La Luna Inglissira, frammento oroscopo in volgare Siciliano medievale
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Transcript of La Luna Inglissira, frammento oroscopo in volgare Siciliano medievale
UNIVERSITA' DEGLI STUDI “LA SAPIENZA” DI ROMA
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di studi in Letteratura Musica Spettacolo
La Luna Inglissira
Frammento oroscopo in volgare siciliano medievale
Relatore: Laureando:
Anna Teresa Paola Radaelli Aldo Scarpitta
Anno Accademico 2014-2015
1
Indice:
1. introduzione
2. il codice
3. contesto storico
4. il testo
4.1. il tema
5. l'analisi del testo
5.1. il vocalismo
5.2. il consonantismo
5.3. i mutamenti del sistema morfo-sintattico
5.4. lessico
6. conclusioni
7. bibliografia
2
1. Introduzione
Nella scelta dell'argomento di questa tesi hanno giocato un ruolo fondamentale il
territorio e la lingua a cui sono legato in prima persona e che dovrebbero
rappresentare per tutti i siciliani motivo di orgoglio. Dovrebbero, perché questa
parte della nostra cultura viene trascurata in maniera abominevole a causa di un
sistema scolastico che promuove la supremazia della lingua italiana. E ciò non
rappresenterebbe un aspetto negativo, se non avesse come conseguenza la totale
ignoranza degli italiani riguardo le proprie radici linguistiche. Sia per quanto
riguarda il linguaggio comune, in cui si deve convenire la presenza di evidenti
influenze dialettali, sia per quanto riguarda l'origine storica dell'italiano stesso.
Inutile sostenere infatti che esista una lingua nazionale al di fuori dei media e
della burocrazia (nonostante anche lì si è parlato di gergo burocratico o
burocratese, insieme al medichese). Dovremmo più che altro parlare dell'italiano
come lingua franca che ci permette di comunicare nonostante le varie inflessioni
regionalistiche che penetrano più o meno nel linguaggio di ogni giorno. Un
siciliano e un veneto parleranno in italiano tra loro ma quando si trovano a
comunicare con un corregionale, il loro linguaggio sarà contaminato sia a livello
lessicale che fonologico e morfologico. E ancora quando si troveranno a parlare
con un abitante della stessa provincia e poi città o paese, la parlata continuerà a
cambiare perché l'identità culturale dei due parlanti diventa sempre più vicina.
“Conoscere il dialetto e le culture locali non significa regredire a condizioni
subalterne o emarginate , bensì appropriarsi della propria storia e
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riconoscere la propria identità; perciò la scuola non deve parlare in dialetto ,
ma è bene che parli di dialetto!“
Sarino A. Costa
Diciamo subito che intendiamo parlare di lingua, dal momento che è a tutti noto
come la storia della parlata in Italia ha seguito, lungo il corso dei secoli, una
parabola che, partendo dai tempi della Magna Graecia, è giunta fino ai nostri
giorni; le tappe principali di tale percorso sono esattamente:
1) quella greca, che possiamo fare iniziare almeno dal V secolo avanti
Cristo;
2) quella latina, che fu profondamente influenzata da quella greca e
che possiamo individuare fin quasi al compimento del primo
millennio dopo Cristo, quando si andarono formando le lingue
neolatine, più o meno distanti da quella in proporzione alla distanza
logistica e burocratica da Roma;
3) quella odierna.
La lingua che chiamiamo italiana, in effetti, non è che il latino che si parla oggi,
laddove il latino classico altro non è che la lingua italiana che si parlava ai tempi
di Cicerone.
Inutile precisare dunque come il cambiamento repentino della lingua colta dal
latino al volgare toscano per merito dei tre grandi italiani del duecento (Dante,
4
Boccaccio e Petrarca) nella realtà linguistica del parlato e dei testi non letterari
sia stato tutt'altro che tale. Si è trattato di una graduale modificazione nei secoli,
attraverso numerose vicissitudini morfologiche, sintattiche e fonologiche. Il
siciliano può essere considerato come uno degli stadi intermedi che ha portato al
fiorire dell'italiano moderno e che è riuscito ad ottenere dignità letteraria e,
nonostante il governo italiano si trovi in disaccordo con UNESCO ed
Ethnologue, lo status di lingua.
Lu sicilianu nun è ricanusciutu comu lingua ufficiali di nudda banna, mancu
n Italia. Nun cc’è nuddu stitutu ufficiali, n Sicilia o fora, ca règula la lingua
nta nudda manera.
Lu Parramentu riggiunali nnipinnenti dâ Sicilia fici na liggi pû nzignamentu
dû sicilianu pi tutti li scoli, ma l’avanzati ntô sistema aducativu hannu statu
assai adaciati chi menzi fracchechi.
Da Wikipedia in Siciliano
La lingua siciliana si può allora definire il ponte di collegamento tra il latino,
mezzo linguistico usato da coloro che abitarono la penisola italica circa duemila
anni addietro, e l’italiano, mezzo linguistico usato da coloro che abitano la stessa
Italia ai nostri tempi.
Priva di senso risulta quindi l’affermazione di coloro che negano alla lingua
siciliana la dignità di lingua mentre la conferiscono, ad esempio, a quella sarda.
E ciò perché la lingua siciliana non ha differenze sostanziali con la lingua italiana
o addirittura con il latino. Come potrebbe sostanzialmente differenziarsi da
quella parlata in Italia essendo, la siciliana, la lingua che si parlava nella penisola
intorno al 1200/1250?
5
Scelta la lingua, dunque, si è cercato, per puro desiderio di originalità, di trovare
un argomento che potesse risultare interessante perché scarsamente trattato. La
ricerca ha portato l'attenzione su un frammento citato in meno di una pagina da
Stefano Rapisarda, nel suo Breve Repertorio Bibliografico Dei Testi Di Materia
Scientifica. La menzione ridottissima forniva dati irrisori ma ha permesso di
venire a conoscenza del testo di Giuseppe Polizzi di cui Rapisarda venne a
conoscenza e da quest'ultimo al testo originale, un frammento conservato in un
regesto poligrafo nella stessa biblioteca.
“Se ogni archivio in Italia avesse sofferto quanto questo ha sofferto, e
dovesse esser custodito, come questo finora lo è stato, né l'Italia avrebbe più
storia, né sarebbe più possibile farla per l'avvenire.”
Giuseppe Polizzi
La straordinaria cura italiana nel catalogare e nel preservare la storia di un paese
che di questo vive e su questo si adagia ha reso semplice risalire ad un tomo
conservato accuratamente su un latitante scaffale di una biblioteca siciliana.
Del testo si sa quasi niente. Ne abbiamo la datazione e la collocazione ma non
siamo a conoscenza dello scrivente. Troviamo nonostante tutto elementi di
enorme interesse linguistico. L'obbiettivo di questa tesi è cercare di delineare il
profilo dello scrivente attraverso gli indizi che il frammento ci fornisce.
Inizieremo quindi nel primo paragrafo descrivendo il codice, la sua collocazione
e cercheremo di delineare il contesto storico. Proseguiremo nel secondo con
l'analisi del tema. Nel terzo presteremo attenzione alla fonologia da cui
cercheremo di ricavare una collocazione geografica più precisa, passeremo alla
morfologia prestando particolare attenzione ai segni grafici del manoscritto
originale e alla grammatica, di cui discuteremo in particolare l'utilizzo della
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forma sintetica del futuro semplice, da molti addirittura considerata assente in
siciliano. La speranza è quella di riuscire a raccogliere dati sufficienti in un pur
ridotto testo in modo da ricostruire una forma di siciliano di cui abbiamo
scarsissime attestazioni e delineare il profilo di questo filologo medievale che ci
parla da lontano.
Se poi, anche per sbaglio, riusciamo a costruire un discorso interessante da cui
possono nascere ulteriori spunti di riflessione, tanto meglio.
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2. Il codice
Conservato alla Biblioteca “Fardelliana” di Trapani, il codice manca del
principio e si apre alla pagina 25. La rilegatura e la numerazione in numeri arabi
sono di molto posteriori alla stesura delle varie parti. Il codice è una raccolta di
eventi di cronaca d'Italia e d'Europa, stesi da diversi miniatori e in diversi stili ma
ordinati quasi sempre cronologicamente, fornendo una classificazione abbastanza
ordinata. Tra le varie parti si trovano delle note più recenti apposte dai possessori
per riempire le pagine rimaste in bianco. La rilegatura è grossolana e poco
attraente. La scrittura varia grandemente dal momento che varia l'argomento
trattato e ancora più straordinarie si presentano le note intercalate alla trattazione
cronologica. Per quanto il regesto sia conservato a Trapani, l'esatta origine
geografica resta sconosciuta.
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Nelle pagine che seguono il primo trattatello cronachistico in latino troviamo una
quantità di frammenti, forse delle accorte annotazioni dello scrivente, di vari
argomenti e registri.
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La datazione ci viene fortunatamente fornita dall'autore stesso con una
predizione astronomica a seguire:
“La luna inglissira anno 11 ind. M. CCCCLXVIIII”
Nessun indizio si ha a proposito dell'autore della divinazione astrologica ma
decisamente fortunata è la scelta che ci ha permesso la conservazione di un
frammento che, se al di fuori di un codice di livello medio-alto, sarebbe andato
perduto.
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3. Contesto storico
Prendiamo la datazione dello scrivente per corretta e facciamo risalire il
frammento al 1469, periodo di molto posteriore a quello fiorente della scuola
siciliana. Il periodo normanno si è concluso da tempo e il quattordicesimo secolo
ha visto l'ascesa al potere degli spagnoli d'Aragona. Solamente due secoli prima
alla corte imperiale di Palermo confluivano i migliori poeti del tempo, non solo
siciliani - come il “Notaro” Jacopo da Lentini, Cielo d'Alcamo, Guido delle
Colonne, messinese, Stefano Protonotaro, pure da Messina, Odo Delle Colonne -
ma artisti della parola provenienti dalle più svariate parti d'Italia e anche della
Provenza: basti citare Rinaldo d'Aquino, Jacopo D'Aquino, Giacomino Pugliese,
il capuano Pier Delle Vigne, segretario di Federico Secondo. Lo stesso
imperatore non disdegnava affatto di poetare in lingua siciliana, assieme ai suoi
figli, soprattutto Piero. Tra i provenzali potremmo citarne molti; basti ricordare
Giovanni di Brienne, divenuto re di Gerusalemme e poi di Costantinopoli e
suocero dello stesso Federico II. I numerosi provenzali che frequentarono la
Corte federiciana più o meno a lungo si adeguarono a rimare in volgare italiano
d'allora, cioè in siciliano, sia pure in grado diverso, in proporzione alla loro
maggiore o minore permanenza nell'isola ed alla loro maggiore o minore
conoscenza ed esperienza del volgare siciliano, usando anch'essi elementi arcaici
e latinismi per conferire al mezzo espressivo un livello artistico più alto.
Pertanto, la loro lingua non fu certo il siciliano “volgare”, popolare, ma quello
aulico, selezionato dai termini più idiomatici e arricchito da elementi tratti dalla
tradizione linguistica latina e da modernità provenzali: una lingua a cavallo tra
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quella antica (il latino classico) e la lingua dei nostri tempi (l'italiano).
“E poiché la sede dove allora tutti poetavano era la Sicilia, è avvenuto che
tutto ciò che i nostri predecessori hanno allora composto in volgare, si
chiami siciliano.”
E' la voce autorevole dello stesso Dante Alighieri che lo afferma nel De Vulgari
Eloquentia.
Lo stesso Dante Alighieri non avrebbe certamente potuto parlare di “dolce stil
nuovo” se non avesse ammesso che quello siciliano era da considerarsi il primo,
quello fondamentale, che aveva dato vita al nuovo, quando, dopo la battaglia di
Benevento e la conseguente caduta definitiva della dinastia federiciana, la Scuola
Poetica Siciliana esulò dalla Corte di Palermo e si spostò a Bologna, Arezzo,
Firenze.
"Ma dì s'i' veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
Donne ch'avete intelletto d'amore."
E io a lui: "I'mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando."
"O frate, issa vegg'io", diss'elli, "il nodo
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!"
(Purg. XXIV, vv. 49-57)
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Resta ancora incerta la vera fisionomia grafica della lingua siciliana di quel
periodo, essendo essa passata, purtroppo, attraverso il filtro rimaneggiatore dei
copisti, che evidentemente tesero a toscaneggiare.
I Siciliani che poetarono attorno al grande imperatore avevano realizzato una cultura
aperta all'Europa, intuendo per primi il concetto di unità di lingua come catalizzatore
del processo di unificazione politica e sociale. Essi diedero al Siciliano dignità di
lingua e lo inserirono tra le lingue romanze già affermate, riprendendo da queste
motivi e forme innegabilmente, ma non certo passivamente, in quanto la selezione da
essi operata fu il segno inconfutabile della loro originalità.
Il nostro frammento si colloca in un periodo posteriore e meno felice. Ci
troviamo come abbiamo detto nel periodo conclusivo della dominazione
aragonese in Sicilia e il 1416 vede salire al trono Alfonso V il Magnanimo.
Quest'ultimo governa per circa quarant'anni e si distinse per il coraggio e l'abilità
dimostrata in politica. Valoroso mecenate, fu il simbolo dei successi ottenuti nel
Mediterraneo occidentale. Riunendo sotto la stessa corona Sicilia, Sardegna e
regno di Napoli, Alfonso V si meritò per primo il titolo di rex utriusque Siciliae
(re delle Due Sicilie). L'anno della stesura del nostro frammento, il 1469, vede al
potere Giovanni II d'Aragona, succeduto al trono nel 1458 e su cui resterà fino al
1479. Questi, sostenitore di una linea politica iberica, fece divenire la Sicilia una
provincia dei domini spagnoli, mentre non intralciava il governo di Napoli,
andato in successione al nipote Ferdinando I di Napoli (Don Ferrante, 1458-94),
figlio naturale di Alfonso V. La definitiva decadenza del meridione si avrà nel
1492, sotto Ferdinando II il Cattolico, con l'espulsione degli Ebrei, che costituì
un grave pregiudizio per l'economia siciliana, e il definitivo spostamento dei
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traffici marittimi dal mediterraneo all'atlantico, già iniziato con l'ostruzionismo
aragonese delle rotte verso levante e con la caduta di Bisanzio nel 1454.
E dato il tema astrologico del frammento, è interessante notare come un'altro
evento di poco successivo al 1469 avrebbe sconvolto da Sicilia. Dopo un
tentativo fallito di estendere dalla Spagna alla Sicilia il Tribunale
dell’Inquisizione nel 1481, Il 6 ottobre 1487 Ferdinando II il Cattolico creò il
Tribunale dell'Inquisizione e fu inviato in Sicilia il primo inquisitore delegato,
Frate Agostino La Pena, la cui nomina fu approvata da Papa Innocenzo VIII. In
Sicilia operavano già gli inquisitori apostolici dell’Inquisizione della Santa Sede
anche se con modalità meno rigorose rispetto a quelle dell'Inquisizione Spagnola.
Per quanto riguarda Trapani, sede della Biblioteca Fardelliana e luogo di
ritrovamento del frammento, durante il XIV e il XV secolo la città si ingrandì e
divenne il centro economicamente e politicamente più importante della Sicilia
occidentale. Nel 1459, da semplice Terra diventava Civitas. Nel 1478,
Ferdinando il Cattolico concesse alla città il titolo di Invittissima per via «delle
gloriose resistenze fatte sempre ai nemici del regno». Nel 1492, a causa della
persecuzione antisemita della Spagna che causò anche agli ebrei della fiorente
comunità di Trapani di dover abbandonare la Sicilia e il drastico calo di traffici
commerciali lo stesso anno, distrussero l'economia della città.
Il dialetto siciliano vive il suo primo momento di splendore durante il Trecento
ed il Quattrocento, quando ha l’autonomia sufficiente nei confronti di modelli
esteri, una volta superato il periodo di influenze occitaniche della Scuola
Siciliana ed ancora immune dalla forte vampata toscaneggiante che si
impadronirà dell’Isola a partire dei primi anni del Cinquecento. In meno di
duecento anni, la Sicilia si converte nel palcoscenico dell’ascesa e declino di una
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lingua; un percorso che non è altro che lo specchio della situazione sociale e
politica dell’isola. Infatti, i Vespri Siciliani furono la conseguenza di una voglia
di libertà ed autonomia che, sebbene rapidamente soffocata dall’assillante
situazione politica, almeno riuscì a mettere in moto la coscienza linguistica della
regione.
Durante il secolo XIV il dialetto siciliano comincia ad occupare la scena
linguistica siciliana non solamente nell’ambito della lingua letteraria – ambito
che durante il Duecento era stato colmato dalla produzione poetica e che solo nel
Trecento vede nascere i primi frutti narrativi – ma comincia anche a sostituire il
latino – come pure il catalano – come lingua cancelleresca. Alla dignità letteraria
già raggiunta dalla Scuola Poetica Siciliana, si aggiunge la rispettabilità che gli
conferisce il suo uso nei documenti ufficiali.
Dalla seconda metà del Trecento cominciano a redigersi in siciliano i ‘capitoli’
che regolavano il commercio e le tasse, ad elaborarsi le ‘ordinazioni’ e le
‘pandette’ (leggi civili) sui costumi civili, e per tanto, si comincia a scrivere in
siciliano anche negli ambiti privati. Accanto alla produzione letteraria, un poco
ristagnata rispetto al secolo precedente, e alla nuova produzione burocratica in
continua crescita, è da annoverare la nascita di una ricca tradizione epistolare,
che solamente negli ultimi decenni del Quattrocento sarà sostituita dall’adozione
del toscano.
Finora, gli studi linguistici sul siciliano antico hanno preso in considerazione
soltanto quella parte più ‘elevata’ della produzione medioevale, vale a dire, le
grandi opere narrative di argomento storico o religioso che dalla metà del secolo
scorso sono state pubblicate con molta cura dal Centro di Studi Filologici e
Linguistici Siciliani. Una produzione che si caratterizza soprattutto per una certa
‘uniformità’ della scripta che a volte è venuta a confondersi con il livello
15
diatopico della lingua. I testi ‘non letterari’, ossia, i testi burocratici, privati o
anche religiosi, appartenenti a quelle tipologie testuali che ci informano
veramente del grado di uso di una lingua, finora sono stati praticamente
trascurati. E stato realizzato un immenso lavoro di raccolta di testi ma, per così
dire, continuano ad essere catalogati come ‘produzione minore’, dal momento
che sembra che non possano offrire dati linguistici di rilievo. Nonostante ciò, si
tratta di un’ampia collezione di testi che completano e confermano i dati estratti
dall’analisi dei cosiddetti ‘testi letterari’ del siciliano antico.
Al tempo della stesura del frammento, intorno al 1469, il siciliano ha già perso
dunque il primato di lingua poetica nazionale per lasciare posto al toscano.
16
4. Il testo
Edizione diplomatica:
La persuna sua si arrassirà di mali. Sarrà amata. Pinsirà a parlari supra li
altrj gentj. Li hominj non si suspittirannu supra di illu. Avrà una muglerj chi
per manu sua trattirà elemosina supra lu maritu. Nexirà di lu so locu et altru
locu oy ad altra casa nixirannu per illu malj di gentj. Li soj amichj di li...
invidia per trj annj. Et dipoi di tuttu quistu truvirrà multi beni et piglirà
muglerj et di la muglerj farrà masculi et fimminj, et niscirannu di soy rinj
figloli di grandi condittionj, cum agentj di condittionj lu so andarj. Et li soy
palori sunnu accepti. Et pena di dogla di testa oy di dogla di brazu et a
l'ultimu sarrà grandi beni, et sarrà la finj sua a gran pussanza di munita, di
gran possessioni. Et la morti sua sarrà di homu di discrettioni e homu di
grandi fidi sarrà. Et cum nulla malittia in corj, di farj benj cum tuttj. Et
cadirà malatu a li undichj annj, a li vintisej, a li trentasettj et a li ottantasettj
annj. Et rompirassi unu ossu et sanirà.
Edizione originale:
Lapersuna sua si arassira di mali. Sara amata. Pinsira aparlari supra li altrj
ge tj. Li hominj no sisuspittiranu supra di illu. Avra una muglerj chi per
manu sua trattira elemosina supra lumaritu. Nexira di lu so locu et altru locu
oy ad altra casa nixiranu per illu malj di ge tj. Li soj amichj di li... invidia
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per trj annj. Et dipoi di tuttu quistu truvira multi beni et piglira muglerj et di
lamuglerj fara masculi et fiminj, et nisciranu di soy rinj figloli di grandi
condittionj, cu agentj di condittionj lu so andarj. Et li soy palori sunu
accepti. Et pena di dogla di testa oy di dogla di brazu et a lultimu sara grandi
beni, et sara la finj sua a gra pussanza di munita, di gra possessioni. Et la
morti sua sara di homu di discrettioni e homu di grandi fidi sara. Et cu nulla
malittia in corj, di farj benj cu tuttj. Et cadira malatu a li undichj annj, a li
vintisej, a li trentasettj et a li ottantasettj annj. Et rompirassi unu ossu et
sanira.
L'intento del nostro studio è quello di identificare le caratteristiche particolari del
frammento in nostro possesso. Caratteristiche dovute non solo al genere e alla
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collocazione del testo ma anche all'area linguistico-geografica in cui il testo è
stato ritrovato e, possibilmente, composto.
Ricordiamo infatti la presenza di un'altra lingua appartenente al ceppo indo-
europeo presente in sicilia occidentale ben prima del latino: l'èlimo.
Lingua affine al greco arcaico, di cui utilizza l'alfabeto, ne abbiamo ad oggi solo
pochissimi frammenti e per lo più attestazioni numismatiche, rimane un substrato
fondamentale nell'area geografica presa in considerazione. Successivamente
approfondiremo la situazione linguistica della sicilia pre romana.
Dalle conclusioni linguistiche speriamo poi di riuscire a delineare il profilo dello
sconosciuto scrivente.
19
4.1 Il tema
Il frammento è una predizione divinatoria che sembra rappresentare un tema
poco trattato e poco diffuso in siciliano antico. Nonostante questo abbiamo
trovato precedenti anche molto importanti e legati ad un momento linguistico che
avrebbe determinato l'evoluzione di quella lingua che adesso chiamiamo Italiano.
Tra i numerosi poeti dalla Sicilia, dalla penisola e persino dalla Provenza, era
infatti presente Michael Scot, italianizzato in Michele Scoto. Magister, traduttore
arabo-latino, filosofo, enciclopedista, astrologo, scienziato, nacque intorno al
1190; forse discendente della famiglia degli Scott di Balwearie presso Kirkcaldy
nel Fife. Fu attivo a Toledo, Parigi, Roma, Bologna, Salerno, Melfi, Palermo e
questo percorso permette di cogliere il significato del progetto scientifico
federiciano, che dal principio della 'corte itinerante' sviluppò l'idea di una rete di
relazioni culturali mediterranee nonché tra l'Europa settentrionale e il Vicino
Oriente.
La vita di Scoto fu accompagnata da leggende che attesterebbero le sue abilità di
mago. In effetti fu noto per le sue capacità divinatorie e per questo motivo figura
tra i personaggi danteschi della Divina Commedia: nell'Inferno (XX, 116 s.).
Michele Scoto è definito come colui "che veramente / delle magiche frode seppe
il gioco". Questo passo è preso ad esempio da Jacopo della Lana per sottolineare
come le arti magiche fossero utilizzate da Scoto per allietare la vita del re di
Sicilia: "qual fu indivino dell'imperador Frederico; e ave per mano la arte
magica, sí la parte della coniurazione como eziandeo quella delle ymagini: delle
quale si rasona che stando a Bologna e uxando cum genti homini e cari, e
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manzando cum s'usa tra loro im brigada a casa l'uno de l'altro, che quando venía
la volta a lui d'aparchiare mai non facea fare alcuna cosa de cusina in soa casa,
ma avea spirti a lo comandamento, che 'l facea tôrre lo lesso della cusina del re
de França, el rosto de quella del re d'Ingelterra, le tramesse de quel de Cecilia, lo
pane d'un logo, el vino d'un altro; confeti e frute donde li piaxea" (Jacopo della
Lana, 1924, I, p. 507A).
Dai testi di Scoto si delinea un progetto che avrebbe dovuto introdurre il lettore
alla conoscenza dell'astrologia e delle relazioni tra microcosmo e macrocosmo.
Quest'opera influenzò lo Speculum doctrinale (Lib. I, cap. I) di Vincenzo di
Beauvais e i libri III e IV del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico ove
sono riprese le argomentazioni di M. sull'anima. Il piano del Liber Introductorius
fu esposto dallo stesso autore: un Proemio seguito dal Liber quattuor di-
stinctionum, dal Liber Particularis e dal Liber Phisionomiae. Il Proemio riporta i
quesiti presenti già nell'Elucidarium di "Honorius Augustodunensis" della prima
metà del XII sec. (le cause dell'agire divino, la disposizione del Cielo e della
Terra, il ruolo degli animali e dell'uomo, l'attività degli angeli). A questi temi il
nostro aggiunge un'esaltazione dell'astrologia: questa scienza è definita inferiore
solo alla teologia. Dopo l'introduzione, prevalentemente basata sulle fonti
dell'enciclopedismo del XII sec., appare l'organizzazione del Liber quattuor
distinctionum con i 'nuovi' temi astrologici e filosofici. Nelle quattro parti si
affrontano questi argomenti: 1) le proprietà dei pianeti e il loro influsso sull'agire
dell'uomo; 2) l'armonia musicale; 3) i problemi connessi all'utilizzazione
dell'astrologia e le risposte da offrire ai quesiti proposti dai clienti; 4) la natura e
le qualità dell'anima umana.
La pratica divinatoria per la quale Federico nutrì il massimo interesse è infatti
l'astronomia-astrologia. L'oggetto delle due discipline non coincide del tutto con
quello attuale: nel medioevo la prima si occupa dello studio 'fisico' delle masse e
dei moti dei corpi celesti, la seconda dell'influenza che i corpi celesti producono
21
sul mondo sublunare, ma è una distinzione che nella pratica è poco rigida e che
rende i due termini generalmente sinonimi e permutabili. L'interesse
dell'imperatore nei confronti della scienza astronomica è ribadito da molte
testimonianze , a cominciare da quelle di Michele Scoto. In tre occasioni sono
citati nel Liber introductorius episodi relativi all'imperatore Federico, tutti di
carattere astrologico: Federico di sottopone a salasso che non riesce per la
negligenza di barberius, il quale sceglie male il momento cosmico (electio),
trovandosi la Luna nel segno dei Gemelli che è posizione sfavorevole ai salassi,
tagli e incisioni (così anche nel breve testo astrologico accluso in due manoscritti
del Liber particularis: “Brachia non non minuas cum lustrat luna gemello
/Unguibus aut manibus ferrum vel cura negetur [non salassare le braccia quando
la luna splende in Gemelli, e si tenga lontano il ferro dalle unghie o dalle mani]”;
in Morpurgo, 1983, p. 13); Federico riceve dallo Scoto il consiglio di consultare
l'astrologo quando la Luna è in fase crescente, Federico mette alla prova lo Scoto
circa la sua capacità di effettuare calcoli astrologici (Caroti, 1994, pp. 139-140).
Quest'ultimo episodio è citato anche nella Cronica si Salimbene de Adam ove si
racconta l'aneddoto della misurazione del cielo e del sollevamento del soffitto del
palazzo. L'imperatore vuole accertarsi delle abilità scientifiche dello Scoto e
decide di metterlo alla prova. Federico II chiama dunque Michele Scoto a
misurare la distanza tra la cima di un campanile e un astro in cielo. Scoto
esprime la sua valutazione della distanza. Dopo qualche tempo Federico fa
ripetere la misurazione ma dopo aver fatto abbassare leggermente il pavimento.
Scoto misura nuovamente la distanza e si accorge che la distanza risulta, sia pur
di poco, aumentata (Salimbene de Adam, 1966, p. 515).
Si può qui ricordare anche una fonte meno nota, come un sirventese del poeta
occitanico Guilhem Figueira, Un nou sirventes ai en cor que trameta, nel quale si
gratifica Federico con un omaggio oroscopico: “en bon ponh fon natz et en bona
planeta / nostr'emperador [il nostro imperatore è nato in un buon momento
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astrale e sotto un buon pianeta]” (vv. 25-26) e gli si riconosce un sapere
astronomico-astrologico, al “tan sabens d'artz e d'estronomia / qu'el ve e conois
enans so que ave [tanto sapiente dell'arte d'astronomia, da vedere e conoscere in
anticipo ciò che accade]” (vv. 35-36; E. Levy, Guilhem Figueira, ein
provenzalischer Troubadour, Berlin 1880, p. 7), ove estronomia sta
evidentemente per astronomia iudiciaria, dato che ciò che più preme
all'imperatore è cercare di antivedere il futuro. In ciò Federico II non fa altro che
applicare un precetto del Secretum secretorum, importantissimo speculum
principis attribuito ad Aristotele, che secondo la recente teoria di Agostino
Paravicini Bagliani (1994) e Steven J. Williams (1994) avrebbe avuto nella Curia
federiciana uno dei canali di diffusione nell'occidente latino. “Non fare nulla
senza astrologi” è il consiglio che il Secretum secretorum fornisce ai reggitori
([Pseudo-Aristotele], 1920, p. 61).
Curioso ma poco utile un riferimento al luogo del ritrovamento. La città di
Trapani, infatti, vanta tra i suoi monumenti la così chiamata Torre Oscura, una
delle originali cinque torri murarie della città. La torre sfoggia un pubblico
orologio astrologico e lunare tra i più antichi in Europa e testimonianza
estremamente rara in Italia meridionale.
Costruito nel 1570, 100 anni dopo la stesura del frammento, rappresenta per noi
niente più di una curiosa coincidenza.
23
5. L'analisi del testo
Purtroppo le liriche della scuola federiciana ci sono giunte toscanizzate dai
copisti e non abbiamo testimonianze dirette di quel siciliano. Faremo quindi
riferimento alla eccellente grammatica di Messina che si basa sui sonetti del Meli
e del Martoglio e che tra tutti i trattati in merito ci sembra quello più completo e
con la più vasta bibliografia. Tali componimenti in siciliano sono di molto
posteriori al frammento che stiamo analizzando ma rappresentano il più
grammaticamente corretto esempio che abbiamo in quella lingua. Cercheremo
quindi di ricostruire le regole usate in quella fase intermedia tra la grande scuola
poetica del 200 e i componimenti sette e ottocenteschi del Meli e del Martoglio.
Punto di interesse sarà quindi la ricostruzione della lingua siciliana in quel
periodo, dal momento che il momento linguistico in cui viene steso è
caratterizzato da estrema scarsità di testi considerati letterari.
24
5.1. Il sistema vocalico
Come sappiamo il sistema vocalico del siciliano si evolve direttamente dal latino
parallelamente al vocalismo panromanzo ed è da questo distinto. Il vocalismo
panromanzo vede l'evoluzione dei dieci fonemi latini nei 7 panromanzi, dove
distinguiamo una e e una ε, una o e una ɔ. Per quello siciliano invece parliamo di
sistema pentavocalico, in cui non troviamo distinzione tra o aperta e chiusa o tra
e aperta e chiusa. Vediamo tutte le vocali anteriori dare i e tutte le posteriori dare
u, il che risulta in cinque vocali.
Il sistema vocalico del siciliano presenta tre gradi di apertura e cinque fonemi per
le posizioni toniche, e due gradi di apertura e tre fonemi per le posizioni atone.
L’evoluzione del vocalismo pentavocalico del siciliano dal latino volgare viene
tradizionalmente rappresentata secondo lo schema seguente (cfr. Tagliavini 1962,
Rohlfs 1966, Varvaro 1988):
25
Si tratta di un sistema caratterizzato dalla fusione delle vocali alte con le vocali
medie lunghe, per cui I, I, E convergono in i e O, U, U in u. Esempi classici sono
filu < FILU, nivi< NIVE, tila< TELA, e vuci < VOCE, nuci < NUCI, luna <
LUNA (cfr. Rohlfs 1966: 10, Varvaro 1988: 719). Per le posizioni atone si assiste
ad un’ulteriore neutralizzazione che porta alla perdita dell’opposizione tra i ed e
e tra u ed o a favore delle vocali alte: a, i, u sono dunque gli unici fonemi che
possiamo trovare in sede atona.
Nel testo il vocalismo siciliano ha già trovato ovviamente pieno sviluppo dato
che la lingua siciliana è affermata da già due secoli.
Troviamo esempi come Persuna < PERSONA, suspittari < SUSPECTARE e
amari < AMARE.
E' assente l'accento grafico. Abbiamo dunque sarra (sarrà), avra (avrà), arrassira
(arrassirà), farra (farrà) e via dicendo.
Giorgio Piccitto, in un intervento apparso in ORBIS, Bullettin international de
Documentation linguistique, (Tome VIII, N°1, 1959, pp. 183-199) mette in
evidenza come i dialetti siciliani, nonostante la loro frammentazione, siano
accomunati alla base da questo sistema vocalico; d’altra parte propone una nuova
e fondamentale classificazione dei dialetti, distinti in orientali e occidentali
secondo il seguente schema:
26
• Siciliano occidentale: Palermitano
Trapanese
Agrigentino centro-occidentale.
• Siciliano centro-orientale:
Centrale: Parlate delle Madonie
Nisseno-Ennese
Agrigentino orientale.
Orientale: Parlate del sud-est
Parlate del nord-est
Catanese-Siracusano
Messinese.
• Parlate gallo-italiche
La Sicilia presentava sul suo territorio diverse popolazioni, ognuna con una
propria lingua. Possiamo schematizzare ciò nel modo seguente: le coste avevano
insediamenti punici da Lilibeum (Marsala) a Solunto, ossia nella parte
occidentale; i greci occupavano le coste da Himera (Termini Imerese) a
Selinunte; l’interno era siculo nella parte orientale, sicano ad occidente, elimo
nell’area di Trapani.
I SICANI occupavano l’area che va dal Belice alla linea Enna – Gela. Poco
sappiamo della loro lingua. Alcuni li identificano con i Liguri, per il fatto che il
nome di Segesta trova corrispondenza con Sestri Levante (Segesta Tigulliorum),
Erice nel ligure Erycis portus (oggi Lerici) e Entella nell’omonimo fiume della
27
Liguria. A questi toponimi si aggiungono alcune parole dialettali comuni in
Liguria e in Sicilia, come alastra (ginestra).
I centri elimi sono Erice, Segesta, Entella e altri. Essi erano legati ai cartaginesi e
antagonisti dei greci; la loro lingua era di origine indo-europea (anatolica).
I PUNICI o CARTAGINESI dominavano ad occidente del fiume Platani e del
fiume Torto. Loro città furono Selinunte, Eraclea Minoa e Thermae Himeraeae.
Come lingua il punico continuò ad essere parlato anche sotto la dominazione
romana.
I SICULI hanno finito col dare il nome a tutta l’isola, ne occupavano la parte
orientale, provenivano dall’Italia e la loro lingua è della stessa famiglia del
latino.
I GRECI avevano in Sicilia vere colonie di insediamento, cioè trasferimento di
ellenofoni che vi si insediavano stabilmente: Naxos, Messina, Catania, Siracusa
sullo Ionio; Akragas, Gela, Camarina ed altri centri sul Mediterraneo. La
colonizzazione greca è stata quella che meglio ha conservato le sue tracce ed è
verosimile che al momento della conquista romana l’isola si presentava come
un’area omogenea di cultura greca.
Tale distinzione si basa sulla presenza o sulla mancanza del dittongo
metafonetico delle originarie E e O come conseguenza dell’influsso di I ed U
finali; lo studioso considera questo fenomeno il primo ed importantissimo
elemento di distinzione per le parlate siciliane.
Nel gruppo siciliano occidentale, in particolare nel dialetto palermitano e
dintorni, vige un tipo di dittongo detto “incondizionato”: cioè lo sviluppo
sistematico di Ie e Uo da qualsiasi e ed o. Il trapanese e l’agrigentino centro
occidentale, invece, non presentano alcun fenomeno di dittongazione.
Il Piccitto, già nel precedente studio, avanza l’ipotesi che la mancanza della
metafonesi nel siciliano occidentale sia dovuta al sostrato sicano, di tipo molto
28
diverso dal latino e, come già detto in precedenza, non di origine indoeuropea;
analogamente in toscana l’assenza della metafonesi sarebbe dovuta al sostrato
etrusco, tipologicamente più vicino all’antica lingua dei sicani: «Ma il fatto più
importante, anche perché il più antico, è senza dubbio l’individualità particolare
che a me sembra si debba riconoscere al siciliano occidentale, per la mancanza
del dittongo metafonetico, che lo distacca da tutti gli altri dialetti italiani centro-
meridionali. Potrebbe anche non essere un puro caso che la Sicilia occidentale sia
oggi divisa nel dialetto da quella centro-orientale, come un tempo nell’Isola i
Sicani erano divisi dai Siculi: anche se l’attuale isoglossa del dittongo
metafonetico non coincide esattamente con la linea, del resto non compiutamente
determinabile, che nell’antichità divideva i due popoli, tuttavia si avvicina ad
essa con notevole approssimazione e oltretutto ne riproduce l’andamento
generale, anche dopo le oscillazioni che ha potuto subire attraverso i secoli. Non
mi pare che si possa considerare accidentale il fatto che la metafonesi, a parte le
alterazioni seriori e la scomparsa secondaria in qualche zona, si manifesti nel suo
pieno vigore appunto e solo su quella parte del territorio italiano in cui il latino si
sovrappose ai linguaggi italici o comunque affini al latino stesso, e manchi
invece là dove esso si sovrappose direttamente ai linguaggi non indoeuropei. Il
tipo più arcaico, come nel toscano, si sarebbe anche qui conservato là dove la
differenza fra l’antico sostrato e il latino vittorioso, netta e profonda, impediva i
fenomeni di ibridismo che sogliono avvenire nella simbiosi di due linguaggi
relativamente vicini fra loro, quando, più che il passaggio diretto da una lingua
all’altra, avviene un processo di graduale avvicinamento e di compenetrazione»
(PICCITTO, Op. cit., p. 34).
L'assenza del dittongamento metafonetico nell'area elima, lingua di origine indo-
europea, del trapanese entra in contrasto con l'analisi di Piccitto, nonostante il
sicano abbia potuto comunque aver influenzato l'area in cui la presenza elima si
trovava in minoranza. Troviamo in dialetto trapanese ventu, porcu (dialetti
29
centro-orientali: vientu, puorcu) e addirittura attestazioni di chesa insieme al più
diffuso chiesa.
Nel testo troviamo un solo esempio di dittongamento in quisto < ECCO-ISTUM
ma dobbiamo tener conto dell'influenza spagnola.
E' del tutto plausibile infatti che il morfema qui- esprima il fonema duro K come
nello spagnolo que o querer, vicino alla voce siciliana “chisto” e la derivazione
sia morfemica che fonetica dell'italiano “questo” con dittongamento spontaneo
sembra molto meno probabile.
Mi sembra dunque logico dedurre che l'assenza del dittongamento metafonetico
nel nostro frammento sia da imputare all'area geografica e linguistica che risulta
quindi quella trapanese.
30
5.2 Il consonantismo
La palatalizzazione
La /j/, scritta i o j, era l'unica palatale del sistema latino e occorreva all'inizio di
parola (IAM, IOVEM ecc) o tra vocali (MAIORE ecc). Dunque la lingua si
trovava ad avere moltissime /j/ dopo consonante. Queste semivocali hanno
modificato senza eccezione la consonante che precedeva, determinando la
formazione di una serie di nuove consonanti palatali.
Troviamo risultati per il nesso LJ in muglerj < MULIER, figlolu < FILIOLUS e
dogla < DOLIA dove -gl- esprime già la laterale palatale. Per il nesso KJ in brazu
< BRACCHIUM e per il nesso TJ in discrettionj < DISCRETIONEM e
condittionj < CONDITIONEM.
Notiamo infine pigliari < PILARE che presenta già la vocale di appoggio i a
differenza delle altre uscite della palatale per il passaggio dal provenzale
PILHAR.
In latino la semivocale w in origine occorreva soprattutto nelle labiovelari come
ANTICUA, AQUA, LENGUA, QUINQUE, SANGUINE.
Le semivocali /w/ prodotte dal fenomeno di risoluzione degli iati in italiano
hanno di norma raddoppiato la consonante precedente, senza provocare i
complessi fenomeni prodotti da /j/; nelle altre lingue i fenomeni sono meno
31
regolari e in siciliano abbiamo risultati come vosi < VOLUI, jinnaru <
JANUARIU e appi (o eppi) < HABUI. Il verbo aviri è presente nel testo ma solo
coniugato al tempo futuro e quindi non risulta utile per l'analisi della
semivocale /w/.
La lenizione
Un altro importante fenomeno del consonantismo romanzo è stata la lenizione
('indebolimento'), che ha colpito le consonanti intervocaliche nella penisola
iberica, in Francia e nell'Italia settentrionale (fino alla linea La Spezia-Rimini).
Il fenomeno si può riassumere dicendo che le sorde doppie diventano sorde
semplici, le sorde semplici diventano sonore, le sonore diventano fricative o
dileguano (Ø).
Nella Romània occidentale continua ad esistere una sola consonante doppia, la
-RR-, che peraltro si conserva in tutta la Romània salvo che in romanesco (guera,
tera). La -MM- si è regolarmente ridotta a -m-. Quanto alla -SS-, anch'essa è stata
lenita. La lenizione colpisce pure la -s-, che in latino era sempre sorda, mentre
nelle lingue romanze occdentali diventa sonora [z], anche se la grafia rimane la
stessa.
La lenizione ha interessato anche -NN- ed -LL, producendone la riduzione a -n- e
-l-, ma in questi due casi lo spagnolo (solo tra le varietà della penisola iberica) ha
optato per la palatalizzazione.
La lenizione è presente come spirantizzazione di /b/ nel caso di avrà, tempo
futuro coniugato dell'infinito aviri < HABERE e nel caso dall'etimologia incerta
di truvari, forse dal tedesco TREFAN, dal latino TURBARE o dal basso latino
32
TROPARE. In quest'ultimo caso ci sarebbe stata nell'evoluzione fonetica anche
una sonorizzazione di /p/.
Particolare il caso di -nn- e -rr- nel nostro testo, dove la lenizione è presente a
livello morfologico ma non fonologico. I due nessi sono espressi da un segno
grafico sulla consonante singola: ῀ per -rr- e per -nn-. Lo troviamo per -rr- in
sarà (sarra), arassirà (arrassira), farà (farra) e mentre alcuni nessi hanno subito
posteriore lenizione come appunto sarra > sarà e farra > farà, altri rimangono con
la doppia consonante, come arrassira > arrassirà. Stessa cosa vale per -nn- in
suspittiranu (suspittirannu) e nixiranu (nixirannu).
Assimilazione
L'assimilazione di due consonanti diverse trova risultato in suspittari <
SUSPECTARE e trattari < TRACTARE ma ne risulta ancora immune accepto <
ACCEPTUS.
Metatesi
Nel testo è presente la metatesi reciproca di palori < paroli (da lat.
PARABOLA) , attestata comunemente nella lingua siciliana.
Sincope
33
Nel caso di pena < penrà vediamo una sincope che causa la caduta della r.
Un'altra sincope sembra essere avvenuta in epoca precedente, avendo causato la
caduta della vocale e: penrà < penerà.
La sorte delle consonanti finali latine
In latino alcune consonanti potevano trovarsi in fine di parola, ma le più
frequenti, anche per ragioni morfologiche, erano due: -M- ed -S-. La prima
veniva a indicare (con la vocale precedente) gran parte dei casi accusativi
singolari, quindi la funzione di complemento oggetto singolare, nonché alcune
terminazioni verbali della prima persona singolare. La seconda era ancora più
frequente, usata com'era, tra l'altro, in molti nominativi plurali (quindi per i
soggetti plurali) e in tutti gli accusativi plurali (quindi per i complementi oggetti
plurali), nonché nelle desinenze verbali della seconda singolare e della prima
plurale. Ricordo infine la -I, in quanto usata nelle desinenze della terza persona
singolare dei verbi.
Della -M non rimane alcuna traccia nelle parole di più sillabe: altru <
ALTERUM, gente < GENTEM, illu < ILLUM, muglerj < MULIEREM,
condittione < CONDITIONEM, brazu < BRACCHIUM, possessione <
POSSESSIONEM, morte < MORTEM, discrettioni < DISCRETIONEM.
Nei monosillabi, invece, alcune volte la -M scompare in tutte le lingue romanze,
altre si conserva come -N, soprattutto nella Romània occidentale. La debolezza
della -M è documentata fin dal periodo classico della latinità. Interessante notare
come nel nostro frammento sia presente il segno grafico ad esprimere la nasale
34
nei monosillabi e in posizione di finale di parola, senza distinzione tra M ed N
(gra per gran e no per non). Non possiamo quindi determinare se il risultato
della -M finale latina in -N sia qui da prendere in considerazione, tenendo
presente che l'unico esempio del testo da cui ci si aspetterebbe tale fenomeno è
cu < CUM che in siciliano moderno ha visto la definitiva caduta della nasale:
CUM > cu.
Quando alla -S, anche questa consonante finale aveva avuto periodi di debolezza
in epoca latina ed era stata ristabilita per gli sforzi dei grammatici. Nelle lingue
romanze essa di conserva come marca del plurale e desinenza verbale nella
Romània occidentale. In Italia centro meridionale dilegua attraverso una fase /j/,
conservata nel monosillabi. Il risultato antecedente il dileguo lo troviamo in
abbondanza nel nostro siciliano: gentj < GENTE, altrj < ALTER, hominj <
HOMO, amichj < AMICUS, annj < ANNUS, condittionj < CONDITIONEM,
corj < COR e tutti i numeri (trj, undichj, vintisej, trentasettj, ottantasettj).
Consonanti particolari e segni paragrafematici
Abbiamo già parlato a proposito della lenizione come siano presenti due segni
grafici per esprimere i nessi -rr- e -nn- (in alcuni casi -n come in gran, -mm-
come in lammugleri e in un caso -n- come in gentj). I due segni sono per la
nasale e ῀ per la doppia vibrante alveolare.
Troviamo come già detto la jod (/j/), abbondante nei plurali, e un altra
consonante tipica del siciliano e poi abbandonata: la x per la fricativa post
alveolare ʃ.
35
Oltre questi notiamo l'assenza di accenti, di apostrofi e di virgole.
L'apostrofo, che in siciliano moderno assumerà enorme importanza per
l'espressione dell'aferesi, è attestato per la prima volta in Italia nel De Aetna
(1496) di Bembo e si affermerà solo dopo il 1501 grazie a Petrarca e alla
modernizzazione del sistema interpuntivo, quasi 3 decadi dopo la stesura del
frammento.
36
5.3 I mutamenti del sistema morfo-sintattico
La declinazione
Il latino indicava una parte delle funzioni sintattiche dei sostantivi e degli
aggettivi mediante desinenze. Possedeva, come si dice, una declinazione: sia nel
singolare che nel plurale si distinguevano sei casi con terminazioni
(parzialmente) diverse in corrispondenza di diverse funzioni sintattiche.
Il sistema era tutt'altro che perfetto. Dal punto di vista formale, sono numerosi i
sincretismi (l'uso della stessa forma per casi diversi, a volte anche di numero
diverso); inoltre alcuni casi, sopratutto l'ablativo, erano sovraccarichi di funzioni.
Ma il latino esprimeva molte funzioni anche mediante preposizioni. Si trattava
dunque di un sistema in evoluzione, al quale i mutamenti fonetici di cui abbiamo
parlato dettero un definitivo impulso creando ulteriori sincretismi e rendendo
sempre più necessario l'uso di particelle.
Certo è che in gran parte delle lingue romanze non troviamo traccia di
declinazione: i sostantivi hanno una sola forma per il singolare ed una per il
plurale. Questa forma deriva di norma dall'accusativo latino, come si verifica nel
caso dei sostantivi che in latino erano imparisillabi. Insomma, in queste lingue,
siciliano compreso, la declinazione è scomparsa nei sostantivi e negli aggettivi in
epoca remota (diverso è il caso dei pronomi).
37
I plurali
In gran parte delle lingue romanze, e particolarmente in italiano, i plurali si sono
evoluti dalla forma latina dell'accusativo. Il risultato che troviamo è quello che ci
si aspetta dalla fase intermedia dell'evoluzione dei plurali latini in -S, in cui jod
(/j/), che poi determinerà cambiamenti fonologici in italiano e anche in siciliano
moderno dileguando, è qui presente e prevalente, dando risultati come: gentj <
GENTES, altrj < ALTEROS, hominj < HOMINES, amichj < AMICOS, annj <
ANNOS, condittionj < CONDITIONES e tutti i numeri (trj, undichj, vintisej,
trentasettj, ottantasettj).
Si nota quindi come i plurali siciliani derivino dall'accusativo e ancora
mantengano gli aspetti fonetici originari come in amichj < AMICOS in cui
permane l'occlusiva velare sorda /k/.
L'articolo ed i dimostrativi
Il latino non aveva alcun articolo, né definito né indefinito. Tutte le lingue
romanze li hanno invece tutti e due, il che fa pensare che la loro origine sia
antica, per quanto essi non affiorino mai neanche nella documentazione più
volgare.
L'articolo determinativo romanzo proviene di norma dalle forme del pronome
dimostrativo latino ILLE 'quello'. Le forme siciliane lu, la e li sono da ILLUM e
ILLA e la stessa origine dà illu come pronome personale oggetto che in siciliano
moderno evolverà ulteriormente in iddu, con la per molti impronunciabile
38
consonante retroflessa.
Eccezione alla regola affermata in gran parte della Romània la vediamo in
romeno in cui, a differenza delle altre lingue romanze, l'articolo è presente come
enclitico dando risultati come lupul (il lupo) e un fenomeno simile si manifesta
nel nostro frammento con lumaritu, lamugleri, lultimu, lapersuna e via dicendo.
Per i pronomi dimostrativi il latino aveva un sistema a tre gradi di vicinanza, in
corrispondenza alle tre persone verbali: HIC 'questo', corrispondente alla prima
persona, si riferiva a ciò che era vicino a chi parlava; ISTE 'codesto',
corrispondente alla seconda persona, si riferiva a ciò che era vicino a colui a cui
si parlava; ILLE 'quello', corrispondente alla terza persona, si riferiva a ciò che
non era vicino a nessuno dei due interlocutori.
Le forme romanze sono diverse, in genere rafforzate mediante l'anteposizione di
ECCU o di ECCE. Ma ancora più rilevante è che il sistema a tre gradi si
conserva solo in spagnolo, portoghese, catalano, sardo e alcuni dialetti italiani
meridionali (isto, isso, quillo), mentre occitano, francese e romeno hanno solo
due gradi, ottenuti mediante la fusione dei primi due.
In siciliano moderno il sistema a tre gradi resiste ancora (chistu, chissu, chiddu)
con la stessa tendenza italiana alla fusione dei primi due gradi, che dalla maggior
parte dei parlanti vengono usati senza distinzione.
La forma dei pronomi dimostrativi presente nel testo si caratterizza per una
particolarità grafica di probabile influenza spagnola. La velare sorda /k/ viene
infatti espressa da qui- come nello spagnolo quien e quince. La grafia ch- passerà
successivamente ad esprimere la velare per influenza del toscano.
39
Sistema verbale e perifrasi
Il sistema verbale latino è nelle lingue romanze ancor più rivoluzionato di quello
nominale. Il verbo latino, che si classifica in quattro coniugazioni (-ARE, -ERE,
-ERE, -IRE), distingueva tre diatesi o voci (attiva, deponente e passiva) tre tempi
principali (presente, passato e futuro), due aspetti (perfettivo e imperfettivo), tre
modi (indicativo, congiuntivo e imperativo), nonché tre persone nel singolare e
tre nel plurale; aveva inoltre forme non finite: tre infiniti (presente, passato e
futuro), tre participi (presente, passato e futuro), un supino, un gerundio e un
gerundivo. Non mancava qualche ambiguità: il perfetto poteva valere come
presente perfettivo o come passato semplice. Nella diatesi attiva non c'erano
tempi composti, mentre i tempi perfetti del passivo erano espressi dalla perifrasi
part. + perf. + ESSERE. Trascuriamo le importanti variazioni che si sono avute
nelle desinenze delle persone e nella funzione dei tempi latini che si sono
trasmessi alle lingue romanze e ci soffermiamo solo sulla creazione di tempi e
modi nuovi, che ha prodotto un sistema interamente diverso da quello della
lingua madre.
Il sistema è stato scardinato e ricostruito, in buona parte, mediante perifrasi.
Il passato
L'uso del passato semplice e composto nel “siciliano” - inteso sia come varietà
dialettale che come varietà di italiano regionale – si differenzia nettamente da
quello che caratterizza la maggior parte delle altre varietà romanze.
40
La tendenza comune in ambito romanzo è data dalla progressiva
generalizzazione della forma composta a scapito di quella semplice, il cui uso si
trova pertanto ad essere drasticamente ridotto o del tutto eliminato, specie nella
lingua orale e nei registri più informali. Questo sviluppo rappresenta un tipico
esempio di grammaticalizzazione e, come tale, comporta al livello semantico una
generalizzazione di significato, derivante dalla perdita di componenti specifiche
in favore di significati più generali, compatibili con un maggior numero di
contesti.
Questa tendenza, ampiamente attestata anche in lingue non romanze o non indo-
europee, si coglie soprattutto adottando una prospettiva pancronica a partire dalla
quale i vari sistemi sincronici si configurano come tappe diverse in un comune
sviluppo diacronico. Tale sviluppo è chiaramente esemplificato in ambito
gemanico – si pensi, ad esempio, all'inglese e al tedesco – e in special modo in
ambito romanzo, dove, anche secondo Harris (1982: 59), ci si trova di fronte ad
un singolo fenomeno. Il punto di partenza va individuato nei costrutti perifrastici
latini che, sorti per ripristinare sul piano formale l'opposizione aspettuale
offuscata dal duplice valore del perfetto, indicavano originariamente <<uno stato
risultante da una precedente azione>> (Ramat, 1983: 1456). Il significato di un
enunciato quale, ad esempio, habeo litteras scriptas è parafrasabile pertanto con
'possiedo una lettera nello stato/condizione di essere stata scritta'. L'evoluzione
romanza sposta l'enfasi dallo stato presente alla situazione passata, come accade
tipicamente nel passaggio da risultati a perfetti. Così, ad esempio, nello sp. He
escrito las cartas non c'è più alcuna implicazione che chi parla possieda ancora
le lettere, ma solo che le lettere sono state scritte e che tale azione è ancora
rilevante al momento dell'enunciazione.
La situazione che si riscontra nel siciliano che, da questo punto di vista,
appartiene al ristretto gruppo di lingue in cui la tendenza panromanza appare
ribaltata, è simile al portoghese e allo spagnolo messicano. Il siciliano infatti –
41
pur non restando del tutto estraneo alla tendenza romanza, soprattutto per quanto
riguarda l'italiano regionale, al cui interno la forma composta mostra un processo
di espansione analogo all'italiano comune – presenta tuttavia un'indubbia
peculiarità nell'uso dei due tempi.
Non è possibile qui fornire una descrizione esaustiva degli usi e delle funzioni
dei due tempi sia nel siciliano che nell'italiano regionale dato che non sono
presenti esempi di tempo passato nel testo analizzato e finiremmo per uscire
fuori tema abbondantemente ma la conclusione è che il siciliano anziché
costituire un sistema controcorrente rispetto all'iter comune, potrebbe trovarsi
una sua collocazione come rappresentativo di una fase dove si conserva in parte
uno stato di cose ereditato dal latino. La duplicità di funzioni aspettuali della
forma semplice nel siciliano sarebbe pertanto da ricondurre a quella del perfetto
latino. Questo, com'è noto, poteva esprimere, a seconda del contesto, sia un
processo concluso nel passato e privo di legami col presente – veni nel senso di
'venni una volta' – sia un processo concluso sì ma ancora rilevante al momento
dell'enunciazione, per il sussistere della condizione o del risultato cui ci è giunta
l'azione con il suo compiersi – veni nel senso di 'son venuto e adesso sono qua'
(Tekav). Questa fondamentale ambiguità del perfetto latino viene, per così dire,
'aggiustata', anche se solo temporaneamente, dallo sviluppo delle forme
perifrastiche che, assumendo le funzioni del cosiddetto perfetto logico, servono a
ripristinare anche sul piano formale l'opposizione semantica tra i due valori
aspettuali distinti.
Il futuro
Com’è noto, dal futuro sintetico latino del tipo cantabo si è giunti in epoca
42
volgare alla formazione di nuove forme di futuro attraverso la
grammaticalizzazione di diverse perifrasi costruite con verbi modali (soprattutto
habeo, ma anche volo, debeo, eo) che per diverse ragioni tipologiche, analogiche,
prosodiche soppiantarono la forma sintetica originaria, di per sé eterogenea.
La perifrasi con HABEO, in particolare, era utilizzata per esprimere modalità sia
deontiche che epistemiche. Il significato futurale e la conseguente formazione
temporalizzata deriverebbero dunque, come sostenuto da tanta letteratura a
riguardo (Fleischmann 1982; Bybee-Pagliuca 1994), proprio dai significati
epistemici di supposizione e di predizione.
Anche in siciliano si è determinata l’evoluzione tipica dell’area romanza, la
morfologizzazione cioè dello stesso costrutto originario *kantar-àjo > lat.
CANTARE + HABEO da cui proviene la perifrasi modale. Per molta parte della
letteratura, questo sarebbe però in disuso. Alcuni studi hanno anzi annoverato il
siciliano contemporaneo tra lingue futureless, che basano cioè il sistema
temporale sull’opposizione (+ passato) /6(- passato) e che si servono del presente
per l’espressione della posteriorità .
Rohlfs, accomunando per questo aspetto il siciliano a tutta l’Italia meridionale,
pone la questione in termini di «impopolarità». Secondo lo studioso tedesco
infatti la forma sintetica presente sia nei testi antichi che nel dialetto attuale è di
esclusivo influsso letterario e deriva certamente dal toscano.
D’altra parte, il Rohlfs indica la Sicilia come uno dei centri di diffusione di
un’altra forma di futuro caratteristica del Sud Italia: il costrutto HABEO AD
CANTARE, «una sorta di futuro in cui ancora si sottintende un poco l’idea di
necessità» (Rohlfs 1969: § 592). Anche secondo Leone (1995: 36) il futuro,
sebbene attestato nel dialetto antico, è oggi «ignoto» e sostituito dal presente per
l’uso deittico futurale o dalla forma perifrastica ‘aviri a + INFINITO’ soprattutto
in accezione deontica. Per l’espressione di modalità epistemiche, secondo lo
43
studioso, il siciliano ricorrerebbe alternativamente al presente e alla perifrasi
sopra citata. La sostituzione col presente che poteva talvolta avvenire in latino e
avviene non di rado in italiano, mentre in queste lingue ubbidisce a una esigenza
stilistica, «nel siciliano invece diventa, direi, morfologica, un aspetto cioè della
normale coniugazione» (Leone-Landa 1984: 68)8.
Contrariamente all’opinio communis, in Bentley (1997), con l’intenzione di
sfatare l’idea che in era volgare il costrutto analitico ‘aviri a + INFINITO’ abbia
comportato di norma la modalizzazione della frase, si indica proprio tale perifrasi
per l’espressione del tempo futuro nel dialetto siciliano (cfr. Bentley 1997: 62).
Essa, già presente nelle attestazioni medievali del siciliano accanto alla forma
sintetica e probabilmente molto più operante nell’uso orale, diventa sempre più
produttiva nel corso dei secoli soprattutto per effetto della scomparsa del
siciliano scritto.
Nella stessa ricerca la Bentley smentisce anche l’idea che la forma sintetica fosse
stata prerogativa degli stili più aulici e si dichiara a favore della sua autoctonìa
vista la frequenza e la diffusione nei testi di varia natura e viste anche le stesse
caratteristiche fonetiche del paradigma attestato nel corpus antico9.
In merito al valore semantico della perifrasi aviri a + INFINITO, un più utile
chiarimento è fornito in Amenta (2006), che testimonia anzitutto la vitalità del
costrutto anche nel siciliano contemporaneo, in riferimento a un tempo passato,
al presente e al futuro.
Specie se usata in riferimento al passato, la perifrasi avrebbe una funzione
essenzialmente modale (sia epistemica che deontica), ma con una
rimodalizzazione, soprattutto da parte di parlanti giovani, in termini deontici
anche a causa dell’assenza di duviri nel siciliano contemporaneo.
In questo studio, inoltre, si relativizza l’uso della forma come espressione del
futuro a partire innanzitutto dalla considerazione che i parlanti utilizzano la
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perifrasi soprattutto per indicare il grado massimo di certezza nell’ambito della
modalità epistemica. Si avverte dunque una specializzazione che «implica una
restrizione delle possibilità che il processo di slittamento semantico evolva verso
interpretazioni futurali» (Amenta 2006: 71). Il valore temporale, infatti, come su
detto, deriverebbe dai significati di supposizione e di predizione.
D’altra parte, l’occorrenza della perifrasi con significato futurale soprattutto in
parlanti che hanno come prima lingua il dialetto, se da una parte porta a
concludere, come nello studio della Bentley, che il siciliano non può essere
annoverata tra lingue futurless essendo la stessa perifrasi una forma di futuro,
dall’altra fa sì che ci si aspetti un indebolimento di quest’uso conseguente
all’indebolimento della vitalità del dialetto come prima lingua.
L’uso di forme sintetiche per il futuro
Da un punto di vista diareale si è vista la preferenza del presente rispetto al
futuro.
La differenziazione diastratica degli informatori è irrilevante in relazione alla
scelta fra forma sintetica e forma analitica, avendo eguale distribuzione di forme
flessive e di forme analitiche sia nei nonni che nei genitori e nei giovani, essa
acquista invece un alto valore discriminante in riferimento alle due forme
sintetiche che si sono ottenute.
Mentre l'uso del presente decresce man mano che si passa da informatori anziani
ad informatori giovani e da informatori con istruzione bassa a informatori con
istruzione alta, si innalzano proporzionalmente le risposte con forme di futuro
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sintetico.
Fattore ulteriore di rilevanza questo in quanto testimonierebbe una certa
influenza dell’italiano nei parlanti più esposti al contatto con un sistema
linguistico in cui la forma flessiva di futuro è certamente più consolidata in
diacronia e più diffusa in sincronia.
Si può ritenere che, se è vero che le forme di futuro sintetico con ‘virrà’, ‘vierrà’
o ‘verrà’ non testimoniano la vitalità di tale costrutto in contesti temporali, la resa
fono-morfematica indica un tentativo, a volte riuscito, di costruire forme coerenti
col sistema verbale siciliano documentato.
Certo non si può non ribadire che l’uso temporale di tale forma è ridotto al
minimo, soppiantata dall’uso del presente.
I dati sul presente ci permette dunque di annoverare anche il siciliano fra quelle
lingue che, secondo Dahl (2000: 311), in presenza di una determinazione
temporale marcano il futuro con l’uso del presente e confermerebbe anche
quanto ribadito dai vari studi sul futuro nel dialetto siciliano che abbiamo citato
sopra.
Forme sintetiche per la modalita epistemica
Per la traduzione della frase “quello si romperà la gamba”, la forma sintetica
risulta prevalente.
Appare evidente dunque dal punto di vista diareale che la forma di futuro
sintetico sia maggiormente diffusa in centri con una maggiore connotazione di
recessività e sia decisamente preferita quando serve ad esprimere la modalità
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epistemica.
Il futuro siciliano sembra avere acquisito una pregnante valenza modale di tipo
precipuamente predittivo-suppositivo in linea con l'intento divinatorio che rientra
pienamente nel nostro studio.
Pieno riscontro dunque si ha nel nostro testo, dove la forma sintetica del siciliano
viene utilizzata abbondantemente: arrassirà (etimo ignoto), sarrà < ESSE,
pinsirrà < PENSARE, avrà < HABERE, trattirà < TRACTARE, nexirà < EXIRI,
probabimente incrociato con NASCERE, truvirà < ted. TREFAN, da lat.
TURBARE, da b. lat. TROPARE, piglirà < PILARE, farrà < FACERE, cadirà <
CADERE, rompirassi, romperà < RUMPERE.
Non si ha la certezza che la forma utilizzata sia espressione del futuro con valore
espistemico perché non si hanno altri esempi di futuro nel frammento, ma
possiamo affermare con certezza che al momento della stesura dello stesso, la
forma sintetica fosse viva e florida e l'alternativa forma analitica risulta del tutto
assente.
Ordine delle parole
In latino l'ordine delle parole era piuttosto libero, in quanto l'indicazione della
funzione attraverso le desinenze rendeva possibile separare il sostantivo
dall'aggettivo che ad esso si riferiva; la posizione del determinante rispetto al
determinato sembra altrettanto libera, la posizione del verbo non è fissa, anche se
lo stile alto sembra preferirlo alla fine della frase.
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Una situazione diversa caratterizza le lingue romanze. Nel gruppo nominale
troviamo che la posizione dell'articolo rispetto al nome è fissa: l'articolo precede
in tutte le lingue romanze ad eccezione del romeno, dove invece segue. Anche la
posizione dell'aggettivo non è più la stessa: non solo esso può essere separato dal
nome solo in alcune espressioni poetiche o burocratiche, ma di norma l'aggettivo
segue il nome; in caso contrario il valore semantico non è lo stesso: un omu bonu
è cosa diversa da un bonu omu. Se ancora è possibile che alcuni aggettivi
precedano il nome, le apposizioni e le frasi attributive in ogni caso lo seguono. I
quantificatori e gli aggettivi negativi precedono il sostantivo cui si riferiscono.
La posizione del determinante si è fissata dopo il determinato: 'a casa ri me
patri.
Nel gruppo verbale la situazione è analoga. L'oggetto segue il verbo (vitte 'a luce
ru sule) e lo stesso accade con li altri complementi (ci rietti 'a littra a me patri).
Quanto agli ausiliari, essi precedono il participio. L'avverbio segue e non precede
il verbo.
Quanto alla posizione del verbo nella frase, solo nella lingua scritta di alcune
epoche fortemente latinizzanti è stato possibile collocarlo alla fine. Di norma,
invece, il verbo segue il soggetto e precede l'oggetto, sequenza che in francese,
ad esempio, è diventata assolutamente obbligatoria: je vois les maisons ruinées
'vedo le case in rovina'.
In conclusione, dunque, l'ordine delle parole delle lingue romanze risulta molto
diverso da quello della frase latina e del tutto conforme a ciò che la tipologia
linguistica normalmente riscontra nelle lingue del tipo SVO.
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Subordinazione
Dopo una importante serie di verbi (quelli che esprimevano 'dire', 'pensare',
'sperare', 'percepire' e simili), il latino rendeva la proposizione subordinata con il
soggetto in accusativo (invece del normale nominativo) ed il verbo all'infinito
(invece di un normale tempo finito): CREDO TE REGINAM ESSE 'credo che tu
sia la (o: una) regina'. Questo tipo di frase si chiama oggettiva, perché TE
REGINAM ESSE costituisce l'oggetto di CREDO. Nessuna lingua romanza
continua, nelle sue forme parlate, questo tipo di costruzione, che è stata sostituita
da QUOD seguito dal verbo in modo finito, nel nostro caso qualcosa come
*CREDO QUOD REGINA EST, da cui provengono le frasi in italiano con che
più indicativo o congiuntivo, con le quali abbiamo tradotto gli esempi latini.
Il siciliano moderno assume lo stesso comportamento delle altre lingue romanze.
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5.4. Lessico
Il lessico del testo è per la maggior parte di derivazione latina. Notevoli
eccezioni però ci danno conferma di come il siciliano sia una lingua varia e
dinamica, in costante scambio con i vari sostrati che si sono alternati nella
penisola. In particolare menzioniamo arrassirà, il cui etimo risulta ancora ignoto
ma di probabile derivazione araba, come sostiene anche Varvaro nel suo
Vocabolario Storico-Etimologico Del Siciliano. Altra particolarità è soy sinj,
metafora usata dallo scrivente per “suo grembo”.
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6. Conclusioni
La collocazione geografica del frammento ci è resa possibile dall'assenza del
dittongamento metafonetico come descritto da Piccitto. Sia che infatti si tratti di
influenza elima o sicana, la totale assenza del dittongamento ci fa restringere
l'area della stesura del testo (o l'area di provenienza dello scrivente) alla sicilia
occidentale e precisamente alla provincia di trapani, non lontano dunque dal
luogo di ritrovamento.
Per quanto riguarda il tema abbiamo visto come sono presenti abbondanti
attestazioni di pratiche divinatorie nella Sicilia medievale e perfino alla corte di
Federico II e dobbiamo arrenderci ed ammettere che il tema non risulta poi così
originale.
Osservando vocalismo e consonantismo ci rendiamo conto di come sia valida
l'ipotesi che il siciliano preso in osservazione sia una forma intermedia tra il
siciliano duecentesco e quello settecentesco del Meli e del Martoglio, in cui
troviamo fenomeni incompleti o intermedi.
La jod è presente nei plurali e pare lontano il dileguo.
L'assimilazione risulta ancora incompleta e troviamo coesistenza di forme
alternative. Ad esempio le due forme accepto < ACCEPTUS e trattari <
TRACTARE.
Discorso simile si può intraprendere per la lenizione in cui troviamo ancora
forme come sarra al posto di sarà e pinsirrà al posto di pinsirà.
Forte è la presenza di segni grafici poi abbandonati in posteriori stadi evolutivi
della lingua. Sia come consonanti con gli esempi di x per la fricativa post
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alveolare ʃ e di jod per i plurali. La jod determinerà fenomeni di raddoppiamento
e palatalizzazione che ancora sono assenti in questo testo.
La forma grafica -qui sembra una resa della velare sorda /k/ e suggerisce
un'influenza dello spagnolo.
Dei segni paragrafemici due sono particolarmente interessanti: per la nasale
(a volte doppia -mm-, altre -nn-, altre ancora -n a fine parola e -n- nel caso di
gentj) e ῀ per la doppia vibrante alveolare.
L'apostrofo si affermerà solo tre decenni dopo e risulta dunque assente, come
assente risulta l'aferesi, elemento tipico dei siciliano moderno e trattata
abbondantemente nella grammatica del Messina insieme all'alternativa
dell'accento circonflesso. Assenti sono anche gli accenti.
In conclusione la forma di siciliano che troviamo nel testo sembra sotto certi
aspetti ripulita e rifinita dallo scrivente, che sembra scegliere sempre la forma più
latineggiante e conservativa tra le alternative a sua disposizione.
Interessante è la forte presenza della forma sintetica del futuro, da alcuni ritenuta
addirittura inesistente. Forma che evolve direttamente dal tardo latino e non
manifesta indizi che potrebbero farci pensare a determinanti influenze del
toscano.
Lo scrivente sembra colto, a conoscenza della lingua latina e in contatto con il
sostrato spagnolo. Possiamo speculare quindi che fosse uno studioso con
educazione classica che, venuto a conoscenza della predizione per via orale,
abbia deciso di trascriverla adattando ovviamente il testo alla sua educazione e al
manoscritto in cui veniva collocata; ripulendolo dei volgarismi che
probabilmente ne caratterizzavano la versione orale.
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7. Bibliografia
AA.VV., Enciclopedia Treccani.
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Centro Di Studi Filologici e Linguistici Siciliani – Société de Linguistique
Romane, 2014.
- Linguistica Romanza. Corso Introduttivo, Liguori, 2001.
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