La Palingenesi-1

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Mario RapisardiLa palingenesi

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: La palingenesiAUTORE: Rapisardi, MarioTRADUTTORE:CURATORE: NOTE:

CODICE ISBN E-BOOK:

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/libri/licenze/

TRATTO DA: La palingenesi / Mario Rapisardi. - SestoS. Giovanni : Madella, 1912. - 239 p. ; 19 cm.

CODICE ISBN FONTE: non disponibile

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 10 dicembre 2012

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3: affidabilità ottima

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Indice generale

CANTO PRIMO.............................................................6LA TRADIZIONE......................................................7

CANTO SECONDO.....................................................28IL COLOSSEO.........................................................29

CANTO TERZO...........................................................48LA CROCE...............................................................49

CANTO QUARTO.......................................................79PAPI E IMPERATORI.............................................80

CANTO QUINTO........................................................99I CROCIATI...........................................................100

CANTO SESTO.........................................................134LUTERO................................................................135

CANTO SETTIMO....................................................160SATANA.................................................................161

CANTO OTTAVO......................................................187LE RIVOLUZIONI................................................188

CANTO NONO..........................................................207ITALIA E PIO........................................................208

CANTO DECIMO......................................................230L’AVVENIRE.........................................................231

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MARIO RAPISARDI

LA

PALINGENESI

SESTO S. GIOVANNICASA EDITRICE MADELLA

1912

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La palingenesi Mario Rapisardi

CANTO PRIMO

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LA TRADIZIONE

Così dirai a’ figli d’Isdraello: Colui che è mandò me a voiEsodo, cap. III, V. 14.

Sia principio da te, luce inconsuntaDi Verità: coeva a Dio tu splendiPer la notte dei tempi, e tu mi svelaPer che lunga d’inganni ombra si trasseLa traviata umanità soffrente,Quando, stolta, obliò la sua celesteOrigine, sul suo capo infeliceLa giusta provocando ira di Dio.Fra le terrene tenebre un errantePopolo abbominato il tuo sorrisoPrimamente recava, e dall’eccelsoMistico Sina, qual perpetua stella,Guidavalo Mosè, fin che tra l’ombreVaticinato e sconosciuto apparveChi col suo sangue il mondo empio redense.Quinci del Lazio i novi lauri e il novoRegno d’amor, fin che vorace in pettoAmbìzíon, terrene ansie accendendoNei pastori di Cristo, in reo mercatoTramutò le inconcusse are e le soglieDel paradiso. Erse la fronte e il giogo

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Ferreo tentò l’intrepida Ragione.E oppressa parve, e trionfò: lontanaL’ora non è (già non fallaci e chiariSegni ne parla Iddio) che le smarriteProli d’Ausonia torneranno al puroEvangelico fonte, e su l’eternoVatican sorgerà l’ara del mondo.Or tu, possente Verità, che i pettiA sì grande di casi ordin prepari,I tuoi sacri responsi alle custodiGentili Arti confida, e a me l’insegna;Che assiso all’ombra de l’etnee mie valli,Pensieroso t’invoco, e credo, e canto.

Dolce compagno mio, sola e modestaGioja a questi miei giorni egri, tu al novoSacrificio convieni, ove più chiusoAgl’increduli volghi arde l’eternoSantuario del Vero. A te i fecondiSilenzj, a te gli arcani ardui son cariDi Sofia rigorosa; e già nel regnoDell’essenze immortali arditamenteSpingi per tempo il giovinetto ingegno,Mio secreto e superbia. Amor, da ciecaPlebe incompreso, amor sereno e santoLa severa Sofia stringe e collegaAlle muse gentili; amor su’ nostri

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Petti la luminosa ala distende,E concordi ne guida a’ generosiLibamenti del Vero; onde nè risoDi prospera fortuna, o fuggitivoPlauso terreno, ma soave e piaCarità d’operosi ozj e d’affettiFia che ne allegri il faticoso impegno.

Come disperse e travagliate barchePer non segnato mar cercano un lido,Così moveano al lor destino in predaI feroci mortali, affaticatiDal bisogno e dall’alta ira dispersiPer la foresta della terra immensa;Nè avean porte e barriere, e stavan soli,Come leoni. Innanzi a sè i men fortiCacciando, si premean pari a rugghiantiFlutti allo scoglio della Morte: e schiaviDella natura e di sè stessi, all’iraProni ed al sangue, alla vendetta sacri,Sol viveano di preda. Indi ebber curaD’accolte greggi e di pascosi prati;Di tende e di capanne indi alle apricheValli, amene di miti alberi e d’acque,Dieder ombre ospitali; indi l’audaceZatta cacciando per gl’impervj flutti,L’oro e gli aromi dell’opposte rive

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Accomunâro e gentili usi e riti.Ma, dovunque movesse inesorataVaria fortuna dei raminghi i passi,Il dolor presagìali, e un’indistintaCura spargea di bieche ombre i lor petti.E chi primo guizzar come fiammanteSerpe il fulmine vide, e per le bronzeeVolte del ciel sentì correre orrendiTumulti e traballar la terra e in lunghiMurmuri reboar cupe le valli,Chinò tremante la cervice, e arcanoUn poter, che l’immenso ampio reggea,Nel fulmine adorò. Tal, cui dormenteTra custodi cespugli il Sol sorprese,Aperse gli occhi giubilante, e videTanta festa di raggi, e il corpo infermoA quella intiepidì luce infinita,Genuflesso adorò l’astro sorgente,E l’ingenua preghiera indi all’incertoLabbro affidò della crescente prole,Nè, in così vario traviar trascorso,Mancò chi dal geloso orto o dal chiusoOvil traesse i Numi suoi, d’umaniSagrificj la muta ara bagnandoFra ’l clamor lieto di tregende oscene.Ma in seno alla funesta ombra taloraIl tuo sorriso, o Verità, splendea

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Su la fronte del Genio, e su la terraMinistre le civili Arti mandaviA rivolgere al ciel le tralignateMenti mortali, e ad incuorar la lenaAlla mesta Speranza fuggitiva.E tu nella sdegnosa alma spirastiDel pastore di Levi, allor che in brunoAbito di dolor serva sedeaSu le ghiaje del Nil la sconsolataVedova del Giordano. Ahi, su gli altariMemori, o sconsolata, or più non vediTra vaporati timìami il Dio,Che a’ patriachi consentìa la leggeE l’aspetto immortal; la luminosaArca del patto non incede in mezzoA’ tuoi mille guerrieri: a strani, orrendiIdoli per le vaste egizie valliMoli superbe son custodia; e chiusaIn veli tenacissimi ed eterniLe paurose forme Iside asconde.S’alzano in nubi limpide i profumiPreziosi di Seba a’ simulacriD’Osiride e d’Anubi, e sante l’areSon di Sfingi deformi e di Canopi.Più tu non miri, o derelitta, al nomeDi Sabaotte i tuoi figli accorrentiRovesciarsi terribili, siccome

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Rovinosa gragnuola, in sul nemico;Ma in cerca del Numenio Ibi, c’ha pastoDi serpenti, o del nero Api a’ trionfiPremersi vedi su le sacre spondeDel Nil turbe infinite; e lo stranieroGhigno alla fede dei tuoi padri insulta.Or tu ridimmi, o Verità, chè il sai,Quanto raggio di ciel su lui discese,Che alla sacra natal plaga stillanteMiele e profumi e all’are abbandonate,Civil convegno a’ patriarchi, trasseL’asservito Isdraello, e a l’induriteMenti la legge del Signor dischiuse.

Di Jetro a pasturar la numerosaGreggia presso ad Orebbe egli venìaTacitamente, e lo pungea la lungaServitù d’Isdrael ne le straniereValli del Nilo. Si stendeano in curvaScena i monti al suo sguardo e le tranquillePalme dal biondo dattero, ristoroA’ figli del deserto, e l’orizzonteCome il futuro interminato, e Dio.Ed ei stette, e pregò: Tu, che sugli astriSiedi e reggi il lor moto, e mai tramonti,O implorato d’Abramo, all’irrompentiCateratte del ciel tu sottraevi

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Il Patriarca, e Tu, se mai d’incensiT’odorai ’l tempio, e t’arsi ostie su l’ara,Tu dall’indegna servitù mi campaQuesto popol, ch’è tuo! Disse, e sul monteArdere un pruno e’ vide, e uscir da questoUdì tre volte del suo nome il suono;E cinti i lombi alla montagna mosse;E il Signor gli parlò. L’umil vincastroDel mandriano al Faraon lo scettroPercosse, e i ceppi d’Isdraello infranse.

Arditamente valicâr le immenseArene del deserto i fuggitivi;E il Signor li scorgea. Ma poi che a tergoUdire il suon delle ferventi ruoteE il fragor dell’egizie armi irruenti,E a fronte avean del Rosso mar l’insonneFlutto, di morte paventose a DioSi rivolser le turbe, e all’ostinatoDuce volgean le torbide pupille.E, di tombe, dicean, certo non mancaL’egizia terra, che a morir ne traggiQui nel deserto; come turbo immaneEcco, su noi piomba il nemico, e innanziL’onda ne chiude alla salute il varco.O diffidenti nel Signor, proruppeIrato il duce, ecco su l’onda io stendo

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La destra, e Iddio l’onda ne schiude! Disse,Ed al soffio di Dio l’onda si aperse,Rammansati nel cor mossero avanti,Osannando a Geòva, e a lor da latoSorgean l’onde qual muro. ImpetuosaCome torrente dietro a lor si cacciaL’oste superba; ma sovr’essa, graveEcco la scatenata acqua precipita,E destrieri ed armati e plaustri ed armiNel seno procelloso avvolge e chiude.Securi intanto e di speranza accesiL’alta riva tenean gl’Isdraeliti.

– Lode al Signor, che simigliante a nemboCalò da’ monti su l’Egizio altero;Che traboccò dell’Eritreo nel grembo

Cavallo e cavaliero!Lode al Signor, che come Sol novelloDi purpureo splendor si circonfuse;Che sugli empj esaltò sempre Isdraello,

Che i cori empj confuse!Chi pari a Te fra gl’idoli superbi,Che l’astuta creò mente infedele?Chi invano a Te, Signor, ne’ casi acerbi

Volge le sue querele?Tu accenni, e dall’algoso umido lettoSi ritraggon le gonfie onde frementi;

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Parli, e i nemici tuo’ sperdi al tuo detto,Siccome polve a’ venti.

E Tu all’errante popolo dispersoL’avita ridarai sede primiera,Al popol tuo, che in Te l’occhio ha converso,

Che per Te soffre, e spera! –

Stendonsi come mar le fulve areneDel deserto di Sina; al ciel sublimeS’alza il monte di Dio. Fermâr le tendeIvi i figli d’Abramo, e da’ raggiantiFirmamenti miravali Geòva.Quivi eressero un’ara, e di lustraliAcque cortese zampillava un fonte,Ch’ora al sole serpea nitido, or l’ombreVerdi accogliendo nel modesto senoQuerulo s’ascondea tra una forestaDi arrendevoli giunchi e di papìri,Oàsi del deserto. Ivi un dì venneCol palpitante figlioletto al senoAgar pellegrinando, in cor l’anticheGioje volgendo e le ripulse e l’ireDel Patriarca; ivi mal certa in coreSul cocente meriggio si ridusse,Come il ciel volle, o di consiglio all’uopoLe fu provvido il Ciel, che, a’ lagrimosiOcchi persuadendo un cheto sonno,D’una felice visíon l’attrita

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Anima le schiarò, sì ch’ella inteseL’Angelo del Signore:

Agar, sei salva,Ed è salvo Ismaele, ed al cospettoDi Dio vivrà. Qual asino selvaggio,E’ sarà contro a tutti, e saran tuttiContro di lui; pur crescerà giganteLa sua progenie, ed e’ sarà nazione.Dodici prenci da’ suoi lombi uscitiD’Avila a Sur, che dell’Egitto è in faccia,Pianteranno le tende, e sedi e regnoE fortuna e grandezza avrà sua prole,Tal che i figli di Sem primi sarannoConfusi in essa ed obliati. Ed ecco,Iddio l’ha detto: dall’antico fiancoDi Sara verrà pur molta e devotaGente, e alla tua starà di contro. In vaneIre per doloroso ordine d’anniSi guarderan; su gli ostinati pettiPiù volte spezzeran gl’incurvi acciari,E di clade perenne ingombrerannoLe valli e i monti, e stancheranno Iddio.Pur ti rallieta; su l’opposte spondeVerranno un dì le combattute gentiA mirarsi nel volto, e al novo lumeDell’oriente vi vedranno i segniD’un padre stesso e d’uno stesso amore.

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Allor da’ petti pervicaci il ciecoFuror cadrà; dileguerà da’ torviSguardi la fiera voluttà del sangue;Al padiglione d’Isdraello accantoLa tenda spiegherà l’Arabo ardito,E, in lunga prova di dolori esperte,Le due genti uniran le destre e i cori.

Così l’Angel diceva alla dormenteAgar vaticinando, e poi che tacque,Ella tendeagli fra dolente e lietaLe aduste braccia, ed implorava: O santo,(Chè Dio certo ti manda: alle azzurrineAle ti riconosco e al dolce lumeDegli occhi) deh, le lunghe ire favellaDel travagliato popol mio futuroE le vittorie presagite e i regniE il venturoso dì, che le cognateGenti gli allori mesceranno e i pianti!Di nova luce lampeggiò nel voltoL’Angelo, e disse: Lunga storia implori,E a cor mortale non concessa: in gremboDi Dio s’asconde, e lungamente ancoraIvi starà. Tu prega e spera; i passiPellegrini rivolgi alle placateCase del Patriarca, e il contumaceSdegno del petto al limitar deponi.Così, quando che sia, le ravvedute

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Proli di Chèdar dal natio desertoD’un’altra gente converranno all’are,E piegheran l’indomita cerviceAl dolce giogo d’una stessa fede.Disse, e nel cielo si perdè d’un volo,Come penna di strale. EsterrefattaAgar levosse; si mirò dintorno,E, l’onda con la breve idria attingendo,Rassegnata si volse al tetto antico.

D’incensi intanto e di pietose offerteEsulta l’ara del Signor, che in mezzoAl padiglion purpureo alza le cornaDi terso rame a’ quattro venti erette.Quivi su cento colonnette snelle,Da cortine bianchissime protetto,Splendido sorge il Tabernacol santo;Quivi è l’arca di Dio tutta raggianteDi nitid’oro, e due Cherùbi al sommoLe fan delle conteste ali coperchio:Mirabil’opra, poi che la presagaMan del fabbro divino ivi scolpìaL’avvenir d’Isdrael, come Dio stessoGli spirava nel cor. Docile e molleArrendeasi alla destra il rude argento,E il bronzo e l’oro rispondean fedeli

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Al pensiero improvviso e al multiformeFantasiar del previdente ingegno.

Vedi al pendio d’un verdeggiante colleDi Galilea, quando più novo è il giorno,Mansueto venirne un giovinettoCandido e bello e con la chioma d’oro.Mille volti da lui pendono intenti,Ed ei, di dolce favellare in atto,Sembra che a tutti persuada amore.Abbandonati alla pescosa radaGiaccion reti ed ordegni; al suol desertoGiace l’aratro rugginoso; i biondiCampi non falcia immemore il villano;E come allor che dolce aura provòcaCol suave alìar l’onda dormente,Se più zaffiro incalza, in più velociGiri si volge e si succede il flutto;Così più e più si succedean le pieTurbe da presso al giovinetto umìle,Che al lume de’ pietosi occhi e del voltoDe’ veggenti di Dio pareva il primo.

Fatigato dal Sol quindi sul margoDella fontana di Giacobbe assisoIn Samària lo vedi. Ivi da presso

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Con la colma sul capo idria una donnaSdegnosamente a lui volgea le terga,Qual se all’adusto peregrin la dolceDel benefico pozzo onda negasse.Leggiadramente a’ femori succintaLa veste avea, che di ceruleo smaltoEra tutta, e sì morbida fluìaDa’ molli fianchi al nitido ginocchio,Che di lana sottil parea contesta.Indi ignuda sfuggìa la rosea gamba,E il piè mobile quasi agl’innocentiFiori facea non volontario insulto.Amaramente sorridea quel pioAll’ignaro rifiuto, e su’ dischiusiLabbri errargli diresti una divinaAura di vaticinio e di preghiera.

Dall’altro lato in splendidi rilieviSimulata è Sionne, ove a’ nascentiRaggi del sole vibrano saetteL’argute guglie, i memori obelischiE le ritonde cupole, superbePer mosaico di gemme. Indi alle porteVerdeggia il cedro de’ profeti e il mirto,Dolce amor di colombe, e il pingue ulivo;Quinci tondeggian vagamente intesteCupolette di fiori e di verzura,

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Da cui scendon corimbi e lente trecceDi gelsomini al zeffiro ondeggianti;Qui son tende di palme, onde ancor pendeL’inviolato dattero, là splendeAl papavero misto il fior del maggio;Qui vaghi cori di donzelle a garaIntreccian serti e spargon fronde e fiori,L’aurea testa piegando a Lui dinanzi,Che umilemente se ne vien tra loroSovra a lento asinello. E chi nel lemboDelle vesti di lui candide figgeFervoroso le labbra, e chi le bracciaGrato al ciel leva, e chi la fronte atterra,Mentre uno stuol d’allegri fanciullettiIl precede alternando inni e carole.Al limitar del custodito ostelloFansi le madri col lattante al seno;E i pietosi vegliardi, al fianco incertoSul curvo bastoncel reggendo appena,Levan con infantil gioja il canutoMento, e, facendo della dubbia destraSchermo sugli occhi al radiante sole,Mandano al divo garzoncel saluti,E l’additan tremanti ai picciolettiNepoti, che, appuntando contro terraI piedini ed a loro alto aggrappandosi,Spingon le fronti ricciutelle in mezzo

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Alle fervide turbe; o ver guizzandoVan tra la folla irrequieti, indocili,E co’ gomiti audaci apronsi il varco.Que’ fra lor passa, di sereni sguardiConsolando i devoti, e i firmamentiCon la destra levata a’ mesti insegna.

Quinci in tutto rilievo eran scolpiteLe sacre case del Signor: stupendoLavor, che a dure pietre era commessoCon divino artificio, onde le rareGemme dell’Eritreo morbidi aspettiVariamente assumean. Sparsi di foltiArmenti apronsi i chiari atrj, e superboPer li splendenti portici troneggiaL’inesorato cambiator Giudeo,Che biecamente volgesi a quel giusto,Che dal cheto asinel ratto disceso,Come zelo il pungea, sferza le greggiFuor del sacro recinto, e gli aurei fruttiDegl’illeciti lucri al suol riversa,E dir sembra: Non fate, empj, mercatoDelle case di Dio!

Ma se all’oppostaEffigie dell’aurata arca t’affisi,Nel meriggio calar muta la notteSu le prone montagne di Sionne,

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E al bagliore d’un lampo, orrida vista!Pender vedrai da tronco irto quel pio,Mentre appiè della croce una pentitaCol biondo crin sugli omeri neglettoVien tergendo le piaghe al moribondo,E senza pianto e senza voce il miraL’addolorata madre. Ed ecco, in brunaVeste per la nebbiosa aria si calanoAngeletti pensosi e cherubini,E, librandosi intorno al pio morente,Chi gli tragge dal crin l’ispido serto,Chi il petto infranto e le squarciate palmeDi medicati balsami cosparge,Chi della volontaria ostia in lucentiCalici accoglie il prezioso sangue;Altri, che il mesto ufficio hanno perfetto,Tornan co’ segni del martirio al cielo.

Così della custode arca gli aspettiImmaginò l’artefice divino,Presapendo il futuro, alle profaneMenti non alla sacra arte incompreso.

Passan su la pendente alpe del SinaRumoreggianti nugole cacciateDa’ torbidi aquiloni; orride guizzanoPer lo squarciato ciel sulfuree vampe,

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Scroscia la piova, il suol pute. Su vasteAli eretti, come aquile, pe ’l monte,Vagano sette Arcangeli, e dan fiatoAlle tube possenti. InorriditiSi stringono all’eccelsa ara d’intornoI figli d’Isdrael, come uccelletti,Se pe’ campi del ciel brontola il tuono,S’affollan sotto alla materna frondeTrepidi sussurrando, e il più protettoRamo con l’ale si dispùtan. SoloSurse Mosè, chè delle trombe il cennoE la voce di Dio fra mezzo il nemboAl cor gli venne, e tacito e securoMosse, qual uom c’ha Dio nel cor. DisciolseI polverosi sandali, l’anticaFronte chinò sopra la polve, e stette;E Dio gli era dinanzi.

Allor gli occultiEterni e’ seppe, e come fu fecondoDal divin soffio il nulla, e moto e vitaL’elementar materia ebbe. DiffusaQual aereo vapor, venne la TerraAlle prime carole, e l’ombre e l’acqueVagolavan sovr’essa, infin che Dio,Chiamò la luce, ne’ terreni abissiCostrinse i mari, stese i firmamentiSu lo specchio dell’onda, e al sole e agli astri

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Diè sorriso d’aurore e di tramonti.Dai raffreddati involucri terrestriLevansi i monti e stendonsi in catene;S’incoronan di nuove erbe le valli;Per le selve e pe’ mari erran gigantiMostri più non veduti, a cui la primaIntemperie diè vita; e per l’aereaSolitudine corrono gli uccelliDi vol, di tinta e d’armonia diversi.Poi, come sposo all’imbandite mense,Ecco viene al beato Eden Adamo.Stolto! di Dio la somiglianza e il donoDel paradiso e gl’innocenti amoriNon l’appagâro: all’arbore vietataStese ingordo la destra, e farsi dioIn sua superbia desiò. Da’ santiLimitari fuggì la sconsolataCoppia mortale, e rosseggiar le glebeDi fraterno delitto. Iddio sconvolseGli abissi della terra, aprì le immenseCateratte del cielo, e ogni creataCarne perì fuor che una pia famiglia,Onde più folte s’integrâr le proli,E Isdraello fiorì.

Questo vedeaL’ispirato Levita, e su la fronteGli pioveano dal ciel due luminosi

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Raggi: il genio e la fede. Al più lontanoAvvenire e’ credea le non compreseApocalissi, e sol nel più lontanoAvvenire arridea docile il sensoDel sacro verbo agli ostinati umaniPoichè rubelle a Dio levò la fronteDa pria l’irta Scìenza, e della FedeLe candide strappando infole sacreCon improvvida mano, in lunga guerraLa combattè, poi dell’error compunta,Al cor la strinse, e la chiamò sorella.

Or, come vaghe verginelle schiveDelle miserie, onde si piace il mondo,Movon concordi quelle sante il volo,E di rose perenni e gelsominiE di speranze infiorano la viaA chi lor serba intemerato il core.E mentre su gagliarde ali severaL’una per intentate ombre s’immerge,E dal cielo profondo e dall’anticaTerra e da’ morti segni e dalle tombeImperterrita il cor tragge responsi,E i mari doma e il fulmine, e l’immensaPrima Natura, la Natura istessaCon fatica immortal piega e tramuta,L’altra di caste immagini e di dolciSperanze le inquìete alme consola,

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E, del vergine sen fatto guanciale,Le profane baldanze affrena in Dio.

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CANTO SECONDO

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IL COLOSSEO

Perciocchè Gerusalemme è traboccata e Giuda caduto;perchè la lingua e l’opere loro sono contro al Signoreper provocare ad ira gli occhi della sua gloria.

Isaia, cap. III, V. 8.

Romulee genti, se a voi caro è l’innoDelle vergini Muse, ancor che tantaDagl’imbelli nepoti onta vi venga,E tanta su le vostre urne s’assidaNebbia d’ozio funesto e di servaggio,Romulee genti, e voi spirate al novoSacerdote d’Ascrèa, che i gloriosiRuderi vostri interrogando, il suonoDella vostra titanica ruina,Dopo tanto rotar d’anni, raccoglie.O voi saturnj giovinetti, raggioDell’Italia ventura (o che sian vostroStudio i giochi di Marte o le canuteOpre di Palla o le vocali corde,Madri d’inni veloci) e voi, che a rivaD’Arno in cerca di fior movete, e voi,Come Venere nate in mezzo all’onde,Isolane donzelle, e quante a’ piani,

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Alla bianca alpe, all’azzurra lagunaIl suave imparaste italo accento,

E specchiate negli occhi italo cielo,(Deh, non men che fantastici baglioriD’oltremontane fiabe, esca a lasciviSensi, o di voluttà scusa volubiliTersicoree fatiche, a voi sian careLe materne delizie ed i solertiPenelopei lavori e primo e santoCulto la patria!) or voi meco veniteTacitamente sul mavorzio colle,Su cui raggianti non mai vista luceTrasfigurate appariran le gentiD’una libera terra. Una severaNon mortale Sibilla a queste prode,Ove accoglieansi un giorno i fuggitiviBovi d’Evandro e le fatali antenne,Che il mesto vi recâr frigio penate,Abita solitaria, e, cui l’intende,Parla sacre, fatidiche parole,Insegnando a’ presenti il redituroGiorno della riscossa. Un dì su’ frantiSimulacri bugiardi e i dissolutiFasci del Pallantèo scese un divinoRaggio d’amor, che fecondò la notte

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Di cotanta rovina. Erse le penneDal tribolato, secolar suo nidoL’artigliatrice, invitta Aquila, e senzaFulmini spaziò tanto, che pariVolo non vide la romulea gente,Allor che al trionfal carro traeaIncatenata la Fortuna, e schiavaEra al suo brando la Vittoria. EgualeOr ne volge stagione. Ecco, l’alteraFiglia di Bruto a mal sofferti amplessiPiega il fianco regale; ecco, ai pollutiLetti, per forza di catene inferma,L’avaro drudo Fariseo l’astringe.Sovrastante a le spalle egli già senteIl giudizio di Dio, che pe’ canutiCrini l’afferra, ond’e’ le serra intornoPiù le luride membra, e per gelosaRabbia estinta la vuol, pria che l’affidiAl sacro bacio di novel consorte.Ma il consorte verrà! D’Arno alla spondaL’alta impresa ei matura, e alle malviveItale figlie renderà la madre,Chè fido ha il core, e le promesse attiene.Prence a un tempo e guerriero, ei sul più sacroTron del mondo s’asside; e non vetustoDritto di padri, o incerto e fuggitivoFavor di regi e di fortuna al capo

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Il fulgido gl’impone italo serto,Ma sacro voto popolar, che soloDispensa i troni, e popolare affetto,Che in custodia li tiene e li fa saldi.

Giovine Musa mia, questo l’eternoCampidoglio non è? Con l’immortalePenna dell’ale tue tergimi il ciglioD’una stilla di pianto. IncatenataAl sommo del Tarpèo, martire audace,Sfidò l’ire di Giove e le tempesteDella fortuna l’Aquila di Marte,Che spesso insanguinar nel proprio coreTentò l’artiglio impaziente e il rostro,Poichè immenso dolore e brama intensaDi morir la ferì, quando le sacreArmi infrante mirò d’Azio alla rivaE zimbello ai suoi schiavi i suoi trofei;E allor morta sarìa, se d’immortaliGiorni, come del ciel mente provvide,Germe non fosse nel suo ferreo petto.Vennero alla sua grande ombra piangentiDerelitte le spose, ed ululando,Come lupe notturne, per le vieAlte di cittadin sangue, le curveSuocere in cerca de’ rapiti figli;E scapigliate e pallide, fuggendo

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Il violato altar, mosser tapineLe tradite Vestali. E quella invanoCupa stridendo agitava le penneSu le sopite ceneri di BrutoPer levarne la fiamma. InesoratoFu il consiglio di Giove; ed altra fiammaLe somme divorava inclite rocche,Che invano ebbe quel dì Palla in governo;Mentre dall’aurea sua magione infameGodea l’orrida vista il citaredo,Che nella stolta fantasia le argiveFiamme d’Ilio fingeva e le gementiNuore di Priamo e le nettunee mura.Mettono intanto dall’aperte veneL’ultimo fiato un sofo ed un poeta,Onore ambo di Cordua, ambo ministriDelle Muse e del Ver, martiri entrambi,E nell’ultimo fato ambo consorti.O fortunati voi! Se cara e santaSuoni libera voce a noi nel petto,Voi vivrete immortali, e fia gelosaCustodia delle Muse il vostro nome.

Fervon le fragorose orgie e gli osceniBalli non più sacri a Diana: i coriDe le corrotte sue donzelle a schifoEbbe la figlia di Latona, e sola

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Sdegnosamente affaticò nel corsoGli alìpedi levrieri, unica e fidaCompagnia di sue caccie. Alle custodiCase paterne si fuggìano a schieraLe fanciulle procaci, allor che, i fondiBoschi di Nisa abbandonando, il vagoLibero discorrea lieto co’ suoiEbbri Sileni infurìando all’areDel rigido Quirino, e nei fiorentiPetti inaccorti seminava il ritoDe’ notturni tripudj e de’ furtiviMescolamenti e la civil sciagura.Passa per le notturne aure stridendoLa gelida Paura, e per li foltiNembi equitanti fremono l’irateFantasime de’ padri. Odi per l’aereFragor d’armi indistinto e ondeggiamentoDi trascorrenti legìoni e acutoClangor di tube e nitrir di cavalli;Vedi dintorno corruscar vermiglieLame d’acciari e fluttuar cimieri,E su trono di scheletri sedutaRotar la falce e sghignazzar la Morte.Tornano fra le nubi i non più vistiDel secolo di Pirra immani mostri;O dai verdi sbalzati alvi del TebroOsan pe’ sacri colli errar diurni,

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O procacciarsi ne’ delubri il covo.Scoton dal tergo la diffusa zollaGli scricchiolanti scheletri, e su l’urne,Congiurando, s’assidono. TremendeVoci parlano i vati; le loquaciQuerce rispondon minacciose; tremaL’interrogata deità, dagli occhiManda fumo e faville, e tutto intornoL’antro sussulta, e van disperse al ventoLe fatidiche foglie; al suolo obliquaPiegar vede la fiamma il sacerdote,E avversi palpitar sotto il coltelloGl’inauspicati visceri; sinistreGracchian per l’aria le migranti grue,E, rotto il lituo e l’infole disperse,La man caccia ne’ crini il furibondoAugure, e in fiere, luttuose vociL’ira de’ numi e il dì fatal predice.

Insta su l’Istro mal guardato in armiIl dominato Cimbro, a cui nel pettoSemina amor di strage il truculentoNume di Teuta; per l’argute selveDella chiomata Gallia orrido echeggiaNunzio di morte il barbaro timballo;Vaga per le nebbiose erte piccardeL’inulta ombra di Cesare lasciata

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Al druidico insulto, e invan sul capoCalasi tutte notti al successore,Spaventandogli, assiduo incubo, i turpiOzj di Cipri e il vaneggiar di Bacco.Per le Morvenie roccie irte d’eterniGhiacci il Bardo s’asside, e la selvaggiaArpa flagella: intorno a lui s’accolgonoGl’ispidi figli delle caccie, e a latoLor tintinnano i dardi impazìentiDi ferir le romane aquile al core.

Fremono intanto di vogliosa e foltaPlebe patrizia i vasti anfiteatri;Chè sol le delicate epe e i gentiliSensi il profumo delle dapi e il fieroSpettacolo del Circo alletta e punge.Ma nè sacro al tuo nome, augusta proleDi Latona e di Giove, il prisco ritoLe pie genti del Lazio oggi raduna;Nè la memoria generosa e santaDel dì, che la fatale oste di BrennoVolse le terga al reduce sdegnoso:Altri tempi, altri riti, altre più gajeMemorie ha Roma; e voi memorie e ludiE carmi e culto avete, aurei nataliDe’ Cesari divini, a cui nel pettoIl celeste serpeggia eraclio sangue.

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Sorge in mezzo all’arena il simulacroDel laziario Giove, auspice a’ ludi;E, chiusi in aurea nube, errano occultiSpettatori gli Dei; nè il fuggitivoMercurio manca; ond’han custodia i Galli,Nè l’agreste Saturno, o la cultriceD’alte foreste taurica Diana,O lo stigio Plutone e l’Orco e Dite,Cui d’uman sangue il sacrificio è caro.Su l’eminente pòdio alza il tirannoLa cervice superba, e in cerchio assisiIl volubil senato e le impudicheGuardiane di Vesta e i falsatoriDelle lanci d’Astrea tengono i primiDi porpora guerniti aurei sedili;Mentre intorno levando alteramenteGli ardui fasci i littori, il clamorosoVolgo incalzano a’ gradi imi del Circo.

O vereconda Musa, ahi, fra le accolteBaldanzose fanciulle, a cui l’oscenoSalto de’ mimi e de’ morenti il gridoÈ mal provvida scola, invano il castoAvvenente sorriso e il delicatoRossor tu cerchi, ond’ha sol pregio e vantoFemminile bellezza: il vigilatoLare materno e il frigio ago e la spola,

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Un dì cura di Dive e di regine,Sdegnâr le figlie di Quirino, e al core(Ben trematene, o Grazie) al cor, che nidoFece Natura di gentili affetti,Crescon delizia dalle sparse membraDi sbranati infelici; il lieto amplesso,Tarda mercè di verecondi amori,Cerca ora il rude, sanguinoso atleta,Furtivo re di talami traditi.

Ecco, il cenno aspettando insofferentiFisan tutti i bramosi occhi all’estremaPorta inconcussa dell’occulta cava,Che di rauchi ruggiti orridamenteNelle profonde viscere rimbomba;Ecco, l’arbitro Sir (lieve ti siaSeco, o Giove, partir del mondo il trono!)Scote l’ambrosia testa, e il cenno assenteReggitor della terra; e in un confusoScoppio di plausi s’agita la vastaDisgradante scalèa. Con l’ala gelidaBatte sui volti trepidanti e pallidiL’anelante Paura, e desta un murmure,Qual di travolti, minacciosi oceani;Ed il Piacere irrequìeto e fervidoEntro agl’ispidi petti addoppia i palpiti.Ecco, pallido e biondo un giovinetto

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Lento si trae all’ara; dall’ignudoCollo sul fianco gli discende il breveDi porpora feral saturnio manto;Tremagli nella destra la ricurvaDaga, a’ devoti a morte ultimo aiuto,E, le ginocchia tremule piegando,Così dal petto dubitoso implora:Stigio tremendo, se giammai d’elettaPrimizia ti onorai l’ara paterna,E furon grati gli olocausti, or dammi,Stigio padre, ch’io prostri nell’arenaL’orrida belva del mio sangue ingorda;Ch’io di vittima intatta i bianchi omentiSpanderò su’ tuoi fochi, alimentatiDi vasti tronchi di pomètei pini.Nè sdegnartene tu, se ti son sacriI gagliardi leoni, onnipossenteMadre Cibele, e nelle frigie case,Ove scendi implorata, il voto mio,Ultimo voto mio pietosa accogli.Chè se da tanto strazio e da sì crudaMorte preservi queste membra, interiIo serberò al tuo culto i giorni miei,E fia che furibondo erri le cimeDi Dindimio selvoso, alto squassandoL’arguto tirso e il timpano sonoro.

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Così pregò, nè dal sereno OlimpoGiove l’udì, chè fra le nivee bracciaDell’astuta consorte in quell’istanteD’ogni cura mortal bevea l’oblio:Nè dalle nevi dell’Idea pendiceBerecintia l’udì, chè tutta assòrtaEra del giovinetto Ati nel volto.Da’ suoi cheti villaggi e dal natioPlacido campicello, ove l’etruscaFeronia provocò l’ire di Giuno,Onde ancor piange il Pometin deserto,Cercò l’ardito giovinetto i foltiCittadini ritrovi. Alla canutaMadre il pianto lasciò, lasciò la mestaRicordanza de’ suoi giorni felici,E su la soglia vigile la Morte.La buona vecchiarella al consuetoViminëo cancello accompagnolloPietosamente, e con languida voceLo benedisse, e gli nascose il pianto.Venne pur dietro a lor queto e dolenteCon l’orecchie dimesse il buon mastino,E sdrajatosi a terra appo la siepeDel guardato orticello, e alzando il muso,Lungamente uggiolò con mesto gridoPredicendo sciagure. Il disaccortoGiovin partì, nè il funebre saluto

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Toccò la baldanzosa alma d’affanno,Chè lieti volti di fortuna e risoDi alati giorni imprometteasi, e a tergo,Misero, lo premea l’ultimo fato.Le fervide palestre, i popolosiCirchi, i folti ginnasj eran sua cura,Quando Amor vibrò un dardo, e il cor gli aperseDi profonda ferita: Amor che rideD’inesperto garzon, poichè depostaLa nativa innocenza e il vergin riso,Onde pria s’allegrâr ninfe e pastori,Urbani fasti e obliquo ghigno assunse,E la divina fiaccola nel geloDei calcoli spegnendo aurei, nemicoDi geniali talami divenne.Indi Amor lo deluse, ed un, cui largaFu di censi Fortuna, ibrido figlioDel togato Quirin porse la destraAll’amata fanciulla. Arse di sdegnoL’ingenuo giovinetto, e (che non puoteIra gelosa d’un amor tradito?)Il furtivo pugnal fisse nel coreDel superbo rivale. Indi la primaDe’ suoi mali radice; indi fu datoVittima e gioco all’implacato Averno.

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Ma già la cava si disserra, e, orrendaVista, si slancia nell’arena un biecoPredatone di greggi; alteramenteSquassa la fulva chioma, e con la codaGli agili fianchi esercitando, gira,Quasi a cercar le sue foreste, il guardo.Ma non pria scorse il giovinetto immotoA lui di fronte e di ferire in atto,Terribile ristette, e l’ondeggianteGiubba arruffando, spalancò le canne,Ed un rauco mandò lungo ruggito,Che agghiacciò in petto a’ più feroci il core.Come dagli ardui monti alla pianuraSul primo autunno si scatena il nembo,Tutti a guasto menando argini e colti,Arde il ciel di saette, e tra l’avverseNubi brontola il tuono; al par quel fieroSul garzon disserrossi, alto levandoLe terribili branche. All’ara innanziFermo attendealo il giovinetto, e tuttaPonea la vita in un sol colpo; intentoSpiò il nemico, e come eretto il videAvventarsi all’assalto, al ventre irsutoFurioso vibrò la curva daga,Niun de’ Numi invocando. O trepidanteVergine Musa mia, nè tu le orrendeSmanie dirai della ferita belva,

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Nè come irta scagliossi al petto inermeDell’oppresso garzon. Dalle tremantiMani il ferro gli sfugge, e, come estremoImpeto il punge, per la tonda arenaFuggitivo si caccia, e di pietoseVoci e di pianto e di confuse preciSforza i cori di ferro e il ferreo fato.Quello a balzi l’incalza, e già l’adegua,Già già lo coglie, ecco l’addenta. O caraAl ciel prole di Marte, inclita gente,Leva il plauso, e t’allieta, e ognor di gratiSpettacoli ti sian l’ore cortesi,Onde men tardo e varìato il corsoDi tua candida vita e più soaviTi sian gli ozj patrizj, alimentatiDal largo censo e dal romuleo sangue.Leva il plauso, e t’allieta: il giovanileTenero petto e le squarciate membraPalpitar mira fra’ bramosi dentiDella belva affamata, e franger l’ossaE schizzarne i midolli e intorno il sangueSpandersi a sprazzi per l’adusta arena.Tentò più volte sul cubito erettoSollevarsi il morente, e gli ancor viviVisceri sparsi da’ sbranati fianchiFuor trascinava a insanguinar la terra.Alfin cadde e spirò; nè tu l’estreme

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Sue voci raccogliesti, o desolataMadre, nè questa dal materno latteUltima ti venìa gioja funesta;Nè tu i labbri morenti e i disiosiOcchi chiudevi, nè pietosa zollaSu le care spargevi ossa infelici.Del tuo povero ostello in su la portaInvano or tenderai gli occhi languenti,Invan raminga moverai, le sordeAure empiendo di gemiti e di pianti:Dato non ti fia mai su la custodeUrna sederti lagrimosa, e il biancoCrin recidendo, rassegnata e mestaSul caro sasso attendere la morte.

Ad altre cure, e non men degne, or volgiIl versatile ingegno, o prole austeraDel magnanimo Numa. A te le vasteMarmoree Terme son dischiuse, e dolciDopo tanto sudor ti sian gli unguentiE i lascivi lavacri, a cui furtivaVenere siede, Venere che l’areD’Amatunta e di Pafo e le colombeEsperte al cocchio e il pelago maternoPiù non curò, poich’ebbe caro il suonoDi compri baci, e in mezzo a clamoroseFòrnici accolta errò pronuba e diva.

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Nè improvvido censore i tuoi conturbiOzj devoti a voluttà, d’insigniOpre cianciando e di vittorie antiche,Rude onore de’ padri, o le presentiLeggi mordendo e gl’insolenti schiavi,Che schiave han fatto l’aquile latine.Altro nome, altre glorie, altre battaglieSerbi il prospero cielo al delicatoFiglio di Roma: su gli architettati,Profumati cincinni unico siedaDegno ornamento l’afrodisio mirto,E la quercia e l’alloro a le selvaggeFronti resti degli avi ispido incarico;Grata agli orecchi tuoi rechi armoniaD’agili note variate il curvoFlauto di Frigia, e vario agli occhi incantoTessan le molli danzatrici esperteD’allettamenti facili e di baci.Nè Fagone di vasta epa, nè l’afroRidicolo Conòpa i tuoi disertiGenerosi diporti; ed il giocondoFrizzo dei Sannioni ilari destiSul tuo labbro sdegnoso il giovin riso.Splendan con sapiente arte dispostePe’ tiepidi triclinj le colonneIncoronate d’edera e di roseL’eburnee mense folte di convivi;

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E allor che il tuo garzon l’ora ti grida,Allegramente gorgheggiando, intornoVolin gli schiavi e gli agili donzelli,Molta recando su le tenui ditaVarìetà di profumate dapi,Che in cento guise con dedaleo ingegnoOrna e trasforma il siculo Mitèco.Sciolte nell’aureo storìato nappoVadan le perle all’Eritrèo contese:Tu con ghigno gentile al roseo labbroAppressa e liba la regal bevanda,Sacra spirando meraviglia al pettoDe’ vulgari mortali, a cui novelloGiove rassembri, che dal chiaro OlimpoScender si degni ad onorar le menseDegli Etiopi innocenti. A’ regj votiCosì propizj avrai Cipri e Lièo;Così con saldo piè terrai la cimaDella rota fatal; così d’auratiStami i tuoi giorni intesserà la Parca;Di clienti e di amici arriderannoLe tue floride soglie, e benedettoPe ’l vasto imperio volerà il tuo nome.

Ove siete, o dei miei padri innocentiSemplicissimi sensi? Ove il sublimeCarme ritroverò, che dagli eccelsi

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Cedri del Sina intesero i Profeti?Dove quell’Uno che distrugge e crea,Sotto al cui passo crollano le rupiE s’adeguan le valli? O giovinettaMusa, compagna di mia vita, IddioVergin serbi la tua cetra di abjetteLaudi ai potenti e di lascivi accordi,Onde la plebe in ogni età si piace;O giovinetta mia compagna, il brunoAbito smetti, e al Tevere notturnaIl casto petto a nuovo inno battezzaDe’ bugiardi del Pindo infingimentiL’èra passò, passò l’èra de’ vaniFantasimi d’Olimpo, e Dio ti vesteDi veritate e di martirio il crineRisplendente di raggi al Sol nascenteSul rinato Isdraele. Ecco, fra turpiConnubj e sanguinose ire venaliDeliramenti crollano in ruinaBugiardi idoli e numi, e alle pietoseArti Iddio la fuggente eco ne affida,A far più bello in terra il suo trionfo.

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CANTO TERZO

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LA CROCE

E la luce fu.Genesi, Cap. I, v. 3.

Sollevatemi al cielo, aure, che un giornoRapiste al cielo il fuggitivo ElìaSul suo carro di foco. Omai di questaD’ogni raggio d’amor vedova vitaStanca è l’alma del vate, e dal desertoLetto di spine, ov’io perdo i miglioriGiorni di giovinezza, invan sospiroI neri occhi di lei, che muta passaAnzi allo stanco mio viso languente,Nè mi concede, qual solea, furtivaLa carità d’un tacito saluto,Saluto ultimo forse! Ah, tal non eri,Tal non eri, o Maria, quando dal breveBalcon materno m’assentivi il biancoVolto e gli occhi pensosi e il vago risoE l’armonia che ancor mi suona in coreDell’ingenua parola. Ah, tal non eri,Tal non eri, o Maria! Pari a nascenteOcchio di sole allor sorgeami in pettoIl sacro estro de’ carmi, e il repentinoVerso seguìa la nova aura d’aprile

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E il sorriso dell’albe e il tuo sorriso,Come april dolce e come alba sereno.Ma dal tuo core, ahimè, caddi siccomeDa calice di fior goccia di brina,Poichè l’indora il nuovo Sol. Tremante,Tremante al tuo passar resta il cor mio,Come ramo di tenero arbuscello,Quando al tornar del rigido novembreFugge da lui l’immemore uccelletta:E’ le diè fronda a’ nidi, i cari nidiE’ le vestì de’ suoi precoci fiori,Pur l’ingrata fuggì! Tal mi fuggisti,Tal fuggisti, o Maria! Luce e coroneE salute ed amor tutto portastiCol tuo partir, siccome aura che involaIl profumo de’ fiori: il passaggieroGode un istante il fuggitivo incenso,E il fior vedovo resta, e l’aura passa.Ma luce e amore e giovinezza e risoA te conservi lungamente Iddio,Perch’io, partendo, benedica a questaCroce che porto, e mi sia men dolenteLa ricordanza della terra. TroppoVegliai nel pianto, e al letto mio non vieneAla di sonno a consolarmi. Oh, tostoSollevatemi al cielo, aure, che un giornoRapiste al cielo il pellegrino Elìa!

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Santa luce di Dio, splendimi eternaEntro gli occhi dell’alma! Ecco, son scioltoD’ogn’ingombro di creta, e questo è il regnoD’eternità, per cui spingo il desio,Pari a lingua di fiamma, ove più chiusaHa notte intorno, e cerca acuta il cielo.Dal volto mio l’ombre fuggir; di novaAlba non vista mai spiegansi i fioriSu la faccia dei cieli, e li rifletteL’umana anima e il mar; sento l’eternaMelodia delle sfere, e dal diffusoAere pullular veggo infinitiTremolanti di luce astri e pianeti.Datemi, o luminosi astri, ch’io spargaUn raggio sol di tanta luce, un suonoSolo di tanta melodia nel pettoDegli affranti mortali! Erran l’immensoSpazio, inaccessi a uman viso, immortaliSpiriti: su la terra Angioli han nome,Nome d’Intelligenze hanno nel cielo,Però che raggi son dell’infinitaMente che tutto move. Un’amorosaVoce d’arpa lontana, allor che biancaPosa la luna su l’etnea collina,E vola su le miti aure il profumoDell’occulte viole, a noi può soloRicordar quegli spirti e la quìeta

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Luce piena di mistiche armonie,Onde son circonfusi: alle sublimiSfere levasi allor l’anima, e quasiPenetrando l’immenso essere, senteChe noi pur siam, benchè caduti, eterni.Essi muovono intorno a un incompresoCerchio di luce, a guisa d’innocentiInnamorate farfallette, quandoSiede sui prati il verdeggiante aprile;E a coppie vanno, e van pari a tubantiTortore, o qual due fior’ nati ad un’oraSul gambo istesso e volti entrambi al sole.Ivi con desiosi occhi cercaiLa mia dolce compagna: ah! solo e tristo,Solo e tristo io mi vidi, e non risposeVoce d’amore al pellegrin poeta!

Ma nova al guardo mio vista si schiude,Meraviglia a ridir! Candide e belleCon la presenza del Signor negli occhi,Vagano al radioso aer l’eletteCreature ch’aveano all’empie gentiInsegnato il futuro, ed incompreseEran passate e solo note a Dio.Esse tale mettean lume d’intorno,Qual dall’avara terra il pellegrinoVede la bianca Galassèa: sottile

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Nuvoletta e’ la crede, e non sa quantaFesta d’astri e di Soli ivi si chiude.Co’ due raggi sul capo a tutti innanziPassa l’ardito mandrian di Levi,E col bordone e la conchiglia al pettoElìa rapito, e Giosuè che primoToccò le derelitte are di CanaLungamente promesse; indi col verdePalmizio e con l’intatta infola al crineIl Veggente di Silo e il penitenteRe d’Isdrael, che nova luce in voltoRadìava in quel giorno, e quei che assisoSu le vaste ruine di SionnePianse i ceppi stranieri e le perverseMenti e le case del Signor distrutte.Nè manca lui, che a la deserta valleAgitarsi mirò l’ossa insepolte;Nè chi dal grembo immacolato e santoD’una vergine ebrea sorger prevideL’unigenio, coevo unto di Dio;E lungo dietro a lor stuolo s’adunaDi sacerdoti insigni e di profeti.

Di nuova gloria e di serena luceGhirlandati seguìan quanti al tremendoDio delle pugne e alla paterna fedeVotâr la vita fuggitiva in terra;

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E iridato di lampi li precedeL’Angel, che un dì col fulmine divinoLe ostili incenerì falangi al Tempio.Qui co’ trecento suoi Gedèone invitto,Terror di Madianiti, e qui il gagliardoFiglio di Mànoa e il forte OtenìelloE Giuda e Simeòn; qui a Dio cantandoVien Dèbora co’ suoi fra lunghi còriD’isdraelite vergini, campateAl furor di Sisàra; e ad esse in mezzoVela la fronte e taciturna passaLa vedovella di Betulia ardita.

Così l’alba augurata e la vicinaPalingenesi in terra e la previstaRigenerata umanità d’AdamoFesteggian quei felici, allor che un astroMiran dal paradiso in luminosaTraccia segnar di Betelèm la via.Ecco, la bella Nazzarena assisaSovra stanco asinel trepida move,Trepida, chè non vede il cherubinoChe la protegge con le candide ali:Anelante le vien presso il canutoSposo curvo sul fido bastoncello;E tutto intorno di recente neveIl piano ampio biancheggia. Alfin la santa

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Coppia, al vigile ignota occhio d’Erode,Si raccolse in un tacito presèpe;E in poco nido nella greppia algenteFu il sacro parto di Maria deposto.Si spiccò allor da le lucenti sfereUna vaga ghirlanda d’angeletti,Che le piccole mani unendo in giroAlìando venian festosamente,Come lievi farfalle in primavera,Che inseguendo si van da presso a un fiore.Senton le ubbidienti aure il celesteVolo, e intorno si fan tiepide e chete,Mentr’ei librati su l’umil presèpeSporgon le bionde ricciutelle teste,Le gote vermigliuzze e l’ale d’oroFuor d’una nuvoletta di viole,E mirano stupiti il pargolettoNon men bello di loro, ancor che natoDa mortal grembo su la terra. Al primoAprir degli stellanti occhi li videIl fanciullo divino, e con labbruzzoSemiaperto allegrò d’un primo risoI genitori vigili a la culla.Sciolgono alfin la melodia degl’inni,Meravigliosa melodia, trasfusaNelle mobili sfere, onde l’appreseLa prima coppia de’ mortali, e intorno

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Suonò d’Eden la sede; e Dio fu il primoCanto mortale, e fu il secondo Amore.Or, benchè incerta e fioca, una soaveDi quegl’inni serbiamo eco nel petto,E di dolci memorie e di speranzeNe allieta i giorni del terreno esiglio.

Salve, o purissima di Dio coeva,Stella d’amore, che dalle tenebreRedimi l’anima de’ figli d’Eva!

Su l’arpe angeliche dolce, siccomeTra miti fiori aura di zeffiro,Vestito d’iridi passi il tuo Nome!

O ingenue vergini, o pargoletti,Dell’innocenza sciogliete il cantico:Primi all’empireo voi siete eletti.

Diciam quest’Unico, che Dio consenteAlla dispersa mortal progenie,Diciamo il mistico Agno innocente;

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Lui, ch’è de’ miseri speme e conforto,Che gli egri sana, che afforza i deboli,Che addita a’ naufraghi la stella e il porto.

L’altar degl’Idoli vacilla e trema,Cadon distrutti barriere e limiti,S’addorme il fulmine dell’anatèma;

Urla per l’aria Satàn disfatto;Gli rugghia intorno di Dio la folgore;Fra’ nembi affacciasi l’Arca del patto.

D’ossa e di scheletri si sente un suono:Sorgon gli estinti, l’orecchio tendono;La terra e l’aure dicon: Perdono!

O mesti, o poveri, tergete il pianto:Egual si versa su le vostr’animeL’onda purissima del Crisma santo.

Al suolo incurvasi, qual fil di canna,L’altero Fasto; s’innalza splendidaSovra la reggia l’umil capanna.

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Così librati su l’aerea cullaGli angeletti traean canti e presagi,E, girando sul capo al pargoletto,Mille faceano a lui baci e carezze,Poi, come fide rondinelle a schieraTornan festanti agli amorosi nidi,Letizìando si levâro a volo,Lunghi lasciando in ciel solchi di luce.

Ma se festa è nel ciel, se luce e festa,Come fior di nascente alba, sull’ombreDella tua greppia, o Betelèm, si versa,Siedon su’ colli inseminati ed arsiDel combattuto Lazio ombre e dolori;E fra l’ombre e il dolor mette baleniDi Dio lo sdegno e il fratricida acciaro.Stende Roma superba a’ quattro venti,Gigantesco cadavere, le membra;E sovra alla caduta un brulichìoDi boreali dèmoni, fuggentiSul negro dorso d’ispidi ginnetti,C’hanno l’ugna di selce e il morso orrendo,Disputarsi la preda e disbranarsiE imbandir mense di nemici uccisi,E far tazze di teschj. Ai loro arcioniVestita di terror siede la Morte;Squassa innanzi alle torme irte le penne

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Una nera Stinfalide, che intornoSparge rovine ed iperborea notte.Vengon su carri striduli ululandoPallidissime streghe, e di ferinePelli covron gli adusti omeri; e qualePenduli al vizzo seno o in sozze gerleTragge gli aborti del suo ventre osceno,Pari a orsatti deformi; quale il biecoMarito al sangue sitibondo incita,Clamorosa scorrendo; altre con faci,Come rabide cagne, errano il campo,Spaventando d’orrendi urli la notte;Altre sul fango inferme accoccolatePer le squallide vie lasciano i parti.

Inorridita rimirò l’immaneSpettacolo la terra, e aprì le vasteVoragini del grembo, e l’omicideOrde inghiottì; ma nuove orde e più fierePullulavan gli abissi, e pari a fluttiSi succedean su la promessa terra,Un dì trono del mondo; or l’implacataMorte vi siede e la Miseria e il Pianto.Ma fra tanto dolor splendea ne’ pettiUna speranza di novella luce,Chè nel petto a’ soffrenti unqua non muoreLa ricordanza de’ passati giorni,

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Ed un irrequìeto, indefinitoDesiderio di luce e di riposo.Da’ sette colli fu veduta alloraUna solinga e candida barchettaSpiegar l’immacolata ala dall’òrto,E su l’aspre onde veleggiar securaAl vietato occidente. Eran d’ulivoCoronate l’antenne; una feliceAlba nascente la vestìa dintorno;In su la prora Amor sedea piloto,E una modesta Vergine, splendenteDi bende candidissime la fronte,I tranquilli volgeva occhi amorosi,I naufraghi di quella onda spìandoPietosamente, ed alle stanche bracciaPorgea pietosamente un’aurea fune,Deludendo la morte. Allegri còriDi non più visti fanciulletti alatiCarolando venìan sovra a celestiNubi ondeggianti sull’ignota cimba,E spargean dalle tenere manineFreschi palmizj e gigli e semprevivi.Prima la vide dal Tarpèo macignoDi Quirino l’armata ombra insepolta,E mandò un urlo, e scomparì sotterra;E seco scomparir, come notturneLarve di sogni, i simulati Dei,

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Che pallidi teneano Ida ed Olimpo.Fûro allor visti pe’ marmorei templiVuoti i sacri delubri: invan quel giornoCercò Giove e Minerva il sacerdote,Che sul devoto piedistallo inveceTrovò mirando un’iride di fiamma,Che, l’ampie vôlte attraversando, in arcoStendeasi all’aere e si perdea nel cielo.Sovra il rizzato crin tremâr le biancheInfole e diventâr sanguigne e nere;Dalla tremula mano sfuggì il ferro:Rovesciaronsi a terra il farro e il sale;Si spensero sull’ara i santi fuochi,E la vittima andò libera e sciolta.

Ansiose concorsero alla rivaLe travagliate e stanche itale genti;E, come allor che all’odorosa radaDi Mergellina, di Sirene albergo,O di Portici allegra al curvo lido,S’affollan disiose in sul settembreDel pellegrino marinar le donne,Del marinar che perigliò la vitaSul fragil legno, a ritentar l’avaroGrembo dell’onda di coralli altrice;Se biancheggia una vela all’orizzonte,Empion l’aere di grida, e tutte, il caro

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Nome invocando, tendono le braccia,Bianchi segni agitando, e con gli alatiPalpiti del desio contare gl’istanti;Così commosse d’una vaga spemeDi salute e d’amor, che arcanamenteGermogliava negli animi già stanchiDi vendette e di stragi, alle funesteItale prode convenìano in follaLe meste e derelitte itale genti,Quella cimba implorando. E quella a rivaMosse, mandando a’ penitenti afflittiMessaggiera di pace una colomba.Lasciò quindi la prora e tenne il lidoLa Vergine pietosa, e pari al sole,Che le tenui dimesse erbe ravviva,Con lo splendor della venusta fronteLa timida accendea speme ne’ petti.Amor seco venìa, di rugiadosiGigli intessendo candide catene,E in santo amplesso si stringea sul coreUna fedele e picciola famigliaDi pescatori poveri, scampatiDalla furia dei flutti. Esca ed ordegniNon recavan con sè, ma avean sul labbroEsca potente la parola, e al pettoIl sacro ordegno d’una bianca croce.

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Sparsa così pe’ venti della terraMovea la greggia di Gesù, traendoTesor d’alme pentite alla contesaDa lunghissimo error gloria del cielo;Così al vietato invan Lazio, ramingoCon la barchetta sua Pietro venìaRicco di poverezza e de’ pietosiInsegnamenti del divin Maestro;E poca era con lui chiesa d’eletti,Che per l’iniquo mar traeano, eternaSede cercando e non terreno impero.Alfin col novo giorno alle bramosePupille balenâr nel fondo azzurroQuanti i raggi dell’iri i sette colli,E consolati nel presago pettoConobbero l’auspicio e il rinnovatoPatto dell’Arca e la promessa terra.Ivi fermâr le tende, e ad un altareSi strinsero pregando: ivi del nuovoBattesimo purgâr l’anime pieDegli accorsi credenti; e allor che in rivaDel Tebro a battezzar Pietro discese,Meraviglia a ridirlo! un CherubinoScese dal cielo e si posò sull’onda,Sì come innamorata ala d’alcione,Che sul candido fiotto intesse il nido.Trepido stette il sacro fiume, e il cielo

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Raggiò gran luce; un murmure indistintoPe’ morti alvi s’intese, e parve gridoDi maledetti spiriti e suon d’armiE stridir di delitti ivi sommersi;E ondeggiava la terra. Indi più puraL’antica onda si volse, e nel tranquilloSeno specchiò la nuova luce e il cielo.Come pioggia autunnal, scese sul capoDegl’immiti oppressori il Pentimento,E qual nube d’incenso, a Dio levossiLa pazìenza degli oppressi. Il duroFiglio dell’Orsa il truce abito smiseDella vendetta, e all’infelice e grandeStirpe de’ vinti aviti dritti e aviteLeggi permise e men selvaggio impero.

Allor fra’ nati a verità fûr dolciConoscimenti d’insapute offeseE pietà lunga di comuni affanniE tenaci promesse e condiviseMense e care speranze. Alla secretaOmbra de’ pini e per le vie più denseDolci cose diceano alle stupìteTurbe raccolte; ed insegnavan, comePresaputo in Giudea venne un Profeta,Che all’incredulo mondo amor suase,E dal sepolcro di sì lunghi errori,

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Come Lazzaro, il trasse a nuova luce.Col lampo de’ sereni occhi e col toccoDella candida mano Egli più volte,Come lo storpio alla pescina, i biechiConsigli e le perverse anime umaneRaddrizzò nel Signor, la sconosciutaDolcezza del perdono e la tremendaEternità insegnando e l’infinitaBontà del padre e il redentor Messia.Poi ricordavan Scribi e FariseiE l’orto degli Ulivi e d’un amicoIl venal bacio ed il supplizio estremoE il sanguinoso Golgota e il placatoSdegno divino e del riscatto il segno.Come vitale balsamo scendeaLa parola d’amore e l’insuetaLuce del vero agli ostinati in petto;Poichè in misteriose are gl’incensiAvvolgevano in prima il sacerdote,Che spesso, dall’accorte ombre protettoDi Dodona e di Delfo, a’ più potentiMercava il Nume con responsi astuti;E l’ambigua parola auspicio e normaEra a’ creduli umani; or dolci e santeE agevoli dottrine a’ travagliatiPoverelli fluìan dall’ispiratoLabbro de’ sacerdoti, e ad essi accanto,

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Poveri come lor, sedeano a mensa,E cibavan con lor il pane istesso.

Ma lo splendor del tuo nuovo sorrisoE l’armonia della tua voce, o santaMessaggiera di Dio, l’ire commosseDe’ figli della notte, a cui per usoGrate eran l’ombre ed abborrito il Sole.Saltò sull’igneo carro il forsennatoOdio fraterno, ed agitò la faceTerribilmente, e mugolò sì comeInfuriato Coribante. Al fischioDell’orribili ruote, al fiero gridoSatana venne e piantò un piè sull’araD’una crollante deità d’Olimpo,L’altro sul trono; e sogghignando acceseSacerdoti e tiranni e plebi infideContro al legno del Golgota. PietosaStrinse la Fede il sacro legno al petto;E al secolar d’affanni esperimentoD’invincibil fortezza Iddio la cinse.

E un dì Pietro levossi, e alla crescenteChiesa de’ suoi discepoli gli estremiSensi affidò, chè già nel cor sentìa

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L’angelo del Signore e un’aura santaDi vicino martirio.

– O venturosi,Che le carni del Cristo e l’innocenteSangue meco cibaste, onde irrigateFuron di verità l’anime nostre,A più lunghi perigli e a più securePalme io vi lascio, chè già in cor m’aleggiaL’angelo della morte. A voi la santaCustodia delle chiavi e dell’eterna,Rigenerata Babilonia affido,E questa verga che non è d’impero,Onde la greggia di Gesù guidaiFra’ travagli del mondo a questi colli,Perenne ara del Cristo. Io la mia primaVescovil sede d’Antiochia (ignoteCose non parlo) abbandonai, chè in sognoAngiol mi venne dal Divin Maestro,Che questa Italia alla sua chiesa indisse.Alla voce il conobbi: era il celesteMessaggiero di Dio, che la profondaMuda del prigionier degnò una voltaSparger di luce e di conforto. Al cennoDel santo dito mi fuggîr dai polsiI ferrei ceppi; e me stupito e ciecoPreso per mano egli guidò non vistoFra le vigili guardie, ond’io di nuovo

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Libera respirai l’aura del cielo,E, men dall’ombre che da lui protetto,A’ fidi tetti di Maria mi trassi.Quinci toccammo l’augurate rive,Dove un Sole tramonta, e un Sol più belloSorge al cenno di Dio; nè altrove io voglioAver croce e sepolcro. –

E le sereneCiglia levate disìoso al cielo,Vide Gesù, che luminoso e cintoDalla gloria degli Angeli sedeaAlla destra del Padre. Indi a’ commossiDiscepoli rivolto:

– O pii fratelli,Cari alunni del Cristo, io vi ricordoQuel ch’È’ mi disse un dì, quando la sacraPodestà delle chiavi a me commise,E mi chiamò col tramutato nome,Ond’io rammenti a’ posteri la primaPietra angolar di sua chiesa nascente.Pietro, mi disse, e sul mio capo imposeLa santa destra (ancor mi trema il core),Pietro di Jona, m’ami tu? Dal cieloFra voi ritorno, e carità mi guidaDel mio piccolo gregge: ancor fra lungheTenebre di perigli andrà smarrito,Ed ire di nemici il cacceranno

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Dal minacciato ovil, finchè pentitiI suoi nemici abbracceran la Croce.Or tu, che primo ravvisasti in terraIl profetato Cristo, e fido e caroSovra ogni altro mi sei, tu la gelosaCura ricevi di mia greggia, ed iraDi Farisei congiunti e sacerdotiNon ti sgomenti mai; fulmine e brandoIo ti do la parola, e invitta e santaDifesa la mia Croce. Ama e perdona,E vincerai. Splenda di gemme e d’oriLa corona de’ Cesari potenti,Tu avrai corona più lucente e saldaD’umiltade e di pace; altro retaggioIo non ti lego, e tu lo serba eterno.Disse, ed uscì d’umana forma, e in tuttaLa gloria il vidi, come allor che al monteTrasfigurossi; e tale al fragil visoVirtù mi venne, che il mirai. Si schiuseIl cielo, e tutti dei beati i còriVidi e il trono del Padre; e in sì divinaEstasi mi lasciò. Tre volte io tesiAl santo collo le tremanti braccia,Tre volte a nome l’invocai, ma tanteAbbracciai l’aure, e portâr l’aure il grido.Dolci fratelli miei, forte e pietosaMilizia di Gesù, nella solenne

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Ora di morte io questa v’accomandoMia poverezza e questa arbore pia,Che frutto porterà d’eterna vita,Cui l’educa il pianto e al cor la serra.Così, quando a Dio piaccia, alta e gagliardaDistenderà le sue radici in terraSecuramente, nè furor di turboLa svellerà giammai. Sott’essa un giornoS’accoglieran le genti pellegrineNell’amplesso di Cristo, ed essa intornoD’ombre proteggeralle e di salute.Qui, su questo presago italo monte,Sulle ceneri mie, su questa eternaDi dolori e di gloria inclita sede,Sarà l’ara del Cristo; qui a solenneAgape converran le penitentiProli d’Adamo, e ciberan la sacraOstia, e fratelli si diran; qui frantiCadran fini e barriere, e le disperseGenti saranno una famiglia sola,Che da una fede e da un amore avvintaAvrà legge il Vangelo e patria il mondo. –

Così parlava. Attoniti ed accesiDelle sante, profetiche paroleL’udían gli accolti apostoli, con luiAgognando il martirio e la vicinaGloria del ciel. Ma a tal destino un solo

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Fu diletto da Dio, l’ardimentosoDall’ampio eloquio apostolo di Tarso,Convertito a Gesù poi che in Damasco,D’acre nei Cristíani ira sospintoSovra la polve umiliato e ciecoDa una luce di ciel giacque, ed inteseLa voce del Signor. Quinci per moltaProva d’errori e di costanti, affanniTratto a Roma venía lieto e presagoDel bramato martirio. A Pietro accantoNella segreta cappelletta, anticoRitrovo de’ credenti, appiè dell’ara,Sui ginocchi e’ sedea, forza implorandoNell’estrema battaglia. Ardono ai dueLati del tabernacolo due lampe,Pallidamente illuminando i voltiDe’ pietosi fedeli: e all’aura mistaDi due poveri cespi di víoleMoribonde sull’ara a Dio salíaLa vespertina prece. Allor diveltaCade la porta, e molti orridi in vistaSgherri armati di clava e di cateneBestemmiando irrompon nelle sacreCase, scompiglian l’ara, e, dalla mondaPisside i benedetti azzimi tratti,Motteggiando li spargono. Sul fronteRizzarsi a’ pii per raccapriccio i crini,

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E tremâr d’ira; allor ch’alto levandoAl ciel le palme, i due Martiri innanziSi fecero, acquetâr l’ire con gli occhi,E: Pregate per lor, dissero, e i polsiSpontanei offrîro alle catene. CarchiFuron di ferri a un tratto; e poi che intornoA lor stringeansi osando i fidi alunni,Ferocemente scaricâr la clavaSui due soffrenti gl’implacati sgherri,E scricchiolar le sante ossa s’intese,Ma non s’intese un gemito. Dal cieloSpiccârsi allor due candidi angelettiLievemente alíando, e al capo intornoDelle devote vittime ciascunoPose un raggio di Sol vòlto in corona,Luce cara a’ beati. I due pietosi,Riconobbero all’aura i santi araldi,E allegraronsi in core, ornai securiDella palma immortal.

Di molta intantoTurba di plebe fragorosa, accorsaAl sagrificio, si gremía la lungaErta del colle, in cima a cui gl’inversiPatiboli s’ergeano; e i curiosiVolti di scherno o di pietà dipintiVolgendo, o in crocchj novellando, il novoOlocausto attendean. Venner le sacre

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Vittime alfine, e le premeano intornoSozze ciurme del vulgo. Eran ferociSchiavi sfuggiti al laccio infame e squallideMegere e turpi femmine e fanciulli,Che con acuti sassi e motti argutiTravagliando venían stolidamenteLa pazíenza de’ due Santi invitta,Ma fra tanto furor, pari a due stelle,Due pietose venían, Marta e Maria,Compagne ambe del Cristo, ambe fedeliDispensatrici di pietà a’ soffrenti.Soffrenti anch’esse e destinate al cielo.Così raccolte in povere ma schietteVesti asceser del colle irto la cimaSenza muover parola, e in un rimotoLoco s’assiser delle croci in vista.Le conobbero i martiri, ed un guardoScambiaronsi, e fu l’ultimo saluto.

Angeli, che dal Cielo inorriditiPer la pietà de’ crocifissi i dolciOcchi con le tremanti ali velaste,Voi la lotta suprema e il sagrificioDel rinnovato Golgota a quest’egreCiglia ascondete, e sol ditemi quantaArmonia di pietosi inni e di preciPer la terra si sparse, allor che scioltiI lacci della creta al ciel salíano

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Fra gli angelici cori i due redenti.Eran voci di martiri fratelliCollegati d’amor, che in chiusi accoltiNon mai tòcchi dal sole antri funesti,Vigilavan nel pianto e nella fede,E, del mistico Legno a’ piedi assisi,Riverita d’affanni e di preghiereManteneano a Gesù l’ara contesa.

– Felici, o voi che sciolti alfin da questiCeppi tornate a Dio,

Come colombi desiosi e lestiTornano al ciel natio!

Felici, o voi che pellegrini in terraAl ciel votaste il core;

Che al multiforme Error moveste guerraNel nome del Signore!

A voi fu dolce ministerio e santoSoffrir per chi non crede;

Vi fu scuola il dolor, lavacro il pianto,Ed il morir fu fede.

Su questa bassa e tenebrosa sferaAlla virtù che langue,

Qual su l’erbe rugiada in primavera,Discende il vostro sangue.

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Forte ed eterna sorgerà una voceDai vostri intimi avelli,

Che a’ piedi d’un altare e d’una croceTutti dirà fratelli.

Nel ciel, dove le danze Espero alterna,Un Sol senza tramonti

D’una luce di gloria sempiternaV’iriderà le fronti.

E come intemerati astri inconsuntiA Dio serto farete;

Alla dolce dei santi àgape assunti,Eterni in Dio vivrete.

Ivi fra’ còri angelici, raggianteSerena alba la faccia,

Stefano troverete, ed esultanteVi tenderà le braccia.

In mezzo a turbe fluttuose e stolteDi farisaica plebe,

Che del sangue de’ martiri più volteImporporò le glebe,

Pari ad angelo ei surse; e il non saputoUnto di Dio dicea

E della cristiana alba il salutoE la nascente Idea.

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Ma il duro Error su’ petti empj disteseNube sanguigna e tetra;

E chi più iniquo innanzi a Dio s’intese,Scagliò la prima pietra.

Al labbro la bestemmia e l’ira agli occhi,Gli s’avventaron tutti;

Mentr’ ei, piegati i deboli ginocchi;Pregava Iddio per tutti;

E, qual sandalo pio manda profumiAlle ferree percosse,

Nella luce del cielo assorti i lumi,Pregando, addormentosse.

No, martirio non è, non è strumentoDi tirannia la Croce,

Non è legno di morte e di tormento,Non è supplizio atroce!

Ma speranza di gloria e gaudio e pattoDi vita e di fortuna,

Ma vessillo di pace e di riscatto,Che l’alme in Dio raduna;

È legame d’amor, di fede è segno,È luce, è meraviglia,

Che questo fango uman del ciel fa degno,Che a Dio l’uomo assomiglia.

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Deh! allor che di Gesù sarete accantoDi gloria risplendenti

Dite a Gesù, che vegliano nel piantoI suoi figli redenti;

Che voi soli non siete, e fidi e cariRestano, al mondo ignoti,

Con le braccia conserte a’ sacri altariAlunni e sacerdoti.

Che serto di martirio han sulle chiome,Che legge hanno il Vangelo,

Solo vanto e poter di Cristo il nome,Sola speranza il Cielo.

Dite, che l’egra debolezza anticaEva emendò in Maria;

Che col pianto, la prece e la faticaAl ciel s’apre la via.

Dite, che del divino occhio sorvegliQuest’Isdrael che plora;

Che da queste mortali ombre lo svegliAlla pregata aurora.

Dite, che i figli suoi stanno in catene,Occulti, esuli e grami;

Dite, che da quest’egre aure terreneAl suo splendor li chiami;

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E da questa mugghiante e torbid’onda,Ov’ei primo l’ha spinta,

La nova arca di Dio tocchi la spondaDal vostro sangue tinta!

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CANTO QUARTO

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PAPI E IMPERATORI

Rendete dunque a Cesare le cose di Cesare, a Dio le cosedi Dio.

Matt., cap. XXII, v. 21

Sui bruni merli d’un feudal castello Passa l’itala Musa.

– A che dal fiancoPende silenzioso il tuo liuto,Italo trovator? Se il fuggitivoPlauso ti spiacque e la venal canzoneDella corti superbe ed il mutabileRiso lascivo di festanti dame,Su la pineta di quell’alpe estremaRomitamente esulíam da questaDa fraterne, omicide ire partitaTerra, ove mille al dì surgon Caini,E mille Abeli cadono percossi;Ove d’esterne arpíe folte congregheCi ruban con le penne atre la luce,E le mense di Cesare e di CristoSprecan fuggendo e ammorbano col fiato.Italo trovatore, esuli e soli,Come ne manda Iddio pellegrinando,Mendicheremo alteramente, e Iddio

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Ne sarà all’uopo provvido di pane;Soli ed ignoti passerem, siccomeCoppia di artigliatrici aquile, a cuiIl turbine contende il dolce nido,E più s’alzano al ciel; soli cadremoPoi che l’arte possente ha la sua fede,E ogni fede i suoi martiri. –

La santaConsigliatrice, in questo dir, levossi,Come candida fiamma, e lo sdegnosoD’amor, d’ire e di giostre italo bardoPer la bianca dell’Alpe erta precesseTacitamente; e que’ mesto e pensosoTacitamente la seguía, col pettoDi vaticinj fiammeggiante e d’ira.Alfin preser la cima, ove su foltoBosco di pini mormoranti al ventoCoronata di nebbie al ciel s’ergeaPari all’arca del patto, una Certosa.Ivi posò la coppia pellegrina,E qual colomba si posò sovr’essiLo spirito di Dio. Sovra le intatteNevi guizza del dì l’ultimo raggio;Ondeggiano alla brezza i solitarjPioppi, muti custodi al cimitero;Ondula incerto all’aure il pio rintoccoDella campana del convento, e al balzo

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Silenzíosa affacciasi la luna,Cara luce a’ sepolti. Ivi all’estremoAereo lembo d’una brulla rupeGuidò la Diva il disdegnoso alunno,E la sopposta ombrosa onda di valli,Odorate di piogge e di verzura,In silenzio additògli. Allor compuntaD’ardente estro di sdegno e di speranza,La man serrògli e, qual per non concessaE diletta vieppiù cosa terrena,Sospirosa esclamò: Quella è l’Italia!Poi, mostrandogli il cielo: Italia e Dio;Sveglia il core, o poeta, e vedi e canta!E, sì dicendo, lo toccò sugli occhi;E quei vide, e cantò.

– Come fuggevoliVespertine fantasme all’orizzonte,Passan su’ miei stupidi occhi le milleTue ricordanze, o Italia. A piene maniVersiam, Musa, su lei lauri e cipressi!Quanti germi di vita informi e chiusiAvea nel grembo la materia, priaDi trarla dal caòs l’ordinatriceVirtù della Parola, e tanti in senoGermi di civiltà racchiude AusoniaDa mille genti in mille ère depostiE cozzanti fra loro in mille guise,

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Finchè l’animatrice aura d’amore,Messaggiera di Dio, su lor discenda.Soli sovra gli abissi orridi e foltiDi naufragati popoli discordi,Combattuti dal nembo, a galla stannoUna povera Croce e un aureo trono.Veggo intanto fra l’ombre e la tempestaLa barchetta di Pier scioglier la vela,Non più lieve e secura e non più cintaD’alba d’amore e di fiorente ulivo,Ma scommessa ne’ fianchi cigolandoSen vien carica e lenta al novo pesoD’oro mal acquistato e d’anatèmi.Siede all’arduo timon la pertinaceAnima d’Ildebrando, a cui sul capoPiù che l’umil tíara il luminosoDíadema di Cesare s’addice.Accorto Palinuro, ad importunoSonno il ciglio e’ non piega; e invan d’oltralpiMugghia il turbo imminente e dalle ricchePiane d’Insubria minacciosa insorgeL’ira fatal del provocato Levi,A cui vien duro seppellir nell’araOgni senso, ogni affetto, anco il possenteMoto d’amor che ne rivela Iddio.Sorge sull’aureo trono, a lui di fronte,Lampeggiante di sdegno il quarto Arrigo,

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Superbo germe di Franconia, e intornoInvan la feudale ira gli fremeDe’ congiurati Sassoni rubelliFulminati in Turingia.

E un dì dal sommoAltar surge Ildebrando; in fra l’ardentiBavarich’ire il pastorale impose,E alle fulminatrici aquile sveveTregua e silenzio e servitude indisse.Sorrise al novo ardir l’alma d’Arrigo,E dell’ardua di Pier sede abusataIndegno il dichiarò; stolto! nè vide,Che con lo scudo d’un’infinta croceAd aperta tenzon quegli veníaSovra a carro di foco, alto arrostandoSul regio capo il fulmine di Roma.Un’arma è questa, che, celata al sole,Sacerdotale Ambizíon composeDentro all’arca di Dio fatta fucina;Stette al mantice Invidia, e del feroceDente vi distillò tutto il veleno;E a suscitar la fiamma era l’OrgoglioCol sogghigno sul labbro, e il fragorosoSeminator di pallide menzognePopolar Pregiudizio e il cieco IngannoE la strisciante Ipocrisia, che in densaNube la scellerata arme ravvolse,

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E con la manca al petto e gli occhi al cieloMalignamente la scagliò nel mondo.Come fulmine vero, in pria di sommeAule e di regie teste ella si piacque;Indi per uso non sdegnò le umíliFronti e il vile tugurio, e sparse intornoFra le credule genti ombre e paure,Tale al capo d’Arrigo arme funestaVibrò l’audace pescator giudeo,Pescatore non più, ma avaro e biecoDebellator d’Enceladi e Tifei,Stirpe orgogliosa della terra. O regieSecrete mura di Canossa, e voiSecuro Olimpo del mitrato Giove,Del regio scorno testimonj antichi,Voi ne dite l’istoria!

Ivi, agitatoDa torbide paure, un dì il superboSvevo si trasse col cilicio al pettoE la cenere al crin, come s’addiceA penitente pellegrin, chiedendoSul maledetto díadema il risoDell’offesa tíara. A lui compagnaPer lo cammin de’ triboli veníaLa pietosa consorte, abbandonandoDe’ regali dominj e le diletteCure materne, ahi, di mortal veleno

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Rimeritate cure! Un dì vedraiSul fronte augusto del regal tuo sposoPiombar l’ira de’ figli, e l’ira accendeUn che di Cristo successor s’appella!Contro al petto del padre appunterannoLe sacrileghe spade, e il trafficatoCrisma di Roma scenderà sul capoD’un parricida! Abbandonato intantoMoverà quel canuto, e la gagliardaDestra, che saettò popoli e prenci,La regal destra tenderà agl’infidiServi, accattando su l’ingrate soglieL’interdetta da Pier vita cadente.Or t’allieta, Ildebrando, e liba a sorsiNell’aureo nappo a’ sacrificj usatoLa voluttà della vendetta! Al duroLimitar di tue porte ecco languisceL’orgoglio de’ monarchi: il piede ignudoGli gelerà tre notti in su le nevi,Come a vil penitente, anzi ch’e’ veggiaL’ira nei tuoi feroci occhi sopita.Godi e trionfa; su la fronte alteraDell’aspide atterrato ambula, e l’ormaDel sandalo di Pier segni il diademaDe’ Cesari del mondo. Or non arrideAll’ardir de’ tuoi voti il fuggitivoVolto della Fortuna? Alfin non sorge

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Sovra scettri e corone arbitro soloIl vincastro di Levi? Or non è all’araTributaria la terra? Oh fiero incontroDella corona e della mitra; oh infrantaUmiltà della Croce, oh disonoreDelle gagliarde invan saliche insegne!

Ma già dall’incontese Alpi, stridendoPer la patita ingiuria, oltre si cacciaL’aquila di Lamagna, e a’ tuoi pollutiColli, o Roma, s’affretta. Ecco, il traditoLateran schiude le sue cinque porteA’ Tedeschi irruenti; ecco di nuoveFiamme ravvolto il Campidoglio eterno,Su cui non più nella purpurea veste,Composti il volto a maestà sublime,Di Roma i Padri aspettano la morte,Ma una torma di squallidi LevitiScovron l’arche de’ padri, e traggon l’ossaA lubidrio de’ figli, e all’affamateJene rompenti da’ Carpazj geliL’imbandiscon, ghignando. O sacerdote,Dall’irta mole Adrianèa, che chiudeMen la paura tua che il tuo furore,Ancor sangue comandi? Alla smarritaPer la lunga ira tua greggia di CristoNon mostri ancora il ramuscel d’ulivo,Che recava a Noè la pellegrina

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Messaggiera d’amor? Questo che invochiNon è brando infedel? Di Cristo i figliAll’ottomana scimitarra affidi?Cristo abbandoni al Fariseo? Va’ fuggiDal cospetto di Dio, veglio iracondo;Fra un pelago di sangue alla tedescaRabbia mortale il Saracin ti tragga;Ti sia d’ospizio generoso alfineL’implorato Guiscardo; a te nè il CieloDarà riposo mai, nè mai col piantoDi Pietro sconterai l’indegna offesaD’aver mentito Iddio! Dolce e pietosaVirtude è il pianto, e come pioggia, innovaIl taciturno fior del pentimento,Che le radici nella terra asconde,E attinge con le cime il ciel sereno.Dote celeste è il pianto: agl’infeliciParla per esso Iddio; ma al tuo superboCiglio non brillerà l’emendatriceStilla del penitente. Esule e soloAl golfo infido di Salerno i cupiLampi dell’ira affiderai morendo,E implacato morrai. D’allori eterniL’imprecata canizie altri ti cinga,Io mi volgo al Calvario, e prego e canto.

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Non con la spada e il fulmineS’insegna il nome di Colui, che in vettaDel fortunato GolgotaRuppe il dardo su l’arco alla Vendetta!Appiè del suo patiboloTacque dell’Odio il tuono,E spiegò l’ali immensurate e candideSugli uomini il Perdono.

Con la soave e facileMelodia, che l’umane alme affratella,Con la pietosa e misticaVoce d’amor, che Carità s’appella,Ei dai suoi colli a l’ultimoPolo, dal mondo al cielo,Tutti chiamava dolcemente al placidoGiogo del suo Vangelo.

E, sia celeste ed unicaLegge, dicea, di chi alla vita io chiamo,La voce che in ogni animaSuona profondamente: io credo ed amo.Indi al pentito apostolo,A cui fidò il suo gregge,Non terrene superbie o umano imperio,Ma l’umiltà fu legge.

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Egli fu guida a’ popoli,Agli oppressi, a’ dolenti ei fu fratello;Non asil d’empj furonoLe case sue, ma di smarriti ostello;Non di cruenti despoti,Serva o tiranna a gara,Ma vessillo d’amor, ma faro ai naufraghiLa candida Tíara.

Ma tu in fatal connubioL’umil vincastro all’aureo scettro unisci,Ed or col bieco fulmine,Or con la spada i figli tuoi ferisci;Nell’arca dell’AltissimoOro e lussurie ammassi;Langue, o Levita, il pellegrin di Gerico,E tu sorridi, e passi.

Dove contenne i barbariCol dolce verbo di pietà la Croce,Tu dispietato ed avido,I barbari invocando, alzi la voce.Oh, alfin si spezzi il geminoLaccio, che i polsi avvince ed il pensiero:Chi nel nome di Cristo i figli traffica,È Giuda e non è Piero!

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Dall’ospitale Elvezia,D’evangelico zelo ardente e saldo,Qual Furio dall’esilio,Torna al conteso Campidoglio Arnaldo;E le romulee ceneriSuscitando col detto,Gli echi risveglia dell’avite glorieDegl’Itali nel petto.

Dal tacito cenobio,Bruto senza pugnale e senza parte,A spiegar surse l’intimoSenso abusato delle sacre carte.Viva chi strappa a’ miseriDel pregiudizio il velo:Cristo col sangue suo ci rese liberi;La libertà è Vangelo!

Vil chi tra placid’ozjServir crede al Signore, e prega e piange,E di cilizj inutiliL’infermo petto e il digiun fianco infrange:Cristo i gagliardi apostoliNel deserto non spinse;Non è campo dell’uom la solitudine;Chi non pugnò, non vinse!

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Ecco, al suo dir si destanoI leoni d’Insubria; ecco, alla fidaOmbra del sacro LàbaroGl’itali petti adunansi in Pontida;Ecco, ardente di fulminiFra lor l’Arca procede;In novo amplesso dal Carroccio splendonoLa Libertà e la Fede.

E tu, che meno il turgidoSvevo che l’ira popolar temesti,Pietro malfido e timido,Del tuo sacro favor l’alme accendesti;Dalla temuta cattedraSanto dicesti il drittoDelle tue genti; e in fronte ad AlessandriaIl nome tuo fu scritto.

Qual subita letizia,Qual fervor, qual fraterno impeto pio,Che alla ragion de’ popoliVider gl’itali prodi unirsi Iddio!D’armi e d’armati fremonoLe pingui insubri valli;Da’ geli di Soavia onda rovesciasiDi fanti e di cavalli.

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Oh, che d’allori io seminiQuesto, ove Roma è surta, italo piano;Vestiamo, itale vergini,D’eterne frondi il memore Legnano!L’ingorde aquile stridono;Di tuoni il ciel rimbomba...A noi vita, a noi gloria; a voi, teutonicheOrde, vergogne e tomba!

Ma a che di lieti canticiEcheggia al ciel la libera laguna?A qual nefando trafficoCol vinto Giuda il vincitor s’aduna?Questi, che al petto trepidoSerra il Tedesco infido,Quel Pier non è, che contro a stranei despotiLevò di guerra il grido?

Rugge irato il terribileLeon di Marco, e son foco i suoi sguardi;Odo dintorno il fremitoDe’ derelitti vincitor’ lombardi!Ah, indarno, indarno InsubriaDel vostro sangue è rossa:Il dolce onor de’ disputati lauriCalpesta il Barbarossa!

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Fuggì sdegnata al perfidoBacio di Giuda l’itala speranza,E il luminoso auspicioSorto in Legnano tramontò in Costanza.Sveglia, o Lupa di Romolo,L’urlo per l’aer bruno;Finchè tu vivi, non è morta Italia,È teco il tuo Tribuno!

Ma tu, popolo instabile,Schivo di giogo e alla corona inetto,D’un vil papa e d’un despotaAbbandoni al furor quel sacro petto!Or ti ravvolga il turbineDello stranier disprezzo:Del tedesco su te selvaggio imperioLa vita sua fu prezzo!

Ben l’immatura cenereFerocemente gitterassi all’onda;Ma verrà dì, che il TevereIl sacro avanzo porterà alla sponda:S’animerà la polvereD’un novello pensiero,E lampeggiando incomberà su l’empiaRoma, e dirà: Lutero!

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Nuove età, nuovi carmi. Alfin l’alteraPodestà della stola Iddio percosse;E dalla Senna tempestosa e neraLa vendetta de’ Re stridendo mosse.Sovra la barca tua cade la sera;L’onde, che varchi, son tumide e rosse;Pescatore di Giuda, invan ti lagni:A fronte di Canossa or sorge Anagni.

Culla ed asil di Bonifazio, astutoDi volpe ingegno e leonin coraggio,Quivi dell’imperial serto pollutoIl Giglio tergerà l’antico oltraggio.Non più al tuo piede, reverente e mutoVerrà Cesare, o Pietro, a farti omaggio;Nè, tolto il fren del tuo bianco destriero,Cesare ti farà da vil scudiero.

Levate il fronte dall’indegna polve,Aquile di Sicilia e d’Ungheria:Questi non è colui, che lega e solve,Ch’appiana al mondo del Signor la via;Questi è colui, che di furore avvolveLa figlia di Siòn facile e pia;Questi è colui, che l’anime usureggia,E terra e ciel delude e tiranneggia.

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Ma l’arte or non ti giova, onde le spalleDell’aureo manto a Celestin nudasti:La spada temporal ti cadde a valle;Per ferir troppo il fulmine spuntasti;Muto è di Lateran l’inclito calle,Memore ancor de’ tuoi superbi fasti;E, dall’ara fuggiasco e indarno occulto,Di Francia, aspetti il provocato insulto.

E venne il fatal dì. Dall’oro infranteCadon le mura del papal castello;E di turbe e d’armati onda mugghianteLa villa invade e il pontificio ostello.Levasi il vecchio pallido e tremante,E la man porta al suo papal cappello;E, cinte in fretta le porpore infide,Su l’aureo trono in maestà si asside.

Rompe allora la folta, e incalza e volaL’italo duce, e di gridar non resta:Maledetto Satàn, lascia la stola,Della mitra di Pier nuda la testa!E, in così dir, l’afferra per la gola,L’atterra, lo strascina, lo calpesta;E quei, superbo ed ostinato, grida:Io vo’ papa morir; chi vuol m’uccida!

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Ma nè d’acciar, nè martire moristi,Chè, qual rabido can, morir dovevi:Tu terra ed oro e uman sangue sitisti,E vergogne e dolori e rabbia or bevi.Ben, dal corpo diviso, a lui salisti,Che l’umil t’affidò verga di Levi;Ma al regio manto ed alla faccia irataPier ti sconobbe, e ti negò l’entrata.

Così alla nuova Babilonia avaraTornò cieco Isdraello al servir primo;Fu vista allor la pallida tíaraL’antico sangue tergere nel limo;La Franca podestà s’alzò su l’ara;La Croce di Gesù fu posta all’imo;Chi men servo al poter parve più reo,Vangel la forza, e Cristo il Fariseo.

Tu che due volte vedova, due volteLa perduta piangesti inclita sede,Chè d’ire armati e di superbie stoltePapi ed Imperator’ ti rupper fede,Invan tra il pianto e le miserie molteDe’ lauri di Quirin ti vanti erede:Finchè il vol non adegui a’ primi eroi,Fûr degli avi que’ lauri, e non son tuoi.

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Sorgi, Arcangel de’ carmi; e nel possenteFoco dell’ira, che t’infiamma il core,Questa tempra a concordia itala gente,Che più d’uno non ha tranne il dolore;La voce sua più Cesare non sente,Chiama i lupi all’ovile il suo Pastore;Sorgi, e nel regno degli eterni affanniCaccia nell’ira tua papi e tiranni!

E insegna come a desolati giorniIl Ciel serba l’Italia il viver tristo,Finchè lo scettro al prim’onor non torni,E l’infido Pastor non torni a Cristo;Che lunghi soffrirà dolori e scorni,Finchè lo scettro al pastoral sia misto,E, vinto il germe d’ogni mal profondo,Non abbia Italia un trono, e un tempio il mondo.

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CANTO QUINTO

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I CROCIATI

E darò loro uno stesso cuore ed una stessa via.Gerem. cap. XXXII, v. 39.

Dall’ardua cima della tua pendenteTorre, o bellica Pisa, io ti saluto;E voi tutte saluto, inclite valliDe l’esperia contrada, ospite santaDi pellegrini Genj, ara alle Muse!Su la sponda dell’Arno e tu ristrettaNella succinta clamide t’assidi,Numerando a la gialla onda in cadenzaI tuoi giorni d’oblio. Sovra i dirùtiMerli delle tue mura arbitro siedeIl silenzio degli anni; e sol la piaVoce de’ figli tuoi rompe la notte,La voce pia che al pellegrin rammentaLe morte glorie, onde non hai che il vanto,Te saluto e compiango! ImpazìenteD’ozj più lunghi e de’ perduti onori,Si ritrasse il Tirren dalle tue riveSilenziose, e nova sede elettaFra’ liburnici moli, indi ai lavacriDelle najadi etrusche e all’ardimentoDei fecondi veleggi auspice arrise.Tu rassegnata ai dì modesti, in cheta

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Pace raccolta, ameno ospizio e cultoOperoso porgesti ai derelittiItali studj; e là dove le bracciaApriva il porto al navigante, apristi,Porto eguale di tutti, il Camposanto.

Quivi di sacri entusiasmi accesoGiovinetto io m’avvolsi, e pari a flutto,Romper vedea di poca zolla al lemboTutte glorie terrene; udía dintorno,Come vento nel bosco, un mormorioDi liete voci e di lontani evviva,Qual di commossi popoli ridestiAl nuovo sol di libertà. Si scosseA tal mistico suono il monumento,E nel compluvio s’agitò la polveDe’ crocìati eroi quivi sepolti.Sorse in mezzo, da terra, alta una CroceLuminosa di stelle, a cui dintornoSi stringeano guerriere ombre: di focoGli sguardi, i brandi nelle destre; foltiSui ferrei terghi ondeggiano i cimieri,Come fiocchi di nebbia in sul ciglioneDi montani dirupi. Ecco, si avventanoAlla battaglia; sanguinosi stridonoDi Libia gli avvoltoj, che dentro ai visceriSenton l’artiglio della morte; un’iride

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Sovra la tomba di Gesù si stende;E in sacro nodo di splendore avvintoIl franco nome ed il latin v’è scritto.

Oh spettacolo novo, oh prorompenteVoce d’amor, che come fiamma in pettoDell’Europa scendesti, e all’alta impresaTutto invocasti il pallido OccidenteAlla tomba di Cristo! Entro la sacraGreppia e nella pietosa urna (d’orroreBen vi corron le vene, o pii credenti!)Pasce l’avene l’arabo camello,Rapida cimba di deserti, e stampaDi sangue cristìan tiepida l’ormaNel Getsèmani santo; ove le bracciaAlle proli redente apría la Croce,L’adunca Mezzaluna erge le corna,Pari a falce di morte, e sanguinosiGitta i suoi raggi nel soggetto mare.Qual funesta metéora, che passaSul notturno Simeto: inorriditoIl faticoso pianigian la siegueCon tremante pupilla, e a piante e a greggiFatal prevede la mefite estiva.

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Dietro le porte di Siòn fra tantoLangue il pietoso pellegrin, che il duroTributo non recò dal suo paese;E allor che più fuggir sente dal coreLa luce della vita, i moribondiOcchi all’incerte cupole, vestiteNel croceo vel dell’imminente sera,Con lunga, irrequieta ansia mirando,La derelitta famigliuola e il dolceNido ricorda, e al ciel si volge e piange:— Deh, vi mova pietà del pellegrino,Quanti avete un acciar popoli e prenciDell’Europa lontana, e a questi lidiDall’urna di Gesù nova e gagliardaVita attingete ed il perduto amore!All’artiglio infedel questa toglieteAra solenne, ove immolossi un dioA perpetua di noi luce e salute;Nè più il figlio d’Islàm l’ara ci chiudaDel Cristo, ch’egli invan provoca e insulta!Qui, pietosi, accorrete. Almen fia datoAl sofferente pellegrin la stancaVita posar sul tumulo divino,Che tenne per tre dì l’immacolataSalma di Lui, ch’indi fe’ al ciel ritorno.O infinito dolor! Dalle natieSponde partire, superar per tante

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Inospitali terre e irati mariE immani genti innumeri perigli,Consumar d’astinenze il corpo stanco,Della santa città giungere in vista,Abbracciarla con gli occhi, e presso a rivaNaufragare e morir! Deh, tu consolaLe mie vedove case, onnipossenteSpirito della Fede, e tu la caraProle, di genitor priva e di pane,A la pia della Croce ombra m’edùca,E desto in ogni cor tieni il desioDe’ santi luoghi al Mussulman soggettiE dell’ossa di noi martiri ignoti,Che felici moriam, se il morir nostroAll’opra santa accenderà i fratelli!Deh, permetti quel giorno, o Tu che staiAlla destra del Padre; e tanta a’ viviGloria concedi e tal gaudio agli estinti!Esulterà quel dì la nostra polveSotto a’ piedi cristiani, e nova in core,Se posson tanto i morti, aura di fedeSpireremo a’ devoti, e di nostr’ossaFarem riparo a’ valorosi petti,Che più fermo riparo avran la Croce.Sovra a limpide nugole equitantiPasserem su’ lor capi, e al noto segnoDelle braccia incrociate i cari estinti

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Conosceranno, e alla divina impresaSentiranno nel sen crescer l’ardire. —

Così morìano i pellegrini; e occultaD’Europa nelle viscere fremeaGran potenza di moto e di vendetta.Tal, quando in grembo alla feconda terraBollon compressi i zolfi e le piriti,Da’ tenebrosi sotterranei chiostri,Congiurati fra lor sforzan mugghiandoLa terrestre corteccia, che improvvisa,Ove s’arrende più, s’alza o s’avvalla,Scote dal dosso, come inutil peso,Le mortali fatiche, e strugge e inghiotteIn un istante sol l’opra degli anni;Sorge stridendo dall’eretto cono,Di vulcano forier, torbido fumo,Insin che col fragor di mille tuoniLa combusta materia apresi il varco,E d’eco in eco per le valli intornoSi propaga il rimbombo; al ciel si slancianoCento lingue di fiamma e incoerentiSabbie e nembi, di sassi e fango immondoE sozze scorrie ed oleosi asfalti,Secreti figli della terra; fuggonoGreggi e pastori, crepitan le selve,Gorgogliano le fonti, e romoroso

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Per li campi fra tanto si devolveIl gonfio mar delle bollenti lave.Tal de’ figli d’Europa era il profondoAgitamento e il grido e lo scompiglio.Fin che congiunti e con la croce al pettoAl conteso Isdrael s’aprîro il varco.Gesù riprese il mortal corpo, apertoDalle cinque ferite, e i dolorosiStromenti del martirio, e tal sen vennePietoso agli occhi del secondo Urbano,Agitandogli i sonni e le solingheOre della preghiera. A molti insiemeProdi guerrieri ed umili eremitiE d’impeccato cor vergini suore,C’han su’ volghi dominio, appresentossi,E in detti pietosissimi venìaPersuadendo la sublime impresa.Vider molti devoti in su gli altariSanguinar dalle piaghe i Crocifissi,E sudar sangue e batter le palpèbre,O girar gli occhi intorno, e la divinaDestra più volte sconficcar da’ chiodi,E accennar l’Oriente. Il sacerdote,Nell’atto d’invocar tre volte Santo,L’elevata mirò Ostia del CristoAl sagrificio diventar sanguignaE tremar tutta, e mormorar le intese

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D’amor parole e di promessa e d’ira.Tutte correa di Francia e di LamagnaLe città popolose un Eremita,Spronando i volghi instabili e ferociAlla terra promessa, alle beateSedi di Cana, all’ara de’ profeti,A’ pozzi di Giacobbe, a cui dintornoSorge spontaneo il tralcio, e al vento ondeggiaLa bionda chioma delle doppie mèssi.Dal minacciato Bosforo tremanteInvocava il Comnèn l’oste crociata;Chè su l’incerto dìadema il ferroDel superbo Ottoman mettea baleni,Di paura ingombrando i muti arèmiE i torvi eunuchi e gli avidi sofisti,Spargitori di scismi e di vendette.

Scoppiarono alla fine in un sol gridoLe cento lingue d’Occidente, e in follaD’ogni proda accorrean quanti mai d’elmoVestir la fronte e saettâr la lanciaIn giostre ed in gentil’ torneamentiCavalieri eleganti, e quanta plebeArse di zel religìoso e d’iraAlla causa di Cristo; e tu, pietosaFrancia, a popoli tanti eri convegno;E allor forse il tuo Genio i tuoi previde

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Fati venturi e le tue glorie noveE il trono, ond’oggi a civiltà sei centro.Forse scordâro allor l’onte di BrennoGl’italici campioni, e quando al pettoPoser la croce e scossero la destraA’ cavalieri tuoi, sentîr nel senoUn profetico spirito d’amore,Che a grandi imprese li dicea fratelli.

E concordi partirono, cercandoNella fede una patria. Dall’eternaLeonina città sursero in mezzoAi fluttuanti popoli, due grandiOmbre, e mossero occulte ove la santaOste accoglieasi. Avea l’un’Ombra al pugnoAureo scettro pesante e su la fronteSplendido dìadema, ove inquìetaUn’aquila le bronzee ali schiudeaCome a’ dì della gloria. Un lituo umíleReggea l’altr’Ombra, e su la calva testaSacerdotal sedeale infola bianca,E un’aurea aveva ed un’argentea chiaveAlla cintura delle schiette vesti.Al primo aspetto degli accolti eserciti,Che baldanzosi molto campo ingombrano,All’agitar degli spiegati làbari,De’ guardi al lampo, delle voci al fremito,

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Di nova gioja e di splendor piu vivoBalenâr le due sacre Ombre, e in sorrisoDi fraterna amistà vennersi incontro,E toccârsi le destre. ImmantinenteDal cielo emerse una gran luce, e in mezzoAlla gran luce era un altare e un trono,E gran voce s’udì: Germe fia questoD’alleanza fra noi; nel loco istessoUn trono e un’ara avran Cesare e Piero.

Per via diversa intanto Itali e FranchiLasciâr le patrie sponde; e questi in priaLe sacre alpi varcando, alle pescoseDalmate rive volsero il saluto;E tu indarno sul varco arditamenteContro lor ti ponesti, o coronataD’insolubile gel Tracia selvosa,E dalle caccie invan con fiero gridoAlla pugna invocasti i fuggitiviFigli dell’arco, che piagati al tergoL’ardito maledîr brando francese.Solcâr gli altri dell’Adria il flutto infido,Flutto infido al nocchiero, a voi securoOspizio nel dolor, veneti padri,Poichè fra gli ozj degli antichi lariFischiar sentiste le sanguinee serpiDel flagello di Dio. Però dal cielo,

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A consolarvi il dìuturno esiglio,Venne la cara e non ben colta in terraDivina Libertà, seco traendoUn moribondo ramoscel di quercia,Che un dì, sacra a Quirino in Campidoglio,Costretto avea con le radici il mondo.Quinci presso a l’azzurre alghe e i coralliDe’ vostri lidi trapiantar le piacqueIl divino virgulto, e di pietoseCure il sovvenne, e il ricreò di viviZeffiri e d’onda, insin che dolci e grandiSpiegò l’ombre dintorno. Il pellegrinoAl sacro rezzo s’adagiò più volte,E mormorar fra le sonanti foglieSentì il nome di Roma, e passar videMille tra’ folti rami ombre d’eroi.L’Adria dunque varcâr le generoseItale schiere; salutâr la mestaEllade antica: sormontâr l’insigneDi contrade e di genti ematia terra,Finchè coi fiori del mattin sul crineVider levarsi pigra e sonnolentaDa’ lavacri del Bosforo la bellaDruda di Costantino. Ivi raccoltaAl grand’uopo la doppia oste convenne;E, date al vento le purpuree croci,Alla regal Nicea volse la fronte.

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— Cieco figlio d’Islàm, questo non odiTuono di guerra oltre il natio deserto?Tra’ virenti palmeti, ove la duraLancia appuntò l’inesorato emiro,Lascia il gregge e la tenda, e là ti caccia,Ove più stride e infuria il sanguinosoDèmone della pugna! Or più sul filoDella contorta scimitarra assisoLe polverose penne non distendaL’inonorato oblìo; nè tra lasciveBraccia sopito o al caro armento appressoTi sorprenda la morte. Ecco, già in armiSorse l’occiduo mondo, e si riversaIn sen d’Asia temuta, e tempj ed areRovesciare ha giurato al tuo Profeta,E su l’arse rovine erger la Croce.E tu chè stai? Già di Nicea divelteRuinano le mura; il tríonfanteSatellite di Cristo il tuo calpestaMal difeso Corano, ed alle torriD’Antiochia famosa il passo affretta.Oh, vestite di folgori e di bronziLe quattrocento ròcche e i minaretiDella grande Antiochia, e le sia scudo,Strenui figli d’Arabia, il vostro petto!Per voi, figli d’Arabia, il Sol combatteE il deserto e la sete e il pestilente

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Dell’arsa Frigia orribile miasma,Già funesto al nemico; onde contritoDa lunga inedia, e lunghe gite infermo,Sotto gli aranci del dafnèo giardinoVien cercando al suo mal tregua e ristoro.Per voi combatte il Cielo. Ecco, sul brunoProcelloso destrier passa il Profeta,Ed una polve di purpuree stelleGli si leva dintorno; ecco, l’anticoBrando ei palleggia, che di sangue intriseSul Bèder trionfato; a lui da cantoVien su le lampeggianti ale di focoL’arcangelo Michele e quei che un giornoLa fatal suonerà tuba tremendaAll’ultimo giudizio. O voi, cui santaÈ la memoria del Profeta, e il pettoPurificàste di continua prece,E posaste le labbra all’anneritaGemma del Paradiso (un dì confusaNel fango del diluvio, indi commessaAl Caàba santissimo), sorgetePari a turbo del Sâra. A voi diè il ferroMaometto in custodia; egli col ferroE col foco e con l’ira arse e disfeceIl padiglion degl’idoli superbi,Dominatori in Palestina; e puroSorse dalla sanguigna onda il Corano.

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Vil fanatica turba, a cui di greggeCristo die’ nome, o come gregge abiettoPiega le terga al pastoral vincastro,Qui per tramite lungo irromper osa,La vil greppia cercando e il legno infameDel suo falso Profeta. Oh, via l’imbelleCristíana masnada, a cui nel petto,Come a femina vil, l’anima trema;Al patrio ginecèo tornin gli eunuchiA cui legge è il perdono, e il pentimentoSola virtù! Stolti, e si danno il vantoFiaccar d’Arabia i figli e domar l’irtoLeopardo del Sâra al tocco soloDel fragil legno, ov’è il lor Dio confitto! —

Aspro assedio funesto arde fra tantoD’Antiochia alle mura.

In simiglianzaD’oscura nube, che dai verdi colmiD’Elice, altero o non ignobil figlioDi Mongibello, minacciosa pendeSu la tenera vigna, che precoceSchiude le gemme al primo sol d’aprile;Trema il pietoso agricoltor, che vedeNel sen del nembo congelata e chiusaLa sonante gragnuola; allor che destoPer l’aria bruna il provvido ponente

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Spinge e flagella con opposte penneL’accavallate nuvole, che vinteSgombrano il cielo e danno loco al sole;Tal si cala da’ monti, e tal minacciaL’ostinato Ismael di Cristo i figli;Quando a fugar dall’inaccorte mentiIl fallace sgomento e la paura,Arditamente si levò nel mezzoCo’ cilizj sul petto un fraticello,E ispirato da Dio mosse la voce:Diffidenti in Gesù, chi, chi di fugaParla nel dì della vittoria? QuesteNon son le terre d’Isdrael? Non sonoQuesti i fiumi d’Edèn? Questi i superbiColli non sono di Siòn? Le soglieDel Santuario non son qui? Qui il sangueCristo non sparse? Il secolare insultoSul conteso sepolcro e qui non pesa?O sciagurati, o increduli, dal capoCosì vi tolga Iddio l’ira de’ figli,Come a nuovi portenti e a glorie nuoveE’ pietoso ne serba! Udite. Al balzoD’Oriente già presso era il mattino,Quando ne suole il ciel con non fallaciSogni avvisare il vero. Una gran luceMi venne agli occhi, ed una voce intesi:Sorgi, a grand’opra Iddio t’elegge: occulta

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Là sotto l’ara della pia cappellaL’obliata si giace arme, che ruppeSovra la croce al Redentore il petto:Sdegnosa e inulta ella si giace, e fremeNelle tenebre e s’agita. VenutaÈ l’ora alfine, e lo comanda Iddio,Che il divin sangue sparso a stilla a stillaPiombi sul capo al Filisteo superbo!Mi scossi, mi destai; sorgo, m’affrettoAll’indicato altar; sopra la nudaTerra mi prostro, il suol ne tento, infrangoL’eretto palio; sulla smossa calcePiove il sudor della mia fronte; il pettoM’ansa, mi trema il cor, mi grondan sangueLe lacerate mani; a prova estremaLe forze ultime aduno, e alfine oh! alfineTrovo il ferro promesso, il divin ferroDel sangue di Gesù vermiglio ancora.A voi mi traggo; Iddio mi guida; è questaL’arma, il sangue n’è questo. O tu che a tantaGrazia m’eleggi, onnipossente Iddio,Tu che al tuo Gedeòn desti i trecento,L’arme a Giuditta ed al Pastor la fionda,Se fra questi ozíosi ora altrettantiFidi non trovi e valorosi, oh! dammi,Dammi ch’io sol corra alla pugna, io soloPer te combatta, io sol vinca! Già fuggono

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I nemici di Cristo; a cento, a milleCadono gli empj; la vittoria è mia,Miei, son miei quegli allori; a voi non restaChe l’ozio breve e la vergogna eterna!

Disse, baciò la sacra lancia, il pioAbito smise, e vestì l’armi, i dettiCon l’esempio affermando.

Un generosoFremito, un balenar d’ignudi acciari,Un serrarsi qual muro, un inquìetoBatter di passi e sotto alle visiereUn rotear d’accesi occhi e un sol gridoFe’ risposta a quel dire.

Erto sul dorsoDel fulmineo destrier passa il Buglione,Mentre su bianca mula umile e lentoIl vescovo Ademàr vien ministrandoLa transustanziata ostia a’ fedeli,Viatico solenne, arra e certezzaDi vicino trionfo.

Ispido e bieco,Il turbante sugli occhi e in pugno il brando,A capo della turca oste cavalcaL’altero Kerbogà, duce superboDel superbo califo, a taciturnoAvvoltojo simil, quando dal monte

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Al custodito ovil calasi in giro.Vanno a’ feroci Musulman’ commistiI pietosi Mollà, che di perenniAstinenze hanno merto e di preghiere;E a’ devoti rammentano le sacreDel Profeta battaglie, e la veracePromissìon del paradiso a’ fortiPer la patria caduti e per la fede.

— O celeste soggiorno, o sovrumaneDelizie del Korkàn, florido asiloDe’ beati credenti! Ivi perenneFra roseti immortali argenteo e puroVolge la rigogliosa onda un ruscello,Su cui l’occhio del Sol pingesi in iri;E quanti ha raggi il sole e stelle il cielo,Tanti sul sacro rio van folleggiandoMobolissimi Genj, a cui son corpoI fiori, alma i profumi, amor la luce.Schizzan fra’ muschj morbidi e le chiomeDe’ diffusi papíri in cento guiseLimpide fonti, che in auree conchiglieL’abbondevoli e fresche acque versando,Sveglian l’eco dintorno, armoniosaEco che amore, amor va ripetendo:Odono le beate anime, e assorteIn divino piacer vivono eterne.

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Tendono alla vocale onda le braccia,Vago onor delle rive, i gelsomini,Sotto ai cui rami libere di veloS’accolgono le Urì, tutta dintornoInebbriando l’aura di fragranze.Ivi di voluttà trepide stendonsiSu le dolci erbe; e invan tra ramo e ramoCol suo raggio d’amor le cerca il sole,Chè più e più l’accorta arbore stringeLe ingelosite foglie, e le proteggeDi fresche ombre e di fiori. Indi a la molleOnda in folla si danno, in simiglianzaD’amorose anitrelle, e abbandonateLe nere chiome su le rosee spalleVan per la dolce correntía scherzando,Pari ad argentei pesci fuggitivi,Guizzanti al raggio della colma luna.Quale a fior della verde onda trasvolaCol bianchissimo piè, cui dolce inciampoFanno i cespi di rose galleggianti;Chi su conchiglia d’alabastro scivola;Chi fuor dell’acqua il niveo collo emerge,E tutto dalla crespa onda traspareIl volubile corpo radíante;Chi sopra il dorso candido d’un cignoMollemente s’adagia, e spande fiori,Mentre l’augello innamorato intesse

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Ampj giri su l’onde, e con un fremitoVoluttuoso nelle piume e in arcoL’ale schiudendo, il flessuoso colloA’ lattei fianchi della ninfa attorce.Tornan quindi alla riva, e poi che occhieggiaFra’ bruni mirti la falcata luna,Lungo i ricurvi margini fioritiS’adagiano cantando, o per le folteMacchie tra’ fiori involansi fuggendo;E qualunque de’ fior tocchi furtivoL’almo candor delle celesti membra,Indi s’allegrerà d’aere più mite,D’eterne foglie e di più dolci essenze. —

L’Angiol di Sabaòtte alfin dà fiatoAlla tromba di guerra, e l’ale scoteSugli affrontati eserciti. RimugghiaEntro a’ petti il nutrito odio; le faciSquassa la sitibonda Ira, e fra l’armiScagliasi: d’infernal fumo e di notteGli occhi avvolge a’ guerrieri, ed il feroceUrlo mescendo al martellar de’ brandi,Chiama, ministra al suo furor, la Morte.Ratta questa precipita, l’immaneFuria seguendo; nelle cupe occhiajeUna gioja funesta arde siccomeRossa teda fra’ l’ombre; orrida batte

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Le dentate mascelle, e la fulmineaFalce rotando, come lupo al sangue,Cacciasi fra la mischia. Un denso avvolgeNugol di polve i combattenti. Il cozzoOdo dell’aste e il tempestar dei ferriSu’ rostrati brocchieri e il concitatoScalpitar de’ cavalli, e preci ed urlaDi fuggitivi e de’ morenti il grido.

Scende alfine dal cielo impietositaDi tanta strage una divina, e nomeDi Vittoria le dan le bellicoseStirpi mortali. Un dì (se avvien che il voloDelle nostre speranze al ver s’adegui),Un dì non cercherai fra gli odj e l’armiDel più forte la fronte, o lusinghiera,Speranza del valor, nè di fraternoSangue bagnati recherai gli allori,Premio funesto al vincitor. Ma doveDi più lieta virtù splende l’ingegnoNe’ pacifici studj, e là verraiIntrecciando corone alle cultriciD’onestate e d’amore Arti sorelle.Verran teco le Muse, e moverannoCarme ancor non udito: entro al più sacroPenetrale dal cielo, ov’hanno asilo,Maturando lo van, chè incolto ancora

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Vien sul labbro alle Dee canto improvviso.Or fra’ biechi guerrieri e le pugnaciIre discendi, e spargi intorno i raggiDi tua contesa deità. DisperdeEuro la polve; il Sol splende sugli atriCampi della battaglia; in su le muraD’Antiochia regal sorge la Croce.

Altre pugne, altri allori.Oh, benedette

Le tue cupole d’oro saettantiAl gran sole, o Sionne, ed il contesoTabernacolo eterno, ove un dì al guardoDel veggente Levita Iddio mostrossi,Dolci governi provvedendo al pioPopolo eletto e generosi doniAl sapíente Salomòn, su cuiDi Verità lo spirito discese,Finchè piacque al Signor. Ma allor che in bandoDalla reggia superba andâr le sacreLeggi dell’Arca e i semplici costumi,E la mai paga Ambizíon, che afferraDei regi il petto, e il cieco Fasto, a cuiPiega il vulgo idolatra, e la mendaceVoluttà che le ignave anime atterra,Augusto vi trovâr seggio ed altare,Indi errò quel divino, ed in sembiante

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Di fuggitivo e con lo sdegno in coreTroni e reggie schivando, a’ dolorosiSilenzj del tugurio umilementeChiese un asilo, visitò gli onestiTetti, e assidua compagna ebbe la Croce,E corona il martirio. O voi, salvete,Mura fatali di Siòn! Su voiTurba un dì rovesciò l’empio QuirinoGià nell’odio del cielo, e il sanguinosoArtiglio saettâr l’aquile ingordeNelle vergini vostre e nella biondaTesta del Nazzaren. Simile a notte,Il Saraceno irruppe in voi, spronandoSovra le dissipate are il cavallo;Ma perpetuo vegliò su le ruine,L’angelo del riscatto.

Oh scoppio immensoDi voci qual di mare, oh tra gli osannaProrompere di pianto e abbracciamentiStrani fra le preghiere, allor che agli occhiDe’ pii crociati balenò il sorrisoDella santa città, su’ digradantiColli seduta ed ombreggiata intornoDi flessuose palme e di canoriAll’arpe dei profeti ambrosj cedri,Prediletti al Signor! Qua, qua il modestoDavidico saltèro, qua il gagliardo

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Profetico tricordo! Io dalla cimaDi questi colli a Dio leverò preci,Io dalla cima di questi ardui colliL’inno alzerò dell’ultima battaglia!

Muovono in coro della pugna a vistaSul monte degli ulivi in bianchi veliLe immacolate vergini e le sposeDel devoto occidente, e van col novoInno allegrando i ferrei rischj e il duroTravaglio della pugna a’ combattenti.Lievi ed aeree, come rosei sogni,Vengon l’ombre fra lor delle risorteVergini di Siònne, e del selvosoLibano in cima siedono i profeti.Co’ pieni vaticinj al fronte impressi.

— Salvete alfine, o memoriDella morte d’un Dio splendide prode:Qual può venir da trepidoLabbro mortale a voi dolcezza e lode?

Qui la celeste vittimaLevò la prece, e qui s’assise e pianse;

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Là sotto al duro incaricoCadde più volte, e il divin fianco infranse.

Di questi rami al misticoAsil venne a pregar l’ultima notte;Qui lo schernîr gl’increduli,Qui lo vendè col bacio Iscarìotte.

Qui dell’eterna gloriaSchiuse la speme a un’anima pentita;Qui sul feral patiboloA riscatto dell’uom sparse la vita.

Oh, raccendete all’ultimaPugna l’esercitate anime, o forti;Ecco, fra voi combattonoI campioni d’Isdrael risorti!

Questi non è Gedeone,Che fra le nostre schiere il primo incede?Non è quegli il fortissimoGiudice e scudo della patria fede?

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Qual chiaro stuol di vergini,Osannando al Signor, traggono all’ara?Viva Giaèle e Dèbora!Traforate ha le tempie il rio Sisàra!

E noi qui stiamo? E il rischioPaurose fuggiam della battaglia?L’armi, qua l’armi: il candidoSen vestiamo anche noi di ferrea maglia!

Fra l’ardue pugne unanimiVoliam; date anche a noi l’arco e le frecce:Al grave arco, che sibila,Farem la corda con le nostre trecce.

Via di nostr’alme trepideLa rea paura e il pudor vano adesso:Abbia il codardo i gelidiScherni, e il prode guerriero abbia un amplesso!

Ridesta sia la languidaSpeme del forte, che si muor soletto;Sui labbri ardenti ed avidiVita e vigor gli stilli il nostro petto!

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Ahi, ahi, qual novo turbineD’empie falangi i nostri prodi investe?Ahi, ahi, bruttiam di cenereLe sparse chiome e la verginea veste!

Dove, dov’è la splendidaCroce? Evviva, essa incede, essa s’avanza;Rovescia al suol gl’increduli:Vestiamo il cor di gioja e di speranza!

Essa incede; su l’ardueMura si schiude fra le torri il passo;Fuggon gl’infidi, e ingombranoLa città di rovina e di fracasso.

Ecco, i prodi s’incalzano;Son su le mura: levano la voce;Oh, viva, essi trionfano:Sopra le mura sventola la Croce! —

O venturosi, dall’ardito pettoSciogliete alfine il travaglioso usbergo;E sappia il mondo, e a’ posteri sia detto,Che nessun fu di voi ferito al tergo.

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O Francia, o Italia, o nido benedettoD’amore, o di valore inclito albergo,Da che al Ciel piacque, a imprese ardite e belleUna fede e un amor vi fan sorelle.

Appiè dell’urna sospirata e santa,Di che in terra immortal la gloria suona,Al duce, onde Lorena ancor si vanta,Deponete sul crin l’ardua corona;Invan la turca mezzaluna infrantaSorger vorrà di nuovo in Ascalona:Al pio guerrier, benchè deserto e stanco,Starà il Signore e la Vittoria a fianco.

Il dì verrà, che di vostr’opre il gridoL’italo genio scoterà: sul ventoDall’antico di Grecia ospite nidoVerrà la Musa alla gentil Sorrento;Quindi mista s’udrà per ogni lidoL’ellena tuba al mantovan concento,Ed in eterne, lagrimate carteNome e trionfo avran la Fede e l’Arte

Infelice Torquato! E al par del Cristo,Che avrà ne’ carmi tuoi sì largo onore,

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Non mirto o lauro sul tuo crin fia visto,Ma corona di spine e di dolore:Solo, mendico, fuggitivo e tristo,In terra non avrai sorriso o fiore;Getsèman ti fia ’l mondo, amor cordoglio,Croce l’Arte, Calvario il Campidoglio.

Ma di grand’opra il fine,Uom che primo la mosse unqua non vede,Chè d’imprese magnanimeTarda posterità sempre è l’erede.Su l’imbiancato crineDegli animosi piombanoDi rea morte gli artigli,E di lor gesta serbasiDurevol dote e nova gloria a’ figli.

Così cultor pietosoSu la sterile zolla s’affatica,Ed il solco durissimoBagna e feconda con la sua fatica;Ma all’unico riposoSul ferreo aratro il vigilePetto abbandona e cade,Legando ai non degeneriFigli il tesor delle mature biade.

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Deh! l’onorato e santoCenso degli avi custodite intatto,E con vigilie provvideDel cangiato destin degno sia fatto!L’inoperoso vantoDi splendide memorieVanto è d’imbelli schiavi:Delle recenti ingiurieL’onta non terge la virtù degli avi:

Tornò sopra IsdraeleDi Chèdar l’ira, e lo disfece e l’arse;Ma pe’ remoti secoliDi nova civiltà germe si sparse.Di Giuda e di BabeleGli armati odj lunganimiFuron d’amor fecondi:Sugl’immolati martiriA connubio d’amor venner due mondi.

Ecco, su le nemicheTenebre d’ignoranza il Ver s’accende;Ecco, a’ derisi popoliLa superba Tíara alfin discende;Serran le destre amicheL’irto Barone e il pallido

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Servo alla Croce appresso,Ed una prima PatriaSorge nel santo della Fede amplesso.

Già le scomposte gentiA bisogni civili uso accomuna,E men feroce all’inclitaProle di Roma appar la Mezzaluna;Alle riscosse mentiDi veritadi altissimeNovello ordin si svela;Pe’ dominati oceaniIl Commercio gentile apre la vela.

Lascia l’algoso litoE al mar si caccia il veneto Leone,E della prora instabileL’accorto Lucro vigila al timone.Svolge il pennone arditoLa popolosa e floridaPisa, alle pugne avvezza,E in mezzo a lor la ligureDonna altera veleggia, e li disprezza.

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Ah, mal di ricchi marmiAl tapino Colombo or paghi onore,Tu, che del pari a’ provvidiCommerci intendi e a libertate il core!Chi di condegni carmiDarà vena al mio fervidoGenio, che pugna e crede,Se non tu sola, o splendidaArmonia della patria e della fede?

Tu a non segnata viaDel sublime nocchier la mente apristi;Tu alla superba Iberia,Limosinando un pan, seco venisti;Tu, luminosa e pia,Guidasti per gli oceaniLa mendicata prora,Che, come arca su’ turbini,Move secura ad incontrar l’aurora.

Ecco, egli vien. Sui biechiFlutti gavazzan tempestando i venti;Immensurati al vigileOcchio s’aprono i mari e i firmamenti.Dove a morir ne rechi?Fremon le ciurme, immemori

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D’onor senza speranza;Egli fra cieli e oceaniCome vittorìoso angiol s’avanza.

Oh! qual ignoto augelloLa distesa per l’acque ala affatica?Quello che sembra nuvola,Non è il sorriso della terra amica?Sogno non è? Non quelloVerdeggiar d’erbe, e fremitoLontano di viventi?Chinate il fronte, o increduli:Lo spirito di Dio parla alla genti!

Così d’ardue e pietoseOpre e di conscj ardiri e di perigliIn cor gara accendeanoI pii Crociati a’ non mentiti figli;Così le generoseArmi, dirotti i limitiAl non servil pensiero,Più vasto aere gli schiusero,Gli diêr guida la Croce e patria il Vero.

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Ecco, nell’incompresoSantuaria del tempo Iddio mi guida,Ove fra lunghe tenebreIl suo consiglio e l’avvenir s’annida.All’Eritrèo contesoVolge una prua dall’intimoMediterraneo flutto,E a’ pieni venti agevoleDi larga civiltà vi reca il frutto.

Innanzi a lei divulsiCadono i lidi inospiti ed avari,E ad abbracciarsi corronoDal Sue dischiuso i rinnovati mari.Così d’amore impulsiS’abbracceranno i memoriDue popoli immortali,E d’una Fede il soffioLe scisse adunerà schiatte mortali!

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CANTO SESTO

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LUTERO.

Il popolo che camminava nelle tenebre ha veduto una granluce; la luce è risplenduta a coloro che abitavano nella terradell’ombra della morte.

Isaia, cap. IX, v. I

Fede degli avi miei, dolce e sinceraDi mia giovane vita ispiratrice,Te ridice il mio cor nella preghiera,Te nel canto gentil l’arpa ridice;Puro raggio d’amor tra la bufera,Tu guidi in porto l’anima infelice;Tu nella mente e nella voce miaSpiri il foco, onde in Giuda arse Isaìa.

Della tua veste luminosa e bella,Quale a madre bambino io stringo il lembo;Io m’inalzo con te di stella in stella,Di splendore in splendor, di nembo in nembo;M’affisso in Lui, ch’è sole ed è procella,C’ha l’ieri e l’oggi ed il doman nel grembo;Che del mar della vita è lido e riva,Onde l’uom parte, e a cui tende ed arriva.

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Ma al santo vol su l’ansìosa faccia,Fede, in pietà., non stendermi il tuo velo:Benchè creta mortal, m’arde e mi cacciaUn senso, un’aura che mi vien dal cielo;All’ara del Signor tendo le braccia,Dalle tenebre mie la luce anelo,Ma se fragile e vil, cieco io non sono:Dio mi die’ mente e cor; credo e ragiono.

Credo alle sacre, rivelate carte,Ove agli eletti suoi parla Dio stesso;Credo, ch’io son di Lui favilla e parte;Ch’ogni cosa creata è suo riflesso;Credo, che stolto è quei, che si diparteDal sacrosanto di sua Chiesa amplesso;Credo, ch’Egli è immutabile ed eterno,Ch’è ciel vederlo, e non vederlo è inferno.

Credo, ch’Egli è infinita, unica luce,Che in mezzo a le terrene ombre scintilla,Che al primo ver l’umana alma riduce,Onde il primo peccato dipartilla;Credo, ch’è tutto in tutto, e al tutto è duce;Credo, che un giorno Egli si fece argilla,E nelle vie di sua giustizia immenseCol sangue suo l’umanità redense.

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E credo in lor, che dal divino AgnelloLo spirito del vero ebbero in dono;Che il predicâro al memore Isdraello,E al mondo predicâr pace e perdono;Che al sofferente dissero fratello,Che qui soffrîro, e in ciel beati or sono,E di martirio cinti e di splendori,Son de’ mesti fratelli intercessori.

E credo in Lei, che di virtude è scola,Che Cristo sulla terra elesse a sposa,Che conserva di Cristo la parola,Ch’è de’ credenti ugual madre pietosa,Che la raminga umanità consola,E sul Vangelo sol poggia e si posa;Io credo in Lei, ch’è del Vangelo erede,Ch’è pace e, libertà, scíenza e fede.

Ma a’ fallaci artificj, a’ neri inganni,Onde l’avara Babilonia è piena,Ma a lei, che si fa adultera a’ tiranni,E al pregiudizio l’anima incatena,Che al libero pensiero impiomba i vanni,E intorbida del ver l’onda serena,A lei, che a sangue e a tirannia si spiega,La sdegnosa ragion piegarsi nega.

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Oh! smettete quel manto e quella verga,Pastori senza Cristo e senza legge:Troppo batteste agli uomini le terga;Gli uomini non son più stupido gregge.L’amfibia podestà cui Roma alberga,Più non spaventa altrui, nè voi sorregge;Non più s’impiglia nella vostra reteL’anima umana che di Vero ha sete.

O Paraclèto, spirito d’amore,O incarnato quaggiù verbo di Dio,Tu, che la fede m’infondesti in core,Tu l’ali impenna all’intelletto mio;Ch’io dalla verità scerna l’errore,E dalla fede il pregiudizio rio;Il mio povero cor degna d’un guardo,Tu che spiravi il misero Abelardo!

No, tu non fosti mai là tra gli accoltiDel santo verbo interpreti loquaci,Che di ree fole e di giudicj stoltiLe semplici infrondâr storie veraci;All’una verità diêr mille volti;Della discordia divampâr le faci;E, premio degno dell’uman riscatto,Servo al vicario suo Cristo fu fatto.

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Ne tu scendesti mai su l’iracondaDi lupi sì, non di pastor’ congrega,Che di vano terror la terra inonda,E contro al mondo e contro a Dio si lega;Che d’anatemi e d’ombre si circonda,E l’umano pensier fulmina e nega;Che, forte, il brando, e, se percossa e fioca,L’offesa veritade e Cristo invoca.

O candida, soave e benedettaSemplicità de’ primi tempi, quandoScendea dal ciel la Fede pargolettaD’amore e di virtù solo parlando:Accolta in poca ed umile chiesettaLa parola di Cristo avea per brando,E dalla carità resa più forte,Rendea bello il soffrir, dolce la morte!

Per le splendide logge, ove le ardentiAli un giorno fermò l’Angel d’Urbino,E i veduti nel cielo ardui portentiVivi ritrasse col pennel divino,Trepido io vago; e muto il labbro, intentiGli occhi, del genio all’opere m’inchino;M’inchino e a te ch’ai pastori empj e tristiLà tra l’are di Dio l’inferno apristi.

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Magnifico Leon, ma ov’è quell’Uno,Che nascer volle in umile presèpe,E di lunghi silenzj e di digiunoPose al senso irrompente invitta siepe?Qui de’ servi di Dio non trovo alcuno;L’ozio è Dio, gioco è l’arte, alme son l’epe,Legge la voluttà, rito i banchetti,Vittime l’altrui spose, altari i letti.

Religíon nel sotterraneo sasso,Che covre l’ossa a Pier d’eterna sera,Schiva raccoglie e dolorosa il passo,E veglia i lunghi dì nella preghiera;Ode attorno di lei l’orgie e il fracassoD’una turba d’Aronni infausta e nera;E al Signor grida nella dura prova:— Col tuo soffio immortal scendi, e m’innova.

Scendi e m’innova! Dalle altrui peecataLa mia candida veste è fatta oscura;Col disprezzo nel cor l’empio mi guata,E negli errori suoi l’anima indura.Al tuo soffio d’amor purificataFra’ miei nemici passerò secura,E potrò dir secura al popol mio:A regnar su di te mi manda Iddio!

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Nel lezzo di Simon, vedi, il misteroDella Croce s’imbraga; ozj ed erroriVagan per la polluta arca di Piero,E son fatti sultani i tuoi pastori;Tengono sotto al piè l’uman pensieroQuei che gridan dall’ara: In alto i cori!Scorda il tuo nome e i tuoi precetti ha infrantoChi chiama dall’altar tre volte: Santo! —

Volò la prece, e Dio l’accolse; e in quella,Per l’ombre che salían torbide e lente,Al cenno del Signor sorse una stellaDi nuovissima luce risplendente:D’angeletti una coppia ardita e snellaCarolando la guida ad occidente:E dall’etra profondo, ov’essa alberga,Schiara il pallido ciel di Vittemberga.

Alla finestra taciturna e neraUn solitario fraticel sedea,Che al raggio incerto della nuova seraLe scritture santissime svolgea;Ne la pupilla istabile ed alteraArde la luce d’una grande idea;Sovra la fronte, a pugne intime avvezza,La speranza s’alterna e la tristezza.

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Vede fra l’ombre alla soggetta valleCento spettri agitar queruli ed egri,Con la croce gravissima alle spalle,In manti avvolti lacerati e negri:Nè amor, nè libertà sul mesto calleAvvien che le soffrenti anime allegri;Non voce di speranza e di VangeloLe toglie al fango e le richiama al cielo.

Sovra il deserto pian levasi un monteFlorido sì qual non fu visto in prima:Ed Un, ch’aureo triregno ha sulla fronte,Siede in purpureo trono ad esso in cima;Ma delle turbe alle miserie, all’ontePoco lo sguardo e il cor mai non adima;Chè, dalle Muse il circeo petto invaso,Il Taborre divin muta in Parnaso.

Quìeti intorno a lui stanno e satolliDi Levi ingordo i mitrìati figli,Per voluttà gli occhi socchiusi e molli,Non meno al volto che al vestir vermigli;Gonfia Lascivia i muscolosi colli;Aguzza Bacco i sonnolenti artigli;L’Ozio, che stagna il crasso aere, una lentaCantilena sbadiglia, e li addormenta.

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Ma del chiuso a’ profani Eden, siccomeCerberi immani, a vigil guardia stannoL’aureo mestier che da Simone ha nome,E l’Usura affamata e il vario Inganno;Quinci discende a rìempir le someL’indebito Tributo aspro e tiranno,E folte intorno a lui spiegano l’aliLe subdole Indulgenze empie e venali.

Questo il frate vedea. Sul libro santoGitta lo sguardo disdegnoso, e legge:Tempo è, Siòn, di tergere il tuo pianto;A magnanima impresa Iddio t’elegge;Fia de’ falsi pastori il freno infranto;La parola di Dio sarà tua legge;Leva, alfine, o Siòn, l’umil cervice;Cristo parlò: la scure è alla radice!

Lesse, in piedi balzò; l’occhio inquìetoVolse al trono di Dio, quasi cercandoLume e consiglio a quel furor secreto,Che gli venìa l’altera alma agitando;Su la pupilla sua limpido e lietoIl raggio riflettean le stelle, quandoUna ne scòrse più lucente e bella,E gridò consolato: È la mia stella!

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Vago lume d’amor, candido raggioDel pensiero di Dio, che non ha riva,Tu che sei del Signore opra e linguaggio,Tu la mia fede e il mio zelo ravviva;Tu dal sacerdotal lungo servaggioRedimi al Ver quest’anima captiva;Securo auspicio, che mi vien dal cielo,Limpido come te splenda il Vangelo! —

E lascia il taciturno èremo, e al mondoOve lo pose Iddio, torna pentito;Simile a pellegrin, che nel profondoMistero delle tenebre smarrito,Al novello del dì lume fecondoRivolge indietro il passo inorridito;Ed anelante per l’erta s’affrettaA guadagnar la già perduta vetta.

Nella lotta è virtù: pèra il codardoChe sol di vacui sogni il cor serena;Nella lotta è virtù: solo e gagliardoL’atleta di Gesù scende all’arena;Gli aperti abissi misura d’un guardo,E al magnanimo ardir cresce la lena;Con la fede nel petto e in man la croceDalla tribuna fulmina la voce;

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— Dove correte, o ingordiPubblicani di Roma, a cui l’immondoDel Verbo di Gesù traffico diedeQuei che signor del mondo,Ai re maggiore, e uguale a Dio si crede?Inesorati e sordiAlla pietà, che Dio vi die’ per legge,L’ara volete e il tempioCon l’ossa edificar del vostro gregge?

O voi miseri e stolti,Cui con l’oro comprar giova il perdono,E sforzar Cristo irato e il paradiso,Togliete il vel: sul trono,Che Gesù diede a Pier, Satana è assiso.Stolidi o ciechi! I moltiTesori, onde vi fu la sorte amica,Piovan benigni al maceroFratel, che un pane per le via mendica.

La trafficata ammendaNon v’aprirà, non v’aprirà le caseDel ciel, credete. O miseri, la polve,Spargete in su le raseFronti; e allora per me Cristo vi assolve.Dio mi mandò; l’orrenda

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Del congiurato inferno opra fia vinta;Dio mi die’ al labbro il fulmine,La sua fortezza a’ lombi egli mi ha cinta.

E, basti a ognun la piaVoce, ei mi disse, ch’io nel cor gli posi,Perchè dal fango, ov’espìando aspetta,Ritempri a’ luminosiLampi di verità l’anima eletta:La mentitrice e riaBabilonia le serve anime elude;La fede è l’infallibileSolo tesor, che il mio perdon dischiude.

Su le vergini cimeDi quest’alpi di ghiaccio ire e procelleSabaòtte adunò. Spirate, o venti:Sovra la turba imbelle,Che nel nome di Dio strozza le genti,Rovesciate il sublimeSdegno e il furor della Ragione insòrta:O Scribi, o Giuda, o despoti,Questa figlia di Dio, no, non è morta!

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Morta non è! Qual focoInvade i campi, ove l’Error s’attenda,E la mèsse degli empj, ecco, divora;Strappa la cieca bendaChe contese agli umani occhi l’aurora;Ecco per ogni locoNitida splende una virginea forma,Su la cui fronte candidaCol sangue di Gesù scritto è: Riforma! —

Sul trono di Leon siede un austeroGelido figlio della Mosa. A’ piediL’ira gli freme del corrotto clero;Gli stride intorno il fulmine ridestoFra le procelle di Lamagna. ArditiProvvedimenti egli matura; e un pioZelator della fede e dell’altareAll’impresa magnanima l’accende:— Benedetto sia tu, raggio e speranzaDella Chiesa di Cristo. Iddio su questaIn perigliosi tempi ardua tribunaDegno ti chiama successor di Pietro,E in te solo i piangenti occhi convergeDel Nazzaren la combattuta sposa;E al tuo senno s’affida il militanteClero di Roma, a cui non men l’anticoSplendore han tolto le recenti offese

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Dell’alemanno Satana rubelle,Che le licenzìose orgie e i delittiDel terribile Borgia e le bollentiIre di Giulio bellicoso e gli ozjEpicurei del Medici. Al grand’uopo,Ch’ei disprezzò, tu gli succedi; IddioTi dia core all’impresa!

— Ah! tardi io giungo,E straniero son qui. Dalla frondosaArduenna io qui reco invan la miteSemplicità de’ miei campi e l’austeraVita de’ Patrìarchi. Il nome e i primiMiei costumi ancor serbo: dal maternoLare mi siegue allo splendor del tronoLa vetusta mia fante; e, pari all’imoSacerdote, ogni dì m’appresso all’araDel sagrificio e della prece: IddioQueto mi serba il cor. Ma il delicatoClero in petto ne freme; e per la molleCuria già sento sibilar l’argutoEpigramma plebeo, che i miei derideDisinvolti costumi e la nativaIngenuità, qual di villano ignaroD’urbani sfoggi o di gentili usanze.Oggi è disprezzo, odio fia tosto. AssaiVivo ancor luce nelle menti il fastoDella corte del Medici, e perenne

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Rimbomba il vanto di quel secol d’oro,In cui l’Arti vaganti ebbero asiloAll’ombra della cattedra di Piero,Cui sol caro fu Cristo. Idoli e NumiDella bugiarda antichità io non voglioDentro all’arca dell’Uno; io tele e marmiNon merco a prezzo della Croce; il pioAsse non sperdo in simulacri vani;Nè mi lusinga il molle italo verso;Ma la voce di Cristo e de’ profetiÈ norma e legge al viver mio.

— SeveroEppur giusto tu parli. Ozj or non chiedeL’arca di Pier, chè tempestosa è l’onda,Ma operosa virtù, ma tempestivoDestreggiar fra li scogli, onde l’iratoFlutto sia domo, e di Lamagna il ventoNon le squarci la vela e chiuda il porto:Il nocchiere sei tu.

— Benchè nemiciMolti abbia Roma, e tardi io venga, il santoDesio m’affida all’alta impresa e il moltoDi rari sì, ma, qual tu sei, gagliardiPer dottrina e virtù zelo verace.Oh, da gran tempo già dovea la ChiesaRiformarsi a virtù, quando in CostanzaE in Basilea chiamò Cristo i pastori

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Dal Vangel traviati! Or non vedrebbeDalle scandinav’ire offeso il sacroCattolico stendardo e l’inconcussoPatrimonio di Pier, nè tanto al mondoDi scandali immortal germe sarebbeDagl’increduli sparso, onde con tantoIrreverente orgoglio osan dal colloScuotere il giogo, e disputar l’imperoA lui che Cristo rappresenta, e troniTolse una volta e dispensò.

— DoveaLeone il primo rintuzzar la biecaDell’audace dottor gara insolente,E, con altr’armi che anatèmi, il tetroCapo schiacciare all’empia Idra, che tuttaDi pestiferi fiati Europa invade,E sibila superba, ed esecrandeVomita ingiurie, e medita rovinaAlla sede di Roma, e i figli aìzzaContro al sen della madre. Ei de’ superbiArdimenti si rise, e del brìacoFrate l’ire bravò. Deriso e vanoDi Vittemberga al pian cadde il remotoFulmin di Roma, e nuove ire e ferociBaldanze in petto de’ nemici accese.Modo or non ha più l’eresia; nè a tantoArio un dì giunse con l’ardir. Divelte

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Cadon l’arche dei Santi; calpestatiI prezìosi simulacri; in armiSorgon contro al padron le lusingateD’alto sonanti nomi invide plebi;Stragi a stragi succedono; e si vantaTolleranza e progresso! Alla presenzaDel corpo di Gesù nell’ostia santaL’acre ragion si ribellò; l’immensaVirtù delle terrene opre si nega;Monchi o distrutti i sacramenti; in milleGuise il domma stravolto; ognun presumeEsser profeta e apostolo, e gli osceniSogni e i delirj suoi predica in piazza,Quasi precetti che il Signor gl’ispiri.Derisa l’infallibile ed eternaPodestà delle Chiavi; ad affamatiPrenci spartito il pingue e sacrosantoLegato della Chiesa; il dolce giogoDel Vangel di Gesù mutato in duraServitù temporal, pur che distruttaSia di Davìd l’inespugnabil ròcca.Che più? Ministri del Signor son dettiGl’irruenti Ottomani, e dissuasiDalla difesa i trepidi fedeli.Lascia l’umil cocolla, e al secol riedeL’apostata protervo, e s’abbandonaAll’empio bacio d’una pia, rapita

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All’ovil del Signore, a’ verecondiRaccoglimenti del vergineo chiostro.Così divisa e combattuta fremeLa gelida Lamagna. Al ferreo gridoDa l’illecito arèm leva la voceIl Faraone d’Inghilterra, e sorgeTeologando le sue voglie inique.Plaude, e combatte il vescovil potereLa montuosa Calidonia, asiloDi Puritani indocili e selvaggiCome il sasso materno. E già dal varcoDell’elvetiche rupi a’ nostri pianiLa Riforma s’affaccia; e orrendi e molti,Benchè occulti finor, serpono i germiDel funesto velen. Così la CroceDa’ nemici è spezzata, e si divideL’inconsutile veste! Oh, da gran tempoDovea la Chiesa in sua custodia il pioBrando di Carlo usare; or questi indarnoTenta comporre antichi odj, e dar paceAlla Chiesa e all’Impero!

— A temporaleBraccio non lice abbandonar la sacraMaestà dell’altar! Troppo han le paciCon Svevi ed Angioini e la sinistraSchiavitù d’Avignone ammaestrataLa Sposa di Gesù, perchè si creda

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Agli adulteri amplessi. Ambiguo e tardoCarlo fu sempre in nostro aiuto, e destro,Se debole, delude, e se gagliardoNega, impone, combatte: unico NumeIl suo vantaggio, unico intento i vastiRegni adunar sotto il suo trono. IddioGli offre a scelta la reggia o il paradiso:Le reggia e’ sceglie. Da rigori e d’armiPace non nasce mai se non mentitaE fuggitiva. Io con l’amor che CristoM’insegnò dalla Croce, i traviatiRidur voglio all’ovil; men ch’essi io questaCuria combatterò, fomite e madreD’ognor nuove eresie. Fra lor nemiciSono i nemici della Chiesa; il CieloLe lor lingue ha confuso; io non li temo:Li vincerà la lor discordia! A noiDio l’onor serba del trionfo o l’ontaDella sconfitta; a lui solo m’affido! —

———

Sopra il tuo capezzal pende fra tanto,O Lutero, la Morte. Essa nel lemboD’un candido lenzuol tutti ravvolgeDell’uomo i sogni, ma dai sogni sboccia,Fior luminoso ed immortale, il vero.Tacita accanto al doloroso letto

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Veglia l’amica del tuo core, a cuiSu le ginocchia un fanciulletto biondoTacito siede, che l’amato voltoCon gli occhi sbalorditi interrogandoLe labbra vermigliuzze allunga e tentaIl sen materno rorido di pianto.Ravvìandogli i riccioli diffusiCon un mesto sorriso ella il rimiraSilenzìosa, e le si schianta il core.All’altro lato del funereo lettoPiega la testa pensierosa il fidoMelantone, il pacifico GiovanniDell’iroso profeta. Al ciel conversaTenea questi la faccia, e all’anelantePetto stringeva un libro ed una Croce;E sul suo sguardo si leggea l’ardentePresenza del Signor. Levossi a un trattoSu l’alto letto, e sospirò: Qual duraLotta ho nel core!

Un brivido per l’ossaDegli ascoltanti serpeggiò.

— Salvete,Salvete anco una volta, o luminosePlaghe del ciel, trono di Dio; salvete,Placidi campi, asilo ultimo a questaTravagliosa mia vita! Oh, ch’io vi miri,Uccelletti del ciel, ch’aprite il volo

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A novelle regioni: a voi preparaDio stesso il nido, e son lunghi e sereniI sonni vostri sul pietoso ramo,Chè Iddio pensa di voi. Deh, tu prepara,Signore, il nido al figlio della creta;Tu dischiudimi il ciel! —

Giunser le maniLa pia consorte e il pensieroso alunno,E in silenzio pregâro. Il moribondoCadde sul letto, e guardò intorno, ed unaStilla di pianto gli tremò sul ciglio,Ed esclamò con debil voce: AncoraNon è morta la creta! Oh, ch’io vi guardi,Ultimi avanzi di mia vita!

AppressoGli si fecero entrambi, e stretto al lemboDella veste materna impauritoVenne pur esso il picciolo Ercolino,Quando il padre lo vide, e fra le scarneMani serrò la testa ricciutella,E più baci v’affisse. — Ah, su di questaTenera vita il ciel vegli, e tu, buonaCompagna del mio core, a cui men dolciFûro i silenzj del solingo chiostroChe le tempeste di mia vita! —

Al collo,

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Così dicendo, le gittò le braccia;E fu congedo di singhiozzi e lungoDesiderio di ciel. Poi vòlto al caroDiscepolo, esclamò: Ch’io stringa ancoraLa destra pia, che me trasse più volteDagli abissi dell’ira!

Allor la fronteGli s’abbuiò di rimembranze, e mutoStette lung’ora, indi proruppe:

— IddioMi mandò su la terra! Ira e inquìetaVoluttà di trionfo i miei più volteSensi offuscò: Dio me ’l perdoni, il veroAmai quanto la gloria. Ardua e bramataOpra io tentai: novo Prometeo, accesiNel petto de’ mortali il desiatoRaggio di libertà, svegliai la santaLibertà del pensier, cui la tirannaSede di Roma disputava in nomeDel Vangel, ch’offendea. Chiaro e viventeOffersi a tutti il sacro Libro; e ognuno,Come a fonte di vita, alla pietosaOnda il cor dissetò. Di sovrumanaCostanza all’uopo mi fu Dio cortese;E l’umil frate osò scagliar la pietraAl colosso dei secoli! —

Di nuova

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Fiamma in tal dir gli balenò lo sguardo,Come allor che dal pergamo i bollentiFiumi versava della sua parolaSu le facili turbe; indi sugli occhiL’estrema ira passògli; a mezzo il lettoSu’ gomiti s’eresse, e fiso a vaniFantasimi esclamò:

— Chi siete voi,Che nel sen de’ miei figli ire e vendetteSeminate in mio nome? A voi chi diedeLo spirito di Dio? Chi son costoroCh’osan tra ’l popol mio stender lo scettro,E spartirsi fra loro il glorìosoFrutto della vittoria? E voi chi siete,Demagoghi iracondi? Ov’è il GiovanniChe ribattezza il vostro capo? Ah, questoNon è, stolti, il Giordan: questa è di sangueOnda, che foce ha nell’inferno! Il focoDella discordia vi consuma; indarnoL’armi impugnate contro Carlo: IddioCo’ discordi non è. Scendon dall’alpiDi Satana le schiere; ardon di pugnaL’aquile imperiali. Oh, pugna, fuggi,Trionfa; oh, mi togliete, m’involateAll’orrendo spettacolo! Di sangueBolle il tumido Ren; cade nel fangoDi Smalcalda il vessillo. Ecco, i vincenti

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Mercenarj d’Italia e gli efferatiFigli d’Iberia colmano di stragiLa libera Germania. Oh, m’ascondete,M’ascondete nel ciel; no, nella terra,Nella terra profonda: io non previdi,Io non volli tal sangue! E voi ridete,Negri corvi di Roma, e sopra ai nostriVilipesi cadaveri veniteA imbandirvi le mense? Oh, ch’io non veggaQue’ mostri dell’inferno: immonde han l’aliDi sangue, e al volto me lo spruzzan; vannoGracchiando intorno; calan sul mio capo;Mi nascondono il cielo. Ah, li scacciate,Liberate il mio sguardo! —

E su la fronteAgitando venìa la destra stanca,Mentre dintorno a lui la dolorosaConsorte e il buon discepolo con pieVoci lenir volean l’ultime lotteDi quell’ardente ancora anima altera;E dolcemente il sorreggean. Con loroEgli non era: del pensier novelloEi vedea l’avvenir. Lieve un sorrisoGli passò su la faccia; al petto strinseIl santo libro e il Crocefisso, e fiocoMormorò fra le labbra:

— Ecco, da’ nembi

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Sorge un’iride alfine, ed ordire nuovoDi libertà da’ miei detti si schiude;E degno è l’uom del Creator! Venite,Venite, o figli dell’Europa, al veroSantuario di Cristo, alla sorgenteArca, alle rinnovate àgapi, a’ sacriConvegni di Sionne: ecco le nuoveTavole della legge; ecco l’auroraDe’ destini del mondo. Io vi saluto,Profeti del Signor! Bello è il sorriso,Che vi splende negli occhi; è sacro il lume,Che vi cinge la fronte! Oh, a lor mi guida,Angelo della Morte; a lor mi guida,angelo del Signor! —

Disse; sul biancoOriglier dechinò la testa; e comeLarva di sogno, che nel Sol dilegua,Gli fuggì innanzi il mondo, e vide Iddio.

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CANTO SETTIMO

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SATANA.

Ed hanno presa vendetta per isprezzo con diletto,ner distruggere per inimicizia.

Ezech, cap. XXV. v. 15.

Un dì i figli dell’uom vennero a Dio,E Satana con loro. Iddio gli disse:Onde vieni, Satanno? Ed ei: Più volteCorsi la terra e non trovai chi in paceSofferisse il tuo giogo. E Dio: Mentisci.E Satana riprese: ValicaiSopra un turbine l’alpi; alto sull’aleDe l’aquilon men corsi a’ sette colli,Tenda e reggia a’ tuoi fidi. Odj e vendetteEran con loro; ond’io risi, e più volteMutai forme e colori, a legger meglioLe cifre del lor animo. Pria venniIn sembianze di squallido mendico,Pane e ospizio chiedendo, alla gelosaPorta d’un chiostro. Un tonso e grasso frate,Salmi ruttando ed indigeste dapi,Si fece avanti: scatenommi addossoUn’orda di carnivori mastini,E m’assestò alle spalle un noccherutoTronco di quercia, che in fè mia, non era

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Il sacro legno della Croce. Il crineIndi sparsi di cenere, costrinsiRuvide lane al fianco, la bisacciaGittai sul curvo dorso, e penitenteSu la splendida via del VaticanoProstrai la faccia innanzi al piè d’un Pio,Nel nome di Gesù vènia implorandoD’un antico delitto. Egli squadrommi,E arricciò il lungo naso, e torse il viso,Qual da rettile immondo; e sovra il tergoBatter l’ugna sentii del suo destrieroD’aurea briglia superbo e d’auree barde.Altri aspetti provai. Strinsi nel pugnoUn flagello di corde aspre, e dal pettoAlle spalle il rotai sì che di lungheLivide piaghe lacerai le carni;Smunta la faccia, al suol gli occhi, piegatoUmilemente al manco òmero il collo,Tardo il piè, dolce il labbro, insinuanteLa parola e l’accento, alla cinturaUna croce e un rosario, e tal venìaRagionando alle turbe or la solennePodestà delle Chiavi, or la divinaVirtù dell’infallibile parola,Che Gesù diede a Pietro e Pietro a’ santiSuoi successori, or la fulminea spada,Che percote gl’immondi eresiarchi;

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E acquistai grazia appo la Curia, e in ampiaRete le semplicette anime attorsi.Un nuovo mostro indi m’infissi, e all’uopoMolto non ebbi a trasmutar l’aspetto;Chè tolta in mano una sanguinea face,Gli aspidi al crin, la bava al labbro, a un’araMontai, divelsi il Crocifisso, e in vistaA’ suoi ministri in vece sua mi posi;E, vendetta! ululai. Dell’ira il focoBalena in tutti gli occhi; èmpito orrendoDi guerra invade tutti i petti; un gridoLeva ogni cor; frementi e scapigliatiCorrono alla trentina aula i pastoriEsizìal giurando ira al novelloCulto dei figli del Vangel. Con loroVenni, e fra loro svolazzai, gracchiando:Anatèma, anatèma! —

Iddio sdegnatoL’interruppe, e gridò: Più non è RomaL’Arca del popol mio! PerseguitatoPer la faccia del mondo erra Isdraele,Poichè torna al Vangel. Novo e sublimeBattesimo di sangue io gli richiedo,E contro a lui del trono e dell’altareI gelosi tiranni eccito io stesso,Chè l’impresa immortale uopo ha di sangueCh’eternamente la suggelli. Il giogo

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Cadrà di Roma, e fia del ciel più degnaL’umana creatura, e della lungaTenzon più bella coglierà la palma!

Malignamente sogghignò il cadutoArcangelo, agitò le frigid’aleDi vipistrello, battè il piè caprinoE mormorò: Se tu me ’l dài, rubelleTi farò il popol tuo. Per la perdutaLuce del paradiso e le dolentiBolge de’ miei dominj io ti prometto,Che croci e altari ed evangelj e vantoDi libere coscienze e minacciosePretensìoni scorderanno al primoTocco della mia sferza i tuoi devoti,E qua’ docili buoi verranno al giogo,E piegheran, siccome agne, le schieneAlle cesoje dell’ingordo clero.E il Signor disse: Tu mentisci: pienoTi do l’arbitrio su di lor: fedeleMi sarà nel dolore il popol mio!E Satana riprese: In qual desertaRipa, in che nere catacombe, anticaReggia dei figli tuoi, cercherò i nuoviMartiri della Croce? E Dio: Per tutto.Più nel silenzio e ne’ carceri occultiNon vivono i miei figli: alta la fronte

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Ormai levano al sole, e apertamenteSan patire e morir. Nella gelosaIberia e nelle sacre itale prode,Ove men chiaro e men temuto è il germeDelle nuove dottrine, e più selvaggiaEsercita su’ miei fidi la vergaLa cieca e più vicina ira di Roma;Dalle bruzie boscaglie alle remoteNevi di Valtellina e tu più fermoVibra il flagello, e le tue serpi avventaSu’ figli del Vangel. Tombe e squalloreSemina intorno a’ loro altari; ingombraDi rovine la Croce: essi fra ’l sangueL’abbracceran; s’aduneran sott’essa,Come a vessil d’amore e di salute,E sovra l’ossa de’ pietosi estintiL’alzeran sì, che regnerà la terra.

Diè Satana, a tal dire, un improvvisoInverecondo scroscio di cachinni,E tutto intorno lampeggiò, siccomeBoreale meteora funesta.All’agitar dell’orride mascelleLe duplici mostrò file di zanneE dall’aride fauci e fumo e fiammeE pestiferi fiati all’aure emise.Rabbrividiron gli angeli al sinistro

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Riso, e velâr con l’ali la pupilla;Iddio guardollo: e dal ciel cadde, e sparve.

E al tramontar d’un procelloso giornoVenne Satana in vetta alla Tarpea,Tutto ravvolto in un mantel da preteFradicio dalla pioggia, e al capo intonsoIn forma di Trinacria un gran cappello,Che da tre punte gli facea grondajaSovra la gobba delle spalle anguste.Con gli stinchi sottili inforca il dorsoD’un’alfena infernal, che su tre piediVien zoppicando per l’aereo calle:Mostro orrendo a veder, prole vetustaD’un Lèmure sciancato e d’una Sfinge,Che vennero in amor, quando il gran CarloD’oro e di gemme rimpinguò lo scrignoAlla Chiesa di Cristo. A lui dintornoUna frotta di nottole e di gufiGli vien beccando le sdrucite suolaDe’ fangosi stivali. Ad ogni tuonoEi serra in bocca il mignolo converso,E tal ne strappa un zufolo stridente,Che fende l’aria tenebrosa. StaCosì a sommo la rupe; in mezzo all’ombreGli fosforeggian le pupille acutePari a quelle d’un gatto, e in cor novelle

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Stragi e insidie prepara a’ combattutiFigli della Riforma. Ecco, un felicePensier gli nasce in mente, e là d’un voloS’avventa, ove su l’Ebro erge la testaLa sovrana d’Iberia inclita villa.Ma tra la folta de’ palagi e il lietoPopolare tumulto egli non resta,Chè men gli è caro andar ruzzando in mezzoA spensierato carneval plebeo,Che regale venirne oste e convivaFra’ labirinti d’una reggia, doveLa sottile Finanza, irta alchimista,Dal sangue popolar l’oro distilla.

O pellegrin, se mai volgesti il piedeAll’arenosa Guadarama, asiloDi perpetui aquiloni, ove più pigroI sopposti deserti il Sol dardeggia,Ben curioso non sei tu, nè famaD’opre mortali ti commuove il petto,Se ti lasciasti inesplorata a tergoQuella, che sorge al ciel come una sfida,Plejade di granito, onde nel mondoSpesso il nome suonò, culla e sepolcroDe’ sovrani d’Iberia. Ivi, se veraParla in terra la fama, occultamenteSatana venne; e benchè assai ridesse

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Di questi tronfj bipedi di fango,Che, perpetui Nembrotti, osan far schermoDi fragil creta al fulmine immortale,Pur non lasciò d’investigar gli arditiDiciassette edificj e le capaciCorti, che quanti nell’assiduo giroD’otto stagioni il Sol spazj misura,E tante son di numero, e le quattroTorri de’ fianchi, a simular la santaGraticola riversa, ove di lenteBraci venne consunto il pio Lorenzo.Nel dì sacro al suo nome il perigliosoVolo ei guidò dell’aquile di SpagnaSul trionfato San Quintino; e in saldaDi quel giorno memoria erse le vasteMoli Filippo, a cui sul capo splendeLa bellezza di trenta dìademi.

Questo Satana vide; e impazìente,Com’agile mastin ch’esca dall’onda,Scossa di dosso la notturna piova,S’insinuò pe’ regi anditi muti;E nullo il vide: sol taluno un fumoScorse al mattino della reggia intorno,E uno strano sentì puzzo di zolfo,Che gli destò nel cor vaghe paure.Indi a mezza la notte il buon villano

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Udì da lungi cigolar catene,E fiamme crepitar sì che tremanteNella povera coltre rannicchiossi,Pìamente segnandosi la fronte,E aspettando con lunga ansia l’aurora;Indi parve la reggia asil d’ignotiSpirti e demonj che venìan notturniConsigliatori di Filippo; e nomeDi mago e di demonio ebbe costui.Dalle lunghe vigilie affaticatoI sopori dell’alba egli disfiora,Quando Satana giunge. Abiti e formeQuesti a un tratto depone; aspetto e voceDi Carlo assume, e sopra all’agitatoCapo, fantasma torbido, gli aleggia.Scorto appena Filippo il caro aspettoDel pensieroso genitore, al colloCon le braccia gli corre, ed interrotteVoci e domande rapide gli muove.Quel pietoso il rimira, e con paternaAnsia gli parla:

— O mia diletta prole,Non io la pace del sepolcro e i sacriVincoli della morte infrango indarno,Chè Gesù me l’impone. A che più staiDal fulminare i suoi nemici? InvadeL’empia Eresia già tutti i lidi, e tutti

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Minaccia i troni della terra. Un soloScudo ha la Chiesa travagliata: un soloScampo la regia podestà derisa,E quel solo sei tu. Ben de’ tuoi sacriProvvedimenti in ciel venne la fama;E fu gran festa fra’ beati, quandoVider confusa al nostro Ebro la SennaGonfiare i flutti e torbida innalzarsiA tutelar gli altari e le corone,Minacciate dagli empj. Eterna e gravePesa l’ira di Dio su la superba,Che li protegge, e maledetto al mondoSuonerà il nome della rea bastarda,Che il trono usurpa ad una pia proscritta,E guida e donna ed arbitra si nomaDel sacro ovil, ch’è sol commesso a Pietro.Ma gradito è il tuo zel, gradito il fumoDegli olocausti, ch’al Signor si leva;E tra’ beati è lui, che il sacro eresseTribunal della Fede, a cui Dio stessoDiede in guardia il suo gregge e i suoi decreti.Or chè più stai? Feroce erge la testaL’Idra schiacciata, e più non la sgomentanoLa spopolata Fiandra e le solenniDi Toledo ecatombi e di Siviglia,Nè le colme di stragi Alpi e i cercatiCàlabri monti e l’insubre pianura,

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Sparsa ancor d’insepolte ossa. La fronteRizza ognor l’Eresia, benchè sovr’essaPiegar vegga l’ibere aquile carcheDegli allori di Lèpanto. Chè stai?Come in tuo cor, perenne arde la bramaD’una sterminatrice ultima cladeNel pio core di Pietro; e tu sagaceL’insinuasti, or volge un lustro, in pettoAlla Medici astuta. AmicamenteElla accolse il consiglio, e di costantiVeglie il matura, e l’ispida disarmaMente di Carlo, già del morbo infettaDell’avverse dottrine. Istante è l’ora:Occulto accenna, e occultamente all’opraMoverà Francia. Illesi e più temutiI vostri nomi splenderan; securaSorgerà l’ara, ch’è puntello a’ troni,E furor cieco di travolte plebiL’opra fia detta, che il Signor v’ispira. —Tacque e sparve, ciò detto, e come fumoSi dileguò per l’aria. Varcò i gioghiDell’ultima Pirene; come lampoGuizzò su’ flutti della Senna, e agli occhiDi Caterina balenò.

SplendeaLa reggia in festa, e mille faci e milleVolti leggiadri di vezzose dame,

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Girevoli alla danza, ardean su’ grandiSpecchi delle pareti. Era dintornoUn mutar di cortesi atti e un confusoBrulicare di passi ed un fruscìoDi ricchissime vesti strascicantiSu’ tapezzati pavimenti, un’auraDi profumi reconditi, un furtivoIntendere di sguardi, ed eleganteGara di vezzi e di sorrisi e sordoPungere di sogghigni e di motteggi,Vago onor del feste.

Ivi non vistoSatana giunse, ed ammirò da latoAl severo Ugonotto il molle e infintoServo di Roma, e Amor di conjugaliRose odorar la reggia e le nemicheSètte comporre: Amor, che intesa appenaLieta suonar di San German la pace,Roseo nodo recando, ivi sen venne,E due care al suo giogo anime avvinse:Il chiaro in armi giovinetto ErricoE la pietosa Margherita.

PassaCaterina fra lor, bella e superbaProle e madre di re, d’innamorataPantera in guisa, che all’opposto soleSvolge i mobili fianchi e il variato

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Tergo, mentre nel cor tutta rinchiudeLa fierezza natia: lenta e securaVa per le selve a provocar l’amante,Ed al suo sguardo impaurite acquattansiL’astute scimmie tra’ più folti rami;Così passeggia per le aurate saleLa terribile donna, a cui nel corePenetrare non teme unico il Guisa,Terror de’ figli del Vangel.

Negli occhiAlla coppia fatal Satana lesseUn non so che di arcano e di feroce,Benchè sul labbro avessero il sorrisoE la pace dintorno. Ei tra la follaMobilissimo demone impudente,Or si mesce, or s’asconde, or volge e intrecciaCon le gambe di ragno aerei giri,Or si compiace scompigliar col piedeA giovinetta innamorata i fioriDella nitida chioma, ond’ella in vistaTutta confusa e col rossor sugli occhi,Sogguardando dintorno, si ritrae;Or sotto al piè di cavalier galante,Che tutto svolge a la sua bella il riccoPatrimonio d’inchini e di molleggi,Ficcasi d’improvviso, onde il meschinoSdrucciola e cade fra gli altrui sorrisi;

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Or assume uman volto; e si componeAl cembalo solenne, e scote i coriDelle vogliose danzatrici ardenti.Oh, il ballo, il ballo, il cembalo solenne!

Al variar dell’agile armoniaNuova fiamma di rabbia arde e inquìetaBrama di sangue a Caterina il petto;E sottili perfidie ordisce il Guisa.Oh, il ballo, il ballo, il cembalo solenne!Freddi spaventi e pallide paureCerchian la sospettosa alma di Carlo,E un tremito di gelo il cor gli serra.Ode intorno un suon d’armi, e dalla chiusaRoccella irresistibili prorompereDi Calvin mira le falangi; senteTremar sotto ai suoi piedi il trono; l’aureoScettro sfuggir dalla sua destra; in fiammeLa reggia, e sopra il suo gelido colloLa scure del carnefice. — PeriteTutti, in mia vece, o increduli, perite! —Oh, il ballo, il ballo, il cembalo solenne!

Qua’ clamori plebei turbano i sacriTripudj della gioia? A che su’ voltiSi dipinge il terrore, e l’un nell’altro

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Mira attonito il guardo, e niun favella?Perchè quel bruno cavalier su l’elsaPone in fiero di sdegno atto la destra,E fuor si caccia, e grida al tradimento?Oh, il ballo, il ballo, il cembalo solenne!

Su, correte, fuggite: al foco, all’armi,Intrepidi Ugonotti, all’armi, al foco!Cade il pro’ Colignì sotto il pugnaleDe’ sicarj di Francia; all’armi, al fuoco!Oh, il ballo, il ballo, il cembalo solenne!

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All’uopo intanto in una pia cappellaSilenzìosi adunansi e furtiviI traditi Ugonotti. Ivi nè riccheSoglie ed auree soffitte o immaginatiVetri, che incerta mandino la luceAttraverso i diffusi archi, nè doppiaSerie splendente di marmorei altari,Numerosi di Santi e di Leviti,Ma un’ara, un Crocifisso e una tribunaDa cui spiega le sere il sacerdoteDi Cristo il verbo nel natio linguaggio.Stan quinci e quindi in rigida gramagliaIn piè levati e con le braccia al petto

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Reverenti e pensosi i pii devoti,Mentre incerta per l’aere ondula e tremaLa melodia de’ facili salteri.

Ed ecco su la cattedra un canutoPastor si leva: un palpitante raggioGl’illumina la fronte ampia, e nel raggioL’anima supplicando alzasi al cielo.Indi volte le ciglia umili al densoPopolo orante nel silenzio, e strettoNella tremula destra un Crocifisso,Move per le solenni ombre la voce:— Figli, fratelli miei, soli custodiDel Vangelo di Cristo, alfin venutoÈ della prova il dì! Sotto mentitaCalma fremeva de’ nemici in coreLa tempesta dell’ira, e già su’ nostriCapi innocenti la rovescia Iddio.Che farem noi? Qual fia di noi la mente?Ira ad ira opporrem? Da’ labbri nostriQuesto rimoverem, che Dio ne manda,Calice d’amarezza? O figli miei,Di Gesù vi sovvenga. Era la sera,Quand’ei, presago di sua fine, al PadreVolgea nel consueto orto la prece,La santa ultima prece. A lui dintornoPietosamente s’accogliea la mesta

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Compagnia de’ suoi figli, allor che centoSanguinee faci balenâr fra l’ombre,E folti nelle sacre ombre traditeIrruppero i nemici; e lui, lui soloChiedon fra tutti. Il Nazzaren li vide,E a que’ feroci abbandonossi. Un vampoD’ira arse il cor di Pietro, e l’insuetaSpada traendo, un de’ Giudei percosse;Quando Gesù rivolto a lui: Quel ferro,Disse, riponi; non berrei l’amaroCalice io forse, che il Signor mi manda?Figli, fratelli miei, saldi custodiDegli esempj di Cristo, e voi di CristoProseguite gli esempj. Armi e vendetteSon poter di nemici; a noi fia dolceMorire inermi ed innocenti. Il VeroUopo d’armi non ha, ma pari a raggioDi Sol, che le nemiche ombre dirada,Dentro a’ petti s’insinua, e sforza e vinceCon detti di pietà l’alme più schive.Come più cari al ciel teneri e nuoviFiori, che tocchi dal tagliente aratroSul bruno solco piegano la testa,E mandano al Signor gli ultimi olezzi,Così cadremo noi, così cadrannoDi Cristo i figli, e avran sul moribondoLabbro la prece ed il perdono in core. —

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Disse, e baciando il Crocifisso, al cieloVolse le braccia; e come una divinaFiamma lo cinse. La pietosa voce,Qual zeffiro gentil che tocchi un’arpa,Lunga un’eco svegliò dentro ogni petto.

E già fonda è la notte; opache e mutePendono dall’immoto aere le stelle;E non fil d’aura, non perla di brinaL’ombre ricrea dell’estuoso agosto.Grava sugli occhi indocili una plumbeaAla di sonno, a cui muovon battagliaDense nubi di stridule zanzareOndeggianti per l’aria e l’importunoCrepitar dell’imposte arse dal soleE il rosicchiar monotono del tarloNel vecchio abete dell’umìl soffitta.Mille vede a tal suono il giovinettoDalle mura sbucar ceffi e fantasmi,Volubili dintorno alla morenteLampa notturna che lingueggia e stride,O calarsi su lui dal capezzaleAlti alti, muti muti, neri neri.Onde gli gela nelle fauci il grido,E freddo di sudor l’alba sospira.

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Ma già rotto è il silenzio; ululi e stridaFendono il grembo della notte. Al lentoRintocco d’una funebre campanaSorgon del Guisa gli scherani, i figliDel tradimento; e fra le innocue, ignareFamiglie di Calvin lancian la morte.Vien Satana nel mezzo, e move e istìgaLe fanatiche plebi. Odi per tuttoUn chiamar pauroso, un concitatoSerrar di fragorosi usci e pietosoGemer di donne e pianger di bambiniE uggiolar lungo di correnti veltri,E lontano, indistinto, ognor crescenteTumulto, qual d’immani onde, spezzateDalla procella alle ronchiose rupi,Ovver di nembi fluttuanti in cimaD’irto querceto di sonanti foglie.Pari a bruni fantasmi, od a notturniFantastici vampiri sitibondi,Si caccian per le cieche ombre i vendutiCattolici assassini: alla sanguignaFunerea luce d’agitate faciCorrer li vedi scapigliati e biechi,Laceri e scalzi e stillanti di sangueMenar gli stili e mugolar per viaE infurìar quai dèmoni guazzantiFra la strage e le tenebre. Con loro,

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Come rabide lupe, errano intornoSquallide vecchie dalle labbra aduste,Stridule amiche del bottino: al crineDelle fuggenti trepide fanciulleCaccian l’adunche, unghiose mani; a terraLe stramazzan, le graffian, le dilaniano;Dal niveo collo strappano i monili,Strappano insiem col cereo dito il castoGemmato anello (ahi, dalla morte infrantaArra di nozze cara alle fanciulle!)E insiem co’ lobi delle rosee orecchieGli aurei pendenti prezìosi.

FuggonoD’ogni banda i traditi, alto levandoGemiti di pietà, simile a frottePaurose di passere inseguiteDa nera e tortuosa ala di nibbio.Per le vie più remote, ove più cupaStendon l’ombra i palagi, altri s’involaAnelante, furtivo, e a man conduceLa vecchia madre desolata, quandoL’ostil ferro l’aggiunge: la meschinaMancar lo sente, e boccheggiar lo mira,E muta senza pianto su lui cade.Altri il ferito genitor si recaPiamente al gagliardo òmero imposto;Chi tra le fiamme e gl’incalzanti acciari

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Dagli eccelsi veron’ giù balza, e doveCredea morte sfuggir, trova la morte.Altri, da repentina ira compunto,Fuori in armi si caccia; invan la piaSposa gli cade alle ginocchia, e in piantoPer l’inconcusso talamo lo pregaE pe ’l lattante figlioletto; in questaL’irta piomba su lui turba omicida,E l’avvolge di strage: e’ su le careSalme si pianta terribile e vibraIl fulmineo coltel, nè pria sovr’esseCado, che tuffi ne’ nemici pettiL’insazìata del suo cor vendetta.Tu allor cadesti, o Colignì, tremendoRaggio di libertà; nè la canutaFronte ti valse e della fama il grido,Che un dì al Cimbro sicario il braccio svolseDal delitto imminente: ah, tu cadesti,E alla mozza cervice venerandaInsultò banchettando il vil Giudeo,Esultante di teschj e di sepolcri.Nè le regie tue sale inviolateLasciò la Morte, o giovinetto Errico:Su la tiepida soglia orridamenteStette, e di sangue maculò le rose,Che avea pur dianzi ivi cosparse Amore.Cadder nel proprio sangue boccheggianti

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I vigili custodi, e Amor sol essoDal tuo cor deviò la sitibondaDaga del manigoldo. Alzati, e spera,O regal giovinetto, e affila il brandoImpazìente di vittorie: cintaDi nuovi lauri sul tuo crin vegg’ioLa corona di Francia!

Ecco s’affacciaSu’ neri monti il candido mattino;Torna il gufo nell’ombre, e per lo foltoDella foresta involasi ululandoIl selvatico lupo, e van per l’aereDileguando, qual nebbia, ombre e fantasmi.Ma non fuggiste voi, voi non fuggiste,Fanatici sicarj, a cui di strageForse auspicio miglior parve la luce.E come allor che suole il buon villano,Poichè tutte serbate entro i capaciAbituri ha le biade, arder le molteAride seccie che gl’ingombran l’aja;Vede il vicino dal contiguo colleLa festiva baldoria, e le segateStoppie in fretta ammucchiando, il foco accendeSì che da un colle a l’altro in un istantePropagansi le fiamme, e tutti intornoPar che in seno alla notte ardano i campi;Tale al grido di Satana repente

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Si diffuse la strage e in ogni lidoImmensa spazíò l’ala di Morte.

O vigilanti stelle, e voi, se tuttoCon lo sguardo immortal mirate il mondo,Auree stelle del ciel, ditemi: quanteFuron l’ostie innocenti? E quali il ferroE quali il foco e la rovina ucciseSenza nome di fama? Io, quando spiraPiù veemente su la terra l’arsaCanicola, voi chiamo, ostie innocenti,Voi tra’ pioventi aerolíti, alloraChe di lucide bisce arde il sereno,Vagolar miro per l’eterea notte,Ritentando la terra; e di noi forsePietà vi stringe, che di pianto imbelleBagniamo ancor, ma non invan, la Croce.Rallegratevi, o pii. Dalle vostr’ossa,Lungamente aspettata e viva gli occhiDi purissima luce, alza la fronteLa Fede nova del Vangel, mirandaVergine tutta pace e tutta amore;Sorge a canto di lei l’inesorataRagion, parte di Dio; fuggon confusiI figli dell’errore, empj, ch’eternaTenebra su la terra, e in ferrei nodiChiuder volean l’alma immortal, che vive

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Di libertà. Memore a voi si levaNel dì solenne il pensier nostro, e a voiSorge presago di vittoria il canto.

Beati i caduti! Ne’ sacri cimentiSon grandi gli oppressi, son vinti i vincenti;Chi a gloria di Cristo la Croce non teme,Sol degno è dell’Uno, che in essa perì;De’ martiri nostri verace è la speme:In Cristo trionfa chi in Cristo perì!

La fede, la luce che v’arma, che v’arde,Non è la virtude dell’alme codarde:La fede che nega, che uccide il pensiero,Calpesta la legge che Cristo ci diè:La fede del mondo sorella è del Vero,La fede di Cristo tiranna non è.

Dio tempj non vuole, nè arredi, nè incensi,Ma cori innocenti, ma liberi sensi;Dal claustro geloso, dall’ermo ritiroAl popol fedele non parla il Signor:Fra patrj certami discende il suo spiro,Dà brando agli oppressi, disarma l’Error.

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Beati i caduti! Su l’arche pietoseGirate, o fratelli, corone di rose;Il salice lento non pianga su loro,Di brune mortelle non s’ombri l’avel:Su l’umili zolle germogli l’alloro,Lo allegri il sorriso perenne del ciel.

O martiri, o figli, soffrite, piangete:Chi semina pianto dolore non miete.Sul trono d’Iberia la morte si stende;Sul capo de’ Guisa sospeso è il pugnal;Nel bacio fraterno s’unisce e s’intendeCol libero Vero la Fede immortal.

Mal contro la voce, che in Cristo vi lega,S’aduna di lupi novella congrega:De’ reprobi uniti le gioie son brevi,Son nebbie notturne, che sperde il mattin;Qual riso di sole che scioglie le nevi,Dio sperde i superbi col soffio divin.

All’ombra temuta del freddo AlbíoneCol Bátavo insorge del Belgio il leone;Fra’ roghi e le stragi s’innova il conflitto;Inghiottono i flutti l’ibero navil;

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Risuona su l’aure di Nante l’editto;Dispersa è di Roma la voce servil!

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CANTO OTTAVO

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LE RIVOLUZIONI.

Ed avete fatto ciò che mi piace in ban-dire libertà ciascuno al suo prossimo.

Gerem., cap. XXXIX, v. 16.

Nè, se mi volgi il tergo,O sdegnosa mi guardi, o giovinetta,Chè su la cetra austeraLusinghiera d’amore aura non passa,Nè i cor morbidi allettaDi ricordanze molli e di sospiri,Onde schiva è la Musa, e l’alma è lassa,Io ne la tua pupillaCercherò la favillaChe i giocondi risveglia estri d’amore:Nel mio superbo coreCinta di quercia il crin l’Arte s’asside,E dagl’imbelli palpitiSdegnosamente il viver mio divide!

Fra’ bellici tumultiDe’ fluttuanti popoli risorti,Quando serrati e forti,Di libertate al grido,D’ogni lido sorgean gl’Itali inulti,E al nebuloso nido

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Il bicipite augel volgea le penne,Allor, de’ giorni miei cura dolcissima,Regina di virtù l’Arte a me venne.Fra gl’ignoranti insultiDella turba vigliacca,Che invidíosa baccaNel fango e bruca sogghignando a valle,Trepido il cor, l’interrogai di canto;E, se querele e pianto,Armi Italia fremendo, ella spargea,Come a lasciva femminaVòlto le avrei le spalle.

Cadde stagion, che, cintaDell’edera di Bacco il crine augusto,Venía l’Arte libando a’ ricchi in giro,Inorpellando di lucenti insanieLa vanità dell’anima servile.Fra’ mal guardati talamiSdegna l’Arte seder pronuba vile;Lascia de’ campi i futiliOzj; l’umil sampogna ai faggi appende;Sfoglia le rose idalie,E del Vero e di Dio s’orna e s’accende!

No, fra barbare genti e fra selvaggiUsi non vivi e insieme a lor non muori,O gentil peregrina,Che del sorriso più soave irraggi

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Le immani ombre, per cuiL’immortale Odisseo sempre cammina.Fra gli affanni e gli erroriIn cui la vita ondeggia,Tu nella Patria e in Dio l’alme affratelli;Per te più bella splendeDi Verità la face;Dagli obliati avelliPer te risorge la Vírtude antica;Tu del fior della Pace,Ch’operosa alimenti,Innamori le genti;Ma se Giustizia affidaLe sue ragioni al brando, ecco, fra l’armiT’avvolgi, e pari ad igneiTorrenti irrompon dal tuo petto i carmi.

Fra le protratte voglieDella notte invernale, or che più fremeNel suo manto di nevi la Natura,Musa, viril mia cura,Dalla splendida tua sede supernaScendi, ove al raggio incertoDella fida lucernaCon gli estinti ragiono e con me stesso.Sbuffan su lo scommessoUscio i gelidi venti;

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Stride e saltella la grandin su’ vetri;Squarcia il fulmin la notte;Precipitose e rotteCadon le pioggie da’ nugoli tetri;Al bagliore de’ lampi io l’estro avvivo,E la tempesta de’ commossi popoliFra la tempesta scrivo.

Qual mai novo e sublimeTurbin di guerra infuriare io sentoChe, dell’oppressa umanitade in nome,Corone infrange ed oppressori opprime?Chi nelle plebi lungamente domeTanta coscienza di diritti infuse?Queste non son le illuseGenti, che a Libertà pareano estinte,E le lunghe catene, ond’eran vinte,Trascinavano mute,Senza virtù di sdegno e di vendetta?Queste le disgregate orde non sono,Che, come ozioso armento,Poltríano alla funesta ombra d’un trono?Su le lor dure tergaSibilando poc’anzi non disceseDe’ despoti la verga?Ov’è il torpor che in servitù le stese,E le vestì d’oltraggio?

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Dunque discese il raggioDi Libertà nell’impietrite menti?Dunque il pensier, che tra le fiamme e il sangueCol traditor Giudeo venne a tenzone,Arma l’umane genti,E con tremenda voceChiama a giudicio Acabbo e Faraone?

O chiara e al ciel diletta opra, che al biecoMostro, bríaco d’ignoranza, alteroDi colpe, o d’ira e di lussuria cieco,Sottraesti il pensieroImpazíente di volare al primoDell’onnigene Idee campo imprescritto,Ove dal sommo all’imoEguale ebbe ciascun voce e diritto;Tu con virtude occultaDi santa libertà spargesti il semeFra questa in servitù gente sepulta;Tu di novella spemeGittasti il foco tra le plebi oppresse,Di lor possanza ignare e di sè stesse!

Ad inusate proveSi levâr su gagliarda ala le menti,E, pari a cimbe aeree,

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Ammirando a ridir! volser la pruaPer l’oceàn d’eternità. Su loroPerenne astro splendeaLa Ragione fecondaD’alte indagini madre,Origin prima e solo a Dio seconda:Pe’ riposti elementiArditamente penetrâr, leggiadreCose esplorando e delle cose il germeE il recondito senno e le rimoteLeggi, ond’ha l’universo ordine e vita,E la sostanza eternaChe mortal volto e color vario assume,E l’anima infinitaChe tutto ch’è quaggiù muove e governa.

Allor pe ’l sacrosanto italo litoVenne Sofia pellegrinando. All’ombraDe’ cosentini boschiSpirò l’inclito veglio, e di sorrisiLa mesta gli allegrò vita cadente,Che mal patia di biechi errori il giogo.Per tempestosi eventiGuidò quinci di Nola il figlio ardito,E alla Natura unitoIddio mostrògli, e accompagnollo al rogo.Nell’inconsutil manto

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Le ceneri del suo martire accolse;E sovra al bruzio monteAd altro italo onor volse la fronte.

Ma gli eterni secreti e il sacro amplesso,Che immortal giovinezza all’uom dispensa,A te serbava, o Galileo. Nel chetoMal guardato recessoDi Bellosguardo a’ novi studj il tronoElla compose, e al tuo vedente ingegnoTutta sè stessa e tutto il ver commise.Al venerando antico,Cui sì poco del ciel parve il viaggio,Più non discese, oltre quel giorno, il raggioDe l’esplorate stelle e de l’aurora:Parea Tiresia, a cui Palla gelosaAvea d’ombre tenaci il viso avvinto,Onde alla luce estinto,Egli scendea securoNegli abissi dell’alma e del futuro.

All’improvvisa luce,Che dall’italo Genio al mondo venne,Impallidì sul venerato altareL’idolo di Stagira,Che, all’umana Ragion despota e duce,

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In sì lungo servir l’anime tenne.Cadde percosso al pettoL’irto arabico stuol, che crede e ammira:Stolto, che d’ombre cintoCorrer presume dell’Idee la sferaSenza libera luce e senza penne!Di sempiterna seraBen l’offesa Ragione indi l’avvolse.Sovra i contesi ruderiUn animoso si levò; nel coreLa genitrice dea rigido accolse,Le diè custode il Dubbio, e con fecondoInusitato ardireL’uomo rifece, e ricostrusse il mondo.

Sorrise allor tra l’ombreDel servaggio l’auroraDell’Idea vincitrice: intimo e santoNodo d’amore allacciaL’opera ed il pensier, l’alma e la creta.Qual sua l’azzurra facciaDell’acqua irato piombaIl nemico al nocchier freddo libeccio;Con ala tempestosaDall’arene profondeSpinge ed aggruppa l’onde e al ciel le mesce,E salta e infuria, e con orrendo strido

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Corre a spezzarle al lido:Tal discende ne’ pettiDella Riscossa l’improvviso grido,E con virtù sdegnosaD’indomito furor l’anime accende.Così nube piovosaSu le rigide spallePende spesso dell’Etna incerta e muta,E tutta adombra la soggetta valle;Se per l’aereo calleAquilon si disserra,Guizza nel grigio seno il primo lampo;Sovra il deserto campoPur or tacito e chetoRugghiano i nembi e scroscia la procella;S’agita mormorando il castagneto,Chioma al superbo monte;Per balze e per dirupiFuggendo van gl’improvvidi coloni;Agl’incessanti tuoniSi fende il ciel, traballano le rupi.

Dallo spumante scoglioLevò la risvegliata Anglia la testa,A cui lunga e funestaNotte di servitù non tolse orgoglio,Altera e fremebonda

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Scuotesi, in piè si rizza, e l’armi cerca,E libertade ha in petto, ira nel guardo,Come notturno spettro,Piantasi in vista al pallido Stuardo,E i conculcati antichiDritti chiedendo e l’abusata Carta,Gli scrolla il trono, e gli strappa lo scettro;Con feroce ardimentoTinge nel regio sangue indi la scure;Ma a rapir la cruentaCorona, ecco l’aduncaMano Cronvello avventa.

Stolto! Il civico serto e il lauro eterno,Onde sì larga mèsse egli raccolse,La sua sfrenata ambizíon non spense,Ed al regio splendor sol morte il tolse.Ma a te valse, ed è santoPrimo il tuo nome a le novelle genti,Imperituro Vasintòn, cui venneDalla patria risorta unico vanto!Chi mi darà le penne,Ch’io tosto voli al solitario monte,A cui vegg’io, come d’occidue stelle,Di tutte glorie impallidir la fronte?

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Ivi egli abita ancora, ivi ancor vegliaDi sua terra a custodia. Indi il fraternoVampo di guerra intese,Che tante divorò splendide vite,E pietà più che sdegno il cor gli prese.Dilaniato e scissoIl suo fido mirò popol guerriero,E su l’aperto abissoLevarsi in armi chiavitù proterva,E a Libertà contendere l’impero.Su la nera catervaBen discende, qual nembo, alla battagliaUn, che lui sol di mente e di virtutePiù che null’altro agguaglia;Ma su le sacre soglieDel trionfo imminenteCol venduto pugnal morte l’incoglie.

Salve, o Lincoln possente! Al contumaceOdio, che le superbe alme avvelena,Sia suggello il tuo sangue; e Amor distendaL’antica sugl’irati ombra serena,Dove candida Pace,Dolce vincol dei cori, alzi la tenda.Deh! sovvenga agl’iratiIl puro onor delle paterne imprese,Quando nel nodo del dolor serrati

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Contro all’anglo ladron levâr la faccia,E sol contro a’ tiranni ira s’accese:Sciolti da’ ceppi le gagliarde braccia,Afferrâr fremebondiIl fulmin, che un ardito a Dio contese,E saettâr del biecoPoter gli sgherri e il Privilegio cieco.

Dagli allaganj montiScese fra’ prodi la Vittoria; e, tèrseDe’ bellici sudoriL’abbronzite dal sol libere fronti,Le baciò tutte e le vestì d’allori;Sollecita con essaLibertà venne, e sul materno pettoTutti accolse e contenne i vincitori;Di nuova luce radiante e bellaVenne la Pace a’ dolci studj amica,E stabile e pudicaRegnò Giustizia a Libertà sorella.

Ma dove mai la fervidaMusa, d’egregie ricordanze in traccia,Oltre i remoti oceani,Impazíente d’ogni fren, mi caccia?Al concitato volo,

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Musa, torciam la luminosa penna;Dell’agitata SennaIl procelloso fluttuar non senti,Che altari e troni e terra e Dio minaccia?Un turbinoso arcangeloPer le tetre ombre infuríar non vedi,Che con la spada a fulminar avvezzaCeppi infrange, are infiamma e troni spezza?

Tal, quando Iddio nell’iraSovra l’empia Gomorra il guardo volse,Scuola e fucina d’ogni ria sozzura,Su le pollute muraAngiol mandò, che col fulmineo brandoSquarciò il sen della terra; dagli arcaniAntri del foco immensoMugolando balzâr cento vulcani;Su’ miserandi pianiL’onda versâr de le bollenti lave;E in lenzuol vasto e graveDi ruine e d’orror Morte li avvolse.Ma per la spenta valleDio scorgeva un pietoso,Che con picciol fardello in su le spalle,Al vicin colle intento,Su’ sepolcri movea, simbolo eternoDella raminga umanità soffrente,

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Che pallida e cadenteCol tempo a tergo e l’infinito in facciaPassa su la rovina,E par che muoia o giaccia, eppur cammina!

Pur cammina e s’avanza,E tempra muta, e nel dolor s’innova;E nella dura provaLe vien compagna l’ultima Speranza.Sovra l’acuta cimaDelle piriche roccie il fulmin scenda;Dalle perpetue neviPiombi disciolto il torbido torrente,E le mobili terre urti e scoscenda;Sieda e s’affreddi la materia primaDi questo globo ardente,E ogni cosa mortal muti d’aspetto;Dall’arenoso lettoSpostinsi i mari interminati; il gremboSquarci alla terra il central fuoco; il ferroGiri la Morte intorno,E semini di strage e di rovineQuesto mortal soggiorno;Fratelli con fratelliSu’ desolati altariAffilino i coltelli;Corrano umano sangue i fiumi e i mari;

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Non sgomentarti, o trepidoGenio, cui schiuso è del futuro il grembo:Fra l’adunato nemboUna splendida in cielo iri s’inarca;Sui sanguinosi oceaniSempre galleggia un’arca!

Voi, benchè in torvi errori,Di nostro fragil semeFlebile dote e debolezza antica,Inebbriaste infuriando i cori,E del barbaro CeltaL’orgie innovaste e i sacrificj e l’ire,Per cui strappata e sveltaParve dal fondo la mortal famiglia,Ben voi, di Gallia altere alme gagliarde,Ben voi con ferrea destraTraeste umanità dal vecchio inganno,Mutando a tutte cose abito e nome.Alla sublime del pensier palestra,Venner le plebi disprezzate e dome,Arbitre saettando are e tiranni.Dall’insecure sediImpallidite omai, Giovi di Creta!Quei, che nel sonno del servir protesoPigmèo parve al sembiante,Si levò in piedi, e diventò gigante.

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Stolto Melchisedecco, e tu in quest’oraDi supremi giudicj ancor t’ostiniNell’impero del mondo?Sorger non vedi in fondoDel torbo ciel l’aurora,Che nuovi al gener nostro apre i destini?Chi l’improvvido e vileSgomento in cor, se non livor, ti spira,Che, abbandonando all’iraDell’incredule turbe il sacro ovile,Trepido pellegrin, muovi al viaggio,Ed al tedesco oltraggioPorti l’infola santa e il crin canuto?Tanta ancor dell’anticoFornicamento hai sete,Che alla porta de’ re scalzo e mendico,Vieni accattando di vil terra un frustoDell’ara a prezzo e dell’ufficio augusto?

Da’ pagani delubri,Sopra le stragi cittadini eretti,Dilegueran le pallideLarve, che del Signor tennero il loco:Chè non compreso e fiocoParla a devoti pettiIl vano delirar d’egri intelletti,Che la luce del Sol cercan nel limo.

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Religíon, ch’è primoDi nostr’esuli vite almo desio,Che allo splendore, onde la terra è scema,L’anime volge e le collega in Dio,Alla sanguigna sponda,Da cui tanta d’errori onda la spinse,Riede secura, e accendeTutte virtù ch’impeto cieco estinse;Schiva d’abbietti sensiLa divina Ragion l’ara discende,Ed alla Fede unita,Al Dio che riconosce, offre gl’incensi.

Libertà quinci e Dio,Gridâr gli oppressi, e terra e ciel s’unîro,E altar la patria fu, patria l’altare.Tal sul conteso mareSuonò il tuo grido, Amazzone del Pindo,Quando, spezzato il sassoDel secolar sepolcro, al dissuetoBrando la destra, e il cor ti corse all’ira.E allor che sola e come verme ignudaE morta ti credean sotto la terra,Sorger fosti veduta all’improvvisoViva, gagliarda e in armi,E dall’aeree cime,Ove l’aquile altere hanno il soggiorno,

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Scagliar la morte intorno. Al gran cimentoVeggo i padri ne’ figli, e nuove io miroMaratone e Termopili. DisperseFuggono l’ottomane orde omicide,Fra cui dannata strideA perpetuo fuggir l’ombra di Serse:Di nuovi allori induttoIl làbaro divin si svolge al vento;L’odrisia luna oscurasiDi Navarrin sul tríonfato flutto.

O forti, o illustri, o sacriPer quante sono età, figli d’Olimpo,A voi l’instabil GenioMen fugaci armonie vuol ch’io consacri.Ma delle nuove impreseQual mai scerrem che più ne accenda il petto,Se de’ vetusti lauriDegni son questi al par di carmi objetto?Non io dirò. RamingoAl paterno Danubio erra chi a’ fianchiDegli èlleni leoni,Benchè di pugne e di vittorie stanchi,Troppo, o folle, pensò stringer gli sproni:Egli dirà, che duraProva è tentar di greca aquila il dorso;

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Che ben di penne al corsoGli cinse il piè la rapida Paura.

Al suon delle ridesteTube dell’Ida è de’ percossi acciariVediam, cor mio, riscuotersiNuovi Giasoni a ritentar quei mari.Corriam, Cureti, a’ gelidiMonti, al bosco, all’altar: nova or si coleBerecintia in quei luoghi;Al cocchio aurato, splendido qual sole,Più gagliardi leon fia ch’ella aggioghi!Scotiam per monti e valli,Ebbri di pugne e di vendetta accesi,Nunzj di guerra i concavi timballi;E quando fia che interaDal freddo Ponto ad ElideAl ciel si volga l’ellena bandiera,Allor su la mia linguaL’inno s’agghiacci, e l’estro mio s’estingua!

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CANTO NONO

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ITALIA E PIO.

O pieno d’ogni fraude e d’ogni malizia; figliuoldel diavolo, nemico d’ogni giustizia, non reste-rai tu mai di pervertire le diritte vie del Signore?

Atti degli Apost., cap. XIII, v. 10.

Inni e fronde festive, inni ed alloriAl rinnovato altar: Cristo alfin venneAlla tomba di Lazzaro! Sul novoDíadema di Pio sorge l’auroraDe’ destini d’Italia: inni ed allori!Tersa dunque vedrem da’ falli antichiL’apostolica benda, e l’ardue soglieDelle case di Dio cortesementeSchiuderà Pietro a Libertà raminga?

Torna, deh, torna all’amorosa tendaDel tuo sposo celeste, o Sullamita,Torna all’Eden perduto! Orrido acciaroNon ti costringa il casto anco; irsutoElmo le chiome non t’adombri: adornaSolo di tua beltà candida e schivaDal colle eterno scenderai, siccomeDolce riso di sposa allor che intorno

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Tremano i cor de’ giovanetti, ed ardeLa gelosa canizie. Armi e battaglieNon son tuo vanto e tuo poter, ma schiettaD’amor parola e fruttuosi esempi,Onde all’ombra del tuo manto s’accolgaA grandi imprese il travagliato Adamo.Vergine di Sionne, apri la fonteDei melodici carmi, e ne ricordaGedèone invitto e i dissipati estraniDalla terra promessa: a te da latoTutti verran gl’itali prodi, e primoIl pugnace Sabaudo. E’ delle anticheChiuse dell’alpi vigila i destiniDell’esperie contrade, e sacro il fannoLa sventura e il valor: solo e gagliardoLa fronte ei leva, e squassa l’armi, e aspettaL’augel di Asburgo al periglioso varco.Credi, Italia, a quel petto, e non t’adombriRicordanza di colpe. In su quell’alpiPose un dì le saette il fuggitivoGenio di Roma, ed esulò gran tempoPer l’italiche terre. Umile e ignotoRicercando vagò di porta in portaUna sola favilla, un raggio soloDi latina virtù; nè pria sugli occhiSeren gli si destò lampo di gioja,Che per li sotterranei archi d’un chiostro

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Udì secreto mormorar su’ labbriDegli accolti Lombardi un giuramento,E tintinnar sotto a’ mantelli i ferri,Che in Legnano dovean, lucidi al sole,L’alba augurar dell’itale vendette.Or qui riede quel divo; e nel ridestoVampo di guerra la speranza accesa,De l’Allobrogo il brando e la parolaDi Pio ne indíce, e là fulmina gli occhi,Ove tra il disputato Adige e ’l MincioMinaccioso s’annida il Cimbro altero.

Io ti saluto nel cimier tuo brunoE nei tuoi prodi, o Italia! Al generosoGrido, al lampo del fiero occhio conoscoDi Quirino la figlia. Ondeggia al ventoLa triplice bandiera; odo la voceDella battaglia.

Impetuosi e foltiSerransi intorno al rigoroso AlbertoQuanti bevon del Po l’onda guerrieraGiovanetti gagliardi, e quanto han fioreDi agreste pubertà le vette alpine,Fior dell’itale schiere. Arditi e snelliVengon d’Etruria i prodi, e i clamorosiDi Partenope figli, e que’ che altieriSon di censi paterni Insubri, e Liguri

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Impazíenti d’ogni freno, e sacriTiberini nepoti. Urla dal vanoScoglio Cariddi: alle trinacrie ripeRuzza l’empia Licenza, a cui devoti,Più che all’italo onor, vivono i petti.

Tal venisti alla pugna, o lusinghieraForza d’Ausonia, inclito Alberto; e DioCon noi parve quel dì, che alle pugnateDi Pastrengo pianure e di GoítoLa predatrice Arpía lasciò le penne.Di quei due nomi oh, lungamente in pettoLa memoria serbate, itali figli,E fremebondi lagrimate a’ nomiDi Curtatone e Montanara!

TuttiEran giovini e prodi. Al ridolenteMargine d’Arno e del Volturno a rivaAbbandonate avean madri e fanciulle,E alla pugna correan, come a convito:D’Italia il nome su le labbra, al petto,Pegno estremo d’amore, una coccarda;Nudo il brando nel pugno; in cor certezzaDi vittoria o di morte. E morte ahi, morteTutti gli avvolse, e caddero col nomeD’Italia al labbro e stretto in pugno il brando.

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Giovani venturosi! Alle fuggentiPupille vostre non scendea l’estremoRaggio de la fugace itala stella,E al suo meriggio tramontaste! A voi,Giovani prodi, Iddio vietò la duraProva del disinganno; e le supremeLagrime di Custoza e di NovaraI vostri non bagnâr teneri allori.

Ma tu misero re, tu derelittoRudere di te stesso, il mal securoScettro gittando, poi che Dio negli occhiL’iri ti spense del tuo roseo sogno,Disdegnoso esulasti, e sola in piantoT’accompagnò l’italica SperanzaPer la via del dolor. Tal la paganaFavola vinse Apollo fuggitivoDall’Olimpo conteso, e tal sofferseL’altero dio venir solo ed ignotoAlle mense d’Admeto.

O tremolanteStella di Pio, speme d’Ausonia, auspicioDi riscatto alle genti, a te qual passaNube di repentina ombra sul fronte?Chi il tuo candido raggio, il tuo pietosoRaggio d’amor muta in sauguineo strale,Che su le case d’Isdrael saetta

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La sventura e la morte? O generosoInno d’Italia, onor di pochi, all’iraOr non ti pieghi la memoria acerba;E sul capo di Pio tacito scenda,Più grave del tuo sdegno, il tuo perdono.Forse in questa solenne ora (gli augurjCosì n’attenga il Ciel!) Morte gli legaAl piede infermo il sandalo sprezzato,E un angiol chiama in testimonio i sacriCapi percossi dalla sua bipenneAl giudizio di Dio. Ma il forte vantoDella nostra caduta e i sacri nomiDi Venezia e di Roma, ultime a tantoItalo esizio, tacerà l’alataArpa de’ prodi?

Pensierosa e solaAl Campidoglio un dì venne l’arditaViragine del Tebro. Alle merlateMura divine, ch’avean chiuse il mondo,Vòlte le terga avea l’irto Levita,Simile a Giuda, che fuggía dal sacroConvento di Gesù, poi che col bacioMalignamente il trafficò. Su l’orloDella vasta scalèa sdegnosamenteStette, e volse l’irato occhio aquilino,Terra e cielo spiando. Ecco, la tendaSpiccan dal vicin colle i prodi, illusi

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Figli di Francia, e irrompono; risuonaPer la campagna desolata e tetraCupo il nitrir delle poledre ibere;E qual lontano mar mormora il campoDegli urlanti Croàti: orrido stuoloDi sciacalli così corre sul lidoA divorar le derelitte carniD’un annegato.

In su l’eburnea sede,Pari a Giove, si tiene un VenerandoFra le tempeste della patria. IntornoAlla sacra cervice il fulmin romba;Rovinano al suo piè le desolateMoli superbe; tremano le anticheSale del Campidoglio; urta ed incalzaIl nemico alle porte: ei le supremeLeggi accomanda, e su la morte un nuovoCielo di libertà schiude alle genti.

Pochi, ma d’un sol core, ardono in armiI latini guerrieri, e affrettan l’oraDell’ultima battaglia. Un valoroso,(Al fulvo capo leonino, al focoDel cerul’occhio ed alla rossa magliaRiconoscilo, Italia) il tuo guerrieroInno intuonando, avventasi alla pugna,Primo sempre a’ perigli. Al sacro acciaro

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Diede fulmini Iddio, ma dolce e piaGli die’ l’anima in petto, onde il suo nomeCaro e temuto insiem suona a’ nemici.Ferve l’ultima pugna; a lui dintornoCadon gli ultimi prodi; invitto ei soloUrta, abbatte, scompiglia, atterra, uccide:Schiava al brando ha la morte, e contro al brandoFrancia, Spagna, il destin. Ma taccia il canto:La ricordanza di quel dì non torniA destar l’ire di quel cor bollente,Or che il Tebro fatal gli vieta Italia.

Cader vide i suoi figli e tornar cintoDi straniere alabarde e di vendetteIl perfido Levita, e un urlo miseLa tradita del Lazio: ira e vergognaLe accese il volto, ricercò la spada;Parve Lucrezia, allor che all’ultim’uopoStringea nel pugno il redentor pugnale.

Mugghiò allor cupamente, e si commosseIl Tevere divino, ed ecco a un puntoBalzar dalle dischiuse acque un alteroSpirito, e camminar sovra gli abissi,Come cosa di sogno. I sette colli,

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Tremando, ripitean d’Arnaldo il nome.E tal voce s’udì:

— Da lunghi errori,Che ingombrâr la tua vita, or ti redimaCredula Italia, il disinganno! Al sacroPetto men l’Unno e il Vandalo profondePiaghe t’aperse, che quest’empia e neraTurba, che serva di Gesù si vanta,Ma del mondo e del ciel pretende il regno.Barbara d’ombre abitatrice antica,Barbari ed ombre a te chiama dintorno;Lieta d’umane stragi e di rapine,Le tue carni imbandisce a stranj Proci,E propina il tuo sangue a’ tuoi nemiciEntro al teschio di Bruto. Ebbra e giocondaD’omicide lussurie al petto infidoGli antropòfagi abbraccia; alto sollevaDi tue lacere membra il trafficatoBrano, stridendo di vittoria; e al foscoSantuario del suo Nume pe ’l crineGl’ingenui figli del Vangel trascina,Ostie sacre a vendetta! Or ti rassegnaAll’estremo spergiuro e al velenosoFrutto di tua credulità. Dispersi,Mendicando un asil sott’altre stelle,Vanno i tuoi figli, mentre al tuo bel soleLubricamente snodano le membra

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Gl’iperborei serpenti, e in più tenaciSpire mortali attorcono la vitaDi quanti itali son Laocoònti,Che osâr primi scagliar l’asta nel fiancoDella piena d’inganni arca di Pio.Scote sul sanguinoso Adda le penneL’avoltojo d’Asburgo, e le giurateIre ricorda e le vendette anticheDel trionfato Barbarossa; al giogoRiduce il collo il pavido Marzocco.Quando i sempre ridesti odj fraterniGli rupper l’alma e il libero ruggito;Ma sul bianco Cenisio, ancor che fiocoIl sacro di Savoia astro risplende,Il sacro astro d’Italia. Un giorno IddioDi tanta luce il vestirà, che tutteDiradate saran l’itale notti;E lentamente il guiderà su questoCampidoglio a lui sacro. Or cedi, e aspetta,Nè ti sia lungo l’aspettar. Dal fronteAl mentitor Giudeo cadde la larva,Cadde l’orpello a’ ferrei ceppi; indarnoContro a Cristo verrà Satana: il mondoCeppi non vuole, e non avrà! VedrannoL’itale genti alfin, che non mai risoDi libertà, da queste are vendute,Ove Dio non fu mai, venne a’ credenti;

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Vedran, che avversa è a libertà la ciecaFede che fra gelose ombre s’accampa;E insin che questo usurperà gli altariDella terra e del ciel traffico indegno,Starà Italia nel fango, e servo il mondo!

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E tu cadevi ancor, tu ancor cadevi,Regal figlia dell’onde! InghirlandateDe’ materni coralli i baluardiDi Bròndolo e Marghèra; inghirlandateDi sempre vivo allòr l’aereo ponte;Nè sia tardo a venir l’inno custodeDel sacro nome di Manin!

Sul varcoDell’aurifere conche alzò la fronteAustera il Genio di que’ luoghi, e stettePensosamente ed aspettò. Col mutoSguardo più volte misurò gli abissiDell’antiche sciagure, e gli sovvenneDi Campoformio, e pugnar volle. In giroInsidiando lo venía la fulvaStinfalide d’Asburgo, e al coronatoCapo vibrava del suo doppio rostroLe serpeggianti folgori. In tal guisaSu la scitica rupe ergea la fronteImmutabile a’ fati, il sempre accorto

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Divino Giapetíde, e a’ fianchi intornoGli roteava l’aquila superbaA divorargli il fegato immortale:Rugghia il nembo, arde il ciel, brontola il tuono,Trema la caucàsea alpe, si spezzaLa terra, e cupa al mar si mesce; i polsiDell’ardito immortal la Forza inchioda:Indomito e sdegnoso, ancor che vinto,Al geloso tiranno egli prediceL’imminente caduta!

E tu da questoTalamo glorioso, ove dal bacioDella Giustizia e del Valor già nacqueLa Libertà, tu sgombrerai, stranieroTrafficator, tu sgombrerai; la mestaElegia, che le lunghe ore compiangeDel fraterno martirio, e la ripeteIn cadenza de’ remi il marinaroAmoreggiante con la nova luna,Inno di nozze diverrà. Già all’aureOndeggiar miro la sabauda croce;Già nell’itale destre impazíentiLampeggiano gli acciari. Ecco, ecco il sacroTalamo dell’azzurre acque e le roseeTede e l’ondivagante ara: il tripudioDell’itale sorelle odo e il bramosoBacio fraterno. Oh! da quell’arca santa,

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Da cui Dandolo un dì gettò l’anelloDell’auspicata sponsalizia al mare,Manda, o Vittorio, una colomba, e rechiPietosa intorno il ramoscel d’ulivo,Lungo desio di trepidanti madriE speranza d’Ausonia. Indi verrannoSotto gli ospiti allori a riposarsiLe sacre Arti raminghe, e quei d’oltralpeGeloso non vedrà gl’itali onori.

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E passâr dieci aprili. Iddio sa i piantiDi quella tetra passion! SorrisoD’amor non venne a consolar le oscureAgonie de’ traditi; e parve notteL’italo giorno. April tornò, ma roseNon portò al crin de l’itale fanciulle;Non recò danze il pampinoso autunno;L’estiva luna non spirò gli accordiDelle chitarre agevoli e i notturniCanti, amor di donzelle. Inno fu il piantoDelle vedove madri e la canzoneDel prigioniero e il desolato addioDell’esule infelice; e quando allegraVoce suonò per l’italo paese,Voce fu di straniero o di levita.

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Fra cotanto dolor sola ed ignotaCrescea, come azzurrina alga tra’ flutti,La candida Maria.

Del Tebro a rivaSul limitar dell’umile casettaElla sedeva, ed un garzon la vide.Non ignoti alla morte eran suoi tetti:Sola ed orfana ell’era. Amor, che soloDona oási al deserto, astri alla notte,Rugiada al fiore, iridi al nembo, AmoreA lei sen venne, e la chiamò per nomeCon secreta armonia. Dal suo lavoroElla tolse i pensosi occhi, e negli occhiDel giovinetto li specchiò, tremandoD’un occulto desio. Quando fûr soliPiansero entrambi, e ricordâr quel guardo,Poi si vider ne’ sogni, e lungamenteSospirâro il domani: egli alla via,Ella a la bianca fenestrella; e quandoSi guardavan, volevano morire.Poeta egli era, ella operaja: il cantoEgli aveva sulla terra, ella il sorrisoDegli occhi azzurri; egli la cetra avea,Ella il refe sottile; aveano entrambiPoverezza ed amor. La sera inteseI furtivi colloquj; Espero videI secreti lor baci; i casti amori

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La sacra notte custodì, la notteDe’ misteri d’amor confortatrice.

Ma su l’ermo tugurio e su’ palagi,Siccome autunnal turbine, piombaLa vendetta di Giuda. In su le sacreVette de’ colli e per li campi intorno,Pe’ quadrivj frequenti e appiè dell’are,Appiè dell’are del Signor, lampeggiaL’affilata bipenne, e tu dal cieloSospirando la miri, alma di Bassi.E già sul vostro fior gravita il nembo,Gentil coppia infelice! Il giovinettoSchivò quell’ire, ed esulò. StraniereGenti conobbe ed ospitali usanzeE umani sensi ed amistà; ma i fioriDe la zolla materna e il ciel d’azzurroE gli occhi azzurri de la sua fanciullaE i profumati zeffiri e il profumoDe’ casti fiati dell’amata boccaChi mai ridona al pellegrin poeta?Solo e incompreso indi passò. La terraSeppe i suoi carmi e l’ire sue; ma i piantiDi sue vigili notti e l’ostinateLotte con la miseria Iddio sol vide:Chè compianto mortale egli non volleAi suoi casi infelici, e non sofferse

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Di nuove spine infastidir la viaA’ felici del mondo, e franger questaEredità di sogni e di speranze,Per cui l’uomo quaggiù vive e s’eterna.Oh, quante volte ei disiò in secretoLa sua bionda infelice!

Al davanzaleDe la bianca fenestra ella ancor siede,E sempre cuce, e sempre canta, e aspetta.Chi la conobbe un dì mesta la disse;Chi cantar la sentì l’occulto focoDe la fanciulla indovinò; nessunoPur la vide levar gli occhi a giocondiAllettamenti di gentil garzone,O sorrider giammai; non dì festivoCandor di giglio le trovò sul petto,O vergin rosa al crin: candido giglioEra il bianco suo volto, era bocciòloDi vergin rosa la sua casta bocca.Così s’amâr, così piangeano.

Il giornoD’Italia sorse; l’eridanio fluttoBalenò di riflesse armi: con noiVenne Francia e il Signor.

L’italo numeSnudò la spada portentosa. Al gridoCh’ei sprigionò dal bronzeo petto, in armi

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I dormenti balzâr, sursero i morti,Fûr giganti i pigmei. Tre passi ei fece,E sette troni in tre battaglie infranse.

Or tu fra’ pioppi di Santena, in tristaGramaglia, itala Musa, all’immaturaUrna avvolgi le braccia; ed ahi, non senzaPianto il tuo gloríoso inno risuoni.Ahi, della nostra libertà l’accortoLegislatore, ahi, l’operoso ingegnoDi prudenza acre e d’alte astuzie istrutto,Nei giorni sacri alla vittoria, giacque.

Brando non cinse, apostolo di pace,Al dì solenne il pellegrin poeta,Ma gli estri accese, agitò l’arpa, e il voloAccompagnò dell’itale battaglieCol saluto degl’inni e con l’amore.Piangi, e spera, o fanciulla; e non infoschiLe luminose tue speranze il nemboDel tradito Aspromonte: al dolce azzurroDell’amorose tue pupille IddioLa luce renderà del tuo poeta;Al ciel d’Italia il Sol di Roma. All’araTu moverai, moverà Italia al trono,Moverà il mondo al Tempio. Or tu ridesta

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L’estro, o poeta; e a lor che dall’estranaRiva del Tebro, in lunghi ozj ravvolti,Della Senna natia sospiran l’onda,Come ti spira amor, volgi l’addio.

— Vestitemi di fior’ l’aureo liuto;Datemi al tergo l’iridate penne:Figli di Francia, in questa ora solenne

A voi sacro è il saluto.

Sul margin santo del conteso rivoL’Arte non educò triboli e spine:Degli apostoli suoi pose sul crine

Il verecondo ulivo;

E dell’ira mortal, che gli empj alletta,L’urlo sdegnando e la venal rampogna,Scoccar del generoso arco vergogna

La licambèa saetta.

No, nemici non son, non son rubelliA l’italico onor di Gallia i forti:La fede istessa a noi li fa consorti,

Lo stesso onor fratelli!

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Deh, se a tanto di ciel nume e destino,Pochi immemori petti anco son sordi,S’armi di sdegno il mite inno, e ricordi

Magenta e Solferino!

Meco venite, e in compagnia festivaTessiam, figli d’Italia, e lauri e lodi:Sacra promessa alfin chiama quei prodi

Alla materna riva.

Quivi siede un Fatal: Satana o dio,De’ destini d’Europa il sommo ei regge;Doma il passato, all’avvenir dà legge,

E non paventa oblio.

Rugghiano intorno a lui l’ire in tempesta,E sparge invidia il suo muto veleno:Ei su’ tonanti fulmini sereno

Sorride, e li calpesta.

A immenso volo per la via de’ ventiSpinge l’imperiale aquila grama;Cesare, abbatte Re; Bruto, richiama

A libertà le genti.

Nè più sostien, che su l’altar pollutoSuo custode vessil s’apra e si spanda:Morto provvede di miglior ghirlanda

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De’ forti al crin canuto.

Riedete, o prodi, alla materna sponda,Ove sul vostro allòr nasce ed alligna:Sotto ad italo ciel langue o traligna

Qual sia straniera fronda.

Liete v’aspettan sul vegliato lidoLe tarde madri e le deserte spose;Verginelle e garzon’ cinti di rose

Levan festivi il grido.

I bellicosi giovanetti anch’essiAllegramente a voi tendon le braccia:Oh, confondete l’abbronzata faccia

Ne filíali amplessi!

Oh, dite a lor, che liberale e piaÈ Italia nostra, e degna è di sue sorti;Che la memoria degli antichi torti

Nel favor nuovo oblia.

E se de’ casi e della gloria nostra,Saldo nell’ira, alcun sogghigna e freme,Dite, che il nostro onor Dio pose insieme,

Che nostra causa è vostra.

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Dite... Ma già sul freddo Istro vegg’ioLe prutenie addensarsi ire frementi;Santo è l’auspicio: per l’oppresse genti

Parla di nuovo Iddio!

Sibila invan la getica saettaFra le gelate nuvole del Ponto;L’Ungaro accorto alla tenzone è pronto,

E squassa l’armi, e aspetta.

Freme Polonia: all’aspettata provaDel sudario fatale erge la testa;Nell’imminente europea tempesta

La speme sua rinnova;

E surta in piedi e con la spada al pugno,Fosca la fronte e i negri occhi di lampi,Grida di nuovo a’ contrastati campi:

Ancor son viva, e pugno!

Sorge su l’Emo sonnolenta e brunaL’osmania donna, e d’armi il lido echeggia;Su la feral Propontide fiammeggia

L’incerta Mezzaluna.

E tu che attendi, o Prim? Nuovo Camillo,Da’ contesi non torni ozj del Tago?Non è di pugne e di vittorie vago

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L’iberico vessillo?

Ecco, sul vigilato Adria il LeoneChiama gl’itali prodi alla battaglia;L’italo redentor veste la maglia

All’ultima tenzone.

Già dall’itale tube ascolto il suono,Veggo di nuovo allòr la patria adorna:Al rinnovato altar Pietro ritorna,

Torna Quirino al trono!

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CANTO DECIMO

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L’AVVENIRE.

Ecco, io faccio nuova ogni cosa.Apoc., cap. XXI, v. 5.

E fui ràtto in ispirito, e stupendeVisíoni vid’io.

Come fiammantiAerolíti, rovinar confuse

Turbe vidi di regi unti, e rubelliAl tempio del Signor figli di Levi,Che invan nella fatale ora di morteSi stringeano in congiura alla malfidaOmbra della venduta arca del patto.Misterioso e tacito sorgeaDalla terra un Gigante, in secolareSudario avvolto, simile ad oscuroVapor, che s’alzi dal soggetto mareSu lo sgombro orizzonte, allor che tuttoAgli estivi tramonti il ciel rosseggia:

Bruno e denso s’inalza, e quanto in altoPiù si diffonde, più divien lucente,E attraverso di lui tenue trascorreA specchiarsi nell’onda il ciel sereno.Tal da terra ei sorgea. Sette dintornoAl vasto petto avea raggi di luce;

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E ciascun raggio da una piaga uscía,E tremulo pareva occhio di stellaNel bujo della notte; eragli a’ lombiLa Giustizia cintura; e al sanguinosoGolgota si volgea pietosamente;E s’alzava, s’alzava, i denegatiPensieroso spìando òrti del giorno.Ed il giorno fu fatto; e quel GiganteScosse il sudario secolare, e aperseLe braccia, e tutta nelle braccia accolseL’umanità. Sorrisero, divineSuore, Giustizia e Libertà per quantePiagge il sole feconda e l’aere abbraccia;E l’amore, sì come onda, covríaLa faccia della terra.

Allor dal cielo,Coronata d’ulivo una celesteCreatura scendea, candida comeGoccia di brina tremolante in fogliaDi gelsomino. Azzurra era negli occhi,Come cielo d’autunno, allor che, scesaLa voluttà dell’aspettata piova,Su’ vitiferi colli il Sol risplende;E tal l’errava alla persona intornoUn nitido baglior di fiamma viva,Che ben parea virtù muover dal cielo.Or ella un libro ed una croce avea,

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E sovra il libro stava scritto: Amore;Su la croce: Gesù. PietosamenteLa seguiva da presso un pellicano,Che all’ombra delle bianche ali accoglieaI numerosi figlioletti implumi;E una voce s’udì: Genti, veniteAll’amplesso di Cristo, io son sua sposa!

Libero intanto per aerea viaSpaziava su vasta ala l’insonneGenio, c’ha l’ali d’iride ed arcanaOrigine del cielo. Il saltellanteEstro era seco e con la lima industreLa Pazíenza infaticata; a luiDietro venía con piè lento la Gloria;Ma di lei non avea cura o pensieroQuel divino, che sol piacesi all’alteDi sue vigili cure opre immortali,Per cui serva dell’uomo è la possenteMultiforme Natura. Ecco la schieraDe’ metallici tipi, onde compostoIn leggiadri papíri a’ più lontaniLidi e a lontane età facile e chiaroIl mortale pensier vola e s’eterna.Ecco su l’alta azzurrità de’ mariL’agile abete, domator di flutti,Che, gran mostro a veder, serra nel grembo

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Il mugghiante vapore, onde si cacciaTra furor d’ardui flutti e di procelleA recar nostra copia e nostra luceAl tenebroso abitator del polo.Nè manca l’ingegnoso ago, che, chiusoIn gelosi cristalli, assiduo e fidoAll’incerto nocchier segna la via;Nè quel più che mortal divo ardimento,Onde il fulmin di Dio docil s’arrendeA comando mortale, e si sprofonda,Mugghiando innocuo ne’ terrestri abissi.Nè te fra tutte scorderò giammai,Imprigionata nell’aereo filoElettrica scintilla, ubbidìenteMessaggiera dell’uomo, onde il pensieroCon la natía rapidità víaggiaGl’indefiniti spazj. Indi, sublimeCosa a ridire, agli occhi miei s’offerseUna terrena cimba fuggitiva,Che alato cocchio d’un Iddio parea.Con la volante, turbinosa ruotaSovra due striscie di sonante acciajoRade appena la terra, e sibilandoPassa, che dardo non l’adegua: inciampoNon le son monti e valli e mari e abissi,Chè or sovra aerei ponti, or fra l’occulteVisceri della terra, ove non scende

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A recar nevi il verno e fior l’aprile,Con sovrumano ardir penetra e vola;Or sopra i gorghi di mugghianti fiumiE sui rotanti océani trapassaRapida sì, che sotto a lei direstiFuggir la terra inorridita, e correreRupi ed alberi in fila, e in larghi vorticiVolversi su di lei le nubi e il cielo.Ed ecco altera non mai vista moleSollevarsi per l’aere, e nuovo in mezzoAlle danze degli astri orbe pareaSòrto appena dal nulla. Al vento fluttuaArrendevole; occulta entro a’ capaciFianchi di turbinosa, aerea forzaGran copia asconde: tumida s’inalzaPe’ sentieri del cielo, e non fallaceTemo la regge, che contr’esso il nemboLa governa e la spinge. Indi con saldeAttorte funi assicurata pendeDi ben segato pin contesta nave,Che agevole nel sen porta gli arditiNaviganti dell’aria. A lor di sottoMareggiano le nubi, e impauritiFuggon gli uccelli; e degli uccelli il voloAggiungerli non può, chè tanto in altoVan dalle cime degli aerei monti,Quanto questi dal mare alzan la cresta.

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Tali ed altri io vedea trovati illustriDel multiforme Genio, a cui dinanziInfinito orizzonte Iddio dischiude.Ma i fulminei metalli, onde funestaSuona la fama, e i congegnati acciari,Sitibondi di sangue e al Cielo in ira,Fra tant’opre io non vidi: Amor li aveaChiusi in fondo a un abisso, ove li mordeCon l’aspro dente rugginoso il Tempo,E li attorce l’Oblio. Quinci più maiNon rivedranno il sol, nè l’omicidaScoppio ne udran le rinnovate gemi.

Leggiero allor, siccome piuma, in altoLo spirito levommi.

Un luminosoMonte vidi sul globo, e un luminosoAltar sopra quel monte. Eragli il cieloPadiglione infinito, ed infiniteLampane gli astri delle notti e il Sole.Ed ecco in mezzo era una scala, comeIn Betel la sognò di Dio l’eletto,Ed i figli dell’uom salían per essaLievi, come farfalle. In su la cima,Fra le rotanti nebulose e i milleNon mai visti dell’uom mondi e pianeti,Era un cerchio di foco, onde nè acume

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D’eterno viso sostenea la luce:E nel mezzo del Cerchio era un gran sole,Da cui tanti partían raggi dintornoQuanti lo spazio avea mondi e pianeti.Ed immoto era il Cerchio, ed era il soleIn eterno merigge; e al monte in cima,Coronata di stelle era una Croce,Che apría le braccia a’ popoli dispersi.

Dileguavano intanto all’orizzonteQuante ebber dall’Error vita ed incensoStravaganti Chimere; ed era intornoUn crollar d’are, un esular di mutiSimulacri scherniti, un disperarsiDi mercenarj sacerdoti: interaPalingenesi in tutto.

Orbo di raggiDal candido Merù Brama discende,A colonna di fumo in somiglianzaVagolante sul colle. Il luminosoCarro ei non ha; non fervono al suo giogoGl’impazíenti leopardi; il soleTratto da cinque turbini non ruotaSul suo capo immortale; i sette mariAll’inaccesse ad uom sideree sediPiù tributo non dan d’acque odorate;L’altero dio più non sorride a questo

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Fragil dell’universo ovo, tremanteSu lo stelo d’un loto.

ImpauritaDal settemplice Nilo Iside fugge,E nella fuga repentina i veliCader lascia dal grembo, e ignude assenteA mortal viso le verginee membra,Lungamente tentate. Da’ fecondi,Facili solchi gemini di mèsseAgitar vidi e sorgere e comporsiMille scheletri ignudi, un dì percossiDal Faraòn: li procedea raggianteDi casta giovinezza il pio venduto,La dolce prole d’Isdraele; e sacriCantici intesi e vaticinj. A’ cariTetti del Patriarca Agar ritorna,Le compite fortune e le saputeGlorie mirando di sua gente. Un turboSi fece allor per lo deserto, e in cimaDel Beder trìonfato alzò la biecaFronte l’iroso, battaglier Profeta,Armi e stragi invocando. Un procellosoArcangelo su lui venne e dal crineGli dissipò la dissecrata benda,Ond’e’ qual cerro fulminato cadde;E dove e’ cadde si levò una Croce.Sovra la pietra del Sepolcro santo,

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Implorando perdon, Chedar s’asside,E mille intorno a lui pietosamenteVagolan crocíate ombre insepolte.

Allor s’intese una gran voce, e il cieloTre volte lampeggiò: Roma è l’eternoSantuario del mondo! Ed ecco sopraDe’ sette colli lampeggiaron setteArcangeli di foco. Aveano igniteFalci alle destre, e su l’ignite falciEra scritto: Evangelo; e con la voceDi sette tuoni dissero: Riforma!Scossero allor l’ignite falci e l’ali,Ch’eran fulmini tutte, e a’ sottostantiCampi calâr terribilmente. Ed eccoSorgean l’are e i delubri, e in vetta all’areEran idoli e numi, e nero sangueGocciolavan da’ petti i crocifissi;Quando agl’idoli, a’ numi, a’ templi e all’areQuegl’irati appressâr l’ali e le falci,E v’appreser la fiamma, ed arser tutte,Come mucchio di stoppia, are ed arredi.

Sul Vaticano allor surse un Vegliardo,E, le tremule palme a’ venti stese,Io son Pietro, dicea, povero io sono,

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Mio vessillo è l’amor, mio regno il cielo!Ed ecco era l’aurora. Un arco d’iriInanellò la terra ultima, e lietaGiovinetta parea cinta di fiori,Che il volubile piè mova ai sognatiNuzìali tripudj. E il pio vegliardoRaggiò luce dal fronte, e appiè d’un’araUmilmente s’assise, e benedisseGli accorrenti devoti. Un gregge oscuroRomoreggiando sotto a lui passavaDi porporati, ambizíosi Aronni,Che su l’ara di Dio, che non ha forma,Poser l’aureo vitello e la spietataSfinge del pregiudizio. Alle canuteTempie confitte con atroci punteAvean l’arduo triregno, ed infocateCappe di piombo eran lor manti. IratoLi flagellava un dèmone a le spalle,E per abissi li spingea, siccomeMucchio di gravi, rumorose nubi,Quando dal bruno mar salta sdegnatoIl fervido scirocco, e le dileguaDalle cime de’ monti. Irte e ferociVolgeano al suon della fischiante sferzaQuei battuti le faccie, e gonfie d’iraAvean le nari, e si mordeano il ditoMaledicendo ogni vivente. Al torvo

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Sguardo e al livido labbro allor fra tuttiTe riconobbi, o Pio. Con le rapaciMani ostinato s’aggrappava al lemboD’una sanguigna porpora sdrucita;Quando sotto al suo piè s’aprì un abisso,Ed ei sospeso su l’abisso stette,Fieramente ululando. Allor dal cieloUn angelo calossi; nella destraNudo e diritto gli splendea l’acciaro;E negre avea l’ali e le chiome; e intornoFu gran silenzio. Col diritto e ignudoBrando il lembo toccò della sdrucitaPorpora sanguinosa, e la recise,Come fil d’erba. Un cupo urlo dal pettoMise il sospeso, e, le malferme gambeDimenando per l’aria, abbandonossi,E piombò nell’abisso avido, e sparve.

Ed ecco un lume mi passò sugli occhi,Ed un’immensa, popolosa, amenaCittà vid’io, che su le nubi assisa,Tutta accogliea del primo Sol la luce.Quivi, l’antiche invidie e le paterneIre defunte, convenían da tuttiI climi della terra i figli d’Eva;E fra tanta di stirpe e di coloriBabilonia e di lingue, Amor gli angusti

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Fini adeguava, e disperdea l’avaroInsidioso Termine, costanteSuscitator di liti e di vendette.Dall’aggiunte contrade, dagl’infrantiLidi, dalle forate alpi, qual chetaOnda di lago su l’aduste ajuole,Si diffondean su le rinate gentiReligione e Civiltà. SublimeV’era un trono nel mezzo, e ad esso intornoSplendean disposte in giro eburnee sedi;Quando un canuto tra la folta e il suonoDi liete voci e popolari evvivaAl regal s’avviò seggio lucente,E la purpurea clamide su l’aureoTrono deposta, e tolto in man lo scettro,Dolci al popol drizzò voci paterne.Gravi intanto d’aspetto e d’anni graviMolti in cerchio sedean cari a SofiaVenerandi vegliardi, a cui sul capoSempre viva ed eguale arde la luceDella Legge immortal, prima ed immotaDell’essenza e del mondo ordinatrice.Entro a’ cieli inaccessi, a Dio nel senoElla vive in eterno, e le mortaliCose governa, e modera e correggeCon divina armonia tutto il creato;Quinci appare alla terra, e qual superbo

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Alla luce di lei non apra il petto,Va a molti mali e a tardo pianto incontro.

Splendono al Sol, fervon di plaustri e d’opreStrade, piazze, angiporti, ove ognor vivoSpiega l’insegna il libero Commercio,E il Lavoro che veglia, e l’ingegnosaMobilissima Industria, a cui van dietroI Bisogni satolli e il Lucro onesto.Su la biga sonante, in denso avvoltoNugol di polve e sovra a cocchio auratoL’impudente non siede Ozio superbo,L’Ozio superbo, e cui son pregio e vantoI diffusi retaggi e il sangue avito;Nè sotto il limitar d’un aureo albergoL’inerte Povertà langue e mendíca,Ma dell’umane sorti equo e severoSorge fra tutte genti arbitro il Merto.Come da un’ampia e ben ricolma fonte,Che in cima all’assiepato orto costrusseCon durabil cemento il buon villano,Per le concave doccie e la minutaRete di solchi cristallina e puraVolvesi l’onda a sazìar la terra;Da le contigue zolle a’ lembi estremiN’han delizia le piante, e tutto intornoDi vita e di vigor l’orto verdeggia;

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Tal fra le genti ben partita e ugualeL’Abbondanza felice si diffonde;Per che dal trono al villereccio asiloLa letizia del cor splendea ne’ volti.

Quivi candide tutte e tutte luceNelle vesti e negli occhi eran le MuseCare, pietose dee, che con la dolce,Flessanime armonia, ch’ebber dal cielo,Di speranze e d’amor veston la vita.Cinta di nubi e pensierosa in attoAd esse in mezzo procedea l’austeraSapíenza, che l’acre occhio nel senoMisterioso delle cose appunta,E in ampio velo il divin corpo avvolge.Spargon su l’orme sue pioggia di fioriLe divine sorelle, e scoton l’arpeDomatrici dell’anime: il tentatoLabbro ella schiuso, onde prorompe il vero,Sovvenendo le vien d’aurei consigli,E le amene fugando ombre dintorno,Altri cieli, altri mondi apre al lor viso.

FINE.

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