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Pubblicato su Counseling Italia www.counselingitalia.com La comunità dei counselor ringrazia gli autori di questo documento - Pagina 1 Scuola triennale di counseling Salerno Tesi in Counseling Psico - Pedagogico Il counseling con i bambini arrabbiati Docente Candidato Giovanna Dodaro Irina Bahdanova Super visore clinico Battista Pellegrino – Rosa Mandia

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Scuola triennale di counseling

Salerno

Tesi in Counseling Psico - Pedagogico

Il counseling con i bambini arrabbiati

Docente Candidato

Giovanna Dodaro Irina Bahdanova

Super visore clinico

Battista Pellegrino – Rosa Mandia

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Capitolo 1

Il counselor e i bambini arrabbiati

Sono stati i poeti e i romanzieri i primi a parlarci

dell’anima, a rappresentare e narrare la paura, la

gioia, la disperazione, la felicità, l’angoscia devastante, l’invidia e la

gratitudine, e la rabbia, quella distruttiva di cui narrano tanti miti e

che ci mostra il dolore dei non amati, dei respinti, dei giudicati. (1)

Della rabbia e di bambini arrabbiati parlerò, appunto, di quelli

che ho incontrato presso uno studio presso il quale ho potuto fare

una importante esperienza e dove lavoravano psicoterapeuti

infantili e della famiglia, pedagogisti clinici, logopedisti.

__________________________

1) Cfr. Henry Thomas, Il dolore infantile nel mito, Edizioni

Ma.Gi., Roma 2003.

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.Questi bambini mostravano, a saperne leggere il comportamento

senza giudizi, pregiudizi o moralismi, la loro paura, l’angoscia di

chi sentiva di vivere in un mondo cattivo, abitato da fantasmi e

presenze innominabili, un posto inaffidabile e a tratti desolato,

come un deserto, nel quale, per poterci essere è necessario gridare.

Narrerò di Giovanni, il piccolo drago, al quale fu affidato il

ruolo di “pecora nera” della famiglia e del suo fratello gemello.

Di bambini arrabbiati ne ho incontrati tanti: Marilisa,

sboccata, manesca, eppure dolcissima, irata perché non amata da

una mamma che a sua volta non conosceva l’amore; Annabella la

cui rabbia assoluta e radicale mi ha posto per la prima volta di

fronte ai miei limiti: la rabbia di chi sapeva di non essere stata

amata sin dall’inizio, che si esprimeva con un’aggressività

devastante e che ha dovuto essere seguita da uno psicoterapeuta

infantile insieme ai suoi genitori.

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E vedremo come una lettura attenta e rispettosa della vita

di un bambino e dei suoi genitori ha consentito al counselor di

individuare percorsi possibili di uscita dalla rabbia devastante

per metterla al servizio della creatività.

Un counselor è in grado, considerata la sua formazione

professionale, di ascoltare, oltre l’altro, anche se stesso. Nulla,

infatti, accade nella persona che abbiamo di fronte che non sia

accaduto già in noi. Spesso leggere l’anima del bambino che ci sta

di fronte è leggere la nostra stessa anima: viviamo nella sua

sofferenza la nostra sofferenza, ogni sua ferita riapre le nostre,

ogni suo fantasma fa rivivere i nostri fantasmi.

E quel dolore, quelle ferite sono un bene prezioso.

Il counselor non possiede la verità perché la verità è

sempre nell’altro. I nostri libri, le nostre conoscenze possono

essere un utile strumento: ma in essi non c’è la verità.

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Nulla, inoltre, può sostituire lo strumento che noi stessi

siamo: possiamo farne vibrare le corde in modo armonico e

melodioso, oppure essere maldestri musicisti e tirar fuori suoni

fastidiosi .

Il counselor, nel rapporto con l’altro, attiva la sua capacità

di ascolto attivo: coglie ogni gesto, ogni postura, ogni inflessione

della voce o espressione del viso, le omissioni e le contraddizioni

in ciò che viene narrato, per ricostruire, insieme alla persona, una

storia, la possibile storia, e per aiutarla a sviluppare gli strumenti e i

mezzi per risolvere le proprie difficoltà, siano esse attuali o

radicate in relazioni problematiche che si sono strutturate nel

tempo.

L’ascolto del counselor è anche un ascolto empatico.

L’empatia, e questo è ancor più vero nel caso dei bambini,

ci permette di attivare la capacità di decentramento e di sentire le

emozioni dell’altro; ci consente, cioè, di metterci

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temporaneamente nella mente dell’altro, per sentire quello che egli

sente, il modo in cui percepisce ciò che sta vivendo.

Una parte di noi sente l’altro; una parte osservante, invece,

coglie su di un piano più razionale ciò che sta accadendo al cliente,

in modo da potergli restituire quel vissuto in una forma, per così

dire, “bonificata”, grazie alle strategie di facilitazione.

Un counselor non fornisce mai facili soluzioni; egli sollecita

le potenzialità del cliente, lascia che sia la persona a scoprire ciò

che nella propria esistenza e nelle proprie relazioni crea disagio e

sofferenza.

Cogliere le emozioni, consentire al cliente di vivere i

sentimenti negli incontri con noi e di verificare come essi agiscano

al di là della nostra consapevolezza, è parte essenziale del nostro

lavoro. La gioia, la rabbia, l’amore, la felicità, la noia, la

disperazione, la tristezza, la paura, l’angoscia: emozioni e

sentimenti a volte così intensi che non riusciamo neanche

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ad esprimere o che ci sentiamo impossibilitati a vivere, perché c’è

qualcosa nella nostra vita che li inibisce o che non consente di

goderne.

La rabbia è uno di quei mostri che la nostra società, la nostra

cultura, vorrebbe tenere sotto controllo, negandola, ritenendola

non ammissibile, e fin anche non rappresentabile.

Goya ha sostenuto che il sonno della ragione genera mostri.

Mostri ancora più devastanti crea il fatto di non riconoscere le

emozioni, sia sul piano individuale che storico.

Dicevamo degli scrittori: prima degli scienziati, degli psicologi,

dei filosofi e dei pedagogisti hanno descritto in pagine immortali la

rabbia degli uomini, hanno calato la loro sonda in ciò che è

nascosto, nel vaso di Pandora che è il nostro animo.

Ecco Riccardo III, il terribile e infelice eroe di Shakespeare, lo

storpio, il dimezzato, al quale non resta altro che l’odio rabbioso,

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dietro cui si nasconde l’invidia per i fortunati della sorte:

“ (...) io, che son reso manchevole dell’armonica simmetria, e cui la

natura fraudolenta ha sottratto ogni onesta sembianza di figura umana,io,

che son deforme, non finito, mandato anzi tempo in questo spirante mondo,

senza che m’avessi neppur plasmata a mezzo la forma, questa così azzoppata

e storpia che i cani m’abbaiano contro se m’avvio zoppicando insieme

a loro... Ebbene, io (...) non ho altra distrazione che m’aiuti a passare il

tempo, se non quella che consiste nel riguardare l’ombra mia nel sole e

ricercar le variazioni della mia deformità. E così (...) ho deciso d’assumere,

per contro, la parte del cattivo, e di portare ogni sorta d’invido odio agli

oziosi piaceri di questo tempo. Ed ho tramato complotti d’ogni sorta, e

pericolose premeditazioni (...)” (2)

Il Riccardo III è stata letta come una tragedia del potere; è anche la

(2) William Shakespeare, Riccardo III, Atto I, Scena I, Rizzoli,

Milano 1986.

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tragedia della rabbia distruttiva, della rabbia di chi non si

accetta e non è accettato.

E’ la rabbia del bambino non amato e rifiutato anche dalla

madre, che deve aver odiato quel mostriciattolo sin dall’inizio:

“No certo, per la croce santissima! sai anche troppo bene che venisti in terra

soltanto per trasformare la terra nel mio inferno! La tua nascita m’è costata

gravissimo affanno, la tua infanzia fu capricciosa e caparbia, i tuoi giorni di

scuola da incuter spavento, tant’erano sfrenati, selvaggi e tempestosi,la tua

giovinezza temeraria, spavalda, avventurosa; la tua maturità altezzosa, piena

d’astuzie e di raggiri, e sanguinaria;(...). . Quale ora di conforto puoi tu

ricordare che mai potesse rendermi grata la tua compagnia?” (3)

La grandissima arte di Shakespeare scopre le ragioni nascoste

della crudeltà di Riccardo; la rabbia è una risposta alla sua

percezione di vivere in un mondo cattivo ed inaffidabile;

3) Ibidem, Atto IV, Scena IV.

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Shakespeare scopre dietro l’uomo il bambino, la cui angoscia

non è stata compresa.

Attraverso il gioco, i disegni, le storie che narrano, scopriamo

che per alcuni bambini il mondo adulto è un luogo terrorizzante;

questi bambini, con il loro comportamento, in realtà, chiedono

aiuto, vogliono disperatamente che qualcuno sia capace di

riconoscerne la paura.

In una sua canzone, Il parco della luna, Lucio Dalla esprime

splendidamente questi sentimenti infantili:

Anch’io quante volte da bambino ho chiesto aiuto

quante volte da solo mi sono perduto

quante volte ho pianto e sono caduto

guardando le stelle ho chiesto di capire

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come entrare nel mondo dei grandi senza paura

paura di morire.............................................

Nelle pagine del libro Cuore, di Edmondo De amicis,

incontriamo il più “infame” e criticato dei bambini: Franti.

Così lo descrive Enrico Bottini, il protagonista:

“ (...) Io detesto costui. E’ malvagio. (...) Provoca tutti i più deboli di lui, e

quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male. Ci ha qualcosa che mette

ribrezzo su quella fronte bassa, in quegli occhi torbidi, che tien nascosti sotto la

visiera del suo berrettino di tela cerata. Non teme nulla, ride in faccia al

maestro, ruba quando può, nega con una faccia invetriata, è sempre in lite con

qualcheduno, si porta a scuola degli spilloni per punzecchiare i vicini, si

strappa i bottoni della giacchetta, e ne strappa agli altri, e li gioca, e ha

cartella, quaderni, libri, tutto sgualcito, stracciato, sporco, la riga dentellata, la

penna mangiata, le unghie rose, i vestiti pieni di frittelle e di strappi che si fa

nelle risse. Dicono che sua madre è malata dagli affanni che egli le dà, e che

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suo padre lo cacciò di casa tre volte; sua madre viene ogni tanto a chiedere

informazioni e se ne va sempre piangendo. Egli odia la scuola, odia i

compagni, odia il maestro. Il maestro finge qualche volta di non vedere le sue

birbonate, ed egli fa peggio. Provò a pigliarlo con le buone, ed egli se ne fece

beffa. Gli disse delle parole terribili, ed egli si coprì il viso con le mani, come se

piangesse, e rideva. Fu sospeso dalla scuola per tre giorni, tornò più triste ed

insolente di prima.”

A Franti vengono dette parole terribili, dopo l’intervento della

madre malata per farlo riammettere a scuola:

“Il Direttore guardò fisso Franti in mezzo al silenzio della classe, e gli disse

con un accento da far tremare: - Franti, tu uccidi tua madre! – Tutti si

voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise.” (4)

________________________

4) Edmondo De Amicis, Cuore, Edizioni CAMPOS, Trezzano

Rosa (Milano) 2003, pp. 66 – 67 e 77.

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E come si conveniva, Franti finisce in riformatorio. Troppo,

davvero, per un bambino.

Come counselor non possiamo condividere

ovviamente l’atteggiamento mentale di De Amicis: avremmo

ascoltato il cuore di Riccardo e di Franti, avremmo letto l’angoscia,

colto in ogni atteggiamento, in ogni gesto, nel tono della voce, la

sofferenza, le difficoltà evidenti e non ammesse. Ma saremmo stati

capaci di scoprire le abilità non riconosciute del bambino e non

solo le debolezze e le incapacità. Saremmo andati alla ricerca di

una storia che rendesse comprensibile il comportamento,

avremmo scoperto dietro alle difficoltà cognitive gli impacci

emotivi, convinti come siamo che una persona non può essere

sezionata ma va considerata nella sua globalità:

“ Il soggetto è conosciuto solo se di lui si registra ogni percezione degli eventi, sia

esterni che interni, se si analizza ogni manifestazione soggiacente e sotterranea,

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se si registrano i sentimenti che lo orientano all’automatismo comportamentale,

fondanti quel complesso di conoscenza in cui ogni individuo ripone la propria

identità.” (5)

Un counselor sta in atteggiamento di rispettoso ascolto dell’altro:

non è intrusivo, non “fa l’amico”, non dà consigli, perché il suo

scopo è far emergere le potenzialità che ci sono e delle quali

spesso la persona non è consapevole. Egli sa che la verità è

sempre nell’altro. La capacità di ascoltare la persona che abbiamo

di fronte è decisiva ai fini della costruzione di una relazione basata

sullo scambio, tramite il quale potenziare l’identità, l’autonomia di

quell’unico essere umano che, come è ovvio, non può somigliare a

nessun altro, né essere inserito in rigide griglie interpretative.

__________________________

5) Guido Pesci e Gloria Mencattini, Autonomia e coscienza di sé,

Ma.Gi, Roma 1999, p. 11.

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Parole, gesti, , posture, movimenti, silenzi, toni di voce ci aprono

le pagine dell’anima di un bambino:

“ La prima osservazione del bambino che possiamo mettere in atto è intesa a

interpretare ogni comunicazione che esso invia per mezzo di quel repertorio

semiotico e produzione segnica di messaggi altrimenti taciuti dal linguaggio

parlato.(...)

Il soggetto si presenta a noi con i suoi difetti, le sue debolezze, le sue

aspirazioni, i suoi pensieri, la propria intima natura, la sua personalità, le sue

principali caratteristiche.” (6)

Il bambino “ ha una sua propria grammatica” che

è necessario saper leggere:

________________________

6) Sergio Gaiffi e Guido Pesci, Il contributo della psicologia clinica in

Guido Pesci ( a cura di), Diagnosi funzionale, Armando, Roma 1988,

p. 35.

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“ Ogni atteggiamento, ogni movimento, ogni abitudine, ogni stato di benessere

o di malessere, ogni armonia o mancanza di equilibrio, ogni modo accanito per

affermarsi o per difendersi, sono capaci di mettere in evidenza i legami connessi

alle emozioni psichiche e agli stati psico – fisici. Un linguaggio del corpo capace

di esprimere, specie con i messaggi muti, quanto non osiamo dire a viva voce o

desideriamo, in ogni caso, nascondere.” (7)

A volte, è necessario stare in osservazione per molto tempo,

prima di riuscire a costruire una relazione. Nel caso, poi, di un

bambino è necessario ricostruirne la storia, attraverso il colloquio

con i genitori, che, spesso, ci dicono ciò di cui essi stessi non

hanno coscienza. Il colloquio e la raccolta delle informazioni,

attraverso l’anamnesi individuale e familiare ci mettono a

corrente di quanto è accaduto, degli ostacoli, delle difficoltà

relazionali, delle immagini inappropriate, dei fantasmi attivi nel

__________________________

7) Ibidem, pp. 35 – 36.

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circuito familiare, delle emozioni che agiscono non riconosciute:

“ I genitori che devono presentare il figlio possono iniziare con il parlare del

suo modo di essere e della sua storia personale, oppure riferire di se stessi e

della loro storia; coloro i quali ritengono di essere completamente estranei alle

cause del disagio del bambino inizieranno quasi sicuramente a parlare di lui;

chi invece, sommerso dai sensi di colpa, si ritiene responsabile del suo

comportamento, racconterà subito delle proprie inadeguatezze di educatore.

Un’apertura marcatamente autoaccusatoria può coprire una forte ostilità verso

il figlio, mentre un’apertura da semplice inviante può nascondere una ferita

narcisistica o preoccupazione talmente massiccia da essere negata e proiettata

interamente sul bambino. Difficilmente, comunque, i genitori sono dei semplici

invianti, nemmeno quando si presentano come tali; essi sono, invece, assai

frequentemente implicati nell’offrire rappresentazioni sulle quali il bambino via

via si è modellato e si modella.” .(8)

8) Guido Pesci e Lucia Russo, L’anamnesi. Un colloquio per conoscere

significati complessi, Ma.Gi, Roma 2000, pp. 25 – 26.

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Un counselor fa un quadro della situazione sempre flessibile, e

che avrà un valore orientativo: egli eviterà accuratamente di

ricorrere a schemi rigidi, ad incasellamenti nosologici, né farà un

elenco di sintomi.

Il quadro che il counselor ricostruisce ha, pertanto, un valore di

indirizzo, in quanto ciò che interessa è delineare percorsi di

crescita che siano adatti a quel singolo bambino, adolescente o

adulto.

Quando ho incontrato bambini arrabbiati e ho ascoltato ciò che

i loro genitori raccontavano, non mi sono mai posto il problema di

verificare che il quadro sintomatologico corrispondesse

esattamente agli inquadramenti nosografici previsti dal DSM IV e

dall’ICD 10. Sono stato sempre più interessata a cogliere l’essere

umano che avevo di fronte.

Certo, sono convinta che occorra conoscere i manuali

diagnostici, non fosse altro perché è necessario poter discutere con

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altri professionisti, siano essi neuropsichiatri infantili,

psicoterapeuti, psicoanalisti, pedagogisti, sulla base di un comune

linguaggio. Ma occorre anche sapere che nelle pagine dei manuali

diagnostici non c’è la verità su quell’unico, irripetibile essere

umano che abbiamo di fronte. (9)

Il bambino di cui narrerò la storia aveva tutte le ragioni per

essere arrabbiato e nessun inquadramento nosografico era in grado

di dircene le ragioni.

Un bambino arrabbiato è, in primo luogo, un bambino impaurito,

che non si sente sicuro delle sue relazioni, che ha terrore della sua

_________________________

9) Le categorie diagnostiche con cui i manuali indicano le difficoltà

di cui mi occupo in questo lavoro sono i “Disturbi da Deficit di

Attenzione e da Comportamento Dirompente”, i disturbi

dell’attaccamento, i disturbi del linguaggio.

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stessa onnipotenza, alla quale vorrebbe che gli adulti ponessero dei

limiti.

Spesso è un bambino sulle cui spalle si sono caricati dei pesi

eccessivi per la sua età.

Spesso un bambino arrabbiato è un bambino che si sente

svalutato, ipercriticato, respinto e che ha il terrore di essere

abbandonato.

Se ricordassimo la nostra infanzia, scopriremmo che la nostra

più grande angoscia era di rimanere soli, di essere lasciati da coloro

che più amavamo. Ora, fatti adulti, ce ne andiamo sicuri per il

mondo, certi delle nostre conoscenze, soddisfatti per i rapporti che

abbiamo saputo costruire, convinti che mai e poi mai ci accadrà di

restare soli.

Eppure, basta che qualcuno non corrisponda ai nostri desideri,

che qualcuno a cui teniamo si mostri poco attento ai nostri

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bisogni, che un amico non si faccia trovare all’appuntamento o

che, caso estremo, veniamo abbandonati dalla persona che

amiamo, ecco! sentiamo montare dentro di noi la disperazione, la

protesta e poi una rabbia devastante, che incenerirebbe il mondo,

se avesse la magica possibilità di farsi forza materiale e

devastatrice.

La rabbia, come la paura, come l’angoscia è un segnale, ha un

valore comunicazionale notevole. Inoltre, può essere un potente

organizzatore della personalità.

E’ un’emozione con un aspetto adattivo fondamentale, che ci

segnala che qualcosa non va per il verso giusto. Un animale che

non fosse capace di avvertire la paura e la rabbia non potrebbe

sopravvivere.

Semmai il problema sarà costituito dalla sua negazione o,

viceversa, dall’impossibilità di una sua regolazione. Qui interviene,

nel caso dei bambini, la capacità di ascoltare e dare un senso alla

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rabbia, di utilizzarne positivamente l’energia, per indirizzarla verso

scopi creativi, sempre sapendo che quella manifestazione eccessiva

è stata l’unica risposta che il bambino ha saputo trovare ad una

situazione di difficoltà.

Come osserva giustamente Alba Marcoli “ il terreno della

rabbia è importante, molto importante”:

“A volte è proprio l’ultima strada che ci resta da percorrere, dopo che tutte le

altre ci sono sembrate bloccate o inutili. Si tratta di un sentimento nostro e solo

nostro, fatto della nostra storia, dei nostri pensieri e delle nostre emozioni, che

nessuno ha il diritto di portarci via, per cui il tentativo di negare la nostra

rabbi non riconoscendone il diritto a esistere oppure mortificandola ci procura

sempre una grandissima mutilazione.

Eppure da un terreno così importante cerchiamo tutti di prendere le

distanze: la rabbia sembra essere una delle manifestazioni che ci spaventano di

più, in noi e negli altri. Facciamo spesso di tutto per scacciarla, tenerla

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lontana, comprimerla, fingere che non esista, come se fosse una cosa solo

negativa e distruttiva di cui avere paura. Così facendo in realtà dimentichiamo

che anche la rabbia ha invece, in genere, la stessa caratteristica di tutte le cose

del vivere, e cioè un inizio, un’evoluzione, una fine. Spesso inoltre nella vita

quotidiana della maggioranza delle persone non lascia molti morti sul campo

di battaglia, nonostante le nostre fosche previsioni che le attribuiscono una

potenza che solitamente non ha.” (10)

Occorre saper ascoltare la rabbia e, soprattutto, darle un senso,

aiutando il bambino ad elaborarla; occorre “amare” la loro rabbia

perché “i bambini difficili sono i primi a soffrire del loro carattere

e del loro comportamento”. (11)

10) Alba Marcoli, Il bambino arrabbiato. Favole per capire le rabbie

infantili, Mondadori, Milano 1996, pp. 23 – 24.

11) Nicole Fabre, Questi bambini che ci provocano, Ma.Gi, Roma, 2001,

p. 113.

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Il counselor è, per la sua formazione, in grado, appunto, di amare

ed ascoltare la rabbia dei bambini, quando questa non sia diventata

talmente totalizzante da invadere l’intera personalità, appunto

perché non riconosciuta ed ammessa; trasformandosi, perciò, da

segnale di difficoltà in una forma distruttiva e autodistruttiva di

esserci nel mondo:

“ Ascoltare le rabbie nostre e altrui (in particolare quelle dei bambini,

possibilmente in silenzio e senza farcene spaventare e allontanare) per trovare

uno sbocco evolutivo e non involutivo, può essere allora un tentativo di cercare

un modo diverso per affrontare i problemi psicologici del vivere. E ogni volta

che troviamo modi diversi scopriamo facilmente anche altre possibilità che

prima non avevamo potuto né individuare né sperimentare.” (12)

_________________________

12) Alba Marcoli, cit., p. 25.

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L’ascolto della rabbia dei bambini, di quella, spesso non

ammessa, dei loro genitori ha consentito di delineare percorsi

creativi, attraverso un atteggiamento non direttivo e non intrusivo,

centrati sulle abilità e le capacità che nel lavoro sono a mano a

mano emerse.

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Capitolo 2

Il piccolo drago (Storia di Giovanni)

Ho lavorato con altri professionisti in uno studio che ha una

grande terrazza dalla quale si può guardare il mare, che si stende

immenso fino all’orizzonte.

Nei giorni di tempesta il è minaccioso e le onde sono enormi.

Quando penso a Giovanni, mi torna continuamente in mente

il mare in tempesta e penso che la sua rabbia gli assomigliava e che

poi si placa quando cessa il vento.

Ho conosciuto Giovanni una sera dell’inverno di due anni fa.

I genitori avevano contattato lo studio, tramite una loro

conoscente, di cui era stato seguito il bambino.

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Era stato fissato loro un appuntamento. Li avrei visti per

primi e, in un successivo incontro, il bambino.

Invece arrivarono allo studio con Giovanni e questo,

ovviamente, ci dice già molto sulla loro angoscia e sul loro

atteggiamento.

Li feci accomodare, si fa per dire, nella grande stanza dove

lavoriamo con i bambini. In quest’ambiente vi sono, poggiati su di

un tavolo, un castello e una casa delle bambole, con tutti i

personaggi. In un angolo, in un grande armadio a giorno, vi sono

altri giochi: soldatini, automobiline, camion, treni. Su di un

tavolino, pastelli, matite, gessetti, fogli di varie dimensioni fanno

bella mostra di sé, invitanti.

Prima ancora che aprissi la porta, sentii nelle scale una

confusione, e urla e pianti.

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In genere, non mi lascio spaventare da queste manifestazioni

ma, pensai, ricordo, che, come si suole dire, il buongiorno si vede

dal mattino.

Certo, noi counselor sappiamo che non esistono situazioni

facili, ma quella volta mi vidi attraversare la porta e precipitarsi

nello studio una specie di piccolo ciclone.

Piangeva, urlava, si dibatteva tra le braccia del padre che

tentava di contenerlo, cercando di calmarlo con le parole:

- Giovanni sta calmo! Vedrai che la dottoressa non ti farà nulla.

“Bella comunicazione” – pensai allora – e che ebbe l’effetto, come

è evidente, di far divenire il bambino ancora più furioso.

E, come accade, ovviamente, i fulmini s’indirizzarono,

immediatamente, contro di me. Il bambino mi si avvicinò, tentò di

darmi un calcio, mi urlò contro qualcosa d’indecifrabile, poi si

scagliò contro il padre, piazzò un tacco nei suoi stinchi, e, in un

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parossismo rabbioso, colpì nell’ordine con i piedi e i pugni il

tavolino, rovesciando fogli e matite, che si sparsero per tutta la

stanza, i vetri delle imposte, le sedie e le poltrone. Quindi infilò il

balcone e scappò sulla terrazza, inseguito dal padre che tentò di

riportarlo dentro e che si buscò un’altra dose di calci.

Quando rientrò, dopo alcuni minuti, continuò a gridare.

In queste situazioni so per certo che la cosa peggiore che si

possa fare è mostrarsi allarmati e impauriti. Ovviamente questo

non significa che dentro di me non sorgesse, automatico e

involontario, il pensiero di prendere in blocco padre, madre e

figlio e sbatterli fuori a calci. Questo effetto ha la rabbia altrui: di

riattivare la nostra, che abbiamo fatto tanta fatica, a nostro tempo,

a riconoscercela e ad elaborarla. Ma ho anche imparato che i nostri

sentimenti sono il nostro più importante strumento di lavoro.

Mi posi allora in osservazione, attenta a cogliere ogni

interazione tra padre, madre e figlio, ogni parola, gesto, postura.

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Vidi che i genitori erano spaventati, anzi, siamo giusti,

assolutamente terrorizzati: non sapevano che pesci pigliare. E più

loro erano spaventati, più Giovanni s’infuriava.

Ma la rabbia ha proprio questo di specifico: dopo un po’ si

placa, non fosse altro che per l’esaurimento delle energie fisiche.

Io stavo seduta sulla mia sedia. Non dissi neanche una parola:

ero in un atteggiamento disteso, con le braccia allargate.

Giovanni mi si avvicinò, mi scrutò, mi dette un calcio, stette in

attesa.

Gli dissi , con un tono calmo e deciso: - Vedi, mi stai facendo

male, e puoi farti male, hai capito?

Mi fissò dritto negli occhi, poi fece l’atto di sputare. Un po’ di

saliva mi fini sulla gonna. Quando s’accorse che m’aveva colpito, si

portò le mani al volto, gli occhi spaventati, fece un mezzo passo

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indietro, in attesa, come se si aspettasse chissà quale reazione

punitiva da parte mia.

Presi, allora, un fazzolettino, glielo porsi, e con il tono più dolce

e suadente che mi fu possibile trovare, gli dissi:

- Per favore, vuoi asciugarmi la gonna?

Giovanni, un lacrimone che ancora gli scorreva sulle gote, fece un

sorriso luminoso, mi si avvicinò e asciugò la saliva.

- Vieni con me, per favore. – gli dissi, conducendolo verso il

cestino, nel quale gettò il fazzolettino.

Vincenzo sapeva che la sua rabbia non mi aveva distrutto, che io

ero lì, intatta.

Come osserva Nicole Fabre:

“(...) il bambino cerca di distruggere con rabbia e allo stesso tempo ha bisogno

che sia le cose che le persone gli oppongano resistenza. Che onnipotenza

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angosciante sarebbe, infatti, se riuscisse sempre nella sua impresa distruttiva!

In un certo qual modo, un bambino simile ha assolutamente bisogno di toccare

con mano i propri limiti, di trovare frontiere che non potrà oltrepassare. Più

per provare la forza vitale altrui che per scontrarsi con la legge, sia pur

necessaria alla strutturazione della personalità. Non per scoprire che la

resistenza dell’altro può contenere e rivelare la sua stessa aggressività, ma per

provare che la sua rabbia distruttrice non uccide.

A volte il bambino cerca simbolicamente di uccidere, ma ha

fondamentalmente bisogno di vedere l’adulto che non si fa uccidere e rimane

invece solido e vivo nonostante i colpi infertogli. La garanzia della presenza

dell’adulto è in questo caso fondamentale, ma deve essere una presenza che non

sia fatta di lotta aggressiva.” (13)

__________________________

13) Nicole Fabre, cit., p. 25.

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Soprattutto, la rabbia di Giovanni, il suo comportamento

aggressivo sembravano più una messa in scena che una autentica

esplosione incontrollabile.

I suoi pugni non facevano mai male, i suoi calci nel vetro erano

sempre controllati, non arrivavano mai al punto di spaccarlo.

Insomma un grandissimo attore, che recitava a puntino la sua

parte di bambino “cattivo”.

Il bambino s’era calmato. Lo salutai, dicendo ai genitori che ci

saremo risentiti. Non amo, infatti, parlare ai genitori, quando sono

presenti i bambini.

Incontrai i genitori, lui un medico di 42 anni, lei impiegata di 38

e potei ricostruire la storia di Giovanni, che quando ha iniziato a

lavorare con me, di anni ne aveva cinque.

Giovanni aveva un fratello gemello: Danilo. Erano dizigoti. La

famiglia era completata da una sorella di dodici anni, Francesca.

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La madre mi disse che, rispetto al fratello, Giovanni era stato

“sempre un po’ strano”. Quando il primo era disponibile al

rapporto con gli altri, l’altro si chiudeva a riccio. Alla scuola

materna, Giovanni raramente partecipava alle attività degli altri

bambini, si chiudeva in un angolino e se si tentava di tirarlo dal

suo isolamento, ecco che scattava la rabbia. Pur avendo acquisito

l’uso del linguaggio, quando si arrabbiava, gli veniva fuori una

sequela incomprensibile di suoni e comprenderlo era un’impresa.

Soprattutto era quel suo isolarsi che li aveva allarmati: prima

pensarono che il bambino fosse autistico, poi, su indicazione di un

neuropsichiatra infantile, lo fecero seguire, presso un centro

convenzionato, da uno psicomotricista e da un logopedista, perché

spaventati dalle sue chiusure e dal fatto che il suo linguaggio fosse

così incomprensibile in certi momenti . Per due anni, cinque volte

la settimana, Giovanni fu sottoposto alla terapia, due ore al giorno.

Roba da rabbrividire. Risultati non ve ne furono: anzi le cose

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peggioravano di giorno in giorno. Il bambino diveniva sempre più

rabbioso e intrattabile.

- E ci credo! – dissi, pensando agli esercizi, ai percorsi, alla stanca e

continua ripetizione di fonemi e consonanti.

- Già! – fece il padre – Penso anch’io che si è un po’ esagerato, ma

sa!, dottoressa, quando a tre anni l’abbiamo visto così diverso da

Danilo, abbiamo pensato che qualcosa non andava.

- Io ero angosciata. – aggiunse la madre. – vedevo che rifiutava le

carezze, se mi avvicinavo mi allontanava con un braccio. Non mi

dava mai un bacio. Danilo, invece, era tutta un’altra cosa: vezzoso,

“coccolone”, ecco l’espressione esatta.

- E da neonati? - chiesi

- Quando tenevo tra le braccia Danilo, il bambino sorrideva, si

volgeva verso di me, se lo accarezzavo allungava le mani.

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Giovanni, invece, sembrava non rispondere ai miei approcci e,

allora, lo lasciavo stare.

Accade, a volte, che i genitori non riescano a percepire che i figli

possano avere temperamenti differenti e che quindi nei loro

confronti occorra avere un comportamento diverso. Quello che

per l’uno è gradevole, per l’altro può risultare sgradevole. Spesso

una madre elabora e rimanda, senza saperlo, al figlio un’immagine

che è il prodotto delle sue fantasie e dei suoi terrori. Una buona

holding sta nella capacità materna di entrare in relazione con quel

singolo bambino, con le sue caratteristiche, le sue difficoltà, le sue

angosce e, perché no, le sue chiusure. Un’adeguata funzione di

contenimento consente di elaborare quanto d’impronunciabile

esiste nel vissuto del bambino, consente di trasformare le cose in

rappresentazioni, il non pensato in pensato. Consente, in sintesi, al

bambino di costruire l’Io sulla base dell’Io materno e a costruire

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una immagine di sé sull’immagine che legge nello sguardo della

madre. (14)

Rifletto, ora, sulla circostanza che, non a caso, usiamo

l’espressione lingua materna: il linguaggio si apprende dalla madre.

Giovanni era così diventato “il problema” di quella famiglia. La

madre e il padre aggiunsero che, quando c’erano bisticci tra i

fratelli, era sempre Giovanni ad iniziare. Aggiunsero anche, che

l’unico capace di decifrare il linguaggio di Giovanni, quando questi

veniva preso dai suoi accessi d’ira, era il fratellino.

Seppi inoltre che madre e padre non dormivano insieme.

Danilo aveva espropriato il padre del suo letto e dormiva

______________________

14) Su questi temi vedi Donald Winnicott, I bambini e le loro madri,

Cortina, Milano 1987.

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con la madre; Giovanni, invece, con il padre e la sorella nella

stanza dei bambini.

- Bah! – mi venne di esclamare

- Non è bene, vero dottore? – mi fece il padre, guardando la

moglie. – Io l’avevo detto. Ma è che siamo così stanchi, la sera, e

quando incominciano a fare i capricci, proprio non ce la facciamo

e allora cediamo.

Il quadro si stava chiarendo: un padre e una madre che

dormivano separati, due figli che gestivano in realtà la vita dei

genitori, i “no” che non venivano detti e le regole che non

venivano fissate, un figlio considerato “buono”, adatto, l’altro

malato e aggressivo. Mi sembrava, tutto sommato, da quanto

emergeva, che nella famiglia di Giovanni dire “No” fosse un

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problema. (15)

Chiesi ai genitori di vedere entrambi i bambini. Avevo la necessità

di comprendere, in primo luogo, come stessero le relazioni tra i

due fratelli. Giovanni era tracagnotto, grassottello, un viso paffuto,

due occhi vispi e un sorrisetto ironico sulle labbra; Danilo, al

contrario, smilzo, anche lui vispo, un bimbetto tutto nervi e scatti.

Entrati nello studio, incominciarono a tirar fuori da un cesto,

soldatini, animali di gomma, il trenino e i cubi.

Mi resi conto, allora, che manifestavano nel gioco due

modalità completamente diverse. Mentre Danilo costruiva

________________________

15) Sulle regole, sulla necessità di saper dire “no” e sulla funzione

paterna vedi Asha Phillips, I no che aiutano a crescere, Feltrinelli,

Milano 2000 e Jacques Arènes, C’è ancora un padre in casa?, Ma.Gi,

Roma 2000.

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torri senza un progetto, risultandone mura sbilenche di castello e

tetti di case non complete, Giovanni, al contrario, era sistematico,

preciso, edificava grossi cubi che badava a richiudere, senza

lasciare spazi per porte o finestre.

Mentre Danilo abbandonava le costruzioni a metà, per

incominciare con un altro gioco, Giovanni non iniziava mai

un’attività nuova, senza finire quella precedente.

Danilo piazzava disordinatamente i soldatini per la stanza,

contrapponendo indiani e cow boys, Giovanni li metteva tutti

insieme, alternandoli, in fila, secondo un ordine che sembrava

avere già nella sua testa.

Danilo faceva combattere gli animali feroci tra di loro e faceva

inseguire a questi gli erbivori. Ecco un leone che si lancia

all’inseguimento della gazzella, una tigre azzanna ringhiando un

grosso ippopotamo, un coccodrillo si avventa a fauci aperte su di

una zebra.

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Giovanni, al contrario, costruisce un recinto e ci mette dentro

gazzelle, coccodrilli, zebre, tigri, serpenti, leoni e cavalli, elefanti e

pantere, uno in fila all’altro, badando, allorché cadevano, di

rimetterli esattamente nella stessa posizione: a volte ci impiegava

due o tre minuti.

Io, ovviamente, stetti in osservazione. E descrivo, nell’ordine,

quello che a quel punto accadde:

1) Danilo tralascia il suo gioco, si avvicina a Giovanni e incomincia

a scompigliare l’ordine degli animali;

2) Giovanni, senza dire una parola, riprende gli animali e li rimette

nello stesso ordine;

3) Danilo gli dice: - Non è così che si fa! Poi rivolto a me: -

Giovanni non sa fare nulla, non sa neanche parlare!

4) Danilo si avvicina di nuovo a Giovanni, li sento confabulare,

senza capire una parola di quello che si stanno dicendo, poi apre il

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recinto costruito con i pezzi di lego e fa fuggire gli animali

mansueti;

5) Giovanni a quel punto protesta vivacemente, e tira fuori una

sequela di suoni fatta pressappoco cosi:

“Tuteitattivo,tuttiitantinitattivi”, con l’aria irata, il respiro

affannato, il viso gonfio, lottando perché le lacrime non uscissero

fuori, contenendo a stento la rabbia.

6) Danilo gli risponde: - Io non sono cattivo. Sei tu che non sai

fare niente, lo dice anche la mamma.

7) Giovanni si alza, si avvicina a Danilo e gli sferra un pugno;

La madre mi aveva già accennato al fatto che, oltre a lei, l’unico a

comprendere il linguaggio di Giovanni, quando era così irritato,

era il fratello.

Quel teatrino mi aveva detto molte cose.

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Nell’immaginario familiare, Giovanni era il provocatore e

Danilo la vittima. Oltretutto, da quello che potei comprendere, i

genitori avevano assegnato al secondo il compito di contenere il

fratello.

In realtà la rabbia di Giovanni era del tutto motivata. Il piccolo si

sentiva continuamente sotto osservazione, giudicato e non

compreso.

Non essendoci problemi relativi alla formazione e

all’acquisizione del linguaggio, come potei verificare, da dove

veniva quella prevalenza di consonanti esplosive che rendevano

molte volte incomprensibile l’eloquio di Giovanni quando era

arrabbiato?

Mi sembrava di comprendere che Giovanni avvertisse le parole

come qualcosa che faceva male dentro le orecchie. Infatti, una

volta mi disse che egli non sopportava la gente che parlava

continuamente. Mi ero anche accorta che quando la

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comunicazione verbale diveniva troppo intensa, Giovanni agitava

le mani dinanzi a sé, come se volesse proteggersi e diceva “No” e

“Chiudi il becco!”. Avevo l’impressione che Giovanni non

tollerasse le impressioni troppo forti e che vivesse gli stimoli

eccessivi come un’invasione.

Con Giovanni occorreva essere estremamente cauti,

non bisognava dargli la sensazione d’invaderlo.

Avevo potuto, tra l’altro, osservare che metteva in atto tutta una

serie di misure protettive.

Mi ero accorta, infatti, che indossava sempre la stessa tuta. La

madre mi confermò che egli non amava cambiare abiti: guai a

proporgli di mettere una camicia, un pantalone o un maglione

nuovi: diveniva una furia.

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Calzava solo le scarpe, senza i calzini, con cinghie adesive a

strappo, che stringeva a tal punto che era, poi, costretto a

camminare zoppicando.

Era come se volesse stringersi negli stessi identici vestiti,

ancorarsi alla terra, quasi avesse paura di poter volare via.

Inoltre era solito ficcarsi le mani nel pantalone, toccarsi l’ano

con un dito, portarlo poi al naso, odorarlo e poi metterlo sotto il

mio naso, ridendo.

Un giorno prese un rotolo di nastro adesivo e incominciò ad

attaccarlo sul pavimento della stanza, con un atteggiamento

concentrato, attento, senza mai rivolgermi la parola.

Evitavo accuratamente in questi casi d’intervenire, perché mi

rendevo conto che per Giovanni quella attività aveva un senso: era

come se costruisse recinti per proteggersi.

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Mi sembrava che Giovanni mettesse in atto tutta una serie di

misure protettive, sia contro una possibile intrusione del mondo

esterno, sia rispetto ad un terrore fondamentale di disgregazione e

di dissoluzione.

Bisognava, dunque, procedere con molta cautela, non dare mai

al bambino l’impressione d’invaderlo.

Intanto c’era un linguaggio che non aveva bisogno di parole ed

era il linguaggio del corpo che avrebbe potuto aprire un canale

comunicativo importante, non intrusivo, non invasivo, rispettoso

dei confini di Giovanni, il quale viveva con rabbia e terrore la

possibilità che qualcuno oltrepassasse i suoi recinti.

Lavorammo sui giochi che consentissero a Giovanni di

controllare il proprio ritmo respiratorio, di adeguare i movimenti

alla percezione della pulsazione, d’imitare gli animali, provando ad

armonizzare posture e ritmo.

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Prima timidamente, poi con sempre più audacia, Giovanni fu

onda del mare, ora calmo e tranquillo, ora impetuoso, fu albero

che stormiva e vento che soffiava. Fu canguro che saltava e rana

che balzava e fu scimmia.(16)

Ogni postura e movimento era accompagnata dal controllo del

respiro e Vincenzo imparò, pian piano, a modularlo: ora calmo,

profondo, come il vento lieve che passi tra gli alberi; ora intenso,

continuo, come nei giorni di tempesta. Queste esperienze furono

accompagnate dall’emissione di suoni onomatopeici, a diverse

intensità, altezze, timbri, che consentivano a Giovanni di

sperimentare e controllare l’emissione dei suoni, associandoli ai

rumori naturali. (17)

16) Cfr. Edo Bonistalli e Guido Pesci, I giochi del triangolo, Edizioni

Omega, Torino 1987.

17) Cfr. Guido Pesci, Psico con.Tatto,Edizioni Omega, 1987, p. 98.

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E’ stato necessario, pertanto, lavorare sul dinamismo

respiratorio, in quanto Giovanni presentava tutta una serie di

alterazioni sulle quali fu necessario intervenire.

Con pazienza e divertimento, in una relazione di uguaglianza e di

alternanza con me, sperimentò le stimolazioni senso – tattili con la

respirazione, esplorò una serie di esperienze sonore, di espressioni

e comunicazioni su base cinetico – respiratoria, scoprì i vari punti

di respirazione.

Per favorire la sua disponibilità e abilità nella relazione, gli

furono proposte una serie di attività, tese a favorire il riequilibrio

emotivo – relazionale.

Giovanni partecipò prima con sospetto, poi con sempre

maggiore interesse. Una cosa che lo faceva sempre molto ridere

era l’attività tesa alla coordinazione e dissociazione dei movimenti

fini delle dita e delle mani. Inutile dire che quando si trattava di

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battere sui sacchi di sabbia con i pugni chiusi o con le mani

aperte, ci si metteva con tutto l’impegno possibile.

Apprendeva così a controllare la sua forza, ad associarla al

suono della voce, a scandire le sillabe battendo sul tavolo.

Un giorno, a sette anni , arrivò allo studio, con il pantalone, la

camicia, il maglione, le scarpe con i lacci, con i calzini, si fermò

dinanzi a me, trasse dalla tasca un piccolo drago rosso con le ali, si

avvicinò al tavolo e battendo le dita sul tavolo disse: “ Io sono il

piccolo drago.”

Egli, allora, mi raccontò la storia del piccolo drago che aveva

inventato.

Il piccolo drago era nato in una foresta nella quale il sole non

passava mai. Il sole faceva paura al piccolo drago, a differenza dei

suoi fratelli e delle sue sorelle, che amavano volare nella luce. Il

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piccolo drago, allora, si era scavata una caverna profonda dalla

quale non usciva mai.

I fratelli e le sorelle lo prendevano in giro e mamma e papà

drago non lo difendevano mai.

Qui Giovanni si fermò e sembrava non sapere come andare

avanti.

- Cosa accade, poi? – gli chiesi per stimolarlo a continuare.

- Niente – rispose, dopo una lunga pausa.

- E se arrivasse qualcuno ad aiutarlo? – gli proposi.

Ci pensò un attimo, poi disse:

- Il piccolo drago stava nella caverna tutto solo, era arrabbiato

e gli veniva da piangere. Poi sente un rumore fuori. E’

incuiosito ma ha anche paura. Piano piano va all’apertura e

vede un grande e vecchio drago, che ha una barba bianca e

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un cappello blu in testa. Ha anche un mantello. Quando

vede il draghetto gli dice:

- Ciao, io sono il mago dei draghi.

- Cosa fa un mago dei draghi? – chiede piccolo drago.

- Aiuta i draghi con la sua magia.

- Allora puoi aiutare anche me?

- Certo! – rispose il Magodrago – Almeno ci posso provare.

Ma in che cosa hai bisogno di aiuto?

- Io ho paura di volare e poi il sole e mi spaventa.

Magodrago stette un po’ a pensarci ed esclamò:

- Ce l’ho il modo per aiutarti.

Magodrago fa comparire un paio di grandi occhiali da sole e dice

al draghetto:

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- Quando esci fuori, te li metti sul naso e così il sole non può

farti più paura.

- Si! – dice draghetto – ma ho sempre paura di volare.

- Ma questo non è un problema -. Caccia da una tasca del

mantello una boccetta. Dentro c’è una crema rossa. Si

avvicina al draghetto e gliela mette sulle ali: - Adesso puoi

volare. Questa è una crema magica.

Draghetto lo guarda un po’ preoccupato. Poi piano piano

incomincia a sbattere le ali. Poi le sbatte sempre più forte e senza

neanche accorgeresene si è alzato e sta volando.

Questa era la fiaba che Giovanni raccontò, accompagnando la

storia con il suo draghetto che volava per tutta la stanza.

Attraverso le fiabe e le storie, sia quelle tradizionali che

inventate, il bambino ci parla delle sue emozioni, dei suoi pensieri,

degli ostacoli che incontra.

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Le fiabe consentono ai bambini di dirci quello che non riescono

ad esprimere in un altro modo.

Le fiabe di magia permettono ai bambini, ma anche agli

adolescenti e agli adulti di affrontare i significati profondi

dell’esistenza; di risolvere i problemi attraverso l’immaginazione,

ricorrendo, soprattutto, all’intelligenza emotiva.

Una fiaba che Giovanni amava sentirsi raccontare era Il piccolo

sarto dei fratelli Grimm.

A proposito della fiaba che aveva inventato, pensai che,

finalmente, egli accettava l’energia che aveva dentro e aveva

imparato a non averne paura. Ovviamente, quando mi raccontò

questa storia era passata già molta acqua sotto i ponti e Giovanni

stava per lasciarmi.

Lasciare andare un bambino è sempre molto difficile e

facciamo ogni volta i conti con il dolore che ci dà ogni perdita.

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Giovanni mi aveva fatto compagnia per tre anni, tre volte alla

settimana, che nell’ultimo anno si ridussero a due e poi a una.

Ma ritorno ora al viaggio fatto con Giovanni.

Piano piano il bambino imparava a fidarsi del suo corpo, a

conoscerlo, a esploralo, a riconquistarlo. Considerati i suoi timori

relativi all’invasione, gli ho proposto, come un gioco, il Touch ball.

Il Touch ball è una tecnica di massaggio e rilassamento, che

consiste nell’esplorazione di tutto il corpo, tramite delle palle con i

quattro colori base: blu, rosso, verde, giallo.

Mi sembra, mentre scrivo, di rivedermelo davanti, steso sul

tappetino, i pugni contratti, i muscoli tesi, le palpebre serrate, le

labbra addirittura livide.

La prima palla che scelse era rossa: ovviamente, ricordo, che

pensai.

Nei nostri incontri l’attività con la palla diventò costante.

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Lo vidi man mano distendersi, i muscoli rilassati, le mani

aperte, sul viso un sorriso soddisfatto.

Successivamente, nella scelta del colore passò prima al blu e

poi, infine, al verde. (36)

Dopo un anno e mezzo la relazione era solida.

L’energia che prima era dirottata a scopi difensivi inappropriati

e impiegata ad alimentare la rabbia poteva, ora, essere utilizzata

verso fini creativi. Era ora possibile, per il bambino, controllare le

proprie risorse energetiche tramite l’eliminazione delle alterazioni

nella “Gestalt Tonica”; danzare, associando musica, movimento,

colori, suoni

_____________________

36), Guido Pesci e Simone Pesci, Touch ball. Metodo per favorire

l’equilibrio e il piacere, Ma.Gi, Roma 2003.

.

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Giovanni si divertiva enormemente quando doveva muoversi,

ondeggiando, sui percorsi tracciati sul pavimento con il nastro

adesivo, al suono di un valzer di Strauss (quello che amava di più

per le variazioni della linea melodica era Sul bel Danubio blu).

Diveniva uccello di bosco sulle mote della Suite bergamasque di

Debussy, un tram velocissimo che sferragliava sui binari quando

ascoltava il movimento iniziale della Rapsodia in blu.

Ho conservato in un una cartella i suoi alberi e le sue erbe felici.

Le erbe felici vengono disegnate su di un grande foglio attaccato

alla parete, accordando il movimento del braccio al proprio

respiro.

I primi che ha tracciato, sul ritmo di una respirazione incerta, a

scatti, sono di colore nero e rosso, fanno fatica ad innalzarsi,

ricadono su se stessi e danno un senso d’oppressione.

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Poi, a mano a mano, ho visto il gesto che tracciava farsi ampio

come la sua respirazione. Al colore rosso furono affiancati il giallo,

l’arancione, il verde e il blu.

Difficoltà incontrò nell’attraversare il punto egoico. Mi

sembra di rivederlo, di toccare ancora la sua rabbia quando non

riusciva ad attraversarlo con i movimenti alternati delle due

braccia.

Ricordo che all’inizio tutti i disegni, anche quelli spontanei,

venivano fatti con il rosso e rappresentavano

prevalentemente incendi di case e boschi, con pompieri che

spegnevano il fuoco con getti d’acqua fatti di fiamma.

Con il tempo è entrato nell’universo dei colori, del suono

associato ai colori: per Vincenzo la “O” era nera, la “U” blu, la “I”

rossa, la “A” bianca, la “E” gialla.

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Il lavoro con la creta, per quanto faticoso e, diciamolo pure,

doloroso, in certi momenti, l’ha condotto alla coordinazione dei

propri movimenti e all’esercizio... della pazienza e

dell’applicazione. Conservo alcune sue statuine che egli dipinse in

colori sgargianti, così come ho care alcune sue esplosioni di giallo

e rosso fatte con i pennelli a mano alternate.

Rammento che , quando a sei anni, gli proposi di disegnare

la sua famiglia, egli la fece di omini filiformi, senza mani e senza

occhi, con una bocca smisurata. Egli stava, invece, lontano dalla

sua famiglia, in un angolino, rannicchiato, come se stesse

tenendosi da solo, le mani sulle orecchie. Semplicemente non

sentiva di far parte di quella famiglia, che comunque sembrava

avvertire senza spessore.

Oggi egli è dentro la sua famiglia, è il quarto della fila, e i

personaggi si tengono per mano.

clinico del nostro studio.

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L’entrata nell’universo della comunicazione ha significato per

Vincenzo espandere la propria creatività: giocare con i colori, con

le parole, con i suoni, con il movimento, l’ha condotto alla

creazione di storie, di fiabe, tramite l’utilizzo dei burattini, delle

maschere. (39)

Vincenzo frequenta, oggi, la terza elementare.

Una delle ultime volte che ci siamo incontrati, volle uscire sul

terrazzo. Era una splendida giornata di sole: scaglie di luce

palpitavano sulla superficie del mare. Stava accanto a me,

silenzioso, respirava profondamente, facendosi accarezzare il viso

___________________________

39) Cfr. Alberto Bermolen – Maria Grazia Dal Porto – Lucia

Moretto, Verso una pedagogia olistica, Bulzoni, Roma, 1993; Rosanna

Leotta, Divertirsi con le parole, Angeli, Milano 2001.

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da un vento leggero. Si voltò e mi disse: “ E’ bello che il mare sia

così calmo. Ma è giusto anche che sia arrabbiato”.

Stavo per dimenticarlo: Vincenzo ha separato gli animali feroci

da quelli mansueti: c’è spazio per entrambi, non è necessario che

siano confusi gli uni con gli altri.

L’altro giorno, leggendo uno delle mie poetesse preferite ho

ripensato a Vincenzo, la cui rabbia è diventata creativa, perché ha

appreso a regolare le sue emozioni, ad accettare le frustrazioni e ad

amare se stesso:

“ L’ira è l’evento più prodigioso che possa capitare all’uomo e beata me che

non lo nascondo. L’ira è un vizio, è un peccato mortale e la legge la tiene

giustamente a freno. Però scaraventare un piatto per terra o dire trenta

imprecazioni in poesia è uno dei più bei godimenti della vita. Cecco Angiolieri

non sarebbe esistito se non fosse stato iracondo, stucchevole, maledicente ma

sempre dicente.

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L’ira determina anche le maledizioni, ma sono turbamenti provvisori che

hanno la durata di un fulmine di parole.

Mi ricordo che già da bambina ero iraconda, come adesso. Ma se non fossi

sempre così arrabbiata forse non riuscirei a scrivere tanto.

Le mie Muse sanno farmi saltare i nervi. “ (40)

________________________

40) Alda Merini, La vita facile, Bompiani, Milano 1996, p. 63.

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Bibliografia

- AA. VV., Il corpo racconta, Editrice La Scuola, Brescia, 1984

- ARENES, Jacques, C’è ancora un padre in casa?, Ma. Gi., Roma

2000

- BERMOLEN, Alberto – DAL PORTO, Maria Grazia - MORETTO,

Lucia, Verso una pedagogia olistica, Bulzoni editore, Roma 1993

- BONISTALLI, Edo e PESCI Guido, I giochi del triangolo, Edizioni

Omega, Torino 1987.

- DE AMICIS, Edmondo, Cuore, Edizioni CAMPOS, Trezzano Rosa

(Milano) 2003

- DE BENEDETTI, S. e PELLIZZARI, F.,Giocando imparo a pensare,

Angeli editore, Milano 1999.

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- FABRE, Nicole, Questi bambini che ci provocano, Ma. Gi, Roma

2001

- LEOTTA. Rosanna, Divertirsi con le parole, Angeli editore, Milano

2001

- LOSSO, Roberto, Psicoanalisi della famiglia, Franco Angeli, Milano

20000

- MARCOLI, Alba, Il bambino nascosto, Mondadori, Milano 1993

- ID., Il bambino arrabbiato, Mondadori, Milano 1996

- ID., Il bambino perduto e ritrovato, Mondadori, Milano 1999

- MERINI, Alda, La vita facile, Bompiani, Milano 1996.

- PESCI, Guido, Psico con. tatto, edizioni Omega, Torino 1987

- PESCI, Guido, MENCATTINI Gloria, Autonomia e coscienza di sé,

Ma. Gi., Roma 1999

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- PESCI, Guido, RUSSO, Lucia, L’anamnesi, Ma. Gi., Roma 2000

- PESCI, Guido e PESCI, Simone, Touch ball. Metodo per favorire

l’equilibrio e il piacere, Ma.Gi, Roma 2003

- PHILLIPS, Asha, I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano

2000

- SANTAGOSTINO, Paola, Come raccontare una fiaba… e

inventarne cento altre, Red edizioni, Como 1997

- SHAKESPEARE, William, Riccardo III, Rizzoli, Milano 1986

- SHERIDAN, Mary, D., Il gioco spontaneo del bambino, Cortina,

Milano 1984

- SROUFE, Alan L., Lo sviluppo delle emozioni. I primi anni di vita,

Cortina, Milano 2000

- THOMAS, Henry, Il dolore infantile nel miito, MA.Gi., Roma 2003

-

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- VENNER, Anne - Marie, Giochiamo col corpo, Angeli editore, Milano,

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- ZAMPONI, Ersilia, I Draghi locopei, Einaudi, Torino 1986.

- YEATS, William Butler, I cigni selvatici a Coole, Rissoli, Milano 1989

- WIDMANN, Carlo, Il simbolismo dei colori, Ma.Gi, Roma 2000

- WINNICOT, Donald, I bambini e le loro madri, Cortina, Milano 1987

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Indice

Capitolo 1 Il counselor e i bambini arrabbiati... p. 4

Capitolo 2 Il piccolo drago

(Storia di Giovanni) ....................... p. 28

Bibliografia ........................................................ p. 65

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Nosografia: classificazione dei processi morbosi, dei disturbi psichici.