparare a memoria anziché assimilare) o quasi nulla (per lettoriche si sentono superiori al libro)? Si è anche visto usare, in funzionedi «controevidenziatore» un raccapricciante pennarello nero, concui cancellare le parti del testo non utili per l’esame (secondo l’usodell’artista Emilio Isgrò).

A parte l’ultimo caso, chiosare i libri non implica mancanza di ri-spetto. C’è differenza (e ce lo insegna proprio l’ebook) tra amare il li-bro e amare il testo. Ma anche l’amore per il libro se esclude il desi-derio di compenetrare il testo diventa devozione sterile. Per chi ri-spetta così tanto la carta dei libri da non volerci scrivere sopra c’è unasoluzione riguardosissima: l’ebook.

Piccole chiosesui margini dell’amore

STEFANO BARTEZZAGHI

EBOOK© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il libro elettronico

è un file di testo

che può essere

visualizzato

su un apposito

lettore digitale

Abbreviazione

di electronicpublication, in Italia

è uno dei formati

di ebook

più diffusi

In America

di gran lunga

prevalente

è il formato .mobi,

ovvero quello

leggibile su Kindle

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 4 MARZO 2012

Vengono prodotti con l’arrivo della bella stagione, il loro nome varia da regione a regione, si adeguano ai paesi e ai dialetti. Ma il concetto non cambiaPerché, dalle malghe valdostane al Lazio e alla Gallura, il latte sano si sposa con le essenze finissime dell’erba nuova

I saporiVerde & bianco

Marzolini

«Igiardini di marzo si vestonodi nuovi colori», cantava Lu-cio Battisti. E insieme aigiardini, gli orti, i prati, lacampagna intera, pronta ascrollarsi di dosso il gelo del-

l’inverno. Dal verde che fa capolino tra le zol-le bruciate dal freddo alle primule con cui ral-legrare il terrazzino di casa, la voglia di pri-mavera ci assale, anche a tavola. Marzolini, lichiamano. Sono i formaggi figli della nuovastagione. Da regione a regione, il nome vienescomposto e ricomposto, perde il vezzeggia-tivo, si adegua ai dialetti, stiracchiando ac-centi e consonanti come si tira una pasta fila-ta. Ma il concetto non cambia, idealmenterappresentato dall’immagine bucolica deglianimali al pascolo, felici di brucare l’erba te-

nera. Se pensiamo ai latticini primaverili, ilcollegamento a pecore e capre, bufale e muc-che suona necessario, perché grazie alle ulti-me briciole del nostro Dna contadino sappia-mo quanto il sapore del latte passi nei suoi de-rivati, a maggior ragione quando si parla deiformaggi freschi, freschissimi, finalmentesvincolati dall’alimentazione invernale.

Purtroppo non funziona sempre così. Alcontrario, le produzioni industriali che tuttostandardizzano, hanno azzerato il piaceredelle differenze. Principale imputata, la pa-storizzazione, che in nome della “sanificazio-ne” del formaggio, uccide insieme ai battericattivi quelli responsabili dei sapori originali.La bollitura a temperature più o meno eleva-te è la strada più facile per evitare i guai con-nessi alle stalle non in ordine (con animali af-fetti da brucellosi, per esempio) e per livella-

re la qualità del latte in arrivo da produttori di-versi. Una pratica che dilaga grazie al poteredelle lobby legate alle industrie alimentari.Una volta pastorizzato il latte, basta aggiun-gere dei fermenti esterni per realizzare le di-verse tipologie. Ma nel frattempo si è del tut-to smarrito l’unicumche caratterizza i lattici-ni prodotti in queste settimane, con i loro fi-nissimi odori di erba nuova e l’energia intattadi un latte sano, vigoroso, artigiano, lo stessoche le femmine danno ai loro piccoli (nelle ca-scine, questo è il tempo dei parti e degli allat-tamenti).

Se l’erba e buona e gli animali sono trattatibene, al latte riesce davvero un piccolo mira-colo di bontà. Lo sanno bene due grandiscienziati del formaggio come Roberto Rubi-no e Giuseppe Licitra, che da anni portano

avanti la battaglia culturale ed economica perdiffondere le produzioni a latte crudo conanimali tenuti al pascolo, l’uno con l’Anfosc(associazione di valorizzazione dei formaggi“sotto il cielo”), l’altro con il Corfilac, il con-sorzio siciliano di filiera casearia che ha ap-pena lanciato il progetto del “Latte vero aKm0”, connesso alla Cacioteca regionale, ilprimo centro dedicato allo studio e alla ripro-duzione dei sistemi storici di stagionatura deiformaggi. Assistiti dalle temperature miti, or-ganizzate una gita nei luoghi dei formaggi alatte crudo, dalle malghe aostane alla Gallu-ra. Annusate per inebriarvi dei profumi timi-di e suadenti del latte di primavera. Assaggia-te un tomino così, nudo e crudo come casarol’ha fatto, e beatevi di tanta odorosa tenerez-za. Per l’estate c’è tempo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Se un formaggiofa primavera

Primo saleLa più immediata espressione

del latte fresco, per il formaggio

salato una volta sola

— da cui il nome — che si gusta

pochi giorni dopo la produzione

RaviggioloDolce, cremoso fino a squagliarsi

(come il fratellino squacquerone,

appena più acidulo),

si prepara con latte crudo

e dura pochissimi giorni

LICIA GRANELLO

Repubblica Nazionale

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RicottaIl non-formaggio (da siero)

è protagonista delle ricette

di primavera, dalle insalate ai dolci

Nota di merito per quella di pecora,

più grassa e saporita

Sulla strada

STEFANO MALATESTA

Pienza, che si gloria dell’altisonante ti-tolo di Città d’Arte, negli ultimi tem-pi è diventata Città del Cacio Pecori-

no. Basta salire su per le rampe che portanoalla nobile piazza per venire avvolti da unacre odore di formaggio che esce da un nu-mero inverosimile di spacci. Questi cam-biamenti nelle percezioni olfattive non so-no una esclusiva di Pienza e della Val D’Or-cia. A pochi chilometri di distanza, nella Valdi Chiana, celebre per le carni dei suoi man-zi, un profumo di tagliata al rosmarino saledalla valle su per le meravigliose colline die-tro Trequanda, così forte che sembra con-naturato a quei luoghi come l’odore delsandalo è connaturato allo Yemen o quellodel cumino a Marrakesh.

Quello che attrae oggi i visitatori della to-scana è una attività essenzialmente man-ducatoria e gastronomica. Appena sbarca-ti nei paesi, le truppe cammellate dei turi-sti di massa, dopo rapide incursioni nellechiese e nei musei, compiute per evitaresensi di colpa, peraltro altamente impro-babili, si precipitano alla frenetica compe-ra non sola di cacetti, ma di marmellatine,di prosciuttini, di finocchione. L’intentodel guadagno pronto e subito sembra nonavere più limiti, con conseguenze dannoseper lo stesso prodotto primario, il cacio. LaVal d’Orcia, per quanto vasta, può conte-nere un numero limitato di pecore, conuna produzione di latte molto inferiore aquella che consumano da soli le due o tregrandi industrie casearie del posto. Cosìuna parte cospicua delle caciotte è lavora-ta con latte importato e senza quella pas-sione e cura che facevano del pecorino lo-cale un vertice tra i formaggi della regione.Naturalmente rimangono delle eccezionie ne vorrei citare almeno un paio di piccoleaziende a conduzione familiare che resi-stono al degrado. La prima, l’azienda agri-cola Bagnolo, si trova sulla strada perSant’Anna in Camprena ed è gestita da unabile sperimentatore caseario, Ernello, cheha creato qualcosa di simile al Reblochonfrancese chiamato Centomuffe. La secon-da appartiene alla famiglia Cugusi, si trovaalle porte di Montepulciano e produce l’in-tera gamma del pecorino pientino: dieciqualità tra cui il pecorino trattato con le fo-glie di noce e anche una sorta di gorgonzo-la più delicato. In Val d’Orcia è una assolu-ta novità. E anche una meraviglia.

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

Ingredienti per 4 persone

200 gr. di alici fresche

2 cucchiai di colatura di alici

200 gr. di ricotta vaccina

3 mazzi di puntarelle

olio extra vergine,

aceto di Barolo,

sale e pepe

Pulire e spinare le alici

Lasciarle in acqua e ghiaccio

per dieci minuti per togliere il sangue

Asciugarle con carta assorbente

e condirle con colatura

e olio extravergine. Pulire le puntarelle

e tagliarle in quarti, immergerle

per dieci minuti in acqua e ghiaccio

per renderle croccanti e condirle

con olio extravergine, aceto di Barolo, sale e pepe

Setacciare la ricotta e stenderla sul piatto

con un sac à poche. Sopra, appoggiare le puntarelle

e le alici. Infine decorare con fiori commestibili

Insalata di puntarellecon alici e ricotta

Tedesco di nascita

e mediterraneo per scelta,

Oliver Glowig gestisce

il ristorante che porta

il suo nome all’interno

dell’hotel Aldrovandi di Roma

A firmare la sua cucina,

ricette morbide e rigore zen,

come nel piatto creato

per i lettori di Repubblica

LA RICETTA

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DOVE DORMIRE

LA TERRAZZA DEL CHIOSTRO

Corso Rossellino 26

Pienza (Siena)Tel. 0578-748183

Camera doppia da 100 euro,

colazione inclusa

PODERE DELL’ANSELMO

Via Anselmo 12

Montespertoli (Firenze)Tel. 0571-671951

Camera doppia da 70 euro,

colazione inclusa

L’OASI DEL GRILLO

Località Colonna del Grillo

Castelnuovo Berardenga (Siena)Tel. 0577-355762

Monolocale da 60 euro

DOVE MANGIARE

OSTERIA LA PORTA

Via del Piano 1

Monticchiello di Pienza (Siena)Tel. 0578-755163

Chiuso mercoledì, menù 30 euro

LA TENDA ROSSA

Piazza del Monumento 9

Loc. Cerbaia, Montespertoli (Firenze)Tel. 055-826132

Chiuso lunedì a pranzo e domenica,

menù 60 euro

LA BOTTEGA DEL 30

Via S. Caterina 2

Località Villa a Sesta, Castelnuovo Berardenga (Siena)Tel. 0577-359226

Chiuso martedì e mercoledì, menù 55 euro

DOVE COMPRARE

FATTORIA BUCA NUOVA

Via Primo Maggio 4

Pienza (Siena)Tel. 0578-748350

PODERE POGGIO ANTICO

Via Tresanti 2

Montespertoli (Firenze)Tel. 0571-659063

CASEIFICIO LA FONTE

Località Asciano

Castelnuovo Berardenga (Siena)Tel. 0577-700031

IL CACIO DI VOLTERRA

Località Pallesse 68

Volterra (Pisa)Tel. 0588-81516

MarzolinoLatte di pecora al cento per cento

per il cacio millenario nato

nelle campagne del Chianti

e soggetto a diversi gradi

di stagionatura, da dolce a piccante

MarzoticaEvoluzione della ricotta tipica

della campagna leccese:

sgrondata del siero, viene salata

a secco e, una volta asciugata,

rotolata nei cereali selvatici

MarziroloDalla tradizione contadina

valtellinese, il nome che battezza

il primo gorgonzola dell’anno:

latte di doppia mungitura e spore

di Penicillium Roqueforti

Case ’e marzoLa marzellina casertana si prepara

con latte di pecora e capra,

cagliato grazie alle foglie

di cardo. Dopo la salatura,

si cosparge di timo selvatico

Odor di Pienza,da città dell’artea città del cacio

Repubblica Nazionale

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In principio fu l’alieno Mork,un successo planetario. Poi vennerol’alcol e la cocaina, la morte di Belushi, i matrimonifalliti e un infarto. E poi ancora grandissimi

film e, ora, una nuovamoglie: “Mi hannosalvato i figli, grazie a loro ho imparato a vivere alla giornata Mi resta un sogno:

interpretare Einstein, sedutosu una spiaggia con le ciabatteda donna ai piedi”

LONDRA

La sua biografia parla chia-ro: Robin Williams è unuomo che ha vissuto trevolte. La prima esistenza

— a base di genio, sregolatezza, dipen-denze da alcol e droga — lo ha portato,negli anni Ottanta, sull’orlo del baratro.La seconda, decisamente più sobria, èstata spezzata dal terribile attacco car-diaco che gli ha fatto rischiare la morte,nel marzo 2009. Così la terza, quella at-tuale, è segnata dalla consapevolezza diessere, in qualche modo, un miracola-to. Caduto e risorto, in almeno due oc-casioni. Da qui la sua filosofia un po’new age: «Considero ciò che ho ungrande regalo», spiega, «i miei figli, lamia terza e spero ultima moglie, il miolavoro. Un mestiere che mi permette difare la cosa più bella del mondo, e cioècalarmi in ruoli completamente diversida me. Persone buone e cattive, anima-li (grazie ai doppiaggi nei cartoon), per-fino geni della lampada come quandoho prestato la voce nel disneyano Alad-din. Cosa si può volere di più?».

L’incontro con l’attore sessantenne,in una stanza al secondo piano dell’ho-tel Ritz di Londra, è il trionfo dell’im-prevedibilità. Un one-man-show Trascherzi, imitazioni (da Silvio Berlusco-ni a Mike Tyson) e facce strane. «Il pri-mo essere umano che ho imitato», ri-corda, «è stata mia nonna: viveva lon-tana da noi, non l’avevo mai vista. Laconoscevo solo per telefono. Così, per

passare il tempo nelle ore di noia casa-linghe, ho cominciato a rifare le sue fra-si tipiche: “Allora che fai, stai guardan-do il wrestling? Stai mangiando la piz-za?”. E cose simili. Sono stato molto so-lo nella mia infanzia: sono nato a Chi-cago, ma poi abbiamo girato tanto ne-gli States. Mi facevano compagnia isoldatini, ne collezionavo migliaia. Dalì ho sviluppato l’immaginazione. E co-sì, dopo mia nonna, nel mio mirino daimitatore sono finiti tutti quelli che co-noscevo: amici, parenti, compagni discuola. Il mio cavallo di battaglia, però,è e resta Stephen Hawking». Segue di-mostrazione pratica. Terminata que-sta ennesima performance, Williams— pantaloni e polo blu, occhi chiari chespesso si restringono fino a diventareuna indecifrabile fessura — torna sestesso. Ma sempre all’insegna dell’iro-nia. Come quando commenta la nuo-va ondata di popolarità che lo ha inve-stito qualche mese fa, quando le suenozze con la graphic designer quaran-tasettenne Susan Schneider hanno im-perversato su cronache rosa e siti digossip: «Che imbarazzo, tutti quegli ar-ticoli e quelle foto con me perfetto spo-so. Sembrava che i tabloid non doves-sero occuparsi altro che della mia lunadi miele. L’amore lo consiglio, è unapillola della felicità più economica delProzac. Quanto a mia moglie, che pos-so dire? La sua caratteristica più note-vole è che è una donna davvero alta...Sono grato di questa nuova opportu-nità. Certo, lei è più giovane di me: mala mia non è la classica crisi di mezzaetà, quella l’ho avuta almeno due de-cenni fa. Adesso invece sono sicuro chenon ripeterò più i soliti errori. Donnecomprese».

Il riferimento è ai suoi due prece-denti matrimoni — il primo con Vale-rie Velardi, il secondo con Martha Gar-ces — finiti con divorzi dolorosi e one-rosi (accordi per oltre 20 milioni di dol-lari). Che però gli hanno lasciato un be-ne prezioso: tre figli, che ora hanno 28,22 e 19 anni. Sono stati loro a spinger-lo, dopo ogni ricaduta, a uscire dalladipendenza: «I bambini non è che lipuoi lasciare lì e andarti a ubriacare,dicendo ripasso più tardi. Ti fanno ri-flettere, inevitabilmente, sulla vita chestai conducendo».

Il problema, a sentire lui, ha originenella repentinità dell’exploit planeta-rio che lo vede protagonista, quandoha meno di trent’anni. Già studente diteatro alla celebre Juilliard School, in-

sieme a Kevin Kline e Christopher Ree-ve, Williams vede la sua carriera cam-biare quando appare, nei panni delbuffo alieno Mork, in una puntata delcult televisivo degli anni Settanta,Happy Days: «Tutto nacque perché il fi-glio dell’autore e regista Garry Mar-shall, influenzato da Star Wars, chieseal papà di mettere un extraterrestre ac-canto alla famiglia Cunningham.Quando me lo dissero, mi sembrò unafollia: cosa c’entra una specie di mar-ziano in una storia all-american anniCinquanta? Ma alla fine ebbero ragio-ne loro: non era Shakespeare, ma eradivertente». Infatti il successo è clamo-roso, da lì (siamo nel 1978) nasce la sit-com Mork e Mindy. Da allora un boominarrestabile: partecipazioni tv, showdal vivo. E film. Alcuni non banalmen-te commerciali: Popeye di Robert Alt-man, Il mondo secondo Garp, GoodMorning Vietnam.

Intanto però nella sua vita ci sono al-

col e droga: «La cocaina è lo strumentoche Dio ti manda per farti capire che staiguadagnando troppo», ha ripetutospesso, riferendosi a quel periodo. Unostile di vita che lo coinvolge anche inepisodi di cui lui, tuttora, rifiuta di par-lare. Come quel maledetto 5 marzo1982 all’hotel Chateau-Marmont, sul-l’hollywoodiano Sunset Boulevard incui, nel corso di una festa ad alto tasso distupefacenti, John Belushi muore dioverdose. Secondo le tante ricostruzio-ni giornalistiche lì c’era anche Williams,almeno nelle prime ore. «Ho avuto tan-ti giorni bui, molti così bui che nemme-no li ricordo», si limita a commentare,«ricordo solo la sensazione di svegliarsisenza sapere dove si è. Ora però sonomolto più saggio: del resto, si arriva asessant’anni anche per questo. Ho co-nosciuto grandi personaggi, nella miavita. Alcuni di loro se ne sono andati. Mabisogna comunque tenere duro».

La sbornia degli anni Settanta-Ot-tanta, per fortuna, finisce. Anche perWilliams, che ci offre, nel decenniosuccessivo, interpretazioni memora-bili: Risvegli, La leggenda del Re Pesca-tore, Hook, Mrs Doubtfire, Will Hun-ting - Genio ribelle(che gli fa vincere unOscar), Patch Adams. Altrettanto inte-ressanti sono i ruoli dark che recita al-l’inizio del nuovo millennio, in pellico-le come Insomnia o One-hour photo.Quelle in cui emerge il suo lato oscuro:«Ho amato tanto recitare questi perso-naggi così inquietanti, così pieni di di-sturbi. Antieroi di storie cupe, strane,borderline. Spero che mi offrano anco-ra ruoli del genere». Sul fronte opposto,quasi a compensare il suo versantebuio, si collocano le partecipazioni afilm per famiglie e a cartoon. Da Alad-din fino ai due recenti Happy Feet, in cuiha doppiato dei pinguini: «Mi piace illavoro sull’animazione, perché lì l’im-provvisazione è bene accetta. Sonobravo a improvvisare, posso fare qua-ranta variazioni sul tema su un unicopersonaggio. Poi adoro avere a che fa-re con gli animali: non solo sul set, an-che nella vita privata. Il mio animalepreferito è il gorilla. Una volta ne ho an-che incontrato uno: era una femmina esi è subito innamorata, voleva appar-tarsi con me nel retro della stanza. Hopartecipato a diverse iniziative benefi-che per la salvaguardia di questa spe-cie. Hanno un’aria così incredibilmen-te umana, sono commoventi. Pure lescimmie sono forti: per risolvere i loroconflitti usano il sesso, il che è meravi-

glioso». E a proposito di animali, tra isuoi prossimi impegni c’è il doppiag-gio di un cane parlante nel film Absolu-tely Anything, che segna il ritorno delgruppo comico dei Monty Python. Pri-ma, però, lo rivedremo sullo schermovestito da prete in The Big Wedding, ac-canto a Robert De Niro e Diane Keaton:«È la storia di una notte di mezza estateche si svolge in Connecticut, un postopieno di signore tutte rifatte col botox».E fra tanti impegni, un unico rimpian-to: «Non ho ancora realizzato il mio so-gno di interpretare Albert Einstein. So-no ossessionato da una sua foto in cui èsulla spiaggia, con pantofole da donnaai piedi. Straordinario. Forse un giornoriuscirò a entrare nei suoi panni».

Dunque un nuovo matrimonio,nuovi film, nuove sfide. Forse per reagi-re a quel terribile marzo 2009, quandoha avuto una brutta crisi cardiaca, conintervento chirurgico per rimpiazzarela valvola aortica: «La nuova provieneda una mucca, quando mangio carnebovina devo alzarmi in piedi per rispet-to». Poi conclude, quasi serio: «Fisica-mente mi sento bene, il matrimonio èfantastico, i miei figli pure. L’unica cosache odio davvero è ballare la discomu-sic: come fobia non è così grave. Larealtà è che ho accettato l’idea di pren-dere tutto con un po’ più di leggerezza.Di apprezzare le piccole cose — perfinoil mio respiro. Insomma, da tutta que-sta vicenda ho imparato qualcosa diimportante: saper vivere alla giornata».Cogliere L’attimo fuggente, come recitail titolo del suo film più famoso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’incontroRinati

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Ho avuto così tanti giorni buiche nemmeno

li ricordoSo solo che quandomi svegliavonon sapevo dov’ero

Robin Williams

CLAUDIA MORGOGLIONE

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Repubblica Nazionale