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La nascita della letteratura in volgare e l’affermazione del fiorentino trecentesco Rita Fresu [email protected] http://people.unica.it/ritafresu/

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La nascita della letteratura in volgare

e l’affermazione del fiorentino trecentesco

Rita Fresu

[email protected]

http://people.unica.it/ritafresu/

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dalla frammentazione linguistica medievale al

primato del fiorentino letterario

◦ IX-X sec. - 1375

unificazione, norma ed espansione dell’italiano

◦ 1375 - 1861

da lingua della letteratura a lingua d’uso nazionale

◦ 1861 – età contemporanea

I. BONOMI et alii, Elementi di linguistica italiana, Roma, Carocci, nuova ediz., 2010, p. 189. Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017

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il periodo che va dalla fine del Trecento all’unificazione politica (1861, proclamazione del Regno d’Italia). L’italiano si unifica come lingua letteraria comune, con la fissazione nel Cinquecento di una norma fondata sul fiorentino letterario trecentesco, e comincia a espandersi in una più ampia varietà di usi scritti (scientifici, tecnici, giornalistici), mentre negli usi parlati in contesti non ufficiali continuano a venire impiegati prevalentemente i dialetti.

I. BONOMI et alii, Elementi di linguistica italiana, Roma, Carocci, nuova ediz., 2010, p. 189. Linguistica italiana (R. Fresu)

Università di Cagliari a.a. 2016-2017

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Per incontrare i primi documenti letterari in volgare occorre aspettare la fine del XII secolo e i primissimi anni del XIII. Risalgono a questo periodo i primi esempi di poesia civile e lirica. Nella prima metà del XIII secolo le testimonianze di uso poetico del volgare si moltiplicano e si consolidano:

◦ con lo sviluppo della poesia religiosa (legata principalmente all’Umbria e all’esperienza di san Francesco d’Assisi e di Jacopone da Todi)

◦ e con la scuola poetica siciliana (sviluppatasi presso la corte di Federico II di Svevia), che importò in Italia temi e modi della poesia dei trovatori provenzali utilizzando un siciliano illustre fortemente venato da provenzalismi.

La poesia siciliana godette immediatamente di un enorme prestigio. Dante nel De vulgari eloquentia nell’elogiare l’esperienza dei poeti della scuola siciliana si spinse ad affermare che «tutto ciò che scrivono in poesia gli italiani si chiama siciliano» [Tavoni 2010]. La recente scoperta della traduzione in volgare settentrionale di una poesia provenzale in un documento della prima metà del XIII secolo dimostra che quest’ultima fu autonomamente recepita già nella prima metà del Duecento nel nord Italia, senza l’intermediazione siciliana [Bertoletti 2014].

La ricostruzione della veste linguistica originale delle poesie dei siciliani è assai problematica a causa dalla tradizione dei testi, giunti fino a noi grazie a trascrizioni fatte da copisti toscani, che modificarono profondamente la forma linguistica delle poesie. In effetti in seguito alla morte di Federico II (1250) e al successivo rapido declino della dinastia sveva, a cui corrisponde cronologicamente lo sviluppo socioeconomico dei comuni toscani, proprio la Toscana si afferma (insieme a Bologna) come centro di produzione e diffusione della poesia lirica.

M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 166-169 (con adattamenti). Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017

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Pir meu cori allegrari,

chi multu longiamenti

senza alligranza e joi d’amuri è statu,

mi ritornu in cantari,

ca forsi levimenti

da dimuranza turniria in usatu

di lu troppu taciri;

e quandu l’omu ha rasuni di diri,

ben di’ cantari e mustrari alligranza,

ca senza dimustranza

joi siria sempri di pocu valuri;

dunca ben di’ cantari onni amaduri.

[Stefano Protonotaro, ed. Panvini 1955, pp. 125-126]

Madonna, dir vi voglio

como l’amor m’à priso,

inver’ lo grande orgoglio

che voi, bella, mostrate, e no m’aita.

Oi lasso, lo meo core,

che ’n tante pene è miso

che vive quando more

per bene amare, e teneselo a vita!

[Giacomo da Lentini, ed. Antonelli 2008, p. 10]

Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017

Per allietare il mio cuore, che è rimasto molto a lungo privo di allegrezza e di gioia d’amore, ricomincio a cantare [a comporre poesie], perché facilmente l’indugio di essere rimasto troppo in silenzio si potrebbe trasformare in abitudine; e quando uno ha motivo di comporre poesie è proprio quello il momento di cantare e mostrare allegria, giacché la gioia, se non venisse dimostrata, sarebbe sempre di poco valore: dunque ogni innamorato deve proprio cantare.

Madonna, vi voglio dire come sono stato conquistato [preso] dall’amore, nonostante l’orgoglio e la sdegnosità che voi dimostrate nei miei confronti; il che non mi aiuta. Povero me! Il mio cuore prova tanta sofferenza che, poiché ama onestamente, vive quando muore, e considera vita questa dolorosa condizione.

M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, p. 167.

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Al precoce riconoscimento dantesco della dignità del volgare siciliano e alla successiva codifica del genere lirico effettuata da Francesco Petrarca dobbiamo il fatto che nella tradizione poetica italiana sono sopravvissute fino all’Ottocento parole estranee alle regole del fiorentino trecentesco come le forme monottongate còre, fòco o il condizionale del verbo essere nella forma saria (anziché sarei / sarebbe).

Molto importante l’eredità dei siciliani anche nelle forme metriche: il sonetto fu inventato da Giacomo da Lentini e la canzone, mutuata dalla tradizione provenzale, fu poi rivista e parzialmente rinnovata, ma rimase la forma metrica canonica della poesia italiana fino a Leopardi.

M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 166-169 (con adattamenti). Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017

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POESIA si era ispirata nei contenuti e nella lingua alla tradizione provenzale

PROSA (letteraria in volgare, che si diffonde più tardi rispetto alla poesia)

◦ tradizione latina medievale (in particolare per la retorica e la trattatistica)

◦ tradizione francese (per la narrativa, le scritture didattiche e le opere di divulgazione)

M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 168-169 (con adattamenti). Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017

Di conseguenza le prime opere in prosa volgare sono costituite da volgarizzamenti due-trecenteschi dal latino e dal francese. Grazie a essi, che non erano traduzioni come le intendiamo noi oggi ma dei veri e propri adattamenti culturali, non sempre fedeli all’originale, il pubblico del ceto medio mercantile, che non poteva accedere direttamente alla cultura latina, poté entrare in contatto almeno contenutisticamente

coi classici e con la letteratura religiosa in latino

col meglio della produzione d’oltralpe: il ciclo narrativo arturiano (Tristano riccardiano) e la trattatistica enciclopedica (appartiene a questo filone il Tresor di Brunetto Latini, scritto in francese ma molto presto volgarizzato in numerose varietà peninsulari).

Fra i primi esempi di prosa originale, cioè non direttamente riconducibile a modelli latini o

francesi, ricordiamo il Novellino, una raccolta di novelle in lingua fiorentina, che contribuì a fissare i canoni del genere novella.

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Nella panoramica sulle più antiche testimonianze scritte in volgare (secc. X-XII) si nota l’assenza di riferimenti a documenti toscani, fatta eccezione per pochi testi, come la Postilla amiatina (1087); il Conto navale pisano (fine XI-inizio XII); le Testimonianze di Travale (1158) e poco altro.

Per incontrare un testo realizzato a Firenze dobbiamo varcare la soglia del XIII secolo: al 1211 risale infatti il Libro di conti di banchieri fiorentini, un elenco con la registrazione di entrate e uscite di una compagnia mercantile. Rispetto ai testi precedenti (con l’eccezione del conto navale pisano) il primo testo fiorentino segnala un cambiamento di genere e di tipologia di scrivente: mentre i primi documenti del volgare si devono alla penna dei notai e sono frammenti inseriti in contesti latini, in questo caso a scrivere testi interamente in volgare sono degli uomini d’affari. In effetti la diffusione delle scritture in volgare fu affidata in Toscana prevalentemente a testi prodotti da mercanti.

La chiave per capire il fiorire della produzione in volgare in Toscana fu dunque la necessità di scrivere del ceto mercantile, vera e propria classe emergente dell’epoca. I mercanti avevano bisogno di scrivere molto: per tener conto degli acquisti e delle vendite, per comunicare coi propri soci residenti in altre regioni o all’estero, per trasferire denaro. Il genere di scrittura più praticato furono le lettere d’affari: da varie testimonianze sappiamo che i mercanti dedicavano una parte cospicua della propria giornata a sbrigare la corrispondenza; il pratese Francesco Datini, titolare di un’azienda paragonabile per dimensioni a un’odierna multinazionale, conservava scrupolosamente le lettere ricevute e la copia di quelle spedite e ci ha così lasciato un archivio che contiene oltre 150.000 documenti.

M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 169-171 (con adattamenti). Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017

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L’alfabetizzazione dei cittadini fu molto curata a Firenze e negli altri comuni della Toscana; in particolare i futuri mercanti venivano seguiti da insegnanti privati o frequentavano le scuole d’abaco, istituzioni laiche che per la prima volta imperniavano la didattica sull’uso del volgare anziché del latino e garantivano a chi le frequentava le competenze necessarie per leggere, scrivere e far di conto. Il latino o era del tutto assente dal percorso scolastico o se ne imparava quel tanto che bastava per poter leggere e capire un atto notarile [Palermo 1999; Manni 2003, pp. 18-31].

Domenico Lenzi, venditore di biade al mercato fiorentino di Orsanmichele e perciò noto come il Biadaiolo, scrisse un libro di memorie relativo agli anni 1320-1335 intitolato lo Specchio umano. Nel testo egli dichiara di essere

«grosso e idiota [ignorante] componitore […] ché latino mai mia lingua non apprese» [Branca 1986, p. XXIV].

La sua dichiarata ignoranza del latino non gli impedì però di essere un lettore della Commedia, di cui cita nel suo libro alcuni versi, a testimonianza di quanto fu precoce la fortuna di Dante nella sua città. Insomma nel ceto mercantile l’ignoranza della cultura «alta» non pregiudicava né la capacità di leggere e scrivere in volgare per scopi pratici, né quella di fruire della produzione letteraria volgare.

M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 169-171 (con adattamenti). Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017

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Sulla diffusione dell’alfabetizzazione a Firenze nella prima metà del Trecento abbiamo un’importantissima testimonianza in un noto passo della Cronica di Giovanni Villani. Lo storico, mercante egli stesso, descrive un sistema scolastico articolato su tre livelli:

◦ l’alfabetizzazione primaria (per apprendere a leggere e a scrivere);

◦ la scuola di «abbaco e algorismo [‘algoritmo’, cioè calcolo]» (per apprendere l’aritmetica e le tecniche di contabilità);

◦ infine un terzo livello costituito dalle scuole di «gramatica [latino] e loica [logica, filosofia]».

L’iter scolastico del futuro mercante si concludeva normalmente col secondo ciclo. Villani afferma che nel 1338 a Firenze vi erano da 8.000 a 10.000 persone coinvolte nel primo segmento formativo, da 1.000 a 1.200 nel secondo, da 550 a 600 nel terzo. Forse c'è da fare un po’ di tara alle affermazioni di Villani, che può aver esagerato per ragioni di orgoglio municipalistico; tuttavia, considerando che all’epoca la popolazione di Firenze era di circa 90.000 persone si capisce che la percentuale di cittadini alfabetizzata fosse davvero rilevante. Condizioni analoghe si riscontrano anche in altre città della regione, circostanza questa che ha indotto gli storici a parlare della Toscana trecentesca come di una regione «con la penna in mano» [Balestracci 1984, p. 15].

M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 169-171 (con adattamenti). Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017

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L’alfabetizzazione diffusa e la ricchezza economica del ceto mercantile non potevano non generare una domanda di cultura letteraria: si pensi al codice Vaticano latino 3793 che è stato trascritto proprio da mercanti per il loro uso e consumo. Il codice (conservato presso la BAV) conserva la raccolta più completa della nostra poesia delle origini, è stato realizzato a Firenze alla fine del XIII secolo ed è scritto con una grafia mercantesca (rimanda quindi all’ambiente socioculturale dei mercanti); contiene circa mille testi ordinati sia cronologicamente sia per forma metrica (le canzoni sono distinte dai sonetti) e dunque offre un repertorio degli autori più importanti delle origini, dai siciliani agli stilnovisti. L’allestimento di una simile raccolta organica, in forma di libro, a differenza della trascrizione occasionale di una o più poesie su fogli sciolti, è un atto che testimonia un salto di qualità nella consapevolezza della dignità della poesia in volgare: comporta un lavoro di selezione degli autori, di ordinamento delle poesie, di loro revisione linguistica (anche forte, come abbiamo visto nel caso dei siciliani), insomma la creazione di un canone. Dante, quando scrisse il De vulgari eloquentia, deve aver avuto occasione di consultare se non proprio questo codice, uno assai simile per struttura e ordinamento.

A partire dal Duecento la Toscana, prima col ruolo trainante di città come Pisa, Volterra e Siena e poi sempre più con Firenze come polo egemone, recupera lo svantaggio iniziale e assume per gradi un ruolo culturalmente dominante nell’Italia del tempo. Se poniamo come data iniziale del processo il 1211 (anno a cui risale il primo testo documentario fiorentino finora noto), vediamo che nel giro di pochi decenni la regione sarebbe diventata

◦ dapprima centro di diffusione della letteratura in volgare prodotta altrove;

◦ successivamente centro di produzione della letteratura più significativa (con Dante, Petrarca e Boccaccio come vertici).

M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 169-171 (con adattamenti). Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017

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Grazie all’opera di questi scrittori, che per la loro fama furono successivamente definiti le Tre Corone, iniziò un processo di diffusione del fiorentino fuori di Toscana che portò gli scriventi più colti a cercare di colorire in senso fiorentino le proprie opere.

Questa fase di espansione spontanea avrebbe costituito la base culturale per la successiva affermazione del fiorentino come lingua nazionale attraverso la codifica cinquecentesca.

s l i d e c o d i f i c a z i o n e c i n q u e c e n t e s c a

Senza voler negare l’importanza delle opere di Petrarca (che compì un processo di distillazione e della tradizione lirica precedente arrivando a costruire una grammatica della lingua poetica che sarebbe rimasta pressoché invariata per secoli) e di Boccaccio (che col Decameron offrì un modello per la prosa narrativa), l’affermazione spontanea del fiorentino fuori di Toscana fu in primo luogo dovuta all’ammirazione per l’opera di Dante.

Abbiamo esempi precocissimi che testimoniano che la Commedia era conosciuta e apprezzata fuori regione: addirittura quando Dante era ancora in vita alcune sue terzine furono trascritte dai notai bolognesi nei Memoriali e anche in altre regioni si trovano esempi di citazioni dantesche in manoscritti del primo Trecento.

Un altro indizio della fortuna della Commedia è la moltiplicazione dei testimoni manoscritti dell’opera sopravvissuti: circa trecento nel XIV secolo, oltre ottocento se si estende l’indagine al XV [Manni 2013, pp. 145-154].

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