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Deborah Bellini Racconti Stimolare e sfidare il lettore alla riflessione. Ecco, questo, secondo me, è lo scopo principale della lettura. (I. Welsh)

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Deborah Bellini

Racconti

Stimolare e sfidare il lettore alla riflessione.

Ecco, questo, secondo me, è lo scopo principale della lettura.

(I. Welsh)

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SOMMARIO

A) TESTI NARRATIVI

1. LA LUCE E’ COME L’ACQUA PAG. 3 – 5

2. EVELINE PAG. 6 – 9

3. IL PICCOLO PRINCIPE PAG. 10 – 12

4. FRANKESTEIN PAG. 13 – 15

5. IL CUORE RIVELATORE PAG. 16 – 21

6. IL TRENO HA FISCHIATO PAG. 22 – 25

7. ROSSO MALPELO PAG. 26 – 34

8. UN’OPERA D’ARTE PAG. 35 – 37

9. IL RITRATTO DI DORIAN GRAY PAG. 38 – 43

10. SE MORISSI PRIMA DI SVEGLIARMI PAG. 44 – 53

11. VECCHIO AL PONTE PAG. 54 – 55

12. L’OMBRA DEL VENTO PAG. 56 – 58

B) APPENDICE LETTERARIA

1. SIDDHARTA PAG. 60 - 64

2. RACCONTI BREVI DI COELHO PAG. 65 – 71

3. OCEANO MARE PAG. 72 - 73

C) ANALISI DEL TESTO NARRATIVO PAG. 74 - 80

D) BIOGRAFIE DEGLI AUTORI PAG. 81 – 93

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ANTOLOGIA

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LA LUCE E' COME L'ACQUA

GABRIEL GARCIA MÁRQUEZ

A Natale i bambini chiesero di nuovo una barca a remi. "D'accordo" disse il papà, "la compreremo quando faremo ritorno a Cartagena." Totò, di nove anni, e Joel, di sette, erano più decisi di quanto i loro genitori credessero. "No" dissero in coro. "Ne abbiamo bisogno adesso e qui." "Per cominciare" disse la madre, "qui l'unica acqua navigabile è quella che esce dalla doccia." Sia lei sia il marito avevano ragione. Nella casa di Cartagena de Indias c'era un cortile con un molo sulla baia, e un attracco per due grossi yacht. Invece qui a Madrid vivevano stretti al quinto piano del numero 47 del Paseo de la Castellana. Ma alla fine né lui né lei avevano potuto rifiutare, perché avevano promesso loro una barca a remi col sestante e la bussola, se avessero ottenuto l'alloro della terza elementare, e l'avevano ottenuto. Sicché il papà comprò tutto senza dire nulla alla moglie, che era la più restia a pagare debiti di gioco. Era una bella barca di alluminio con un filo dorato sulla linea di galleggiamento. "La barca è nel garage" rivelò il papà durante il pranzo. Il problema è che non c'è verso di portarla fin qui con l'ascensore né per le scale, e nel garage non c'è più spazio disponibile". Tuttavia, il pomeriggio del sabato successivo i bambini invitarono i compagni affinché li aiutassero a trasportare la barca su per le scale, e arrivarono fino alla camera di servizio. "Complimenti" disse il papà. "E adesso che facciamo?" "Adesso nulla" dissero i bambini. "Volevamo solo avere la barca nella stanza, ed eccola lì". La sera del mercoledì, come tutti i mercoledì, i genitori andarono al cinema. I bambini, padroni e signori della casa, chiusero porte e finestre, e ruppero la lampadina accesa di una lampada del salotto. Uno zampillo di luce dorata e fresca come l'acqua sgorgò dalla lampadina rotta, e lo lasciarono scorrere finché il livello non arrivò a quattro palmi. Allora interruppero la corrente, spinsero la barca, e navigarono con agio fra le isole della casa. Questa avventura favolosa fu il risultato di una mia leggerezza quando avevo partecipato a un seminario sulla poesia degli utensili domestici. Totò mi aveva domandato come mai per accendere la luce bastava pigiare un bottone, e io non avevo avuto il coraggio di pensarci due volte. "La luce è come l'acqua " gli avevo risposto: "si apre il rubinetto, ed esce". E così continuarono a navigare ogni mercoledì sera, imparando a maneggiare il sestante e la bussola, finché i genitori non tornavano dal cinema e li trovavano addormentati come angioletti di terra ferma. Mesi dopo, ansiosi di spingersi oltre, chiesero un equipaggiamento per la pesca subacquea. Completo: maschere, pinne bombole di ossigeno e fucili ad aria compressa.

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"Non mi piace che teniate nella camera di servizio una barca a remi che non vi serve a nulla" disse il padre. "Ma il peggio è che volete pure equipaggiamenti da palombari". "E se otteniamo la gardenia d'oro del primo semestre?" disse Joel. "No" disse la madre spaventata. "Basta così". Il padre le rimproverò la sua intransigenza. "E' che questi bambini non si guadagnano neppure un chiodo solo per compiere il loro dovere" disse lei, "ma per un capriccio sono capaci di guadagnarsi perfino la seggiola del maestro". Alla fine i genitori non dissero né sì né no. Ma Totò e Joel, che erano stati gli ultimi nei due anni precedenti, in luglio ottennero le due gardenie d'oro e il riconoscimento pubblico del direttore. Quella stessa sera, senza che li avessero chiesti di nuovo, trovarono nella loro stanza gli equipaggiamenti da palombari nell'imballaggio originale. Sicché il mercoledì successivo, mentre i genitori vedevano Ultimo tango a Parigi, riempirono l'appartamento fino all'altezza di due braccia, si immersero come squali docili sotto i mobili e i letti, e riscattarono dal fondo della luce le cose che per anni si erano perse nel buio. Alla premiazione finale i due fratelli vennero acclamati come esempio per la scolaresca, e consegnarono loro eccellenti diplomi. Questa volta non dovettero chiedere nulla, perché i genitori li interpellarono su cosa volevano. Furono così ragionevoli, che chiesero solo di fare una festa in casa insieme ai compagni. Il papà, da solo con la moglie era raggiante. "E' una prova di maturità" disse. "Che Dio ti ascolti" disse la madre. Il mercoledì successivo, mentre i genitori vedevano La battaglia di Algeri, la gente che passò per la Castellana vide una cascata di luce che ricadeva da un vecchi edificio nascosto fra gli alberi. Usciva dai balconi, si spargeva a fiotti sulla facciata, e si incanalò lungo l'ampio viale in un torrente dorato che illuminò la città fino al Guadarrama. Chiamati d'urgenza, i pompieri forzarono la porta del quinto piano, e trovarono la casa ricolma di luce fino al soffitto. Il divano e le poltrone ricoperte di pelle di leopardo galleggiavano nel salotto a diversi livelli, fra le bottiglie del bar e il pianoforte a coda col suo scialle di Manila che fluttuava a mezz'acqua come una medusa d'oro. Gli utensili domestici, nella pienezza della loro poesia, volavano con ali proprie nel cielo della cucina. Le finte armi da guerra, che i bambini usavano per ballare, galleggiavano alla deriva fra i pesci variopinti liberati dall'acquario della mamma, ed erano gli unici che nuotavano vivi e felici nella vasta palude illuminata. Nel bagno galleggiavano gli spazzolini da denti di tutti, i preservativi del papà, le boccette di creme e la dentiera di ricambio della mamma, e il televisore della camera da letto principale galleggiava di sghembo, ancora acceso sull'ultimo episodio del film di mezzanotte proibito ai bambini. In fondo al corridoio, sulla superficie dell'acqua, Totò era seduto a poppa della barca, stringendo i remi e con la maschera infilata, cercando il faro del porto fin dove gli bastò l'aria della bombola, e Joel galleggiava a prua cercando ancora l'altezza della stella polare con il sestante, e galleggiavano per tutta la casa i loro trentasette compagni di classe, eternizzati nell'istante di fare la pipì nel vaso dei gerani, di cantare l'inno della scuola col testo cambiato in versi di burla contro il direttore, di bere di nascosto un bicchiere di brandy dalla bottiglia del papà. Avevano aperto così tante luci al contempo che la casa era traboccata, e tutta la quarta classe della scuola elementare di San Julian el Hospitalario era annegata al quinto piano del numero 47 del Paseo de la Castellana. A Madrid, in Spagna, una città remota dalle estati infuocate e dai venti gelidi, senza mare né fiume, e i cui aborigeni di terra ferma non sono mai stati maestri nella scienza di navigare nella luce.

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COMPRENSIONE

1. Il racconto ha come protagonista una famiglia che è stata costretta a lasciare il

suo paese, vive ora in una città europea e spera di fare ritorno nella propria

nazione: da che paese giunge e dove abita in questo momento?

2. Da quante persone è composta?

3. Per due volte si ripete lo stesso meccanismo nella vita casalinga, i figli che

chiedono il regalo, i genitori che pongono una condizione. Di che regalo si tratta?

Quale condizione viene posta? I bambini riescono a rispettarla e a ottenere ciò

che desideravano?

4. L’ultima volta le cose vanno in modo diverso: quale risultato raggiungono i figli e

che cosa chiedono ai genitori?

5. A quale scenario si trovano di fronte i pompieri quando arrivano nella casa e per

quale strano fenomeno vengono chiamati dai vicini?

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EVELINE

JAMES JOYCE

Stava seduta alla finestra a guardare la sera che invadeva la strada. La testa era appoggiata sulla tenda della finestra e le narici sentivano l’odore del polveroso tessuto di cretonne. Era stanca.

Passava poca gente. Il tizio dell’ultima casa ritornava; sentì i suoi passi battere sul marciapiede di cemento e subito dopo scricchiolare sul sentiero di scorie davanti alle case rosse. Una volta c’era un campo lì in cui si giocava ogni sera con i figli di altra gente. Poi un tizio di Belfast comprò il campo e ci costruì case –non come le loro casette marroni, ma delle case di mattoni con i tetti lucenti. I bambini della strada giocavano in quel campo –i Devine, i Water, i Dunn, il piccolo Keogh lo zoppo, lei, i suoi fratelli e le sue sorelle.

Ernest, tuttavia, non giocava mai: era tropo grande. Suo padre spesso li andava a cercare fino giù al campo col suo bastone di rovere; ma di solito il piccolo Keogh faceva da vedetta e li chiamava in ritirata quando vedeva suo padre arrivare. Eppure sembravano essere stati felici allora. Suo padre non era così cattivo allora. E poi sua madre era viva. Era tanto tempo fa.

Lei e i suoi fratelli e le sue sorelle erano cresciuti e sua madre era morta. Anche Tizzie Dunn era morto e i Water erano tornati in Inghilterra. Tutto cambia. Adesso lei stava andando via, come gli altri, per lasciare la sua casa.

La casa! Si guardò intorno alla stanza, rivedendo tutti i suoi oggetti familiari che aveva spolverato una volta alla settimana così tanti anni, chiedendosi da dove cavolo venisse tutta quella polvere. Forse non avrebbe più visto tutti quegli oggetti familiari da cui non si sarebbe mai sognata di separarsi.

Eppure in quegli anni non aveva mai scoperto il nome del prete la cui fotografia ingiallita stava appesa alla parete sopra l’armonium rotto accanto alla stampa a colori dell’ex voto fatto alla Beata Margaret Mary Alacoque. Era stato compagno di scuola si suo padre. Questi ogni volta mostrava la fotografia agli ospiti la passava con una frase a caso: “E’ a Melboourne adesso.”

Aveva acconsentito ad andar via, a lasciare la sua casa. Era stata una cosa saggia? Aveva cercato di soppesare tutti i lati della questione. A casa sua ad ogni modo aveva un tetto e cibo; aveva intorno tutto ciò che conosceva da tutta la vita. Naturalmente doveva lavorare duro, sia a casa che al lavoro. Cosa avrebbero detto di lei al negozio quando avrebbero scoperto che era scappata via con un ragazzo? Avrebbero detto che era una cretina, forse. Ed il suo posto sarebbe stato coperto da un annuncio. Miss Gavan sarebbe stata contenta. Era sempre stata pungente con lei, specie ogni volta che c’era gente che sentiva.

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“Miss Hill, non vede che queste signore aspettano?” “E svegliatevi, Miss Hill, per favore!”. Non avrebbe pianto molte lacrime nel lasciare il negozio. Ma nella sua nuova casa, in una terra lontana e sconosciuta, non sarebbe stato così. Allora sarebbe stata sposata –lei, Eveline. La gente l’avrebbe trattata con rispetto allora. Non sarebbe stata trattata come sua madre era stata trattata. Anche adesso, sebbene avesse diciannove anni e più, si sentiva sotto il pericolo della violenza di suo padre. Sapeva che era stato lui che le aveva fatto venire le palpitazioni.

Quando erano cresciuti lui non era mai stato con lei come lo era con Harry ed Ernest, perché lei era una ragazza, ma più tardi aveva incominciato a minacciarla e a dirle che lo faceva solo per amore di sua madre morta. E lei non aveva nessuno che la proteggesse. Ernest era morto ed Harry che lavorava in una chiesa come decoratore, era quasi sempre fuori da qualche parte nel paese. E poi le eterne discussioni sui soldi il sabato sera avevano incominciato a stancarla indicibilmente.

Dava sempre la sua intera paga –sette scellini- ed Harry mandava sempre quello che poteva ma il guaio era ricevere i soldi dal padre. Questi diceva sempre che lei sperperava il denaro, che non aveva testa, che non le avrebbe dato i suoi soldi lavorati con sudore per farglieli gettare dalla finestra, e molto di più, perché egli stava di solito proprio male il sabato sera.

Alla fine le avrebbe dato i soldi e le avrebbe chiesto se aveva intenzione di comprare il pranzo della domenica. Allora lei doveva precipitarsi più veloce che poteva a fare la spesa, tenere il suo portamonete di pelle nera stretto in mano mentre si faceva strada a gomitate in mezzo alla folla e tornare a casa col carico delle provviste. Doveva lavorare duro per tenere su la casa e badare a che i due bambini piccoli che erano stati affidati a lei andassero a scuola regolarmente e mangiassero regolarmente. Era un lavoro duro –una vita dura- ma adesso che stava per lasciarla non le sembrava una vita del tutto indesiderabile.

Stava per esplorare un’altra vota con Frank. Frank era molto gentile, virile, dal cuore aperto. Lei stava per andar via con lui con un battello notturno per essere sua moglie e vivere con lui a Buenos Aires dove lui aveva una casa che l’aspettava. Come ricordava bene la prima volta che lo aveva visto; lui alloggiava in una casa sulla via principale dove lei andava a trovarlo. Sembrava poche settimane fa. Lui stava al cancello, il cappello con la visiera messa all’indietro sulla testa e i capelli scompigliati davanti sul viso abbronzato.

L’aveva portata a vedere La Bohéme e lei si sentiva inebriata mentre era seduta in un’insolita parte del teatro insieme a lui. Lui era totalmente patito di musica e cantava un pochino. La gente sapeva che amoreggiavano e, quando egli cantava della ragazza che amava il marinaio, ella si sentiva appassionatamente confusa. Lui la chiamava Poppens per scherzare. Prima di tutto era stato eccitante per lei avere un ragazzo e poi lui aveva incominciato a piacerle. Faceva sempre dei racconti di paesi lontani. Aveva iniziato come mozzo da suna sterlina al mese su una nave della Allan Line che andava in Canada. LE diceva i nomi delle navi dove era stato e i nomi delle diverse mansioni. Aveva attraversato lo Stretto di Magellano e le aveva raccontato storie sui terribili Paragoni. Le cose gi erano andate bene a Buonos Aires, diceva, ed era arrivato sul

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vecchio continente solo per una vacanza. Naturalmente il padre aveva scoperto la storia le aveva vietato di avere a che fare con lui. “La conosco questa razza di marinai”, diceva.

Un giorno egli aveva litigato con Frank dopo di ché lei doveva incontrarle il suo amore in segreto. La sera sprofondò sul viale. Il bianco delle due lettere sul suo grembo diventò indistinto. Una era per Harry; l’altra per suo padre. Ernest era stato il suo preferito ma voleva bene anche ad Harry. Suo padre stava diventando vecchio ultimamente, aveva notato. Le sarebbe mancato. Qualche volta aveva saputo anche essere simpatico. Non molto prima, quando lei era stata a letto per un giorno, le aveva letto una storia di fantasmi e preparato del pane abbrustolito. Un altro giorno, quando la loro mamma era viva, erano andati tutti a fare un picnic sulla collina di Howth. Ricordò suo padre che si era messo il cappellino di sua madre per far ridere i bambini.

Il suo tempo stava volando ma ella continuava a star seduta alla finestra, con la testa appoggiata contro la tenda della finestra, inalando l’odore del cretonne polveroso. Giù per il viale, riusciva a sentire una organetto da strada suonare. Conosceva quella musica straniera che doveva essere arrivata per ricordarle della promessa fatta a sua madre, la promessa di reggere la casa finché poteva. Si ricordò dell’ultima notte della malattia della madre; lei si ritrovava ancora nella chiusa stanza buia all’altra parte della sala e fuori sentì una malinconica musica italiana. All’organista era stato ordinato di andare via e gli avevano sei sterline. Si ricordò di suo padre che ritornando impettito nella stanza dell’ammalata disse: “Maledetti Italiani! A venire fin qui!”

Mentre pensava la pietosa immagine della vita della madre poggiava il suo incantesimo nel suo essere più profondo –quella vita di comuni sacrifici che finiva nella pazzia finale. Tremava mentre sentiva ancora la voce di sua madre che diceva costantemente con assurda insistenza: “Derevaun Seraun! Derevaun Seraun!”

Si alzò in un improvviso impulso di terrore. Fuggire! Fuggire! Frank l’avrebbe salvata. Le avrebbe dato la vita, forse anche l’amore. Ma lei voleva vivere. Perché doveva essere infelice? Aveva il diritto di essere felice. Frank l’avrebbe portata tra le sue braccia, avvolta tra le sue braccia, L’avrebbe salvata.

Stava tra la folla ondeggiante alla stazione di North Wall. Lui la teneva per mano e lei sapeva che le stava parlando, dicendo qualcosa sul viaggio ripetutamente. La stazione era piena di soldati con delle valige marrone. Attraverso le ampie porte dei portici riuscì a vedere la massa scura della nave, accanto al muro della banchina, con gli oblò illuminati. Non rispose. Si sentiva le guance pallide e fredde e in mezzo alla confusione mentale, pregò Dio di direzionarla, di mostrarle quale era il suo dovere.

La nave soffiò un lungo triste fischio nella nebbia. Se fosse andata l’indomani sarebbe stata in mare con Frank, diretta Buenos Aires. Il loro posto era stato prenotato. Si poteva tirare indietro dopo tutto quello che lui aveva fatto per lei? La confusione mentale le fece venire la nausea nel corpo ed ella continuava a muovere le labbra in silenziosa, fervente preghiera.

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Una campana suonò sul suo cuore. Sentì che lui le afferrava la mano: “Vieni”.

Tutti i mari del mondo inondarono il cuore. Lui la stava spingendo verso di loro: l’avrebbe annegata. Si aggrappò con entrambe le mani alla ringhiera. “Vieni”.

No! No! No! Era impossibile. Le sue mani si aggrapparono freneticamente al ferro. In mezzo ai mari mandò un grido di angoscia. “Eveline! Evvy!”

Lui si spinse oltre la barriera e le gridò di seguirlo. Gli fu urlato di andare avanti ma lui la chiamava ancora. Ella pose il suo viso pallido su di lui, passivo, come un animale inerme. I suoi occhi non gli davano segno di amore o di addio i di riconoscimento.

COMPRENSIONE

1. I personaggi che compongono la famiglia della protagonista vengono nominati in

diversi punti del testo: ricostruisci la struttura del nucleo familiare e il luogo in

cui ciascuno si trova al momento della narrazione.

2. Perché Eveline vorrebbe fuggire dalla casa in cui è cresciuta?

3. Quali gesti di affetto la ragazza ricorda da parte del padre?

4. Come immagina Eveline il suo futuro?

5. Che cosa intende l’autore quando ci dice che il ricordo della vita della madre

opera su Eveline una specie di maleficio ?

6. Alla fine del racconto l’autore utilizza una similitudine per descrivere l’ultima

espressione della protagonista che il ragazzo vede prima di essere risucchiato

dalla folla: individuala e spiegane il significato.

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TRATTO DA IL PICCOLO PRINCIPE

Antoine de Saint-Exupéry

Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali, intitolato "Storie vissute della natura", vidi un magnifico disegno. Rappresentava un serpente boa nell'atto di inghiottire un animale. Eccovi la copia del disegno.

C'era scritto: "I boa ingoiano la loro preda tutta intera, senza masticarla. Dopo di che non riescono più a muoversi e dormono durante i sei mesi che la digestione richiede". Meditai a lungo sulle avventure della jungla. E a mia volta riuscii a tracciare il mio primo disegno. Il mio disegno numero uno. Era cosi:

Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: "Spaventare? Perché mai, uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?" Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante. Affinché vedessero chiaramente che cos'era, disegnai l'interno del boa. Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi. Il mio disegno numero due si presentava cosi:

Questa volta mi risposero di lasciare da parte i boa, sia di fuori che di dentro, e di applicarmi invece alla geografia, alla storia, all'aritmetica e alla grammatica. Fu cosi che a sei anni io rinunziai a quella che avrebbe potuto essere la mia gloriosa carriera di

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pittore. Il fallimento del mio disegno numero uno e del mio disegno numero due mi aveva disanimato. I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta. Allora scelsi un'altra professione e imparai a pilotare gli aeroplani. Ho volato un po' sopra tutto il mondo: e veramente la geografia mi è stata molto utile. A colpo d'occhio posso distinguere la Cina dall'Arizona, e se uno si perde nella notte, questa sapienza è di grande aiuto. Ho incontrato molte persone importanti nella mia vita, ho vissuto a lungo in mezzo ai grandi. Li ho conosciuti intimamente, li ho osservati proprio da vicino. Ma l'opinione che avevo di loro non è molto migliorata. Quando ne incontravo uno che mi sembrava di mente aperta, tentavo l'esperimento del mio disegno numero uno, che ho sempre conservato. Cercavo di capire cosi se era veramente una persona comprensiva. Ma, chiunque fosse, uomo o donna, mi rispondeva: "É un cappello". E allora non parlavo di boa, di foreste primitive, di stelle. Mi abbassavo al suo livello. Gli parlavo di bridge, di golf, di politica, di cravatte. E lui era tutto soddisfatto di avere incontrato un uomo tanto sensibile.

Cosi ho trascorso la mia vita solo, senza nessuno cui poter parlare, fino a sei anni fa quando ebbi un incidente col mio aeroplano, nel deserto del Sahara. Qualche cosa si era rotta nel motore, e siccome non avevo con me né un meccanico, né dei passeggeri, mi accinsi da solo a cercare di riparare il guasto. Era una questione di vita o di morte, perché avevo acqua da bere soltanto per una settimana. La prima notte, dormii sulla sabbia, a mille miglia da qualsiasi abitazione umana. Ero più isolato che un marinaio abbandonato in mezzo all'oceano, su una zattera, dopo un naufragio. Potete immaginare il mio stupore di essere svegliato all'alba da una strana vocetta: "Mi disegni, per favore, una pecora?" "Cosa?" "Disegnami una pecora". Balzai in piedi come fossi stato colpito da un fulmine. Mi strofinai gli occhi più volte guardandomi attentamente intorno. E vidi una straordinaria personcina che mi stava esaminando con grande serietà. Qui potete vedere il miglior ritratto che riuscii a fare di lui, più tardi. Ma il mio disegno e molto meno affascinante del modello.

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La colpa non è mia, pero. Con lo scoraggiamento che hanno dai i grandi, quando avevo sei anni, alla mia carriera di pittore, non ho mai imparato a disegnare altro che serpenti boa dal di fuori o serpenti boa dal di dentro. Ora guardavo fisso l'improvvisa apparizione con gli occhi fuori dall'orbita per lo stupore. Dovete pensare che mi trovavo a mille miglia da una qualsiasi regione abitata, eppure il mio ometto non sembrava smarrito in mezzo alle sabbie, né tramortito per la fatica, o per la fame, o per la sete, o per la paura. Niente di lui mi faceva l'impressione di un bambino sperduto nel deserto, a mille miglia da qualsiasi abitazione umana. Quando finalmente potei parlare gli domandai: "Ma che cosa fai qui?" Come tutta risposta, egli ripeté lentamente come si trattasse di cosa di molta importanza: "Per piacere, disegnami una pecora! "

COMPRENSIONE 1. Che sogno aveva il narratore da bambino?

2. Perché non è riuscito a realizzarlo?

3. Sottolinea nel testo il pensiero che il narratore ha dei “grandi”.

4. Chi incontra durante uno dei suoi viaggi?

5. Quale impressione ha del suo piccolo amico?

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TRATTO DA FRANKENSTEIN

MARY SHELLEY Fu in una tetra notte di novembre che vidi il compimento delle mie fatiche. Con un’ansia simile all’angoscia radunai gli strumenti con i quali avrei trasmesso la scintilla della vita alla cosa inanimata che giaceva ai miei piedi. Era già l’una del mattino; la pioggia batteva lugubre contro i vetri, la candela era quasi consumata quando, tra i bagliori della luce morente, la mia creatura aprì gli occhi, opachi e giallastri, trasse un respiro faticoso e un moto convulso ne agitò le membra. Come posso descrivere la mia emozione a quella catastrofe, descrivere l’essere miserevole cui avevo dato forma con tanta cura e tanta pena? Il corpo era proporzionato e avevo modellato le sue fattezze pensando al sublime. Sublime? Gran Dio! La pelle gialla a stento copriva l’intreccio dei muscoli e delle vene; i capelli folti erano di un nero lucente e i denti di un candore perlaceo; ma queste bellezze rendevano ancor più orrido il contrasto con gli occhi acquosi, grigiognoli come le orbite in cui affondavano, il colorito terreo, le labbra nere e tirate. La vita non offre avvenimenti tanto mutevoli quanto lo sono i sentimenti dell’uomo. Avevo lavorato duramente per quasi due anni al solo scopo di infondere la vita a un corpo inanimato. Per questo avevo rinunciato al riposo e alla salute. L’avevo desiderato con intensità smodata, ma ora che avevo raggiunto la meta il fascino del sogno svaniva, orrore e disgusto infiniti mi riempivano il cuore. Incapace di sostenere la vista dell’essere che avevo creato, fuggii dal laboratorio e a lungo camminai avanti e indietro nella mia camera da letto, senza riuscire a dormire. Alla fine lo spossamento subentrò al tumulto iniziale e mi gettai vestito sul letto, cercando qualche momento di oblio. Invano! Dormii, è vero, ma agitato dai sogni più strani. Mi sembrava di vedere Elizabeth, nel fiore della salute, per le strade di Ingolstadt. Sorpreso e gioioso, l’abbracciavo; ma come imprimevo il primo bacio sulle sue labbra queste si facevano livide, color di morte; i suoi tratti si trasformavano e avevo l’impressione di stringere tra le braccia il cadavere di mia madre, avvolto nel sudario. I vermi brulicavano tra le pieghe del tessuto. Mi risvegliai trasalendo d’orrore; un sudore freddo mi imperlava la fronte, battevo i denti e le membra erano in preda a un tremito convulso quando - al chiarore velato della luna che si insinuava attraverso le persiane chiuse - scorsi la miserabile creatura, il mostro da me creato. Teneva sollevate le cortine del letto e i suoi occhi, se di occhi si può parlare, erano fissi su di me. Aprì le mascelle emettendo dei suoni inarticolati mentre un sogghigno gli raggrinziva le guance. Forse aveva parlato, ma non udii; aveva allungato una mano, come per trattenermi, ma gli sfuggii precipitandomi giù per le scale. Mi rifugiai nel cortile della casa e vi passai il resto della notte, continuando a percorrerlo, agitatissimo, e tendendo l’orecchio a ogni rumore che annunciasse l’arrivo del diabolico cadavere al quale avevo sciaguratamente dato vita. Oh! Nessun mortale avrebbe potuto sostenere l’orrore del suo aspetto! Una mummia riportata in vita non sarebbe risultata raccapricciante come quell’essere repulsivo. Lo avevo osservato quando non era ancora ultimato: anche allora era sgradevole, ma quando i muscoli e le giunture avevano assunto capacità di moto era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire. Trascorsi una nottata infernale. A volte il polso batteva così rapido e violento che potevo sentire il palpitare di ogni arteria; altre volte l’estrema debolezza e il languore quasi mi facevano crollare a terra. Insieme all’orrore provavo l’amarezza della disillusione: sogni che a lungo erano stati il mio cibo e il mio ristoro si erano trasformati in incubi; e il rovesciamento era stato così rapido, così completa la disfatta!

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Sorse il mattino, triste e piovoso, e mostrò ai miei occhi insonni e dolenti la chiesa di Ingolstadt, il suo bianco campanile e l’orologio che segnava le sei. Il guardiano aprì i cancelli del cortile che era stato il mio asilo quella notte e uscii nelle strade percorrendole a passo svelto come per sfuggire al mostro che temevo mi si parasse dinanzi a ogni angolo. Non avevo il coraggio di tornare al mio alloggio, mi sentivo sospinto a camminare nonostante la pioggia che cadeva da un cielo nero e sconfortante mi bagnasse fino alle midolla. Continuai così, sperando che l’esercizio fisico alleggerisse il peso che mi opprimeva la mente. Traversavo strade senza avere idea di dove fossi, di cosa facessi. Sentivo il cuore stretto nella morsa dell’angoscia, e mi affrettavo con passo irregolare, senza osare guardarmi attorno: Come uno che, per strada deserta, cammina tra paura e terrore e guardatosi intorno una volta, va avanti e non volta mai più la testa perché egli sa, un orrendo demonio a breve distanza lo segue. In questo modo giunsi infine di fronte alla locanda in cui fanno sosta diligenze e carrozze. Qui mi fermai, non so perché; rimasi per alcuni minuti a fissare una vettura che veniva verso di me dall’altro capo della strada. Quando fu più vicina, mi accorsi che era la diligenza svizzera; si fermò giusto dov’ero io e, quando si aprì lo sportello, riconobbi Henry Clerval che, vedendomi, all’istante balzò a terra. «Mio caro Frankenstein», esclamò, «come sono felice di vederti! E che fortunata coincidenza che tu sia qui proprio al momento del mio arrivo!». Niente avrebbe potuto eguagliare la mia gioia nel vedere Clerval; la sua presenza riportò i miei pensieri a mio padre, a Elizabeth, a tutte le scene domestiche così care al mio ricordo. Gli afferrai la mano e in un attimo dimenticai orrori e disgrazie: sentii all’improvviso, e per la prima volta dopo molti mesi, una felicità pacata e serena. Diedi il benvenuto all’amico nel modo più cordiale, e ci incamminammo verso la mia abitazione. Clerval parlò a lungo dei nostri comuni amici e della fortuna di avere ottenuto il permesso di venire a Ingolstadt. «Puoi ben capire», raccontò, «quanto sia stato difficile convincere mio padre che la nobile arte di tenere i conti non racchiude tutta la cultura necessaria; e, in verità, credo di averlo lasciato incredulo fino all’ultimo, perché la sua invariabile risposta alle mie insistenti richieste era sempre quella del maestro di scuola olandese nel Vicario di Wakefield. “Ho diecimila fiorini l’anno senza il greco, mangio di gusto senza il greco”. Ma il suo affetto per me alla fine ha vinto la sua scarsa stima per lo studio, e mi ha concesso di intraprendere questo viaggio di esplorazione nella terra del sapere». «È una grande gioia vederti; ma ora dimmi, come stanno mio padre, i miei fratelli ed Elizabeth?». «Molto bene e sereni, solo un po’ preoccupati perché hanno tue notizie così di rado. A proposito, ho intenzione di farti una bella ramanzina in merito... Mio caro Frankenstein», continuò, fermandosi e guardandomi in faccia, «non l’avevo notato prima, ma hai un’aria disfatta, così magro e pallido sembra che tu non abbia dormito per molte notti». «Hai indovinato; sono stato così assorbito da un impegno, negli ultimi tempi, che non mi sono concesso un sufficiente riposo, come vedi; ma spero, spero sinceramente, che questo sia ormai concluso e di essere finalmente libero!».

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Tremavo violentemente. Non riuscivo a pensare, né tanto meno ad alludere, agli avvenimenti di quella notte. Camminavo svelto e presto giungemmo al mio alloggio. Allora cominciai a riflettere e un pensiero mi raggelò: l’essere che avevo lasciato nel mio appartamento forse era ancora là, vivo, ad aggirarsi per le stanze. Temevo di rivederlo, ma ancor più temevo che lo vedesse Henry. Lo pregai perciò di aspettarmi ai piedi delle scale e corsi di sopra. La mia mano già stringeva la maniglia quando riuscii a ricompormi. Mi fermai e un brivido freddo mi percorse. Spalancai di colpo la porta, come usano fare i bambini quando temono che un fantasma li stia aspettando dall’altra parte, ma non apparve nulla. Entrai pieno di paura: l’appartamento era deserto e anche la mia stanza da letto era libera dal suo odioso ospite. Quasi non riuscivo a credere alla mia fortuna ma, quando mi fui assicurato che il nemico si era davvero allontanato, battei le mani per la gioia e scesi da Clerval. Salimmo in camera mia e poco dopo il domestico portò la colazione; io non riuscivo a contenermi. Non era solo la gioia a pervadermi: mi sentivo percorso da un formicolio, come per un eccesso di sensibilità, e il polso batteva all’impazzata. Ero incapace di star fermo un attimo allo stesso posto, mi alzavo e tornavo a sedermi, battevo le mani e ridevo forte. Dapprima Clerval attribuì quell’umor bizzarro al piacere del suo arrivo; ma quando mi osservò più attentamente scorse nei miei occhi una luce fanatica per la quale non c’erano giustificazioni; e la mia risata alta, irrefrenabile, secca, lo spaventò e lo stupì. «Mio caro Victor», esclamò, «per amor di Dio, cos’hai? Non ridere in quel modo. Tu stai male! Qual è il motivo di tutto questo?». «Non chiederlo a me», gemetti posandomi le mani sugli occhi, perché mi sembrava di vedere l’orribile spettro scivolare nella stanza, «lui può dirtelo... Oh, salvami, salvami!». Ebbi l’impressione che il mostro mi afferrasse; mi dibattei furiosamente, poi svenni.

COMPRENSIONE 1. Qual è il progetto iniziale del dottore? 2. Una volta terminato il suo lungo lavoro, è soddisfatto del risultato? 3. Come reagisce il dottore sapendo che il mostro è scappato? 4.Sottolinea nel testo, utilizzando due colori le espressioni relative al mostro e quelle relative all’ambiente.

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IL CUORE RIVELATORE

EDGAR ALLAN POE

Sul serio! Io sono nervoso, molto nervoso, e lo sono sempre stato. Ma perché pretendete che io sia pazzo? Si, è vero, la malattia ha reso più penetranti i miei sensi, ma non li ha rovinati, non li ha distrutti! Io avevo, finissimo, il senso dell'udito e ho ascoltato tutte le voci del cielo e della terra. E molte anche dell'Inferno. Come potrei esser pazzo, allora? State dunque attenti e notate con quanto giudizio e, soprattutto, con quanta calma io posso narrarvi tutt'intero il fatto.

E' impossibile stabilire in che modo quell'idea m'attraversò il cervello la prima volta. Io so solo che, una volta concepita, essa mi ossessionò giorno e notte. Un motivo preciso non c'era. La passione, ad esempio, non c’entrava per nulla. Io amavo quel buon vecchio. Egli non mi aveva mai fatto alcun male. Non mi aveva mai offeso. Io non desideravo il suo oro. Immagino che fosse il suo occhio! Sì, era quello senz'altro! Uno dei suoi occhi era simile a quello d'un avvoltoio... un occhio d'un azzurro pallido, come velato da una membrana. Quando esso cadeva su di me a guardarmi, il sangue mi s'agghiacciava nelle vene... e a poco a poco, lentamente, io mi fissai in quell’idea di togliergli la vita e di sbarazzarmi così, per sempre, di quel suo terribile occhio.

Il problema era tutto qui. Voi credete che io sia pazzo. E i pazzi non sanno davvero quel che fanno. Avreste, invece, dovuto vedermi. E vedere ancora con quanta assennatezza mi posi al lavoro, con quanta circospezione, con quale alta sapienza di commediante e, infine, con quale preveggenza!

Non ero stato mai tanto gentile col vecchio come durante tutta la settimana prima del suo assassinio. Ogni sera, verso la mezzanotte, io giravo la maniglia della sua porta e aprivo - ma piano, piano - aprivo un impercettibile spiraglio, e poi ancora... ancora... fintanto che non avevo aperto abbastanza da far entrare la mia testa, tutta, al di là della porta.

Facevo passare, allora, una lanterna cieca, la quale era perfettamente chiusa. Perfettamente chiusa, dico, tanto che non ne usciva un solo raggio di luce. Allora arrivava il momento di affacciare la testa. A vedere con quanta agilità io compivo quell'operazione, voi avreste sicuramente riso. Io muovevo la mia testa, infatti, con una estrema lentezza. Estrema, dico, affinché il sonno del vecchio non potesse per nulla venir turbato.

Trascorreva, di sicuro, un'ora intera perché potessi passarla tutta, e puntarla innanzi quel tanto che sarebbe stato sufficiente perché potessi vedere il vecchio coricato nel suo letto. Un pazzo - dite! - sarebbe stato tanto prudente?

E come io avevo messo tutt'intera la testa nella stanza, allora cominciavo - ma con cautela, con infinita cautela - cominciavo a schiudere la lanterna, ma lentamente, con esasperante lentezza, perché la sua cerniera cigolava. Ed io la schiudevo quel tanto che era sufficiente a lasciar cadere un solo e impercettibile raggio di luce - un filo - su quell'occhio da avvoltoio: e per sette volte, per sette lunghissime notti, a mezzanotte in punto, tornai dal vecchio, e sempre trovai ben chiuso quel suo occhio, in modo che mi fu

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impossibile, non dico compiere, ma iniziare soltanto l'opera che m'ero proposto, giacché non era quel buon vecchio a eccitare la mia ira, ma quel suo orribile, malefico occhio.

E quando faceva giorno, tutte le mattine, entravo spavaldo nella sua stanza e mi rivolgevo a lui senza nessuno scrupolo, e lo chiamavo col suo nome, mostrando la massima cordialità, e non mancavo mai di chiedergli come avesse trascorsa la sua notte. Ma dunque, non siete persuasi? Egli avrebbe dovuto esser fornito d'una sottilissima penetrazione, perché potesse sospettare che ogni notte, a mezzanotte, io ero là, da lui, e guardavo, guardavo il suo sonno.

L'ottava notte, se possibile, fui ancora più cauto delle notti precedenti, nello schiudere la sua porta. La lancetta più piccola d'un orologio si sposta più veloce, nel suo giro, di quanto non facesse, allora, la mia mano, ed io, mentre operavo, meravigliavo della mia stessa sagacia, e a malapena sapevo contenere le sensazioni che il mio trionfo m'accendeva in petto. Pensate, dunque, e cercate di vedermi, mentre ero là e schiudevo la porta, d'un millimetro appresso all'altro, e il vecchio - lui! - non nutriva alcun sospetto, né delle mie azioni, né dei segreti pensieri che affollavano il mio animo. A quell'idea non potei fare a meno di lasciarmi sfuggire un riso sommesso. Ed egli - forse - udì, poiché si rivoltò, all'improvviso, nel suo letto, come se stesse per risvegliarsi. Voi pensate ch'io, allora, mi stessi per ritrarre, vero? No certo. La tenebra che regnava nella stanza era fitta e profonda, poiché, timoroso dei ladri notturni, il vecchio chiudeva le imposte con una cura estrema, così ch'io avevo la certezza ch'egli non avrebbe potuto distinguere il varco che aprivo. E continuai ad aprire e ad allargarlo, e ancora... e ancora...

Avevo affacciata la testa ed ero sul punto di schiudere la lanterna, quando il mio pollice scivolò sul metallo della serratura, e il vecchio si drizzò sul letto. E strillò: «Chi va là?».

Io rimasi immobile, assolutamente immobile, e trattenni il respiro. Non mossi un muscolo durante un'ora e per tutto quel tempo non intesi il vecchio accennare a coricarsi nuovamente. Egli era sempre seduto sul suo letto. E ascoltava. Ascoltava come avevo ascoltato io, notti e notti, il rodio dei tarli tra parete e parete.

Un gemito sommesso mi raggiunse improvviso l'orecchio, ed era il gemito d'uno spavento mortale. Esso non testimoniava né il dolore, né la pena, ma era il suono sordo e soffocato che s'innalza dal profondo di un'anima sopraffatta dal terrore. Io conoscevo quel suono, lo conoscevo bene. Per notti e notti, a mezzanotte, mentre il mondo intero era immerso nel sonno, esso era sgorgato dal mio petto e aveva risvegliato, colla sua eco agghiacciante, i terrori che m'opprimevano. Ripeto che io lo conoscevo bene. Sapevo ciò sentiva il povero e buon vecchio, e per quanto fossi posseduto da un estremo desiderio di ridere, non potei fare a meno ch'esserne mosso a pietà. Sapevo ch'egli era restato sveglio fin dal momento in cui aveva udito il primo, lieve rumore. Egli s'era rivoltato nel letto, e nel frattempo la sua paura era andata man mano aumentando. Aveva tentato di persuadersi che non v'era, per essi, alcun motivo, ma non vi era riuscito.

Egli aveva detto tra sé: non è nulla di nulla; è il vento che soffia nel camino, è un sorcio che ha attraversato veloce l'impiantito, è soltanto un grillo, che ha emesso il suo piccolo strido. E s'era sforzato d'infondersi coraggio con simili ipotesi ma le aveva trovate tutte vane. Tutte vane, poiché la Morte che si avvicinava gli era passata dinanzi con la sua grande ombra nera, e lo aveva avviluppato in quella. Ed era soltanto il funereo influsso

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di quell'ombra invisibile che gli faceva sentire - anche se egli non vedeva nulla e non udiva nulla - la presenza della mia testa, in quella sua camera.

Dopo che io ebbi atteso a lungo e inutilmente ch'egli si coricasse di nuovo, mi decisi, infine, a schiudere un po' quel mio lume, ma tanto poco ch'era quasi un nulla. E lo feci fulmineamente, in modo tale che voi non sapreste nemmeno immaginarlo, un unico pallido raggio, un sottile filo di ragno, uscì dalla fessura e andò a cadere, diritto, sull'occhio d'avvoltoio.

Ed era aperto, era spalancato; e mi bastò appena guardarlo un solo istante ch'io ero già giunto al colmo dell'ira. Lo vidi perfettamente, lo vidi, quell'azzurro opaco, ricoperto dalla schifosa membrana che m'agghiacciava il midollo nelle ossa, lo vidi e non vidi null'altro all'infuori di esso dacché l'istinto aveva diretto l'unico sottil raggio del mio lume là, in quel punto dannato.

Non v'ho già detto che la pazzia di cui mi accusate altro non è se non iperacutezza dei miei sensi? Ebbene, un rumore sordo e soffocato e intermittente mi giunse all'orecchio, ed esso era simile a quello che produrrebbe un orologio che sia stato avvoltolato nella bambagia. Ed io riconobbi quel rumore. Esso scaturiva dal cuore del vecchio, e quel rumore eccitò la mia furia, al modo stesso che il rullo del tamburo esaspera il coraggio del soldato.

E tuttavia io seppi contenermi e non mi mossi, e rimasi immobile, e non osavo quasi respirare, e badavo soltanto a tener fermo quell'unico raggio del mio lume, diritto, sull'occhio d'avvoltoio. E intanto la marcia infernale del suo cuore scandiva più forti i suoi colpi, sempre più forti, diveniva precipitosa e alzava il tono, il timbro, lo alzava, lo alzava! Il terrore del vecchio doveva essere estremo! E il battito del suo cuore diveniva più forte di minuto in minuto...

Ma mi seguite, dunque, con attenzione? Vi ho detto ch'ero nervoso, terribilmente nervoso - e lo ero, infatti - ma quel rumore, nel silenzio notturno, nel pauroso silenzio notturno di quella vecchia casa, riempì il mio animo di un insopportabile terrore. E mi trattenni - certo! - mi trattenni ancora per qualche istante, e non mi mossi dal mio posto. Ma quel battito si faceva più forte, sempre più forte. Pareva che quel cuore stesse per scoppiare. E così fui posseduto da nuova angoscia.

Certo! Certo! Il rumore avrebbe potuto essere inteso da qualche vicino... No, no! L'ora del vecchio era suonata! Spalancai il mio lume tutt'intero e mi precipitai, insieme, con un urlo fortissimo, nella stanza. Il vecchio non emise un grido, non un solo grido, dico. State bene attenti? Io lo scaraventai giù dal giaciglio sull'impiantito, in un attimo solo, e gli rovesciai addosso tutto il peso del letto. Fu allora che, accortomi d'essere ormai a buon punto nella mia opera, mi lasciai andare a ridere per la gioia. E tuttavia il suo cuore continuò ancora per qualche istante a battere ma d'un battito sordo e velato. E io non ne fui allarmato. Attraverso il muro non lo avrebbe potuto udire nessuno: vacillò ancora, poi si spense del tutto. Il vecchio era morto.

Rimossi il letto ed esaminai il suo cadavere. Certo, egli era morto, morto stecchito. Posai la mia mano sul suo cuore e ve la trattenni un qualche minuto. Non s'udiva alcuna pulsazione. Egli era morto stecchito. Il suo occhio aveva cessato per sempre di tormentarmi.

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Se ancora insistete a credermi pazzo, vi persuaderete del contrario quando vi avrò dato delle informazioni sulle sagge precauzioni che usai per nascondere il cadavere. La notte avanzava e io lavoravo in fretta, ma anche in silenzio. Spiccai, dapprima, dal corpo, la testa. Fu poi la volta delle braccia e delle gambe. Tolsi quindi dall'impiantito tre assi e nascosi il tutto tra i regoli. Restituii, poi, il loro luogo alle assi, e con tale destrezza e perizia che nessun occhio umano - neanche il suo - avrebbe potuto accorgersi di nulla. Non c'era nemmeno nulla da lavare, non una sola traccia di sudicio, non la minima goccia di sangue! Oh! Si, io ero stato bene accorto anche in quello! Un catino aveva raccolto prudentemente il tutto. Sarebbe stata da ridere.

Come ebbi terminato quel lavoro, l'orologio del campanile vicino batteva le quattro. Ma la tenebra era come a mezzanotte. Mentre battevano le ore, udii picchiare all'uscio di strada. Discesi per aprire, ed ero perfettamente tranquillo. Cosa potevo temere ormai? Entrarono tre uomini che si dissero ufficiali di polizia, e le loro maniere apparvero estremamente cortesi. Un vicino aveva udito gridare nella notte, e, sorto il sospetto che un qualche delitto potesse essere stato consumato nei paraggi, ne aveva informata la polizia. I tre gentiluomini erano stati, infatti, mandati a ispezionare il quartiere.

Io sorrisi: di che cosa, infatti, potevo ancora aver paura? Diedi così il benvenuto ai tre uomini, e dissi che il grido era sfuggito a me stesso, in sogno. Dissi loro che il mio vecchio amico era ancora in viaggio, e li condussi, inoltre, a visitare tutta la casa. Dissi loro di cercare e soprattutto li spronai a cercare bene. E alla fine li condussi anche nella sua camera. Mostrai loro i suoi tesori, che erano intatti e in ordine perfetto. Nell'entusiasmo che mi possedeva, presi due sedie e li supplicai di riposarsi lì, in quella stanza e, nella folle audacia del sicuro trionfo, andai a metter la mia sedia proprio sul luogo dove si trovava nascosto, tagliato in pezzi, il cadavere della mia vittima.

Le guardie parevano soddisfatte. Il mio comportamento pareva che li avesse convinti. Io, poi, mi sentivo completamente tranquillo. Sedettero, dunque, e cominciarono a parlare del più e del meno, e io rispondevo a tutto con umore eccellente... ma, a un tratto, m'accorsi che stavo impallidendo e, non so come, desiderai che se ne andassero. Cominciò a dolermi il capo, infatti, e un ronzio penetrante cominciò a infastidirmi le orecchie. E tuttavia essi restavano seduti e continuavano a chiacchierare. In quel mentre il ronzio, una sorta di tintinnio, diventò più distinto e, per non udirlo, cominciai a parlare anch'io, più che potevo, ma esso non si lasciò sopraffare e acquistò un carattere ben preciso, e dovetti riconoscere, infine, che esso non era nelle mie orecchie.

Sicuramente io diventai estremamente pallido, e mi ostinai nella conversazione e con foga sempre maggiore. Ma quel rumore aumentava di minuto in minuto. Che cosa avrei potuto fare? Esso era un rumore sordo e soffocato e intermittente, e in tutto simile a quello che produrrebbe un orologio avvoltolato nella bambagia. Io respiravo a fatica: e gli agenti? Oh, gli agenti non lo sentivano ancora. Tentai di parlare più in fretta e più forte ma quel rumore cresceva senza tregua.

Mi tolsi dalla sedia e cominciai a discorrere di futili argomenti, ma ad altissima voce e con furia, mentre il rumore cresceva, cresceva a ogni minuto. Ma perché non se ne andavano? Io misuravo, su e giù, a passi pesanti, il pavimento, esasperato da quella loro discussione, ed il rumore cresceva con regolarità, con assoluta costanza. Gran Dio; che cosa potevo fare? Mi agitavo, smaniavo, maledicevo! Scuotevo la seggiola sulla quale m'ero prima seduto, la facevo scricchiolare sull'impiantito, ma quel rumore aveva ormai

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sommerso tutto il resto, e cresceva e cresceva ancora, senza sosta, interminabilmente. E diventava più forte, sempre più forte, e gli uomini chiacchieravano e scherzavano e ridevano.

Ma era mai possibile che non lo udissero? Iddio onnipotente! No, no! Essi udivano, essi sospettavano, essi sapevano, eppure si divertivano allo spettacolo del mio terrore, così almeno mi parve e lo credo tuttavia. Ma ogni cosa sarebbe stata da preferirsi a quella orribile derisione. Io non mi sentivo, ormai, di sopportare oltre quelle loro ipocrite risa. Sentii che dovevo gridare o morire. E intanto, ecco - lo udite? - ecco, ascoltate! Esso si fa più forte, più forte, e ancora più forte, sempre più forte!

«Miserabili! Ipocriti!», urlai. «Non fingete oltre! Confesso ogni cosa. Ma togliete, togliete quelle tavole, scoperchiate l'impiantito! E' là. E' là sotto! E' il battito del suo terribile cuore!».

COMPRENSIONE

1. Per quale motivo il protagonista uccide il vecchio?

2. Il narratore ritiene se stesso:

- pazzo

- una persona normale

- una persona dotata di sensi particolarmente acuti.

3. I continui richiami all’accuratezza con cui il protagonista ha preparato l’omicidio

sono:

- sintomi della sua nevrosi

- manifestazioni della sua intelligenza

- espedienti dell’autore volti ad acuire la tensione del racconto.

4. Il protagonista, da parte sua, vorrebbe dimostrare con essi:

- la sua cattiveria

- la sua follia

- la sua normalità.

5. Quale fatto specifico scatena la furia omicida del protagonista?

6. Quale particolare, a giudizio del protagonista, lo tradisce davanti agli agenti?

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7. L’assassino racconta la sua storia con uno scopo preciso. Quale?

- discolparsi dall’accusa di omicidio

- dimostrare di essere pentito

- spiegare il perché del suo atto

- dimostrare di non essere pazzo

- farsi assolvere.

8. Nel racconto il personaggio si rivolge a qualcuno dandogli del voi. A tuo avviso, a

chi si rivolge? (giudici, avvocati, amici, lettori, …) Motiva la risposta.

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IL TRENO HA FISCHIATO

LUIGI PIRANDELLO

Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d'ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo. Pareva

provassero un gusto particolare a darne l'annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via: Frenesia, frenesia.

Encefalite. Infiammazione della membrana.

Febbre cerebrale . E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere

compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale. Morrà? Impazzirà?

Mah! Morire, pare di no... Ma che dice? che dice?

Sempre la stessa cosa. Farnetica... Povero Belluca! *E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice

viveva da tant'anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere

la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso. *Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo

ufficio, e che poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale. Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare. *Circoscritto... sì, chi l'aveva definito così? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi

della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e

impostazioni; note, libri mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo,

sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi. Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, cosi per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche

calcio. Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse

più, avvezzo com'era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte. Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'una improvvisa alienazione mentale. *Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la

riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo ufficio. Già s'era presentato, la mattina, con un'aria insolita, nuova; e cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d'una montagna era venuto con più di mezz'ora di ritardo. Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt'a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita. Pareva

che gli orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta

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voci, suoni non avvertiti mai. Così ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente. La sera, il capo

ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte: E come mai? Che hai combinato tutt'oggi?

Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le mani. Che significa? aveva allora esclamato il capo ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. Ohé, Belluca! Niente, aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e d'imbecillità su le labbra. Il treno, signor Cavaliere. Il treno? Che treno? - Ha fischiato. Ma che diavolo dici? Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare... Il treno? Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere! Gli altri impiegati, alle grida del capo ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi. Allora il capo ufficio che quella sera doveva essere il malumore urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti.

*Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva: Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove? E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d'un bambino o d'un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s'era mai occupato d'altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite. *Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell'improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.

Difatti io accolsi in silenzio la notizia. E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi: Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò parlato con lui.

Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio: "A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa più ovvia, I'incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti

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straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile". Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev'essere, appartenendo a quel mostro. Una coda naturalissima. ''

*Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca. Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell'uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita. Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; I'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate. Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto. Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali; ma tre.

Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch'esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta. Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé. Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai.

Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo. *Quando andai a trovarlo all'ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po', ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito. Magari! diceva Magari! Signori, Belluca, s'era dimenticato da tanti e tanti anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva. Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d'una nòria o d'un molino, sissignori, s'era dimenticato da anni e anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva. Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno. Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si fossero sturati. Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno. S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte. C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo

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lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita " impossibile ", tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosi... c'erano gli oceani... Ie foreste... E, dunque, lui ora che il mondo gli era rientrato nello spirito poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo. Gli bastava!

Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo: Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...

COMPRENSIONE

1. Rintraccia gli insoliti componimenti di Belluca relativamente a:

- orario di lavoro - mansioni d’ufficio - rapporti con il capo – ufficio

2. In seguito al suo strano modo di agire Belluca viene considerato:

- originale - ribelle - matto

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3. Descrivi in un sommario la condizione di Belluca relativamente al lavoro che svolge e alla sua situazione familiare.

4. Sottolinea nel testo il periodo che chiarisce l’importanza del fischio del treno e le sue immediate conseguenze sulla psicologia di Belluca.

ROSSO MALPELO

GIOVANNI VERGA

"Malpelo" si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano "Malpelo"; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo. Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era "malpelo" c'era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni. Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per "Malpelo", un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro. Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel po' di pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c'ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio dell'asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s'era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto "Monserrato" e la "Caverna", tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di "Malpelo"», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava. Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell'"ingrottato", e dacché non serviva più, s'era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu "Bestia", ed era l'asino da basto di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. "Malpelo" faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com'era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: - Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre -. Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo "sciancato", aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l'avvocato. Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l'avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n'erano andati

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dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la "morte del sorcio". Ei, che c'era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava: - Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! - e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo "appalto", il cottimante! Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse "ohi!" anch'esso. "Malpelo" andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: - Tirati in là! - oppure: - Sta attento! Bada se cascano dall'alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! - Tutt'a un tratto, punf! "Malpelo", che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense. L'ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di "Malpelo" che aveva fatto la "morte del sorcio". Tutte le femminucce di Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch'era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L'ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu "Bestia" doveva già essere bell'e arrivato in Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo "sciancato" disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n'era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell'affare di mastro "Bestia"! Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero. - To'! - disse infine uno. - È "Malpelo"! Di dove è saltato fuori, adesso? - Se non fosse stato "Malpelo" non se la sarebbe passata liscia... - "Malpelo" non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza. Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall'altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse "grazia di Dio". Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari. Ma l'asino, povera

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bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di "Malpelo"; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: - Così creperai più presto! - Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll'anello di ferro al naso. Sapendo che era "malpelo", ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l'avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: - Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano "Bestia", perché egli non faceva così! - E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un'occhiata torva: - È stato lui! per trentacinque tarì! - E un'altra volta, dietro allo "Sciancato": - E anche lui! e si metteva a ridere! Io l'ho udito, quella sera! - Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s'era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome "Ranocchio"; ma lavorando sotterra, così "Ranocchio" com'era, il suo pane se lo buscava. "Malpelo" gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano. Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se "Ranocchio" non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: - To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! - O se "Ranocchio" si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: - Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! - Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll'occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n'era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. "Malpelo" soleva dire a "Ranocchio": - L'asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s'ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi -. Oppure: - Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso -. Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo' di uno che l'avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli "ah! ah!" che aveva suo padre. - La rena è traditora, - diceva a "Ranocchio" sottovoce; - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo "Sciancato", allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano "Bestia", e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui -. Ogni volta che a "Ranocchio" toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, "Malpelo" lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: - Taci,

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pulcino! - e se "Ranocchio" non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te -. Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo -. Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliel'aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui. Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come "Ranocchio" spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono "malpelo"! - e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai. Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull'uscio in quell'arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Per questo, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre povere bestie che non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano. La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e lercio com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d'ingresso è a picco, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla "Plaja", a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e "Malpelo", certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana. Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come "Ranocchio", e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all'azzurro del cielo, col sole sulla schiena, - o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in

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fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava a "Ranocchio" del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. "Ranocchio" aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l'intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all'infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la "sciara" nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n'erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente. Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all'aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il "Bestia" di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall'altra. Dacché poi fu trovata quella scarpa, "Malpelo" fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l'aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt'ora che mastro "Bestia" avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte. - Proprio come suo figlio "Malpelo"! - ripeteva lo "sciancato" - ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là -. Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo. Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno, e di "carne battezzata". La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a "Malpelo", il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto. "Malpelo" se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una accanto all'altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio. Ei possedeva delle idee strane, "Malpelo"! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l'età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi,

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egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l'asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella "sciara". - Così si fa, - brontolava "Malpelo"; - gli arnesi che non servono più, si buttano lontano -. Egli andava a visitare il carcame del "grigio" in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche "Ranocchio", il quale non avrebbe voluto andarci; e "Malpelo" gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l'avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del "grigio". I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il "Rosso" non lasciava che "Ranocchio" li scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera, - gli diceva, - che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al "grigio"? Adesso non soffre più -. L'asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po' di vigore nel salire la ripida viuzza. - Ecco come vanno le cose! Anche il "grigio" ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch'esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: «Non più! non più!». Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio -. La "sciara" si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta "Malpelo" ripeteva che la terra lì sotto era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c'era entrato da giovane, e n'era uscito coi capelli bianchi, e un altro, cui s'era spenta la candela, aveva invano gridato aiuto per anni ed anni. - Egli solo ode le sue stesse grida! - diceva, e a quell'idea, sebbene avesse il cuore più duro della "sciara", trasaliva. - Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d'andare. Ma io sono "Malpelo", e se non torno più, nessuno mi cercherà -. Pure, durante le belle notti d'estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla "sciara", e la campagna circostante era nera anch'essa, come la lava, ma "Malpelo", stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell'alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente - perché allora la "sciara" sembra più bella e desolata. - Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, - pensava "Malpelo", - dovrebbe essere buio sempre e da per tutto -. La civetta strideva sulla "sciara", e ramingava di qua e di là; ei pensava: - Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perché non può andare a trovarli -. "Ranocchio" aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il "Rosso" lo sgridava, perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l'asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.

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- Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti, - gli diceva, - e allora era tutt'altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei morti -. "Ranocchio" invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c'era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. - Chi te l'ha detto? - domandava "Malpelo", e "Ranocchio" rispondeva che glielo aveva detto la mamma. Allora "Malpelo" si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. - Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella -. E dopo averci pensato un po': - Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano "Bestia". Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io -. Da lì a poco, "Ranocchio", il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull'asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo "non ne avrebbe fatto osso duro" a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. "Malpelo" allora si sentiva orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell'aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava "Ranocchio" sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, "Ranocchio" fu colto da uno sbocco di sangue; allora "Malpelo" spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così come l'aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure "Malpelo" non si mosse, e soltanto dopo che l'operaio se ne fu andato, aggiunse: - Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro! - Intanto "Ranocchio" non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora "Malpelo" prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano meglio. Ma "Ranocchio" tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; la sera poi non c'era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. "Malpelo" se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l'occhio spento, preciso come quello dell'asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava: - È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi! - E il padrone diceva che "Malpelo" era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo. Finalmente un lunedì "Ranocchio" non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro. "Malpelo" si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero "Ranocchio" era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.

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Cotesto non arrivava a comprenderlo "Malpelo", e domandò a "Ranocchio" perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero "Ranocchio" non gli dava retta; sembrava che badasse a contare quanti travicelli c'erano sul tetto. Allora il "Rosso" si diede ad almanaccare che la madre di "Ranocchio" strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l'aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era "malpelo", e sua madre non aveva mai pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo. Poco dopo, alla cava dissero che "Ranocchio" era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del "grigio", nel burrone dove solevano andare insieme con "Ranocchio". Ora del" grigio" non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di "Ranocchio" sarebbe stato così. Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di "Malpelo" s'era asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un'altra volta, ed era andata a stare a Cifali colla figliuola maritata, e avevano chiusa la porta di casa. D'ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il "grigio" o come "Ranocchio", non avrebbe sentito più nulla. Verso quell'epoca venne a lavorare nella cava uno che non s'era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni. "Malpelo" seppe in quell'occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista. Da quel momento provò una malsana curiosità per quell'uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci coi suoi piedi. - Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? - domandò "Malpelo". - Perché non sono "malpelo" come te! - rispose lo "Sciancato". - Ma non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa! - Invece le ossa le lasciò nella cava, "Malpelo" come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d'opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c'era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo, per tutto l'oro del mondo. "Malpelo", invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l'oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui. Così si persero persin le ossa di "Malpelo", e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.

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COMPRENSIONE

1. Da quali caratteristiche fisiche di Rosso Malpelo scaturiscono il sospetto e la

diffidenza della gente?

2. Esamina il rapporto di Malpelo con il padre e scegli, fra le seguenti alternative,

quelle che ti sembrano più corrette.

- la morte del padre, tutto sommato, aveva procurato al ragazzo un lavoro, quindi

non era stata un gran male.

- Malpelo amava il padre, che lo aveva capito e aveva ricambiato il suo affetto.

- Malpelo si era rassegnato alla morte del padre.

- Malpelo provava una profonda nostalgia per il padre, ma non poteva manifestarla

a nessuno.

3. Perché Malpelo picchia Ranocchio? Cosa lo spinge poi ad addossarsi il suo lavoro?

4. L’asino morto simboleggia:

- l’ineluttabile destino dei viventi

- la crudeltà contro gli animali

- la presenza di gravi malattie nel mondo animale.

5. Qual è l’autentica personalità di Malpelo? Si può definire una vittima?

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UN’OPERA D’ARTE

ANTON ČECHOV

Con sotto il braccio un oggetto avvolto nel numero 223 de «Le notizie di borsa» Saša Smirnòv, unico figliuolo di sua madre, entrò nel gabinetto del

dottor Koselkòv facendo la faccia acida. «Ah, caro ragazzo!» così lo accolse il dottore. « Bè! come ci sentiamo? Che

mi dite di bello?» Saša batté le palpebre, si portò una mano al cuore e disse con voce commossa:

«La mamma vi manda a salutare, Ivàn Nikolàevic! e mi ha ordinato di ringraziarvi... Io sono l’unico figlio di mia madre, e voi mi avete salvato la vita...

mi avete curato una malattia pericolosa, e... noi due non sappiamo come ringraziarvi». «Lasciamo andare, ragazzo!» lo interruppe il dottore, torcendo

il viso dalla soddisfazione. «Io ho fatto soltanto quello che chiunque altro avrebbe fatto al mio posto.» «Io sono l’unico figlio di mia madre... Noi siamo povera gente e naturalmente non possiamo pagarvi per il vostro lavoro... e

ne abbiamo rimorso, dottore, sebbene, del resto, mamma e io, unico figlio di mia madre, con persuasione vi preghiamo di accettare in segno della nostra

gratitudine... ecco, questo oggetto, che... è un oggetto molto caro, di bronzo antico... un’opera d’arte rara.» «Ma non è necessario!» e il dottore si accigliò.

«Perché mai?» «No, vi prego, dottore, non rifiutate,» continuò a borbottare Saša, svolgendo l’involto. «Con un rifiuto ci offendereste, me e mamma...

L’oggetto è molto bello... di bronzo antico... Ci viene dal mio povero papà e l’abbiamo conservato come un caro ricordo... Il mio papà comprava bronzi antichi e li rivendeva agli amatori. La mamma ed io continuiamo il mestiere

di papà ...» Saša svolse l’oggetto e solennemente lo posò sul tavolo. Era un piccolo

candelabro di vecchio bronzo, lavorato artisticamente. Rappresentava un gruppo: sul piedistallo stavano due figure femminili nel costume d’Eva e in pose, a descrivere le quali non mi basta né l’ardire né il temperamento. Le

figure sorridevano civettuole e in generale avevano l’aria di essere pronte, se non avessero avuto l’obbligo di sostenere il candeliere, a saltar giù dal piedistallo

per organizzare nella stanza un tal baccanale da non poterci neppure pensare senza vergognarsi.

Vedendo il regalo, il dottore si grattò subito dietro un orecchio, si raschiò la gola e indeciso si soffiò il naso.

«Sì, l’oggetto è veramente molto bello,» mormorò, «ma... come dire, non è... non è abbastanza letterario... Non è neppure scollacciato, ma lo sa il diavolo

che roba è...». «Ma come, perché?»

«Lo stesso serpente tentatore... non avrebbe potuto inventare qualche cosa di più sconcio... A metter sul tavolo una tale fantasmagoria, significherebbe

insudiciare tutta la casa!» «Che strana concezione avete dell’arte, dottore!» disse Saša offeso.

«Questo è un oggetto artistico, guardate! Tanta bellezza ed eleganza che l’anima si riempie di un sentimento di venerazione e vengono le lacrime in

gola! Vedendo una tale bellezza, ci si dimentica delle cose terrene... Guardate quanto movimento, che massa d’aria, che espressione!»

«Lo capisco benissimo, mio caro,» lo interruppe il dottore, «ma io ho famiglia,

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qui scorrazzano i bambini, vengono delle signore». «Certo, se si guarda dal punto di vista della folla,» disse Saša, «ma un

oggetto di così alta arte deve essere guardato sotto un’altra luce... Ma, dottore, siate superiore alla folla, tanto più che col vostro rifiuto voi offendete

profondamente me e la mamma. Io sono l’unico figlio di mia madre... voi mi 1avete salvato la vita... Noi vi diamo l’oggetto più caro che abbiamo... e io mi

rammarico solo che voi non abbiate un altro candelabro uguale per far la coppia ...».

«Grazie, tesoro, vi sono molto grato... Salutatemi la mamma, e in nome di Dio, giudicate voi stesso; qui ci razzolano i ragazzi, vengono delle signore...

Bé, del resto, lasciatelo pure! Non riuscirei a convincervi.» «Non c’è da convincere» disse Saša tutto lieto. «Questo candelabro lo mettete

qui, accanto a questo vaso. Che peccato che non ci sia la coppia! Un vero peccato! Arrivederci, dottore.»

Uscito che fu Saša, il dottore guardò a lungo il candelabro, si grattò dietro l’orecchio e rifletté:

«L’oggetto è magnifico, non c’è questione,» pensò, «e buttarlo via è peccato... Lasciarlo qui è impossibile... Uhm! Un bel problema! A chi lo potrei

regalare o offrire?». Dopo lunga riflessione, si ricordò di un buon amico, l’avvocato Uchov, al

quale era debitore per la difesa di una causa. «Benissimo,» decise dentro di sé. «Come amico non accetterebbe da me

denaro, e sarà molto elegante presentargli in dono un bell’oggetto. Porterò a lui questa diavoleria! Del resto, è scapolo e senza pensieri caposcarico...» Senza rinviar la cosa, il dottore si vestì, prese il candelabro e si recò da

Uchov. «Salve, amico!» disse, trovando l’avvocato in casa. «Sono venuto... sono

venuto per ringraziarti, caro, delle tue fatiche... Denaro non vuoi prenderne; accetta perciò questo oggettino... ecco, caro... Una cosuccia, ma una magnificenza!

» Vedendo la cosuccia, l’avvocato fu preso da indescrivibile entusiasmo. «Accidenti che pezzo!» esclamò ridendo, «che il diavolo se lo porti, ci

vuol proprio il diavolo per inventare una cosa simile! Stupendo, magnifico! Dove hai trovata una tale bellezza?».

Riversato l’entusiasmo, l’avvocato guardò la porta come se avesse timore e disse: «Solo, fratello caro, portati via il regalo. Io non lo prendo...» .

«Perché?» il dottore si spaventò. «Perché... perché da me vengono mia madre, delle clienti... e anche di

fronte alla donna di servizio mi fa scrupolo.» «No, no, no... Non puoi rifiutare, » il dottore fece un gesto con le mani. «è una porcheria da parte tua! Un

oggetto d’arte... quanto movimento... espressione... Non voglio nemmeno parlare! Mi offendi!» «Se si potesse ricoprirlo un po’, metterci delle foglie di

fico...» Ma il dottore fece un gesto ancora più energico con le mani, saltò fuori dall’appartamento di Uchov e, soddisfatto di essersi liberato del regalo, tornò a casa... Dopo che egli fu uscito, l’avvocato osservò il candelabro, lo

palpò da tutte le parti con le dita e, come il dottore, a lungo si ruppe la testa sul problema: a chi fare un regalo? «L’oggetto è bellissimo,» rifletteva, «buttarlo

via è peccato, tenerlo in casa è indecente... Meglio di tutto, regalarlo a qualcuno... Ecco, porterò il candelabro questa sera al comico Sàskin. Quella canaglia ama questo genere di oggetti e stasera è la sua serata d’onore...». Detto fatto. La sera stessa il candelabro, accuratamente avvolto, fu portato

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al comico Sàskin. Per tutta la sera il suo camerino fu affollato di uomini che venivano ad ammirare il regalo: per tutto il tempo il camerino risuonò di esclamazioni entusiastiche e di risate, simili a nitriti. Se però qualche attrice si avvicinava alla porta e domandava: « È permesso?» subito la voce rauca del

comico rispondeva: «No, no, cara. Non sono vestito!». Dopo lo spettacolo il comico scrollò le spalle, allargò le braccia e disse:

«E ora dove metto questa porcheria? Io vivo in famiglia! E da me vengono delle attrici. Non è una fotografia che la puoi nascondere in un cassetto!». «E voi, signore, vendetela,» gli suggerì il parrucchiere, che lo stava sve-

3 stendo. «Qui nel sobborgo c’è una vecchietta, che compra vecchi bronzi...

Andateci e domandate della Smirnòva... La conoscono tutti.» Il comico seguì il consiglio... Un paio di giorni più tardi il dottore Koselkòv

era nel suo gabinetto e con un dito sulla fronte pensava agli acidi del fiele. A un tratto si aprì la porta e nel gabinetto irruppe Saša Smirnòv. Sorrideva raggiante

e tutta la sua figura emanava felicità. Teneva in mano un oggetto avvolto in un giornale.

«Dottore!» cominciò, ansimando. «Figuratevi la mia gioia! Per vostra fortuna ci è riuscito di procurarci un candelabro come il vostro per fare il paio...

Anche la mamma è felice... io sono l’unico figlio di mia madre... Voi mi avete salvato la vita...»

E Saša, tutto tremante per il sentimento di riconoscenza, pose davanti al dottore il candelabro. Il dottore spalancò la bocca, avrebbe voluto dire qualcosa,

ma non disse nulla. La lingua gli si era paralizzata.

COMPRENSIONE

1. Per quale motivo Saša si presenta al dottore?

2. Che cosa rende tanto sconveniente, agli occhi del medico, il dono ricevuto?

3. In quali altri mani passa l’oggetto?

4. Sottolinea nel testo le motivazioni che inducono i vari personaggi a disfarsi del regalo

ricevuto. Ti pare abbiano un denominatore comune? Se sì, spiega quale.

5. Come termina il racconto?

6. Saša è al corrente dell’itinerario percorso dal candelabro?

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TRATTO DA IL RITRATTO DI DORIAN GRAY

OSCAR WILDE «Grazie, non voglio altro,» disse il pittore levandosi cappello e cappotto e gettandoli sulla borsa che aveva posato in un angolo. «E ora, mio caro amico, devo parlarti seriamente. Non fare quella faccia scura. Mi rendi le cose molto più difficili.» «Di che cosa si tratta?» esclamò Dorian Gray, con la sua aria insolente, lasciandosi cadere su un divano. «Spero non di me. Stasera sono stanco di me, mi piacerebbe essere qualcun altro.» «Si tratta di te,» rispose il pittore con la sua voce grave e profonda, «e te lo devo dire. Ti prenderà solo mezz'ora.» Dorian sospirò e accese una sigaretta. «Mezz'ora!» mormorò. «Non è chiederti molto, Dorian, e parlo nel tuo esclusivo interesse. Penso sia bene che tu sappia che a Londra si dicono le cose più tremende sul tuo conto.» «Non desidero saperne nulla. Amo gli scandali che riguardano gli altri, ma quelli che riguardano me non mi interessano. Non hanno il fascino della novità.» «Devono interessarti, Dorian. Ogni gentiluomo ha interesse al suo buon nome. Non vorrai che la gente parli di te come di un personaggio vile e vizioso. Naturalmente ci sono la tua posizione, la tua ricchezza e via dicendo, ma posizione e ricchezza non sono tutto. Bada che non credo assolutamente a queste voci, o almeno, quando ti vedo non posso crederci. Il peccato è una cosa che si stampa sulla faccia di un uomo: non lo si può nascondere. A volte la gente parla di vizi segreti, ma cose simili non esistono. Se un disgraziato ha un vizio, lo manifesta nella linea della bocca, nelle palpebre cadenti, persino nella forma delle mani. L'anno scorso venne da me un tizio - non voglio fare il suo nome, ma lo conosci - per farsi fare il ritratto. Non lo avevo mai visto e fino a quel momento non avevo mai sentito dire nulla sul suo conto, anche se in seguito ho saputo un bel po' di cose. Mi offrì una somma sbalorditiva. Rifiutai. C'era qualche cosa nella forma delle sue dita che mi disgustava. Adesso so che le cose immaginate sul suo conto erano assolutamente vere: conduce una vita spaventosa. Ma tu, Dorian, con quel tuo viso puro, luminoso, innocente, con la tua meravigliosa giovinezza intatta... non posso pensare nulla contro di te. Tuttavia ti vedo molto di rado e ormai non vieni più nel mio studio; così, quando sono lontano e sento queste cose disgustose che la gente mormora sul tuo conto, non so che cosa dire. Perché, Dorian, un uomo come il duca di Berwick lascia la sala di un club quando entri tu? Come mai qui a Londra tanti gentiluomini non vengono a casa tua né ti invitano a casa loro? Un tempo eri amico di Lord Staveley. L'ho incontrato la settimana scorsa a pranzo. Durante la conversazione saltò fuori il tuo nome a proposito delle miniature che hai prestato per la mostra del Dudley. Staveley fece una smorfia e disse che potevi avere il gusto artistico più squisito, ma che non si dovrebbe permettere a nessuna ragazza casta di conoscerti e a nessuna donna onesta di rimanere dove ci sei anche tu. Gli ricordai che ero tuo amico e gli chiesi di spiegarsi. Lo fece, lo fece così, davanti a tutti. Una cosa orribile. Perché la tua amicizia è così fatale ai giovani? C'è stato quel disgraziato giovanotto delle guardie che si è suicidato. Eri suo grande amico. C'è stato Lord Henry Ashton che ha dovuto lasciare l'Inghilterra con il nome macchiato. Eravate inseparabili. E che dire di Adrian Singleton e della sua terribile fine? Che dire dell'unico figlio di Lord Kent e della sua cameriera? Ho incontrato il padre ieri, in St. James's Street: sembrava distrutto dalla vergogna e dal dolore. Che dire del

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giovane duca di Perth? Che vita conduce adesso? Qual è il gentiluomo che lo frequenterebbe?» «Smettila, Basil. Parli di cose di cui non sai nulla,» disse Dorian Gray mordendosi le labbra e con una nota di infinito disprezzo nella voce. «Mi chiedi come mai Berwick lascia la stanza quando entro io: perché io so tutto della sua vita e non perché lui sa qualche cosa della mia. Con il sangue che gli scorre nelle vene, come potrebbe avere un passato pulito? Mi chiedi di Henry Ashton e del giovane Perth. Sono stato io ad insegnare all'uno i suoi vizi e all'altro la sua depravazione? E se quell'imbecille del figlio di Kent prende in moglie una che batte il marciapiede, che cosa c'entro io? Se Adrian Singleton firma una cambiale con il nome di un amico, sono io il suo tutore? Le conosco le chiacchiere che si fanno in Inghilterra. I borghesi sciorinano i loro pregiudizi morali davanti a enormi tavole imbandite e parlano a bassa voce di quelle che chiamano le dissolutezze delle classi superiori per dimostrare di far parte della buona società e di essere in confidenza con quelli che calunniano. In questo paese basta che un uomo sia un po' diverso e abbia una certa intelligenza perché ogni lingua mediocre si agiti contro di lui. E che tipo di vita conducono questi che si atteggiano a moralisti? Mio caro amico, dimentichi che qui siamo nella patria dell'ipocrisia.» «Dorian,» esclamò Hallward, «non è questo il problema. In Inghilterra ci sono moltissime cose che non vanno e la società inglese è completamente sbagliata. Ma proprio per questo vorrei che tu fossi diverso. E invece non lo sei stato. Si ha il diritto di giudicare un uomo dall'influenza che esercita sugli amici. I tuoi pare abbiano perduto ogni senso dell'onore, della bontà, della purezza. Hai instillato in loro la frenesia del piacere e loro sono caduti fino in fondo. Ce li hai portati tu, sì, ce li hai portati tu, e tuttavia puoi sorridere come sorridi adesso. Ma c'è anche di peggio. So che tu e Harry siete inseparabili. Non fosse che per questo, non avresti dovuto permettere che il nome di sua sorella fosse sulla bocca di tutti.» «Attento, Basil. Stai andando un po' troppo oltre.» «Devo parlare e tu devi ascoltarmi e mi ascolterai. Quando hai conosciuto Lady Gwendolin, non l'aveva sfiorata nemmeno l'ombra di uno scandalo. E, adesso c'è forse una sola donna come si deve disposta a farsi vedere in carrozza con lei al Park? Ma se nemmeno ai suoi figli si permette di vivere con lei. Poi corrono altre voci: si dice che sei stato visto sgusciare all'alba da case infami ed entrare travestito nelle più sozze taverne di Londra. È vero? Può essere vero? La prima volta che le ho sentite, ne ho riso. Quando le sento adesso, mi fanno venire i brividi. E la tua casa di campagna e quello che succede laggiù? Dorian, non sai quello che si dice sul tuo conto. Non voglio dirti che non intendo farti una predica. Ricordo quel che Harry ha detto una volta: chiunque decida di fare per un po' il curato dilettante, comincia sempre col dire questa frase, e subito dopo rompe la promessa. Io voglio proprio farti una predica. Voglio che tu conduca una vita che ti permetta di essere rispettato da tutti. Voglio che il tuo nome e la tua reputazione siano senza macchia. Voglio che ti sbarazzi della gente orribile che ti sta intorno. Non alzare le spalle in questo modo, non essere così indifferente. Tu hai una straordinaria influenza: fa che spinga al bene e non al male. Dicono che tu corrompa tutti coloro che divengono tuoi intimi amici e che basta che tu entri in una casa, perché ne segua qualche cosa di vergognoso. Non so se è vero o no. Come potrei saperlo? Ma queste sono le voci che circolano sul tuo conto. Mi hanno detto cose di cui sembra impossibile dubitare. Lord Gloucester era uno dei miei migliori amici a Oxford. Mi ha fatto vedere una lettera che gli ha scritto sua moglie quando era in fin di

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vita, sola, nella sua villa di Mentone. Nella più terribile confessione che io abbia mai letto era coinvolto il tuo nome. Gli dissi che era assurdo, che ti conoscevo a fondo e che non saresti stato capace di cose simili. Conoscerti? Mi domando se ti conosco. Prima di poter rispondere dovrei vedere la tua anima.» «Vedere la mia anima!» balbettò Dorian Gray balzando in piedi bianco di paura. «Sì,» rispose gravemente Hallward, con un tono di profonda sofferenza nella voce, «vedere la tua anima. Ma solo Dio può farlo.» Un'amara risata di scherno eruppe dalle labbra di Dorian Gray. «La vedrai tu stesso. Stasera!» esclamò afferrando una lampada sul tavolo. «Andiamo: l'hanno fatta le tue mani. Perché non dovresti vederla? Dopo, se vorrai, potrai raccontarlo a tutti. Nessuno ti crederà. E se ti credessero piacerai loro ancor di più. Conosco la nostra epoca meglio di te, anche se tu ne vai cianciando in modo così noioso. Vieni, ti dico. Hai parlato abbastanza di corruzione: adesso la guarderai in faccia.» In ogni parola pronunciata c'era la follia dell'orgoglio. Pestò un piede a terra in quel suo modo insolente e infantile. Provava una gioia terribile al pensiero che un altro avrebbe diviso il suo segreto e che l'autore del ritratto all'origine di tutta la sua vergogna avrebbe portato per il resto della vita l'ignobile ricordo di quel che aveva fatto. «Sì,» proseguì venendogli vicino e guardandolo fisso negli occhi severi, «ti farò vedere la mia anima. Vedrai quello che, a tuo avviso, solo Dio può vedere.» Hallward arretrò. «Questa è una bestemmia, Dorian!» gridò. «Non devi dire cose simili. Sono orribili e non significano niente.» «Lo credi davvero?» disse e rise nuovamente. «Ne sono certo. E per quanto riguarda le cose che ti ho detto stasera, le ho dette per il tuo bene. Sai che sono sempre stato un amico leale.» «Non toccarmi. Finisci quel che hai da dire.» Un lampo contorto di sofferenza passò sul viso del pittore. Tacque per un momento e un profondo senso di pietà lo assalì. Dopotutto che diritto aveva di spiare nella vita di Dorian Gray? Se aveva commesso solo un decimo di quello che si raccontava, quanto doveva aver sofferto! Poi si raddrizzò, si diresse verso il caminetto, e rimase immobile a guardare i ceppi ardenti, coperti da una brina di cenere e da palpitanti cuori di fiamma. «Sto aspettando, Basil,» disse il giovane con voce chiara e dura. Basil si voltò. «Quel che ho da dire è questo,» esclamò. «Devi rispondere in qualche modo alle terribili accuse che ti si fanno. Se mi dici che sono assolutamente false, dalla prima all'ultima, ti crederò. Negale, Dorian, negale! Non vedi cosa sto passando? Mio Dio! Non dirmi che sei malvagio, corrotto, infame.» Dorian Gray sorrise. Le labbra erano piegate in un'espressione sprezzante. «Vieni di sopra, Basil,» disse con voce tranquilla, «tengo un diario della mia vita, giorno per giorno: non esce mai dalla stanza in cui viene scritto. Te lo farò vedere se vieni con me.» «Verrò, Dorian, se lo desideri. Vedo che ho perso il treno. Non importa, posso partire domani. Ma non chiedermi di leggere nulla, stasera. Voglio solo una semplice risposta alla mia domanda.» «Ti verrà data di sopra. Non posso dartela qui. XIII Uscì dalla stanza e cominciò a salire; Basil Hallward lo seguiva da vicino. Camminavano adagio, come si fa istintivamente di notte. La lampada gettava ombre fantastiche sul muro e sulle scale. Un soffio di vento fece vibrare rumorosamente qualche finestra. Giunti all'ultimo pianerottolo, Dorian posò la lampada sul pavimento e, presa la chiave, la girò nella serratura. «Vuoi proprio sapere, Basil?» domandò a bassa voce.

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«Sì.» «Ne sono felice,» assentì sorridendo. Poi aggiunse, con una certa asprezza: «Sei l'unica persona al mondo che abbia il diritto di sapere tutto di me. Nella mia vita hai avuto un'influenza maggiore di quello che pensi.» Prese la lampada, aprì la porta ed entrò. Una fredda corrente d'aria li investì e, per un momento, la fiamma si ridusse a una scura lingua arancione. Rabbrividì. «Chiudi la porta,» sussurro posando la lampada sul tavolo. Hallward si guardò intorno perplesso. La stanza sembrava abbandonata da anni. Un arazzo fiammingo, un quadro coperto da un drappo, un vecchio cassone italiano, una libreria quasi vuota: non sembrava che ci fosse altro, salvo un tavolo e una sedia. Mentre Dorian Gray accendeva una candela mezzo consumata posta sulla mensola del caminetto, vide che tutto era coperto di polvere e che il tappeto era pieno di buchi. Un topo scappò con un guizzo dietro i pannelli che rivestivano le pareti. C'era un umido odore di muffa. «Dunque credi che solo Dio possa vedere l'anima, Basil? Togli quel drappo e vedrai la mia.» La voce era fredda e crudele. «Sei pazzo, Dorian, oppure stai recitando,» mormorò Hallward, accigliato. «Non vuoi? Allora lo farò io,» disse il giovane. Strappò il drappo dalla bacchetta e lo lasciò cadere sul pavimento Un grido di orrore sfuggì dalle labbra del pittore appena vide, sotto la debole luce, il volto orrendo che gli ghignava dalla tela. C'era in quell'espressione qualche cosa che lo riempiva di nausea e di disgusto. Santo cielo! Stava guardando il volto di Dorian Gray! Qualche cosa di orrendo, qualunque ne fosse la causa, non aveva ancora completamente distrutto la sua meravigliosa bellezza. C'era ancora dell'oro nei capelli radi e un'ombra scarlatta sulle labbra sensuali. Gli occhi acquosi avevano mantenuto un poco del loro bel colore azzurro, le curve perfette non avevano ancora abbandonato le narici cesellate e il collo scultoreo. Sì, era proprio Dorian. Ma chi lo aveva dipinto? Gli parve di riconoscere la sua tecnica e anche la cornice era quella che lui aveva disegnato. L'idea era assurda, ma gli faceva ugualmente paura. Afferrò la candela accesa e la avvicinò al quadro. Nell'angolo sinistro c'era il suo nome tracciato a lunghe lettere di vermiglio brillante. Era una sconcia parodia, una satira ignobile e infame. Non aveva mai fatto nulla di simile. E tuttavia il quadro era suo. Lo riconobbe e gli parve che, in un attimo, il sangue gli si fosse tramutato da fuoco in una densa poltiglia di ghiaccio. Il suo quadro? Che cosa significava questo? Perché si era alterato? Si voltò e fissò Dorian Gray con uno sguardo nauseato. Le labbra gli tremavano e gli pareva che la lingua arida non riuscisse più ad articolare parola. Si passò una mano sulla fronte: era madida di un sudore viscido. Il giovane era appoggiato alla mensola del caminetto e lo osservava con quella strana espressione che si nota sul viso di chi è avvinto da uno spettacolo nel momento in cui recita un grande artista. Non sembrava né vera gioia né vero dolore: solo la passione dello spettatore e, forse, negli occhi, un bagliore di trionfo. Aveva tolto il fiore dalla giacca e lo odorava, o fingeva di farlo. «Che cosa significa?» gridò infine Hallward. La sua stessa voce gli suonò strana e stridula all'orecchio. «Anni fa, quando ero ragazzo,» disse Dorian Gray, stritolando il fiore tra le dita, «mi hai incontrato, mi hai colmato di adulazioni e mi hai insegnato a essere vanitoso della mia bellezza. Un giorno mi presentasti un amico che mi spiegò il prodigio della giovinezza e finisti il ritratto che mi rivelò il prodigio della bellezza. In un momento di follia, che persino ora non so se rimpiangere o meno, espressi un desiderio; forse tu lo chiameresti una preghiera...»

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«Ricordo! Oh, come me ne ricordo bene! No! È impossibile. La stanza è umida, la muffa ha aggredito la tela. I colori che ho usato contenevano qualche disgraziata sostanza velenosa. Ti dico che è impossibile.» «Ah, che cosa è impossibile?» mormorò il giovane, andando alla finestra e appoggiando la fronte al vetro appannato. «Mi hai detto che lo avevi distrutto.» «Sbagliavo: ha distrutto me.» «Non credo che sia il mio quadro.» «Non riesci a vederci il tuo ideale?» disse Dorian con voce amara. «Il mio ideale, come tu lo chiami...» «Come tu lo chiamavi.» «Non aveva in sé nulla di malvagio, nulla di vergognoso. Tu per me rappresentavi un ideale che non troverò mai più. Questo è il volto di un satiro.» «È il volto della mia anima.» «Cristo! Che cosa devo avere adorato! Ha gli occhi di Un demonio.» «In ciascuno di noi, sono presenti l'inferno e il paradiso, Basil,» esclamò Dorian con un gesto incontrollato di disperazione. Hallward si voltò di nuovo verso il quadro e lo esaminò. «Mio Dio, se tutto questo è vero,» esclamò, «e se questo è ciò che hai fatto della tua vita, allora devi essere anche peggiore di quel che immagina chi parla male di te!» Sollevò ancora la candela, avvicinandola alla tela, ed esaminò il dipinto. La superficie pareva intatta, come quando l'aveva finita. Evidentemente quella vergogna e quell'orrore venivano dall'interno. Per un singolare moto di vita interiore la lebbra del peccato stava lentamente mangiandosi il quadro. La putrefazione di un cadavere in una tomba piena d'acqua non era così spaventosa. La mano gli tremò, la candela cadde dal bocciolo arrestandosi sul pavimento con un crepitio. Hallward la premette sotto il piede e la spense. Poi si lasciò cadere nella sedia traballante accanto al tavolo e seppellì il viso tra le mani. «Buon Dio, Dorian, che lezione! Che tremenda lezione!» Non ottenne risposta, ma sentiva il giovane singhiozzare accanto alla finestra. «Prega, Dorian, prega,» mormorò. «Che cosa ci hanno insegnato a dire durante l'infanzia? "Non indurci in tentazione, perdona le nostre colpe e liberaci dal male." Ripetiamolo insieme. La preghiera del tuo orgoglio è stata ascoltata. Sarà ascoltata anche la preghiera del tuo pentimento. Ti ho adorato troppo, e tutti e due siamo stati puniti.» Dorian Gray si voltò lentamente e lo guardò con occhi bagnati di lacrime. «È troppo tardi, Basil,» disse balbettando. «Non è mai troppo tardi, Dorian. Inginocchiamoci e cerchiamo di ricordare una preghiera. Non c'è un verso che dice, "anche se i tuoi peccati sono scarlatti, io li renderò bianchi come neve"?» «Queste parole non significano più nulla per me.» «Zitto! Non dire queste cose. Hai fatto abbastanza male nella vita. Mio Dio! Non vedi quella maledetta cosa che ci guarda?» Dorian Gray lanciò un'occhiata al quadro e improvvisamente fu assalito da un incontrollabile sentimento di odio nei confronti di Basil Hallward, come se glielo avesse suggerito l'immagine sulla tela, come se glielo avessero sussurrato quelle labbra ghignanti. Sentì agitarsi dentro di sé la selvaggia emozione di un animale inseguito e odiò l'uomo seduto al tavolo come non aveva mai odiato nessuno. Si guardò intorno con una luce selvaggia nello sguardo. Qualche cosa riluceva sul cassettone dipinto che aveva di fronte. L'occhio vi cadde sopra. Sapeva che cosa era. Era un coltello che, qualche giorno prima, aveva preso con sé per tagliare un pezzo di spago, dimenticando poi di riportarlo via. Vi si avvicinò lentamente, passando accanto a Basil. Appena fu giunto alle

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sue spalle, lo afferrò e si voltò. Hallward si mosse sulla sedia come se volesse alzarsi. Dorian Gray si precipitò su di lui e piantò il coltello nella grossa vena dietro l'orecchio, premendogli la testa sul tavolo e colpendolo ancora ripetutamente. Si udì un rantolo soffocato e l'orribile gorgoglio di un uomo che soffoca nel sangue. Per tre volte Hallward alzò le braccia tese, agitando grottescamente le mani irrigidite. Lo colpì altre due volte, ma l'uomo non si mosse. Qualche cosa cominciò a gocciolare sul pavimento. Attese un momento sempre tenendo la testa premuta sul tavolo. Poi gettò il coltello sul tavolo e ascoltò. Sentiva solo lo stillicidio del sangue sul tappeto logoro. Aprì la porta e uscì sul pianerottolo. La casa era del tutto tranquilla. Non si sentiva nessuno. Rimase qualche secondo chino sulla balaustra scrutando nel nero pozzo di oscurità ribollente. Poi tolse la chiave dalla serratura, ritornò nella stanza e vi si chiuse.

COMPRENSIONE 1. Secondo Basil, quali sono le dicerie intorno a Dorian Gray?

2. Quale desiderio manifesta il pittore al suo amico riguardo alla vita che lui conduce?

3. In quale occasione l’orgoglio di Dorian diventa bestemmia?

4. Analizza i sentimenti dei due personaggi. Quali sentimenti provano il pittore verso

Dorian e quest’ultimo verso Basil?

5. Qual è la reazione di Basil di fronte al ritratto?

6. Come si manifesta la violenza di Dorian?

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SE MORISSI PRIMA DI SVEGLIARMI

CORNELL WOOLRICH

La piccola che occupava il banco davanti al mio in quinta A si chiamava Millie Adams. Di lei non ricordo molto, perché allora avevo

nove anni; adesso sto per compierne dodici. Ciò che ricordo con molta chiarezza sono le sue caramelle e che, d’improvviso, non ci vedemmo

più. Millie Adams aveva l’abitudine di consumare il suo spuntino in classe,

anziché nel cortile. Un giorno, mentre mi apprestavo a uscire di classe, aprì il cestino in cui portava il suo pranzo e io riuscii a vedere,

all’interno, i lecca-lecca verdi, i miei preferiti. «Dove li hai presi? », le chiesi.

«Qualcuno me li ha dati», rispose Millie. «È un segreto.» Naturalmente non le credetti; Millie non aveva soldi per i lecca-lecca,

e il signor Beiderman, proprietario della pasticceria, non li dava mai a credito, e tanto meno lo avrebbe fatto trattandosi di lecca-lecca

da cinque centesimi, avvolti in carta incerata. «Scommetto che li hai rubati!», dissi.

«No!», esclamò Millie indignata. «Ti dico che me li ha dati un uomo! È molto simpatico; l’ho incontrato all’angolo, questa mattina, mentre stavo venendo a scuola. Mi ha chiamato e, tirando fuori

qualche lecca-lecca di tasca, mi ha detto: “Senti, piccola, vuoi un dolce?”. Mi ha detto che ero la bambina più bella che avesse visto

passare quella mattina, mentre lui...» Si coprì in fretta la bocca con la mano ed esclamò: «Oh! Me ne sono

dimenticata! Mi ha avvisato di non dirlo a nessuno, se no non mi darà più lecca-lecca».

«Fammeli assaggiare», le dissi, «e non lo dirò a nessuno.» «Lo giuri?»

«Lo giuro», risposi. Il giorno dopo, quando Millie aprì il suo cestino del mezzogiorno,

aveva un lecca-lecca all’arancio; e anche questi sono i miei preferiti. Naturalmente mi incollai al suo fianco e dividemmo i lecca-lecca. «Hum!», mi disse in un momento in cui era in vena di confidenze.

«È un uomo simpaticissimo; ha occhi enormi e si guarda sempre intorno. Domani mi darà un lecca-lecca alla cannella1. Mi ha detto

che, se se ne dimenticava, dovevo ricordarglielo. E poi, posso andare con lui e prendere quello che voglio. Ha una grande casa nel bosco,

piena di lecca-lecca, pastiglie di gomma e gessi colorati… posso prendere tutto ciò che voglio.»

Il giorno dopo, quando uscimmo, alle tre del pomeriggio, badai bene a tenermi lontano da lei; non volevo che i miei compagni pensassero che mi stavo affezionando alle bambocce; ma Millie mi si avvicinò

proprio mentre cominciavo a giocare a palla con Eddie Riley.

1. alla cannella: al gusto aromatico della cannella ,pianta delle Indie, la cui scorza è usata come spezie in cucina e nell’industria dolciaria e liquoristica.

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«Guarda», sussurrò, «ecco lì l’uomo che mi dà i lecca-lecca. È sotto

quella tenda, lo vedi? Mi credi, adesso?» Guardai, e non vidi nulla di straordinario. L’uomo aveva un abito liso2

e braccia così lunghe da arrivargli alle ginocchia; mi ricordava le scimmie dello zoo. L’ombra azzurrina della tenda gli nascondeva a

metà il volto e le spalle, ma quegli occhi sporgenti brillavano nell’ombra. Si stava stuzzicando3 un dito con un temperino, e si guardava

continuamente intorno, come non volesse che qualcuno vedesse ciò che stava facendo.

Ebbi vergogna che Eddie Riley mi vedesse parlare con una bambina; e poi Millie aveva finito i lecca-lecca. Così le dissi brontolando:

«Uff! Che mi interessa! Eddie, tirami la palla!». Per due volte Eddie non riuscì a parare i miei tiri e, mentre correva dietro alla palla, approfittai per guardarmi intorno; Millie e l’uomo, mano nella mano, camminavano giù per la strada. Improvvisamente l’uomo si staccò da lei e si incamminò in direzione opposta, come chi ha dimenticato qualcosa. Proprio allora arrivò il signor Murphy,

l’agente del traffico, e si fermò davanti alla scuola come faceva sempre all’ora in cui uscivano gli alunni. Fu tutto.

Il giorno dopo, Millie non venne a scuola. Due giorni dopo aspettai ansiosamente l’arrivo di Millie con tutti i lecca-lecca che, a quanto

mi aveva detto, avrebbe diviso con me; ma il suo banco restò vuoto. Non abbiamo più visto Millie. Un giorno, circa tre mesi dopo gli avvenimenti

di cui ho appena parlato, vedemmo la signora Hammer, la nostra maestra, con gli occhi rossi come avesse pianto; in quel

momento suonava la campana. In V B, in VI A e in VI B fui fortunato, perché nessuna bambina occupò

il banco davanti al mio. Ma in VII A arrivò una ragazzina nuova, che proveniva da un’altra scuola; si chiamava Jeanie Myers. Portava sempre una blusa bianca e i suoi capelli erano una massa di boccoli

castani trattenuti dietro, sulla nuca. Mi piacque subito, perché prendeva buoni voti e oltretutto mi era

molto utile: mi lasciava guardare sopra le sue spalle, così potevo copiare le risposte giuste. In genere, le bambine sono egoiste, ma lei

era proprio come un buon compagno. Per questo, quando uno dei miei amici cominciò a infastidirla, gli diedi un pugno sul naso; da allora,

si comportarono tutti come si deve. «Tommy Lee, sei davvero meraviglioso!», mi disse.

Jeanie andava pazza per i gessetti colorati; ne portava sempre qualcuno con sé e quando ci si imbatteva in una parete o in una inferriata

segnata di strisce rosse e gialle si poteva esser certi che era passata di lì. Sembrava incapace di andare da qualche parte senza lasciare

una traccia del suo passaggio. Siccome Jeanie spendeva in gessetti tutti i soldi che le davano, mi

sorpresi di vederla un giorno, durante la ricreazione, scartocciare un lecca-lecca da cinquanta centesimi.

2. liso: logoro, consumato. 3. stuzzicando: toccando con insistenza.

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Era verde, cioè al limone, uno dei miei preferiti.

«Ieri sera», la rimproverai, «non mi hai voluto prestare un centesimo per i lecca-lecca e adesso vedo che te ne sei comprato uno da cinquanta.

Egoista!» «Non me lo sono comprato!», mi rispose. «Me l’ha regalato un uomo

questa mattina, mentre venivo a scuola.» «Sì! E da quando in qua i grandi regalano lecca-lecca ai bambini?»,

le chiesi. «Eppure questo lo ha fatto! Ha un emporio pieno di lecca-lecca e

basta che io vada a prenderli. Non mi farà pagare nulla.» Una sensazione strana si impadronì di me, per un istante. Mi sembrava

che anche qualcun altro di mia conoscenza riuscisse ad avere lecca-lecca gratis. Cercai in tutti i modi di ricordare, ma inutilmente. Dopo aver succhiato per un po’ il lecca-lecca, Jeanie me ne diede la

metà. Era davvero molto simpatica. Il giorno dopo, durante la ricreazione, mi si avvicinò e mi disse sottovoce:

«Fermati un momento, dopo; ne ho un altro». Tenne il suo cestino chiuso fin che gli altri se ne andarono; allora l’aprì e mi mostrò un lecca-lecca color arancio, anch’esso tra i miei preferiti.

Tornati in classe, mi sedetti accanto a lei e così dividemmo quella delizia.

Di tanto in tanto fissavo la lavagna, sulla quale non c’era scritto nulla. Volevo a tutti i costi imprigionare un ricordo fuggevole: qualcosa

che si riferiva a un lecca-lecca al limone, seguito da uno all’arancio. Avevo la sensazione d’aver già vissuto questi momenti.

Alle tre suonò la campana, e tutti i bambini se ne andarono, meno lei.

Io rimasi a giocare a palla con me stesso; la prendevo a calci, la lanciavo in aria e cercavo di colpirla quando ricadeva. Così rincorrendola mi allontanai di quasi due isolati dalla scuola senza rendermene conto. Improvvisamente, la palla si fermò ai piedi di una persona

che stava impalata sotto a una tenda, sul marciapiede. Mi chinai per raccoglierla e, alzandomi, vidi che era un uomo; stava

in piedi, quasi immobile, sotto l’ombra azzurra della tenda. Aveva gli occhi grandi e scrutatori e le braccia sembravano quelle di uno scimpanzé

che avevo veduto allo zoo. Non riuscii a capire che cosa significasse il movimento che faceva con le dita: le apriva e le chiudeva

come volesse afferrare qualcosa che gli sfuggiva. Mi guardò appena; io lo guardai per un attimo e mi sembrò d’averlo visto prima, da qualche parte; soprattutto quei suoi occhi sporgenti.

Me ne andai con la mia palla, e lui rimase immobile: solo le sue dita si muovevano, così come ho detto.

Tirai la palla molto in alto e improvvisamente, insieme a lei, un nome sembrò cadermi dal cielo: Millie Adams! Ora ricordavo dove

avevo visto quegli occhi sporgenti e chi aveva diviso con me i lecca- lecca verdi e arancioni. Glieli dava lui, e come risultato di questi regali…

Millie non era più tornata a scuola. Sapevo che cosa dovevo dire a Jeanie: che non si avvicinasse più a quell’uomo perché, se lo

faceva, le sarebbe successo qualcosa. Non sapevo che cosa, ma certo

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era qualcosa di brutto. Mi spaventai tanto che smisi di giocare a palla, corsi verso la scuola

ed entrai. Guardando da una finestra vidi che Jeanie era al suo banco e stava facendo i compiti, mentre la signora Flagg, di fronte a lei,

correggeva qualcosa. Senza saper che cosa fare, battei alcuni colpetti sui vetri per richiamare l’attenzione di Jeanie; lei mi vide, ma mi

vide anche la Flagg che mi fece entrare in classe. «Bene, Tom», mi disse acida come un limone, «giacché sembra incapace

di allontanarsi dalla scuola, sarà meglio che si sieda e si metta a studiare.»

Dopo qualche minuto, come a peggiorare le cose, la signora Flagg disse: «Può andarsene, Jeanie, s’è trattenuta abbastanza. Cerchi di essere puntuale, domani». E quando vide che anch’io mi preparavo a uscire: «Lei no, giovincello! Rimanga dov’è!», mi disse. Incapace

di contenermi le gridai: «No! Non la lasci uscire, signora Flagg! Andrà in cerca di lecca-lecca e…!»

La signora Flagg andò su tutte le furie e, battendo sul banco, mi inchiodò4: «Basta! Non voglio sentire una parola di più! Per ogni volta che

aprirà la bocca, le darò mezz’ora di castigo!». «Jeanie!» le gridai. «Non uscire! Aspettami nel cortile!»

Davanti alla mia disobbedienza, la signora Flagg mi minacciò: «Se sento un’altra volta la sua voce, la farò espellere dal collegio per

insubordinazione5!». Non l’avevo mai vista così arrabbiata. La cosa peggiore era che anche Jeanie era arrabbiata, e… con me.

«Traditore! Pettegolo!», sibilò e uscì chiudendo la porta. «Jeanie andrà a cercare i lecca-lecca e non tornerà più… Come Millie

Adams, e la colpa sarà sua…!», dissi piangendo. La signora Flagg non era in quella scuola quando successe il caso di Millie, così non poteva certo capire ciò che volevo dirle. Il risultato

di questa scenata fu che la signora Flagg mi aggiunse altre mezze ore di castigo che dovetti scontare rimanendo a scuola.

Quando uscii, le strade erano buie e deserte. Senza rendermene conto, tirai fuori dalla tasca un mucchio di cose: palline, chiodi, fiammiferi

e un pezzetto di gesso. Mi misi a guardare il gessetto ricordando che Jeanie, sempre… Cominciai a riflettere e mi dissi: «Jeanie

ha comprato una scatola di gessetti l’altro ieri; lo so perché ho visto che ne aveva un pezzo intero quando siamo usciti alle tre». Però

ciò non bastava, lei li consumava molto in fretta. E se oggi non gliene fosse rimasto neppure un po’?

Girai l’angolo osservando le pareti; non c’era nessun segno. Percorsi tutto l’isolato senza trovare segni, così che alla fine mi dissi: «For-

4. mi inchiodò: mi immobilizzò. 5. insubordinazione: disobbedienza, ribellione.

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se ha camminato in mezzo alla strada, e non poteva certo lasciar segni nell’aria».

A un tratto vidi una bocca d’irrigazione6 che aveva tutt’intorno un segno di gesso color rosa. Voleva dire che, poiché la sua casa si trovava

in direzione opposta, Jeanie era passata per di là a qualche ora di quello stesso giorno!

Mi sentii contento. Sapevo che cercarla in quel modo avrebbe portato a qualcosa! «Scommetto che la troverò!»

Per un momento, dimenticai perfino d’aver paura. Continuai a camminare per un altro isolato e trovai un secchio per le immondizie,

con un segno di gesso color rosa. Nell’isolato seguente non trovai nulla; Jeanie non era passata di là,

così decisi di attraversare la strada e portarmi sull’altro marciapiede. Lì, in un posto illuminato, c’era un segno quasi invisibile. La fortuna

era dalla mia parte, ne ero sicuro. Percorsi ancora vari isolati trovando sempre un qualche segno; finché,

di colpo, scomparvero. Che il gessetto fosse finito? O lui l’aveva scoperta e glielo aveva portato via? No, Jeanie non si sarebbe mai

separata da tanto tesoro, e poi quello era viale Allen, una strada molto frequentata di giorno. L’uomo non avrebbe mai osato comportarsi

rudemente con lei davanti ad altre persone. Cominciai a camminare dalla parte sinistra – so che a sinistra c’è il cuore – e continuai in quella direzione. Improvvisamente, trovai di

nuovo il suo segno; era una striscia che s’interrompeva soltanto quando c’era una porta o una finestra. Era un gessetto giallo. Le era

sicuramente finito quello rosa e aveva ricominciato con il giallo. Era così facile seguirlo che, anziché camminare, cominciai a correre.

Però, d’un tratto le case si diradarono; più in là c’erano soltanto terreni incolti; non c’erano neppure più posti da poter segnare con il

gesso. Ero arrivato ai confini della città; la strada continuava, ma non c’erano marciapiedi. Non ero mai stato in luoghi così fuori mano,

ed ero abbastanza spaventato. Un po’ più lontano vidi una palizzata di legno; quando vi arrivai, vidi

sui pali una striscia gialla, di gesso. C’erano dei lampioni: tutti i pali dei lampioni erano segnati. Proseguii finché arrivai al bosco.

Mi addentrai sapendo che non avrei più visto la strada, ma ero troppo spaventato per preoccuparmene. Di tanto in tanto mi sembrava

di scorgere qualcosa e mi mettevo a correre. In una di queste fughe inciampai in una cosa che brillava alla luce della luna; ciò che vidi

accelerò i battiti del mio cuore. Per terra c’era il cestino nel quale Jeanie portava a scuola il suo pranzo.

Ebbi allora la certezza che Jeanie, giunta a quel punto, s’era rifiutata di andare avanti. Indubbiamente, l’uomo aveva chiacchierato

lungo tutta la strada per distrarla e perché non si rendesse conto che si stavano addentrando nel bosco, sempre più lontano. Ma qui

Jeanie aveva capito che qualcosa non andava. Oltre al cestino, trovai

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6. bocca d’irrigazione: apertura attraverso cui fluisce l’acqua che scorre in una conduttura.

altre cose: dovetti faticare un po’, ma trovai due pezzi di gesso che qualcuno aveva calpestato e s’erano rotti. Trovai anche il nastro che Jeanie portava legato intorno alla vita; il laccio era rotto, come se le

si fosse impigliato in qualcosa mentre cercava di scappare. «Oh, Jeanie», pensai, «non ti avrà mica ammazzata!»

Un po’ più avanti del buio in cui mi trovavo, scorsi un posto illuminato dalla luce della luna; corsi in quella direzione, stringendo tra le

mani le cose di Jeanie. Quando vi giunsi, seppi che quello era il luogo. Non vedevo nulla né sentivo nulla che me lo indicasse, ma lo

seppi; sembrava che quel posto mi stesse aspettando. Era un posto più spazioso del precedente e nel mezzo c’era una vecchia

casa in stato d’abbandono; le finestre erano senza vetri e sembrava disabitata da molto.

Mi avvicinai a una delle finestre per ascoltare; non potevo sentir nulla, tanto il cuore mi batteva.

Con un filo di voce sussurrai: «Jeanie, sei qui?». Restai quasi secco7 dopo aver parlato, ma non sentii nulla. Non osavo

raggiungere la porta principale perché la luce della luna ci batteva su in pieno; e poi il portico era scuro come la bocca di un lupo.

Senza pensarci troppo, mi arrampicai su una finestra cercando di non far rumore. A cavalcioni sulla finestra, tirai un sassolino per vedere

che cosa succedeva, ma non successe nulla e mi decisi a entrare in quella stanza, o quel che era.

Mi aspettavo che una mano mi afferrasse, ma non successe nulla; a poco a poco vidi che la luce della luna illuminava la facciata della casa:

mi fece da guida. Passai attraverso un buco nel quale una volta c’era stata una porta, e mi trovai in una specie di atrio molto illuminato dall’apertura della porta e dal lucernario8 che c’era nel tetto; di fianco vidi una scala

sgangherata che si perdeva nell’oscurità. Armandomi di coraggio, misi la mano sulla colonnina della ringhiera;

salii lentamente, fermandomi su ogni gradino. Scricchiolavano, e a un certo punto sembrò che quella maledetta casa dovesse crollare,

ma non successe nulla e nessuno comparve; avevo la lingua fuori dalla paura.

Quando arrivai in cima, trovai, da una parte, una porta chiusa; la spinsi per aprirla. Mi dicevo che, se dietro c’era qualcuno, mi doveva

aver già sentito da un pezzo. Facevo queste riflessioni per tranquillizzarmi. Infine guardai dentro la stanza e mi azzardai a sussurrare:

«Jeanie, sei lì?». Feci questa domanda di stanza in stanza; nell’ultima, qualcuno tossì in risposta. Sembrava la tosse di un bambino piccolo e, radunando

il poco coraggio che mi rimaneva, mi poggiai alla porta per trattenere la voglia di scappare giù per le scale.

Per terra c’era un mucchio di immondizie, o chissà cosa; chiamai di nuovo un po’ più forte: «Jeanie!».

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7. secco: spossato, stremato, esausto. 8. lucernario: apertura nel tetto, provvista di vetrata, per dare luce agli ambienti interni.

Nel colmo della mia disperazione, i fagotti, o quel che fosse, che erano per terra, cominciarono a muoversi. Mi sembrava che da quel

mucchio sbucassero topi… o vipere. Mi sostenni saldamente alla porta per non stramazzare al suolo.

Ciò che sbucò da quel mucchio erano due piedi; due piedi piccoli. Uno era nero, perché c’era infilata una calza; l’altro era bianco e senza calza. La paura mi passò di colpo, perché sapevo. Pur nella semioscurità

potevo vedere la blusa; aveva tossito perché aveva un bavaglio. Accesi un fiammifero: nella stanza non c’era nessuno, tranne noi. Gli occhi di Jeanie brillavano, ma avevano le occhiaie dal tanto piangere.

Guardai bene il nodo del bavaglio e poi spensi il fiammifero; avevo bisogno delle due mani per disfare il nodo.

Jeanie aveva le mani legate dietro la schiena e i piedi strettamente immobilizzati; le mie mani erano troppo piccole per questo lavoro,

mi sembrava passassero secoli mentre lo finivo, e a ogni istante avevo il presentimento che due mani si impadronissero del mio collo. Passandole un braccio intorno alla schiena, l’aiutai ad alzarsi.

«Dove è andato?», le chiesi. Tra singhiozzo e singhiozzo le uscì un filino di voce.

«N-on… so», mi rispose alla fine. «È molto che non lo vedi?»

«Da quando è comparsa la l-u-n-a.» «È uscito dalla casa?»

«Mi è sembrato di sentire i suoi passi, fuori.» «Forse se ne è andato per sempre», dissi speranzoso.

«No… Ha detto che andava a scavare una fossa e… che poi sarebbe tornato…»

Guardammo entrambi dietro a noi, invasi da un terrore inimmaginabile. «Usciamo di qui. Puoi camminare?», dissi a un tratto.

«Ho le gambe addormentate9», disse Jeanie. Mentre si alzava, una gamba le si piegò e io la sostenni perché non

cadesse. «Appoggiati a me», la esortai.

Uscimmo dalla stanza e poi scendemmo le scale giungendo fino all’atrio illuminato dalla luna. Se fossimo riusciti a cavarcela!

Camminammo il più silenziosamente possibile. «Non far rumore, può darsi che ci stia aspettando», la avvertii.

D’improvviso successe ciò che temevo. Uno scoppio che sembrava lo sparo di un revolver ci paralizzò. La tavola sulla quale stavamo in piedi si piegò spezzandosi in due. Il peggio fu che uno dei miei piedi

rimase imprigionato e non riuscivo a liberarlo. Lavorammo come un reggimento10, Jeanie e io, per tirar fuori il mio

piede dal ceppo in cui era rimasto intrappolato; era incastrato in modo tale che non potevo tirarlo fuori neppure togliendomi la scarpa.

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9. addormentate: intorpidite, indolenzite, incapaci di muoversi con sveltezza a causa della lunga immobilità. 10. Lavorammo come un reggimento: modo di dire che sta per «ci sforzammo a lungo e in tutti i modi».

Alla fine rinunciammo e ci sedemmo sul penultimo scalino rassegnandoci alla nostra sorte e… aspettando.

«Jeanie, vattene», io le dicevo. «Vattene finché puoi, se segui la strada alla luce della luna…»

Jeanie mi si attaccava come fosse di colla e mi diceva: «No, no! Non me ne vado senza di te. Non sarebbe giusto».

Restammo un po’ senza parlare, ascoltando… ascoltando con tutta la nostra attenzione. Di tanto in tanto cercavamo di farci coraggio

dicendo cose che sapevamo non vere. «Forse non tornerà finché non farà giorno, e per allora qualcuno ci

avrà trovato.» Ma chi poteva arrivare, in una casa abbandonata in mezzo al bosco?

Lui solo ne conosceva l’esistenza. «Forse non tornerà più.»

Ma se non pensava di tornare, non si sarebbe preso la briga di legarla in quel modo; lo sapevamo benissimo entrambi.

Sentimmo dei passi sulla ghiaia fuori della casa, e ci abbracciammo tanto forte da sembrare una sola persona. Poi il pavimento scricchiolò

un poco e ciò ci fece capire che l’uomo era entrato in casa. Si stava avvicinando a noi passo a passo.

D’un tratto, l’uomo si fermò e rimase immobile. Certo aveva visto la blusa di Jeanie. Udimmo uno schiocco e una luce giallastra ci illuminò;

non era molto brillante, ma sufficiente perché ci vedesse. Avevo ragione; era l’uomo che si fermava sotto la tenda. Il tipo sorrise

e disse: «Così, mentre sono stato via è arrivato un ragazzino? E non siete riusciti

a scappare…! Ah, ah! Già che si è preso la briga di venire, dovrò fare la fossa un po’ più grande».

Facendo uno sforzo, trovai la voce per dire: «Se ne vada, ci lasci soli! Esca!».

L’uomo si avvicinò ancor più e stava già chinandosi su di noi quando gridai:

«Aiuto! Aiuto!». Io non sapevo più quel che facevo. Cominciai a colpire l’uomo con

la gamba libera, mentre tenevo Jeanie tra le braccia. Il mio piede lo raggiunse allo stomaco. Non se l’aspettava. Scivolò e cadde rotolando

per la scala, sollevando una nuvola di polvere. Quando, infine, riuscii a veder qualcosa, mi accorsi che mancava un bel tratto di scala, anche se non tanto da non poterlo scavalcare; la ringhiera penzolava

e la cosa più bella era che il mio piede era finalmente libero. «Presto, Jeanie, il mio piede è libero!», le gridai, ed entrambi fuggimmo

via. Ci infilammo nella stanza in cui si trovava prima Jeanie e chiudemmo

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la porta. L’uomo doveva salire lentamente perché la scala non crollasse, così avemmo il tempo di cercare delle cose pesanti con cui puntellare la porta; per sfortuna non c’era niente che pesasse molto: trovammo soltanto due casse vuote. Le mettemmo una sull’altra e ci appoggiammo contro di loro per far peso. Potevamo sentire l’uomo

salire cautamente, mentre imprecava e ci malediceva. Giunto di sopra scoppiò in una risata agghiacciante e cominciò a spingere la porta che un poco cedette; ma noi la puntellavamo con tutte le nostre forze. Le diede un altro spintone e questa volta non riuscimmo a chiuderla del tutto; sentivo già il suo respiro, tanto ci era vicino.

«Non dovremmo pregare?», mi chiese Jeanie. «Sì», le risposi, mentre continuavo a spingere. Jeanie cominciò a

pregare: «Se morissi prima di svegliarmi, prego Dio che…». L’uomo spinse più forte e stavolta si poteva dire che la porta si fosse

aperta quasi del tutto; io non ce la facevo più. Una delle braccia di quel mostro passò attraverso l’apertura, come per raggiungerci.

«Prega più forte! Oh, Jeanie, prega perché ti sentano! Non ce la faccio più…!»

La voce di Jeanie si alzò in un grido. «Se io morissi prima di svegliarmi…!»

Con l’ultimo spintone venne la fine. Rotolammo al suolo, Jeanie, io, le casse, la porta… Ciò ci diede un momento di respiro, perché

l’uomo andò a finire al centro della stanza e perse qualche attimo prima di rialzarsi.

Afferrai una delle casse e gliela lanciai contro con tutte le mie forze; lo colpì alla nuca e per un momento rimase come intontito. Ma la cassa era vuota e non pesava molto. Si voltò verso di me, furioso e

roteò le braccia cercando d’acchiapparmi. Con il dorso della mano riuscì a darmi un colpo in testa, e per il colpo

sbattei contro la parete. Mentre scivolavo a terra, vidi una cometa con una coda lunghissima. L’ultima cosa che riuscii a vedere fu

l’uomo che copriva la testa di Jeanie con un sacco. La cometa si fece sempre più brillante finché parve frantumarsi e moltiplicarsi, ma

questa volta la vedevo attraverso l’apertura della porta; poi vidi degli uomini che portavano lanterne. Ma no, era impossibile; era tutto

frutto della vertigine. Caddi addormentato sperando di svegliarmi in tempo per salvare Jeanie.

Quando mi svegliai, mi sembrò di ondeggiare tra il suolo e il soffitto; e lo stesso faceva Jeanie. Mi pareva che stessimo galleggiando

nell’aria. Pensai che eravamo morti e ci eravamo trasformati in angeli. La realtà era diversa. Un uomo portava Jeanie tra le braccia e

un altro portava me. «Attento alle scale», disse uno di loro.

Ci portarono subito dal medico, Jeanie e io, non appena giungemmo in città; disse che stavamo bene, ma che, per un certo periodo,

avremmo avuto degli incubi. Ah! Quasi mi scordo: il mostro fu catturato e a Jeanie non piacciono

più i lecca-lecca.

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COMPRENSIONE

1. Chi è l’uomo che si nasconde dietro la tenda azzurrina?

2. Da quali espressioni si comprende che Millie è stata uccisa?

3. Dal momento in cui il protagonista entra nella casa dell’assassino più volte

intervengono delle fatalità che peggiorano o migliorano la situazione dei due bambini.

Quali sono?

4. Come si conclude la vicenda?

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VECCHIO AL PONTE

ERNST HEMINGWAY

Seduto su un lato della strada c'era un vecchio con gli occhiali dalla montatura metallica e gli abiti molto impolverati. Sul fiume c'era un ponte di barche, e carretti, camion, uomini, donne e bambini che l'attraversavano. I carri tirati dai muli stentavano a salire l'argine ripido del fiume, ed i soldati aiutavano spingendo i raggi delle ruote. I camion mordevano la strada allontanandosi veloci; i contadini marciavano faticosamente nella polvere, alta fino alle caviglie. Ma il vecchio se ne stava seduto senza muoversi. Era troppo stanco per andare avanti. Io avevo l'incarico di passare il ponte, perlustrare la zona retrostante ed accertare fino a che punto fosse venuto avanti il nemico. Lo feci, e tornai al ponte. C'erano ora meno carriaggi e poca gente a piedi; ma il vecchio era ancora là. - Da dove venite? - gli chiesi. - Da San Carlos - disse lui, e sorrise. Era il suo paese natale e gli faceva piacere nominarlo. Per questo sorrise. - Badavo alle bestie - spiegò. - Oh - dissi io. Ma non capivo bene. - Sicuro - disse lui. - Ero rimasto là, capite, per badare alle bestie. Sono stato l'ultimo a lasciare San Carlos. Non aveva l'aria d'un pastore né d'un mandriano; io guardai gli abiti neri e polverosi, la faccia grigia e coperta di polvere, gli occhiali dalla montatura metallica, e dissi: - Che bestie erano? - Diverse bestie - disse egli, e scosse il capo. - Ho dovuto lasciarle. lo guardavo il ponte e il paesaggio del delta dell'Ebro, un paesaggio che sembrava Africa, e mi chiedevo fra quanto tempo avremmo visto i nemici, ero in attesa dei primi rumori che avrebbero annunciato quel misterioso avvenimento che si chiama contatto; ed il vecchio era seduto là. - Che bestie erano? - chiesi. - Tre specie di bestie - il vecchio spiegò. - Due capre, un gatto e quattro paia di piccioni. - E avete dovuto lasciarle? - chiesi. - Sì. Per l'artiglieria. Il capitano mi ha detto di andarmene, per causa dell'artiglieria. - E non avete famiglia? - io chiesi, e guardavo l'altra estremità del ponte dove gli ultimi pochi carri discendevano in fretta la scarpata dell'argine. - No - egli disse. - Soltanto le bestie che ho detto. Il gatto naturalmente se la caverà. Un gatto sa badare a se stesso, ma non so cosa sarà delle altre. - Di che idea politica siete - chiesi. - Non ho idee politiche - disse il vecchio. - Ho settantasei anni. Ho fatto dodici chilometri e credo di non poter andare più avanti. - Questo non è un posto buono per fermarsi - io dissi. - Se ce la fate ad arrivare fin là, al bivio per Tortosa passano dei camion. - Aspetterò ancora un poco - egli disse - poi ci andrò. Dove vanno i camion? - Verso Barcellona - dissi io. - Non conosco nessuno da quelle parti - disse lui - ma grazie molte. Di nuovo molte grazie.

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Mi guardò con aria stanca indifferente, poi, dovendo dividere la sua pena con qualcuno, disse: - II gatto se la caverà, ne sono sicuro. Non c'è ragione di stare in pensiero per il gatto. Ma le altre bestie. Voi cosa credete che sarà delle altre bestie? - È probabile che se la cavino benissimo anche loro. - Credete? - Perché no? - dissi, e guardavo la riva opposta dove non c'erano più carri, - Ma come faranno sotto il tiro dell'artiglieria, quando a me per causa dell'artiglieria hanno detto di andarmene? - Avete lasciata aperta la gabbia dei colombi? - dissi. -Sì. - Allora voleranno via. - Certo, voleranno via. Ma le altre? È meglio che non pensi alle altre. - Se vi siete riposato, io al vostro posto mi avvierei - gli feci fretta. - Alzatevi e cercate di camminare. - Grazie - disse e si alzò in piedi, oscillò su un fianco e sull'altro, poi ritornò a sedere nella polvere. - Badavo alle bestie - disse con voce monotona, non più rivolto a me. - Ero uno che badava alle bestie. Non c'era niente da fare con quel vecchio. Era il giorno di Pasqua, e i fascisti stavano avanzando verso l'Ebro. Era una giornata grigia, con un soffitto di nuvole basse, e perciò non c'erano aeroplani. In questo fatto, e nel fatto che i gatti sanno sempre badare a se stessi, consisteva tutta la fortuna che quel vecchio poteva aspettarsi di avere.

COMPRENSIONE

1. Dove è ambientato il racconto e in quale periodo storico?

2. Il soldato incontra un povero vecchio costretto a lasciare la sua casa a causa della

guerra. L'atteggiamento dell’uomo rivela stanchezza. Da cosa lo deduci?

3. Che cosa preoccupa di continuo il vecchio?

4. Nel dialogo si evidenziano due punti di vista riguardo alla guerra in atto: quella

dell’autore e quella del vecchio. Qual è il punto di vista di ognuno dei due?

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TRATTO DA L’OMBRA DEL VENTO

CARLOS RUIZ ZAFÓN

Il Cimitero dei Libri Dimenticati

Ricordo ancora il mattino in cui mio padre mi fece conoscere il Cimitero dei Libri Dimenticati. Erano le prime giornate dell'estate del 1945 e noi passeggiavamo per le strade di una Barcellona prigioniera di un cielo grigiastro e di un sole color rame che inondava di un calore umido la rambla de Santa Mónica.

«Daniel, quello che vedrai oggi non devi raccontarlo a nessuno» disse mio padre. «Neppure al tuo amico Tomás. A nessuno.»

«Neanche alla mamma?» domandai sottovoce. Mio padre sospirò, offrendomi il sorriso dolente che lo seguiva sempre come un'ombra. «Ma certo» rispose mesto. «Per lei non abbiamo segreti.» Subito dopo la guerra civile, il colera si era portato via mia madre. L'avevamo sepolta

a Montjuïc, sotto una pioggia battente, il giorno in cui compivo quattro anni. Ricordo che quando chiesi a mio padre se il cielo piangeva gli mancò la voce. Sei anni dopo, l'assenza di mia madre era an-cora un grido muto, un vuoto che nessuna parola poteva colmare. Mio padre e io abitavamo in un piccolo appartamento di calle Santa Ana, vicino alla piazza della chiesa, sopra la libreria specializzata in edizioni per collezionisti e libri usati che era stata del nonno, un magico bazar che un giorno sarebbe diventato mio, diceva mio padre. Sono cresciuto tra i libri, in compagnia di amici immaginari che popolavano pagine consunte, con un profumo tutto particolare. Da bambino, prima di addormentarmi racconta-vo a mia madre come era andata la giornata e quello che avevo imparato a scuola. Non potevo udire la sua voce né essere sfiorato dalle sue carezze, ma la luce e il calore del suo ricordo riscaldavano ogni angolo della casa e io, con l'ingenuità di chi conta ancora gli anni sulle dita delle mani, crede-vo che se avessi chiuso gli occhi e le avessi parlato, lei mi avrebbe ascolta-to, ovunque si trovasse. A volte mio padre mi sentiva dal soggiorno e piangeva di nascosto. Ricordo che quella mattina di giugno mi ero svegliato gridando. Il cuore mi batteva come se volesse aprirsi un varco nel petto e fuggire via. Mio padre, allarmato, era accorso in camera mia e mi aveva preso tra le braccia per calmarmi.

«Non mi ricordo più il viso della mamma» dissi con un filo di voce. Mio padre mi strinse forte.

«Non preoccuparti, Daniel. Lo ricorderò io per tutti e due.»

Ci guardammo nella penombra, cercando parole che non esistevano. Per la prima volta

notai che mio padre stava invecchiando e che i suoi occhi tristi erano rivolti al passato.

Si alzò in piedi e aprì le tende per far entrare la pallida luce dell'alba.

«Su, Daniel, vestiti. Voglio mostrarti una cosa» disse. «Adesso? Alle cinque del mattino?» «Ci sono cose che si possono vedere solo al buio» rispose, sfoderando un sorriso

enigmatico che doveva aver preso in prestito da un romanzo di Dumas. Per strada si udivano solo i passi di qualche guardia notturna. I lampioni delle ramblas

impallidivano accompagnando il pigro risveglio della città, pronta a disfarsi della sua maschera di colori slavati. All'altezza di calle Arco del Teatro svoltammo in direzione del

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Raval, passando sotto l'arcata avvolta nella foschia, e percorremmo quella stradina simile a una cicatrice, allontanandoci dalle luci delle ramblas mentre il chiarore dell'alba cominciava a disegnare í contorni dei balconi e dei cornicioni delle case. Mio padre si fermò davanti a un grande portone di legno annerito dal tempo e dall'umidità. Di fronte a noi si ergeva quella che a me parve la carcassa di un palazzo, un mausoleo di echi e di ombre.

«Daniel, quello che vedrai oggi non devi raccontarlo a nessuno. Neppure al tuo amico Tomás. A nessuno.»

Ci aprì un ometto con la faccia da uccello rapace e i capelli d'argento. Il suo sguardo si posò su di me, impenetrabile.

«Buongiorno, Isaac. Questo è mio figlio Daniel» disse mio padre. «Presto compirà undici anni, e un giorno manderà avanti il negozio. Ha l'età giusta per conoscere questo posto.»

Isaac ci invitò a entrare con un lieve cenno del capo. Dall'atrio, immerso in una penombra azzurrina, si intravedevano uno scalone di marmo e un corridoio affrescato con figure di angeli e di creature fantastiche. Seguimmo il guardiano fino a un ampio salone circolare sovrastato da una cupola da cui scendevano lame di luce. Era un tempio tenebroso, un labirinto di ballatoi con scaffali altissimi zeppi di libri, un enorme alveare percorso da tunnel, scalinate, piattaforme e impalcature: una gigantesca biblioteca dalle geometrie impossibili. Guardai mio padre a bocca aperta e lui mi sorrise ammiccando.

«Benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati, Daniel.» Sui ballatoi e sulle piattaforme della biblioteca scorsi una dozzina di persone. Alcune

si voltarono per salutarci: riconobbi alcuni colleghi di mio padre, librai antiquari come lui. Ai miei occhi di bambino, erano una confraternita di alchimisti che cospirava all'insaputa del mondo. Mio padre si chinò su di me e, guardandomi negli occhi, mi parlò con il tono pacato riservato alle promesse e alle confidenze.

«Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un'anima, l'anima di chi lo ha scritto e di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza. Molti anni fa, quando mio padre mi portò qui per la prima volta, questo luogo era già vecchio, quasi come la città. Nessuno sa con certezza da quanto tempo esista o chi l'abbia creato. Ti posso solo ripetere quello che mi disse mio padre: quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro viene cancellato dall'oblio, noi, i custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nel-le mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li com-priamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno. Adesso hanno soltanto noi, Daniel. Pensi di poter mantenere il segreto?»

Il mio sguardo si smarrì nell'immensità di quel luogo, nella sua luce fatata. Annuii e mio padre sorrise.

«E sai qual è la cosa più bella?» Scossi la testa in silenzio. «La tradizione vuole che chi viene qui per la prima volta deve scegliere un libro e

adottarlo, impegnandosi a conservarlo per sempre, a mantenerlo vivo. È una grande responsabilità, una promessa» spiegò mio padre. «Oggi tocca a te.»

Mi aggirai in quel labirinto che odorava di carta vecchia, polvere e magia per una mezzora. Lasciai che la mia mano sfiorasse il dorso dei libri disposti in lunghe file sugli

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scaffali, affidando la mia scelta al tatto. Tra titoli ormai illeggibili, scoloriti dal tempo, notai parole in lingue conosciute e in decine d'altre che non riuscivo a identificare. Vagai lungo gallerie e ballatoi riempiti da centinaia, migliaia di volumi che davano l'impressione di sapere di me molto più di quanto io sapessi di loro. Mi balenò in mente il pensiero che dietro ogni copertina si celasse un universo da esplorare e che, fuori di lì, la gente sprecasse il tempo ascoltando partite di calcio e sceneggiati alla radio, paga della propria mediocrità. Non so dire se dipese da queste riflessioni, dal caso o dal suo parente nobile, il destino, ma in quell'istante ebbi la certezza di aver trovato il libro che avrei adottato, o meglio, il libro che avrebbe adottato me. Sporgeva timidamente da un ripiano, rilegato in pelle color vinaccia, col titolo impresso sul dorso a caratteri dorati. Accarezzai quelle parole e le lessi in silenzio.

COMPRENSIONE

1. Qual è la preoccupazione di Daniel?

2. Che cosa decide di mostrare il papà di Daniel a suo figlio?

3. Come viene descritto questo luogo e che impressione ha Daniel?

4. Qual è il compito del ragazzo?

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APPENDICE

LETTERARIA

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TRATTO DA SIDDHARTA

HERMANN HESSE

CAPITOLO I

Nell'ombra della casa, sulle rive soleggiate del fiume presso le barche, nell'ombra del bosco di Sal, all'ombra del fico crebbe Siddharta, il bel figlio del Brahmino, il giovane falco, insieme all'amico suo, Govinda, anch'egli figlio di Brahmino. Sulla riva del fiume, nei bagni, nelle sacre abluzioni, nei sacrifici votivi il sole bruniva le sue spalle lucenti. Ombre attraversavano i suoi occhi neri nel boschetto di mango, durante i giochi infantili, al canto di sua madre, durante i santi sacrifici, alle lezioni di suo padre, così dotto, durante le conversazioni dei saggi. Già da tempo Siddharta prendeva parte alle conversazioni dei saggi, si esercitava con Govinda nell'arte oratoria, nonché nello esercizio delle facoltà di osservazione e nella pratica della concentrazione interiore. Già egli sapeva come si pronuncia impercettibilmente 1'Om, la parola suprema, sapeva assorbirla in se stesso pronunciandola silenziosamente nell'atto di inspirare, sapeva emetterla silenziosamente nell'atto di espirare, con l'anima raccolta, la fronte raggiante dello splendore che emana da uno spirito luminoso. Già egli sapeva, nelle profondità del proprio essere, riconoscere l'Atman, indistruttibile, uno con la totalità del mondo. Il cuore del padre balzava di gioia per quel figlio così studioso, così avido di sapere; era un grande sapiente, un sommo sacerdote quello ch'egli vedeva svilupparsi in lui: un principe fra i Brahmini. La gioia gonfiava il petto di sua madre quand'ella lo guardava, quando lo vedeva camminare, quando lo vedeva sedere e alzarsi: Siddharta, così forte, così bello, che procedeva col suo passo snello, che la salutava con garbo così compìto. L'amore si agitava nel cuore delle giovani figlie dei Brahmini, quando Siddharta passava per le strade della città, con la sua fronte luminosa, con i suoi occhi regali, così slanciato e nobile nella persona. Ma più di tutti lo amava l'amico suo Govinda, il figlio del Brahmino. Amava gli occhi di Siddharta e la sua cara voce, amava il suo passo e il garbo perfetto dei movimenti, amava tutto ciò che Siddharta diceva e faceva, ma soprattutto ne amava lo spirito, i suoi alti, generosi pensieri, la sua volontà ardente, la vocazione sublime. Sapeva bene Govinda: questo non diventerà un Brahmino come ce n'è tanti, un pigro ministro di sacrifici, o un avido mercante d'incantesimi, un vano e vacuo retore, un prete astuto e cattivo, e non sarà nemmeno una buona, sciocca pecora nel gregge dei molti. No, e anch'egli, Govinda, non voleva diventare tale, un Brahmino come ce ne son migliaia. Voleva seguire Siddharta, il prediletto, il magnifico. E se un giorno Siddharta fosse diventato un dio, se fosse asceso un giorno nella gloria dei ce-lesti, allora Govinda l'avrebbe seguìto, come suo amico, suo compagno, suo servo, suo scudiere, sua ombra. Così tutti amavano Siddharta. A tutti egli dava gioia, tutti ne traevano piacere. Ma egli, Siddharta, a se stesso non procurava pia-cere, noti era di gioia a se stesso. Passeggiando sui sentieri rosati del frutteto, sedendo nell'ombra azzurrina del boschetto delle contemplazioni, purificando le proprie membra nel quotidiano lavacro di espiazione, celebrando i sacrifici nel bosco di mango dalle ombre profonde, con la sua perfetta compitezza d'atteggiamenti, amato da tutti, di gioia a tutti, pure non portava gioia in cuore.

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Lo assalivano sogni e pensieri irrequieti, portati fino a lui dalla corrente del fiume, scintillati dalle stelle della notte, dardeggiati dai raggi del sole; sogni lo assalivano, e un'agitazione dell'anima, vaporata dai sacrifici, esalante dai versi del Rig Veda, stillata dalle dottrine dei vecchi testi brahminici. Siddharta aveva cominciato ad alimentare in sé la scontentezza. Aveva cominciato a sentire che l'amore di . suo padre e di sua madre, e anche lo amore dell'amico suo. Govinda, non avrebbero fatto per sempre la sua eterna felicità, non gli avrebbero dato la quiete, non l'avrebbero saziato, non gli sarebbero bastati. Aveva cominciato a so-spettare che il suo. Degnissimo padre e gli altri suoi maestri, cioè i saggi Brahmini, gli avevano già impartito il più e il meglio della loro saggezza, avevano già versato interamente i loro vasi pieni nel suo recipiente in attesa, ma questo recipiente non s'era riempito, lo spirito non era soddisfatto, l'anima non era tranquilla, non placato il cuore. Buona cosa le abluzioni, certo: ma erano acqua, non lavavano via il peccato, non guarivano la sete dello spirito, non scioglievano gli affanni del cuore. Eccellente cosa i sacrifici e la preghiera agli dèi: ma questo era tutto? Davano i sacrifici la felicità? E come stava 'questa faccenda degli dèi? Era realmente Prajapati che aveva creato il mondo? Non era invece 1'Atman, l'unico, il solo, il tutto? Che gli dèi non fossero poi forme create, come tu e io, soggette al tempo ,caduche? Anzi, era poi bene, era giusto, era un atto sensato e sublime sacrificare agli dèi? A chi altri si doveva sacrificare, a chi altri si doveva rendere onore, se non a Lui, allo unico, all'Atman? E dove si poteva trovare 1'At man, dove abitava, dove batteva il suo eterno cuore, dove altro mai se non nel più pro(on o del proprio io, in quel che di indistruttibile ognuno porta in sé? Ma dove, dov'era questo Io, questa interiorità, questo assoluto? Non era carne e ossa, non era pensiero né coscienza: così insegnavano i più saggi. Dove, dove dunque era? Penetrare laggiù, fino all'lo, a me, all'Atman: c'era forse un'altra via che mettesse conto di esplorare? Ahimè! questa via nessuno la insegnava, nessuno la conosceva, non il padre, non i maestri e i saggi, non i pii canti dei sacrifici! Tutto sapevano i Brahmini e i loro libri sacri, tutto, e perfino qualche cosa di più; di tutto s'erano occupati, della creazione del mondo, della natura del linguaggio, dei cibi, dell'inspirare e dell'espirare, della gerarchia dei cinque sensi, dei fatti degli dèi ...cose infinite sapevano ... Ma valeva la pena saper tutto questo, se non si sapeva l'uno e il tutto, la cosa più impor-tante di tutte, la sola cosa importante? Certo, molti versi dei libri santi, specialmente nelle Upanishad di Samaveda, parlavano di questa interiorità e di quest'assoluto; splendidi versi. « La anima tua è l'intero mondo »: così vi stava scritto. E vi stava scritto che l'uomo nel sonno, nel pro-fondo sonno, penetra nel proprio Io e prende stanza nell'Atman. Meravigliosa saggezza stava in questi versi, tutta la scienza dei più saggi stava qui radunata in magiche parole, pura come miele. No, non si doveva certo far poco conto della prodigiosa conoscenza che qui era stata raccolta e conservata da innumerevoli generazioni di Brahmini. Ma dov'erano i saggi, dove i sacerdoti o i penitenti, ai quali fosse riuscito, non soltanto di conoscerla, questa profondissima scienza, ma di viverla? Dove era l'esperto che sapesse magicamente richiamare dal sonno allo stato di veglia l'esperienza dell'Atman, ricondurla nella vita quotidiana, nella parola e nell'azione? Molti degni Brahmini conosceva Siddharta, suo padre prima di tutti, il puro, il dotto, degno sopra ogni altro. Ammirabile era suo padre, nobile e calmo il suo contegno, pura la sua vita, saggia la sua parola, squisiti e alti pensieri avevan dimora dietro la sua fronte... ma anche lui, che tanto

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sapeva, viveva forse nella beatitudine, possedeva la pace, non era anche lui soltanto un uomo che cerca, un assetato? Non doveva egli sempre riattingere, come un assetato, alle sacre fonti, sacrifici, libri, conversazioni dei Brahmini? Perché doveva anche lui, l'irreprensibile, purificarsi ogni giorno dal peccato, affannarsi per le abluzioni, sempre da capo, ogni giorno? Dunque non era in lui 1'Atman, non zampillava nel suo cuore la fonte originaria? Eppure era questa che bisognava trovare: scoprire la fonte originaria nel proprio Io, e impadronirsene! Tutto il resto era ricerca, era errore e deviazione. Tali erano i pensieri di Siddharta, questa era la sua sete, questo il suo tormento. Spesso egli recitava a se stesso le parole di una Chandogya-Upanishad: « In verità, Satyam è il nome di Brahma: in verità, chi sa questo, ascende ogni giorno nel mondo celeste ». Spesso gli pareva vicino, il mondo celeste, ma mai l'aveva raggiunto interamente, mai aveva spento l'ultima sete. E di tutti i saggi e dottissimi ch'egli conosceva, valendosi del loro insegnamento, non uno ve n'era che l'avesse raggiunto interamente, il mondo celeste, non uno che interamente l'avesse spenta, l'eterna sete. « Govinda, » disse Siddharta all'amico « Govinda, caro, vieni con me sotto il banano: vogliamo esercitarci nella concentrazione ». Andarono verso il banano, sedettero a terra, qui Siddharta, vènti passi più in là Govinda. Mentre sedeva, pronto a pronunciare l’Om, Siddharta ripeteva mormorando i versi: Om è l'arco, la saetta è l'anima, bersaglio della saetta è Brahma, da colpire con immobile certezza. Quando il tempo consueto della concentrazione fu trascorso, Govinda si alzò. Era calata la sera, era tempo di cominciare l'abluzione vespertina. Govinda chiamò Siddharta per nome, ma non ottenne risposta. Siddharta sedeva assorto, i suoi occhi erano fissati rigidamente sopra una meta lontana, la punta della lingua spuntava un poco fra i denti: pareva ch'egli non respirasse. Così sedeva, immerso nella concentrazione, pensando l’Om, l'anima indi-rizzata a Brahma come una saetta. E un giorno passarono i Samana attraverso la città di Siddharta: asceti girovaghi, tre uomini secchi e spenti, né vecchi né giovani, con spalle impolverate e sanguinose, arsi dal sole, circondati di solitudine, estranei e ostili al mondo, forestieri nel regno degli uomini come macilenti sciacalli. Spirava da loro- un'aura di cheta passione, di devozione fino all'annientamento, di spietata rinuncia alla personalità. A sera, dopo l'ora dell'osservazione, Siddharta comunicò a Govinda: «Domani mattina per tempo, amico mio, Siddharta andrà dai Samana. Diventerà un Samana anche lui ». - A queste parole Govinda impallidì, e nel volto immobile dell'amico lesse la decisione, inarrestabile come la saetta, scagliata dall'arco. Subito, al primo sguardo, Govinda si rese conto: ora comincia, ora trova Siddharta la sua via, ora comincia il suo destino a germogliare, e con il suo il mio. E divenne pallido, come una buccia di banana secca. «O Siddharta, » esclamò « te lo permetterà tuo padre? Siddharta sollevò lo sguardo, come uno che si ridesta. Fulmineamente lesse nell'anima di Govinda: vi lesse la paura, vi lesse la dedizione. «O Govinda, » rispose sommessamente « è inutile sprecar parole. Domani all'alba comincerò la vita del Samana. Non parliamone più ». Siddharta entrò nella camera dove suo padre sedeva sopra una stuoia di corteccia, s'avanzò alle sue spalle e rimase là, fermo, finché suo padre s'accorse che c'era qualcuno

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dietro di lui. Disse il Brahmino: « Sei tu, Siddharta? Allora di' quel che sei venuto per dire ». Parlò Siddharta: « Col tuo permesso, padre mio. Sono venuto ad annunciarti che desidero abbandonare la casa domani mattina e recarmi fra gli asceti. Diventare un Samana, questo è il mio desiderio. Voglia il cielo che mio padre non si opponga ». Tacque il Brahmino: tacque così a lungo che nella piccola finestra le stelle si spostarono e il loro aspetto mutò, prima che venisse rotto il silenzio nella camera. Muto e immobile stava ritto il figlio con le braccia conserte, muto e immobile sedeva il padre sulla stuoia, e le stelle passavano in cielo. Finalmente parlò il padre: « Non s'addice a un Brahmino pronunciare parole violente e colleriche. Ma l'irritazione agita il mio cuore. Ch'io non senta questa preghiera una seconda volta dalla tua bocca ». Il Brahmino si alzò lentamente; Siddharta restava in piedi, muto, con le braccia conserte. « Che aspetti? » chiese il padre. Disse Siddharta: « Tu lo sai ». Irritato uscì il padre dalla stanza, irritato cercò il suo giaciglio e si coricò. Dopo un'ora, poiché il sonno tardava, il Brahmino si alzò, passeggiò in su e in giù, uscì di casa. Guardò attraverso la piccola finestra della stanza, e vide Siddharta in piedi, con le braccia conserte: non s'era mosso. Come un pallido bagliore emanava dal suo mantello bianco. Col cuore pieno d'inquietudine, il padre ritornò al suo giaciglio. E venne di nuovo dopo un'ora, venne dopo due ore, guardò attraverso la piccola finestra, vide Siddharta in piedi, nel chiaro di luna, al bagliore delle stelle, nelle tenebre. E ritornò ogni ora, in silenzio, guardò nella camera, vide quel ragazzo in piedi, immobile, ed il suo cuore si riempì di collera, il suo cuore si riempì di disagio, il suo cuore si riempì d'incertezza, il suo cuore si riempì di compassione. Ritornò nell'ultima ora della notte, prima che il giorno spuntasse, entrò nella stanza, vide il giovane in piedi, e gli parve grande, quasi straniero. «Siddharta, » chiese « che attendi? ». «Tu lo sai ». «Starai sempre così ad aspettare che venga giorno, mezzogiorno e sera? ». «Starò ad aspettare ». «Ti stancherai, Siddharta ». «Mi stancherò ». « Ti addormenterai, Siddharta ». «Non mi addormenterò ». «Morirai, Siddharta ». «Morirò ». «E preferisci morire, piuttosto che obbedire a tuo padre? ». «Siddharta ha sempre obbedito a suo padre ». « Allora rinunci al tuo proposito? ». « Siddharta farà ciò che suo padre gli dirà di fare ». Le prime luci del giorno entravano nella stanza. Il Brahmino vide che Siddharta tremava leggermente sulle ginocchia. Nel volto di Siddharta, in-vece, non si vedeva alcun tremito: gli occhi guardavano lontano. Allora il padre s'accorse che Siddharta non abitava già più con lui in quella casa: Siddharta l'aveva già abbandonato. Il padre posò la mano sulla spalla di Siddharta. « Andrai nella foresta, » disse « e diverrai un Samana. Se nella foresta troverai la beatitudine, ritorna, e insegnami la beatitudine. Se troverai la delusione, ritorna: riprenderemo insieme a sacrificare agli dèi. Ora va' a

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baciar tua madre, dille dove vai. Ma per me è tempo d'andare al fiume e di compiere la prima abluzione ». Tolse la mano dalla spalla di suo figlio, e uscì. Siddharta barcollò, quando provò a muoversi. Ma fece forza alle sue membra, s'inchinò davanti al padre e andò dalla mamma, per fare come suo padre aveva prescritto. Quando alle prime luci del giorno, lentamente, con le gambe indolenzite, lasciò la città ancora silenziosa, un'ombra, ch'era accucciata presso l'ultima capanna, si levò e s'unì al pellegrino: Govinda. «Sei venuto » disse Siddharta, e sorrise.

«Sono venuto » disse Govinda.

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RACCONTI BREVI DI

PAULO COELHO

LO STATUTO DEL NUOVO MILLENNIO

1. Gli uomini sono tutti diversi. E devono fare il possibile per continuare a esserlo.

2. A ogni essere umano sono stato concessi due tipi di comportamento: l'azione e la

contemplazione. Entrambi conducono alla stessa meta.

3. A ogni essere umano sono state concesse due proprietà: il potere e il dono. Il potere

porta l'uomo all'incontro con il proprio destino; il dono lo obbliga a condividere con gli

altri ciò che di meglio ha dentro di sé.

4. A ogni essere umano è stata donata una grande virtù: la capacità di scegliere. Chi non

la utilizza, la trasforma in una maledizione - e altri sceglieranno per lui.

5. Ogni essere umano ha diritto a due benedizioni: quella di essere nel giusto e quella di

sbagliare. La seconda prevede sempre un apprendistato che lo condurrà sulla strada

giusta.

6. Ogni essere umano possiede un proprio codice sessuale e deve praticarlo senza

sentirsi in colpa, purché non obblighi altri ad attuarlo insieme a lui.

7. Ogni essere umano ha una leggenda personale da compiere, e questa è la ragione

della sua esistenza nel mondo. La leggenda personale si manifesta nell'entusiasmo per il

proprio compito.

Una postilla. Si può abbandonare la propria leggenda per un certo tempo, purché non la

si dimentichi e ci si prodighi affinché riassuma il proprio ruolo appena possibile.

8. Ogni uomo possiede una componente femminile e ogni donna ha un elemento

maschile. È necessario usare la disciplina con intuizione e l'intuizione con obbiettività.

9. Ogni essere umano deve conoscere due linguaggi: il linguaggio della società e quello

dei segnali. Il primo serve per comunicare con il prossimo; il secondo, per comprendere i

messaggi di Dio.

10. Ogni essere umano ha il diritto di perseguire la gioi. Per “gioia” s'intende ciò che lo

rende felice - non necessariamente quello che fa felici gli altri.

11. Ogni essere umano deve mantenere viva dentro di sé la sacra fiamma della follia. E

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deve comportarsi come una persona normale.

Soltanto le seguenti mancanze sono considerate gravi: non rispettare il denaro del

prossimo, lasciarsi paralizzare dalla paura, sentirsi colpevole, ritenere di non meritare il

bene e il male che caratterizzano la vita e mostrarsi codardo.

Prima postilla. Ameremo i nostri nemici, ma non stringeremo mai alcuna alleanza con

loro. Sono stati posti sul nostro cammino affinché saggiassimo la nostra spada e meritano

il rispetto della nostra lotta.

Seconda postilla. Avremo la facoltà di scegliere i nostri nemici.

13. Tutte le religioni conducono allo stesso Dio, e meritano il medesimo rispetto.

Postilla. Nella scelta di una religione, in realtà un uomo sceglie anche una forma

collettiva di adorare e condividere i misteri. Tuttavia egli è l'unico responsabile delle

proprie azioni durante il cammino e non ha alcun diritto di riversare sulla religione la

responsabilità delle proprie decisioni.

14. Si decreta l'abbattimento del muro che separa il sacro dal profano: d'ora in poi, tutto

è sacro.

15. Tutto ciò che viene fatto nel presente riguarda il futuro come conseguenza e il

passato come redenzione.

16. Sono revocate tutte le disposizioni contrarie.

LA STORIA DELLA MATITA

Il bambino guardava la nonna che stava scrivendo la lettera. A un certo punto, le

domandò:

“Stai scrivendo una storia che è capitata a noi? E che magari parla di me. ”

La nonna interruppe la scrittura, sorrise e disse al nipote:

“È vero, sto scrivendo qualcosa di te. Tuttavia, più importante delle parole, è la matita

con la quale scrivo. Vorrei che la usassi tu, quando sarai cresciuto. ”

Incuriosito, il bimbo guardò la matita, senza trovarvi alcunché di speciale.

“Me è uguale a tutte le altre matite che ho visto nella mia vita! ”

“Dipende tutto dal modo in cui guardi le cose. Questa matita possiede cinque qualità: se

riuscirai a trasporle nell'esistenza sarai sempre una persona in pace col mondo.

“Prima qualità: puoi fare grandi cose, ma non devi mai dimenticare che esiste una Mano

che guida i tuoi passi. 'Dio': ecco come chiamiamo questa mano! Egli deve condurti

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sempre verso la Sua volontà.

“Seconda qualità, di tanto in tanto, devo interrompere la scrittura e usare il temperino.

È un'azione che provoca una certa sofferenza alla matita ma, alla fine, essa risulta più

appuntita. Ecco perché devi imparare a sopportare alcuni dolori: ti faranno diventare un

uomo migliore.

“Terza qualità: il tratto della matita ci permette si usare una gomma per cancellare ciò

che è sbagliato. Correggere un'azione o un comportamento non è necessariamente

qualcosa di negativo: anzi, è importante per riuscire a mantenere la retta via della

giustizia.

“Quarta qualità: ciò che è realmente importante nella matita non è il legno o la sua

forma esteriore, bensì la grafite della mina racchiusa in essa. Dunque, presta sempre

attenzione a quello che accade dentro te.

“Ecco la quinta qualità della matita: essa lascia sempre un segno. Allo stesso modo,

tutto ciò che farai nella vita lascerà una traccia: di conseguenza impegnati per avere

piena coscienza di ogni tua azione. ”

IL MOMENTO DELL’AURORA

Un rabbino riunì i suoi allievi e domandò loro:

“Come possiamo conoscere il momento preciso in cui finisce la notte e comincia il

giorno? ”

“Quando, a una certa distanza, siamo in grado di distinguere una pecora da un cane, ”

disse un ragazzino.

“In verità, si può affermare che è ormai giorno quando, a una certa distanza, siamo in

grado di distinguere un olivo da un fico, ” replicò un altro allievo.

“Non sono soluzioni particolarmente convincenti. ”

“Qual è la risposta giusta allora? ” domandarono tutti.

e il rabbino disse:

“Quando si avvicina uno straniero e noi lo confondiamo con un nostro fratello, ponendo

fine a ogni conflitto. Ecco, questo è il momento in cui finisce la notte e comincia il

giorno. ”

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I MONACI E IL SECCHIO

Uno dei monaci del monastero di Sceta commise una grave mancanza, e così fu chiamato

l'eremita più saggio perché potesse giudicarla. L'eremita si rifiutò, ma i monaci

insistettero tanto che lui finì per andare. Prima, però, prese un secchio e lo forò in vari

punti. Poi, lo riempì di sabbia e s'incamminò verso il convento. Il superiore, vedendolo

entrare, gli domandò che cosa fosse.

"Sono venuto a giudicare il mio prossimo - disse l'eremita -. I miei peccati stanno

scorrendo dietro di me, come scorre la sabbia di questo secchio. Ma, siccome non mi

guardo alle spalle e non mi rendo conto dei miei stessi peccati, sono stato chiamato a

giudicare il mio prossimo!"

I monaci allora rinunciarono alla punizione all'istante.

LA CITTA' DALL'ALTRO LATO

Un eremita del monastero di Sceta si avvicinò all’abate Teodoro: “So esattamente qual è

l’obiettivo della vita. So che cosa Dio chiede all’uomo, e conosco la maniera migliore di

servirlo. E, tuttavia, sono incapace di fare tutto quello che dovrei fare per servire il

Signore”. L’abate Teodoro rimase in silenzio per lungo tempo. Infine disse: “Voi sapete

che esiste una città dall’altro lato dell’oceano. Ma non avete ancora trovato la nave,

non avete portato a bordo il vostro bagaglio e non avete attraversato il mare. Perché,

dunque, continuare a discutere su come essa è, o su come dobbiamo camminare per le

sue strade?". “Sapere l’obiettivo della vita, o conoscere la maniera migliore di servire il

Signore non basta. Mettete in pratica ciò che pensate e il cammino si mostrerà da solo”.

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LA STORIA DELLE DUE RANE

Ci sono momenti in cui la pazienza – per quanto difficile sia esercitarla – è l’unica

maniera per affrontare determinati problemi. La famosa storia che segue lo illustra

molto bene. Due rane caddero in una brocca di latte. Una era grande e forte, ma

impaziente e, confidando nella propria forza fisica, lottò per tutta la notte, dibattendosi

per fuggire. L’altra rana era piccola e fragile. Poiché sapeva di non avere l’energia per

lottare contro il proprio destino, decise di abbandonarsi. Con le zampe fece solo i

movimenti necessari per mantenersi a galla, sapendo che prima o poi sarebbe morta.

“Quando non si può fare niente, non si deve fare niente”, pensava lei. E così le due rane

trascorsero la notte: una nel tentativo disperato di salvarsi, l’altra accettando con

tranquillità il proprio destino. Esausta per lo sforzo, la rana più grande non ce la fece

più e morì annegata. L’altra rana riuscì a tenersi a galla per tutta la notte e quando, la

mattina seguente, decise di abbandonarsi alla morte, notò che i movimenti della sua

compagna avevano trasformato il latte in burro. Allora non dovette fare altro che saltare

fuori dalla brocca.

LA MELODIA DIVINA

Zaki udì lo Xá domandare ai suoi amici quale fosse la più bella melodia sulla Terra. “Il

suono del flauto”, disse uno. “Il canto degli uccelli”, rispose un altro. “La voce di una

donna”, commentò un terzo. Conversarono tutta la notte, senza giungere a nessuna

conclusione. Alcuni giorni dopo, Zaki invitò lo Xá e i suoi amici a cena. Nel salone, la

migliore orchestra del mondo suonò delle bellissime canzoni, ma non c’era cibo sul

tavolo. Verso la mezzanotte, Zaki servì un raffinato banchetto. “Che suono divino è il

tintinnare di piatti e posate, dopo esser stati tante ore senza mangiare”, commentò lo

Xá. “In questo modo sto rispondendo alla vostra domanda sulla più bella melodia della

Terra”, rispose Zaki. Può essere la voce della donna amata, il canto degli uccelli, il

tintinnare dei piatti, il respiro della persona cara. Ma sarà sempre il suono che il nostro

cuore ha bisogno di udire in quel momento”.

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IL COMPITO PIU’ DIFFICILE

Uno dei giovani che studiavano con Nasrudin volle sapere: “Qual è il più grande di tutti

gli uomini: quello che ha conquistato un impero, quello che ha avuto tutte le possibilità

di farlo, ma ha rinunciato al desiderio, oppure quello che ha impedito che un altro lo

facesse?” “Non ne ho la minima idea,” rispose il saggio sufi. “Ma conosco un compito

molto più difficile di quelli che sono stati appena citati". “E qual è?” “Impedirvi di star

lì ad analizzare ciò che gli altri hanno fatto, e insegnarvi a preoccuparvi di ciò che voi

stessi potete fare.”

LA PREGHIERA CHE DIO COMPRENDEVA

Nell’anno 1502, durante la conquista dell’America, un missionario spagnolo era in visita

su un’isola deserta vicino al Messico, quando incontrò tre sacerdoti aztechi. “Come

pregate voi?”, domandò il prete. “Abbiamo solo una preghiera”, rispose uno degli

aztechi. “Diciamo: O mio Dio, Tu sei tre, e noi siamo tre. Abbi pietà di noi.” “È una

bella preghiera, ma Dio non capisce queste parole. Vi insegnerò una preghiera che Dio

ascolta”, disse allora il missionario. Prima di proseguire per la sua strada, fece in modo

che gli indios aztechi imparassero a memoria una preghiera cattolica. Il missionario

evangelizzò vari popoli e compì la sua missione con uno zelo esemplare. Dopo aver

trascorso lungo tempo predicando la parola della Chiesa nel continente americano,

giunse per lui il momento di tornare in Spagna. Sulla via del ritorno, passò per la stessa

isola dove era stato alcuni anni prima. Mentre la caravella si avvicinava, il prete vide i

tre sacerdoti che camminavano sull’acqua, facendo segno affinché la caravella si

fermasse. “Padre! Padre!” urlava uno di loro. “Per favore, torna a insegnarci la

preghiera che Dio ascolta, perché non riusciamo a ricordarla!” “Non importa,” rispose il

missionario, nel vedere il miracolo. E chiese perdono a Dio, per non aver compreso che

Egli parlava tutte le lingue.

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LA PARTE PIU' IMPORTANTE

Un gruppo di saggi si riunì per decidere quale fosse la parte più importante del corpo. Un

endocrinologo affermò che erano le ghiandole, perché regolavano le funzioni; il

neurologo disse che era il cuore, perché senza di esso le ghiandole non funzionavano. Il

nutrizionista decretò che era lo stomaco perché, senza alimento, il cuore non aveva le

forze per battere. Il più saggio di tutti ascoltava in silenzio. Siccome gli altri non

giungevano ad alcun accordo, vollero conoscere la sua opinione. “Tutte queste parti

sono fondamentali per la vita”, disse il più saggio. “Se ne manca una, il corpo muore.

Eppure la parte più importante non esiste: è il canale immaginario che lega l’udito alla

lingua. Se questo canale ha dei problemi, l’uomo comincia a dire cose che non ha udito

e, a quel punto, non solo il corpo muore, ma l’anima è condannata per sempre”.

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TRATTO DA OCEANO MARE

ALESSANDRO BARICCO

Libro Primo LOCANDA ALMAYER

1

Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare - il mare - nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord.

La spiaggia. E il mare. Potrebbe essere la perfezione - immagine per occhi divini - mondo che accade e

basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità - verità - ma ancora una volta è il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo di quel paradiso, un’inezia che basta da sola a sospendere tutto il grande apparato di inesorabile verità, una cosa da nulla, ma piantata nella sabbia, impercettibile strappo nella superficie di quella santa icona, minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della spiaggia sterminata. A vederlo da lontano non sarebbe che un punto nero: nel nulla, il niente di un uomo e di un cavalletto da pittore.

Il cavalletto è ancorato con corde sottili a quattro sassi posati nella sabbia. Oscilla impercettibilmente al vento che sempre soffia da nord. L’uomo porta alti stivali e una grande giacca da pescatore. Sta in piedi, di fronte al mare, rigirando tra le dita un pennello sottile. Sul cavalletto, una tela.

È come una sentinella - questo bisogna capirlo - in piedi a difendere quella porzione di mondo dall’invasione silenziosa della perfezione, piccola incrinatura che sgretola quella spettacolare scenografia dell’essere. Giacché sempre è così, basta il barlume di un uomo a ferire il riposo di ciò che sarebbe a un attimo dal diventare verità e invece immediatamente torna ad essere attesa e domanda, per il semplice e infinito potere di quell’uomo che è feritoia e spiraglio, porta piccola da cui rientrano storie a fiumi e l’immane repertorio di ciò che potrebbe essere, squarcio infinito, ferita meravigliosa, sentiero di passi a migliaia dove nulla più potrà essere vero ma tutto sarà - proprio come sono i passi di quella donna che avvolta in un mantello

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viola, il capo coperto, misura lentamente la spiaggia, costeggiando la risacca del mare, e riga da destra a sinistra l’ormai perduta perfezione del grande quadro consumando la distanza che la divide dall’uomo e dal suo cavalletto fino a giungere a qualche passo da lui, e poi proprio accanto a lui, dove diventa un nulla fermarsi - e, tacendo, guardare.

L’uomo non si volta neppure. Continua a fissare il mare. Silenzio. Di tanto in tanto intinge il pennello in una tazza di rame e abbozza sulla tela pochi tratti leggeri. Le setole del pennello lasciano dietro di sé l’ombra di una pallidissima oscurità che il vento immediatamente asciuga riportando a galla il bianco di prima. Acqua. Nella tazza di rame c’è solo acqua. E sulla tela, niente. Niente che si possa vedere.

Soffia come sempre il vento da nord e la donna si stringe nel suo mantello viola. — Plasson, sono giorni e giorni che lavorate quaggiù. Cosa vi portate in giro a fare tutti quei colori se non avete il coraggio di usarli?

Questo sembra risvegliarlo. Questo l’ha colpito. Si gira a osservare il volto della donna. E quando parla non è per rispondere. — Vi prego, non muovetevi —, dice.

Poi avvicina il pennello al volto della donna, esita un attimo, lo appoggia sulle sue labbra e lentamente lo fa scorrere da un angolo all’altro della bocca. Le setole si tingono di rosso carminio. Lui le guarda, le immerge appena nell’acqua, e rialza lo sguardo verso il mare. Sulle labbra della donna rimane l’ombra di un sapore che la costringe a pensare “acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare” - ed è un pensiero che dà i brividi.

Lei si è già voltata da tempo, e già sta rimisurando l’immensa spiaggia con il matematico rosario dei suoi passi, quando il vento passa sulla tela ad asciugare uno sbuffo di luce rosea, nudo a galleggiare nel bianco. Si potrebbe stare ore a guardare quel mare, e quel cielo, e tutto quanto, ma non si potrebbe trovare nulla di quel colore. Nulla che si possa vedere.

La marea, da quelle parti, sale prima che arrivi il buio. Poco prima. L’acqua circonda l’uomo e il suo cavalletto, se li piglia, adagio ma con precisione, restano lì, l’uno e l’altro, impassibili, come un’isola in miniatura, o un relitto a due teste.

Plasson, il pittore. Viene a prenderselo, ogni sera, una barchetta, poco prima del tramonto, che l’acqua

gli è già arrivata al cuore. È così che vuole, lui. Sale sulla barchetta, ci carica il cavalletto e tutto, e si lascia riportare a casa. La sentinella se ne va. Il suo dovere è finito. Scampato pericolo. Si spegne nel tramonto l’icona che ancora una volta non è riuscita a diventare sacra. Tutto per quell’ometto e i suoi pennelli. E ora che se n’è andato, non c’è più tempo. Il buio sospende tutto. Non c’è nulla che possa, nel buio, diventare vero.

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ANALIZZARE UN

TESTO LETTERARIO

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TESTO IN PROSA

Analizzare e commentare un brano letterario in prosa significa non solo comprendere a fondo il testo in ogni sua parte, ma anche interpretare i messaggi, approfondirne i temi, esprimere opinioni ed elaborare fondati giudizi critici.

IL LAVORO PRELIMINARE

Occorre innanzitutto:

- leggere attentamente il testo - suddividere il brano in sequenze - sintetizzarle brevemente - definire la funzione (che può essere obiettiva, narrativa, riflessiva, lirica,

espositiva, dialogica, argomentativa)

NOTA BENE

Le sequenze descrittiva sono unità appositamente formulate da chi narra per descrivere in modo dettagliato un luogo, una persona, un animale, un fenomeno, uno stato d’animo. Esse rallentano l’azione, in quanto al loro interno non accadono eventi.

Le sequenze narrative sono imperniate sull’azione, quindi fanno procedere la narrazione (al contrario delle sequenze descrittive).

Le sequenze riflessive riportano commenti, giudizi o riflessioni del narratore o dei personaggi della storia. Anche queste sequenze, come quelle descrittive, determinano un arresto della narrazione e, come quelle, si possono definire statiche.

Le sequenze liriche sono caratterizzate da un linguaggio proprio della poesia, ricco di immagini e di figure retoriche (es. “Addio ai monti” nei Promessi Sposi).

Le sequenze espositive forniscono, in modo chiaro e preciso, informazioni e spiegazioni necessarie per comprendere una situazione.

Le sequenze dialogiche consistono nei dialoghi dei personaggi, riportati sotto forma di discorso diretto.

Le sequenze argomentative si hanno quando il narratore o i personaggi enunciano una loro precisa posizione per giustificare il proprio pensiero o per convincere il proprio interlocutore. Ciò avviene attraverso la formulazione di una tesi sostenuta con argomenti considerati validi e convincenti per giungere ad una solida conclusione.

Si procede poi a:

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Sottolineare i passaggi e le informazioni più significative, ossia

- tempi, luoghi, personaggi, eventi principali se si tratta di un testo narrativo - argomento, tesi se si tratta di un testo argomentativi - informazioni principali e idea centrale se si tratta di un testo espositivo

Analizziamo singolarmente i vari punti: I TEMPI L’analisi del tempo concerne il periodo storico in cui si svolge la vicenda, deducibile da precise informazioni fornite dal narratore o individuabile mediante elementi interni al testo (oggetti, abitudini, stili di vita, ecc.) Può, tuttavia, accadere che, per scelta dello stesso autore, il tempo rimanga indeterminato. Di solito una narrazione comporta un’estensione temporale diversa rispetto a quella dei fatti raccontati: l’arco di tempo reale degli avvenimenti (tempo della storia = durata reale), cioè, non corrisponde al tempo che gli avvenimenti hanno sulla pagina (tempo del racconto = durata della narrazione). L’autore può dilatare il tempo del discorso con lunghe descrizioni o accelerarlo. Vediamo in che modo:

a) utilizzando la digressione il narratore fornisce al lettore notizie aggiuntive di contorno su fatti, eventi storici o personaggi non strettamente legati allo sviluppo della vicenda (es. la digressione su Gertrude nei Promessi Sposi).

b) ricorrendo al sommario il narratore vuole accelerare il ritmo del racconto sintetizzando certi avvenimenti sui quali non ritiene necessario soffermarsi.

c) con l’eclissi il narratore decide di omettere completamente un’intera serie di eventi perché non li ritiene importanti ai fini della comprensione della vicenda. L’eclissi abbrevia il tempo del racconto, accelerandone il ritmo in modo ancor più marcato del sommario.

I LUOGHI La descrizione dei luoghi, sia interni che esterni, consente al lettore di definire l’ambiente in cui si svolge la vicenda:

- se un racconto è ambientato in una foresta tropicale, l’atmosfera ci predispone ad assistere ad una vicenda avventurosa

- se è ambientato in un lugubre castello, ci attendiamo una storia ricca di mistero - a volte il luogo acquisisce un valore fortemente simbolico: nel “Giorno” (Parini)

prevalgono gli spazi chiusi perché l’autore vuole dare al lettore il senso di un mondo nobiliare morto, privo di energie vitali, chiuso nel suo spazio inviolabile fino all’asfissia.

I PERSONAGGI Costituiscono un elemento fondamentale del racconto. Si distinguono in base al ruolo svolto nella vicenda tra:

- protagonista la figura principale al centro dell’azione

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- antagonista colui che frappone ostacoli, crea difficoltà al protagonista - aiutante colui che agevola il protagonista o l’antagonista - oggetto la figura del personaggio oggetto dell’interesse del

protagonista Il narratore costruisce un personaggio mediante tratti che ne delineano i contorni e ne costituiscono la fisionomia. La caratterizzazione del personaggio può essere: fisica: sesso, aspetto fisico, abbigliamento, ecc. psicologica: carattere, indole comportamentale: abitudini, rapporti con gli altri, modo di muoversi, di parlare socio – economica: lavoro svolto, cultura, tipo di vita, aspirazioni ideologica: l’insieme di valori e idee in cui il personaggio si riconosce

Esistono due differenti tipologie di personaggi:

1) personaggi statici: sono quelli che durante lo sviluppo delle vicende mantengono inalterate le loro caratteristiche e non subiscono trasformazioni (es. Don Abbondio)

2) personaggi dinamici: sono capaci di accentuata evoluzione psicologica che conduce a sostanziali trasformazioni della personalità (es. Renzo matura e diventa più attento e responsabile alla conclusione della vicenda)

LE TECNICHE NARRATIVE

Sono costituite dalle scelte linguistiche e stilistiche. L’analisi delle tecniche narrative comporta l’esame accurato di alcune componenti:

NARRATORE PAROLE E PENSIERI DEI PERSONAGGI REGISTRI

STRUTTURA DEI PERIODI

1. NARRATORE La narrazione non è necessariamente condotta dall’autore stesso del romanzo o del racconto: chi espone la storia può essere il protagonista della vicenda, un altro personaggio o un narratore fuori campo che ci fa conoscere gli eventi senza prendervi parte. Occorre individuare la tipologia e il punto di vista:

a) Tipologia - Narratore interno: il narratore può essere costituito dal protagonista

della vicenda oppure da un’altra persona che vi partecipa o è solo testimone dei fatti. Si esprime alla prima persona singolare. Un esempio di narratore interno è il personaggio Mattia Pascal di Pirandello

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- Narratore esterno: racconta i fatti, le parole, i pensieri dei personaggi rimanendo al di fuori della storia ed esprimendosi alla terza persona singolare. E’ pura voce narrante e, come tale, può presentare la storia in modo oggettivo (se non interviene nella narrazione) o soggettivo (se inserisce nella narrazione commenti, valutazioni e giudizi). Un esempio di narratore esterno è costituito dalla voce narrante che racconta le vicende della guerra di Troia (Iliade)

Può accadere che durante il racconto il narratore iniziale, che definiremo di primo grado, ceda la funzione del narratore ad un’altra voce narrante, che chiameremo narratore di secondo grado (a sua volta interno o esterno).

b) Punto di vista o focalizzazione E’ l’angolazione con cui il narratore racconta la vicenda. Ne esistono di tre tipi:

- Focalizzazione esterna. E’ il punto di vista di un narratore esterno che non si lascia coinvolgere nella narrazione, ma si limita a registrare solo ciò che vede in un determinato luogo o momento, senza esprimere giudizi. Tecnica impiegata nei romanzi polizieschi, nei romanzi veristi o neorealisti, ove l’autore si eclissa per lasciare parlare i fatti.

- Focalizzazione interna. E’ il punto di vista di un narratore interno che presenta la vicenda in base alla sua particolare ottica, secondo una prospettiva parziale e soggettiva. Un esempio: Zeno Cosini protagonista de “La coscienza di Zeno” (Svevo).

- Focalizzazione zero. Si ha quando il racconto è condotto da un narratore onnisciente, il quale tutto sa e conosce (anche i pensieri e i sentimenti dei personaggi), tutto vede e tutto giudica della vicenda che espone. Un esempio: la narrazione nei Promessi Sposi è condotta secondo tale prospettiva.

2. PAROLE E PENSIERI DEI PERSONAGGI Variano in base al punto di vista. Se il narratore è onnisciente prevale il discorso indiretto (di solito introdotto da

verbi quali pensare, dire, affermare, chiedere…es. Ha detto che era stanca). Se si ha la focalizzazione esterna prevale il discorso diretto: in pratica l’autore

cede la parola ai personaggi (es. Ha detto: “Sono stanca”). Il discorso diretto può avere varie forme:

- Dialogo: scambio di battute tra due o più personaggi - Soliloquio: un personaggio parla tra sé e sé in prima persona - Flusso di coscienza: il narratore riporta i pensieri così come si

presentano nel loro libero e casuale fluire nella mente del personaggio Se si ha la focalizzazione interna prevale il discorso indiretto libero: uso di forme

proprie del discorso indiretto con omissione dei verbi reggenti, come diceva, pensava che… (es. Malpelo fu colto da una tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo, la zappa)

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3. REGISTRI

Se l’autore usa vocaboli vari, citazioni colte, una sintassi molto studiata e riccamente elaborata, usa un registro aulico e solenne.

Se il lessico è studiato ma sobrio, senza ricercatezze, la sintassi è elegante ma senza eccessi il registro è formale.

Se la scelta lessicale è precisa ma non particolarmente studiata, la sintassi corretta, ma l’autore si astiene da qualunque eleganza il registro è medio.

Se i vocaboli sono generici, la sintassi è semplificata o tipica del parlato e talora si avvale di espressioni gergali o dialettali il registro è colloquiale.

4. STRUTTURA DEI PERIODI Il modo di costruire le frasi costituisce un elemento fondamentale dello stile di un autore e influisce sul ritmo narrativo.

Se la sintassi è semplice, scarna e il periodo strutturato su frasi per lo più brevi, indipendenti accostate tra di loro da una virgola o da una congiunzione si ha la coordinazione o paratassi. Essa contribuisce a determinare un ritmo narrativo stringato, veloce, talora addirittura concitato o affannoso.

Se invece la sintassi è elaborata e presenta frasi lunghe e complesse, costituite da proposizioni principali dalle quali dipendono varie proposizioni secondarie si ha la subordinazione o ipotassi. Tale modalità espressiva, che la nostra lingua ha ereditato direttamente dalla prosa latina, contribuisce a determinare un ritmo narrativo più lento.

INQUADRAMENTO STORICO – LETTERARIO

Può riguardare

- L’inserimento dell’autore e della sua opera in una particolare corrente letteraria.

- La sua contestualizzazione storica - Il confronto con la produzione di altri autori noti - L’analisi di ideologie, correnti politiche e letterarie contemporanee estranee o

opposte a quelle dell’autore

APPROFONDIMENTI E RIFLESSIONI

Sono rielaborazioni che si basano su elementi evidenziati nella precedente fase di lavoro, come ad esempio l’analisi specifica di un motivo ricorrente nella produzione letteraria di un autore. Le riflessioni consistono nell’apporto critico personale relativo al brano in esame. Non è sufficiente riportare i propri sentimenti e le emozioni suscitate dal testo, ma occorre sostenerli con opportune argomentazioni. Si può anche essere invitati ad esprimere:

- Giudizi sull’ideologia e sui valori desumibili dal testo - Confronti tra personaggi

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- Confronti tra la vicenda narrata e altri aventi analoghi reali o fittizi, passati o presenti, raccontati dallo stesso o da altri autori. Questo settore richiede competenze non solo letterarie, ma anche di carattere storico o di attualità, oltre che una buona capacità di giudicare i fatti

- Commenti sulle tecniche stilistiche e sulle modalità espressive

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BIOGRAFIE

DEGLI AUTORI

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ALESSANDRO BARICCO (Torino, 25 gennaio 1958)

E’ uno scrittore, saggista, critico musicale, conduttore televisivo, pianista, sceneggiatore e regista italiano, fra i più noti esponenti della narrativa italiana contemporanea. Ha pubblicato alcuni saggi di critica musicale (la passione per la musica classica gli è stata trasmessa dai genitori, e la sua cultura in questo campo è frutto del suo studio personale. È inoltre diplomato in pianoforte al Conservatorio): Il genio in fuga (1988), su Rossini, e L'anima di Hegel e le mucche del Wisconsin (1992), sul rapporto tra musica e modernità. Collabora come critico musicale per Repubblica e sulla pagina culturale per La Stampa. Durante gli anni novanta Baricco si afferma pubblicando i romanzi: Castelli di rabbia (1991), Oceano mare (1993), Seta (1996) che non ha raggiunto il pieno consenso della critica, City (1999), Senza sangue (2002). Nel 1994 esce Novecento. Un monologo, non un vero e proprio romanzo quanto un lavoro teatrale (con Eugenio Allegri e la regia di Gabriele Vacis a partire dal 1994, con Arnoldo Foà in un nuovo allestimento nel 2003) e un film, La leggenda del pianista sull'oceano di Giuseppe Tornatore. Nel 2004 pubblica Omero, Iliade (Feltrinelli), un lavoro sulla traduzione di Maria Grazia Ciani dell'Iliade da cui Baricco trae un reading teatrale.

ANTON CECHOV (Taganrog, 1860 - Badenweiler, Germania, 1904). Novelliere sommo ed autore di opere teatrali la cui novità ispirò, all’inizio del XX secolo, al regista Stanislavski una teoria della recitazione fondata sulla ricerca della sincerità, sull’espressione degli stati d’animo e dei mezzi toni, Cechov, allo stesso tempo medico ed uomo di lettere, creò un’opera che fu inizialmente sinonimo di nostalgia sentimentale e d’esotismo slavo. Nipote di servo, figlio di droghiere, Anton Cechov nasce nel 1860 a Taganrog, porto del Mar d’ Azov. L’ infanzia all’ombra di un padre tirannico, in una famiglia di sei figli, è difficile. Sognatore, innamorato della natura, apprende rapidamente a sopravvivere in solitudine al centro di una famiglia numerosa ed all’ombra della tirannia paterna. Dopo avere terminato il liceo, raggiunge nel 1879 i genitori, che, a seguito del fallimento del padre, si sono trasferiti a Mosca. La pubblicazione de L’isola di Sakalin, nel 1893, avrà per conseguenza l’abrogazione delle punizioni corporali, oggetto della sua denuncia. Nel 1891, Cechov si reca sia in Francia, dove tornerà per farsi curare nel 1894 e nel 1897, sia in Italia. Nonostante il suo entusiasmo per Firenze e Venezia, ha nostalgia della Russia e della pianura moscovita; acquista, nel 1892, una proprietà a Melikhovo, dove riunisce la sua famiglia. L’autore-medico si fa giardiniere. In una casetta che fa costruire lontano dalla residenza invasa da visitatori, scrive La camera n° 6, Il Monaco nero, Racconti di uno sconosciuto ed Il gabbiano. Dopo avere assistito al trionfo della sua ultima commedia, Il Giardino dei ciliegi, in cerca di una guarigione, viaggia in Germania con sua moglie. Ma muore in viaggio, nel luglio del 1904, a Badenweiler. Ha quarantaquattro anni.

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PAULO COELHO (Rio de Janeiro, 24 agosto 1947)

Paulo Coelho è nato a Rio de Janeiro, in Brasile, nell’agosto del 1947. Ha condotto una vita molto intensa. Prima di acquisire una notorietà internazionale e divenire un autore di best-seller mondiali, ha dovuto superare molti ostacoli. Durante l’adolescenza, ha subito la brutale terapia degli elettroshock: accadde quando, tra il 1966 e il 1968, i genitori lo fecero ricoverare per tre volte in un ospedale psichiatrico, reputando un segno di pazzia il suo atteggiamento ribelle. A causa della frequentazione di alcuni ambienti artistici, venne incarcerato e sottoposto alla tortura fisica per presunte attività sovversive contro la dittatura brasiliana.

Più tardi, Paulo Coelho incontrò la rock-star Raul Seixas e aderì al movimento hippie, vivendo quella che venne considerata l’età “dell’amore e della pace”, l’epoca di “sesso, droga e rock’n’roll”. Insieme, tra il 1973 e il 1982, i due artisti composero circa 120 canzoni, che rivoluzionarono la musica pop in Brasile – alcune di esse sono ancora oggi dei successi. Hérica Marmo ha descritto questo periodo della sua vita nel libro A Canção do Mago. A trajetória musical de Paulo Coelho, pubblicato nel 2007. Hippie, giornalista, rock-star, attore, commediografo, regista teatrale e produttore televisivo... un vortice di attività che si interruppe nel 1982, durante un viaggio in Europa. A Dachau, e qualche tempo dopo ad Amsterdam, Paulo ebbe un incontro mistico con “J”, il suo futuro mentore, che lo convinse a percorrere il Cammino di Santiago de Compostela, un pellegrinaggio medievale la cui strada si snoda tra Francia e Spagna. Nel 1986, all’età di 38 anni, Paulo Coelho percorse il Cammino di Santiago: fu lì che riabbracciò il cristianesimo, ritrovando quella fede che gli era stata trasmessa dai gesuiti durante il periodo della scuola. Coelho avrebbe descritto questa esperienza nel suo primo libro, Il Cammino di Santiago, pubblicato nel 1987. L’anno successivo, uscì la sua seconda opera, L’Alchimista, quella che gli consentì di ottenere una fama mondiale. Oggi il romanzo viene considerato un classico moderno, ed è ammirato universalmente. La storia raccontata – che molti giudicano senza tempo – è destinata a incantare e a ispirare intere generazioni di futuri lettori. L’Alchimista fu seguito da Brida (1990), Il dono supremo (1991, un’opera che trae spunto da un testo di Henry Drummond), Le Valchirie (1992), Maktub (1994), Sulla sponda del fiume Piedra mi sono seduta e ho pianto (1994), Monte Cinque (1996), Lettere d’amore del Profeta (1997, basato su un lavoro di Kahlil Gibran), Il manuale del guerriero della luce (1997), Veronika decide di morire (1998) e Il Diavolo e la Signorina Prym (2000). Tra le pubblicazioni più recenti si ricordano: Undici minuti (2003), Lo Zahir (2005), Sono come il fiume che scorre (2006), La strega di Portobello (2007) e Il vincitore è solo (2009), Le valchirie (2010), Aleph (2011), Il manoscritto ritrovato ad Accra (2012) tutti editi in Italia da Bompiani.

ANTOINE DE SAINT – EXUPÉRY ( Lione, 1900 - Mare Tirreno, 1944)

Scrittore francese. Di famiglia aristocratica, cattolica e tradizionalista, ebbe un’infanzia turbata dalla morte del padre e oppressa dalla monotonia della vita di collegio. Pilota militare nel 1921, scoprì nel volo un’appassionante occasione di libertà, di autonoma ricerca di identità. Dal ’26, come pilota civile, si dedicò ad avventurosi voli intercontinentali, legando alle proprie esperienze dirette una pratica letteraria

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destinata a diventare sempre più importante nella definizione del proprio rapporto con il mondo. Esordì con una novella, L’aviatore (L’aviateur, 1926), ma si affermò come romanziere con Corriere del Sud (Courrier Sud, 1928), entusiastico appello al superamento del quotidiano attraverso una costante tensione morale ed emozionale. Gli interessi di S.-E. per un’etica dell’azione si precisarono nel successivo romanzo Volo di notte (Vol de nuit, 1931), pubblicato con una prefazione di André Gide e diventato anche il nome di uno dei più famosi profumi della storia, ideato da Guerlain. Nel 1935, durante uno sfortunato raid New York-Terra del Fuoco, riportò ferite gravissime; dalla lunga convalescenza nacque il romanzo Terra degli uomini (Terre des hommes, 1939), amara riflessione sulla civiltà occidentale contemporanea, alla luce di un certo misticismo: alla civiltà industriale, ai suoi sistemi politici e ideologici, venivano contrapposti i valori «eterni» del sacrificio, dell’amicizia e dell’onore. Non a casa questo titolo ha ispirato il nome di una delle organizzazioni internazionali difesa dei diritti dell'infanzia in difficoltà senza discriminazioni di ordine politico, razziale o religioso.

Scoppiata la guerra, S.-E. si arruolò nei reparti di ricognizione; ma, dopo l’armistizio, riparò negli Stati Uniti e alla tragica esperienza della disfatta francese dedicò il romanzo Pilota di guerra (Pilote de guerre, 1942), in cui emergono motivi di religiosità cattolica.

ERNST HEMINGWAY (Illinois 21 luglio 1899 – Idaho 2 luglio 1961)

Ernest Miller Hemingway nasce a Oak Park, nell’Illinois, il 21 luglio del 1899, alle otto del mattino. Hemingway si diplomò nel 1917 alla Oak Park High School, dove la sua inclinazione e il suo talento per le lettere vennero presto notati e incoraggiati da alcuni insegnanti. Mentre sua madre, Grace, avrebbe voluto per il figlio una carriera da violoncellista, il giovane Hemingway si mostrava incline alle stesse passioni che il padre gli aveva trasmesso: l’amore per la caccia, la pesca e la vita all’aria aperta. Lasciò l'università per la scuola di giornalismo.

Nell’ottobre del 1917 venne assunto come cronista dal «Kansas City Star», ma l’intervento degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale lo stimolarono a offrirsi volontario per combattere in Europa. Verrà tuttavia riformato a causa di un difetto alla vista e, lasciato lo «Star», nel 1918 si arruolerà, insieme con un amico, come autista di ambulanze della Croce Rossa. Quella stessa estate, dopo la traversata dell’Atlantico e brevi soste a Parigi e Milano, si era trovato sul fronte italiano. A Fossalta di Piave, in particolare, dopo essere stato colpito e ferito dalle schegge di un proiettile, finì in un ospedale milanese dove rimase per tre mesi subendo numerose operazioni alla gamba. Qui si innamorò di Agnes Hannah von Kurowsky, un’infermiera americana di origine tedesca. La ragazza, tuttavia, respinse la domanda di matrimonio di Hemingway il quale, ritiratosi dalla Croce Rossa, decise di ritornare a combattere nell’esercito italiano fino all’armistizio.

Riattraversato l’oceano e nel 1919 sbarcò negli Stati Uniti dove venne trionfalmente accolto dalla stampa ed elogiato per il suo coraggio e la resistenza al dolore.

Nel 1923 a Parigi uscì il primo libro di Hemingway, Three Stories e Two Poems. Il 10 ottobre dello stesso anno nacque il suo primo figlio, John Hadley Nicanor,

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soprannominato Bumby. A Parigi, in questo periodo, ebbe modo di scrivere racconti e pubblicare poesie su una rivista tedesca. All’inizio del 1925 l’editore americano Horace Liveright accettò di stampare il suo secondo libro dal titolo In Our Time. Nell’ottobre del 1926 uscì Fiesta dopo che, con la pubblicazione di Torrenti di Primavera, Hemingway aveva interrotto i rapporti con Liveright, per poter passare ad un altro editore. Nel 1927 vennero pubblicati i racconti che diedero conferma delle doti letterarie di Hemingway: Men without woman. Durante lo stesso anno lo scrittore aveva divorziato da Elizabeth Hadley per sposare una ricca amica della moglie che lavora nella redazione parigina di «Vogue»: Pauline Pfeiffer.

Dal 1928 al 1939, dopo essere tornato negli Stati Uniti insieme alla moglie, passò il suo tempo scrivendo, pescando e cacciando in Florida. Lo stesso anno, dopo la nascita del suo secondogenito, Patrick, che aveva messo a repentaglio la vita di Pauline, suo padre morì suicida sparandosi un colpo alla testa. Nel 1929 uscì Addio alle armi. Nel 1931 nacque il terzo figlio di Hemingway, Gregory Hancock, mentre lo scrittore stava preparando Morte nel pomeriggio, Winner Take Nothing e Verdi colline d’Africa, che uscirono rispettivamente nel 1932, 1933 e 1935. Nel 1936 scoppiò la guerra di Spagna. Hemingway partì nel 1937 come corrispondente di guerra della «North American Newspaper Alliance», dopo aver compiuto il suo Avere e non avere, che venne poi pubblicato l’anno seguente, insieme a The Fifth Column and the First Forty Nine Stories. È in Spagna che Hemingway iniziò una relazione con Martha Gellhorn, giornalista e romanziera che nel 1940, dopo il divorzio da Pauline (per abbandono del tetto coniugale), divenne la sua terza moglie.

L’autore si stabilì a Cuba con Martha e scrisse Per chi suona la campana, che uscì nel 1940. La seconda guerra mondiale lo vide dapprima in Estremo Oriente, insieme a Martha, come corrispondente di guerra, poi al comando del suo Pilar, un panfilo trasformato in battello antisommergibili e, infine, in Europa, al seguito dell’esercito americano. Finita la guerra e ottenuto il divorzio da Martha Gellhorn, Hemigway, sposò una giornalista americana, Mary Welsh, e tornò anche alla sua attività di scrittore. Nel 1950 uscì Di là dal fiume e tra gli alberi e nel ’52 Il vecchio e il mare. L’anno dopo Hemingway vinse il Premio Pulitzer e, nel 1954, dopo un incidente aereo nel quale fu ritenuto morto, il Nobel per la letteratura. Nonostante i vari riconoscimenti e successi, per Hemingway cominciarono anni di crisi esistenziale. Per questo interruppe la stesura delle sue memorie, il postumo Festa mobile, e la revisione di un romanzo cominciato nel 1946, Il giardino dell’Eden, per fare il suo ultimo viaggio in Europa, dal quale scaturì anche un libro intitolato Un’estate pericolosa.

Nel 1960 Hemingway venne ricoverato in una clinica del Minnesota. I suoi disturbi nervosi erano sempre più gravi, tanto che i medici si decisero a ricorrere all’elettroshock, che gli causò una perdita di memoria, vera tragedia per lo scrittore. Guastatisi i suoi rapporti con la Cuba di Fidel Castro, l’autore tornò a stabilirsi a Ketchum, nell’Idaho, dove la moglie riuscì a sventare un primo tentativo di suicidio dello scrittore. Poco più tardi in una bella domenica di sole del 2 luglio 1961, quasi sessantaduenne, Hemingway si alzò di buon mattino, afferrò uno dei suoi fucili da caccia mettendo fine alla sua vita.

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HERMANN HESSE (Calw, 2 luglio 1877 – Montagnola, 9 agosto 1962)

Nato nel 1877 come figlio di un missionario, ebbe un'educazione rigidamente protestante. Dopo i primi romanzi di tradizione romantica fece un viaggio in India dove venne profondamente influenzato dalla spiritualità orientale. Anche il contatto con la psicoanalisi lasciò tracce nelle sue opere. Nel 1923 divenne cittadino della Svizzera dove visse fino alla sua morte nel 1962. L'opera di Hesse esprime il rifiuto di una società moderna troppo tecnicizzata e il desiderio di recuperare una nuova e più profonda spiritualità, è ambientata tra rivolta antiborghese e ricerca dell'armonia. I suoi romanzi e racconti ebbero una forte influenza sul movimento giovanile di protesta degli anni sessanta e settanta. Nel 1946 gli venne conferito il premio Nobel per la letteratura.

PUBBLICAZIONI

1904 - arriva il primo successo letterario con il romanzo Peter Camenzind che gli permette di abbandonare il lavoro in libreria e di lavorare solo come scrittore. 1906 - Hesse scrive Sotto la ruota, un romanzo con forti contenuti autobiografici in cui elabora criticamente l'amaro periodo di scuola e la rigida educazione ricevuta.

1919 - pubblica Demian che segna una svolta decisamente pacifista nella sua produzione letteraria.

1922 - esce il celebre romanzo Siddharta che elabora la sua esperienza del viaggio in India.

1927 - Hesse scrive Il lupo della steppa, il suo romanzo più famoso. Fallisce anche il secondo matrimonio.

1930 - pubblica Narciso e Boccadoro 1933 - con l'avvento del nazismo Hesse pubblica molti articoli per sostenere

scrittori ebrei perseguitati in Germania e subisce, di conseguenza, violenti attacchi politici. Dopo poco tempo nessun editore tedesco e nessun giornale tedesco osano più pubblicare le opere di Hermann Hesse.

1943 - esce il suo ultimo grande capolavoro Il gioco delle perle di vetro 1946 - gli venne conferito il premio Nobel per la letteratura 1946 - 1962 - Hesse pubblica solo poesie e alcuni racconti.

JAMES JOYCE (Dublino, 2 febbraio 1882 – Zurigo, 13 gennaio 1941)

James Joyce nacque il 2 febbraio 1882, in Irlanda a Rathgar, un elegante sobborgo di Dublino, in una famiglia profondamente cattolica, da Mary Jane Murray e John Stanislaus Joyce. Joyce era il maggiore di 10 figli sopravvissuti , due dei suoi fratelli morirono di tifo. Il suo carattere anticonformista e critico verso la società irlandese e la Chiesa cattolica traspare in opere come Gente di Dublino (Dubliners del 1914) - palesato dalle famose epifanie - e soprattutto in Ritratto dell'artista da giovane (A Portrait of the Artist as a Young Man nel 1917), conosciuto in Italia anche come Dedalus. Il suo romanzo più noto, Ulisse, è una vera e propria rivoluzione rispetto alla letteratura dell'Ottocento, e nel 1939 il successivo e controverso Finnegans Wake ("La veglia di Finnegan" o più propriamente "La veglia per Finnegan") ne è l'estremizzazione che rimase incompiuto.

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GABRIEL GARCíA MARQUEZ (Aracataca 6 marzo 1927)

Gabriel Garcia Marquez nasce ad Aracataca il 6 marzo del 1927, un piccolo villaggio della Colombia ,a circa 80 Km dalla città caraibica di Santa Marta, dove viene allevato dai nonni. Nel 1947 inizia i suoi studi all'Università di Bogotà, alla facoltà di giurisprudenza, e nello stesso anno pubblica il suo primo racconto "La tercera resignacion" sul giornale El Espectator. Nel 1948 si trasferisce a Cartagena in seguito alla chiusura dell'Università Nazionale, e comincia il suo lavoro come giornalista al El Universal. Intanto collabora con diversi altri giornali e riviste americane ma anche europee. Intanto si lega ad un gruppo di giovani scrittori, e insieme leggono avidamente i romanzi di Kafka, Faulkner, Virginia Woolf. Nel 1954 torna nuovamente a Bogotà come giornalista de "El Espectador" e, nello stesso anno, pubblica il racconto "Foglie morte". L'anno successivo trascorre alcuni mesi a Roma, dove segue dei corsi di regia, in seguito si trasferisce a Parigi. Nel 1958 sposa Mercedes Barcha e, dopo la vittoria di Fidel Castro, visita Cuba e lavora (prima a Bogotà, poi a New York) per l'agenzia "Prensa latina", fondata dallo stesso Castro. A Città del Messico, nel 1962, scrive il suo primo libro "I funerali della Mama Grande" che contiene anche "Nessuno scrive al colonnello" , lavori con i quali si comincia a delineare il fantastico mondo di Macondo. Nel 1967, pubblica "Cent'anni di solitudine", che ebbe subito un grande supporto da parte della critica e che consacrò Marquez come uno dei più grandi scrittori del nostro secolo. Marquez scrisse così anche "L'autunno del patriarca", "Cronaca di una morte annunciata", "L'amore ai tempi del colera" , fino al Premio Nobel nel 1982. Risiede attualmente a città del Messico dal 1976. Una delle sue ultime opere è: DELL'AMORE E DEGLI ALTRI DEMONI (1994). LUIGI PIRANDELLO (Agrigento 1867 – Roma 1936)

Nasce ad Agrigento nel 1867, da una famiglia dell'agiata borghesia, proprietaria di una miniera di zolfo. Sia la madre che il padre parteciparono attivamente alla campagna garibaldina in Sicilia. Dopo aver frequentato il liceo classico a Palermo, Pirandello si iscrive alla facoltà di Lettere dell'Università di Roma, dedicandosi soprattutto alla filologia romanza. In seguito a un violento litigio con un docente, si trasferisce a Bonn nel 1889, dove nel '91 si laurea con una tesi sul dialetto di Agrigento. A Bonn resta come lettore d'italiano per un anno.

Nel '93 torna in Italia. L'anno dopo si sposa con la figlia di un socio di suo padre. Il matrimonio era stato quasi "combinato". Si stabilisce con la famiglia a Roma ed entra nella vita culturale e letteraria del suo tempo, collaborando a numerosi periodici: stringe amicizia con Luigi Capuana, mentre resta ostile al D'Annunzio. Nel '97 assume, come incaricato, l'insegnamento di Letteratura italiana (stilistica) presso l'Istituto superiore di Magistero a Roma; nel 1908 ne diventa professore ordinario insegnando sino al 1922.

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Nel 1903 una frana con allagamento distrugge la miniera di zolfo nella quale erano stati investiti sia i capitali di suo padre che la dote di sua moglie, la quale, già sofferente di nervi (sospettava continuamente che il marito la tradisse), si ammalò gravemente, cominciando a manifestare i primi segni di uno squilibrio psichico che la condurrà poi in manicomio. Pirandello reagì a questa situazione conducendo a Roma vita ritirata (per non offrire pretesti alla follia della moglie, ma inutilmente) e lavorando intensamente, anche per far fronte alle difficoltà economiche (insegnava, scriveva e dava lezioni private).

Tuttavia, le sue novelle, raccolte poi col titolo Novelle per un anno, e i suoi romanzi (L'esclusa, Il turno, Il fu Mattia Pascal e altri), nonché i suoi saggi (in particolare L'umorismo) passarono quasi inosservati. La celebrità gli giunse soltanto in età matura, quando -a partire dal 1916- si rivolse quasi interamente al teatro. Le sue commedie, talvolta accolte con dissensi clamorosi, si imposero al pubblico soprattutto dopo la fine della I guerra mondiale. Ottennero vasta risonanza Liolà, Pensaci Giacomino!, Così è (se vi pare), Sei personaggi in cerca d'autore, L'uomo dal fiore in bocca, Enrico IV e molte altre commedie.

Nel 1921 inizia ad ottenere grande successo anche all'estero (Praga, Vienna, Budapest, Usa, Sudamerica...), oscurando la fama del D'Annunzio. Nel '24 si iscrive al partito fascista, pochi mesi dopo l'assassinio di Matteotti e forte sarà la sua polemica con Amendola. Tuttavia, Pirandello, che si era iscritto solo per aiutare il fascismo a rinnovare la cultura, restandone presto deluso, non si è mai interessato di politica. Nel '29 il governo Mussolini lo include nel primo gruppo dell'Accademia d'Italia appena fondata (insieme a Marinetti, Panzini, Di Giacomo...): questo era allora il massimo riconoscimento ufficiale per un artista italiano, ma Pirandello non se ne dimostrò affatto entusiasta. Nel '25 assunse la direzione di una compagnia teatrale di Roma, che resterà in vita sino al '28.

Nel '34 gli viene conferito il premio Nobel per la letteratura. Mussolini, attraverso il Ministero degli Esteri, cercò subito di sfruttarne la fama internazionale sperando di usarlo come portavoce estero delle ragioni del fascismo impegnato nella conquista dell'Etiopia. Nel luglio del '35 infatti il drammaturgo doveva partire per Broadway, per rappresentare alcuni suoi capolavori e sicuramente sarebbe stato intervistato dai giornalisti. Ma Pirandello non si prestò a tale servilismo.

Durante le riprese cinematografiche de Il fu Mattia Pascal, effettuate a Roma, si ammala di polmonite e muore nel '36, lasciando incompiuto I giganti della montagna. A dispetto del regime fascista, che avrebbe voluto esequie di Stato, vengono rispettare le clausole del suo testamento: "Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il carro, il callo, il cocchiere e basta". E così fu fatto.

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EDGARD ALLAN POE (Boston 1809 – Baltimora 1849)

Edgar Poe nasce a Boston nel 1809 e muore a Baltimora nel 1849. Scrittore e poeta è considerato una delle figure più importanti della letteratura americana, inventore del racconto poliziesco e del giallo psicologico e anticipatore della fantascienza. Figlio di due attori girovaghi, perde la madre all’età di 2 anni mentre il padre sparisce senza lasciare traccia. Viene allora allevato da un commerciante scozzese John Allan da cui prenderà il cognome firmandosi Edgar Allan Poe. L’uomo non lo adottò mai legalmente pur non privandolo mai, fino alla rottura definitiva tra i due, di denaro e di assistenza. La moglie, invece, alla quale Poe rimase particolarmente legato, lo amò come un figlio. La famiglia si trasferisce in Inghilterra dove Poe compie parte degli studi (che proseguirà negli USA) distinguendosi per l’originalità del carattere e la precocità del talento. Nel 1826 si iscrive dall’Università ma viene espulso a causa di eccessi alcoolici e debiti di gioco, nonostante le ottime votazioni. Nel 1827, diciottenne, entra in violento contrasto con gli Allan e se ne separa. Lo stesso anno pubblica, anonimo e a sue spese, la sua prima opera Tamerlano e altre poesie. Deluso dall’indifferente accoglienza, si arruola nell’artiglieria federale come Edgar A. Perry ma lascia quando Mrs Allan muore: il lutto fa riavvicinare momentaneamente i due uomini che in breve interromperanno ogni rapporto. Allan si riposa e alla sua morte non gli lascerà nulla. Poe entra nell’accademia militare di West Point ma viene espulso. A New York nel 1835 entra nella redazione del “Southern Literary Messenger” e viene promosso vice direttore per le sue spiccate doti giornalistiche. Nello stesso anno sposa la cugina Virginia Clemm non ancora quattordicenne (ma pare fosse innamorato della madre). Pubblica altre opere. Lavora al “Gentleman’s Magazine” di Philadelphia ma per diverbi con il proprietario del giornale lascia e cerca di fondare una sua rivista. L’iniziativa però fallisce. È il periodo più brutto della sua vita: la moglie-bambina si ammala e Poe che non è in grado di farla curare adeguatamente ricade nel baratro dell’alcool e della droga (laudano). Nel 1844 si trasferisce di nuovo a NY dove l’anno dopo raggiunge la tanto sospirata notorietà con la poesia The Raven (Il Corvo). Nel 1847 Virginia muore di tisi. Affranto si ammala ma continua a scrivere. Colleziona infatuazioni sentimentali con numerose donne che rivelano soprattutto il suo bisogno di affetto e di amore materno. La sua irrequietezza non si placa e per sfogarla percorre da un capo all’altro la nazione per tenere conferenze e letture delle sue poesie. Nel 1849 viene trovato in stato di incoscienza in una locanda di Baltimora ed è ricoverato d’urgenza in ospedale dove muore di "delirium tremens" a soli 40 anni. La nevrosi e la povertà di Poe furono indubbiamente sventure ma la vita gli concesse un’incessante felicità: l’invenzione e l’esecuzione di un’opera splendida e immortale. A parte qualche eccezione la parola incubo è applicabile a quasi tutta la sua narrativa. I suoi personaggi tranne poche eccezioni (Dupin e Legrand de Lo scarabeo d’oro) sono sempre scelti in un’umanità del tutto bandita: o pervertiti o dementi o apparizioni spettrali o fantasmi sovrannaturali o caricature.

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MARY SHELLEY (Londra 1797 – 1851)

Mary Wollstonecraft Godwin nasce a Londra nel 1797 da genitori progressisti impegnati intellettualmente nella società londinese dell'epoca. La madre muore poco dopo il parto e il padre si risposa pochi anni dopo con una donna gretta e poco istruita. Casa Godwin rimane comunque un punto di ritrovo per gli amici intellettuali del padre ed è proprio in questo contesto che Mary conosce il poeta P.B. Shelley, allora sposato. Nell'estate del 1814 tra i due esplode una forte passione. Il padre e la benpensante società londinese disapprovano questa unione, tanto che i due amanti scappano dall'Inghilterra e per tre mesi viaggiano tra Francia, Svizzera e Olanda. Ritornati a Londra Mary nel 1815 dà alla luce una bambina che muore però dopo pochi giorni. Mary e Shelley si sposano solo nel dicembre del 1816 e aspettano nuovamente un figlio. Nasce una bambina, ma durante un viaggio in Italia la piccola muore. Mary a fatica si risolleva dalla profonda sofferenza per la perdita della figlia e con il marito si stabilisce temporaneamente in Toscana dove dà alla luce Percy Florence. A Pisa stringono amicizia con la coppia Edward e Jane Williams. Mary è nuovamente incinta e sembra aver trovato la serenità. Le due coppie si stabiliscono a San Terenzio, villaggio di pescatori vicino a Lerici, ma Mary perde il bambino e l'aborto la distrugge fisicamente e moralmente. L'atmosfera diventa tesa. Nel 1822, durante una gita in barca Edward Williams e Shelley sono colti da una tempesta e muoiono in mare. Mary si trasferisce a Genova dove comincia a lavorare ai manoscritti di Shelley e collabora con un giornale, ma versa in serie difficoltà economiche. Ritorna, allora, in Inghilterra, ma vive diverse esperienze negative causate da false amicizie e cattivi pettegolezzi. Mary si chiude sempre più in un'indifferenza autoprotettiva nei confronti del mondo. Tra il 1842 e il 1844 gira con il figlio Percy tutta l'Europa. Negli anni a seguire Mary si ritrova tormentata da ricatti e tradimenti e nel 1851, dopo una serie di colpi apoplettici che la paralizzano, muore a cinquantatrè anni. Mary Shelley è entrata nell'Olimpo degli scrittori grazie all'emblematico e geniale romanzo "Frankenstein or the Modern Prometheus" scritto nel 1818.

GIOVANNI VERGA (Catania 1840 – 1922)

Giovanni Verga nacque a Catania il 2 settembre 1840. Trascorse l'infanzia e l'adolescenza fra il capoluogo e Vizzini, dove il padre aveva delle terre, e studiò alla scuola di Antonino Abate. A partire dal 1848 la famiglia Verga assunse una posizione cauta e conservatrice nei confronti dei moti risorgimentali, rifugiandosi spesso a Vizzini. Giovanni invece, trascinato dal maestro Abate, acceso repubblicano, seguì con interesse e favore le imprese che portarono all'Unità d'Italia. Incoraggiato dall'Abate incominciò a scrivere romanzi storici che, pur ambientati in epoche e situazioni diverse, inneggiavano agli ideali di libertà propri del Risorgimento, come Amore e patria e I carbonari della montagna. I due romanzi segnano gli inizi della sua carriera di scrittore. Nel 1858 Verga iniziò gli studi di Giurisprudenza a Catania, ma li abbandonò presto. Dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia si arruolò nella Guardia Nazionale e continuò contemporaneamente la sua attività di scrittore e giornalista. Nel 1861 fondò con Abate e Nicolo Niceforo il settimanale politico «Roma degli Italiani». Il terzo romanzo, uscito nel 1863, si intitolava Sulle lagune ed era ancora di argomento storico. Con il successivo Una peccatrice, del 1866, lo scrittore cambiò genere, passando a un romanzo di ambientazione moderna e borghese. Dall'anno precedente, intanto, aveva cominciato a risiedere a Firenze per periodi abbastanza lunghi (in quel momento Firenze era la nuova capitale d'Italia). Nella

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capitale frequentò i salotti e conobbe autori come Capuana, Prati, Aleardi. Scrisse altri due romanzi, Èva e Storia di una capinera, che furono pubblicati da editori milanesi. Dopo il trasferimento della capitale a Roma, nel 1871, Firenze perse importanza e Milano divenne il polo d'attrazione dei letterati e intellettuali italiani. Verga vi si trasferì nel 1872 e visse là più o meno stabilmente fino al 1893. Nella città lombarda lo scrittore frequentò sia gli ambienti aristocratici e borghesi, sia il gruppo ribelle e anticonformista degli scrittori scapigliati. Incominciò a leggere i romanzi degli scrittori francesi, come Flaubert e Zola, e a precisare le sue concezioni letterarie: lo testimoniano soprattutto le lettere indirizzate all'amico scrittore Luigi Capuana. I primi romanzi milanesi, tuttavia (Tigre reale, Eros) non appartengono ancora al Verga verista, per l'estrazione sociale dei personaggi e per le vicende drammatiche e sentimentali che ricordano piuttosto i romanzi d'appendice. Dopo il 1875 Verga progettò di scrivere un ciclo di cinque romanzi, intitolato I vinti. Contemporaneamente iniziò a pubblicare sui giornali delle novelle di ambiente siciliano, raccolte poi nel 1880 in Vita dei campi. Anche il primo romanzo del ciclo dei Vinti, I Malavoglia, è ambientato in Sicilia e ha per protagonisti una famiglia di pescatori. Novelle e romanzo rappresentano dunque il passaggio di Verga alla fase verista, caratterizzata, oltre che dall'ambiente e dall'estrazione sociale dei personaggi, da uno stile profondamente innovativo. Una seconda raccolta di novelle uscì nel 1883, con il titolo Novelle rusticane, anch'esse in buona parte ambientate in Sicilia. Nel 1889 uscì il secondo romanzo del ciclo, Mastro-don Gesualdo. (Del terzo romanzo progettato, La duchessa di Leyra, Verga scrisse un unico capitolo nel 1911, mentre gli ultimi due, L'onorevole Scipioni e L'uomo di lusso, non furono neppure incominciati). Mastro-don Gesualdo era stato accolto da alcuni critici come un'opera meno originale e riuscita de I Malavoglia, forse un passo indietro nella carriera dello scrittore. In effetti, negli anni successivi, Verga ritornò ad opere più tradizionali, più vicine ai romanzi del primo periodo milanese, mentre la sua ispirazione sembrava progressivamente esaurirsi. Dal 1884 aveva anche iniziato, con successo, a scrivere opere teatrali. Famosa è in questo ambito la riduzione della novella Cavalleria rusticana, dalla quale il musicista Pietro Mascagni trasse un'opera lirica. Con Mascagni e con gli autori del libretto Verga ebbe anche una lite per il pagamento dei diritti d'autore, lite che gli fruttò alla fine una somma notevole per quei tempi. Nel 1894 Verga ritornò definitivamente in Sicilia. Si distaccò a poco a poco dall'attività letteraria mentre anche i suoi interessi politici andavano scemando (dopo il periodo «rivoluzionario» giovanile era diventato sostenitore dei governi autoritari di fine Ottocento). Nel 1920 fu nominato senatore. Morirà a Catania il 27 gennaio 1922.

OSCAR WILDE (Dublino 1854 – Parigi 1900)

Oscar Wilde nacque a Dublino nel 1854 in un ambiente colto e spregiudicato, studiò a Oxford dove ebbe come suoi maestri Ruskin e Pater. Il suo ingegno brillante, i successi letterari, le pose eccentriche lo imposero come una delle personalità dominanti nei circoli artistici e nei salotti mondani inglesi e francesi. Alternò come residenza Parigi e Londra, con frequenti viaggi in Italia, Grecia, Nordafrica. Nel 1882 Oscar Wilde recò negli Stati Uniti per un fortunato ciclo di conferenze sull'estetismo. Nel 1884 sposò Constance Lloyd, da cui ebbe due figli. Il matrimonio presto naufragò. La sua relazione con lord Alfred Douglas gli mise contro il padre di questi, marchese di Queensberry, e con lui tutta l'aristocrazia e la classe dirigente che fino ad allora lo osannava come un idolo. Subì un processo che suscitò enorme scalpore. Fu condannato per omosessualità a

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due anni di lavori forzati (1895). Scontata la pena, in miseria e abbandonato da tutti, si rifugiò in Francia dove morì, a Parigi, tre anni dopo, nel 1900. Dopo un libro di versi, Poesie (Poems, 1881), nel 1888 Wilde pubblicò un volume di favole per adulti, sentimentali e moraleggianti, Il principe felice (The happy prince) che poi ripubblicò nel 1891 accresciuta con il titolo La casa dei melograni (The house of pomegranates). In questi stessi anni si dedica anche a un breve saggio-racconto, di cui pubblica un condensato nel 1887 sul «Blackwood's magazine», con il titolo de Il ritratto di Mr W.H. (The portrait of Mr W.H.). L'umorismo prevale invece nei racconti de Il delitto di lord Arthur Savile (Lord Arthur Savile's crime, 1891). Il 1891 fu per Wilde un anno intenso, nel quale pubblicò molte cose pregevoli. I saggi Intenzioni (Intentions, 1891) contengono la dottrina estetica. Le sue riflessioni politiche, ispirate a un anarchismo idealizzato, sono esposte ne L'anima dell'uomo sotto il socialismo (The soul of man under socialism, 1891). Nello stesso 1891 pubblicò il romanzo Il ritratto di Dorian Gray (The picture of Dorian Gray). Wilde scrisse anche una serie di commedia in cui la polemica sociale è diluita in battute ironiche e paradossi cinici e brillanti. Il ventaglio di lady Windermere (Lady Windermere's fan, 1892) è una commedia in quattro atti. Seguirono Una donna senza importanza che fu rappresentata a Londra nel 1893, Un marito ideale (An ideal husband, 1895). L'importanza di chiamarsi Earnest (The importance of being Earnest, 1895). Scritta in parte in carcere e pubblicata postuma nel 1905 è De profundis. Appartiene alle ultime opere anche La ballata del carcere di Reading (The ballad of Reading Gaol, 1898), la più celebre delle sue poesie. Autocompassione e orgoglio, fedeltà a sé stesso, una certa torbida amarezza emergono qui, in questi testi dove Wilde ha tentato di trovare accenti più profondi. L'opera di Wilde è inseparabile dalla sua vita. Predicò l'estetismo, ma volle anche vivere la propria vita come un'opera d'arte. In lui anticonformismo autentico e aspirazione balzachiana al successo convivono. Il tentativo di conciliare istanze di ribellione e mondanità si riflette nel suo atteggiamento verso la società vittoriana, criticata ferocemente ma anche blandita. Per una decina d'anni Wilde interpretò da grandissimo attore questo ruolo pericoloso: quando il gioco fu scoperto, accentuò la sfida e volle essere martire.

CORNELL WOOLRICH (New York 1903 – 1968)

Cornell Woolrich nato a New York nel 1903 (morto nel 1968), uno dei maggiori creatori del poliziesco a suspence, ha scritto romanzi caratterizzati da angosciose atmosfere e da un cupo senso della fatalità. Celebre la sua "serie in nero": La sposa era in nero (The bride wore black, 1940), Alibi nero (Black alibi, 1942), L'angelo nero (The black angel, 1943) ecc. Ha pubblicato anche romanzi con lo pseudonimo di William Irish: Vertigine senza fine (Waltz in the darkness, 1944), Ho sposato un'ombra (I married a dead man, 1948); e con quello di George Hopley: La notte ha mille occhi (Night has a thousand eyes, 1945).

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CARLOS RUIZ ZAFON (Barcellona, 25 settembre 1964)

Autore di successo mondiale, ha iniziato la sua carriera nel 1993 con una serie di libri per bambini e ragazzi, tra cui Il principe della nebbia. Nel 2001 esordisce nella narrativa per adulti con il suo quinto romanzo, L'ombra del vento che, uscito in sordina in Spagna, ha conquistato col passaparola il vertice delle classifiche letterarie europee, diventando un vero e proprio fenomeno letterario. Vive dal 1993 a Los Angeles, dov'è impegnato nell'attività di sceneggiatore. Collabora regolarmente con le pagine culturali di "El País" e "La Vanguardia. Il 25 ottobre 2008 esce il romanzo tradotto in italiano Il gioco dell'angelo, mentre nel maggio del 2009 esce in Italia Marina. Il 7 maggio 2010 esce, per la prima volta nelle librerie italiane Il palazzo della mezzanotte uscito in lingua spagnola il 1994 con il nome di El palacio de la medianoche. L'ultima opera dell'autore, intitolata Il prigioniero del cielo, è uscita il 17 novembre 2011.