La Marmaglia aprile 2010

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ecco l'ultima nostra fatica

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La Marmaglia

Due uomini faccia a faccia. Pronti a duel-lare “all’ultimo sangue”. Non hanno leggi e nemmeno scrupoli. Sono scaltri, spregiudi-cati, disposti a tutto pur di avere la meglio. Vogliono potere, fama e forse denaro.

Non siamo nel Far West e non si tratta nemmeno di una scena tratta da un vecchio film di Sergio Leone. Là, allora, ci si ammaz-zava per un pugno di dollari. Là si era in una strada polverosa davanti al solito puzzo-lente saloon. E magari a contornare il tutto c’era un silenzio irreale rotto dal grido acuto di qualche avvoltoio. Qui si tratta di vincere le elezioni, acquisire potere, fare i propri in-teressi. Qui si sta in moderni studi televisivi, davanti alle telecamere. Qui milioni di italia-ni osservano lo scadente scontro in diretta per decidere a chi affidare il proprio futuro.

Sto esagerando, lo ammetto; tuttavia guardando uno degli ultimi dibattiti politici prima delle elezioni regionali (per chi scrive è il 28 marzo) ho avuto l’impressione di tro-varmi nell’Old Wild West. Davvero il nostro amato Paese è quello che emerge dai mise-ri veleni di questi giorni? Viviamo realmente in un mondo manovrato da privati interessi e brama di potere? Lo sappiamo già: l’Ita-lia, per fortuna, è anche diversa. A volte migliore.

In questi ultimi mesi il vento del West ci ha sconvolto portando “fanghi e veleni”. Ci sono stati i fatti di Rosarno dove anni di indifferenza e sfruttamento hanno causato violentissimi scontri tra immigrati e locali (pag. 4 e 5), abbiamo assistito agli attacchi di Silvio Berlusconi alla magistratura (pag. 3) e anche noi, nel nostro piccolo, siamo riusciti a trasformare le assemblee d’Istitu-to in un’occasione per perdere tempo (pag. 10). Tuttavia ci sono speranze e motivi per risollevarci e rifondare con giustizia la no-stra società: innanzitutto l’Europa, che può essere base e strumento di rinascita, come dimostrano le opinioni delle pagine 6 e 7, ma anche lo spirito critico e la battaglia all’indifferenza, ben visibili negli articoli ri-guardanti il ritorno al nucleare, la scienza e i relativi problemi, l’Open Source.

Gli italiani hanno, dunque, le capacità per lasciare che siano i Western ad occuparsi di duelli continui, faccia a faccia all’ultimo sangue e truffe colossali. Naturalmente non bisogna solo volerlo, ma adoperarsi perché ciò avvenga. ■

GLI ARTICOLIIN COPERTINALegge e morale, duello infinito ● 3L’Italia, un paese dove rispettare le leggi è un sintomo di debolezza...

SPECIALE ROSARNORosarno: oltre le parole i fatti ● 4Un viaggio nel paesino calabrese, teatro della rivolta di gennaio, alla scoperta delle motivazioni degli scontri

I nuovi schiavi si ribellano ● 5Una rivolta già annunciata da anni di sfruttamento e dalla nostra indifferenza.

ATTUALITÀCome affermare la giustizia nel mondo ● 6Superare le ideologie per ritornare agli ideali, basandosi sull’Unione Europea

Europa: questa illustre sconosciuta● 7

Tutti i problemi del nucleare ● 8Incidenti, smaltimento di rifiuti tossici, costruzione di nuove centrali, proteste, costi esorbitanti... È davvero conveniente tornare al nucleare?

I nuovi apprendisti stregoni ● 9Quando la scienza non riesce a controllare le forze che ha scatenato

NEWS DALLE SCUOLEL’assemblea ai tempi dell’indifferenza ● 10Ecco come siamo riusciti a trasformare un diritto con-quistato a fatica in un’occa-sione per perdere tempo...

Don’t “Kiss me Licia”● 11Direttamente dal Liceo Respighi, un apologetico ritratto dell’amata dirigente scolastica Licia Gardella

TECNOLOGIALa rete come un bazaar● 12

Cellulari, ritorno al futuro● 12

CULTURAMUSICA“Heroes”: l’amore ai piedi del Muro● 13

FREESTYLESVEGLIATEVI !!! ● 13Ehi, ma che è successo? È finito il mondo? Ah, no, an-cora no. E lasciatemi dormi-re!

STORIE A PUNTATE“There are some illusions, this isn’t one of those” ● 15Romanzo GialloCapitolo 4

LIBRIIl divora-libri ● 15Scacco a DioRoberto Vecchioni- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

LE OPINIONI Pacifisti nel “Far West”? ● 9

EDITORIALE

di Dorcas Gustine

L’Italia nel West

Sommario

POTETE TROVARE GLI ARTICOLI E I NUMERI

PRECEDENTI SUL NOSTRO SITO WEB www.lamarmaglia.it

“Vuoi diventare ricco, eh? Allora sei arrivato nel posto adatto, se sarai

furbo; perchè qui tutti sono o molto ricchi o morti!”

dal film Per un pugno di dollari

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In copertina

La fiducia degli italiani nella po-litica è ormai scesa ai minimi storici: soltanto 12 persone su

cento (fonte Ispo) ripongono ancora la loro speranza nei partiti e sono rimasti pochissimi quelli tuttora convinti che la politica possa contribuire a migliorare lo stato attuale delle cose. Nessuno or-mai ne può più dei vari Delbono, Mar-razzo, Di Girolamo e dei loro loschi me-todi per fare i propri interessi a spese dei cittadini.

L’Italia è stufa e non ha torto. Tutta-via c’è chi la pensa diversamente. Ri-guardo al caso Mills, il presidente del Consiglio Berlusconi, invece di farsi un esame di coscienza e ammettere una volta per tutte le colpe sue e dei suoi collaboratori, ha recentemente dichia-rato che, come tutti i processi che lo ri-guardano, anche questo è stato inven-tato da una “banda di talebani” della magistratura. Le accuse ai magistrati da parte del premier non sono le prime e, sicuramente, non saranno le ultime; tutti gli “scontri” sono causati dal solito motivo: una buona parte della classe politica sostiene che la legge che va contro i propri interessi possa essere violata se la propria morale lo concede, mentre i giudici tentano in ogni modo di dimostrare il contrario. Tutto ruota, quindi, intorno a un dilemma di com-patibilità o incompatibilità tra morale e

giustizia.Il problema fu analizzato già 2500

anni fa dal greco Socrate, con un’opi-nione veramente moderna. Condanna-to a morte ingiustamente, il filosofo si rifiutò di salvarsi, fuggendo da Atene, per non violare le leggi della sua città; egli era convinto che l’uomo fosse vera-mente tale solo in un contesto comuni-tario retto dalle leggi e che, quindi, non rispettare queste ultime fosse come rinunciare ad essere Uomo. Le leggi si possono cambiare, ed è doveroso farlo quando si ritiene che vadano contro il Giusto, ma finché sono in vigore, i citta-dini devono rispettarle.

Oggi vogliamo assolutamente avere regole e norme di qualsiasi tipo, ripu-diando di principio ogni anarchia, tutta-via, quando le leggi entrano in contra-sto con la nostra coscienza e coi nostri interessi, esse hanno sempre la peggio: questa è la pseudo-coerenza del no-stro Paese … A quanto pare dopo due millenni e mezzo nessuno ha ancora capito che se violiamo le leggi puniamo di conseguenza anche noi stessi.

Ecco quindi spiegata la causa prima-ria di tutto il “marciume” della nostra società: i nostri dirigenti si sentono del tutto giustificati riguardo ai loro turpi comportamenti; anzi, sono pienamen-te convinti di agire nel giusto, poiché ormai il valore delle regole è nullo e rispettarle o no è diventato un optional

di circostanza. Frodare il fisco, pagarsi le vacanze con i soldi dello Stato, uti-lizzare le Auto Blu per motivi privati o accettare qualche “innocua” tangente non sono considerati veri e propri reati. C’è perfino qualcuno che suggerisce di autorizzarli di “sana pianta” e concen-trarsi soltanto sui reati maggiori, come dimostrano le ultime proposte di legge (vedi processo breve). E poi? Chissà … Forse si vorrà legalizzare anche questi ultimi!

Un Stato che non ha ancora chiaro quale sia il ruolo della legge e che cre-de che ognuno possa stabilire cosa è “buono” e cosa “cattivo” in base alla propria coscienza è irrimediabilmente pre-moderno e destinato a deludere le speranze dei suoi abitanti, come emer-ge dai sondaggi.■

Dorcas Gustine

L’Italia, un paese dove rispettare le leggi è un sintomo di debolezza...

Legge e Morale, duello infinito

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Speciale Rosarno

Rosarno è un comune di oltre 15000 abitanti in provincia di Reggio Calabria, situato all’in-

terno della cosiddetta Piana di Rosarno. L’attività economica della zona è basata sulla coltivazione di agrumi. Infatti quasi ogni famiglia ha un piccolo appezzamen-to di terra, lì definito “giardino”.

Dall’inizio degli anni novanta fino al 2008 i finanziamenti europei per l’agri-coltura meridionale venivano distribuiti in base alla quantità di agrumi prodotta.

Gli agricoltori locali, in accordo con i consorzi alimentari e le aziende del Nord, gonfiavano le dichiarazioni relative alla produttività. Nel 2008 le autorità di Bru-xelles, allarmate dalla scoperta delle truf-fe, cambiarono la legislazione in materia di contributi, determinando, come criterio per la loro erogazione, le dimensioni del-le aree coltivate. Questo ha causato un drastico calo di contributi. Ad aggravare questa situazione è giunta la crisi.

La grande quantità di braccianti ex-tracomunitari, circa millecinquecento, lavorava nella zona da ormai quindici-venti anni. Queste persone erano sem-pre state tollerate. I produttori di arance sono stati però messi in difficoltà dalla crisi, dalla diminuzione dei finanziamen-ti europei e dalla recente abolizione del primo articolo della legge 286/71, che stabiliva una presenza minima di “succo di agrumi in misura non inferiore al 12%” all’interno dei succhi di frutta. Gli agricol-tori locali hanno così cercato di far fronte alle nuove difficoltà vessando ancora di più i braccianti extracomunitari che la-voravano in nero alle loro dipendenze. Questo non è un comportamento isolato e limitato alla sola Rosarno: l’ultimo rap-porto “International Migration Outlook”, realizzato dal Censis, riporta infatti che anche gli immigrati stanno pagando gli effetti della crisi. Ciò ha dato inizio ai primi attriti tra i residenti di Rosarno e gli immigrati. I Rosarnesi hanno iniziato a considerare i braccianti stranieri come pericolosi vagabondi piuttosto che forza

lavoro. Le violenze hanno avuto origine dal comportamento di un incosciente che ha sparato con un fucile ad aria com-pressa contro due immigrati; da questo episodio è scoppiata la rivolta dei neri e gli scontri che ne sono succeduti.

Alcuni pensano che la causa di questi fatti sia da ricercare nel razzismo e nel-la xenofobia. In questo caso, però, la connotazione razzista è un elemento se-condario. Il fatto che i braccianti fossero extracomunitari non ha di certo aiutato, in uno Stato in cui oltre il 60% della popo-lazione pensa che l’immigrazione sia un problema. Sono esemplificative di questo sentimento parole come quelle dell’orafo Serafino Bagnoli, cittadino di Rosarno: «Io abitavo a Nizza con la mia famiglia, mo-glie e due bimbe. Non ne potevo più, non volevo far crescere le mie figlie in quella città piena di immigrati. Il mio desiderio era quello di farle vivere in un ambiente sano come quello di Rosarno. Sono tor-nato, ma anche qui ho trovato “quelli”».

Nonostante ciò, appare più fondata l’ipotesi delle cause economiche, in

quanto episodi di tensione si sono veri-ficati solo a partire dal 2008, in coinci-denza con i mutamenti della situazione economica della zona.

Sono in tanti a ritenere che la rivolta degli immigrati sia stata fomentata dal-la criminalità organizzata locale. È ovvio che la ’Ndrangheta è in una qualche maniera implicata nello sfruttamento del lavoro in nero degli immigrati clan-destini. Gli avvenimenti non sono, però, avvenuti secondo l’usuale “modus ope-randi” di questa organizzazione: essa di solito cerca di operare nell’ombra senza catalizzare su di sè l’interesse dei media e dell’opinione pubblica; comunque sia sono in corso indagini, da cui potrebbe emergere qualcosa di significativo in questo senso.

Qualsiasi siano state le cause delle vio-lenze di quei giorni, non si può far altro che condannare, senza se e senza ma, lo sfruttamento di persone che fuggono da situazioni per noi inimmaginabili in cerca di condizioni di vita migliori.

Sebbene in questo caso il razzismo non sia stato la ragione prima delle ag-gressioni, lo Stato italiano non può sot-tovalutare il pericolo che la xenofobia rappresenta, soprattutto in questo pe-riodo di crisi, in quanto dal 2009 sono aumentati i casi di discriminazione nei confronti degli immigrati, un quinto dei quali, come riportato dal rapporto Ocse-Sopemi 2009, sono stati subiti in ambito lavorativo.■

Apotropaico Zuzzurellone

Un viaggio nel paesino calabrese, teatro della rivolta di gennaio, alla scoperta delle motivazioni degli scontri

Rosarno: oltre le parole i fatti

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Quello che è successo a Rosarno non deve stupirci più di tanto.

I giovani immigrati che hanno mes-so a ferro e fuoco la città non erano poi così diversi dagli schiavi che nel diciannovesimo secolo si ribellavano agli schiavisti bianchi. Sebbene que-sti nel paese calabrese avessero il volto dei caporali della ‘Ndrangheta, la dinamica è rimasta più o meno la stessa.

Perchè, se da un lato è necessario condannare ogni forma di violenza, ricordando che i sassi e i roghi degli africani hanno colpito soprattutto gli abitanti del luogo (gente che fino ad ora aveva “sopportato” abbastanza pacificamente la presenza di migliaia di esseri umani ammassati come be-stie nelle baracche ai margini della società), è comunque evidente che l’esasperazione causata dalle terri-bili condizioni di vita degli immigrati ha quasi giustificato lo scoppio della rivolta.

I “negri”, uomini all’ultimo gradino della scala sociale, vivevano dentro vecchi casolari disabitati, in ex depo-siti e in un oleodotto mai utilizzato, al-l’interno di baracche di cartone, senza alcuna assistenza medica e in condi-zioni di degrado inconcepibili per un paese occidentale. Tutte le mattine, verso le 5, si ritrovavano nelle strade dove i “datori di lavo-ro”, nella stragrande maggioranza dei casi caporali di qualche clan mafioso locale, li portavano nei campi di pomodori o di agru-mi dove lavoravano tutto il giorno per una ventina di euro, pri-vi di qualsiasi diritto sindacale. Ogni tanto, per calmare qualche africano troppo impertinente, si sistemavano i conti a sprangate o a “revolverate”.

Di fronte a tutti questi soprusi la po-polazione straniera di Rosarno non aveva mai reagito in modo violento,

ma la sparatoria del 7 gennaio (forse di matrice razzista) è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: gli immigrati si sono riversati in corteo nelle strade, ben presto la situazio-ne è degenerata e la manifestazione è sfociata in una guerriglia urbana di impressionante violenza, con barrica-te, aggressioni, roghi e sassate contro auto e vetrine. Negli scontri sono ri-masti feriti molti manifestanti e poli-ziotti, oltre ad alcuni cittadini. Tuttavia ancora più tremenda è stata la rap-presaglia degli abitanti e (si crede) dei clan mafiosi: molti uomini sono stati

braccati e sistema-ticamente pestati, diversi spari hanno colpito i manifestanti ferendone qualcuno anche gravemente. I neri si sono nascosti terrorizzati all’esterno della città, protetti da un cordone di forze

dell’ordine, molti sono stati deportati a forza ed altri hanno volontariamente lasciato “quell’inferno” in cerca di una nuova casa.

Credo che l’unica via per una più ci-vile convivenza tra italiani e migranti sia cambiare il nostro atteggiamento

nei loro confronti: finchè li vedremo soltanto come un problema fastidio-so, o, al di là delle ipocrisie, come de-gli schiavi da sfruttare, finchè saremo così tolleranti con i mafiosi e così poco con i disperati che stanno alla base del nostro sistema economico, allora non potremo evitare che gli “schiavi” si ribellino alla nostra arroganza e alla nostra indifferenza. Se non ci sarà un cambiamento radicale, ci saranno al-tre centinaia di rivolte, e a pagare sa-remo tutti noi.■

Johnny

Una rivolta già annunciata da anni di sfruttamento e dalla nostra indifferenza

I nuovi schiavi si ribellanoSpeciale Rosarno

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“L’unica via per una più civile convivenza tra italiani e migranti è cambiare il nostro atteggiamento nei loro confronti”

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Attualità

Spesso sentiamo parlare di que-sta istituzione, se così vogliamo chiamarla, in cui molti di noi non

si riconoscono. Dove sta l’Europa?Cartina alla mano l’Europa non è che

un enorme territorio corrispondente alla parte occidentale dell’Eurasia. In effetti non è semplice riconoscersi in un così vasto e non ben definito continente; so-prattutto se all’interno di esso coesisto-no culture completamente differenti.

“Sono cittadino Europeo”, e ancora, “sono comunitario”. Pochi hanno dato peso a queste parole: ci sentiamo tut-ti molto Italiani, anzi non proprio tutti, viste certe idee che stanno prendendo piede di questi tempi.

Sembra che l’Unione Europea abbia portato soltanto danni, sembra che abbia distrutto la nostra economia con l’introduzione dell’euro e l’apertura dei mercati; sembra che non si dormano più sonni tranquilli a causa dell’abbatti-mento delle frontiere e quindi dell’immi-grazione incontrollata: insomma, chi più ne ha più ne metta, l’Europa è diventata il capro espiatorio di quanto di male ac-cade nel nostro Paese.

Vorrei riportare una mia esperienza personale che proprio l’Europa mi ha concesso di vivere attraverso il progetto Comenius. In breve il progetto consiste-va nella redazione di un giornale inter-nazionale, attraverso meeting svolti nei paesi partecipanti: Italia, Romania e Slovacchia.

Il viaggio è stato sicuramente la par-te più interessante del progetto: una mattina mi sono così trovato a Malpen-sa con la mia bella valigia stracarica di pregiudizio e superbia, o se preferite di orgoglio nazionale, pronto a partire per

quello che pensavo il terzo mondo. Pen-savo: “Mi lascerà veramente qualcosa di buono questo meeting? Cosa mi po-tranno mai insegnare gli slovacchi e i rumeni?”

Così, dopo poco, sono stato catapulta-to in una realtà completamente diversa dalla mia per cibo, co-stumi, tradizioni e stili di vita. Le domande allora nel mio cervel-lo si facevano sempre più pressanti: “Ma cos’ho in comune con questa gente?”

Eppure una sera mi sono trovato per caso a tavola con una famiglia rumena, e conversando del più e del meno, il pa-dre ha iniziato a raccontarmi la storia della sua vita, e più ascoltavo più senti-vo familiare la sua storia, certo con una diversa scenografia, ma con lo stesso copione. Stesse priorità di vita, stessi valori, soltanto colorati da una cultura diversa. Ad un certo punto una lacrima, si commuove, il bacio alla figlia e l’ab-braccio alla moglie: apro finalmente gli occhi, ora è tutto chiaro. Con i pochi ge-sti di quell’uomo ho capito quanto valga davvero la nostra comunità. Un Europa

di culture diverse, ma di uomini ugua-li. L’Europa siamo noi, e non è il solito slogan politico scaldato e riscaldato, è ciò che penso della mia comunità, nella quale si riuniscono uomini forgiati dalla stessa materia, con una diversa bandie-

ra sul proprio documento ma con gli stessi sogni e le stes-se prospettive.

Alla fine della cena mi sono sentito dire dal padre altre parole su cui

riflettere e meditare: “Io sono il tuo ser-vo”, è un espressione rumena ricca di significato, “Ti rispetto, ti sono amico e per questo mi metto a tua disposizio-ne”. Purtroppo siamo l’Italia a servizio del progresso, e non l’Italia a servizio dell’uomo. Come pretendiamo allora di trarre beneficio dall’Unione Europea?

Così ora sono a casa, con la valigia or-mai svuotata da quel fardello, e quando la mia mente vaga per le montagne slo-vacche e le città rumene, mi sento orgo-glioso e fortunato di aver appreso una delle lezioni più importanti della mia vita. Ora mi sento finalmente Cittadino d’Europa.■

Il Giovane Werther

Europa: questa illustre sconosciuta

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“Con i pochi gesti di quell’uomo ho capito quanto valga davvero la nostra comunità. Un Europa diculture diverse, ma di uomini uguali. L’Europa siamo noi, e non è il solito slogan politico

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La Marmaglia

Attualità

È evidente che nel mondo non c’è giustizia. Si pensi alle disparità tra primo, secondo e terzo mondo. O

solamente alle differenze sociali presenti in un paese sviluppato e “ricco” come il nostro. Se si confrontano gli stipendi dei manager e quelli delle persone “comuni” la differenza salta subito all’occhio.

Tuttavia, la domanda sorge spontanea: il frutto del lavoro degli strapagati ammini-stratori delegati fa guadagnare all’azien-da tanto quanto un centinaio di operai, i cui stipendi mensili sommati raggiungono a stento il guadagno annuo di uno dei loro dirigenti? Chiaramente ed indubbiamente no. Allora, perché gli stipendi non sono retribuiti in maniera direttamente propor-zionale al guadagno che fanno pervenire all’attività? Certo, è giusto che il lavoro intellettuale, che generalmente richiede competenze più specifiche e approfon-dite, sia maggiormente pagato rispetto a quello della “bassa manovalanza”, e non sto inoltre ipocritamente affermando che questi top manager debbano rifiutare sti-pendi così alti, perché di certo nemme-no io li rifiuterei … Ma la sproporzione è eccessiva, ed è soprattutto errato il me-todo, il sistema basato sul profitto senza scrupoli, che è il fondamento della nostra economia.

Ma, ora che le grandi ideologie sono ormai fallite, che la fantomatica e tanto cercata “terza via” non è stata trovata, cosa si può fare? Non si può far altro che cercare di applicare quella che dovrebbe essere la virtù umana per eccellenza: la ragione, o meglio il buon senso. Istituzioni quali l’Unione Europea sono, a mio pare-re, la chiave per impostare lo sviluppo. L’Ue è infatti un’organizzazione che basa, purtroppo non completamente, il proprio operato (soprattutto in campo economi-co) su logiche in primo luogo ambientali e sociali e poi di profitto. Il suo prestigio internazionale è in continua crescita a scapito di quelle potenze da cui in passa-to l’Europa è stata schiacciata: Russia e Stati Uniti. Il comunismo sovietico è infatti

collassato tempo fa, mentre il capitalismo liberista di matrice statunitense sta mo-strando di avere notevoli carenze a livello strutturale.

Il modello dell’Unione Europea è invece un caso unico: organizzazioni come l’Unio-ne Africana non sono ad essa paragona-bili. Questo soprattutto per le situazioni politiche presenti negli Stati in questio-ne: sono spesso dittature mascherate da democrazie, al cui interno imperversano gruppi di ribelli sovvenzionati dalle multi-nazionali del petrolio o dei diamanti, men-tre il paese in preda al caos è abbandona-to ad epidemie e conflitti etnico- religiosi.

Queste nazioni appaiono letteralmente senza speranza: per esempio, soltanto due anni fa, è avvenuto in Tanzania un colpo di stato che ha rovesciato il primo Governo democraticamente eletto. Inoltre non è possibile avere fiducia nemmeno in quei ribelli che lottano contro i dittatori: quando prendono il potere lo amministra-no né più né meno come il despota che hanno scalzato, istituendo regimi auto-cratici nella quasi totalità dei casi. Questo per il fatto che ognuno tende a favorire la propria tribù di appartenenza generando così lotte senza fine.

Quale può essere dunque il modo per stabilire la giustizia nel mondo? Superare le ideologie per ritornare agli ideali, ba-sandosi sulle istituzioni che possono ga-rantire una maggiore equità, come l’Unio-ne Europea.■

Apotropaico Zuzzurellone

È possibile al giorno d’oggi mantenere un comportamento rispettoso e civile quando si sente parlare di dodicenni armati di col-telli? Come si può non avere paura di usci-re di casa quando leggiamo sui giornali di omicidi per un pugno di banconote?

Viviamo in un mondo dove non esiste il rispetto per la vita, questo è un dato di fatto. Chissà, forse è così dall’alba dei tempi, ma ora quel che ci troviamo tra le mani non è soltanto un problema astratto, ma è soprattutto una questione concreta e incombente: come stare a galla in que-sto turbine di violenza e prepotenza? La risposta più ovvia, o per lo meno sponta-nea, è quella di essere più forti degli altri, di prendere le redini della propria vita e difendersi con le proprie energie. In sin-tesi, stando a questa “ideologia”, se tutti avessimo in tasca una pistola saremmo di certo al sicuro … Ho già detto abbastanza, vero?

Chi invece vorrebbe un mondo utopi-co senza violenti e prepotenti, cerca di percorrere il suo viaggio tentando di non scontrarsi con nessuno; prega perché non abbia incidenti anche se è conscio che possano capitare. Una vita succube, rispettosa anche se non rispettata. Per fare un paragone è come se in un combat-timento fosse il primo a gettare le armi per farle gettare all’avversario. Si illude così di persuadere tutti gli altri a cessare le osti-lità, mostrando la sua non belligeranza. A mio giudizio, per un ladro, risulterebbe ancor più facile rubargli il portafogli …

E allora che fare? Ovvio! Ci vorrebbe un’autorità che si faccia garante della si-curezza, che faccia in modo di preservare la libertà e che punisca chiunque calpesti questi diritti.

Ma non vi ricordate i vecchi film Western? Sparatorie e furti, finché … Uno squillo di trombe in lontananza! Ecco, arrivano i no-stri! Arrivano i buoni … Già, peccato che spesso solo i film hanno un lieto fine.

Infatti l’autorità che dovrebbe protegger-ci spesso è latente, ciò che cancellereb-be tutti questi pensieri dalla nostra testa troppe volte ci lascia in balia di noi stessi. Ci lascia soli a pensare: da che parte sta-re?■

Superare le ideologie per ritornare agli ideali, basandosi sull’Unione Europea

Come affermare la giustizia nel mondo

L’OPINIONE

di Il Giovane Werther

Pacifisti nel “Far West”?

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Attualità

È recentemente tornato agli onori della cronaca il caso del nuclea-re in Italia. Innanzitutto, è bene

informare i lettori riguardo il modo di ottenere l’energia elettrica dalle cen-trali nucleari, per evitare incompren-sioni. L’energia nucleare si ricava bom-bardando barre di uranio con un fascio di protoni; gli atomi di uranio colpiti si rompono, liberando energia sotto for-ma di calore. Questo viene ceduto ad una massa d’acqua che, riscaldata, evapora e mette in rotazione turbine che producono energia elettrica con il loro movimento.

Questo tipo di energia è senz’altro vantaggioso, perché non emette gas tossici nell’atmosfera, ma, purtroppo, quando l’uranio non può più essere bombardato dai protoni diviene “esau-sto”: bisogna smaltirlo in appositi siti di stoccaggio poiché emette particelle ra-dioattive, pericolosissime per ogni or-ganismo vivente. Nel 1987 in Italia un referendum ha bloccato la produzione di energia nucleare, dopo il tristemente famoso incidente alla centrale di Cher-nobyl. Nel frattempo la tecnologia si è sviluppata, quindi le nuove centrali che si vorrebbero aprire dovranno essere ricostruite completamente, ma non è questo il principale problema. È neces-

sario trovare il luogo adatto alla costru-zione della centrale, e, quando la popo-lazione locale avrà finito di protestare (se mai finirà, giustamente), bisognerà scegliere con che tipo di tecnologia costruirla, cioè in che modo sfruttare l’energia liberata dall’uranio. Occorre pensare al combustibile, e, dato che in Italia non sono presenti giacimenti di uranio, sarà necessario importare dal-l’estero l’intero fabbisogno nazionale, aggravando ancor più la dipendenza energetica da altri paesi. Bisognerà cer-care un luogo adatto al deposito di sco-rie radioattive, ossia una zona a basso rischio sismico in cui non possa filtrare l’acqua o l’aria, oppure vendere le sco-rie ad un’altra nazione dotata di depo-siti, che però si farà pagare lautamente (come sta attualmente accadendo con le scorie fino ad ora prodotte). Per di più bisogna sperare che alla centrale atomica non succeda nulla: niente ter-remoti di grande intensità, attacchi ter-roristici o incidenti, ecc … Il potenziale dell’energia atomica è enorme, ma il continuo aumento dello sfruttamento dell’uranio come fonte energetica sta portando l’opinione pubblica a riconsi-derare la necessità del suo utilizzo. Per costruire una centrale nucleare servo-no in media 10 anni ed è calcolato che a questo ritmo l’uranio si esaurirà nel

giro di 30-40 anni: la centrale, quindi, lavorerà solo per 20-30 anni e durante questo periodo di tempo per essere un investimento conveniente dovrà pro-durre una quantità di energia tale che il ricavato superi il costo di costruzione e dello smaltimento delle scorie (cosa non scontata). Oltre ai fattori puramen-te economici sono poi da considerare anche quelli sociali e ambientali, che non possono essere trascurati in im-pianti di questo tipo. Non ininfluente è la questione delle scorie: queste riman-gono pericolose per migliaia di anni, quindi il problema nucleare si estende-rà anche alle generazioni future.

Perché i governi non sostengono e in-coraggiano lo sviluppo di energie alter-native e pulite, come l’energia solare o geotermica, invece di pubblicizzare un ritorno al passato nucleare? Perché i nostri più illustri scienziati esportano in altri paesi tecnologie energetiche di prim’ordine (vedasi Carlo Rubbia), mentre in Italia non si pensa mai ad adottare una efficace politica energe-tica? Viene quindi ancora da chiedersi se dietro le decisioni prese dai nostri governanti non ci siano secondi fini o interessi personali, come cittadino spe-ro vivamente di no.■

Snubber

Incidenti, smaltimento di rifiuti tossici, costruzione di nuove centrali, proteste, costi esorbitanti... È davvero conveniente tornare al nucleare?

Tutti i problemi del nucleare

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La Marmaglia

Attualità

Lo scienziato è un essere umano

Come possiamo pretendere che uno scienziato abbandoni i suoi esperimenti e taccia le sue sco-

perte, dopo aver trovato la soluzione ad un problema che magari si poneva da tutta la vita?

In quel momento credo che egli si trovi in uno stato di euforia tale da inibire la sua facoltà di ponderare le proprie azio-ni calcolando le loro conseguenze.

Lo scienziato è un uomo, e come tale è mosso da ambizioni, dalla ricerca di un riconoscimento personale e dal bisogno di sentirsi appagato e realizzato per gli sforzi che compie nello svolgere inten-samente il suo lavoro. Queste caratteri-stiche umane emergono dalle parole del fisico tedesco Werner Karl Heisenberg: <<Lo scienziato ha bisogno di sentirsi confermare da un giudice imparziale, la natura stessa, di aver compreso la sua struttura>>.

Al contempo è uno scienziato di gran-de personalità colui che riesce a frenare questi impulsi umani conciliandoli con un’estrema deontologia professionale, chi riesce a riconoscere i limiti della pro-pria ragione; ciò però comporta un gran-de sforzo umano e psicologico.

<<Il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un infinita di cose che la sorpassano>> afferma il matematico e filosofo francese Blaise Pascal, vissuto nel ‘600, secondo il qua-le è la scienza stessa che deve auto-con-trollarsi, perché in alcuni casi potrebbe portare a scoperte che preludono ad applicazioni disumane di quest’ultime. Esemplari al riguardo sono, nel ‘900, le conseguenze catastrofiche portate dalla teoria atomica.

Le molteplici conseguenze della scoperta della teoria atomica

Il dibattito sui potenziali impieghi pe-ricolosi delle scoperte scientifiche, è spesso ricondotto all’episodio del 6 ago-sto 1945, quando fu sganciata la bom-ba atomica sulla città di Hiroshima, in

Giappone. In quella occasione la super-fortezza denominata “Enola Gay” lan-ciò un ordigno atomico realizzato sulla base della teoria della fissione nucleare; questa provoca una serie di esplosioni a catena dei nuclei degli atomi pesanti, come l’uranio.

Questa scoperta è attribuita principal-mente al fisico italiano Enrico Fermi, ma era condivisa da tutta la comunità scien-tifica europea e americana.

Ci furono scienziati che finsero di non conoscere tali teorie, perché capirono che <<Si doveva abbandonare tale esperimento, considerate le conse-guenze politiche e biologiche>>, come scrive Heisenberg in “La tradizione del-la scienza”. Egli fu proprio uno di quelli che si oppose all’idea di fornire un’arma atomica al regime nazista per il quale lavorava. Heisenberg era stato messo a capo del “programma nucleare tedesco” ma egli cercò in tutti i modi di rallentare il progetto, dimostrando così di non vo-ler collaborare con il regime di Hitler.

Altre conseguenze, meno disastrose, ma pur sempre nocive derivano dalla stessa teoria.

Gli impieghi di questa nel campo della produzione energetica, in questi anni, dividono il parere dell’opinione pubblica mondiale: da un lato c’è chi vorrebbe smantellare le centrali nucleari opera-tive evidenziando le problematiche am-bientali causate e causabili da queste; d’altro canto c’è chi vuole mantenerle attive per incentivare la produzione energetica e di conseguenza rilanciare la macro-economia mondiale.

Come controllare i “mostri” libera-ti dalla scienza

L’interesse pubblico per l’attuale que-stione delle centrali nucleari, nonostan-te sia stata politicizzata e generalizzata (spesso infatti chi si esprime non ha le adeguate e necessarie informazioni tec-niche per entrare nel merito) si presenta come un esempio, una manifestazione della concreta facoltà che possiedono gli “uomini comuni” di controllare i “mostri” creati dagli “apprendisti stregoni” (Enri-co Fermi, Niels Bohr, Robert Oppenhei-mer … Coloro che non sono riusciti a pa-droneggiare le proprie creazioni).

Oltre a questa presunta possibilità di tutti di frenare le conseguenze delle sco-perte scientifiche, che è forse un’utopia o comunque è un pensiero molto ideale, è bene ricordare che esistono organismi internazionali legati all’ONU, come la IAEA - International Atomic Energy Agen-cy – che controllano le ricerche scien-tifiche nel campo dell’energia atomica degli stati di tutto il mondo, si assicura-no che ogni nazione dichiari l’effettiva quantità di centrali nucleari presenti sul proprio territorio e sventano la possibili-tà che qualche folle governante si serva delle scoperte per scopi bellici.

Controllarli, ma non limitarli: <<Non posso accettare che vengano messi dei chiavistelli al cervello>> argomen-ta la senatrice, medico e scienziata Rita Levi Montalcini in un discorso pubblico del 2001. <<Non è necessario osta-colare categoricamente l’ingegno e la libertà di ricerca, che distinguono l’Homo Sapiens dalle altre specie>> aggiunge il premio Nobel per la Medi-cina; sarebbe tuttavia sufficiente che la comunità scientifica e il mondo socio-politico-culturale (non in senso elitario ma inteso come la rappresentanza di tutti i cittadini) interagissero tra di loro, si confrontassero, dialogassero aperta-mente e pubblicamente, accettando, vi-cendevolmente, le revisioni delle idee di entrambe le parti.

La Montalcini, oggi più che mai, è con-vinta che tutto ciò non avvenga e, schie-randosi a difesa degli scienziati, affer-ma: <<Essi sono vittime di movimenti oscurantisti e antiscientisti e avrebbe-ro, invece, il diritto di partecipare alle decisioni politiche.>>.

Per quanto riguarda il rapporto potere-scienza lo scrittore tedesco Bertoldt Bre-cht, nell’opera teatrale “La vita di Gali-leo”, fa recitare così il famoso scienziato: <<Gli uomini di scienza devono reagire all’intimidazione dei potenti per evita-re che la scienza rimanga fiaccata per sempre>> ma al contempo afferma che è sbagliato agire nella maniera inversa: <<Per alcuni anni misi la mia sapienza a disposizione dei potenti. Ho tradito la mia professione>>.■

Kant-astorie

Quando la scienza non riesce a controllare le forze che ha scatenato

I nuovi apprendisti stregoni

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La Marmaglia

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News dalle Scuole

Più o meno un anno fa su questa rivista veniva pubblicato un ar-ticolo satirico riguardante una

tipica assemblea d’Istituto del Liceo Gioia, dal titolo “L’assemblea per una bimbaminkia”. L’idea era nata da un epi-sodio decisamente spiacevole: durante la visione del film “La masseria delle allodole”, riguardante lo sterminio de-gli Armeni, alcuni fulgidi rappresentanti della futura classe dirigente, elementi senz’altro dotati di un’elevata sensibi-lità nonché di un apprezzabile senso dell’umorismo, avevano più volte sottoli-neato il loro apprezzamento per le scene di massacro e pulizia etnica con applau-si scroscianti, lanci di bicchieri vuoti e battaglie a suon di pop-corn. La vicenda era passata, ovviamente, inosservata, dopo il film vi era stato il solito dibatti-to nel più completo disinteresse (salvo qualche intervento delirante) e alle 12 e 30 la marea di giovani era ritornata alle amate magioni, in fondo soddisfat-ta di aver perso una giornata di scuola. Ma evidentemente comportamenti del genere sono diventati una prassi, qua-si una moda: anche quest’anno infatti, durante l’assemblea sulla Giornata del-la Memoria, i soliti cinefili non hanno ri-sparmiato gli applausi, ancora una volta

non alla fine del film, ma anche durante le scene più tragiche.

Ora, di fronte a comportamenti del genere, non possono che presentarsi alcuni dubbi sull’utilità e sul significato attuale dell’assemblea d’Istituto. Innan-zitutto, le assemblee studentesche sono comparse per la prima volta durante il ’68, come risposta ad un’esigenza con-creta dei giovani di confrontarsi e dialo-gare: gli studenti volevano partecipare attivamente alla vita dell’Istituto e alle decisioni che li riguardavano. Le assem-blee erano spontanee, e spesso non autorizzate; probabilmente dal punto di vista concreto non servirono a molto, ma ben rappresentavano la volontà dei giovani di pensare, di confrontarsi e di opporsi ad un sistema sentito come loro avversario.

Adesso, però, almeno nella mia scuo-la, l’assemblea si è completamente svuotata del suo significato originario ed ha assunto i caratteri di un’equazione, simile a “assemblea = niente lezioni = scazzo”, con il risultato che gli studenti, dovendo occupare tre o quattro ore al-trimenti passate ad ascoltare un noioso ed inutile dibattito, si dedicano alle più svariate e curiose attività. Se a questo aggiungiamo che chi sarebbe davvero

interessato a partecipare è costretto a seguire un film praticamente proiettato su di un fazzoletto (a fronte del maxi-schermo del Politeama, gigantesco e soprattutto costoso), con un audio pessimo, mentre attorno a loro accade letteralmente di tutto e di più, e ad assi-stere a dibattiti che definire penosi è un eufemismo, spesso sconclusionati e ul-timamente ridotti a pochi minuti, posso concludere che l’assemblea d’Istituto è divenuta ormai completamente inutile.

Meglio sarebbe a mio avviso investire i soldi dell’affitto del cinema per poten-ziare i giorni di flessibilità e, magari, organizzare autogestioni o miniassem-blee facoltative in cui ognuno possa scegliere il tema preferito e partecipare liberamente: in questo modo gli studen-ti interessati sarebbero maggiormente coinvolti nelle discussioni, si evitereb-bero situazioni spiacevoli, potendo me-glio controllare i partecipanti di ogni “laboratorio”, e i ragazzi non interessati potrebbero starsene tranquillamente a casa privandoci così della loro fasti-diosa presenza. L’assemblea d’Istituto potrebbe rimanere solo nei casi in cui sia strettamente indispensabile, come durante la presentazione dei candidati rappresentanti d’Istituto (anche su que-sti indimenticabili momenti ci sarebbe da fare alcune considerazioni, ma ve le risparmio per un’altra volta …) o in cir-costanze eccezionali (la riforma delle superiori potrebbe rientrare nella cate-goria?).

Sento il bisogno di un nuovo protago-nismo giovanile. Dovremmo capire che non possiamo lasciarci condizionare senza nemmeno renderci conto della si-tuazione in cui stiamo scivolando: quan-do le persone diventano indifferenti sono molto più facilmente manovrabili e condizionabili. Nel liceo Respighi è nato un collettivo apartitico e spontaneo per combattere l’indifferenza e la disinfor-mazione, relativamente soprattutto al tema della riforma scolastica: magari iniziative del genere nascessero in tutte le altre scuole!■

Johnny

Ecco come siamo riusciti a trasformare un diritto con-quistato a fatica in un’occasione per perdere tempo...

L’assemblea ai tempi dell’indifferenza

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La Marmaglia

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News dalle Scuole

Sì, assomiglia al signor Burns! In-fatti chiunque di voi si sia mai im-

battuto in una puntata dei Simpson, avrà

cer tamente n o t a t o la somi-

glianza fisica e comporta-

mentale che il nostro amico “giallo” ha con “la nostra ami-ca nera Licia”. Mr Burns: <<Io do una mano a te …. Tu dai

una mano a me. Vo-glio dire, se io infilassi qualcosa nelle tue tasche che male ci sarebbe!?!>>

Questa è paragonabile a una delle fra-si particolarmente compromettenti che certe volte la signora Burns del Liceo Re-spighi pronunzia.

Il soggetto in questione ha naturalmen-te una testa prominente, un ventre, due gambe e due piedi piatti, ma non avrà mai due ali: è l’attuale preside del Liceo scientifico L. Respighi di Piacenza.

Qualcuno potrebbe obiettare che le ali in realtà le abbia, forte del fatto che dai tratti somatici della “Licia” si nota una forte somiglianza con un volatile, il Con-dor. Osservazione acuta e inconfutabile ma non inerente, perché il riferimento alla sua mancanza di ali è allegorico, lascia intendere la sua estrema concre-tezza. Incapace di volare, di innalzarsi al grado più alto, quello del pensiero e del-l’arte, che vengono di conseguenza cen-surati dal suo eccessivo pragmatismo. “El condor Licia” non vola: è di carattere talmente forte che non si lascia vincere nemmeno da un briciolo di idealismo, di titanismo, di anticonformismo e da tutte quelle correnti che ti permettono, attra-verso la fantasia e l’immaginazio-ne, di spiccare il volo sulle ali del pensie-ro.

Di questi “…ismi” talvolta si

infatuano (meno male e per fortuna) i ra-gazzi del Respighi, che percepiscono nel-la loro scuola un clima di stato assoluto Hobbesiano, dove il ruolo del Leviatano è, però, svolto dalla Preside.

Tra le mura dell’unico vero (così sostie-ne lei, scontrandosi con la realtà dei fat-ti) liceo “sssientifico” (come la Preside lo pronunzia: omettendo la “C” e sibilando la “S”) si respira aria di “Ancien Regime”, l’età dell’assolutismo regio che si mani-festò in Francia durante il regno di Luigi XIV detto “Le Roi soleil”.

In realtà l’aria di assoluti-smo viene fiutata da pochi. I “fortunati” sono solo gli studenti che, attenti alle scelte politiche nazionali e locali, ma soprattutto a quelle riguardanti la scuo-la, si dimostrano sensibili al proprio futuro e quindi percepiscono la necessità di attivarsi per contribui-re a cambiare qualcosa.

Questo gruppo “I Car-bonari della disinforma-zione”, in strettissima minoranza nume-rica rispetto ai 1300 circa studenti del Respighi, accusa a malincuore l’esclusi-vità di coscienza critica e di cittadinan-za attiva tra gli studenti del liceo e tra i giovani più in generale. Dobbiamo rite-nerci fortunati che la ragione limpida e disillusa sia esclusiva? Forse la peggior sorte al Respighi deve ancora presen-tarsi, perché la realtà ci evidenzia che nell’ambito giovanile è spesso addirit-tura omessa del tutto la coscienza cri-tica. Sembra che per la categoria degli studenti liceali - sostengono i Carbonari - sia opzionale pensare con la propria te-sta, costruirsi delle idee sulla base di co-noscenze oggettive anziché associarsi e lasciarsi abbindolare dai luoghi comuni (spesso infondati) che circolano di bocca in bocca, trasmessi dalle Tv e pubblicati sui giornali.

Nonostante la nostra “Reine Soleil” talvolta conceda (dall’alto) la propria disponibilità a dialogare con il popolo

(dialogo che spesso è un soliloquio, e un soliloquio che comunque è criptico, enigmatico, poco chiaro), si dimostra nei fatti dispotica perché prende le decisioni personalmente, senza tenere in conside-razione gli altri componenti del consiglio d’Istituto formato, oltre che dalla presi-de, da una rappresentanza di alunni, di docenti e di genitori.

Del consiglio d’Istituto solo la compo-nente dei genitori appoggia le scelte del-la copia al femminile di Mr. Burns perché, non vivendoli dall’interno, non riesce a cogliere quali sono i veri problemi della scuola. I genitori degli attuali “servi del nozionismo analfabeta” hanno un’idea di questa cultura scolastica coltivata

sulla base delle apparenze esterne. E’ appunto con una precisa ricetta (

500g di grandi apparenze e 320g di poca sostanza) che è stato cuci-

nato il piatto Liceo Respighi dal suo “Chef”. Quest’ultima pa-rola non intesa nell’accezione odierna del termine, cioè cuo-co, ma dalla versione ricavata dalla sua traduzione letterale dal tedesco, ossia “Il Capo”.

Ultimo aspetto del “Condor Nero Mrs. Burns Reine Soleil Capo” detta anche Vladimir

Ilyich Ulyanov Lenin, per gli amici Licia: è mossa da una solida fede cattolica.

Forte di questa consapevolezza, sono sicuro che se “la signora camicia nera” dovesse prendere tra le mani questo articolo, non si limiterebbe solamente a riconoscerne il suo sublime grado di bellezza. A questa ovvietà, con estrema coerenza, affiancherà sicuramente l’inse-gnamento evangeli-co del perdono.

“Ai posteri l’ardua sentenza!”… ma an-che ai contemporanei non nuocerebbe rifletterci un po’, senza aspettare che, come capitò a “lo sconfitto di Waterloo”, anche la Licia venga rilegata in esilio, magari in via Risorgimento!■

Kant-astorie

Direttamente dal Liceo Respighi, un apologetico ritratto dell’amata dirigente scolastica Licia Gardella

Don’t “Kiss me Licia”!

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Tecnologia

La tecnologia, in questi ultimi anni, sta davvero viaggiando alla velocità della luce. Pensate che in Germania alcuni ri-cercatori stanno progettando cellulari che non rendono necessario l’uso della voce. Questo tipo di comunicazione è chiama-to Soundless Communication e si basa su di un sistema che misura i movimenti muscolari, li trasforma in impulsi elettrici e poi li converte in una voce computeriz-zata. Con questo programma si potrà par-lare al telefono – si stima tra 5/10 anni – senza pronunciare alcuna parola: baste-rà, infatti, muovere le labbra per inviare un segnale acustico di senso compiuto all’interlocutore.

In questo modo sarebbero risolte alcu-ne questioni: scomparirebbe ad esempio il problema della privacy e questa tecno-logia potrebbe essere sfruttata da quelle persone che hanno subito un incidente o che per alcune patologie non possono parlare.

Si pensa di inserire in quest’apparecchio del futuro anche un traduttore che inter-preta il movimento delle nostre labbra in una lingua diversa dalla nostra.

Un’altra eccezionale invenzione è stata ideata da tre studiosi americani, i quali pensano di riuscire a realizzare un cellula-re che grazie a microproiettori ci permette-rà di vedere l’immagine della tastiera alfa-numerica sul nostro avambraccio. Questo diventerà così un telefonino multitouch, perché i tasti proiettati saranno sensibili al “tocco”. Per utilizzare questo apparec-chio però dovremo mettere una fascia nella quale si troverà un sensibilissimo microfono in grado di captare il suono del dito mentre tocca la tastiera visualizzata sulla mano. In questo modo diventerem-mo però una sorta di cyborg, idea che non mi alletta più di tanto.

Queste per molti saranno sicuramente scoperte sensazionali, tuttavia mi risulta molto strano pensare ad un mondo in cui, per comunicare, non avremo quasi più bi-sogno di utilizzare la voce o dove avremo cellulari che daranno origine, pressappo-co, ad un tutt’uno con la nostra mano. Spero perciò vivamente che queste crea-zioni così avanzate siano realizzate il più tardi possibile, perché credo che rende-rebbero innaturale il nostro mondo.■

di Bob

La rete come un bazaarÈ strano pensare che l’informatica

sia collegata alla scienza moder-na a partire dal XVII secolo, ma il

movimento del software libero non porta certo avanti una nuova idea.

Fin dai tempi di Galileo la scienza è stata uno scambio reciproco, continuo e illimi-tato di conoscenze, ed è grazie a questo principio che adesso ci troviamo ad avere o no determinati saperi.

Il movimento dell’open source si fa la-tore della libera circolazione delle infor-mazioni tra le persone, cosa da cui la società moderna può trarre sicuramente molti vantaggi rispetto ad un modello di circolazione limitata. L’open source nasce dalla collaborazione di più program-matori indipendenti allo stesso progetto, del quale si incenti-va il libero studio e l’apporto di modifiche. La collabora-zione di più parti ad uno stesso progetto permette a quest’ultimo di essere com-pletato in minor tempo e con più precisione e completezza rispetto a quanto si potrebbe raggiun-gere con il lavoro di un singolo gruppo.

Magnifico esempio di questi due opposti modelli di lavoro si trova nel libro “La cattedrale e il Bazaar” di Eric S. Ray-mond, saggio sullo sviluppo del software presentato nel 1997 e pubblicato poco dopo. Raymond paragona ad una catte-drale il modello di lavoro chiuso e limitato ad un numero relativamente basso di pro-grammatori, tipico delle aziende commer-ciali, in cui vige un ordine gerarchico ben preciso e ognuno lavora sulla sua parte di codice. Mentre il modello di lavoro aperto. nel quale il codice sorgente è libero, e tut-ti, sia programmatori che utenti, possono contribuire al miglioramento del software, è paragonato al bazaar

In quest’ultimo modello, in totale con-trapposizione con la cattedrale, regna una sorta di anarchia tra gli sviluppatori e chiunque ha le competenze può contri-buire ad ogni parte del progetto. Questo permette un contatto diretto fra program-

matori e utenti tra i quali avviene un con-fronto su problemi, esigenze e possibili soluzioni che contribuisce in modo am-bivalente a migliorare il software e ad ingrandire sempre di più il gruppo delle persone competenti.

Certo non manca chi è scettico verso questo sistema, sostenendo che il softwa-re collasserebbe sotto la gravosità delle migliaia di revisioni e sottolineando l’in-compatibilità di modifiche pensate da un numero così grande di persone.

Però non si deve pensare che un grande progetto venga lasciato all’anarchia totale di milioni di programmatori: ci sono dei re-sponsabili che controllano lo sviluppo del

lavoro e tengono salde le briglie di questo imbizzarrito e incontrol-

labile purosangue smanioso di diventare il migliore.

Un esempio eclatante della competitività e del successo del sistema a bazaar è il Web Server Apa-

che. Nato nel 1995 dall’unione di patch

da applicare al ser-ver NCSA, è oggi il Web Server su cui sono ospitati circa

il 60% di tutti i website del mondo, noto per qualità e affidabilità del servizio.

Il recentissimo film campione di incassi, Avatar, ha avuto bisogno di un rendering grafico impressionante, poiché è stato costruito interamente in studio e succes-sivamente montato al computer. La capa-cità di calcolo necessaria a gestire tutta l’elaborazione grafica è stata generata dal più grande cluster Linux esistente al mondo assemblato dalla Weta Digital di Wellington.

Ciò significa che quando si ha bisogno di prestazioni eccezionali Linux, sistema operativo open source, è il meglio che si possa trovare.

Il sistema a bazaar è spesso vittima di pregiudizi perchè non è a pagamento, cosa che dovrebbe compromettere affida-bilità e qualità, evidentemente, però, non è così.■

Trapper

Cellulari, ritorno al futuro

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Musica

CulturaSTORIE A PUNTATE ■ MUSICA ■ LIBRI ■ FREESTYLE

Premessa: questo articolo non si pone lo scopo di essere una recensione pre-cisa e pretenziosa che richiederebbe certamente una cultura musicale va-stissima, né tantomeno una pagina di wikipedia.

Sono solo impressioni, considerazioni fatte a proposito di uno dei nostri al-bum preferiti e in particolar modo di una canzone che noi troviamo unica nel suo genere: “Heroes” di David Bowie.

È una delle canzoni più conosciu-te in assoluto, motivo pubblici-tario sentito e risentito distratta-

mente da quasi tutti … Ma proprio per questo capita che sia facile trascurare il vero significato delle parole al di là del motivo orecchiabile.

Siamo nella Berlino degli anni ’70, la Berlino devastata dal Muro, “The Wall of Shame” citato nella canzone. Per chi non se lo ricordasse, il muro era stato eretto nel 1961 dal regime comunista della Germania Est e divise la città e il destino dei suoi abitanti per i successivi 28 anni, quando per l’imminente crollo dell’Unione Sovietica e la fine della “cor-tina di ferro” in Ungheria, risultava ormai inutile. Lo stesso Bowie stava vivendo una forte crisi e, tossicodipendente, ra-sentava ormai l’anoressia: “Ero ridotto a uno scheletro, stavo distruggendo il mio corpo. Ero circondato da gente che viziava il mio ego, che mi trattava come se fossi Ziggy Stardust, o un altro dei

miei personaggi, senza pensare che die-tro poteva esserci David Jones”. Un’al-tra testimonianza della sua condizione psicologica è costituita da Sound and Vision, brano scritto per l’album Low, in cui l’artista mette in luce la solitudine e lo stato di confusione mentale in cui versava.

In questo scenario va dunque ambien-tata l’esperienza umana ed artistica di Bowie, trasferitosi a Berlino per sfug-gire al caos narcotico di Los Angeles e attratto dal nuovo scenario culturale. L’album è frutto in particolare della col-laborazione con Brian Eno, coautore di “Heroes”, e Robert Fripp, chitarrista e leader dei King Crimson.

Dal testo della canzone emergono tutti gli aspetti legati al clima in cui è stata composta: gli “eroi” – le virgolette del titolo dell’album rappresentano una parentesi ironica in un’atmosfera altri-menti forse troppo drammatica – sono due giovani berlinesi che si baciano ai piedi del Muro, sfidando gli spari sopra le loro teste. Il loro amore li rende forti, forse li illude solamente ma fa loro intra-vedere la possibilità di superare la crisi, il male che vedono attorno al loro: “I will be king/And you/You will be queen/Though nothing will/Drive them away/We can beat them/Just for one day/We can be heroes/Just for one day”.

L’insicurezza e le difficoltà rimangono – il “And the guns/Shot above our hea-ds” è eloquente in questo senso – ma l’amore che provano, al contrario, è una certezza, “And that is a fact/Yes we’re lovers/And that is that” in una realtà dominata da un forte senso di precarie-tà. C’è anche chi vede la loro morte, uc-cisi dagli spari delle guardie di confine, e li considera martiri oltre che eroi, ma questa interpretazione non spieghereb-be le virgolette ironiche del titolo.

Dal punto di vista musicale gli elemen-ti più caratterizzanti sono la voce quasi meccanica di Bowie e le tastiere elettro-niche, introdotte da Brian Eno, produtto-re dell’album e creatore dell’elettronica n’ funk, che in quel momento si trova-va casualmente a Berlino Ovest. Così la musica identifica questa esperienza come pura alienazione, disumanizzazio-ne dell’individuo nello scenario tragico.

Ma oltre a questa lettura, letteralmen-te fedele al contenuto del brano, se ne può vedere un’altra, forse più azzarda-ta, ma universale: amare può significare rischiare, lottare, porsi in una posizione di contrasto rispetto al mondo che ci cir-conda. Per questo chi ama è un eroe, animato dalla speranza di superare le difficoltà insormontabili che vede di fronte a sé. ■

The Beauty & The Beast

“Heroes”: l’amore ai piedi del Muro

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FreeStyle

Svegliatevi è il titolo di una bella rivista che ho trovato in giro. Ca-rino? Vi piace? Già, neanche a

me. E volete sapere di chi è ‘sta rivista? Come non lo sapete? Dei “Testimoni di Geova”. Sì, e chi minchia sono? Boh, chi cazzo li conosce!?!

Comunque, l’ho letta un po’ e c’ho trovato pure un articolo assai interes-sante. Che culo! ‘Sto articolo s’intitola: “Perché non dovrei dire parolacce?” Ed è rivolto a noi giovani, il che è strano, perché equivale a dire: “Perché pensi al sesso?”

Tra due, tre esempi di giovani sce-mi che dicono di aver smesso di dire parolacce e un paio di quesiti rivolti a noi giovani nei quali gli autori di questo geniale e quanto mai brillante articolo illustrano i “Perché” di ‘sta loro teoria, mi sono chiesto: ma ‘sta gente è sce-ma? No, davvero, perché a me sembra totalmente scema. Essendo una rivista religiosa dovrebbe trattare argomenti religiosi e non stronzate simili. Uno per-ché sono inappropriate e due perché non se ne fotte nessuno, a parte le po-vere pecorelle smarrite leccaculo, che comunque hanno tutto il mio rispetto. A ‘sta gente bisognerebbe proprio fare un rapido corso di argomenti “attua-li” da trattare, anche perché ci fanno una figura di merda. Occorre tenere ben presente nella bella testolina che c’avete che le parolacce non cambiano un cazzo nella vostra vita. Anzi, in certi casi fanno anche bene, e scommetto che le usate tutti tutti i giorni. Anch’io, e devo ammettere che un po’ sta rivista ha ragione riguardo che ormai è uso comune. Un po’, che le parolacce le hanno sempre usate in tutti i tempi da quando ‘sto mondo esiste. Ho detto che le uso anch’io, e gli amici miei, e non si ha alcun problema, così come non ne avete neanche voi. E fin qui tutto bene, perché le parolacce sono solo fottute parole come tutte le altre. È vero che non sono molto piacevoli in un dialogo, perché lo abbrutiscono ed è meno ele-gante, ma mi ci gioco le palle e pesto a

sangue il primo che me lo dice, che in un cazzo di dialogo è più importante la sostanza e non come la si esprime. Ehi, e comunque stavo scherzando, non ci riesco mica a pestare uno a sangue, che non c’ho niente di muscoli.

‘Sto articolo, visto così, non ha nulla che non va, a parte che dopo un po’ ti dice che tu non devi dire parolacce perché perdi un sacco di opportunità di farti degli amici (a parte che oggi ne perdi di più, di opportunità, se non le usi, le parolacce), e inoltre danneggia la tua reputazione, e che se le usi è un problema e un/a vizio/malattia. Ehi ma svegliatevi voi, non noi, che non capite un cazzo, e siete troppo indietro coi tempi. Se parlate così nessuno vi ascolta. E ultimo punto, cioè quello che ti fa girare proprio le scatole: manchi di rispetto verso chi ha creato le parole, Dio. Dio, che sfigati che sono. Da una parte predicano Gesù, che se Gesù li vede li fucila tutti come facevano i na-zisti e i fascisti e tutta quella roba lì, e dall’altra dicono così, che vuol dire che la tua libertà nei confronti di chi ti ha creato è limitata. Non sei più libero di fare quello che ti pare, perché se dici “cazzo” Dio si offende e ti scaglia ad-dosso una bella punizione esemplare. È questo che ti dicono, insieme a un sacco di altre stronzate sul fatto che agli occhi di Dio tu diventi un “essere

spiacevole” che Lui non ama. E guarda che loro lo sanno, eh! Davvero!

Ma se non le dici, scusa, ma come minchia vuoi vivere? Con una costante paura del cazzo nel timore di offendere il tuo Dio? E se lo fai? Mi spiego: ‘sti qua trattano Dio come se fosse un bambino capriccioso e viziato, il che equivale ad un visione soggettiva del fatto. Se Dio è Dio ed è davvero onnipotente, allora proprio non se ne fotte di ‘sti particola-ri. Gesù dice che “Dio è un padre”, e in effetti è la cosa più vera detta di Dio: è un padre. Se tu che leggi sei religioso, ti dico due cose: Dio trovatelo da solo e non predicarlo mai, perché è il più grande sbaglio del cazzo che tu possa fare; e secondo, ricorda che Dio ti ama, incondi… inconde… incondiziomanen-te… incondizionatamente da quello che tu fai. È il creatore di tutto, dici? Creare equivale a fare arte. Tutti crea-no (anche tu!), e la propria arte si ama con tutto il fottuto essere del cazzo. E per finire in bellezza ricordati di questo: quello che conta è ciò che esprimi e non come lo esprimi. Eminem è pieno di “Fuck”, “Shit”, e “Bitch”, eppure se ti guardi un attimo attorno (e attento agli UFO, non si sa mai!), scoprirai che lui è un vero poeta. Parolacce, dici? Non fanno niente. Offendono, dici? Lo sai che sei proprio un bel figlio di papà in-capace di fare qualsiasi cosa che i cani sanno fare meglio di te?

Che altro volete? Vaffanculo!M.O.R.I.S

P.S: questo articolo è soggettivo. Ciò che voglio dire è… me lo sono dimen-ticato… ah, ecco: usate le cazzo di teste che avete e lasciatemi dormire. Aaahh… che sonno…

SVEGLIATEVI!!!Ehi, ma che è successo? È finito il mondo? Ah, no, ancora no. E lasciatemi dormire!

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Se in quel momento qualcuno fosse entrato nel teatro avrebbe visto una strana scena. Due donne sedute a

bordo palco, una che teneva il braccio in-torno alle spalle dell’altra; dietro di loro una corda che pendeva dal soffitto e un cadavere a terra. Jeany sorrideva ancora tra le lacrime che scendevano copiose a rigarle le guance.

–Il sangue a Londra scorre a fiumi: se vedi i cadaveri come lavoro alla fine non ti fanno nemmeno più tanto ribrezzo… Non ho anco-ra capito chi abbia potuto dire questo. Ogni volta che vedo un corpo devo vomitare.

Silvie la guardò in silenzio. Quella donna aveva perso l’uomo che amava: era capace di ogni cosa. Lei aveva bisogno di qualcuno disposto a impegnare le sue giornate per quella storia. Mark non le interessava più di tanto; le dispiaceva, certo, ma sapeva che avrebbe dimenticato il volto dell’uomo, era già successo. In quel momento serviva chia-rezza. Anche quegli idioti della polizia non ci avrebbero messo molto ad arrivare alla stes-sa conclusione cui era giunta lei. Ed Edward non avrebbe avuto possibilità di discolparsi. Il suo alibi non era provabile. Doveva sape-re. Anche se lui fosse stato discolpato per mancanza di prove, come avrebbe fatto lei a guardarlo senza essere presa dal dubbio? Come avrebbe potuto continuare a scaldare il suo letto sapendo che quel corpo caldo vicino a lei aveva fatto scendere un freddo eterno su qualcun altro?

–Jeany, cosa hai intenzione di fare?La donna si riscosse e asciugò con forza

le lacrime che ancora le scendevano dalle guance.

–Il mio lavoro. Il bastardo che l’ha ucciso pagherà ... Con la morte.

La minaccia risuonò contro le pareti, testi-moni di quel giuramento di sangue. Silvie ebbe un tremito. La donna si alzò e andò a fianco del cadavere; Silvie rimase seduta a riflettere. Dopo pochi minuti l’investigatrice si alzò di scatto e cominciò ad avanzare ver-so l’uscita. Quando fu a metà strada sembrò ricordarsi della ragazza; si girò e disse:

–Devo andare. Mio marito crede che sia a cena da non-so-che-signora-d’alto-bordo. Du-bito sia già tornato dai suoi “giri di lavoro”. Non ho ancora capito perché non mi dice apertamente che va per bordelli … Ma metti che ha trovato subito una disposta a soddi-sfarlo ed è tornato … Ci vediamo!

Fece ancora qualche passo avanti poi si girò nuovamente: –Se sai qualcosa … Qualsiasi cosa … Fam-

melo sapere. Mi farò viva io.Dopodiché uscì in tutta fretta. Silvie allora

fu veramente sola; rimase per qualche minu-to a perdersi tra le ombre e i suoi pensieri. Decise di pulire, avevano già aspettato trop-po perché le tracce del sangue sparissero del tutto dal legno. Mentre l’acqua si tinge-va di rosa, provò a immaginare la faccia che avrebbe fatto il direttore del teatro quando fosse venuto al corrente dell’accaduto. Non lo conosceva bene, ma qualcosa le diceva che sarebbe anche potuto essere contento del delitto: avrebbe incuriosito molto la popo-lazione, aggiungendo un motivo per vedere

uno spettacolo di Edward … Sempre che Ed-ward avesse potuto esibirsi ancora. Quando ormai della macchia non era rimasto che una chiazza bagnata, si decise a prendere il corpo e toglierlo dal palco. Mise un telo ac-canto ai sedili e si avvicinò al cadavere; un altro conato la prese, ma si fece forza e lo sollevò. Voglie vermiglie le si appiccicarono addosso come zecche, l’odore della morte le pervase le narici. Mentre si trascinava giù dalla scaletta del palco, il corpo, reso viscido dal sangue, le scivolò di mano e fece roto-lando gli ultimi gradini, finendo di schiena. Quando lo raggiunse un terrore profondo la paralizzò. Sul collo dell’uomo una scritta, che prima non aveva, spiccava rossa: “bitch”, puttana. ■

Parole

Teliqalipukt, il primo fra gli angeli per eccellenza, diviene il consigliere di Dio dopo molti anni trascorsi a contatto con gli uomini. E’ lo stesso Dio a convocarlo per chiedergli spiegazioni sul compor-tamento delle persone che, sempre troppo spesso, cercano di cambiare il loro destino. È questa vo-lontà di reinventare la loro vita che Dio non riesce a comprendere, essendo stato sempre vigile ma di-stante dagli esseri umani. Inizia così con il suo an-gelo più fidato un dialogo, in cui il Signore chiede di raccontargli diverse vicen-de di differenti uomini, nel tentativo di riuscire a comprendere quella specie che, a pa-rer suo, da tempo non tentava altro che ribellarsi al destino deciso dal suo creatore.

“E spacciano questa falsa libertà per uno scacco a me, uno scacco a Dio.”

Ultimo romanzo di Roberto Vecchioni, scrittore ormai affermato, è strutturato sull’alternanza di alcuni capitoli in cui si svolge il dialogo tra Dio e Teliqalipukt, e di altri che sono storie di vari uomini che l’angelo narra al suo creatore.

Vi sono così racconti di svariati per-sonaggi illustri: dal genio inglese di Oscar Wilde al famosissimo presidente americano JFK, divagando tra poeti antichi come Ca-tullo o drammaturghi mo-derni del calibro di William Shakespeare.

Nonostante gli esempi che Teliqalipukt riporta a Dio risultino molto interes-santi, in troppi casi vi sono

spunti fantastici che rendono poco cre-dibili gli stessi episodi.

Un libro leggero, piacevole, che può indurre alla riflessione, ma da non prendere troppo sul serio.■

Scacco a DioRober to Vecchioni

Il divora- libridi PDZ

VOTO:

“There are some illusions, this isn’t one of those” di Nihal

MEMENTOPotete trovare i capitoli precedenti sul nostro sito web: www.lamarmaglia.it

Capitolo �

Page 16: La Marmaglia aprile 2010

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