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171 La mediazione dei conflitti come forma di counseling formativo La mediazione dei conflitti come forma di counseling formativo Maria Martello 1. Del conflitto in campo formativo 1.1. Il conflitto, un’occasione da non perdere In un prezioso passaggio del film di I. Bergman Scene di vita coniugale, Gio- vanni, rivolgendosi alla propria moglie, da cui si è separato, afferma: Ti dirò una cosa banale. In materia di sentimenti noi siamo degli analfabeti. E il fatto più triste è che ciò riguarda non solo te e me, ma quasi tutte le per- sone. Noi impariamo ogni cosa intorno al corpo umano, intorno all’agricoltu- ra nel Sud Africa, intorno al pi greco o come diavolo si chiama, ma neanche una parola intorno all’anima. Per ciò che si riferisce a noi stessi e agli altri siamo di un’ignoranza tremenda, sconfinata. È dottrina corrente ormai che i bambini devono essere educati a contatto con il resto dell’umanità. Si parla di comprensione, di coesistenza, di eguaglianza, con queste e altre parole di mo- da che non conosco. Ma nessuno concepisce l’idea che dobbiamo innanzitutto imparare qualcosa intorno a noi stessi e ai nostri sentimenti personali. Intor- no alla nostra paura, alla solitudine, alla rabbia. E restiamo lì abbandonati, impotenti, pieni di rimorsi e di ambizioni frustrate. Far sì che un bambino di- venti cosciente della propria anima sembra quasi sconveniente.Veniamo allora considerati per poco dei vecchi antiquati. Come possiamo mai capire gli altri se non sappiamo niente di noi stessi? A distanza siamo tutti capaci di “vedere” l’umanità nella sua complessità e bellezza, ma siamo troppo vicini al nostro essere per avere la stessa consa- pevolezza verso il nostro mondo interiore. Sicuramente “conoscere se stes- si” è una delle cose più difficili per gli esseri umani, non a caso per i Greci

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La mediazione dei conflitti come forma di counseling formativo

La mediazione dei conflitti come forma di counseling formativo

Maria Martello

1. Del conflitto in campo formativo

1.1. Il conflitto, un’occasione da non perdere

In un prezioso passaggio del film di I. Bergman Scene di vita coniugale, Gio-vanni, rivolgendosi alla propria moglie, da cui si è separato, afferma:

Ti dirò una cosa banale. In materia di sentimenti noi siamo degli analfabeti.E il fatto più triste è che ciò riguarda non solo te e me, ma quasi tutte le per-sone. Noi impariamo ogni cosa intorno al corpo umano, intorno all’agricoltu-ra nel Sud Africa, intorno al pi greco o come diavolo si chiama, ma neancheuna parola intorno all’anima. Per ciò che si riferisce a noi stessi e agli altrisiamo di un’ignoranza tremenda, sconfinata. È dottrina corrente ormai che ibambini devono essere educati a contatto con il resto dell’umanità. Si parla dicomprensione, di coesistenza, di eguaglianza, con queste e altre parole di mo-da che non conosco. Ma nessuno concepisce l’idea che dobbiamo innanzituttoimparare qualcosa intorno a noi stessi e ai nostri sentimenti personali. Intor-no alla nostra paura, alla solitudine, alla rabbia. E restiamo lì abbandonati,impotenti, pieni di rimorsi e di ambizioni frustrate. Far sì che un bambino di-venti cosciente della propria anima sembra quasi sconveniente. Veniamo alloraconsiderati per poco dei vecchi antiquati. Come possiamo mai capire gli altrise non sappiamo niente di noi stessi?

A distanza siamo tutti capaci di “vedere” l’umanità nella sua complessitàe bellezza, ma siamo troppo vicini al nostro essere per avere la stessa consa-pevolezza verso il nostro mondo interiore. Sicuramente “conoscere se stes-si” è una delle cose più difficili per gli esseri umani, non a caso per i Greci

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questo era un principio “sacro”, una delle vie di accesso al divino, alla basedel senso dell’esistenza. Ma come farlo?Per chi insegna o lavora nel sistema-scuola il rapporto con se stessi è di

fondamentale importanza perché coinvolge anche la nostra sfera di azioneoltre che di pensiero. Anzi è uno dei “luoghi”, in cui, più di altri puoi ri-schiare di incontrare te stesso: nell’alunno, nel genitore, nel collega, nel di-pendente. L’altro che hai di fronte può sempre essere quello “specchio” incui si riflettono, di volta in volta, i confini e le radici del tuo essere. Il con-flitto, diventa, allora un’occasione da non perdere.Consideriamo alcuni quadri di analisi validi per il mondo della scuola.

• Quadro a. Non possiamo più ritenere sufficiente occuparci so-lamente di alfabetizzazione strumentale, culturale o informati-ca per garantire livelli qualitativamente dignitosi di istruzione e forma-zione. Per certi versi appare, ormai, imprescindibile e inderogabile porrein primo piano tutte le diverse questioni, problematiche e impegni con-nessi al mondo dell’intelligenza emotiva. Una fetta sicuramente consi-stente dei problemi e delle preoccupazioni avvertite nella nostra societàderiva dal non sapere discernere, né decifrare gli stati emotivi in sé e ne-gli altri, dall’incapacità di essere sensibili ed empatici, dal non saper col-tivare affetti e atteggiamenti di solidarietà, dal non riuscire a costruire“sistemi” fondati sull’interazione e l’integrazione delle diversità. Per taliragioni l’apprendimento dell’alfabeto emotivo deve esser assunto cometratto distintivo e identificativo dell’offerta formativa.

• Quadro b.Va affermata in qualche modo la priorità della dimensio-ne relazionale rispetto a quella didattica. Non basta più concentra-re tutte le proprie energie e attenzioni esclusivamente sull’insegnamen-to, ma è indispensabile porre le premesse e dirottare gli sforzi affinché gliallievi “apprendano ad apprendere” nel corso dell’intera vita. Ma per ot-tenere questo ambizioso risultato occorre motivare ed entusiasmare glistudenti verso il sapere: si apprende con efficacia solo se si sta bene inclasse. Si impara, infatti, sempre e solo a partire da una buona relazionecon l’altro e con gli altri. Vi è ormai una generale condivisione sul fattoche la conoscenza debba essere considerata non tanto una costruzioneindividuale, quanto una vera e propria attività sociale. Ne deriva, pertan-to, che il nuovo paradigma dell’insegnamento debba trovare una sua for-ma di validità concependo l’apprendimento come una modalità attiva einterattiva di elaborare le informazioni e come un’originale e personalepunto di vista sul mondo. Va da sé, quindi, che per “com-prendere” da-gli altri e insieme agli altri occorre disporre di versatili abilità sociali tracui non possiamo escludere: l’interesse per l’altro, l’ascolto, l’accoglienza,172

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la valorizzazione (la venerazione per l’altro direbbe il filosofo S. Natoli),la fiducia reciproca, l’empatia, la tolleranza, l’apprezzamento delle diver-sità, la capacità di saper mediare nelle situazioni di conflitto, ilprendersi cura degli altri. In conclusione possiamo affermare che per in-nescare buoni apprendimenti occorre sempre partire da una buona e po-sitiva relazione e che l’apprendimento non si verifica mai a prescinderedai sentimenti e dalla vita relazionale dei singoli soggetti.

• Quadro c. È un errore sottostimare i costi personali e sociali at-tribuibili all’analfabetismo emozionale. Gli esiti di alcune statisti-che concernenti il diffuso e sempre più pervasivo disagio vissuto dai gio-vani e dai giovanissimi ci lasciano piuttosto allarmati. Tutti i più aggior-nati indici statistici segnalano una competenza sempre più scarsa in cam-po emozionale e, cosa ancora più sconfortante, appaiono in costantepeggioramento. In particolare si sottolineano i seguenti tratti di sofferen-za: chiusura in se stessi, ansia e depressione, difficoltà nella riflessione enell’attenzione, delinquenza e aggressività. Inoltre in Italia l’uso di anti-depressivi si va diffondendo tra bambini e adolescenti (senza contare an-siolitici, ipnotici e antipsicotici).Le conseguenze di tali pratiche e terapie di sostegno farmacologico sievidenziano sia sul piano strettamente cognitivo, come alterazione dei li-velli di attenzione, dell’espressione creativa e della percezione corporea,sia sul livello della considerazione di sé. L’uso precoce di psicofarmacipuò condurre a una vera e propria “carriera di malato”. Tale preoccu-pante fenomeno sembra non risparmiare nessun gruppo a diversa valen-za e composizione socioculturale. Negli ultimi anni, inoltre, si è notevol-mente ampliato il numero di ragazzi che hanno dovuto ricorrere a unaiuto di tipo psicologico. Le nuove generazioni sembrano conoscere unrischio maggiore, rispetto a quello dei propri genitori, di soffrire nel cor-so della vita di una seria depressione e i primi episodi di natura depres-siva risultano essere anticipati in età sempre più giovane. A fronte di ta-le preoccupante scenario la scuola non può permettersi di rimanere in-differente, estranea e arroccarsi in uno specifico professionale del tuttoinadeguato. Prendersi cura del benessere psicologico e relazionale deinostri alunni e delle nostre alunne rappresenta non soltanto una scelta diciviltà pedagogica, ma anche una drammatica e urgente necessità a cuinon possiamo sottrarci.

• Quadro d. Nonostante questo desolante e preoccupante quadro di di-sagio e di sofferenza, manca una massiccia, congrua e lungimiran-te strategia di intervento in campo educativo. In proposito si ha lasensazione che tutto sia lasciato all’improvvisazione e all’occasionalità. In 173

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mancanza di interventi organici e strutturati ci si affida volentieri al “faida te” e le pur meritevoli esperienze pilota risultano isolate, rischiano diapparire scollegate tra loro e connotate da discontinuità. Occorre agirein una prospettiva di sistema, coinvolgendo una pluralità di attori, cia-scuno rispetto alle proprie specificità.Così come è evidente la qualità dell’adulto che interagisce con dei ra-gazzi guardando i loro occhi, non da meno è significativo il profilo delDirigente scolastico di una scuola per determinarne la qualità comples-siva. Un’azione dirigenziale fondata sul costrutto metodologico dell’em-powerment che ingloba concetti come la condivisione, la responsabiliz-zazione, lo sviluppo ed il pieno utilizzo del potenziale individuale, la va-lorizzazione delle capacità di ciascuno, il trasferimento del potere, è par-ticolarmente generativa di qualità formativa. Aspetti rilevanti sono ilcoinvolgimento diretto degli attori che vivono e si sentono parte di unprocesso; il carattere di intenzionalità e di riflessività dell’azione; la di-mensione partecipata, che permette di rendere palesi le interdipendenzeinterne al sistema; gli elevati livelli di collaboratività che presuppone,poiché è proprio mediante una condivisione e negoziazione continuache si sviluppa il sapere; la dimensione emancipativa in quanto basata suun rapporto di fiducia e su una comunicazione simmetrica, regolata daun codice etico tra i partecipanti. Si tratta di una forma di leader-ship educazionale che genera leadership diffusa.

• Quadro e. Nei gruppi di formazione che tengo, colgo l’esigenza ge-neralizzata di avviare, a cominciare dalle realtà locali, l’elaborazio-ne graduale di curricoli in grado di garantire i minimi forma-tivi sul versante della relazione e della gestione del conflitto.

1.2. Una nuova forma di formazione: un sano contagio

Conviene riprendere a ripensarci come comunità di persone che si con-frontano, si scontrano, coalizzano le loro competenze, praticano valori percreare un ambiente “sano”:– dove le relazioni sono costruttive e la creatività di ciascuno potenzia earricchisce quella degli altri;

– dove il fare è risposta a un senso veramente sentito come tale, pieno eappagante;

– dove la dimensione esistenziale delle nuove generazioni è tenuta presen-te da adulti che vedono la loro stessa rispettata;

– dove la dimensione di vita personale, le gioie, le paure, il bisogno di sen-tirsi riconosciuti trovano spazio, ascolto e rispetto. Sono certa infatti che174

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è a partire da ciò che può circolare la fiducia, la motivazione, l’impegno,l’entusiasmo, la cooperazione. È a partire da questo che si raggiunge ilsuccesso formativo e il successo professionale, lungi dalla sciagurata trap-pola di essere fautori di malessere che a cascata contagia tutti!Ma tutto ciò è frutto non tanto della qualità organizzativa, del cosa fac-

cio, delle procedure, ma del “come faccio”, dei comportamenti che mettoin atto, del senso del fare, dell’“essere”. Non è effetto di talenti individualima di una sistematica, costante, approfondita e impegnativa forma-zione. Dove l’intelligenza emotiva, la qualità delle relazioni, la ge-stione del conflitto, l’accoglienza diventano non nuove competenzeedulcorate, non rassicuranti protocolli operativi, non formule vuote, quasitrucchi per “vendere” un’immagine oggi vincente, ma la cifra di un radica-le cambiamento profondo, una risposta forte al bisogno che ognuno forte-mente sente: di essere in equilibrio e far essere equilibrati.La linea culturale che presentiamo ci porta a non preoccuparci tanto del-

la presenza dei conflitti in quanto contrasto di interessi o di idee diverse, madelle conseguenze della gestione improvvisata, istintiva, “incompetente”.Al suo nascere ogni contrasto, di solito, fa scattare la volontà di sopraffa-

re l’altro, di dominarlo, di distruggerlo. Fa entrare in una spirale automati-ca, naturale, spontanea, immediata, governata dalla paura dell’altro, dove nonci si ascolta più, e la violenza nelle parole e nei comportamenti sembra l’u-nica via d’uscita. Sono queste le reazioni che lo fanno diventare distruttivo.Questo non è un effetto necessario, connesso alla stessa natura dell’even-

to. Infatti, se invece si ha il coraggio di apprendere modalità di gestione“colte”, lo si può vivere perfino come fattore di evoluzione, di educazione,di crescita, di ricchezza, con altrettanti indubbi vantaggi in senso lato: ridu-ce lo stress, fa imparare a prendere la distanza necessaria dagli eventi, “con-ditio sine qua non” per capire meglio se stessi e l’altro, per conoscersi me-glio. La situazione conflittuale fa emergere, infatti, la parte più profonda disé, al di là delle forme apparenti; permette la realizzazione dei progetti e de-gli obiettivi a cui si lavora altrimenti drasticamente ostacolati e inficiati darelazioni compromesse e ostili.Agire modalità costruttive è possibile a tutti, ma richiede una formazio-

ne di alto profilo, efficace solo se molto profonda e non direttiva, che par-te dai conflitti in cui si è direttamente coinvolti, che si centra sulle specifi-che persone affinché emergano i veri desideri e a partire da questi si elabo-rino proposte. di rinnovamento.Mi sembra addirittura un’urgenza porre all’attenzione un tema che di

solito si cerca di evitare, perché fa soffrire, crea ansie e assorbe quasi tutte lenostre energie sottraendole a quanto di più interessante e impegnativo la vi- 175

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ta e il lavoro offrono. Un tema che può rappresentare, se ben considerato etrasformato, la via per raggiungere lo spirito della vera cittadinanza e dellaconvivenza civile, nel condiviso sogno di trasformare un territorio in co-munità solidale.Molti, anzi troppi, sembrano diventati incapaci di dialogare, di tenere

conto dell’altro, di ascoltare le altrui opinioni, di apprezzarne lo sguardo di-verso che può portare sulle questioni del vivere sociale e su quanto le con-nota di senso. Si parla per slogan, non si argomenta. Si ragiona per contrap-posizioni, si condanna e si esclude in base a preconcetti. Spesso la scuola di-venta il luogo fertile per il bullismo, il teatro di gruppi e di schieramenti do-ve il confronto critico tra idee, opzioni e priorità degenera in conflitto, conattacchi alla persona, alla sua dignità. L’altro, percepito come non omogeneoalle proprie posizioni, come estraneo viene vissuto subito come rivale da di-struggere, da zittire con ogni mezzo, anche a costo di ingiustizie e falsità.Ben lungi dal rispetto e dall’accoglienza della diversità come valore.Troppo spesso anche gli educatori si rivelano “cattivi maestri”, lascian-

dosi contagiare da questo stile dilagante e adottandolo sia nei rapporti congli altri operatori della scuola, sia nei confronti degli allievi. L’unica solu-zione sembra essere il ricorso all’adozione di regolamenti rigidi, all’attribu-zione di sanzioni disciplinari che di fatto creano profonde fratture ed am-pliano la distanza relazionale. E anche quando siano presenti valide figuredi riferimento, appaiono piuttosto fragili perché non sostenute da un con-testo che le rinforzi.È un dato, inoltre, che molti comportamenti dei giovani sono latori di

disagio nella società. Sconfessano la bontà del modello educativo applicato.La trasgressione di oggi sembra ben lontana dall’avere un valore positivo,quello che permette di saper dire un “no” nel momento giusto e che puòcambiare la propria storia. Un “no” all’ecstasy, piuttosto che il “no” di Ge-sù di Nazareth ai suoi genitori, ai sacerdoti.Sembra imporsi la domanda: dove sono finiti quei tempi in cui la cari-

ca di ribellione e di creatività, tipica dell’adolescenza, diventava il motorepossente della loro crescita?Io ritengo che oggi si debba ritrovare il senso del nostro fare e del no-

stro essere educatori, che si debba mettere al centro della proposta forma-tiva l’educazione alla gestione del conflitto. Solo così nelle relazione il dis-senso potrà essere ricomposto in un più alto livello di comprensione reci-proca.Forse è ancora possibile provare a non demonizzare, a non rifiutare a

priori le sregolatezze del sogno, accostandoci agli adolescenti.Possiamo rischiare di sperimentare la nostra spontaneità e la nostra crea-176

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tività nella risoluzione di un problema, consapevoli di appartenere al gene-re umano, di condividerne le peripezie e le follie, la saggezza e l’insipienza.Possiamo intesserle di umorismo, ché il sorriso ci dispone meglio alla vi-

ta, ci dà la sensazione di riuscire a controllare in qualche modo le contrad-dizioni, di ricomporne le dissonanze.Siamo aperti e duttili, onesti e risoluti nel rispetto dei propri e degli al-

trui diritti, chiari nel pensiero e nella parola!Tutto questo passa nell’altro che con noi si relaziona e favorisce l’intera-

zione.Si fa perentorio quindi l’invito a riflettere sulle modalità che di solito si

seguono per dirimere i nodi delle relazioni.È urgente e improcrastinabile farlo in modo nuovo. Che mette in gioco

e cambia profondamente, evitando teorizzazioni, razionalizzazioni, di-scorsi astratti. Questi lasciano immutate le dinamiche emotive, che ne so-no il motore, mentre illudono di averne competenza e di tenerne la giustaconsiderazione. L’intento di queste pagine, che raccolgono quanto fin quipensato, detto e concretamente sperimentato nel campo educativo, è di sti-molare un cambiamento vero e radicale.Cambiamento che coinvolga, in una sinergia feconda, tutti gli adulti

educatori fino a renderli sia padroni dei principi della Mediazione, sia ca-paci di esprimerli nel normale svolgimento dell’azione educativa, sia accre-ditati a realizzare nelle classi interventi ad hoc. Così si eviterebbero i ben no-ti e consolatori processi di espulsione dei problemi per autoassolversi afronte di uno spostamento e scarico di responsabilità solo sui ragazzi.I percorsi formativi, che in Italia in questi anni non sono mancati, desti-

nati ai soli studenti, nella speranza di ottenere miglioramenti del clima nel-le scuole, rischiano di risultare illusori.La peer mediation, da sola, non può essere risolutiva, così come i giochi

virtuali per utilizzarne le tecniche, purtroppo spesso presenti, come la me-todologia salvifica del futuro. Sono proposte che appaiono tanto suadentiquanto a rischio di banalizzare il senso alto della Mediazione; o di accoglier-lo in modo parziale: se generano qualche riuscita, purtroppo è di carattereeffimero.

1.3. Oltre la gestione usuale del conflitto

Tre categorie solitamente caratterizzano la gestione usuale del conflitto: ladenuncia, la sanzione, la valutazione.L’esperienza dimostra che la gestione errata di un conflitto crea un cam-

po di energie che non si convogliano nei poli giusti e, prima o poi, esplo- 177

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dono in maniera rovinosa. Raramente si punta sull’autorevolezza: compe-tenza non innata, che si traduce nella capacità di sostenere le proprie opi-nioni con onesta disposizione interiore, con fermezza ma senza aggressività.L’autorevolezza proviene dal senso di sicurezza dettato dalla fiducia neiconfliggenti e dalla convinzione che, rispettando le parti, emergerannoconfronti costruttivi.La società ha urgenza di modelli che non implichino dicotomia di ruo-

li (vittima-carnefice, arroganza verbale-parola biascicata). Va creata perciòuna nuova e diversa sensibilità, che sappia vivere il conflitto e rendere uti-li, senza traumi, gli eventuali contrasti nascenti. Sono necessari rapporti cor-retti, leali, gratificanti; perché ciò si verifichi, occorrono persone non ego-centriche, ma capaci di: • governare l’ansia; • non esagerare o esasperare i problemi; • calibrare le proprie energie; • agire in modo diretto; • chiedere chiarimenti e arretrare serenamente dalle personali convinzioni; • avere consapevolezza della propria positività, del proprio valore.Da ultimo occorre fondare e accrescere la consapevolezza di sé, la capa-

cità di automotivarsi, di possedere perseveranza. Serve “curare” il “subbu-glio emotivo” che spesso appartiene a chi opera in una sovraesposizione re-lazionale, come accade all’insegnante, vuoi in classe vuoi in collegio docen-ti, ed altresì al Dirigente scolastico attore entro una variegata ampiezza re-lazionale. Quest’ultimo in particolare si trova, anche in virtù del mandatoistituzionale, a dover gestire piani e livelli diversi di relazionalità nei quali èfondamentale l’uso di un registro coerente ed autentico. Solo così potrà di-venire un leader “costruttore di sensemaking” ovvero che orienta verso lacostruzione di un sistema di senso intorno ad una sequenza di eventi chehanno luogo nel tempo, capace di contemperare individualità ed universa-lità, spinta all’innovazione e radicamento.Certamente non bisogna credere che si debba aver sviluppato, prima di

incontrare l’altro, tali competenze nello standard ottimale, ma piuttosto di-mostrare una tensione continua a un percorso evolutivo in questa direzio-ne. Ciò che stimola soprattutto gli alunni è la percezione dell’insegnante“crisalide”, sempre disposto al cambiamento, al miglioramento di sé in ognicampo, che non fa mistero del coeducarsi con loro e attraverso un percor-so di formazione specifica per diventare competenti: • nel comprendere le manifestazioni del disagio; • nello scorgere tempestivamente le radici del conflitto consapevoli che leragioni sono sempre più estese dei fatti; 178

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• nell’avviare la dinamica dell’ascolto; • nel vivere rapporti di fiducia nella certezza che “io esisto non nella mi-sura in cui esisto per gli altri”;

• nell’incominciare a far propria la Mediazione soprattutto nell’aspetto delrispecchiamento dell’altro, dell’accettazione della sua dignità e del suopensiero, qualsiasi esso sia.E quale aspetto può assumere una comunità scolastica dove queste com-

petenze connotino anche le figure apicali?

1.4. Il confitto formativo: un’importante scuola di vita

L’insegnante è colui che entra in rapporto stretto con la classe, che può an-che essere causa di conflitto o che ne è comunque parte, ma che allo stes-so tempo ha la capacità di guardare con occhio maturo allo sviluppo delprocesso relazionale, di guidarlo e di condurlo a un’evoluzione positiva. Perevitare che la relazione degeneri, deve saper ascoltare e dare il giusto pesoalle questioni che sorgono, in modo da non inibire l’esigenza di mettersi ingioco. Deve cercare di non confondersi emotivamente con i propri allievi,mantenendo la giusta distanza, ben consapevole dei propri limiti per evita-re che gli attacchi possano colpirlo in profondità. È difficile, certo, ma nevale la pena.Se un insegnante, invece, non permette che le parti si esprimano e im-

pone il silenzio per non divenire il parafulmine dei conflitti nati in classe, glistudenti si sentiranno sempre meno portati a parlare delle loro contese e ilclima della classe diverrà pesante: nasceranno piccoli gruppetti e il conflit-to coverà sottobanco, con sentimenti di invidia reciproca, di sofferenza eperfino di odio nei confronti di determinati compagni o docenti.Affinché il conflitto possa divenire un momento formativo, dovrebbe es-

sere innanzitutto riconosciuto e gestito rispettando precise regole:– “dare voce” al conflitto, cioè alle emozioni che da esso nascono, per per-mettere l’espressione di istanze profonde (mentre, spesso, la tendenza èquella di soffocare sul nascere ogni conflittualità, pagando poi, però, ilprezzo di costanti malumori e velate ostilità);

– permettere alle parti di chiarire la rispettiva posizione e scegliere una opiù persone di riferimento che svolgano un ruolo di Mediazione, ma an-che di individuazione del problema reale, sulla base di atteggiamenti rile-vati o specifiche azioni, non di caratteristiche intrinseche ai vari soggetti;

– trasferire l’aggressività sul piano del fare, impegnando entrambe le partia non rimanere su posizioni di principio, ma scendendo a un dialogoconcreto; 179

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– liberare le parti da rapporti squilibrati di dipendenza (per esempio do-cente-allievi; allievo dominante-allievo dipendente), non nel senso disradicare le normali aspettative di ruolo, ma in quello di dare alle rela-zioni interpersonali un nuovo assetto temporaneo, funzionale alla riso-luzione del conflitto (per esempio attraverso il role-playing: che tra l’altrofacilita anche l’espressione delle istanze);

– promuovere in ciascun soggetto la riflessione sulle proprie scelte com-portamentali, sul ruolo avuto, sul grado e sullo stile di partecipazionenella vicenda, sui valori condivisi dal gruppo, sulle emozioni provate, peraccelerare il processo di cambiamento del gruppo e contribuire a risol-vere eventuali conflitti intrapsichici.

– saper andare oltre i fatti per ricercare le ragioni sottese.

Sarebbe opportuno, inoltre, adottare atteggiamenti che facilitino la co-municazione e permettano di riavviare il dialogo (un aiuto può proveniredall’uso di tecniche quali l’ascolto attivo o il problem solving), mai discuterein pubblico, evitare inutili fraternalismi del tipo vogliamoci bene…siamo tuttiamici e lasciare, facciamo finta che…, stiamo in pace…, al contrario occor-re il coraggio di lasciare che il conflitto esploda.Il Dirigente scolastico è colui che entra in stretto rapporto con il perso-

nale docente, i collaboratori scolastici, il personale amministrativo, ma an-che gli studenti, le famiglie, i rappresentanti delle amministrazioni di perti-nenza, gli esponenti di associazioni. Spesso diventa il catalizzatore di males-seri, rivalse, prevaricazioni, ansie, inadeguatezze di persone che cercano unsoggetto cui delegare problemi, che si aspettano la soluzione che acconten-ti tutti, che permetta di trovare la giusta misura. Tra gli altri, il rischio delborurn-out è elevatissimo. Perché non pensarsi e proporsi come il crocevia di assunzioni di respon-

sabilità, di scelta di mettersi in gioco, di ricerca di un senso di sé e del pro-prio mandato sociale oltre che istituzionale? Perché sottovalutare l’effettodirompente che può derivare dalla formazione di figure chiave all’internodi una comunità scolastica, indipendentemente dal compito che svolgono?Pensiamo per esempio alle funzioni di accoglienza dei collaboratori scola-stici e alla percezione o meno di apertura della scuola all’incontro che pos-sono ingenerare con le loro condotte quotidiane.

1.5. Dal conflitto negato al conflitto gestito attraverso la Mediazione

Ogni azione non è mai neutra. Alle dinamiche del conflitto si danno rispo-ste costruttive oppure negative; questo accade quando non si creano dei180

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percorsi di educazione alla gestione costruttiva del conflitto o quando si of-frono testimonianza e modelli di risoluzione autoritaria o quando si dimo-stra di non saper avviare, condurre e sostenere il dialogo interpersonale contutti.La Mediazione invita ad andare oltre i ruoli professionali. Per questo noi

la consideriamo come una sfida trasversale: tutte le attività di formazioneche abbiamo condotto sono state interprofessionali.Occorre dunque prendere in considerazione il senso e l’efficacia del no-

stro “fare”: dobbiamo sempre considerare il nostro “fare” perfettibile, per-ché diventa positivo solo quando è utile sia agli altri sia a noi. Nell’otticadella Mediazione propongo un impegno che, nel momento stesso in cui ri-sulta efficace e utile per chi lo riceve, si rivela prezioso per chi lo propone.La Mediazione è oltre che uno strumento prezioso, una linea culturale deltutto nuova che ha un suo statuto, una sua filosofia, una sua tecnica che su-pera il principio di “vincitore-vinto” per giungere a quello di “vincitore-vincitore”.Che cos’è allora la Mediazione? È un’attività in cui una parte terza im-

parziale aiuta due o più soggetti a capire l’origine del conflitto e a confron-tare i diversi punti di vista; ovviamente si tratta di un lavoro assegnato a unprofessionista altamente qualificato.Le sue modalità operative sono molto diverse da ciò che si fa per istin-

to. Al centro del suo interesse vi sono dunque i conflitti e i punti di vistadei soggetti partecipanti. Normalmente siamo portati a fare altro. La Me-diazione lascia che la soluzione sia trovata dalle parti stesse; quindi non so-no il giudice o il dirigente che decidono una questione. Altro aspetto fon-damentale è che la Mediazione non si ferma ad affrontare la punta dell’i-ceberg del conflitto, ma affronta il problema dalle radici. In campo giudi-ziario di solito un reo deve rispondere allo Stato dell’azione compiutamentre la Mediazione propone, quale assoluta novità, che chi si è reso pro-tagonista dell’evento scatenante il conflitto renda conto a chi ha subito ilsuo operato. Solo partendo da questa forte responsabilizzazione si giungead accettare, anzi desiderare, di provvedere al risarcimento che è un pas-saggio vitale, riparativo dell’evento e risolutore del malessere tra i conten-denti.La Mediazione introduce un altro elemento utile e prezioso per tutti: la

non accettazione della delega; in fondo in situazioni di conflitto si manife-sta il rischio di perdita di dignità e, come da bambini si ricorreva al papà ealla mamma, da adulti si ricorre al giudice o comunque a un’autorità ester-na cui delegare conflitto.La Mediazione va oltre questa logica, diversamente dall’azione giudican- 181

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te ha l’esclusivo compito di ripristinare la comunicazione interrotta dalconflitto, facendo emergere ermeneuticamente in ciascuna delle parti il re-ciproco riconoscimento della dignità violata.Vale precisare ulteriormente che il mediatore non deve giudicare né in-

terpretare: è necessario che egli sia neutrale e assuma dunque un compor-tamento inusuale visto che, normalmente, siamo portati a schierarci e so-prattutto a dare consigli.La Mediazione risolve il conflitto con due vincitori, perché tutte le vol-

te che un conflitto si risolve in modo “mors tua vita mea” pone le basi perla nascita di un nuovo conflitto e chi si trova nelle vesti del perdente iniziaa nutrire progetti di rivalsa, mentre chi si sente vincitore è portato a nonconsiderare le proprie responsabilità. La Mediazione, andando oltre l’ideache una parte non può vincere se l’altra non perde, propone l’“et et”, en-trambi riconosciuti nelle proprie ragioni e nella propria dignità.È fondamentale evitare quell’atteggiamento naturale che ci porta a sca-

ricare le responsabilità sulle colpe dell’altro; la Mediazione è dunque il su-peramento del punto di vista personale e la presa in considerazione delleragioni dell’altro.Gestire un conflitto, promuovendo la riattivazione della comunicazione

interrotta, o un problema, stimolando l’impegno attivo da parte di chi lodeve risolvere, richiede tempo. E bisogna quindi predisporsi ad accordarglitutto il tempo necessario.La relazione autentica, pur nella corretta assunzione del ruolo di ciascu-

no, è quella interpersonale, da cui bandire ogni forma di mistificazione o diipocrisia, dove da vittime della preoccupazione di “dover essere” (del doverapparire perfetti in tutto e per tutto), si passa a “essere”.Imparare a mettersi in gioco come persona, nella consapevolezza dei

propri e altrui limiti, a riconoscere, oggettivandole, le proprie emozioni po-sitive e negative, dando loro cittadinanza, è uno dei maggiori punti di for-za di questa formazione.Non solo non bisogna temere le emozioni negative, nostre e altrui, guar-

dandole per così dire, “in faccia”, ma soprattutto questo esercizio prepara adaffrontare le situazioni con adeguato senso di realismo, imparando a vederele cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. Partendoquindi dal dato di realtà, è possibile attivarsi per far evolvere le situazioni daconflittuali a costruttive, sia che coinvolgano il soggetto in prima persona,sia che ne sia esterno ma scelga di assumere un ruolo.Queste rappresentano alcune importanti modalità che una formazione

iniziale di base e ricorrente conduce ad acquisire: si tratta di alcuni impor-tanti strumenti relazionali che sarebbe auspicabile e urgente poter estende-182

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re a tutto il personale della scuola e che, a mio avviso, costituiscono risorsenecessarie e irrinunciabili per la gestione del conflitto.

2. Della Mediazione tra senso e procedure

1.2. Introduzione: le ADR (Alternative Dispute Resolution) e la loro possibile configurazione quale forma di counseling formativo

La Mediazione offre spunti preziosi ricchissimi, vitali e, a mio parere, indi-spensabili oggi. Si tratta di una metodologia che ha una sua deontologia,una sua tecnica, delle procedure molto rigorose e soprattutto una filosofia;dunque siamo molto distanti dal significato che tale termine assume nel lin-guaggio comune (via di mezzo, rinuncia bonaria, accordo).La Mediazione è parte integrante della filosofia del diritto: le ADR so-

no tecniche alternative alle vie giudiziarie e hanno l’attenzione del mondodella giustizia.In senso stretto il termine “mediazione” indica l’azione esercitata da una

persona (ente, associazione, collettività, nazione) per accordarne altre e perfar superare ad esse quelle difficoltà che le dividono. La più ampia diffusio-ne della “mediation”, come sistema di definizione alternativa delle contro-versie, si attesta in U.S.A. ed in Gran Bretagna, dove coesistono centri spe-cializzati pubblici e privati. Nella traduzione letterale il termine anglosasso-ne “mediation”, facente parte organicamente della più ampia categoria del-le “Alternative Dispute Resolutions”, corrisponde all’accezione di “inter-vento”, “buon ufficio”.Ed in tal senso è significativo evidenziare che negli U.S.A. solo il 25%

dei conflitti viene trattato dalle tradizionali Corti di Giustizia; più in parti-colare, deve rilevarsi che il sistema di riforma della procedura civile ingle-se, le “Civil Procedure Rules”, adottato in Gran Bretagna nel 1998, preve-de espressamente che il Giudice dia alle parti il potere di chiedere una so-spensione del processo allo scopo di chiudere la vertenza attraverso l’ADRpoiché il sistema della “mediation”, per lo più gestito, organizzato e rego-lamentato da Società di Avvocati, dirime ogni genere di controversia. In ta-le assetto internazionale, quanto adottato in Italia sotto il profilo normati-vo appare a tutt’oggi invece frammentario, non puntuale e soprattutto in-completo. La Mediazione nella concezione elevata che qui andiamo a proporre, si

distingue e si differenzia non solo dalle modalità giudiziali di risoluzionedelle controversie ma anche da quelle stesse ADR extra-giudiziali – quali 183

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possono essere l’arbitrato, la negoziazione e la conciliazione – e che purepossono essere considerate come ottimi strumenti di democrazia in quan-to consentono l’accesso alla giustizia ad un maggior numero di cittadini,potenzialmente a tutti.Filone di riferimento della Mediazione appartiene alla riflessione sulla

restorative justice o giustizia “riparatrice” e al diritto mite. Una forma di Giu-stizia nel senso più alto, che supera la dinamica vincitore/vinto, che appli-ca modalità di risoluzione dei conflitti diverse nei modi e nell’origine dal-la giustizia retributiva, basate sul concetto di pena.. La giustizia riparativa si muove nell’ottica di riparare il danno inflitto al-

la vittima e ai suoi familiari, ma anche e ancor di più la comunicazione in-terrotta; e questo attraverso interventi mirati, rivolti rispettivamente alla vit-tima, al reo, alla famiglia e alla comunità. Grazie all’aiuto dei mediatori siconsente alla vittima e al reo in primis, di incontrarsi e di parlarsi, affinchéla prima possa esprimere tutto il suo dolore e il suo disagio e il secondo as-sumere le proprie responsabilità e chiedere scusa, per poi allargare progres-sivamente il cerchio della riparazione alla famiglia e alla società, anch’essecoinvolte e ferite dal reato commesso. La Mediazione indaga, affronta, si occupa, non solo dei fatti, ma di tutti

gli affetti, cioè di tutte le radici che hanno prodotto quei fatti.È dunque una soluzione del conflitto molto più articolata e complessa e

risulta necessaria soprattutto tra coloro che al termine del conflitto dovran-no continuare a relazionarsi.Se si ritiene la Mediazione uno strumento efficace per la risoluzione di

conflitti intercorsi tra persone che possono anche non rivedersi mai più, sipensi quanto essa risulti importante nell’ambito scolastico dove l’allievo, ildocente, il dirigente, dovranno continuare, il giorno dopo la sentenza, o do-po l’esito di una ispezione a opera di un dirigente tecnico, la cui modalitàoperative sono vicine a quelle del giudice, a incontrarsi, a lavorare insieme,a perseguire obiettivi.Nel mondo della scuola, la Mediazione, in quanto offre indicazioni pre-

cise e atte a modificare in modo nuovo la modalità di relazione, è uno stru-mento fondamentale sia come risoluzione alternativa del conten-zioso scolastico, sia come filosofia delle relazioni.Invito a immaginare quale sia la vita di un docente che entrando in clas-

se non riesce a governare i suoi allievi, con il rischio continuo di essernesopraffatto; le situazioni in cui le famiglie attaccano la scuola o la scuola èin contrasto con loro; oppure situazioni in cui il dirigente non ha ancoravarcato la soglia della scuola e già è raggiunto dal bidello, dall’insegnante,dal collaboratore di segreteria che lo coinvolgono e lo informano di con-184

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flitti e problemi da risolvere o di esiti di un conflitto mal gestito e trascu-rato da altri.A questo punto è lecito chiedersi: “Qual è la qualità del servizio che un

dirigente può offrire? Come sta quel dirigente quando esce dalla sua scuo-la? Sente di essere soddisfatto e di aver passato una mattinata di piacevoleimpegno oppure è assolutamente sovraccaricato da tante scorie emotive ne-gative che ha assorbito? Cosa potrà offrire questo dirigente il giorno dopo?E cosa succede quando il dirigente ha dovuto trascurare il rapporto con idocenti, gli obiettivi didattici ecc., per occuparsi di un contenzioso che‘quella’ bidella, che malauguratamente ha avuto un incidente sul lavoro, inmodo pretestuoso ha portato avanti per anni e anni? Quali energie questodirigente ha dovuto sottrarre al suo lavoro per seguire queste vicende giu-diziarie? Quali vissuti dirigente e bidello hanno? Quali conseguenze il lo-ro conflitto ha sul clima della scuola?”.Ma si pensi anche alle problematiche legate alla contrattazione di istitu-

to che chiedono al Dirigente scolastico di confrontarsi sistematicamentecon la RSU, non in una situazione di contrapposizione, ma di concertazio-ne. Si pensi anche a un collegio di docenti in conflitto con il dirigente… eviceversa!Come per il docente anche per il genitore il conflitto è sempre dietro l’an-

golo. Tutte queste situazioni hanno un costo: si guasta il clima e in queste con-dizioni l’esito di qualunque proposta sensata, ragionevole e innovativa, dachiunque venga avanzata, è sicuramente incerto, ostacolato, combattuto.Certo occorre il coraggio di porre all’attenzione questo tema e di farlo

in modo inusuale, cioè coinvolgendo non solo una, ma tutte le componen-ti del mondo dell’educazione, dirigenti o docenti, perché i conflitti, si puòcertamente dire, sono trasversali, interessano tutti, ma la soluzione di unconflitto può avvenire solo con l’impegno di tutte le parti coinvolte. Sem-bra però che tanto più sappiamo che dentro di noi i conflitti esistono, tan-to più cerchiamo di esorcizzarli, di chiuderli prima possibile, di dire che noinon li abbiamo, che sono degli altri. Crediamo che sia la scelta più elettivaquella di bloccarli al loro nascere, di evitarli, di ignorarli. Spesso tanto più sene è sopraffatti, tanto più si evita di parlarne. Infatti un conflitto genera an-sie, paura di inadeguatezza, senso di debolezza e di vulnerabilità, voglia dinegarlo, timore di soccombere e perdere la dignità insieme al controllo del-la situazione, alla spinta a chiuderlo o meglio soffocarlo in qualche modo,ma prima possibile. Atteggiamenti naturali che spesso tuttavia lasciano l’a-maro in bocca, che possono portare alla quiete formale, ma alimentano fru-strazioni, rancori, insoddisfazioni, rabbie, progetti di rivalsa; oppure depres-sione, squalifica di se stessi, demotivazione, senso di debolezza. 185

La mediazione dei conflitti come forma di counseling formativo

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Ecco che da segno di vita, il conflitto diventa un segno negativo, di morte.Di solito quando sentiamo che una persona ci aggredisce ci sentiamo

obbligati a difenderci e troviamo un modo diretto o indiretto per contrat-taccare. L’aggressione nasce sempre da paura e sensi di colpa. Nessuno ag-gredisce senza essersi prima sentito minacciato e se non crede di poter di-mostrare la propria forza a spese dell’altrui vulnerabilità.Agire modalità costruttive dipende dall’impegno di tutti, dall’acquisi-

zione generalizzata di una nuova mentalità. Come sostiene WilliamG. Neville, uno dei fondatori della Mediazione familiare:

Puoi entrare nel mondo di un altro solo se non ne sei spaventato. Quindi par-te del lavoro del mediatore è quello di aiutare la famiglia, sia individualmen-te sia come sistema, a vedere che la crisi e il conflitto non sono la fine dellafamiglia stessa, ma solo che essi impongono una sua ristrutturazione e che intale ristrutturazione i bisogni di ciascuno verranno ascoltati e considerati e, at-traverso la collaborazione e lo scambio resi possibili dall’ascolto, la famiglia ei suoi beni possono essere adattati e, eventualmente, ridistribuiti in manieraequa.

Quando l’adolescente sperimenterà che, seppur con l’aiuto esterno di unmediatore, è possibile una gestione pacifica del conflitto, tanto se questo siaccenda all’interno del gruppo dei pari, quanto se riguardi il proprio rap-porto con gli adulti, e che tale modalità è occasione di crescita, avrà in-troiettato una ricchezza cui attingere autonomamente in altri contesti e inaltri tempi. È per la vita. È una competenza che non può essere improvvi-sata, né conosciuta solo teoricamente, ma sperimentata, in tutti gli ordini discuola, ovviamente con modalità differenti.Alla scuola può tornare molto vantaggioso che vengano coinvolte tutte

le componenti: genitori, insegnanti, alunni. Possono essere gli stessi genito-ri, i più informati e consapevoli del valore dell’intelligenza emotiva nelle re-lazioni con i figli, a sollecitare i docenti a una prima alfabetizzazione a que-sta modalità, nel caso questi non ne siano al corrente, e farsi promotori diiniziative congiunte di studio e di approfondimento.Se la scuola non si renderà conto che, oltre all’intelligenza razionale, oc-

corre sviluppare in modo organico quella emotiva, predisporre una proget-tazione didattico-formativa, graduata e ben scandita nei suoi item, sull’edu-cazione alla relazione, i conflitti verranno sempre presi in considerazionesolo nel loro aspetto superficiale, nelle manifestazioni più evidenti, centra-te sul motivo del contendere. Se si continueranno a negare, perché non ri-conosciuti o non gestiti, i vissuti a essi sottesi, si continuerà, inconsapevol-186

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mente, a essere generatori di malessere e di dissapori. La scuola, non ci stan-chiamo di dirlo, non può risolvere il conflitto in modo autoritario, con unvincitore e un perdente, perché così riesce solo a sedare l’evento immedia-to, lasciando covare il focolaio della rivalsa da parte del perdente e l’arro-ganza del vincitore: buoni presupposti di un successivo, non lontano, ripro-dursi delle ostilità.Un controsenso in un ambiente dove la continuità della relazione è un

dato certo.Occorre quindi che prima si sostengano gli insegnanti, ma non solo (in-

fatti lo stesso bisogno andrebbe soddisfatto nei genitori e nei ragazzi), nel-lo sviluppo delle capacità empatiche e dell’intelligenza emotiva, le qualipossano essere usate sia nelle situazioni di conflitto, sia soprattutto nelle re-lazioni interpersonali, visto che la qualità delle stesse incide profondamen-te tanto nel clima della classe, quanto nell’apprendimento.Le modalità organizzative possono essere anche differenti in base al con-

testo territoriale e alle realtà specifiche. L’efficacia resta salva. Infatti, solocon un procedere serio, meticoloso e graduale si introduce un vero cambia-mento in questa direzione.Quanto proposto è davvero una risorsa quanto mai preziosa per la scuola:

– per saper dare risposte efficaci a ciò che è segnale di disagio relazionalee nel contempo richiesta di aiuto;

– per potenziare la capacità di relazionarsi in modo costruttivo con gli al-tri;

– per sviluppare le competenze emotive e, quindi, mettere in grado di evi-denziare le emozioni che accompagnano, al suo nascere e nel suo dive-nire, il conflitto;

– per riaprire la comunicazione interrotta tra persone che devono conti-nuare a stare insieme;

– per prevenire lo scarso rendimento scolastico, le scelte trasgressive, le ma-nifestazioni di violenza;

– per fondare e accrescere la consapevolezza di sé, la capacità di auto-mo-tivarsi, la perseveranza;

– per “curare” il subbuglio emotivo che spesso appartiene a chi opera inuna sovraesposizione relazionale.

2.2. Il senso della Mediazione

Qualunque sia la natura del conflitto e l’oggetto del contendere, la dispo-nibilità a concedere, l’intransigenza nel pretendere, la generosità nel dare,l’aggressività nell’estorcere non sono affatto dinamiche fredde e oggettive 187

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(sono le modalità che agiscono anche nelle negoziazioni), ma sono condi-zionate se non determinate dagli stati d’animo, dalla storia, dalle esperien-ze, dalle emozioni, dalla morale, dall’educazione, dai principi delle parti.Che cosa è la Mediazione? Esiste un’accezione del comune parlare di

Mediazione fuorviante, perché riduce questa a mero compromesso. Occor-re invece riferirsi alla prospettiva filosofica che l’erige su un piano di veraesperienza umana.Tale “elevazione” è evidente già nell’uso che in filosofia si fa del concet-

to di Mediazione. Esso, infatti, in termini generali indica quell’attività checonsente di superare l’atteggiamento di un pensiero che registra semplice-mente i dati che si presentano nell’esperienza, per riconoscere come è pro-prio dell’essere dell’uomo “portarsi al di là del dato”. Si tratta di una posi-zione che, in termini analoghi, l’uomo può riscoprire anche nei rapportiinterpersonali dove i dati della conoscenza reciproca possono essere seria-mente oltrepassati per pervenire al pieno riconoscimento dell’altro, comealtro da sé.Per questo motivo filosofi quali Levinas, Buber, Maritain e Tillich pos-

sono essere considerati come i massimi filosofi della Mediazione intesa co-me profonda esperienza dell’incontro con l’altro e nelle loro opere è pos-sibile riscoprirne i presupposti fondanti la ratio e l’etica. La Mediazione delconflitto rappresenta la possibilità di un contesto strutturato in cui due opiù parti si accordano per occuparsi del conflitto, assistiti da un mediatoreneutrale e indipendente.Questi, lungi dall’essere lo sherpa del conflitto, è formato a una partico-

lare capacità di ascolto, non finalizzata cioè a dare consigli o giudizi, né aproporre soluzioni; favorisce la “ricircolazione” della comunicazione inter-rotta, permettendo sia l’espressione e il confronto delle emozioni, sia la sco-perta dei sentimenti all’origine della rottura della relazione. Con opportu-ni accorgimenti, il mediatore facilita una nuova percezione dell’altro, cosìche si possa riaprire il dialogo.Le modalità della Mediazione si inseriscono nel filone dei più recenti

studi sull’intelligenza emotiva, visto che sono spesso le nostre emozioni,non espresse e non comprese, a generare conflitto. La sua soluzione quindinon può prescindere dal considerare seriamente le emozioni. Le frustrazio-ni soltanto sublimate non cessano di esistere, fintanto che non si traduconoin scelte e acquisizioni comportamentali propri di una personalità comples-sivamente serena e propositiva.Ma come definire l’intelligenza emotiva? Non esiste in verità una for-

mula magica, si tratta piuttosto di un insieme di fattori, di abilità che sonocertamente in grado di aiutare la persona nella sua vita quotidiana e che188

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vanno apprese nel tempo, tra queste la capacità di riconoscere e gestire leemozioni, di controllare i propri istinti e di automotivarsi, anche fra inne-gabili difficoltà, in vista di un obiettivo sicuramente gratificante, di dar luo-go al principio della realtà, piuttosto che a quello del piacere, di proporsi inrelazione empatica, cioè di travalicare il significato referenziale delle paroledell’altro in direzione di una lettura più profonda dei sentimenti che le han-no dettate, delle più sottili notazioni espressive in cui prendono vita i pro-cessi emozionali per sintonizzarsi con essi, facendoli rivivere nel propriocircuito emotivo.Il comportamento aggressivo ci può dare una certa euforia. L’educazio-

ne competitiva ci abitua al piacere di battere qualcun altro sul campo digioco, nell’aula di un tribunale, nell’intimo delle mura domestiche. Dà unafalsa sensazione di potere! E ci dissuade dall’ammettere che l’altra personaabbia il diritto, come noi, ad avere opinioni e sentimenti.Al primo impatto proporre la Mediazione può apparire come voler pri-

vare dell’eccitazione della lotta, del diritto di seguire le proprie convinzioni,i propri sentimenti, qualunque essi siano e comunque in verità li si giudichi.Ma non è vero che il solo modo di affrontare un disaccordo, già in es-

sere, sia quello di provocarne un altro: questa modalità è certamente deva-stante, un’occasione persa. Una vittoria, basata sulla vendetta, sulla forza, sul-l’imposizione, non è una vera vittoria, non dura, è una vittoria di Pirro.Anche quando il vincitore ha ottenuto quello che voleva, il conflitto esi-

stenziale più profondo, che non è stato affrontato, né risolto, continuerà adavvelenare la vita delle persone coinvolte. Le dispute con gli altri, infatti, so-no quasi sempre il riflesso dei nostri intimi conflitti, dei problemi interioriai quali non abbiamo ancora trovato soluzione o dei quali non ci siamo an-cora resi conto.La Mediazione aiuta a esplorare gli aspetti conflittuali di se stessi per fa-

re pace con le molte e diverse personalità che coesistono, più o meno pa-cificamente, dentro di noi. Va oltre il principio “mors tua vita mea”, oltre ladinamica secondo cui una parte non può vincere, se l’altra non perde; vaoltre la tendenza ad attribuire le colpe all’altro, piuttosto che assumersi leproprie, almeno per la parte avuta nel creare il problema in oggetto; va ol-tre la logica del “torto” contrapposto alla “ragione”.

2.3. La Mediazione

La Mediazione ha per obiettivo la gestione pacifica dei conflitti attraversoil ripristino della comunicazione fra i confliggenti, il riconoscimento delladignità di entrambi come portatori di diritti oltre che di doveri. Questo tra- 189

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guardo richiede al mediatore importanti caratteristiche e competenze. De-ve infatti essere capace di un ascolto profondo delle necessità espresse attra-verso il conflitto, sapere stabilire un contatto con i bisogni inespressi, stimo-lando il loro riaffiorare in superficie, rendere possibile la riapertura del dia-logo fra le parti, che solo così potranno uscirne entrambe vincitrici.Il mediatore è orientato a promuovere il benessere dell’altro, quindi il

suo intervento è radicato nell’etica. Per lui è indispensabile perseguire e inbuona parte avere raggiunto il benessere interiore. Egli, pertanto, deve averimparato a riconoscere, ad affrontare e a oggettivare i propri conflitti.Esiste una modalità semplice per oggettivare i propri vissuti: scrivere, da-

re così corpo a ciò che preme capire, materializzarlo fuori da noi per po-terlo guardare “in faccia”, a giusta distanza, in modo da poterlo mettere be-ne a fuoco.Le conseguenze dei conflitti sono: energie ridotte, malesseri psicofisici,

danni estetici (basta osservare l’aspetto di chi è in preda a situazioni di sof-ferenza interiore), incertezza e instabilità che non danno posa. Si può direche ci sono tre i tipi di conflitto: risolti, irrisolti e latenti.Proprio questi ultimi sono i peggiori, perché sono quelli che continua-

no a lavorare in sordina e a provocare prima situazioni di disagio e poi divero e proprio malessere, o addirittura forme patologiche gravi come ilcancro. È come se con questi messaggi forti il nostro organismo ci riman-dasse l’urgenza di affrontare e risolvere nodi problematici inascoltati. È uncircolo vizioso: il conflitto rimane allo stato latente, genera malessere; chivive questa situazione trasmette a sua volta malessere intorno a sé, peggio-rando la qualità della propria e altrui esistenza. Ma questo circolo vizioso si può spezzare!La condizione reale dell’uomo è quella del limite. Accogliere l’homo hu-

manus permette di ipotizzare ed esprimere la comprensione per gli errori ei limiti reali dell’altro giungendo alla compassione. Fino a che si resta vin-colati all’idea di perfezione si prova un sottile e devastante rifiuto di se stes-si e si resta preda di sentimenti di disistima, di colpa, di rimorso che si acu-tizzano a ogni sbaglio, a ogni inadeguatezza, a ogni insuccesso e che siproiettano quindi sull’altro che sta attraversando un conflitto, che sta veri-ficando il suo limite. La perfezione, fondamentalmente asettica, richiedemodalità di essere asettiche e porta lontano da ogni possibile empatia. Unvero limite, soprattutto se presente nel mediatore che è coinvolto nelle si-tuazioni, e solo in quelle, di disordine, di confusione, di contrasto, di limi-te. Se si supera questa modalità di essere allora si può fare in modo che ognisituazione problematica o conflittuale da limite possa diventare risorsa. Dageneratori di malessere si diviene generatori di benessere in senso etico, in-190

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tendendo per etica la buona abitudine, l’abilità a governare se stessi – comesottolinea Salvatore Natoli – consapevoli della propria finitezza.Quando si è imbrigliati in un conflitto è come se un velo nero si sten-

desse su tutta la nostra vita, ci appare difficile vedere che non sempre è sta-to così e che non tutto è compromesso. Ci sentiamo in pericolo e minac-ciati in modo totalizzante. Pronto a soccorrere nel modo più opportuno, ilmediatore interviene a contenere e limitare questo atteggiamento facendointravedere quanto di buono in noi e nel rapporto con il confliggente rea-listicamente può essere valorizzato. Fa ricordare che la nostra vita non siidentifica completamente con la situazione che stiamo vivendo e che nontutto è a rischio. Ricorda di attingere la forza e l’autostima necessaria persuperare l’empasse da ciò che di buono abbiamo, abbiamo fatto, abbiamoricevuto.Tanto più socialmente preziosa, allora, diviene la Mediazione, poiché

rende possibile, in un contesto protetto, lo svisceramento completo del do-lore espresso dalle parti in conflitto, aprendo la via al riconoscimento reci-proco dei bisogni profondi dell’altro. La ripresa del dialogo fra le parti in-dica l’avvenuta soluzione dei nodi del conflitto; essa elimina alla radice lecause del contendere, soffocando così ogni possibile riaccendersi delle osti-lità.In tal senso la Mediazione è apportatrice di benessere e pace sociale, re-

stituendo alla vita interiore di ciascuno rinnovato vigore. Proprio come di-ce F. Adler: “Io stesso sono spiritualmente morto se non mi sforzo di co-gliere le buone qualità nascoste negli altri. Perché è soltanto grazie al dioinsediato nella più profonda socialità degli altri che il dio nascosto in mesarà disposto a mostrarsi”.

2.4. La figura del mediatore: lo specchio della verità

Occuparsi di Mediazione implica non la valutazione del fatto in sé, comepuò fare per esempio un giudice o un avvocato, ma la ricerca delle ragioniprofonde che il fatto sottende, scoprire ciò che sta dietro al conflitto e cheè alla base dei sentimenti dei contendenti.La controversia che si presenta al mediatore non è che la punta di un ice-

berg: le liti sono generate da motivazioni profonde, legate spesso a offesemorali che non riescono a trovare un risarcimento nella pena inflitta o nelcompenso pecuniario.Schematizzando, il conflitto è sì originato da fatti concreti, ma soprattut-

to dai vissuti, sempre unici, singolari per intensità e articolazione. Da qui lasua caratteristica peculiare, quella di essere un ginepraio non riferibile a 191

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modelli, legato com’è a vissuti differenti e a situazioni irripetibili in quan-to specifici di quella persona.Per un giudice o un avvocato conta il fatto, che viene analizzato e valu-

tato, applicando le norme del codice civile o penale: essi agiscono sui sin-tomi del conflitto, così come l’intermediatore o negoziatore che, diversa-mente dal mediatore, aiutano principalmente le parti a stabilire patti, a cer-care accordi per risolvere le questioni.Il ruolo del mediatore è più arduo, perché non ha un iter preordinato,

ma risulta più efficace nel momento in cui agisce sui problemi profondidelle persone che gli si affidano. Il compito è delicato, grande la responsa-bilità. E quindi non ci si può improvvisare mediatori, occorre, invece, se-guire un severo percorso formativo per riuscire ad acquisire competenzereali che consentano di agire e impediscano di danneggiare. Il mediatorecompetente sa restituire all’altro la sua vita, la sua capacità di “prendersi inmano”, la sua autonomia, se evita di sovrapporsi o sostituirsi a lui.Il percorso di formazione del mediatore è tutto operativo e comprende

tre sezioni:1. l’apprendimento dello specifico significato della Mediazione;2. l’apprendimento del modo di relazionarsi con l’altro;3. la scoperta e l’uso dell’intelligenza emotiva che pilota la Mediazione e larelazione con l’altro.Altra competenza del mediatore è quella di percepire la situazione che

ha di fronte. Il silenzio è necessario per lasciare agire gli echi dei concettiascoltati e apprezzare la ricchezza che ne consegue.Il mediatore deve utilizzarlo non come rinuncia a dire o fare ma come

ricca opportunità per fare emergere in sé e negli altri quanto di più vero eprofondo percepisce. Egli deve dipanare l’intreccio dal quale può sembrareimpossibile uscire: 1. i fatti; 2. il contesto; 3. le emozioni; 4. le modalità di gestione – le armi; 5. gli effetti sulle persone, sul bilancio finanziario, sulla relazione; 6. i protagonisti apparenti e reali – burattini e burattinai; 7. gli aiutanti consiglieri e consulenti; 8. le violazioni esplicite e implicite; 9. l’evoluzione: escalation o ricomposizione.

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Il mediatore inoltre deve: • andare oltre l’apparenza; • controllare ed esprimere in modo equilibrato la propria emotività; • non reagire con aggressività alle diversità; • padroneggiare la capacità di ascoltare l’altro e se stesso; • avere un vero desiderio di relazione ed essere sinceramente in relazione; • provare a dare fiducia; • accettare i punti di vista diversi; • essere convinti che stare con l’altro può essere vantaggioso; • avere una buona autostima; • mettersi in gioco con le proprie risorse e qualità; • mettersi a nudo, essere se stessi; • sentirsi responsabili al 100% nella relazione; • avere conoscenza e padronanza degli strumenti della comunicazione.Ciascuno di questi punti è l’espressione di comportamenti e consapevo-

lezze interiori, non scontate, non facili da raggiungere nello stesso tempo incui sono vitali così come lo è la relazione.L’intelligenza emotiva, motore immobile dell’intelligenza raziona-

le, condiziona le nostre azioni e la nostra riuscita nella vita.Il mediatore, servendosene, adotta un atteggiamento di ascolto aperto,

profondo, empatico, privo, cioè, di giudizio nei confronti delle scelte e delmodo di essere dell’altro. La sua è una posizione neutrale che favorisce lacostruzione di un rapporto di fiducia e fa sì che l’altro si metta in relazio-ne senza sentire il bisogno di adottare una maschera, che possa esprimere ipropri bisogni più autentici, esaminare non le proprie colpe, ma le proprieresponsabilità.Responsabilità: termine che corrisponde al latino sponsio, promessa, im-

pegno. E spondere pro aliquo significa dare garanzia, rendersi mallevadori perqualcun altro. Chi può rinunciare alla responsabilità? Responsabili si è inquanto si vive nella relazione. Ciascun uomo ha bisogno dell’altro (non acaso Aristotele definiva l’uomo “animale sociale”), e all’altro deve quindigratitudine: non soltanto verso chi lo ha generato, ma anche verso chi, esi-stendo, consente lo scambio e per il solo fatto di godere comunque dei be-nefici che l’esistenza gli offre.La vita è un dono. Può essere che spesso si abbia modo di pensare che

“l’inferno sono gli altri”, come affermava uno dei personaggi di “A portechiuse” di Sartre. Lo scrittore ha ben sottolineato come l’individuo sia inconflitto endemico e permanente con gli altri.Mentre tento di ingabbiare l’altro mediante i miei significati, la stessa

operazione la sta compiendo chi mi sta di fronte. Vorrei poter fare a meno 193

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dell’altro, ma non posso. E questa affermazione quasi disperante, contenutanel lavoro teatrale appena ricordato, altro non è se non il desiderio diun’autosufficienza impossibile da raggiungere. Siamo in realtà vincolati l’u-no all’altro e non possiamo sottrarci alla responsabilità che ne deriva: è ine-vitabile e non sottoposta alla discrezionalità dell’uomo.È l’esistenza dell’altro a determinare la mia responsabilità verso di lui: nei

suoi confronti posso essere giusto o colpevole, mai neutrale. Anche quandodecido di ignorarlo, a ben vedere, assumo comunque una posizione: sonoresponsabile di ignorare l’altro. Perfino nell’omissione (una delle colpe mag-giori della società contemporanea) vi è una responsabilità.Responsabile è colui che sa prendere l’altro a misura della propria azio-

ne e del proprio limite, aprendo la strada alla vicendevole disponibilità:“Mai senza l’altro”, ha affermato Lévinas.Anche verso noi stessi abbiamo responsabilità, nella consapevolezza del

nostro limite. Siamo tentati costantemente dal desiderio di autosufficienzae di onnipotenza, dimenticando che non possiamo agire come un essere as-soluto, perché siamo limitati dal tempo: siamo esseri temporali. Il limite checi pone il tempo dell’esistenza ci deve condurre a considerare le conse-guenze delle nostre azioni. Quello che facciamo oggi avrà conseguenze do-mani. L’agire umano è temporale, finito e limitato. È un limite che avver-tiamo come peso. Ma se prendiamo realisticamente coscienza della nostrafinitezza, allora saremo in grado di avvertire gratitudine e senso del debitoche ci porterà a operare con maggior cura verso noi stessi, oltre che versogli altri.L’aprirsi svela la complessità della vita e dà la forza di considerare le dif-

ficoltà come prove da superare per svelare e realizzare in pienezza il propriosenso.La Mediazione può dirsi un inno alla diversità in quanto consente a cia-

scuno di manifestare le proprie esigenze e pulsioni, di non tendere a omo-logare gli altri, ma di accoglierne l’unicità. È pertanto un’arte, non solo unatecnica; un’arte, perché crea ogni volta, e in modo differente, la strada pergiungere al profondo dell’altro. Come tutte le arti non può essere tradita,non consente di essere strumentalizzata a fini diversi da quelli per cui èmessa in atto, pena il suo svilimento.In fondo, si sa, “soltanto mediante l’arte possiamo emergere da noi stessi

e sapere quello che vede un’altra persona” come dice bene Marcel Proust.Se un’allenata intelligenza emotiva è necessaria occorre, però, anche ave-

re modelli teorici di riferimento. Si può scegliere un modello umanisticofrancese, rielaborato con uno stile italiano e utilizzato per ideare il percor-so di formazione che comprende, oltre all’educazione dell’intelligenza194

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emotiva, l’approfondimento della funzione della Mediazione e una cono-scenza non epidermica dei meccanismi che governano la dinamica relazio-nale. Non bisogna però scoraggiarsi se il lavoro può sembrare lungo e fati-coso, perché abbandonarsi a facili entusiasmi può provocare frustrazioni erisultare nocivo sia per i confliggenti, sia per il mediatore, sia per la Media-zione stessa. Chi intende agire in questo campo deve non soltanto impe-gnarsi nella propria formazione, ma anche preparare il terreno attraverso di-battiti, seminari, momenti di informazione: deve cioè creare una culturadella Mediazione che favorisca il ricorso a una diversa modalità di risolu-zione dei conflitti.Ci sono situazioni non mediabili in quanto non sono possibili momen-

ti di incontro, ma esistono solo occasioni per confliggere. In tal caso il me-diatore non abbandona i confliggenti, ma, ponendosi in relazione di aiuto,attua una forma indiretta di Mediazione, per esempio con azioni a “staffet-ta”, incontrando per un certo periodo le parti separatamente. L’abilità delmediatore sta anche nel capire come e quando intervenire. Non può per-mettere né strumentalizzazioni, né danneggiamenti reciproci.La caratteristica di questa figura professionale fa sì che abbia più presti-

gio che potere, un prestigio conseguente al suo sapersi porre come perso-na affidabile, di grande equilibrio, in grado, pertanto, di meritare la fiduciache apre all’altro valide opportunità di esprimere i propri bisogni profondi.Esistono applicazioni plurali della Mediazione. Ciò determina la possi-

bilità che la si applichi in ambiti vari (sociali, penali, scolastici, commercia-li, familiari ecc.), cioè nei conflitti di varia natura che originano sempre dalnostro bisogno di essere amati, stimati, riconosciuti.A volte se ne può fare un uso “preventivo”: sempre infatti è più utile in-

tervenire sulla microconflittualità, come prevenzione efficace a promuove-re la cultura della positività del conflitto.La Mediazione riuscita è “convincere”, che vuol dire “vincere insieme”,

poiché ciascuna parte viene riconosciuta nella sua dignità e può riconqui-stare stima e amore di sé, prima di tutto. Quella del mediatore è una posi-zione di vicinanza a ciascun contendente, non di fredda equidistanza; pro-prio per questo egli non è direttivo, non impone né suggerisce soluzioniche devono, invece, scaturire dai confliggenti, una volta che abbiano presoconsapevolezza delle reali motivazioni della controversia. In genere l’inter-vento del mediatore si esaurisce in poche sedute secondo precise modalità,tanto che si può, talvolta, risolvere in un solo incontro. Quasi mai questoaccade nella Mediazione familiare, proprio per la complessità delle situazio-ni, del ginepraio emotivo che riflette.La tecnica della Mediazione può essere applicata anche da parte dell’av- 195

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vocato a patto che la sua forma mentis di alleato di una sola parte possa ade-guarsi al compito in modo significativo, e comunque purché nessuna delledue parti gli abbia dato mandato a rappresentarlo in causa.In Italia la Mediazione è tenuta in grande considerazione per il suo re-

spiro culturale, per le considerazioni teoriche degli studiosi e per la convin-zione che possa contribuire al superamento della logica di giustizia retribu-tiva. Sul piano operativo si corre, però, il rischio di banalizzare l’applicazio-ne e quindi di provocare gravi danni se si tollera l’incapacità di gestire conserietà professionale le situazioni.

2.5. Le procedure della Mediazione

Il setting di Mediazione prevede l’intervento di più figure di mediatori, poi-ché è opportuno che vi sia interazione fra loro. Ciò consente anche chequalora uno di loro si scoprisse, durante la seduta, troppo emotivamenteimplicato, per vari motivi precedentemente non prevedibili, si possa astene-re dall’intervenire. Quando il coinvolgimento emotivo di uno del team, chepure costituisce all’origine una grande ricchezza in termini di scambio, èmolto forte, perché coincide con le emozioni che le parti mettono in cam-po, si corre infatti il rischio di non sapersene distanziare e quindi di risul-tare dannosi alla gestione dei vissuti altrui.Al termine dell’incontro, inoltre, uno scambio di riflessioni e di impres-

sioni ha un importante significato di confronto e di liberazione dalle sco-rie emozionali generate dalle relazioni conflittuali che via via sono emerse,alle quali i mediatori sono tutt’altro che estranei, essendosi “sporcate le ma-ni” nel loro stare in mezzo in uno spazio partecipato.Il luogo fisico dove avviene l’incontro è un ambiente semplice, neutro

ma confortevole, opportunamente allestito con un tavolo che separa i me-diatori dalle parti confliggenti. La procedura di accoglienza iniziale richie-de che uno dei mediatori faccia accomodare i convenuti e spieghi loro qua-li sono gli obiettivi della Mediazione e quale sarà il ruolo svolto durantel’incontro dagli stessi mediati, rendendo esplicite le modalità di interventoloro consentite.In una fase precedente il professionista, che ha già incontrato separata-

mente i confliggenti, ha istruito un dossier sul caso, che ha fatto conoscereagli altri mediatori. Per avviare la Mediazione bisogna innanzitutto che unoalmeno dei confliggenti si presenti a farne richiesta al centro preposto o alprofessionista accreditato. Meglio se a farlo sono entrambe le parti in con-trasto, perché altrimenti, e accade nel maggior numero dei casi, il mediato-re ha il compito di sollecitare l’altra parte. Il che non è poi così semplice,196

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visto che bisogna affrancare il proprio intervento da ogni sospetto di com-plicità, di favoreggiamento nei confronti del primo richiedente. Tale com-pito diventa più facile, se il mediatore coincide con una figura autorevolenel vissuto del soggetto o dei soggetti da persuadere o se si è all’anteprimadi un’azione legale.Un incontro preliminare con ciascuno costituisce il primo passo. È il

momento per presentare le linee di svolgimento, le finalità, i limiti dellaproposta.L’occasione per raccogliere o costruire il consenso.Fissata la data del colloquio, questo avrà come scenario un luogo che

non abbia connessioni con il vissuto conflittuale e ciascuno dei contraentisiederà in maniera tale da sentirsi a proprio agio e non in posizione di in-feriorità. Il mediatore accoglierà i convenuti, ringraziandoli di aver sceltoquesta opportunità, poi, si presenterà dicendo magari qualcosa di più delsuo compito, cercando di sciogliere il rigore delle formalità e disporli a unclima di maggiore intimità.Si fisseranno le regole essenziali dalle quali non sarà ammesso derogare,

regole che potranno anche essere meglio definite con il contributo stessodelle parti, ma che comunque avranno alla base il rispetto dell’opinionedell’altro, quindi la necessità di un ascolto attento, senza che si interrompachi sta parlando, soprattutto nella fase iniziale, prima che la comunicazionetra le parti sia ripresa direttamente, al di là del mediatore; ovviamente, saràdata facoltà al mediatore di interloquire, essendo a lui affidato il correttosvolgimento dell’incontro, quando lo ritenga opportuno; sarà rispettata lariservatezza su quanto avverrà nel corso della Mediazione.Ricevuto il consenso dei contraenti, fissati, ove possibile preventivamen-

te, il numero e i dati spazio-temporali dei successivi colloqui, si dà voce alconflitto e si invitano le parti a esporre i fatti. Preferibilmente si lascia chesiano le parti a scegliere chi incomincerà a parlare, di solito inizia quella par-te che per prima ha richiesto l’incontro e comunque chi si dimostra più an-siosa di liberare i propri umori.Eventualmente, nel caso sia necessario che una parte parli in prima istan-

za, per non essere schiacciata dall’irruenza vincente dell’altro, si può preve-dere un lieve intervento del mediatore di rinforzo del “più debole” e la pro-posta a questi di iniziare.Sarà la fase delle accuse e dello sfogo, che opportunamente verranno

fuori nella loro interezza, perché si sgonfino un po’ le sacche di acredine,ma sarà insieme necessario che ognuno ascolti bene ciò che verrà asserito,affinché sia possibile, dopo, il contraddittorio nei confronti dell’altro. La po-sizione imparziale del mediatore verrà subito puntualizzata dal suo riepilo- 197

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go dei fatti e dalla sua richiesta di conferma della precisione e fedeltà concui li si riferisce.Il mediatore, poi, con domande non specifiche e limitanti, ma che lasci-

no ampio il campo delle risposte, e “rispecchiando”, cioè, ribadendo i nu-clei essenziali delle affermazioni fatte a turno dai confliggenti, mostrerà diaver ascoltato e compreso. Ma soprattutto di aver colto le diverse posizionie lo stato emotivo di ciascuno.E, mentre avverrà questo, cercherà di rendere prive di carica negativa,

cioè di oggettivare, le asserzioni troppo dense di aggressività, di accuse, dirisentimento, spostando l’attenzione dalla persona al problema e sottoli-neando gli elementi comuni alle due posizioni. Il che toglierà mordente alpessimismo dei protagonisti verso l’esito del conflitto e renderà più facile,meno doloroso affrontare gli elementi di netto contrasto. Su alcuni di que-sti in particolare, dai più semplici ai più complessi, oppure a partire da quel-li più urgenti, il mediatore indurrà l’attenzione dei presenti. Questo proces-so così puntuale permetterà loro di avere una visione non confusa del con-flitto, di drammatizzarlo e questo, a sua volta, permetterà di pensare a solu-zioni che appaiano realistiche e ragionevoli.Sarà giunto allora il momento in cui i convenuti prospetteranno in fase

provvisoria ciascuno una prima soluzione e in cui pian piano non sarà ilmediatore quello a cui singolarmente si rivolgeranno, ma essi interloquiran-no direttamente tra loro. La cosa ingenererà un certo imbarazzo all’inizio,ma poi si renderà progressivamente più fluida, se l’incontro muoverà secon-do standard consueti. Allora, si rivelerà importante ancora il rispecchiamen-to, ma questa volta di un contraente nei confronti delle affermazioni del-l’altro. E ciò per favorire sempre più il clima di disponibilità, di apertura avalutare nelle proposte di soluzione le esigenze reciproche, che potrannocominciare a evidenziarsi come più complesse di quel che non appaia, po-tranno, si vuol dire, iniziare a venir fuori gli interessi e i bisogni sottesi al-l’oggetto emergente dello scontro.E potrà specialmente ingenerarsi l’idea che non si abbiano delle posizio-

ni da difendere, ma un problema in comune da risolvere con forze con-giunte. D’altra parte, il mediatore avrà già dall’inizio sottolineato che laMediazione ha come obiettivo l’assolvimento degli interessi di ciascunadelle parti.

2.6. La fase conclusiva: la negoziazione

Le parti, dopo aver verificato che il conflitto non è sui bisogni, che questisono conciliabili, con più facilità saranno indotte a concentrarsi, piuttosto198

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che sul contrasto, sulle soluzioni ipotizzabili e, naturalmente, a modularle suibisogni stessi. Non si arriverà, perciò, a un compromesso, a una transazioneimposta dall’esterno che lascia di norma un perdente e un vincente, e al pri-mo il gusto amaro, la mortificazione del soccombere, a entrambi la provadell’inesistenza dell’equità e della garanzia dei diritti dell’individuo. Se que-sta dovesse essere la conclusione di un incontro mediativo, il mediatore nonpotrebbe definirsi più tale, perché avrebbe perso la sua posizione di terzoneutrale: quella imparzialità che va invece inequivocabilmente dichiaratacome premessa all’incontro e dimostrata sempre pur con tutte le difficoltàche ciò comporta, perché come ogni professionista, pur preparato, ha i suoilimiti, le sue idee, le sue capacità, le sue motivazioni.Il ventaglio delle soluzioni conclusive, che saranno ipotizzate dalle parti

secondo il sistema del brainstorming, vale a dire del libero flusso di idee, sen-za censura né per se stessi, né per l’altro, andranno al momento accolte tut-te dal mediatore, che non stroncherà in partenza quelle poco ammissibili epoco opportune. Le parti avranno anche accettato, fra le norme poste ini-zialmente, la disponibilità a lasciarsi sollecitare dalle idee altrui e, ritenendo-lo opportuno, ad abbracciarle senza timore di essere vinte o frodate, ma te-nendo sempre conto della necessità di un personale impegno, di un qual-che cedimento dalle proprie posizioni. Al brainstorming, quando si creeran-no momenti di silenzio, di vuoto propositivo, potrà contribuire anche ilmediatore, precisando la natura esclusivamente ipotetica delle sue proposte.La selezione delle proposte, poi, continuerà a siglare la responsabilità di

ciascuno, giacché il mediatore solleciterà a vagliare i pro e i contro di essee, scartate quelle negative, a suggerire che si evidenzino delle opportunitàche rendano più soddisfacenti quelle positive. Qualora si siano stabiliti incomune dei criteri per la selezione, questi non potranno prescindere dal-l’attuabilità, dall’equità, dalla garanzia che offriranno di durata.L’accordo, verbalizzato per iscritto e puntualizzato nei particolari, costi-

tuirà una terza via, “altra”, rispetto alle posizioni di partenza, creativa (ma-gari di una creatività opportunamente sollecitata nei soggetti in conflitto),frutto di una scelta libera e resa forte da un profondo consenso di entram-bi i contraenti. D’altro canto è possibile che l’accordo sia temporaneo, chesi attui un periodo di prova: il carattere di temporaneità aiuta a uscire dallacondizione di stasi, facilita ulteriormente il consenso, perché lascia aperte leporte del ripensamento, toglie la sensazione, se si abbiano delle perplessità,di essere stati ingabbiati una volta per tutte.In ogni caso, che la soluzione, qualunque essa sia, venga rispettata dalle

parti sarà molto probabile e correlato proprio al fatto che entrambe l’avran-no pensata e formalizzata e saranno portate, sentendosi libere di farlo, a ri- 199

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spettare la loro “costruzione”; al fatto che alla paura, al disagio, alla rabbiache di solito precedono l’incontro, presentito come scontro, saranno suben-trati il riconoscimento della sofferenza dell’altro, il consenso, la calma dellarettitudine.Un contratto che abbisogni di un intervento legale vero e proprio sarà

redatto in tali termini alla presenza dei rispettivi avvocati.La conclusione vedrà i contraenti, come in un rito, scambiarsi un segno

fisico di rappacificazione, e il mediatore ringraziarli, non senza che prima sisia fissato un altro incontro in cui si verificherà se quanto è stato stabilitoavrà avuto attuazione.Tutto quello che si è detto si svolgerà per lo più in diverse fasi e in di-

verse sedute e potrà avere come protagonisti dei gruppi o dei rappresentan-ti di gruppi, anziché dei singoli individui esclusivamente protagonisti delconflitto.

3. Riflessioni conclusive

La Mediazione costituisce una possibilità d’intervento all’interno del siste-ma formativo, come proposta di counseling attraverso cui orientare e soste-nere non solo il singolo, ma l’intera comunità educante con sviluppi di am-pia portata.L’attuale contesto di esasperata individualizzazione, pone nelle mani di

ciascuno la responsabilità di autodeterrminarsi e di autodeterminare lacondizione sociale. Questo chiama in causa la necessità per il singolo di co-struire una solidità personale sia sul piano cognitivo sia su quello emotivo:il primo per la necessaria assunzione di elementi che costituiscano riferi-menti del pensiero in una rielaborazione ed organizzazione continua con-seguente alla rapida evoluzione delle conoscenze; il secondo poiché l’allon-tanamento o la perdita di sistemi di riferimento possono determinare for-me ansiogene (insicurezza dell’incerto) oscurabili unicamente attraversouna padronanza emotiva. In linea con il pensiero moriniano, si ritiene ur-gente sviluppare interventi formativi orientati ad accogliere la personale fi-nitezza, ad accettarne i limiti ad affrontare l’incertezza fondando la propriaazione sui paradigmi del cambiamento e dell’etica della comprensione. Ciòimplica la messa in discussione della propria persona, pur nel mantenimen-to di un’integrità interiore, la capacità di pensarsi e agire in modo fluido,flessibile, pur riconoscendo la propria individualità. La Mediazione umanista crede nella possibilità del singolo di costruire

relazioni efficaci e di come a questa condotta che può essere appresa, segua200

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un miglioramento generalizzato per sé e per il contesto in cui si opera. Par-lare di Mediazione significa proprio riconoscere l’importanza della relazio-ne, considerarla come qualcosa che si co-costruisce, con una struttura bipo-lare e circolare. Questo perché si realizzano delle connessioni tra ciò checiascuno è, quello che vuole apparire, come si manifesta nella realtà; ma an-che perché è il suo realizzarsi che ne rinnova la dimensione. La Mediazio-ne considera la relazione autopoietica e quindi generativa per ogni singolapersona, se però sapientemente gestita.Il sistema scolastico, dal canto suo, costituisce luogo per eccellenza di co-

struzione di un’identità umana e, quindi, contesto nel quale è ancora piùindispensabile assumere scelte di crescita e sviluppo. In questo la Mediazio-ne costituisce significativo ed efficace scelta di campo e di azione.

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