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Parte 1 / La luce 

Laboratorio sperimentale di fotografia  1

Parte

1 La luce Alla base della fotografia. E non solo.  

LA LUCE

La sua importanza in fotografia è tanto chiara quanto ovvia anche se spesso viene sottovalutata. Lo  studio  della  luce  è  di  fondamentale  importanza  per  ottenere  risultati  creativi  di  notevole effetto. Comprendere  l’importanza della  luce è  il primo passo per ottenere fotografie di qualità. Cerchiamo ora di comprendere alcuni concetti base relativi alla luce ed al suo utilizzo in fotografia. 

COS’E’ LA LUCE?

La luce è una radiazione elettromagnetica emessa dai corpi luminosi e si propaga nello spazio ad una velocità di 300.000 Km/sec. Per  la sua natura elettromagnetica  (al pari delle onde radio),  la luce è caratterizzata da una sua propria lunghezza d’onda. Ad ogni colore dello spettro luminoso corrisponde  una  ben  precisa  lunghezza  d’onda.  L’occhio  umano  percepisce  tutte  le  lunghezze 

d’onda  comprese  tra  i  400μm  ed  i  700μm  ovvero  tutte  quelle  radiazioni  luminose  che  si estendono  dal  violetto  al  rosso.  Scendendo  sotto  i  400μm  si  hanno  le  radiazioni  ultraviolette, salendo sopra i 700μm si hanno le radiazioni infrarosse. 

 

Figura 1 ‐ Spettro luminoso visibile dall'occhio umano. 

LA LUCE BIANCA

La luce bianca (normalmente si considera bianca la luce solare a mezzogiorno) è la risultante della 

composizione  di  tutte  le  frequenze  che  compongono  lo  spettro  visibile  in  proporzione  quasi uguale. Se una di queste componenti è presente in proporzione maggiore, la luce che ne deriverà sarà un  luce colorata. Stesso concetto vale per gli oggetti che non emettono  luce propria. Se un 

oggetto  ci  appare  bianco,  significa  che  è  capace  di  riflettere  tutte  le  lunghezze  d’onda;  al contrario, se ci appare nero significa che non è capace di riflettere nessuna delle varie lunghezze d’onda.  Tra  il  bianco  ed  il  nero  (gli  estremi),  esistono migliaia  di  sfumature  che  nascono  dal rapporto tra le lunghezze d’onda riflesse e quelle assorbite dal soggetto. 

COMPORTAMENTO DELLA LUCE

I raggi luminosi emessi da una sorgente viaggiano in linea retta. Quando incontrano una qualsiasi sostanza questi possono essere trasmessi, assorbiti o riflessi. Le sostanze in grado di trasmettere la  luce  si dicono  trasparenti.  Le  sostanze  capaci di  assorbire  i  raggi  luminosi  vengono  chiamate opache. Infine, le sostanze capaci di riflettere i raggi luminosi vengono chiamate riflettenti. Tutti gli oggetti  che  non  emettono  luce  propria  sono  visibili  solamente  in  quanto  riflettono  in misura maggiore o minore la luce che ricevono da una sorgente luminosa (vedi sopra).  

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Parte 1 / La luce 

Laboratorio sperimentale di fotografia 2

LUCE DIRETTA, LUCE RIFLESSA

Vediamo ora, in ambito fotografico, come è possibile illuminare un soggetto affinché questo possa essere visibile e, quindi, fotografato. 

• Luce diretta ‐ Se puntiamo una sorgente luminosa direttamente contro il soggetto si dice che lo stesso è illuminato per luce diretta. E’ una condizione di illuminazione che, normalmente, 

si  tende  ad evitare.  Il  soggetto perde di  tridimensionalità e  la presenza di ombre nette e marcate  sui  soggetti di  secondo piano  crea un  risultato estetico di dubbio  interesse. Non solo,  in queste condizioni  la differenza di  illuminazione  tra soggetti disposti su vari piani è molto marcata. 

• Luce riflessa  ‐ Se puntiamo  la  sorgente  luminosa  contro un oggetto  riflettente disposto  in 

maniera  tale  che  i  raggi  riflessi  illuminino  il  soggetto da  riprendere  si dice  che  lo  stesso è illuminato  per  luce riflessa.  Rispetto  alla  precedente  condizione  di  illuminazione,  la  luce riflessa garantisce ombre decisamente più morbide grazie alla maggiore diffusione dei raggi luminosi.  Inoltre  permette  di  illuminare  in maniera  più  uniforme  anche  soggetti  posti  su piani  differenti.  A  causa  di  fenomeni  di  assorbimento  e  dispersione  luminosa  che  la riflessione  comporta,  la  sorgente  luminosa  deve  essere  necessariamente  di  maggiore intensità rispetto alle condizioni di illuminazione in luce diretta. 

 

Figura 2 ‐ Differenze concettuali tra illuminazione per luce diretta e riflessa. 

TEMPERATURA COLORE

Temperatura colore è un termine usato in illuminotecnica per quantificare la tonalità della luce. 

Il termine deriva dal fatto che lo spettro luminoso emesso da un corpo nero presenta un picco di emissione determinato   esclusivamente dalla sua  temperatura. Una sorgente  reale differisce da un  corpo  nero  ideale  ma  l'analogia  rimane  valida  ovvero  si  può  affermare  che  esiste una dipendenza diretta tra lo spettro emesso (colore) e la temperatura della sorgente emittente.

Una  temperatura bassa  (sempre però nell'incandescenza,  intorno ai 2000 K) corrisponde ad un colore  giallo‐arancio.  Scendendo  si passa  al  rosso  ed  all'infrarosso, non più  visibile.  Salendo di temperatura  la  luce  si  fa dapprima più bianca, quindi azzurra, violetta ed ultravioletta. Quando comunemente si dice che una  luce è calda,  in realtà questa corrisponde ad una temperatura di colore bassa, viceversa un temperatura maggiore produce una luce definita comunemente fredda (Figura 3). 

 

Figura 3 ‐ Diagramma della temperatura colore e collocazione nello spettro visibile. 

Una  superficie  riscaldata  all'incandescenza  emette  prevalentemente  nella  gamma  della  luce visibile, ma  la  lunghezza d'onda del picco di emissione varia al variare della  temperatura. Nelle normali  lampade  ad  incandescenza,  ad  esempio,  la  lunghezza  d'onda  è  spostata  verso  valori maggiori, e la luce prodotta presenta una componente gialla. Nelle lampade alogene si riesce ad 

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Parte 1 / La luce 

Laboratorio sperimentale di fotografia  3

aumentare  la  temperatura  del  filamento  ottenendo  quindi  una  luce  più  bianca.  In fotografia è indispensabile conoscere la temperatura colore della sorgente luminosa utilizzata poiché da essa dipende la resa cromatica dell’immagine finale.  

IL BILANCIAMENTO

DEL BIANCO

Per  quanto  detto  sopra,  a  seconda  delle  condizioni  di  luce  in  cui  ci  troviamo  ad  operare, dovremmo  obbligatoriamente  correggere  qualcosa  nella  nostra  fotocamera  affinché  la  resa cromatica dell’immagine finale sia il più possibile fedele alla realtà ripresa. A seconda che si utilizzi una  moderna  fotocamera  digitale  o  una  più  datata  fotocamera  analogica,  le  modalità  di correzione  cromatica  dell’immagine  risultano  differenti. Vediamo  in  dettaglio  come  operare  in entrambi i casi. 

FOTOCAMERA DIGITALE

Tutte  le  moderne  fotocamere  digitali  dispongono  di  una  particolare  funzione  chiamata “bilanciamento del bianco” o,  in  inglese,  “white balance”.  La  funzione white balance permette appunto di correggere la temperatura colore di riferimento affinché tutti i colori vengano restituiti nella maniera più corretta possibile. Per fare questo dobbiamo impostare la corretta temperatura del  bianco  per  la  particolare  scena  che  andremo  a  riprendere.  A  seconda  della  fotocamera utilizzata  sarà  possibile  introdurre  una  precisa  temperatura  in  gradi  Kelvin  oppure  scegliere  la temperatura basandosi  sulle  condizioni di  ripresa preimpostate dal  fabbricante. Normalmente  i settaggi preimpostati sono:  

• AWB – Auto White Balance; la fotocamera calcola il migliore punto di bianco possibile ad ogni scatto. E’  l’opzione più utilizzata ma non sempre  fornisce  i migliori  risultati, soprattutto  in presenza di più fonti luminose differenti. 

• DAYLIGHT – Luce diurna; la fotocamera imposta la temperatura colore attorno ai 5500 Kelvin, 

ovvero la temperatura colore della luce solare nelle ore centrali della giornata. All’alba ed al tramonto  la temperatura colore diminuisce scaldando  i toni della nostra  immagine  (il cielo risulta “ROSSO”). 

• INCANDESCENT – Luce incandescente;  la fotocamera imposta la temperatura colore attorno ai 

2500 – 3000 Kelvin ovvero  la  temperatura  colore delle normali  lampadine domestiche ad incandescenza. 

• FLUORESCENT – Luce fluorescente;  la fotocamera  imposta  la temperatura colore attorno agli 

4500 Kelvin, ovvero la temperatura colore delle luci al NEON. 

• CLOUDY – Nuvoloso; durante la giornata la temperatura colore della luce diurna non è sempre 

costante. Oltre a delle sensibili variazioni in presenza di alba e tramonto, anche in presenza di nuvole è possibile avere una variazione della temperatura colore. 

• SPEEDLIGHT – Luce flash; la temperatura colore viene impostata attorno ai 5500 Kelvin poiché 

il  lampo elettronico prodotto da un  flash possiede  la stessa temperatura colore del sole di mezzogiorno. 

• CUSTOM – Personalizzata;  la  temperatura  colore  viene  calcolata  dal  fotografo  puntando  la 

fotocamera    contro  un  qualsiasi  oggetto  bianco  presente  nella  scena.  E’  la  taratura  più precisa  ottenibile  poiché  tiene  conto  della  luce  che,  al momento  dello  scatto,  illumina  il soggetto principale. 

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Parte 1 / La luce 

Laboratorio sperimentale di fotografia 4

L’utilizzo di una fotocamera digitale semplifica molto le operazioni di ripresa poiché permette una versatilità molto ampia. Possiamo infatti variare a nostro piacimento la temperatura colore di ogni singola  immagine  semplicemente  modificando  dei  parametri.  Questo  permette  non  solo  di ottenere  sempre  la  massima  fedeltà  cromatica  possibile  ma  permette  anche  una  notevole espressione  creativa  qualora  si  voglia  giocare  con  la  temperatura  colore  per  ottenere  effetti particolari. Utilizzando una  fotocamera analogica  le  cose  si  complicano notevolmente poiché  la modifica della temperatura colore non è così immediata come nel mondo digitale.  

FOTOCAMERA ANALOGICA

Le  pellicole  a  colori  infatti  registrano  le  tonalità  cromatiche  in modo  differente  a  seconda  del colore della luce con cui vengono impressionate. Esistono quindi pellicole tarate per luce diurna, detta anche Luce Naturale (5500°K) e pellicole tarate per Luce Artificiale (3400°K o 3200°K). Viene immediato pensare che l’utilizzo di entrambe le pellicole con sorgenti luminose con temperatura di  colore  differente  da  quella  di  taratura  fornirà  risultati  cromatici  inaspettati,  introducendo dominanti  tanto più  intense quanto più  la  temperatura di colore della sorgente è differente da quella per cui la pellicola è calibrata. Questo non significa però che non sia possibile utilizzare una pellicola per LN o per LA con sorgenti differenti da quella di taratura. Bisogna però ricordare che ogni  volta  si manifesti una  sensibile differenza  tra  la  temperatura di  colore della  sorgente e  la temperatura di colore di taratura della pellicola, la dominante che potrebbe insorgere va corretta con filtri di conversione o filtri di correzione.  

I  FILTRI DI CONVERSIONE  consentono  di  utilizzare  pellicole  per  LN  con  sorgente  luminosa  al 

tungsteno oppure pellicole per LA con illuminazione a luce diurna. Nel primo caso si usa un filtro 80A  con  sorgente  a  3200°K  o  un  filtro  80B  con  sorgente  a  3400°K  (serie  di  filtri  azzurri). Nel secondo caso si usa un filtro 85A o un filtro 85B (serie di filtri arancio ‐ ambra).  

I FILTRI DI CORREZIONE si utilizzano invece quando la differenza tra la temperatura di colore della 

sorgente e quella per cui la pellicola è tarata è relativamente modesta. Una completa serie di filtri di correzione è disponibile in commercio. Il valore di correzione di ogni singolo filtro è solitamente espresso in MIRED (Micro Reciprocal Degrees ‐ Microgradi reciproci).  

 

 

 

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Parte 2 / La macchina fotografica 

Laboratorio sperimentale di fotografia  5

Parte

2 La macchina fotografica L’indispensabile strumento di ogni fotografo.  

LA MACCHINA FOTOGRAFICA

La  macchina fotografica,  o  fotocamera,  è  quello  strumento  che  permette  la  realizzazione  di immagini  fotografiche.  E’  sostanzialmente  composta  da  una  camera scura a  tenuta  di  luce,  un obbiettivo,  un  mirino  ed  un  supporto preposto  alla  memorizzazione  delle  immagini.  E’  inoltre presente un sistema di otturazione, o otturatore, necessario per  impedire  il passaggio della  luce 

verso il supporto fotografico.  

 

Figura 4 ‐ Schematizzazione della macchina fotografica. 

Analizziamo nel dettaglio i vari componenti: 

• Camera scura  –  E’  il  corpo  della macchina  fotografica,  normalmente  realizzato  in metallo 

leggero,  contiene  tutti  i  componenti  elettronici  oltre,  ovviamente,  al  supporto  di registrazione dell’immagine (sensore digitale o pellicola analogica).

• Mirino – E’ quel dispositivo utilizzato dal fotografo per comporre l’immagine da riprendere. A seconda del tipo di fotocamera utilizzata può essere costituzionalmente differente. 

• Supporto  – Rappresenta  il  cuore della  fotocamera poiché  è  lui  che memorizza  l’immagine 

ripresa.  A  seconda  del  tipo  di  fotocamera  utilizzata,  il  supporto  può  essere  il  sensore d’immagine  digitale  (fotocamere  digitali)  oppure  pellicola  agli  alogenuri  d’argento (fotocamere analogiche). 

• Otturatore  –  E’  un  dispositivo  elettromeccanico  che  permette  di  “chiudere”  il  supporto 

affinché non venga colpito dalla  luce quando  il fotografo non sta scattando una fotografia. Permette inoltre di gestire il tempo di esposizione. 

• Obbiettivo  –  E’  composto  da  un  sistema  di  lenti  (o  specchi)  ed  ha  lo  scopo  di  proiettare l’immagine da riprendere sul supporto. E’  inoltre disposto di un diaframma che non è altro 

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Parte 2 / La macchina fotografica 

Laboratorio sperimentale di fotografia 6

che un dispositivo capace di regolare la quantità di luce da inviare al supporto fotografico. 

IL MIRINO Il mirino è quel particolare dispositivo ottico  che permette  al  fotografo di mirare  il  soggetto e comporre  l’immagine. A  seconda degli  schemi  costruttivi,  i mirini possono essere di  vario  tipo. Attualmente,  escludendo  le moderne  fotocamere  digitali  che  hanno mirini  di  tipo  elettronico (piccoli  display  LCD),  la  maggior  parte  delle  fotocamere  è  equipaggiata  con  mirini  reflex  o galileiani. I primi equipaggiano fotocamere di fascia alta mentre i secondi equipaggiano macchine fotografiche di fascia medio bassa. Esistono anche altri sistemi di mira (telemetro, pozzetto) che però non verranno trattati in questa sede a causa della loro scarsa diffusione. 

MIRINO REFLEX In  figura  5  è mostrato  lo  schema  ottico  di  una macchina  fotografica  equipaggiata  con mirino reflex. Il grandissimo vantaggio del mirino reflex sta nel fatto che è possibile inquadrare la scena da  riprendere  direttamente  con  l’obbiettivo  (T.T.L.  –  Through  the  lens)  cosi  da  poterla  vedere esattamente come finirà sul supporto fotografico. 

 

Figura 5 ‐ Schema ottico e percorso dell'immagine in una fotocamera con mirino reflex. 

Le due componenti  fondamentali del sistema reflex sono  lo specchietto mobile ed  il prisma a 5 facce (pentaprisma). Durante l’inquadratura lo specchio, posizionato a 45°, riflette verso un vetro smerigliato  (chiamato  anche  vetrino  di  messa  a  fuoco)  l’immagine  proiettata  dall’obbiettivo. L’immagine viene poi riflessa due volte dal pentaprisma, inviata all’oculare ed infine all’occhio del fotografo.  Successivamente,  in  seguito  alla  pressione  del  pulsante  di  scatto,  lo  specchietto  si solleva permettendo ai raggi luminosi di colpire, in seguito all’apertura dell’otturatore, il supporto fotografico. 

MIRINO GALILEIANO

Il mirino galileiano (detto anche mirino ottico) è costituito da un piccolo dispositivo ottico simile ad un  cannocchiale  (da qui  il nome galileiano)  completamente  separato dal  sistema di  ripresa. Viene normalmente installato a qualche cm dall’obbiettivo principale, disassato sia verticalmente che orizzontalmente. Questo comporta uno scarto o errore di parallasse tra la scena inquadrata e quella realmente ripresa. Tale errore, spesso compensato da apposite mascherine di inquadratura montate all’interno del mirino, aumenta al diminuire della distanza dal soggetto. 

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Parte 2 / La macchina fotografica 

Laboratorio sperimentale di fotografia  7

DALLO SCATTO ALL’IMMAGINE

FINALE

Quando premiamo il pulsante di scatto, la fotocamera esegue, in sequenza, delle operazioni ben precise.  Tralasciando  le  procedure  di  messa  a  fuoco  e  di  impostazione  dell’esposizione  (che tratteremo in seguito), vengono eseguite le seguenti operazioni: 

1 – Chiusura del diaframma (dosa la quantità di luce che colpisce il supporto). 

2 – Apertura dell’otturatore (determina il tempo di esposizione alla luce del nostro supporto). 

3 – Memorizzazione dell’immagine e chiusura dell’otturatore. 

A seguito di queste operazioni,  il supporto conterrà quella che viene detta  immagine latente che non è altro che un’immagine quasi  invisibile  impressionata  sulla  superficie del  supporto  stesso. Fino a questo punto,  le procedure sono state analoghe sia per una  fotocamera digitale che per una fotocamera analogica. Da questo punto in poi, a seconda delle tecnologia usata, le procedure si differenziano. Se  la nostra fotocamera è digitale,  i circuiti elettronici  interni provvederanno ad una elaborazione e successiva memorizzazione dell’immagine ripresa. Se  la nostra fotocamera è analogica,  la pellicola  impressionata con  la  luce dovrà subire un ulteriore trattamento (chiamato sviluppo) al fine di ottenere un immagine pronta per le stampa. 

Approfondiamo ora i vari procedimenti al fine di comprendere bene come sia possibile realizzare un immagine fotografica. Per quanto visto precedentemente, realizzare una fotografia significa, in buona sostanza, impressionare il nostro supporto fotografico con la giusta quantità di luce. Infatti, un  eccesso  o  una  mancanza  di  luce  determinerebbero  immagini  di  scadente  qualità  per  la presenza di zone troppo chiare o troppo scure. La regolazione della giusta quantità di  luce viene detta esposizione.  Il controllo dell’esposizione è affidato al  fotografo  il quale può agire  in diversi modi. Un  particolare  strumento  installato  su  ogni macchina  fotografica  permette  di  rilevare  e quantificare quanta luce sta entrando ad impressionare il nostro supporto. Tale dispositivo viene chiamato esposimetro poiché misura  l’esposizione. Ma andiamo con ordine ovvero, cerchiamo di 

comprendere  in  che  misura,  ogni  componente,  contribuisce  a  determinare  il  risultato  finale. Iniziamo  dal  supporto,  poiché  a  lui  è  demandato  il  compito  di  memorizzare  l’informazione luminosa. 

IL SUPPORTO FOTOGRAFICO

Il  supporto  fotografico  è  un  dispositivo  sensibile  alla  radiazione  luminosa.  Semplificando  al massimo, possiamo dire che converte  l’energia  luminosa che  lo colpisce  in  immagine. A seconda che  il  supporto  sia  analogico  (pellicola)  o  digitale  (sensore),  la  conversione  avviene  per procedimenti fisici differenti. Nel primo caso, per effetto fotoelettrico il sensore converte l’energia luminosa  in  carica  elettrica  affinché  i  circuiti  interni  della  fotocamera  possano  elaborare l’immagine.  Nel  secondo  caso,  un  processo  chimico  di  ossidoriduzione  (redox)  attuato  dalla radiazione  luminosa  trasforma  gli  alogenuri  d’argento  di  cui  è  ricoperta  la  pellicola  in  argento metallico.  Il  successivo  sviluppo  elimina  gli  alogenuri  non  impressionati  fornendoci  il  negativo della  nostra  immagine.  Nonostante  il  differente  processo  fisico,  è  evidente  una  analogia.  La trasformazione dell’energia luminosa in qualcosa d’altro  (carica  elettrica  o  argento  metallico). 

Poniamoci dunque una domanda. Con quale velocità hanno  luogo questi processi? La risposta a questa domanda ci permette di introdurre il discorso di sensibilità alla luce. Si definisce sensibilità del supporto la sua velocità nel trasformare l’energia luminosa in immagine. Questa velocità viene misurata  in  ISO  o  in  DIN.  La  prima  unità  di  misura,  introdotta  dal  Sistema  Internazionale  a sostituzione dei vecchi ASA è  l’unità di misura più diffusa. E’ una unità di misura  lineare.  Il DIN, riportato  ancora  sulle  confezioni  delle  pellicole  è,  invece,  una  unità  di  misura  logaritmica. Vediamo di comprendere meglio  i concetti utilizzando un esempio. Prendiamo un supporto con una velocità ISO 100 ed un altro con una velocità ISO 200. Cosa significano questi valori? Semplice, 

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Parte 2 / La macchina fotografica 

Laboratorio sperimentale di fotografia 8

il  secondo  supporto  ha  una  velocità  doppia  rispetto  al  primo  nel  registrare  l’informazione luminosa il che significa che, a parità di luminosità ha bisogno di minor tempo (la metà) rispetto al primo per fornire un’immagine  identica. Oppure, riesce a fornire un’immagine  identica anche  in presenza di una minore quantità di  luce  (la metà). Ogni volta che  il numero  raddoppia significa che il supporto necessità di metà tempo di esposizione o una quantità di luce pari alla metà. 

 

Figura 6 ‐ Incrementando la velocità ISO è sufficiente una minore quantità di luce. 

Per quanto detto,  sembrerebbe  conveniente utilizzare un  supporto  con una velocità  ISO molto elevata affinché sia possibile realizzare fotografie  in qualunque circostanza. La cosa, però, non è propriamente  vera  poiché  utilizzare  una  elevata  velocità  ISO  rende  impossibile  fotografare,  al contrario, in condizioni di forte luce (es. giornata assolata). Non solo, l’utilizzo di una velocità ISO elevata determina una deterioramento della qualità dell’immagine. Utilizzando supporti digitali, si verifica  il problema del  rumore digitale ovvero  la comparsa di antiestetici puntini colorati dovuti 

all’amplificazione  elettrica  del  segnale. Utilizzando  invece  supporti  analogici  (esenti  da  rumore digitale!) i grani di argento, a causa della loro maggiore dimensione, diventano visibili originando una  antiestetica  grana.  In  entrambi  i  casi  si  manifesta  un  notevole  deterioramento  della 

definizione complessiva dell’immagine. 

IL CONCETTO DI STOP

Per quanto detto sopra, ad ogni raddoppio della velocità ISO si necessita della metà della luce per ottenere un’identica fotografia. Oppure, si necessita di metà tempo nell’esposizione alla luce del supporto.  In  fotografia,  l’unità  di  misura  dell’esposizione  viene  chiamata  STOP.  Ad  esempio, 

passando da 100 ISO a 200 ISO abbiamo aumentato la velocità (o la sensibilità) di 1 STOP. Infatti, lasciando  inalterato  sia  il  tempo  di  esposizione  che  la  luminosità,  otterremo  che  la  seconda immagine sarà più luminosa della prima di 1 STOP. E’ importante comprendere il concetto di STOP poiché ricorrerà numerose volte quando parleremo dell’esposizione.  

Da ricordare: Lo STOP è l’unità di misura dell’esposizione 

L’OTTURATORE L’otturatore è quel particolare dispositivo della nostra  fotocamera  che permette di  far arrivare luce  al  supporto.  Dopo  la  pressione  del  pulsante  di  scatto,  l’otturatore  si  apre  per  un  tempo stabilito  (tempo di esposizione) per poi richiudersi, pronto allo scatto successivo. A seconda della forma  costruttiva,  l’otturatore  si  definisce  centrale  oppure  a  tendine.  Costituzionalmente, 

l’otturatore centrale è formato da una serie di lamelle che si aprono al momento dello scatto. Per la sua caratteristica costruttiva, non permetter  il raggiungimento di tempi di esposizione troppo rapidi raggiungibili  invece con gli otturatori a tendina. Gli otturatori a  tendina sono costituiti da due  tendine mobili.  In  seguito  alla  pressione  del  pulsante  di  scatto,  la  prima  tendina  scorre (verticalmente  o  orizzontalmente)  fino  a  scoprire  il  supporto;  successivamente,  la  seconda tendina  si muove nella medesima direzione  fino  a  ricoprire nuovamente  il  supporto. Permette tempi  di  esposizione molto  rapidi  in  quanto  non  è  necessario  attendere  che  la  prima  tendina abbia  finito  la  sua  corsa.  In  questo  caso  avremo  una  fessura  che  corre  davanti  al  supporto 

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Parte 2 / La macchina fotografica 

Laboratorio sperimentale di fotografia  9

determinandone il tempo di esposizione.  

I TEMPI DI OTTURAZIONE

Abbiamo visto come l’otturatore permetta di “illuminare” il supporto per un tempo ben definito. Di  conseguenza  è  possibile  affermare  che,  variando  il  tempo  di  esposizione,  è  possibile  far giungere al nostro supporto una quantità più o meno variabile di  luce. Normalmente  i  tempi di esposizione sono i seguenti: 

 

Figura 7 ‐ Scala dei tempi di esposizione. 

Osservando da sinistra verso destra,  i  tempi  in  rosso sono  tempi  inferiori al secondo mentre  in verde  sono  tempi  superiori  al  secondo.  Dopo  i  30  secondi,  alcune  fotocamere  passano  alla modalità Bulb chiamata anche posa B.  In questa modalità  l’otturatore rimane aperto per tutto  il tempo che si  tiene schiacciato  il pulsante di scatto. Osservando nuovamente  la scala dei  tempi, possiamo  notare  che  andando  da  sinistra  verso  destra  i  tempi  di  esposizione  raddoppiano;  in senso  opposto,  ovviamente,  dimezzano.  Possiamo  quindi  asserire  che  ad  ogni  raddoppio  del tempo  di  esposizione  raddoppia  la  quantità  di  luce  che  colpisce  il  nostro  supporto.  Oppure, raddoppiando  il  tempo di esposizione, ho bisogno della metà della  luce per ottenere  la  stessa immagine. Le analogie concettuali con la velocità del supporto sono evidenti. Anche qui, passando da un  tempo al  suo  successivo  (doppio)  significa  che ho allungato  il  tempo di esposizione di 1 STOP. Molte  fotocamere moderne dispongono  anche di  tempi  intermedi  (es.  1/500  –  1/400  – 1/320 – 1/250). Considerato che la distanza tra 1/500 ed 1/250 è di +1 STOP, i tempi intermedi si trovano, rispettivamente, ad una distanza di +⅓ STOP (1/400) e +⅔ STOP (1/320). 

L’OBBIETTIVO ED IL DIAFRAMMA

Viene  definito  obbiettivo  un  particolare  dispositivo  ottico  in  grado  di  proiettare  un’immagine1. All’interno  dell’obbiettivo  è montato  il  diaframma,  un  dispositivo  che  permette  al  fotografo  di 

dosare  la quantità di  luce  che attraversa  l’obbiettivo. Costituzionalmente è  realizzato mediante lamelle mobili che permettono la variazione del diametro interno dell’obbiettivo. Nelle ottiche di qualità  il  diaframma  è  di  tipo  ad  iride  per  l’analogia  di  funzionamento  con  l’iride  dell’occhio 

umano. 

 

Figura 8 – Diaframma ad iride. A sinistra diaframma aperto, a destra diaframma chiuso. 

                                                            

1  La  trattazione  degli  obbiettivi  verrà  ripresa  più  avanti  in maniera  approfondita.  In  questa  sede  lo  si  consideri  solamente  come  quel 

particolare dispositivo ottico capace di proiettare un immagine concreta sul supporto fotografico. 

2 Si veda il paragrafo “La profondità di campo nitido”. 

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Parte 2 / La macchina fotografica 

Laboratorio sperimentale di fotografia 10

La chiusura del diaframma avviene non appena  si preme  il pulsante di  scatto;  successivamente alla  sua  chiusura  si  muove  l’otturatore  per  impressionare  il  supporto  fotografico.  In  alcuni obbiettivi  (quelli  che  equipaggiano  macchina  fotografiche  reflex)  è  possibile  chiudere manualmente  il  diaframma  prima  ancora  di  scattare  per  controllare  la  profondità di campo2 dell’immagine. 

I VALORI DEL DIAFRAMMA

Abbiamo  visto  come  il diaframma  permetta  di  “dosare”  la  quantità  di  luce  che,  attraversando l’obbiettivo, andrà a colpire il supporto fotografico. Ma come possiamo quantificare questa luce? Normalmente, sugli obbiettivi viene riportata una scala numerica che indica il valore di apertura. I numeri  riportati  sono dei valori  relativi,  legati alle caratteristiche  fisiche degli obbiettivi.  In ogni caso però, anche utilizzando obbiettivi differenti, ma  impostati allo stesso valore di diaframma, saremmo sempre certi che la quantità di luce sarà la stessa. Normalmente, la scala dei diaframmi è la seguente: 

 

Figura 9 ‐ Scala dei diaframmi. A sinistra diaframmi aperti, a destra diaframmi chiusi. 

All’apparenza,  questa  scala  numerica  risulta  alquanto  enigmatica.  Per  comprendere  come interpretare  questi  numeri  dobbiamo  comprendere  prima  un  concetto.  Ad ogni incremento del numero di diaframma (es. da 2.8 a 4) la superficie interna dell’obbiettivo (e quindi la quantità di luce) dimezza. Possiamo quindi asserire che variando il diaframma posso raddoppiare oppure dimezzare 

la quantità di  luce che colpirà  il nostro supporto. In termini di esposizione quindi,  la distanza tra un diaframma ed il suo successivo è di ‐1 STOP (la luce si dimezza). In senso contrario, la distanza tra un diaframma  ed  il  suo precedente  è di  +1  STOP. Normalmente,  il numero del diaframma viene preceduto dal simbolo f/ (es. diaframma 2.8 viene scritto f/2.8). 

 

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Parte 2 / La macchina fotografica 

Laboratorio sperimentale di fotografia  11

APPROFONDIMENTI

LA LATITUDINE DI POSA

Per  comprendere  chiaramente  cosa  si  intende  per  latitudine  di  posa  dobbiamo  prima comprendere come  leggere un  immagine. Semplificando al massimo, un’immagine  fotografica è caratterizza dalla presenza di tre zone distinte: alte luci, zone d’ombra e toni medi. Delle tre zone, i toni medi sono quelli che contengono il maggior numero di informazioni. Le ombre e le alte luci sono  invece quelle zone dove  i dettagli si perdono a causa di evidenti sottoesposizioni (ombre) o sovraesposizioni (alte luci)3. 

 

Figura 10 ‐ Lettura dell'immagine. Alte luci, toni medi e zone d'ombra. 

Osservando  la  figura  10  possiamo  chiaramente  distinguere  le  varie  zone  sopra  descritte. Osservando  l’immagine possiamo notare  come  la  coppia  tempo/diaframma  scelta  sia  riuscita a fornire  un’esposizione  corretta  per  la  facciata  della  torre  a  scapito,  però,  di  cielo  e  portale  di ingresso. Come mai cielo e portale hanno un’esposizione così errata? Semplicemente perché  la distanza in STOP tra il punto più luminoso ed il punto più scuro dell’immagine supera la latitudine di posa  del  supporto  usato. Definiremo  quindi  latitudine  di  posa  la  capacità  di  un  supporto  di 

rappresentare  correttamente  il maggior numero di variazioni  tonali. Maggiore è  la  latitudine di posa, maggiore  sarà  la distanza  in STOP  tollerabile  tra  il punto più chiaro ed  il punto più  scuro dell’immagine. Tutti  i punti esterni alla  latitudine di posa  risulteranno essere bianchi bruciati o neri densi privi di qualsiasi dettaglio. 

 

 

 

 

                                                            

3 Si veda la sezione “L’esposizione”. 

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Parte 2 / La macchina fotografica 

Laboratorio sperimentale di fotografia 12

 

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Parte 3 / Gli obbiettivi 

Laboratorio sperimentale di fotografia  13

Parte

3 Gli obbiettivi Ovvero, creare l’immagine fotografica (da riprendere).  

L’OBBIETTIVO

E’  definito  obbiettivo  un  qualsiasi  dispositivo  ottico  capace  di  raccogliere  luce  e  riprodurre un’immagine. E’ l’elemento fondamentale di un elevato numero di apparecchiature ottiche quali fotocamere,  cannocchiali,  telescopi,  binocoli  ecc.  Normalmente  è  realizzato  mediante l’accoppiamento di 2 o più  lenti ma esistono anche schemi costruttivi che prevedono  l’utilizzo di specchi concavi (obbiettivi catadiottrici).   

L’obbiettivo più semplice mai realizzato è il foro stenopeico. Il foro stenopeico è un piccolissimo 

foro che permette la proiezione di una immagine all’interno di una camera oscura (vedi disegno).  

 

 

 

 

 

 

 

Figura 11 ‐ Raffigurazione teorica del foro stenopeico. 

A differenza del foro stenopeico, gli obbiettivi riescono a concentrare la luce sul loro piano focale in  maniera  più  uniforme  e  vengono  progettati  per  contenere  le  varie  aberrazioni  ottiche (aberrazione  cromatica,  sferica  ecc).  La  qualità  finale  dell’immagine  proiettata  viene ulteriormente migliorata mediante  l’utilizzo  di  vetri  ottici  speciali  (vetri  a  bassa  dispersione)  e mediante l’impiego di particolari trattamenti anti‐riflesso (single‐coated e multi‐coated). 

LUNGHEZZA FOCALE

Per  quanto  complesso  sia  lo  schema  ottico  di  un  obbiettivo  il  suo  comportamento  finale  è riconducibile al comportamento di una  lente semplice. Per quanto detto, si definisce  lunghezza focale la distanza che intercorre dal centro ottico dell’obbiettivo, al punto di convergenza di tutti i raggi luminosi provenienti da un soggetto posto all’infinito.  Il piano comune a tutti  i punti di convergenza viene detto piano focale.

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Parte 3 / Gli obbiettivi 

Laboratorio sperimentale di fotografia 14

 

Figura 12 ‐ Lunghezza focale di un obbiettivo (schematizzazione). 

Vengono chiamati obbiettivi a focale fissa gli obbiettivi  in cui  la focale non può variare; vengono invece  chiamati  zoom  gli  obbiettivi  che  hanno  una  focale  variabile.  La  lunghezza  focale  di  un obbiettivo viene normalmente  indicata  in millimetri  (es. 100mm oppure 24mm). Negli obbiettivi zoom sono presenti due valori indicanti le due lunghezze focali estreme (e. 24‐135mm oppure 80‐200mm). Nelle migliori ottiche la distanza di messa a fuoco e l'apertura non variano cambiando la focale.  

ANGOLO DI CAMPO E

RAPPORTO DI INGRANDIMENTO

Abbiamo  quindi  compreso  cosa  rappresenta  la  lunghezza  focale  di  un  obbiettivo;  ma, praticamente,  non  abbiamo  ancora  capito  che  differenza  abbiamo  utilizzando  un  obbiettivo  a focale corta  rispetto uno a  focale più  lunga. Per capire questo bisogna  introdurre  il concetto di angolo di campo.  L’immagine  proiettata  da  un  obbiettivo  su  un  piano  coincidente  con  il  piano 

focale è un’immagine circolare. All’interno di questo circolo vi è un altro circolo detto “cerchio di buona definizione” dove l’immagine proiettata può essere interpretata correttamente. All’interno di questo secondo circolo viene posto il supporto sensibile preposto alla registrazione della nostra immagine fotografica. Solitamente il supporto è di forma quadrangolare ed ha una diagonale pari al diametro del cerchio di buona definizione. Se costruiamo un triangolo isoscele sfruttando come base  la diagonale del supporto e come vertice  il centro ottico del nostro obbiettivo e misuriamo l’angolo al vertice del triangolo così costruito otteniamo  l’angolo di campo del nostro obbiettivo (vedi disegno). 

 

Figura 13 ‐ Angolo di campo e rapporto di ingrandimento. 

Come possiamo notare dall’immagine di destra, al variare della lunghezza focale l’angolo di campo varia di conseguenza (tenete sempre  in considerazione che  il vertice del triangolo rappresenta  il 

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Parte 3 / Gli obbiettivi 

Laboratorio sperimentale di fotografia  15

centro  ottico  del  nostro  obbiettivo)  ed  è  inversamente  proporzionale  alla  lunghezza  focale. Possiamo quindi affermare che all’aumentare della lunghezza focale l’angolo di campo diminuisce e viceversa.  Di  conseguenza,  un  soggetto  posto  ad  una  distanza  fissa  dal  piano  focale  verrà proiettato  su  quest’ultimo  tanto  più  grande  quanto  maggiore  sarà  la  lunghezza  focale dell’obbiettivo  utilizzato.  Possiamo  così  affermare  che  la  variazione  della  lunghezza  focale determina il rapporto di ingrandimento della nostra immagine finale.  

INFLUENZA SULLA PROSPETTIVA

La variazione della  lunghezza  focale non  influisce però sul solo  rapporto di  ingrandimento degli oggetti. Gli effetti più visibili si hanno sulla deformazione delle prospettive e sulla percezione delle distanze,  fattori che  influenzano  in modo più o meno creativo  l’immagine  finale. Più  la  focale si accorcia  (grandangolo)  più  aumenta  la  sensazione  di  profondità  della  nostra  immagine (espansione  apparente  dei  piani);  viceversa,  più  la  focale  si  allunga  (teleobbiettivo)  più  la sensazione di profondità diminuisce  (compressione apparente dei piani).  La deformazione delle prospettive gioca un  ruolo molto  importante nella scelta dell’obbiettivo da usare; se da un  lato l’effetto “creativo” può avere un notevole impatto visivo, giocando a favore della composizione e della resa finale dell’immagine, dall’altro non bisogna dimenticare  l’evidente  innaturalità che ne deriva (soprattutto nell’utilizzo di ottiche fortemente grandangolari).  

CLASSIFICAZIONE DEGLI OBBIETTIVI

In base alla lunghezza focale, gli obbiettivi vengono suddivisi in: 

• ULTRAGRANDANGOLARI  ‐ Vengono  considerati ultragrandangolari  tutti quegli obbiettivi  che hanno una  lunghezza  focale  compresa  tra 12 e 24mm e quindi un  conseguente angolo di campo di 122° e 84° (angolo riferito alla diagonale di un normale negativo formato 24x36). Focali così “spinte” sono affette da deformazioni dette a “barilotto” ovvero le linee cadenti presenti vicino ai bordi tendono a curvare vistosamente verso l’esterno. 

• GRANDANGOLARI – Vengono considerati grandangolari tutti quegli obbiettivi che hanno una lunghezza focale compresa tra 24 e 35 mm e quindi un conseguente angolo di campo di 84° e 63° (angolo riferito alla diagonale di un normale negativo formato 24x36).  I più comuni e diffusi grandangolari sono però i 24 ed i 28 mm.  

• NORMALI –  Viene  definito  normale  un  obbiettivo  che  ha  una  lunghezza  focale  pari  alla 

diagonale  del  supporto  utilizzato  per  riprendere  l’immagine.  Nel  formato  35mm  (24x36) l’obbiettivo  considerato  normale  è  il  50 mm  anche  se  l'obiettivo  che  si  avvicina  di  più sarebbe il 43mm. Nelle ottiche normali, l’angolo di campo è circa uguale all’angolo di campo dell’occhio umano; le dimensioni relative degli oggetti, le prospettive e la nitidezza dei piani vicini e lontani sono analoghe a quella della visione umana. Il grande Henry Cartier Bresson ad esempio utilizzava sempre questa lunghezza focale perché la definiva “un estensione del mio occhio”. 

• MEDIOTELE –  Vengono  cosi  definiti  gli  obbiettivi  con  lunghezza  focale  compresa  tra  80  e 

135mm. Offrono angoli di campo compresi tra 30° e 18° (angolo riferito alla diagonale di un normale  negativo  formato  24x36)  e  sono  particolarmente  utilizzati  per  la  fotografia ritrattistica. 

• TELEOBBIETTIVI – Così chiamati in funzione dello schema ottico adottato (chiamato appunto 

“a  teleobbiettivo”)  sono  tutti  quegli  obbiettivi  con  lunghezze  focali  superiori  al  150 mm. Sono utilizzati prevalentemente per  la fotografia naturalistica e sportiva. Dal punto di vista 

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Parte 3 / Gli obbiettivi 

Laboratorio sperimentale di fotografia 16

prospettico causano un fortissimo schiacciamento dei piani. 

• ZOOM – Gli “zoom” sono quegli obbiettivi dove  la  lunghezza focale non è fissa ma varia da 

una  focale  minima  ad  una  massima.  E  per  questo  che,  normalmente,  si  identificano mediante due numeri indicanti le focali estreme (es. 100 – 300mm). Gli zoom vengono anche identificati  indicando  il  rapporto  tra  la  focale massima e  la minima  (es. 300 / 100 = 3X). A seconda delle focali coperte da un obbiettivo zoom, questo si può collocare nella fascia dei grandangolari (es. 12 – 24mm), dei teleobbiettivi (es. 100 – 300mm) o in una fascia mista (es. 24 – 105mm). Quest’ultimo tipo di zoom ha il vantaggio di essere ovviamente molto versatile ma  la  qualità  complessiva  dell’ottica  risulta  essere  inferiore  (a  causa  dell’oggettiva impossibilità di correggere tutte le aberrazioni ottiche a tutte le lunghezze focali). 

APERTURA RELATIVA O

LUMINOSITA’

Altra  caratteristica  molto  importante  di  un  obbiettivo  è  la  sua  luminosità  massima.  Viene solitamente  indicata  mediante  il  rapporto  focale  F  che  rappresenta  il  rapporto  tra  la  sua lunghezza  focale e  la  sua apertura massima  (normalmente  circa uguale al diametro della  lente frontale). Quindi, minore sarà  il  rapporto  focale di un obbiettivo,   maggiore sarà ovviamente  la sua luminosità massima. Ad esempio, un obbiettivo 100mm con una apertura massima di 36mm avrà un rapporto focale e quindi una  luminosità o apertura relativa f pari a 100 / 36 = 2.8   che viene  indicata con  la dicitura  f 1:2.8 oppure  f/2.8. Sugli obiettivi  zoom possono  comparire due valori, il primo per la focale minore, il secondo per quella maggiore. Ad esempio, per uno zoom 35 ‐  135mm  f/3.5‐4,  il  valore  f/3.5  è  ottenibile  a  35mm  e  si  riduce  a  f/4  alla  focale  di  135mm. massima di un obiettivo è uguale alla focale diviso il diametro interno dell'obiettivo.  

TIPOLOGIA DI OBBIETTIVI

A seconda della tecnologia costruttiva, possiamo identificare 2 tipologie differenti di obbiettivi: 

• A lenti  –  Vengono  costruiti  utilizzando  lenti  di  vario  tipo  allo  scopo  di  correggere efficacemente le aberrazioni ottiche. Le lenti interne possono essere, a seconda della forma, positive o negative e realizzate con vetri differenti. Ogni lente inserita nello schema ottico ha lo  scopo  di  correggere  una  precisa  aberrazione  ottica  e  contribuisce  alla  determinazione della lunghezza focale finale dell’obbiettivo. 

• A specchi – Sono detti catadiottrici e il loro schema ottico è simile al telescopio riflettore tipo 

Cassegrain (vedi disegno). A causa delle notevoli aberrazioni extra – assiali vengono costruiti solo  con  lunghezze  focali  superiori  ai  350 mm.  Rispetto  ai  teleobbiettivi  a  lenti  hanno  il vantaggio di essere più compatti e leggeri ma offrono qualità ottiche notevolmente inferiori. Hanno rapporti focali molto alti quindi risultano essere normalmente poco luminosi.  

Figura 14 ‐ Obiettivo catadiottrico (schema ottico).

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Parte 3 / Gli obbiettivi 

Laboratorio sperimentale di fotografia  17

AGGIUNTIVI OTTICI Sono dei complementi ottici che vengono montati anteriormente o posteriormente all’obbiettivo principale con lo scopo di modificarne la lunghezza focale. 

• Tubi di prolunga – Sono cilindri senza lenti che vengono montati posteriormente all’obbiettivo 

aumentandone  la  lunghezza  focale  allo  scopo di  aumentare  il  rapporto di  ingrandimento. Normalmente  sono disponibili  in  tre diverse altezze e vengono principalmente utilizzati  in macrofotografia. Determinano  una  perdita  di  luminosità  proporzionale  alla  lunghezza  del tubo. 

• Lenti addizionale – Vengono montate anteriormente all’obbiettivo con lo scopo di diminuirne 

la lunghezza focale e permettere la focalizzazione del soggetto a distanza molto ravvicinata. Servono ad ottenere un rapporto di ingrandimento pari ad uno a uno. 

• Moltiplicatori di focale – Sono dei sistemi ottici a lenti divergenti da montare posteriormente all’obbiettivo. Hanno lo scopo di allungarne la lunghezza focale consentendo un aumento del  rapporto  di  ingrandimento.  Determinano  una  riduzione  della  luminosità  complessiva. L’ingrandimento  ottenibile  è  per  solito  di  1,4X  o  2X  rispetto  alla  lunghezza  focale dell’obbiettivo  con  il  quale  il moltiplicatore  viene  utilizzato  (es.  100mm  x  1,4  =  140mm equivalenti). 

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Parte 3 / Gli obbiettivi 

Laboratorio sperimentale di fotografia 18

APPROFONDIMENTI

CROP – FACTOR (FATTORE DI

MOLTIPLICAZIONE FOCALE)

Con  l’avvento  della  fotografia  digitale  il  supporto  sensibile  di  ripresa  è  cambiato.  La  vecchia pellicola all’argento è stata sostituita dai moderni sensori digitali di immagine. Escludendo alcune fotocamere  professionali,  le  dimensioni  dei  sensori  sono  normalmente  inferiori  rispetto  alla dimensione della pellicola all’argento. In figura 15 sono mostrate le differenze. 

 

Figura 15 ‐ Raffronto dimensionale tra pellicola e sensori moderni. 

Normalmente  gli  obbiettivi  vengono  costruiti  affinché  il  cerchio  di  buona  definizione4  copra l’intero  formato  35mm.  Viene  spontaneo  pensare  che  tale  cerchio  di  buona  definizione  risulti essere eccessivamente grande qualora usassimo un supporto più piccolo. Oppure, possiamo dire che  un  supporto  più  piccolo  conterrà  solo  la  parte  centrale  dell’immagine  proiettata dall’obbiettivo (vedi figura 16). 

 

Figura 16 – In alto le immagini riprese dai vari formati. In basso il risultato finale dopo la stampa su carta del medesimo formato (si noti l’effetto di maggiore ingrandimento dato dai sensori più 

piccoli). 

Riconducendo  ogni  singola  inquadratura  (vedi  figura  16)  ad  un  unico  formato  dato  dalle dimensioni  della  carta  di    stampa,  ottengo  che  le  immagini  fornite  da  sensori  di  dimensioni inferiori al  formato 35mm  forniscono dei veri e propri  ingrandimenti dell’immagine  reale  (intesa per reale quella nel formato 35mm). Viene quindi chiamato CROP-FACTOR il rapporto esistente tra il 

                                                            

4 Si veda il paragrafo relativo “Angolo di campo e rapporto di ingrandimento”. 

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Parte 3 / Gli obbiettivi 

Laboratorio sperimentale di fotografia  19

formato 35mm ed il formato del sensore preso in considerazione. Ecco spiegato perché le ottiche costruite  per  il  formato  35mm  subiscono  un  “allungamento”  di  focale  quando  utilizzate  su macchine fotografiche digitali con sensori più piccoli del formato 24x36. Oppure, perché quando si esprimono  le  caratteristiche  ottiche  delle  fotocamere  digitali  si  parla  di  “focale  equivalente  al 35mm”.  Questo  allungamento  di  focale  porta  con  se  vantaggi  e  svantaggi.  Il  vantaggio  più eclatante lo si ottiene in termini qualitativi. Tutti gli obbiettivi hanno il difetto di fornire immagini meno dettagliate ai bordi rispetto al centro. Normalmente, per ridurre l’entità di questi difetti, si tende a  scattare  con un  valore di diaframma pari alla massima apertura  ridotta di 2  STOP  (es. scattare ad F/5,6 con un obbiettivo F/2,8). Utilizzando le ottiche “analogiche” con i sensori digitali, la parte esterna viene comunque esclusa dall’immagine  finale. Risulta quindi possibile utilizzare ogni  obbiettivo  alla  massima  apertura  senza  incorrere  in  problemi  qualitativi.  Lo  svantaggio maggiore che la moltiplica di focale arreca, invece, è la difficoltà di ottenere ottiche grandangolari. Se un 18mm risulta essere, nel formato 24X36, un obbiettivo ultragrandangolare da ben 100° di angolo  di  campo,  la moltiplica  data  da  un  sensore  APS  (quello  più  diffuso  sulle  attuali  reflex digitali) lo declassa ad un comunissimo grandangolo da 28,8mm di focale equivalente!!  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Parte 3 / Gli obbiettivi 

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Parte 4 / La profondità di campo nitido 

Laboratorio sperimentale di fotografia  21

Parte

4 La profondità di campo nitido Ovvero, come controllare la nitidezza dell’immagine.  

LA PROFONDITA’ DI CAMPO NITIDO

E’ definita profondità di campo nitido o semplicemente profondità di campo (P.d.C.)  la gamma delle 

distanze che si estendono prima e dopo la distanza di messa a fuoco in cui tutti gli oggetti che vi si trovano risultano essere sufficientemente nitidi da risultare a  fuoco. Sfruttata accortamente dal fotografo è uno strumento fondamentale per mettere in risalto o sminuire determinati particolari o per isolare i soggetti dal contesto in cui sono stati fotografati. 

 

Figura 17 ‐ Rappresentazione schematica della profondità di campo. 

DISTANZA IPERFOCALE

Quando un obbiettivo viene focheggiato su infinito, la profondità di campo nitido si estenderà tra l’infinito  ed  un  punto  compreso  tra  infinito  e  la  nostra  macchina  fotografica.  Il  limite  della profondità  di  campo  a  noi  più  vicino  viene  definito  distanza iperfocale  dell’obbiettivo.  Tutti  gli oggetti  compresi  tra  la  distanza  iperfocale  e  l’infinito  saranno  rappresentati  in  maniera sufficientemente nitida da risultare a fuoco. 

 

Figura 18 ‐ Raffigurazione schematica della distanza iperfocale. 

La profondità di campo nitido non è un parametro costante in tutte le circostanza ma bensì varia (e dipende) da vari fattori:  

• Distanza tra soggetto e macchina fotografica

• Lunghezza focale dell’obbiettivo

• Diaframma

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Parte 4 / La profondità di campo nitido 

Laboratorio sperimentale di fotografia 22

Per meglio  comprendere  come questi  tre  fattori  giochino un  ruolo  fondamentale nel  controllo della profondità di campo bisogna prima comprendere per quale motivo non tutti  i punti di una immagine risultino nitidi ed a fuoco. Parleremo ora del circoletto di confusione. 

IL CIRCOLETTO DI CONFUSIONE

E’ definito circoletto (o cerchio) di confusione il diametro del circolo più grande che appare come un 

punto  ad  una  data  e  precisa  distanza  di  osservazione.  Normalmente  viene  considerato  come massimo, un circolo  il cui diametro sia 1/1000 della distanza di osservazione. Per meglio capire come si origina il circoletto di confusione osserviamo attentamente l’immagine sotto riportata. 

 

Figura 19 ‐ Il circoletto di confusione. 

L’immagine mostra che l’obbiettivo è messo a fuoco sull’oggetto B e sul piano focale (in verde) si forma un immagine nitida nel punto B1. Contemporaneamente, i raggi provenienti dall’oggetto A, più  lontano, vanno a  fuoco nitidamente  in A1 dove si  intersecano per proseguire verso  il piano focale separati.  I  raggi del punto C, più vicino di B all’obbiettivo, non si sono ancora  intersecati quando colpiscono il piano focale. Quindi, per mettere a fuoco nitidamente i punti A e C bisogna spostare il piano focale su A1 o C1. In ogni caso, le immagini A1 e C1 sono visibili sul piano focale ma  saranno  visibili  come  cerchi anziché  come punti ben definiti  (come  invece è  il punto B1).  I circoletti che si formano vengono definiti circoletti di confusione. Quindi,  l’insieme di tutti  i punti percepiti dal nostro occhio come cerchi originano un’immagine sfuocata che  lo sarà tanto di più quanto più grandi saranno i circoletti proiettati sul piano focale.  

Compreso  dunque  come  nasce  un’immagine  sfuocata,  torniamo  a  parlare  della  profondità  di campo poiché, in ultima analisi, quello che interessa ad un fotografo è imparare a conoscere e ad usare la profondità di campo per i propri fini creativi. Torniamo ora ad analizzare quei fattori che giocano un ruolo importante nel controllo della profondità di campo. 

• Distanza tra soggetto e macchina fotografica  –  Influenza  profondamente  la  profondità  di 

campo per concetti ottici anche abbastanza semplici; se  ipotizziamo di regolare  la messa a fuoco  su un  soggetto posto  talmente distante da  considerare paralleli  tutti  i  raggi di  luce provenienti  dal  soggetto  in  questione  (infinito),  otterremo  che  tutti  i  punti  del  nostro soggetto  verranno  correttamente messi  a  fuoco  sul  piano  focale;  in  queste  condizioni,  la profondità di campo è massima poiché  si estende dall’infinito  sino alla distanza  iperfocale dell’obbiettivo  usato.  Essendo  nelle  condizioni  di massima  profondità  di  campo  è  logico pensare  che  avvicinando  l’oggetto  alla  macchina  fotografica,  la  profondità  di  campo diminuirà  di  conseguenza. Riassumendo,  quando  l’obbiettivo  è  focheggiato  su  un  oggetto vicino la profondità di campo è piccola mentre quando è focheggiato su un oggetto distante la profondità di campo aumenta. 

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Parte 4 / La profondità di campo nitido 

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• Lunghezza focale dell’obbiettivo – Il  concetto  è  semplice,  un  obbiettivo  a  focale  corta 

(grandangolo)  ha  una  profondità  di  campo  maggiore  di  un  obbiettivo  a  focale  lunga (teleobbiettivo). Anche qui  il motivo è abbastanza semplice. L’occhio umano percepisce un immagine  sfocata  anziché  nitida  nel  momento  in  cui  riesce  a  percepire  chiaramente  i circoletti  di  confusione.  Quindi  viene  logico  pensare  che  più  sono  grandi  i  circoletti  di confusione  maggiore  sarà  la  percezione  di  sfocato.  Considerando  fissa  la  distanza  tra soggetto  e  macchina  fotografica,  l’utilizzo  di  un  teleobbiettivo  piuttosto  che  un grandangolare  mi  permette  di  ottenere  un  maggiore  rapporto  di  ingrandimento.  Tale ingrandimento rende quindi più visibili i circoletti di confusione.  

• Diaframma – Anche qui il concetto è semplice, utilizzando un diaframma più chiuso (apertura 

relativa maggiore)  la profondità  di  campo  aumenta, utilizzando  un  diaframma più aperto (apertura  relativa  minore)  la  profondità  di  campo  diminuisce.  Questo  concetto  è molto importante perché il diaframma è l’unico mezzo che il fotografo ha per controllare in qualsiasi momento  la  P.d.C.  una  volta  definito  soggetto  ed  obbiettivo  da  utilizzare.  I  disegni  sotto riportati chiariscono come il diaframma influenza la P.d.C..  

Figura 20 ‐ Rappresentazione schematica sull'uso del diaframma per il controllo della profondità di campo. A destra il circoletto di confusione si riduce grazie alla chiusura del diaframma. 

 

 

 

 

 

 

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Parte 4 / La profondità di campo nitido 

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Parte 5 / L’esposizione 

Laboratorio sperimentale di fotografia  25

Parte

5 L’esposizione Impariamo a dosare la luce.  

UNA ANALOGIA IDRAULICA

Abbiamo finora visto come otturatore e diaframma permettano di controllare la quantità di luce da  inviare  al  supporto;  abbiamo  inoltre  visto  come  il  supporto  sia  in  grado,  più  o  meno velocemente,  di memorizzare  l’informazione  luminosa.  Ovviamente,  il  fine  ultimo  è  quello  di realizzare una fotografia quanto più ricca di dettagli possibile. Per ottenere questo è necessario che la luce che colpisce il supporto fotografico sia dosata correttamente. Diaframma, otturatore e velocità del supporto permettono al fotografo di dosare correttamente la luce al fine di ottenere una corretta esposizione. Per comprendere come  i 3 fattori sopra citati  interagiscano tra di  loro, 

ritengo opportuno utilizzare una analogia idraulica che ben si adatta al caso. Osserviamo la figura 21: 

 

Figura 21 ‐ Analogia idraulica dell'esposizione 

Supponiamo di voler  raggiungere un determinato  livello d’acqua nel nostro  contenitore  (frecce rosse). Se aprissimo il rubinetto al massimo permettendo il passaggio di un elevato flusso d’acqua, impiegheremmo  un  tempo molto  breve  per  raggiungere  il  livello  desiderato.  Al  contrario,  se aprissimo appena il rubinetto, il flusso d’acqua sarebbe così scarso da obbligarci a tenere aperto il rubinetto per un tempo molto più lungo. Supponiamo ora di tenere aperto il rubinetto in maniera 

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Parte 5 / L’esposizione 

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tale che siano necessari 10 secondi per raggiungere il livello desiderato. Cosa accade se utilizzo un contenitore  di  diametro  inferiore?  Ovvio,  impiegherò  meno  tempo  per  raggiungere  il  livello desiderato oppure sarò costretto a ridurre il flusso per raggiungere il livello negli stessi 10 secondi. Probabilmente avrete già compreso  l’analogia con  l’apparecchio  fotografico.  Il  livello dell’acqua rappresenta  la giusta esposizione,  flusso d’acqua  rappresenta  la  luce,  il  rubinetto  il diaframma,  il tempo  di  apertura  del  rubinetto  è  il  tempo  di  esposizione.  Il  diametro  del  contenitore,  infine, rappresenta la velocità ISO. Ad un supporto lento corrisponde un contenitore grande e viceversa. Abbandoniamo  ora  l’idraulica  e  concentriamoci  invece  sulla  fotografia.  Facciamo  nuovamente degli esempi. Supponiamo che, utilizzando un  supporto con un velocità di ISO 100, per ottenere una  corretta  esposizione  sia necessario  scattare  con un  tempo di  esposizione di 1/60  sec.  con diaframma  f/8.  Cosa  succederebbe  se  impostassi  il  tempo  di  scatto  ad  1/30  sec.  (ovvero raddoppiando  il  tempo  di  esposizione)?  Ricordando  il  concetto  di  STOP,  la  mia  fotografia risulterebbe più chiara, o meglio sovraesposta di +1 STOP. Volendola riportare al giusto  livello di esposizione non dovrò fare altro che ridurre la quantità di luce chiudendo il diaframma di ‐1 STOP ovvero  portando  il  diaframma  da  f/8  ad  f/11  (si  faccia  riferimento  alla  scala  dei  diaframmi). Facciamo  ora  un  altro  esempio.  Supponiamo  che  con  gli  stessi  dati  di  scatto  dell’esempio precedente (ISO 100, 1/60sec, f/8)  la mia fotografia sia scura, o meglio sottoesposta, di  ‐1 STOP. Cosa  dovrei  fare  per  correggere  lo  STOP  mancante?  Semplice,  potrei  aprire  il  diaframma portandolo da f/8 ad f/5.6, OPPURE raddoppiare il tempo di esposizione portandolo da 1/60 sec. ad 1/30 sec. OPPURE utilizzare un supporto più veloce. In questo caso, visto che dobbiamo recuperare 

1 STOP, passeremo da ISO 100 a ISO 200. Ognuna delle tre soluzioni proposte permette quindi di recuperare  lo  STOP  mancante  ed  ottenere  un’esposizione  corretta.  Di conseguenza bisogna applicare una ed una sola delle soluzioni proposte.  Se, per  errore,  venissero  applicate  tutte  e  tre contemporaneamente otterremmo una  immagine sovraesposta di ben 2 STOP! Normalmente si tende a correggere  le esposizioni agendo sui  tempi di  scatto o  sui diaframmi. La modifica della velocità ISO non sempre è possibile. Se si utilizza una fotocamera digitale non si hanno problemi, potendo  variare  la  velocità  ISO  di  ogni  fotogramma;  utilizzando  invece  una  tradizionale fotocamere analogica saremmo costretti ad utilizzare  la stessa velocità ISO (quella della pellicola per intenderci) per tutti i fotogrammi presenti nel rullino.  

L’ESPOSIMETRO Abbiamo quindi compreso cosa significa realizzare una corretta esposizione. Attraverso  la giusta impostazione  della  coppia  tempo/diaframma  (in  funzione  di  una  particolare  velocità  ISO)  è possibile  dosare  correttamente  la  quantità  di  luce  ed  ottenere  quindi  esposizioni  corrette.  Il problema  alla base di  tutto è, però,  capire di quanta  luce  abbiamo bisogno.  L’esposimetro è  lo strumento che permette di misurare la quantità di luce. Ogni macchina fotografica dispone di un esposimetro che aiuta il fotografo nella scelta della giusta coppia tempo/diaframma. Esistono due diversi  tipi di esposimetri a  seconda del  tipo di  luce che  leggono;  sono gli esposimetri per  luce incidente o per  luce  riflessa.  I primi  sono  strumenti  sofisticati  solitamente utilizzati dai  fotografi 

professionisti  per misurare  la  quantità  di  luce  che,  in maniera  diretta,  colpisce  il  soggetto.  I secondi,  sono  strumenti  altrettanto  sofisticati  installati    all’interno  delle  fotocamere,  capaci  di leggere la quantità di luce che il soggetto da fotografare è in grado di riflettere. Per comprendere meglio la differenza facciamo un esempio. Supponiamo di dover fotografare un oggetto di colore bianco ed un oggetto di colore nero. Supponiamo di  illuminare entrambi  i soggetti con  la stessa quantità di luce. Mentre la luce letta dall’esposimetro a luce incidente sarà la stessa in entrambi i soggetti, la luce riflessa cambierà a causa della diversa riflettenza esistente tra bianco e nero. 

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Parte 5 / L’esposizione 

Laboratorio sperimentale di fotografia  27

 

Figura 22 ‐ Differenza tra la lettura della luce incidente e della luce riflessa nei due soggetti dell'esempio. 

Appare subito evidente che gli esposimetri a  luce riflessa sono fortemente  influenzati dal colore del  soggetto  da  fotografare.  Per  risolvere  questo  problema  e  garantire  una  lettura  precisa  e costante della luce, i costruttori hanno adottato una soluzione basata sul concetto di grigio neutro.  

IL GRIGIO NEUTRO Il  grigio  neutro  è  il  colore  di  riferimento  che  i  costruttori  utilizzano  per  la  taratura  degli esposimetri. Il grigio neutro è una particolare tonalità di grigio che ha una riflettenza del 18%. In pratica, ogni esposimetro  installato a bordo delle moderne fotocamere,  in base alla  luce riflessa letta, calcola una coppia tempo/diaframma tale da ricondurre ogni punto del fotogramma ad un tono pari al grigio neutro. Detto così  il concetto  risulta essere poco chiaro. Facciamo  subito un esempio  per  comprendere meglio.  Immaginiamo  nuovamente  di  voler  fotografare  due  fogli  di carta, uno colorato di bianco ed uno colorato di nero. Supponiamo, ovviamente, che entrambi  i fogli vengano illuminati con la stessa luce. Fotografando il foglio bianco, l’esposimetro, leggendo una grande quantità di  luce  riflessa,  imposterà una coppia  tempo diaframma  tale da  restituire, come immagine finale, non l’immagine di un foglio bianco ma bensì l’immagine di un foglio colore grigio.  In  buona  sostanza,  l’immagine  finale  risulterà  sottoesposta  (il  bianco  è  diventato  grigio, ovvero più scuro). Fotografando il foglio nero, l’esposimetro leggendo una scarsa quantità di luce riflessa,  imposterà una  coppia  tempo/diaframma  tale da  restituire,  come  immagine  finale, non l’immagine di un  foglio nero ma bensì  l’immagine di un  foglio  colore  grigio.  L’immagine  finale risulterà  quindi  sovraesposta  (il  nero  è  diventato  grigio,  ovvero  più  chiaro).  In  entrambi  i  casi, 

quindi, otterremo un’immagine finale di colore grigio. Quel grigio ottenuto è  il grigio neutro con riflettenza  al  18%  utilizzato  dai  costruttori  per  la  taratura  degli  esposimetri.  E’  importante conoscere  questo  concetto  poiché  esistono  alcune  particolari  condizioni  di  ripresa  dove,  per ottenere  una  rappresentazione  fedele  dei  colori,  è  necessario  compensare  manualmente l’esposizione calcolata dall’esposimetro. 

METODI DI LETTURA DELLA

LUCE

Abbiamo detto  che ogni macchina  fotografica dispone di un esposimetro  capace di misurare  la luce riflessa dai soggetti. L’ottenimento della corretta esposizione dipende però da vari fattori. A seconda  di  come  componiamo  l’inquadratura,  infatti,  l’esposimetro  potrebbe  calcolare  coppie tempo/diaframma  inadeguate a causa della presenza di  soggetti a  forte  riflettenza e  soggetti a scarsa  riflettenza.  Il  risultato  di  un  calcolo  errato  sarebbe  la  realizzazione  di  una  immagine sbagliata dal punto di vista tonale. Per cercare di ovviare a questi errori “valutativi”, i costruttori hanno realizzato esposimetri capaci di funzionare secondo particolari criteri di valutazione scelti di volta in volta dal fotografo. Vediamoli nel dettaglio: 

Misurazione valutativa (Evaluative Metering) -   E’  l’algoritmo di  lettura della  luce più 

complesso. A seconda del costruttore può avere nomi differenti (in casa NIKON, ad esempio,  è  chiamato Matrix  3D).  Consiste  nel  suddividere  la  scena  inquadrata  in 

varie  zone e  leggere  la quantità di  luce presente  in ogni  singola  zona.  La determinazione della 

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Parte 5 / L’esposizione 

Laboratorio sperimentale di fotografia 28

coppia tempo/diaframma viene effettuata utilizzando un algoritmo che tiene conto dello sfondo, del soggetto di primo piano e della disposizione delle  luci.  In alcuni casi  i risultati ottenuti sono confrontati con una serie di scene già memorizzate all'interno della fotocamera. 

 Misurazione parziale (Partial Metering)  –  Viene  utilizzata  principalmente  per 

fotografare  soggetti  controluce.  La  lettura  della  luce  viene  fatta  nel  centro dell’immagine (circa il 10% dell’area inquadrata). 

Media pesata al centro (Centerweighted averaging metering) – Viene  fatta una media 

complessiva di tutto  il fotogramma privilegiando però  i soggetti presenti nel centro dell’immagine.  Anche questa modalità si adatta nella maggiore parte dei casi. 

Spot – E’ la lettura più precisa poiché viene fatta solo al centro (circa il 3.5% dell’area inquadrata).  Necessita  di  una  buona  conoscenza  delle  tecniche  espositive. Normalmente  viene  utilizzata  in  situazioni  difficili  per  effettuare  una  lettura 

manuale delle luce in più punti dell’inquadratura. 

L’ESPOSIZIONE P/A/S/M

Compreso ora  i concetti che stanno alla base dell’esposizione, vediamo di capire come applicare tali  concetti  all’esperienza  fotografica.  Le  moderne  fotocamere  permettono  al  fotografo  di impostare  i  parametri  di  ripresa  in  vari  modi  per  garantire  sempre  la  massima  creatività  e flessibilità d’uso della fotocamera stessa. 

ESPOSIZIONE AUTOMATICA

PROGRAMMATA (P)

La  maggior  parte  delle  moderne  fotocamere  sigla  con  la  lettera  P  la  modalità  automatica programmata. In questa modalità di ripresa la macchina fotografica imposta tempo di esposizione 

e diaframma  in  funzione della  luminosità del soggetto.  Il  fotografo può però modificare  in ogni momento la coppia tempo/diaframma in funzione delle sue personali esigenze. Normalmente è la modalità più utilizzata. 

ESPOSIZIONE AUTOMATICA CON

PRIORITA’ DI DIAFRAMMA (A)

La maggior  parte  delle moderne  fotocamere  sigla  con  la  lettera  A o Av  la modalità  automatica programmata a priorità di diaframma (Av  è  l’acronimo di Aperture Value, A  sta per Aperture).  In 

questa  modalità  di  ripresa  il  fotografo  imposta  il  diaframma  desiderato  mentre  la macchina fotografica  imposta  il  tempo  di  esposizione  in  funzione  della  luminosità  del  soggetto.  Viene utilizzata normalmente quando  si desidera  avere un  controllo più  completo  sulla profondità di campo5, visto che quest’ultima è strettamente legata al valore di apertura del diaframma. 

ESPOSIZIONE AUTOMATICA CON

PRIORITA’ DI TEMPO (S)

La maggior  parte  delle moderne  fotocamere  sigla  con  la  lettera  S o Tv  la modalità  automatica programmata a priorità di tempo (Tv è  l’acronimo di Time Value, S sta per Shutter, otturatore).  In 

questa modalità  di  ripresa  il  fotografo  imposta  il  tempo  di  esposizione  desiderato mentre  la macchina  fotografica  imposta  il  diaframma  in  funzione  della  luminosità  del  soggetto.  Viene utilizzata normalmente quando  si desidera avere un  controllo  completo del mosso. Utilizzando tempi di esposizione brevi, infatti, è possibile congelare l’azione di un soggetto in movimento6. 

                                                            

5 Si veda il paragrafo “La profondità di campo nitido”. 

6 Le tecniche fotografiche, tra le quali il “mosso” verranno trattate più avanti. 

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Parte 5 / L’esposizione 

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ESPOSIZIONE MANUALE (M)

La maggior parte delle moderne fotocamere sigla con la lettera M la modalità manuale. In questa modalità di ripresa il fotografo imposta sia il tempo di esposizione che il diaframma desiderato. E’ la modalità più creativa disponibile poiché permette di avere un totale controllo dell’esposizione. La lettura dell’esposimetro interno permette di capire se la quantità di luce è corretta. 

USIAMO L’ESPOSIMETRO

In  figura 23 è mostrato  l’esposimetro di una moderna  fotocamera digitale  (Canon EOS).  Faccio presente  che,  a  seconda della  fotocamera usata,  l’esposimetro potrebbe  risultare  leggermente differente. Il display mostra un notevole numero di informazioni riguardanti l’esposizione.  

Figura 23 ‐ Moderno esposimetro digitale a terzi di stop.

A  sinistra  abbiamo  i  due  numeri  indicanti  la  coppia  tempo/diaframma. Da  notare  che  i  tempi inferiori al secondo vengono riportati in formato intero e non decimale (es. 1/250 viene riportato solo 250). Per i tempi superiori al secondo, affianco al numero viene visualizzato il simbolo ” (es. 4 secondi  viene  riportato  4”).  La  scala  graduata  sulla  destra,  invece,  assolve  a  varie  funzioni  a seconda  della  modalità  utilizzata  (P/A/S/M).  Nelle  modalità  automatiche  (P/A/S)  indica  la compensazione dell’esposizione7  attualmente  impostata. Ogni  numero  corrisponde  ad  1  STOP  di 

compensazione, ogni tacca rappresenta ⅓ STOP. Alla destra della tacca centrale la compensazione è  positiva  (sovraesposizione),  alla  sinistra  della  tacca,  invece,  la  compensazione  è  negativa (sottoesposizione). Nella modalità manuale  (M),  la  scala graduata  rappresenta  il vero e proprio esposimetro. Modificando la coppia tempo/diaframma, l’indicatore mobile si sposterà a destra o a sinistra a seconda della quantità di  luce rilevata. Anche qui, se  l’indicatore si trova sulla zona di sinistra  l’immagine  risulterà  sottoesposta mentre,  se  si  trova  sulla  destra,  l’immagine  risulterà sovraesposta. 

COMPENSAZIONE DELL’ESPOSIZIONE

La  compensazione dell’esposizione è una  funzione  che permette al  fotografo di  condizionare a proprio  piacimento  l’esposimetro  quando  ci  si  trova  ad  operare  nelle  funzioni  automatiche (P/A/S).  Cerchiamo  di  capirne  il  funzionamento  con  un  semplice  esempio.  Immaginiamo  di trovarci a fotografare un  paesaggio innevato. Supponiamo di lavorare in modalità P (ma se fosse A o S  sarebbe  la  stessa  cosa). Vista  l’elevata  riflettenza del paesaggio  che  stiamo  fotografando sappiamo  con  certezza  che  l’immagine  verrà  sottoesposta  poiché  l’esposimetro  cercherà  di ricondurre  il bianco della neve al grigio neutro8.  Il nostro scopo è,  invece, quello di ottenere un immagine  dai  toni  quanto  più  fedeli  possibile  alla  realtà.  Di  conseguenza,  visto  che  il  nostro 

                                                            

7 Per la compensazione dell’esposizione si veda il prossimo paragrafo. 

8 Si veda il paragrafo relativo “Il grigio neutro”. 

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Parte 5 / L’esposizione 

Laboratorio sperimentale di fotografia 30

esposimetro  tenderà  ad  una  sottoesposizione,  noi  dovremmo  correggere  i  suoi  “calcoli”  sovraesponendo.  La  compensazione  dell’esposizione  serve  a  questo,  ovvero  a  modificare  i parametri di riferimento dell’esposimetro affinché ci fornisca i risultati desiderati. 

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Parte 5 / L’esposizione 

Laboratorio sperimentale di fotografia  31

APPROFONDIMENTI

MEGLIO TEMPO O DIAFRAMMA?

Abbiamo visto come utilizzare le esposizioni automatiche a priorità di tempo o di diaframma. Alla domanda quale delle due è migliore la risposta è: NESSUNA. Nessuna poiché dipende dalla scena che stiamo riprendendo.  

Privilegiare  i  diaframmi  significa  scattare  con  lo  scopo  di  controllare la profondità di campo. Utilizzando un diaframma più chiuso  la profondità di campo aumenta, utilizzando un diaframma più aperto la profondità di campo diminuisce. 

Privilegiare  i  tempi  significa  scattare  con  lo  scopo  di  controllare il mosso.  Tempi  di  otturazione 

molto brevi permettono di congelare  l’azione di un soggetto  in movimento. Tempi di otturazione lunghi creano effetti di mosso utili per esaltare l’azione di un soggetto in movimento. 

IL MICRO-MOSSO Spesso può accadere di ottenere fotografie di scarsa nitidezza. L’impressione generale che se ne ricava è un’apparente sfocatura dei soggetti su tutti i piani focali. Controllare con attenzione il tempo di otturazione può aiutare ad ottenere fotografie più nitide.  Il problema  infatti non va cercato  in un 

errore di messa a fuoco ma bensì  in un errore nella scelta del tempo di otturazione. Durante  lo scatto possono  innescarsi  impercettibili vibrazioni della  fotocamera che creano  il  fenomeno del micro-mosso.  Il  fenomeno  si  accentua  maggiormente  con  l’utilizzo  di  ottiche  a  lungo  fuoco 

(teleobbiettivi) a causa del  loro elevato  fattore di  ingrandimento. Scegliendo opportunamente  il tempo di otturazione  è possibile  eliminare questo difetto. Come  regola  generale,  empirica ma comunque valida, il tempo di otturazione non dovrebbe mai essere inferiore alla lunghezza focale dell’obbiettivo usato. Per ottiche superiori al 100mm di lunghezza focale, il tempo di otturazione non dovrebbe mai essere inferiore al doppio della lunghezza focale dell’obbiettivo usato. 

 

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Parte 5 / L’esposizione 

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Parte 6 / Il flash 

Laboratorio sperimentale di fotografia  33

Parte

6 Il flash Come illuminare artificialmente per ottenere effetti creativi.  

IL LAMPO ELETTRONICO

Il flash (chiamato anche  lampeggiatore elettronico) è quel particolare dispositivo elettronico che 

permette  di  generare  una  sorgente  di  luce  controllata  utile  al  fotografo  per  controllare l’illuminazione del soggetto.  Il  lampo elettronico è ottenuto scaricando una notevole quantità di energia  elettrica  all’interno  di  una  lampada  a  vapori  di  Xenon.  I  circuiti  elettronici  del  flash controllano  la durata del  lampo al  fine di  controllare  la quantità di  luce emessa.  La durata del lampo è molto breve, capace quindi di congelare l’azione di un soggetto il movimento in qualsiasi situazione.  La  temperatura  colore  della  luce  emessa  è  compresa  solitamente  tra  5000‐6000°K quindi  paragonabile  alla  luce  diurna.  Le  caratteristiche  luminose  di  un  flash  vengono  espresse mediante due distinti parametri: L’angolo di copertura ed il numero guida. 

L’ANGOLO DI COPERTURA

L’angolo  di  copertura,  definito  anche  come  minima  focale  utilizzabile,  rappresenta  l’angolo  fisico effettivo entro il quale il flash è in grado di indirizzare i suoi raggi luminosi. Facciamo un esempio per  comprendere  meglio.  Supponiamo  di  utilizzare  un  obbiettivo  di  lunghezza  focale  50mm. L’angolo di campo abbracciato da  tale  focale è di circa 47°. Quindi, affinché  la nostra scena sia completamente illuminata, occorre che il flash sia in grado di indirizzare i suoi raggi luminosi entro un angolo di almeno 47°. Generalmente i flash sono compatibili con una focale di 28mm ma, con lenti opportune possono coprire anche formati più grandangolari più ampi come i 24mm. 

IL NUMERO GUIDA

Il  numero  guida  (abbreviato  solitamente  con  n.g.)  è  un  numero  che  rappresenta  la  potenza 

luminosa di un  flash.  Il numero guida  rappresenta  il diaframma da utilizzare per  fotografare un soggetto posto ad un metro di distanza  con un  supporto  fotografico di velocità  ISO pari a 100. Oppure,  rappresenta  la massima  distanza  in metri  dove  porre  il  soggetto  se  fotografiamo  con diaframma  f/1  con  un  supporto  fotografico  di  velocità  ISO  pari  a  100.  Detto  così  il  concetto potrebbe risultare un po’ ostico. Facciamo subito un esempio. Supponiamo di utilizzare un flash con numero guida pari a 38. Questo significa che, se  il nostro soggetto è posto ad un metro di distanza, dovrò utilizzare un diaframma f/38 per realizzare un’immagine correttamente esposta. Oppure significa che, se il mio soggetto è posto a 38 metri, dovrò utilizzare un diaframma f/1 per realizzare  un’immagine  correttamente  esposta. Matematicamente  il  numero  guida  può  essere anche espresso in questa maniera: 

N.G. = distanza flash/soggetto X apertura del diaframma

Con questa formula possiamo agevolmente calcolare il diaframma da utilizzare o la distanza a cui porre  il soggetto. Facciamo nuovamente un esempio. Supponiamo di avere un flash con numero guida  44  ed  un  soggetto  posto  ad  una  distanza  di  4  metri.  Che  diaframma  dovrei  usare?  Invertendo  la  formula  sopra descritta posso  calcolare  l’apertura  f  che  sarà  44  /  4  =  11. Dovrò scattare con un diaframma pari ad f/11. Facciamo un altro esempio. Supponiamo di avere un flash 

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Parte 6 / Il flash 

Laboratorio sperimentale di fotografia 34

con numero guida pari a 44 ed un diaframma pari ad f/5,6. Qual è la massima distanza ammessa per  il mio soggetto? Anche qui,  invertendo  la formula sopra descritta posso calcolare  la distanza che sarà 44 / 5,6 = 7,85 metri. Quanto detto sopra (esempi compresi) è valido solo per supporti con velocità ISO pari a 100. Ma cosa accade se, invece, utilizzo velocità ISO maggiori? E’ noto che raddoppiando la velocità ISO del supporto ho bisogno di un quantitativo di luce pari alla metà. Di conseguenza se a 100 ISO utilizzo un diaframma pari a 2, a 200 ISO utilizzerò un diaframma pari a 2,8  (ho  guadagnato  1  STOP  in  sensibilità,  recupero  chiudendo  il  diaframma  di  1  STOP). Ovviamente, anche il numero guida subisce delle variazioni. Rifacendosi alla definizione di numero guida  (…rappresenta  la massima  distanza  in metri  dove  porre  il  soggetto  se  fotografiamo  con diaframma f/1 con un supporto fotografico di velocità ISO pari a 100…) notiamo l’associazione ISO 100  e  diaframma  f/1.  Ovviamente,  ad  ISO  200  assoceremo  diaframma  f/1,4,  ad  ISO  400 assoceremo diaframma f/2 e così via. Ma se ad ISO 200 utilizzo un diaframma f/1 cosa accade al numero guida?  Il numero guida equivalente sarà uguale al numero guida originario moltiplicato 1,4 (il diaframma di riferimento per ISO 200). Quindi, al variare della velocità ISO il numero guida aumenterà proporzionalmente secondo i diaframmi di riferimento delle varie sensibilità. 

IL TEMPO DI SINCRO FLASH

Il tempo di scatto da utilizzare quando si utilizza un flash deve essere uguale o superiore al tempo di sincro-flash. Affinché sia possibile utilizzare  il flash è necessario che, al momento del  lampo,  il 

supporto fotografico sia completamente esposto alla luce. Questa condizione è vincolata dal tipo di  otturatore9  di  cui  dispone  la  nostra  fotocamera.  Se  disponiamo  di  un  otturatore  centrale  il problema non si pone poiché il flash emetterà il lampo solo quando l’otturatore stesso sarà tutto aperto. Se l’otturatore è del tipo a tendine, il flash emetterà il lampo esattamente dopo un tempo pari al tempo di scatto impostato. In questa condizione, se la 1° tendina non ha ancora scoperto tutto il supporto, otterrò che una parte dell’immagine risulterà nera poiché non esposta alla luce emessa dal  lampo. E’ necessario quindi utilizzare un  tempo di  scatto  tale che  il  lampo avvenga quando  la 1°  tendina ha  scoperto  completamente  tutto  il  supporto. Questo  tempo di  scatto  è chiamato  tempo di sincro-flash. Normalmente,  i  tempi  di  sincro‐flash  sono  i  1/200  –  1/250  per 

fotocamere  con  tendine  a  scorrimento  verticale  ed  i  1/60  per  fotocamere  con  tendine  a scorrimento orizzontale. 

SINCRONISMO AD ALTA VELOCITA’

La sincronizzazione ad alta velocità è una  funzione disponibile solo su  flash elettronici di ultima generazione. Appositamente nata per eliminare  il problema del  sincro‐flash  su  fotocamere  con otturatore a tendina,  la sincronizzazione ad alta velocità permette un sincronismo completo con tutti i tempi di scatto. La sincronizzazione avviene mediante l’emissione consecutiva di più lampi in maniera tale da permettere  l’illuminazione corretta di tutto  il fotogramma. Chiaramente ogni lampo ha una potenza molto  ridotta  cosicché  il numero guida equivalente  risulta essere molto inferiore rispetto al numero guida teorico. 

USO DEL FLASH AUTOMATICO

Osservando  tutti  i  concetti  che  stanno  alla  base  del  funzionamento  di  un  flash,  si  potrebbe pensare che l’uso di questo strumento risulti poco pratico ed alquanto difficile. Fortunatamente i flash moderni dispongono di una modalità di funzionamento automatica che permette il dosaggio della  luce  senza obbligare  il  fotografo  a  complessi  calcoli durante  l’utilizzo  sul  campo.  Tramite ghiere di comando è possibile impostare sul flash la sensibilità del supporto nonché il diaframma 

                                                            

9 Si veda il paragrafo “L’otturatore” nella sezione “La macchina fotografica”. 

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Parte 6 / Il flash 

Laboratorio sperimentale di fotografia  35

di  lavoro.  Durante  il  lampo  un  sensore  posto  sul  flash  legge  la  luce  riflessa  dal  soggetto interrompendo l’emissione luminosa quando la quantità di luce risulta sufficiente per una corretta esposizione.  Questo  avvantaggia  molto  il  fotografo  poiché  la  distanza  dal  soggetto  non rappresenterà più un’incognita da tenere in considerazione. 

USO DEL FLASH AUTOMATICO

T.T.L.

Un’evoluzione  del  sistema  automatico  sta  nell’utilizzo  dell’esposimetro  TTL  (Through  The  Lens) della  macchina  fotografica.  In  questo  caso  sarà  l’elettronica  della  fotocamera  a  comandare l’emissione  luminosa  del  flash.  La  lettura  della  luce  riflessa  avviene  mediante  l’esposimetro interno che comanderà l’interruzione del lampo quando la quantità di luce risulterà sufficiente per una corretta esposizione. 

USO CREATIVO DEL FLASH

Il  flash non deve essere pensato  solo  come quello  strumento da utilizzare quando non  si ha a disposizione  una  sufficiente  quantità  di  luce.  Il  flash  è  uno  strumento  molto  versatile  che permette  di migliorare  sensibilmente  la  qualità  di molte  immagini.  Spesso  e  volentieri  viene utilizzato  anche  di  giorno  per  ammorbidire  le  ombre  o  semplicemente  per  compensare l’esposizione quando  la differenza tra ombre ed alte  luci supera  i  limiti della  latitudine di posa10 del supporto.  

IL FILL-FLASH Il fill-flash (o flash di riempimento o lampo di schiarita) è un modo d’uso del flash che ha lo scopo di 

schiarire  ombre  troppo  dure  negli  scatti  in  pieno  sole  o  dare maggior  dettaglio  e  leggibilità  a soggetti posti in controluce. Nel primo caso l’intensità del lampo dovrà essere tale da schiarire le zone d’ombra senza però eliminarle completamente dalla scena.  I migliori  risultati si ottengono impostando  il  flash  su AUTO e  specificando un diaframma più aperto di 2 o 3 STOP  rispetto al diaframma impostato sull’ottica. Così facendo la luce emessa sarà tale da schiarire le ombre senza eliminarle  completamente  dalla  scena.  Facciamo  un  esempio.  Supponiamo  di  riprendere  un soggetto con un diaframma pari a f/8. Il flash andrà impostato a f/4 (‐2 STOP) o f/2,8 (‐3 STOP). Si ricordi che impostando sul flash valori di diaframma bassi, il lampo emesso sarà di bassa intensità. Viceversa,  l’intensità del  lampo aumenterà proporzionalmente. Nel secondo caso,  l’intensità del lampo  dovrà  avere  un  un’intensità  tale  da  rendere  più  leggibili  le  zone  in  ombra.  In  questa condizione non esiste una regola ben precisa ma occorre fare qualche prova. Concettualmente si dovrebbe  realizzare  questa  condizione:  un  coppia  tempo/diaframma  tale  da  consentire  una corretta esposizione per  lo  sfondo ed una emissione  luminosa  tale da  rendere  leggibili  le  zone d’ombra. Impostare anche qui il flash in AUTO ed impostare un diaframma più aperto di circa 2 o 3  STOP.  E’  difficile  porre  una  regola matematica  assoluta  poiché  le  condizioni  di  scatto  vanno valutate di volta in volta a seconda delle condizioni di ripresa. Essenzialmente possiamo dire che, come punto di partenza, è consigliabile impostare un diaframma per lampo di schiarita distante 2 STOP dal diaframma impostato sull’ottica. 

                                                            

10 Si veda il paragrafo “La latitudine di posa” nella sezione “La macchina fotografica”. 

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Parte 6 / Il flash 

Laboratorio sperimentale di fotografia 36

IL FLASH IN LUCE DIFFUSA

Usare  il  flash  per  generare  una  luce  diffusa  ci  evita  di  ottenere  immagini  piatte  e  con  vistose ombre nere nei soggetti in secondo piano. Questa condizione si verifica quando puntiamo il flash direttamente  sul  soggetto.  Per  ottenere  una  luce  diffusa  è  sufficiente  puntare  il  flash  su  una superficie  riflettente  in maniera  tale  che  i  raggi  riflessi  illuminino  il  soggetto  da  riprendere11. Anche qui, utilizzando  il  flash  in AUTO assicurarsi di  impostare  il diaframma  in maniera  tale da ottenere un quantitativo  sufficiente di  luce  riflessa.  In questo caso è  impossibile determinare a priori un diaframma poiché dipende dalla  riflettenza e dalla distanza dell’oggetto utilizzato per riflettere la luce del flash. 

OPEN FLASH L’open flash è una tecnica particolare dove vengono usati più lampi elettronici per illuminare una 

scena piuttosto  ampia,  impossibile da  illuminare  con un  solo  lampo.  L’avvento dell’era digitale favorisce notevolmente l’utilizzo di questa tecnica poiché la possibilità di vedere subito i risultati permette  di  effettuare  sul  campo  tutte  le  correzioni  necessarie  per  perseguire  il  risultato prefissato. La tecnica open flash è, infatti, molto imprevedibile. Prima di tutto occorre piazzare la fotocamera su un cavalletto ed utilizzare un supporto con una bassa sensibilità  ISO. Utilizzando l’esposimetro  in modalità M  (manuale)12  si  sceglie  un  diaframma  che  assicuri  la  profondità  di campo desiderata e si imposta il tempo di otturazione su “B”. Si apre l’otturatore in condizioni di buio completo e si comincia a passeggiare per la scena da riprendere illuminando la scena con una serie di  lampi. La bassa sensibilità  ISO eviterà che  il supporto si  impressioni con  l’immagine del fotografo mentre le zone colpite dalla luce del flash saranno sufficientemente luminose da essere registrate correttamente. E’ una tecnica concettualmente molto semplice ma praticamente molto difficile. Ecco perché le moderne fotocamere digitali offrono un notevole vantaggio durante le fasi di ripresa. 

SINCRONISMO SU 1° E 2° TENDINA

Il sincronismo su 1° o 2° tendina è una funzione creativa disponibile solo su alcuna fotocamere di fascia medio  alta.  Utilizzando  tempi  di  scatto  più  lenti  del  tempo  di  sincro‐flash13  il  supporto rimarrà  completamente  esposto  alla  luce  per  un  tempo  pari  al  tempo  di  scatto  impostato. Emettere  il  lampo  appena  la  1°  tendina  ha  scoperto  completamente  il  supporto  significa sincronizzarsi sulla 1° tendina,  emettere  il  lampo  poco  prima  della  partenza  della  2°  tendina significa, ovviamente, sincronizzarsi sulla 2° tendina. Normalmente, il flash è sincronizzato sulla 1° 

tendina. Quale  sincronizzazione  scegliere? Dipende dalla  situazione  e dall’effetto  che  vogliamo ottenere. Facciamo prima una precisazione e, subito dopo, un esempio. Se utilizzo  tempi molto più  lunghi del  tempo di  sincro‐flash,  il mio  soggetto  subirà  l’illuminazione da due  fonti di  luce differenti.  Il  lampo  e  la  luce  ambiente. Mentre  il  lampo,  vista  la  sua  breve  durata,  riuscirà  a congelare ogni movimento, la luce ambiente presente per tutto il tempo di esposizione creerà un effetto  “mosso”.  Supponiamo  ora  di  voler  fotografare  una  macchina  di  notte  cercando  di enfatizzare  il  suo  movimento  registrando  la  strisciata  rossa  dei  fanali  posteriori. Contemporaneamente, però, si vuole anche immortalare la macchina nitidamente. Impostiamo la sincronizzazione  sulla  2°  tendina  (poi  capiremo  perché).  Impostiamo  il  tempo  di  scatto  a  due secondi e poi scattiamo. La prima  tendina scoprirà  il supporto per due secondi permettendo ai fanali  di  creare  l’effetto  “strisciata”.  Immediatamente  prima  della  chiusura  della  2°  tendina  il 

                                                            

11 Si veda il paragrafo “Luce diretta e luce riflessa” nella sezione “La Luce”. 

12 Si veda il paragrafo “Esposizione M ‐ Manuale” nella sezione “L’esposizione”. 

13 Si faccia riferimento al paragrafo relativo di questa stessa sezione. 

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Parte 6 / Il flash 

Laboratorio sperimentale di fotografia  37

lampo del flash illuminerà nitidamente la macchina. Risultato, macchina in movimento con strisce rosse.  Cosa  sarebbe  successo  se  avessi  usato  la  sincronizzazione  sulla  prima  tendina?  Il  flash avrebbe  scattato  subito  dopo  la  completa  apertura  della  prima  tendina  immortalando nitidamente  la macchina.  Esauritosi  il  lampo,  l’esposizione  di  due  secondi  avrebbe  comunque registrato  la “strisciata” dei fanali che si sarebbe però sovrapposta all’immagine della macchina. Non sarebbe stato l’effetto voluto. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Parte 6 / Il flash 

Laboratorio sperimentale di fotografia 38

 

 

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Parte 7 / I filtri ottici 

Laboratorio sperimentale di fotografia  39

Parte

7 I filtri ottici Facciamo esplodere la nostra creatività.  

I FILTRI I filtri fotografici sono degli accessori realizzati in vetro ottico (lo stesso con il quale si realizzano le lenti degli obbiettivi) da  inserire  sull’obbiettivo  fotografico.  In  linea  teorica possiamo affermare che  un  filtro  nasce  con  lo  scopo  di  assorbire  (e  quindi  bloccare)  una  particolare  radiazione luminosa.  Si  può  quindi  affermare  che  l’utilizzo  di  un  filtro  causa  sempre  una  riduzione  di luminosità. 

 

Figura 24 ‐ Esempio schematico del principio di funzionamento di un filtro.

Esistono  svariati  tipi  di  filtri  per  assolvere  a  specifiche  funzioni  creative.  Vediamo  ora,  nel dettaglio, i filtri normalmente più utilizzati. 

FILTRI ULTRAVIOLETTI

I filtri ultravioletti o filtri UV sono filtri appositamente realizzati per assorbire (e quindi bloccare) le 

radiazioni ultraviolette (sono ultraviolette tutte quelle radiazioni che si estendono al di sotto dei 

400μm14). Pur essendo  invisibili all’occhio umano, vengono ugualmente  registrate dal  supporto fotografico aumentando  l'effetto foschia e modificando  la tonalità dei colori. Questi effetti sono spesso notati nei posti dove i raggi ultravioletti sono più presenti, come al mare o in montagna. 

FILTRO POLARIZZATORE15

Il filtro polarizzatore è uno dei filtri più usati dai fotografi. Per capire come funziona, consideriamo la  natura  ondulatoria  della  luce. Un  raggio  di  luce  bianca  che  viaggia  libero  nello  spazio  vibra disordinatamente  in  tutte  le  direzioni.  Quando  però  questo  raggio  colpisce  una  superficie riflettente  non metallica  (acqua,  ghiaccio, ma  anche  semplicemente  un muro,  una  roccia,  una persiana  verde)  ne  viene  per  così  dire  "schiacciato":  il  raggio  riflesso  vibrerà  secondo  un  solo piano, parallelo alla superficie stessa. Si dice che in questo caso il raggio è stato polarizzato. A sua 

                                                            

14 Si veda il paragrafo “Cos’è la luce?” nella sezione “La luce”. 

15 Articolo tecnico tratto da “ http://www.nadir.it/tec‐crea/te_filtri‐02‐colore/default.htm”. 

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Parte 7 / I filtri ottici 

Laboratorio sperimentale di fotografia 40

volta il filtro polarizzatore ha la capacità di polarizzare la luce, cioè di far vibrare secondo un solo piano  la  luce bianca che  lo attraversa. Questo perché  le molecole che costituiscono  la sostanza polarizzante  (solfato  di  iodochinina  o  herapathite,  dal  suo  scopritore  sir  John  Herapath)  sono orientate in modo da formare una specie di griglia (immaginate una griglia metallica composta di sbarre parallele), che lascia passare solo la luce che vibra secondo il senso di orientamento delle molecole stesse. Se a questo punto poniamo un filtro polarizzatore lungo il cammino di un raggio riflesso polarizzato, abbiamo due possibilità estreme: 

• Le molecole  del  filtro  (le  sbarre  della  griglia)  sono  orientate  secondo  lo  stesso  senso  di vibrazione del raggio luminoso: il raggio passerà senza problemi; 

• Le molecole del  filtro sono orientate perpendicolarmente al senso di vibrazione del  raggio luminoso: il raggio verrà bloccato. 

Questo spiega perché il polarizzatore, se convenientemente orientato, elimina i riflessi dall'acqua e dalle  superfici  riflettenti  in  genere. Non  solo:  eliminando parte della  luce  riflessa da  tutte  le superfici  (non  solo  quelle  lucide),  il  polarizzatore  rende  più  saturi  i  colori.  Un  altro  effetto interessante  è  un  parziale,  e  talvolta marcato,  scurimento  del  cielo.  Il  fenomeno  è  dovuto  al vapore acqueo sospeso nell'atmosfera terrestre. Le minuscole goccioline polarizzano la luce solare (polarizzazione per diffusione). Questa luce polarizzata può essere bloccata dal filtro polarizzatore, che  in questo modo rende  il cielo azzurro più saturo e gradevole a vedersi.  Il massimo effetto si ottiene quando il sole si trova a 90 gradi rispetto all'asse di ripresa (in pratica, quando il fotografo ha il sole di fianco). In assenza di sole il filtro polarizzatore è inefficace e conviene toglierlo.  

 

Figura 25 ‐ Esempio di utilizzo del polarizzatore. A sinistra immagine normale, a destra immagine polarizzata. 

FILTRI DIGRADANTI

I  filtri  digradanti  (o  gradual)  sono  particolari  filtri  creativi  che  presentano  una  parte 

completamente trasparente ed una colorata. Il passaggio tra le due zone non è ovviamente netto ma sfumato gradualmente (vedi figura 26). 

 

Figura 26 ‐ Filtro digradante arancione. 

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Parte 7 / I filtri ottici 

Laboratorio sperimentale di fotografia  41

La  funzione  dei  filtri  digradanti  è  duplice.  Prima  di  tutto  essi  inducono  una  forte  dominante cromatica  in  corrispondenza  della  zona  dell'inquadratura  che  coincide  con  la  parte  colorata. Conseguentemente è possibile colorare una parte del fotogramma inquadrato come più ci piace. Possiamo  quindi  ottenere,  ad  esempio,  cieli  con  una  gradevole  dominante  arancione  anche quando  non  si  è  al  tramonto.  Attenzione  però  alla  linea  dell’orizzonte  la  quale  deve  essere completamente priva di ostacoli pena  la “colorazione” degli stessi con un antiestetico e dubbio effetto finale. La seconda funzione, meno creativa ma ugualmente  importante, è  la possibilità di compensare un eccessivo scarto di esposizione tra due zone dello stesso fotogramma. In presenza di forte scarto tonale tra cielo e paesaggio terrestre, si rischierebbe di avere un cielo troppo chiaro (se si espone per il paesaggio), o al contrario un paesaggio illeggibile (se si espone per il cielo). Un filtro digradante  grigio medio,  con  la  zona  grigia posta  in  corrispondenza del  cielo, bilancerà  il contrasto tonale senza indurre dominanti cromatiche. 

FILTRI ND (NEUTRAL DENSITY)

I filtri neutri sono filtri opachi di colore grigio neutro che hanno la funzione di ridurre la quantità di luce che colpisce il supporto fotografico. Sono disponibili in diverse gradazioni a seconda del loro fattore di riduzione della luminosità. Ad esempio un filtro Neutral Density ND4 permette di ridurre quattro volte la luminosità effettiva ovvero permette un decremento di esposizione pari a 2 STOP. Questi  filtri  vengono  solitamente  utilizzati  quando  si  vuole  scattare  con  tempi  di  scatto ragionevolmente lunghi ma le condizioni luminose non lo permettono. Facciamo un esempio per comprendere meglio il concetto. Supponiamo di voler scattare con un tempo di esposizione pari a 4  secondi  ad  ISO  100.  Impostando  il  diaframma  sulla massima  chiusura  ottengo  un  tempo  di esposizione pari a ¼ secondo. Per raggiungere il tempo desiderato devo decrementare il livello di esposizione di ben 4 STOP. Devo quindi utilizzare un filtro ND16. 

FILTRI COLORATI I filtri colorati sono utilizzati esclusivamente nella fotografia bianco e nero poiché permettono di 

manipolare  il  contrasto dell’immagine. Normalmente  sono di  colore GIALLO, ARANCIO, ROSSO, VERDE e BLU. Ogni filtro permette  il passaggio della corrispettiva radiazione  luminosa bloccando completamente  la radiazione complementare. Ad esempio, un  filtro ROSSO permetterà  il  totale passaggio della  radiazione  rossa  impedendo  contemporaneamente  il passaggio della  radiazione BLU. In pratica, ogni filtro schiarisce il proprio colore e scurisce il suo complementare (vedi figura 27).  

Figura 27 ‐ Esempio di immagini BN utilizzando i rispettivi filtri colorati per il controllo del contrasto. 

Per  approfondire e  rendere più  comprensibile quanto  abbiamo detto  fin qui,  cerchiamo ora di 

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Parte 7 / I filtri ottici 

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illustrare  con  maggiore  chiarezza  le  caratteristiche  dei  singoli  filtri,  evidenziandone  il comportamento nelle diverse occasioni fotografiche. 

Filtro giallo Rende la curva di risposta spettrale della pellicola molto simile alla curva della visuale 

umana.  Questo  è  il  motivo  per  cui  molti  fotografi  lo  lasciano  permanentemente  montato sull'obiettivo. Nel paesaggio, provoca un moderato scurimento del cielo e una migliore leggibilità delle nuvole. Nel ritratto schiarisce  i capelli biondi e castano chiari, schiarisce moderatamente  la pelle e migliora l'equilibrio tonale. 

Filtro verde Nel paesaggio  schiarisce  i  toni della vegetazione e ne amplia  la gamma  tonale. Se a 

banda stretta, cioè denso, scurisce moderatamente  il cielo. Nel ritratto "abbronza"  la pelle e ne mette  in evidenza  i difetti: rughe, nei, efelidi. Scurisce  i capelli biondi  , rossi e castani. Adatto a ritratti  drammatici  di  vecchi  contadini  o  pescatori  dalle  mani  nodose  e  dai  volti  scavati; assolutamente vietato nel glamour! 

Filtro giallo-verde Unisce i vantaggi di entrambi ed è adatto soprattutto al paesaggio. L'effetto è più 

moderato che non con il filtro verde propriamente detto. 

Filtro arancio Marcato  scurimento  del  cielo.  Se  usato  nella  neve  tende  talvolta  ad  ingrigirla:  di 

questo occorre essere consapevoli nella determinazione dell'esposizione e nella  regolazione del contrasto. Scurisce la vegetazione di colore verde, ma crea effetti suggestivi in autunno, quando le foglie sono gialle, verdi e rosse. Nel ritratto schiarisce i capelli biondi, castani e rossi, schiarisce la pelle  e  ne  nasconde  i  difetti  (nei,  efelidi,  rughe).  Ideale  per  il  glamour  e  i  ritratti  femminili  in genere. 

Filtro rosso Drammatico  scurimento del  cielo.  La vegetazione appare nera  sulla  stampa. A volte 

però questa regola subisce un'eccezione clamorosa, rappresentata dal cosiddetto "effetto Wood". Usando filtri rossi molto densi, l'erba illuminata dal sole viene resa sulla stampa finale con toni di grigio molto chiari  (quando non addirittura bianchi),  invece che scuri come ci si aspetterebbe.  Il fenomeno,  che  sembra  dovuto  a  certe  proprietà  riflettenti  della  clorofilla,  ricorda  le  immagini ottenute con pellicola sensibile all'infrarosso. Nel ritratto il filtro rosso schiarisce i capelli castani e rossi e rende  la pelle  lattea, quasi evanescente.  Ideale nel glamour, unito a un sapiente uso del controluce e ad un filtro morbido. 

Filtro blu Nel paesaggio rende il cielo latteo e fa scomparire le nubi. Lo usavano a volte i fotografi 

di  architettura per evitare  che  la  visione di un  cielo  "interessante" distogliesse  l'attenzione dal soggetto principale. Nella  fotografia  in studio riduce  l'eccesso di rosso causato dalle  lampade al tungsteno. 

 

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Parte 8 / La composizione 

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Parte

8 La composizione Alla base di una buona immagine.  

LA COMPOSIZONE Abbiamo finora visto e compreso come riuscire ad ottenere un immagine tecnicamente perfetta. Il raggiungimento della corretta esposizione è già di per se un buon passo ed un buon risultato ma non è sufficiente per affermare che  l’immagine sia veramente ben riuscita. Se  l’immagine risulta mal  composta  il  risultato  finale  sarà  sicuramente  di  dubbio  interesse.  Realizzare  una  corretta composizione  richiede  la  conoscenza  di  regole  ben  precise,  quelle  regole  che  permetto  al fotografo di armonizzare  tutti gli elementi presenti nella  scena  inquadrata al  fine di ottenere  il massimo  messaggio  comunicativo.  Non  dimentichiamo  però  che  ogni  scena  dovrà  essere considerata  singolarmente. Non  sempre  sarà possibile quindi applicare una  regola ben precisa. Qui entra in gioco non solo la creatività ma anche l’esperienza del fotografo che, interpretando la scena con  il suo “sentire” compone al  fine di ottenere, ancora una volta,  il massimo messaggio comunicativo. Vediamo ora di analizzare nel dettaglio quei concetti che si pongono alla base della composizione dell’immagine. 

LA REGOLA DEI TERZI

Una delle regole più  importanti, alla base della composizione  fotografica, è  la  regola dei terzi. La tendenza di molti  fotografi  (sopratutto alle prime armi) è quella di centrare  il soggetto con una precisione maniacale  cercando,  nell’immagine,  una  totale  simmetria. Questo  concetto,  seppur logico  in apparenza, risulta essere  il più macroscopico degli errori fotografici. Per comprenderlo, bisogna partire da un presupposto importante: La percezione umana non è logica. Non tutte le zone di una stessa immagine vengono infatti percepite alla stessa maniera. La regola dei terzi consiste nel  suddividere  l’immagine  in  3/3  sia  orizzontalmente  che  verticalmente,  tracciando  due  linee parallele alla base e due linee parallele all’altezza dell’immagine (vedi figura 28). 

 

Figura 28 ‐ Suddivisione dell'immagine secondo la regola dei terzi. 

La zona centrale viene definita zona aurea mentre i quattro vertici del rettangolo centrale sono i 4 fuochi di  interesse.  La  chiave della  regola dei  terzi  sta nel  saper  correttamente  sfruttare questa 

zona  poiché  il  nostro  cervello  è  tendenzialmente  attratto  da  quei  soggetti  posti  nei  fuochi  di interesse. L’immagine va quindi composta ponendo il soggetto principale della nostra immagine in 

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Parte 8 / La composizione 

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corrispondenza di un  fuoco e ponendo un eventuale soggetto secondario  in corrispondenza del fuoco  diagonalmente  opposto.  Così  facendo  si  crea  una  ipotetica  linea  di  guida  diagonale  che rafforza  l’immagine  regalandole  maggior  dinamismo.  Non  solo,  l’occhio  dell’osservatore  sarà invisibilmente guidato ad osservare i 2 punti di maggior interesse della nostra immagine. E’ bene inoltre evitare di occupare tutti e quattro i fuochi poiché l’immagine finale risulterebbe caotica e priva di un soggetto dominante.   

APPLICHIAMO LA REGOLA

Una  volta  compreso  il  più  rudimentale  dei  concetti  compositivi,  vediamo  come  applicarlo  sul campo per ottenere, come sempre si vorrebbe, la massima espressività creativa. Uno dei migliori campi  di  applicazione  della  regola  dei  terzi  è  la  fotografia  paesaggistica,  soprattutto  in  quelle occasioni  dove  la  linea  dell’orizzonte  è marcatamente  visibile.  Errore  comune  è  il  posizionarla esattamente  nel  centro  dell’immagine.  Una  simile  composizione,  a  causa  dell’assenza  di  un elemento dominante tra cielo e suolo,  risulterebbe alquanto piatta ed inespressiva. Sfruttando la suddivisione  in terzi è possibile,  invece, dare  importanza a quella parte di  immagine scelta come elemento dominante. Tale scelta è, ovviamente,  a discrezione del fotografo anche se si preferisce sfruttare come dominante quell’elemento più ricco di dettagli o soggetti di rilevo. E’ sconsigliato, ad  esempio,  ricoprire  i  2/3  dell’inquadratura  con  un  cielo  azzurro  privo  di  nubi  poiché  una superficie  vasta e  cromaticamente uniforme distoglie  l’attenzione dell’osservatore dal  soggetto principale. Anche in presenza di motivi di riferimento verticali, l’applicazione della regola dei terzi non crea problemi. In questo caso saranno i limiti destro e sinistro della zona aurea i due punti da sfruttare per  il collocamento del nostro soggetto principale. Anche  in questo caso,  la scelta del lato destro o sinistro è a discrezione del fotografo. Ed anche  in questo caso possiamo fare delle utili  precisazioni.  Se  la  scena  è  dinamica  e  l’elemento  ripreso  è  qualcosa  in  movimento  o posizionato in una direzione ben precisa, è bene collocarlo in maniera tale che sia orientato verso la parte di  immagine più  ampia. Questo per  creare una  sorta di  ipotetico  spazio dove  l’azione ripresa possa  immaginariamente svolgersi creando  l’illusione di una scena  in pieno svolgimento. Anche  nella  fotografia  ritrattistica  la  regola  dei  terzi  permette  il  conseguimento  di  immagini maggiormente equilibrate. Posizionando la linea dello sguardo sul terzo superiore e cercando un allineamento con i due vertici diagonali della zona aurea, si ottengono immagini sicuramente più attraenti rispetto all’uso di una classica linea di simmetria. 

UNA REGOLA NON E’ UNA LEGGE

Per quanto utile e valida ai fini compositivi, la regola dei terzi è pur sempre una semplice regola. Questo significa che  il suo utilizzo è a discrezione del fotografo. Comporre  ignorando tale regola non significa necessariamente commettere degli errori. Ci sono  infatti svariate circostanze  in cui non è possibile o semplicemente non è necessario applicare tale regola. E’ comunque doveroso imparare ad utilizzarla  istintivamente. A seconda della circostanza, sarà  il “sentire” del fotografo che, automaticamente, allineerà tutti gli elementi dell’immagine in maniera armonica (sfruttando o non sfruttando tale regola). 

ALTRE REGOLE DI COMPOSIZIONE

La regola dei terzi non è la sola regola compositiva utilizzabile per realizzare una buona immagine. La diversa natura dei soggetti suggerisce anche l’utilizzo di diverse altri “concetti compositivi” che si basano  sulla percezione degli oggetti nello spazio.  

EQUILIBRIO La  composizione  più  semplice  da  realizzare  sfrutta  il  concetto  della  simmetria  bilaterale.  E’  la formula  compositiva  emozionalmente  meno  provocante,  e  l’immagine  finale  è  di  semplice 

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Parte 8 / La composizione 

Laboratorio sperimentale di fotografia  45

comprensione.  Lineare,  equilibrata,  se  ben  sfruttata  garantisce  comunque  immagini  di  buona qualità (vedi figura 29). 

 

Figura 29 ‐ Esempio di composizione a simmetria bilaterale. 

L’esempio  mostra  chiaramente  come  allineare  gli  eventuali  soggetti  al  fine  di  realizzare  una simmetria bilaterale ad asse bilanciato.  Il punto di forza di una simile composizione è dato dalle forte sensazione di stabilità è di prevedibilità che l’immagine finale riesce a trasmettere. In questo caso si dice che la composizione è LIVELLATA .  

PREFERENZE VISIVE

Come  già  detto  in  precedenza,  l’occhio  umano  non  percepisce  tutte  le  zone  di  una  stessa immagine alla stessa maniera. Questo concetto può essere convenientemente usato per dare più peso ad un determinato soggetto. Alle varie aree dell’immagine è legato, infatti, un diverso livello di “stress visivo16”. Un soggetto posto  in aree ad alto stress avrà sicuramente un peso maggiore rispetto  agli  altri  soggetti  dell’immagine.  L’occhio  umano  predilige  le  aree  inferiori  sinistre dell’immagine poiché trasmettono il minimo livello di stress. Al contrario, le aree superiori destre trasmettono il massimo livello di stress. 

Figura 30 ‐ Preferenze visive (aree di stress). 

Collocare  un  oggetto  in  un  area  ad  alto  livello  di  stress  visivo  significa  mettere in risalto quel determinato oggetto. 

LINEE E CURVE La composizione fotografica è un argomento di assai vaste proporzioni. Sono tanti gli accorgimenti creativi  che possono essere utilizzati per  rendere un  immagini  interessante  sotto ogni punto di vista. I metodi di composizione fotografica visti fino ad ora sfruttano, in linea teorica e generale, la logica della percezione visiva. Esistono  tuttavia altre  “tecniche”  (se così possiamo definirle)  che permettono  di  dare  al  soggetto  principale maggior  risalto, maggior  interesse.  In  questo  caso 

                                                            

16 Si parla di stress visivo quando  l’osservazione di un’immagine  trasmette una sensazione di  frustrazione e confusione nei confronti del 

soggetto osservato. 

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Parte 8 / La composizione 

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saranno proprio gli elementi ripresi a regalare alla composizione finale quel tocco di fascino in più. Stiamo  parlando  delle  linee  e  delle  curve.  Sono  i  più  importanti  elementi  di  composizione  che 

l’occhio  umano  percepisce  poiché  la  loro  iterazione  nell’immagine  influenza  in maniera molto marcata la psicologia del “sentire” l’immagine. Procediamo con ordine:  

• Linee orizzontali, verticali, diagonali e curve.  Le  linee  orizzontali  e  verticali  trasmettono  una 

sensazione  di  staticità  ed  equilibrio.  Utilizzate  congiuntamente  all’orientamento dell’inquadratura possono trasmettere sensazione di ampiezza (se orizzontali) o  imponenza (se  verticali).  Le  linee  diagonali  trasmettono  un  forte  senso  di  dinamismo.  Le  linee  curve tendono a presentarsi molto più aggraziate e danno all’immagine una maggiore sensazione di fluidità rispetto alle linee diritte. 

• Linee convergenti e di percorso. Le linee convergenti trasmettono un forte senso di profondità 

poiché normalmente rappresentano  le  linee di  fuga prospettica. Le  linee di percorso sono, invece, quelle linee immaginarie rappresentate, ad esempio, dal ripetersi di elementi uguali. L’occhio sarà inconsciamente portato a seguire tali linee. 

• Linee di divisione.  Sono  quelle  linee  che  delimitano  in  maniera  immaginaria  l’immagine 

suddividendola in compartimenti.  

Sono tutti concetti semplici ma ben radicati nel nostro modo di percepire un’immagine. Usati con ingegno permettono il conseguimento di buone immagini. 

 

Figura 31 ‐ Esempio di composizione basata sull'utilizzo della regola dei terzi. Le linee tratteggiate (convergenti) esaltano la sensazione di profondità. 

IL CONTRASTO VISIVO

Vediamo ora un altro modo per regalare interesse e forza ad un immagine. E’ una regola semplice che nasce dall’accostamento di due soggetti di opposta natura. Per contrasto visivo degli elementi, 

il  soggetto  principale  acquisterà  forza  ed  importanza.  Concettualmente  è  assimilabile all’ossimoro17 grammaticale solo che lo si interpreta visivamente. Esempi di contrasti visivi sono: SOLIDO – LIQUIDO, DURO – MORBIDO, RUMOROSO – SILENZIOSO, FERMO – IN MOVIMENTO, PICCOLO – GRANDE, 

                                                            

17 L'ossimoro è una figura retorica e consiste nell'accostamento di due termini in forte antitesi tra loro. Si tratta di una combinazione scelta 

deliberatamente o comunque significativa, tale da creare un originale contrasto, ottenendo spesso sorprendenti effetti stilistici.  

 

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Parte 8 / La composizione 

Laboratorio sperimentale di fotografia  47

ecc.  Questa  tecnica  è molto  espressiva  anche  se  non  sempre  di  facile  realizzazione.  Sta  alla bravura e all’estro creativo del fotografo riuscire a trovare o creare una condizione di contrasto per rafforzare il significato del soggetto principale. 

ALCUNI SUGGERIMENTI

Concludendo, vediamo ora una serie di piccoli accorgimenti utili per creare una buona immagine fotografica.  

• SEMPLIFICARE. Una buona  immagine è un  immagine semplice, dove  il soggetto principale è 

di  immediato  riconoscimento.  Un’immagine  troppo  piena  di  elementi  risulta  caotica  e trasmette un forte stato di frustrazione e disagio dovuto alla difficoltà nel trovare il soggetto principale. 

• COMPORRE CORRETTAMENTE.  Le  regole  per  realizzare  una  buona  composizione  sono 

molteplici. Utilizzare  la regola che meglio si addice al contesto ripreso significa rafforzare  il messaggio visivo. 

• COINVOLGERE L’OSSERVATORE.  Comporre  l’immagine  in  maniera  coinvolgente  per 

l’osservatore finale. La sensazione che dovrà percepire sarà quella di essersi trovato con noi al momento dello scatto. 

• USARE LE GIUSTE PROSPETTIVE. Osservare  accortamente  il  soggetto  per  comprenderne  gli 

elementi chiave. Utilizzare poi  la giusta prospettiva capace di mettere  in risalto tali aspetti. Buona regola è anche cercare le prospettive più accattivanti per l’occhio.  

• CAMBIARE PUNTO DI OSSERVAZIONE.  I  soggetti  cambiano  in  funzione  del  punto  di 

osservazione.  Scattare  da  più  punti  per  trovare  quello  che maggiormente  regala  forza  al soggetto ripreso. 

• CONTESTUALIZZARE IL SOGGETTO. Ogni immagine è una breve storia. Ed ogni storia necessita 

di  un  giusto  scenario  dove  svolgersi.  Cercare  di  includere  il  soggetto  in  una  contesto  più ampio  permette  di  rendere  più  efficace  il  messaggio  e  le  sensazioni  che  si  vogliono trasmettere. 

• OSSERVARE, OSSERVARE, OSSERVARE…  Osservare  attentamente  la  scena  all’interno  del 

mirino. Muovere  la  fotocamera per  trovare  l’inquadratura più accattivante ed aspettare  il momento migliore  prima  di  scattare. Osservare  attentamente  anche  lo  sfondo  ed  i bordi dell’inquadratura per evitare di includere elementi di disturbo. 

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CONCLUDENDO

Volevo ringraziare tutti coloro che, con pazienza, hanno dedicato tempo a questo mio lavoro. Mi auguro che le nozioni apprese possano accompagnarvi duranti i vostri scatti e, perché no, aiutarvi a  realizzare  immagini  sempre  migliori.  Spero  che  questa  breve  dispensa  riassuntiva  possa rappresentare un piccolo ma  valido  aiuto nel  comprendere  i  concetti  chiave della  fotografia.  Il mondo dell’immagine è un mondo troppo vasto per essere sintetizzato in poche pagine ma spero comunque  di  esservi  stato  di  aiuto  nel  comprendere  quelli  che  sono  i  rudimenti  di  questa splendida arte. Buon scatto a tutti!! 

Andrea Santinelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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