L'acqua altra di Venezia

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L’ACQUA ALTRA DI VENEZIA

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AATO Laguna di Venezia

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L’ACQUA ALTRADI VENEZIA

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L’ACQUA ALTRADI VENEZIA

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Presidente

Davide Zoggia

Presidente delegatodel comitato istituzionale

Ezio Da Villa

Componenti Comitato Istituzionale ATOda giugno 2003 a giugno 2007Ugo CampanerAlessandro BonottoGiuseppe FavarettoGino FerraressoGianfranco ScarpaClaudio Tessari (fino a ottobre 2006)Dino Manchiero

Componenti Comitato Istituzionale ATOda luglio 2007 a giugno 2011Bortolozzo LuigiConvento GianpaoloFerrarresso GinoLuise Albino (da ottobre 2006)Marchetti MassimoMestriner StefanoVianello Michele

Direttore Generale

Ing. Tullio Cambruzzi

interviste e testi

Macri Puricelli

progetto grafico

Etra Comunicazionewww.etra-comunicazione.it

consulenza alla stampa

Ideaazionewww.ideaazione.com

foto di copertina e pagina 115

Coralie Maneri, Fondazione Butterfly

foto capitoli

Brasile - CEDAPP di Pesqueira

Bolivia Cochabamba - Asud

Bolivia Valle Araca - Eugenio Bozza Diego Giacomini

Mali - Andrea Trivero e LVIA

Etiopia - Coralie Maneri, Fondazione Butterfly

Burkina Faso - Stefano Nerozzi

Rep. dem. del Congo - Mondo Giusto

Eritrea - Sandro Vigato e GME

Si ringrazia per la collaborazione

la dott.ssa Enrica Morandin

AATO “Laguna di Venezia” via Pepe 102 - 30172 Mestre VEwww.atolagunadivenezia.it

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~ www.fondoacquabenecomune.it ~

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L’ACQUA ALTRA DI VENEZIAprefazione Abbiamo scelto di non restare indifferenti ~ 4 ~ Progetti America ~ Brasile ~ Diocesi di Pesqueira ~ 7 ~ Una cisterna per la vita ~ 8 ~ A Pesqueira acqua potabile per 1300 persone ~ 15 ~ Nord est brasiliano, la paura della siccità ~ 17 ~ America ~ Bolivia ~ Cochabamba ~ 19 ~ L’acqua è di tutti e di nessuno ~ 20 ~ Chilimarca , 25 chilometri di rete fognaria, ~ 26 ~ 115.994 beneficiari diretti e una cooperativa per la gestione Tiquipaya e la sua guerra dell’acqua ~ 31 ~

America ~ Bolivia ~ Valle Araca ~ 33 ~ Dall’acqua riaffiora una comunità ~ 34 ~ In valle Araca, dalla montagna alle case ~ 39 ~ La Bolivia, l’acqua e la sua gente ~ 43 ~

Africa ~ Mali ~ Regione di Gao ~ 47 ~ Il sogno e la realtà della cooperazione ~ 48 ~ Nella regione di Gao, 5 pozzi con pompaggio a energia solare ~ 54 ~ Una farfalla nel deserto ~ 57 ~

Africa ~ Etiopia ~ Regione di Gambela ~ 61 ~ Una goccia nel mare fa miracoli ~ 62 ~ 10 pozzi per Gambela ~ 68 ~ L’Africa della grande sete ~ 70 ~

Africa ~ Burkina Faso ~ Boulkiemdé ~ 75 ~ Il mondo degli ultimi dove l’acqua è il più prezioso dono ~ 76 ~ 40 pozzi e un acquedotto per Boulkiemdé ~ 85 ~ Nella terra degli uomini integri ~ 86 ~

Africa ~ Rep. Dem. Congo ~ Nord Kivu ~ 89 ~ Il volontario con l’Africa nel cuore ~ 90 ~ Sette chilometri di condotta e 10 fontane pubbliche per Kagara ~ 95 ~ L’acqua che non c’è. L’acqua che uccide ~ 97 ~

Africa ~ Eritrea ~ Regione dell’Anseba ~ 101 ~ Una speranza in più ~ 102 ~ A Kerbabered, il pozzo della vita ~ 108 ~ Guerra e mancanza d’acqua, il dramma del corno d’Africa ~ 109 ~postfazione Il desiderio e il dovere di credere in un mondo altro ~ 113 ~appendice Un euro per portare acqua dove non c’è ~ 116 ~ quando la cooperazione nasce nelle famiglie Il bando 2005 ~ 117 ~ il bando 2008 ~ 117 ~ Il delicato lavoro dell’AATO, ~ 119 ~ Ambito Territoriale Ottimale Laguna di Venezia

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~ABBIAMO SCELTO DI NON RESTARE INDIFFERENTI~

Noi abbiamo scelto di non restare indifferenti. Volevamo ve-dere il volto dei milioni di bambini di questa nostra terra che muoiono per la mancanza di acqua sicura e pulita.

Cercavamo l’incontro con quelle donne instancabili che ogni giorno percorrono chilometri a piedi per raggiungere una sorgente e portare qual-che litro d’acqua nella loro poverissima dimora.

Si poteva sentire forte e chiara la richiesta di assunzione di responsa-bilità rivolta al mondo occidentale da parte degli operatori delle organiz-zazioni umanitarie che si impegnano in prima persona per contenere gli effetti devastanti di drammi umani dalle proporzioni inimmaginabili che si abbattono ancora in tante aree del mondo.

Noi, 630mila persone che vivono in provincia di Venezia e Treviso, vedendo gli occhi di quei bambini non ci siamo girati; quelle donne le ab-biamo trovate davvero; i volontari li abbiamo ascoltati e facendo scorrere la nostra acqua limpida e feconda dai rubinetti delle nostre cucine, irri-gando i nostri giardini e riempiendo quelle vasche da bagno dove giocano beati i nostri figli, abbiamo portato l’acqua o i principali servizi igienico sanitari a 300mila persone cambiando la loro vita.

Ci è costato veramente poco, un centesimo di euro per ogni 1000 litri di acqua consumata. Poco più di un caffè, o di una bottiglia di quell’acqua minerale che paghiamo quanto un metro cubo d’acqua di rubinetto. Però siamo in molti e questo ha fatto la differenza. Se tutte le autorità d’ambito d’Italia facessero come la nostra, i 5 miliardi di metri cubi d’acqua consu-mati dagli italiani renderebbero disponibili 50 milioni di euro da destinare alla cooperazione internazionale per i paesi in via di sviluppo.

Siamo così orgogliosi di questa esperienza che abbiamo voluto farne un libro.

Grazie a queste pagine potremo imparare a conoscere più a fon-do situazioni drammatiche di popoli e paesi che vediamo solo scorrere come immagini nei telegiornali e che rischiano di confondersi tra l’in-vadente, ipocrita e inquinata informazione che invade le nostre case. Sentiremo vicine quelle persone che, quando riescono a fuggire dal-

~Prefazione~

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l’inferno in cui si sono trovati a vivere, cercando qui gli strumenti per sopravvivere, qualcuno interpreta come minaccia al proprio benessere. Daremo un nome e comprenderemo il significato di percorsi intimi di qualcuno tra i meravigliosi operatori delle organizzazioni non governative che dedicano le loro energie e la loro intelligenza alle tante, troppe perso-ne dalla vita sospesa.

Aprendo il rubinetto abbiamo potuto costruire nuovi pozzi in regioni aride dell’Africa; realizzato opere di presa, serbatoi di accumulo e reti di distribuzione che dalle alte vette delle Ande boliviane portano acqua nei poveri villaggi dell’altopiano; installato pompe funzionanti a mano o a energia solare che hanno sostituito apparecchiature inutilizzabili da anni; captato risorse idriche da sorgenti per convogliarle, tramite chilometri di condotte, a fontane comuni per comunità isolate; completato condotte fognarie portando la sicurezza sanitaria in periferie abbandonate del-l’America latina; convogliato l’acqua piovana in cisterne che garantiscono forniture del bene più prezioso anche in Brasile.

Certo, è una goccia nel deserto quella che portiamo in un pianeta as-setato e inquinato, ma intanto lo facciamo noi, direttamente con le nostre bollette. Abbiamo inventato una forma di cooperazione internazionale e di solidarietà che non ha bisogno dell’intermediazione dei governi. Il no-stro aiuto arriva là dove ce n’è bisogno, in modo trasparente. E i volontari che con noi rendono possibile questa impresa fanno in modo che non ci siano deviazioni delle risorse. Le verifiche fatte sui luoghi degli interventi hanno dimostrato che i progetti finanziati sono oggi una realtà, e le imma-gini di questo libro lo dimostrano. Così come sono reali i sorrisi di gioia di quelle comunità, di quei bambini, di quelle donne e quegli uomini che ci ringraziano di quanto abbiamo voluto e potuto fare per loro.

Ezio Da Villa

Presidente del Comitato Istituzionale A.A.T.O Laguna di Venezia

~Prefazione~

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~America~~Brasile~

~Diocesi di Pesqueira~

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~UNA CISTERNA PER LA VITA~

“Quanto costa una cisterna? Ce lo ha chiesto un importante finanziere brasiliano. Gli abbiamo risposto che costava 1400 reais, compreso il costo della formazione comunitaria per il

gruppo rurale che la riceveva. Ci ha risposto proponendo di finanziare die-cimila cisterne, ma senza la parte educativa. Abbiamo dovuto spiegargli che non sapevamo che farcene delle cisterne come strutture, se non diven-tavano il centro di un progetto di promozione sociale comunitaria. Perché per noi, Sete Zero significa questo: partire dalla garanzia concreta di un diritto per aiutare le piccole comunità rurali a riconquistare la propria dignità “.

Frei Betto, teologo e consigliere del presidente brasiliano Lula per la mobilitazione sociale, ha spiegato così a Unimondo.org il progetto Un milione di cisterne lanciato nel 2004 nell’ambito dell’azione “Fame Zero” del Governo Brasiliano. Obiettivo: portare 40 litri al giorno entro il 2009 a ogni brasiliano, costruendo un milione di cisterne per il recupero dell’acqua piovana. E contemporaneamente formare le comunità rurali delle aree semiaride del Paese perché possano convivere con la siccità, raggiungendo l’autosufficienza idrica e impiantando piccole coltivazioni familiari per riuscire a mangiare. In quest’area del Brasile la pioggia si concentra in poche settimane, ma in maniera sufficiente a riempire le cisterne.

E’ qui, nella comunità di Pesqueira, nello Stato del Pernambuco, che il progetto dell’AATO trova la sua collocazione e la sua realizzazione.

A raccontarlo è Maurizio Fanton, anima e cuore di Asa- Associazione solidarietà in azione onlus, suo presidente fino al 2007, che in Brasile ci è stato più volte per seguire la realizzazione delle 120 cisterne da 16mila litri ciascuna che oggi danno acqua a oltre un migliaio di abitanti.

Vicentino, 56 anni, Fanton è un veterano dalla solidarietà. Una soli-darietà formato famiglia. Perché ogni azione, ogni gesto, ogni missione dell’associazione, Fanton la vive con la moglie e i tre figli. Tutto è inizia-to nel 1995, in Ecuador.

“In quel paese abbiamo vissuto l’esperienza che ci ha cambiato la vita.

~America~

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Tutti insieme, con la moglie e i tre figli. Dal 1993 al 1996. Siamo partiti per accompagnare un progetto avviato dall’ Ufficio missionario di Padova dove operano insieme sacerdoti, religiosi e laici. Tre anni di vita per orga-nizzare in povere comunità a nord di Quito, la capitale ecuatoriana, tutta una serie di attività al servizio della persona e delle famiglie che lasciavano le campagne, le Ande, per la città. Dalle case famiglia per accoglienza di minori – che ora sono quattro – alle scuole, dagli asili alla costruzione di case, fino all’avvio di piccole attività commerciali e perfino farmacie. Ma anche la realizzazione di una rete idrica e di una rete fognaria. A quell’epo-ca i figli avevano 7, 11 e 15 anni. Mia moglie era stata inviata in Ecuador dall’Ufficio missionario di Padova e io, che facevo l’insegnante, mi sono pre-so una lunga aspettativa dal lavoro. Ho rinunciato alla carriera, alla pro-gressione, ma che importa? Quei tre anni sospesi, e a livello contributivo assolutamente non riscattabili, mi hanno dato così tanto da non credere.

E lì, in Ecuador, è nata l’associazione. Da quando noi siamo tornati in Italia, Asa Ecuador va avanti con le forze e la passione dei nostri amici ecuatoriani”.

Rimettersi in gioco, una volta tornati in Italia, non è stato facile. Ma grazie a molti amici che avevano seguito le avventure oltre oceano della famiglia Fanton, era già nato un gruppo di persone che avevano iniziato a riflettere e che avrebbero poi dato vita ad ASA – Associazione Solidarietà in Azione onlus. Ed era stato avviato, sempre a Thiene, nel vicentino, e in collaborazione con i missionari comboniani, un lavoro di sensibilizzazione sul territorio, dando vita a una rete di tante piccole realtà locali e nazionali che insieme hanno deciso di riflettere sul come rapportarsi con il sud del mondo.

“Tutto ciò”, ricorda Fanton, “ci ha aiutato a dare un senso al ritorno e al reinserirsi in una realtà davvero troppo diversa da quella in cui eravamo vissuti in Ecuador. La cosa fondamentale della nostra esperienza è che ci ha dato una visione a 360 gradi del mondo. E abbiamo presto capito che non avremmo potuto fermarci al paese andino. Avremmo dovuto rivolgerci ovunque ci fosse stato bisogno. Ecco il senso del progetto in Brasile. Non certo replicare le esperienze ecuatoriane. Non sarebbe stato possibile, per-

~Brasile~Diocesi di Pesqueira~

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ché ovunque si vada, i poveri del sud del mondo devono e possono pensare da soli al proprio sviluppo. Basta metterli nelle condizioni di fare il primo passo e camminare. Non dobbiamo sostituisci a loro. Spetta a loro scegliere le strade che ritengono più adeguate. Certo, il più delle volte a loro manca la base per poter iniziare. Mancano i soldi, la formazione, la volontà di non scoraggiarsi. Ma basta così poco per iniziare. Sono bravissimi e sanno fare tanto meglio di noi”.

Il progetto in Brasile, e l’idea di sottoporlo al bando del Fondo Acqua Bene Comune dell’ AATO, nasce sulla spinta dell’iniziativa del Governo brasiliano Un milione di cisterne. L’obiettivo era quello di dare una mano per raggiungere la meta.

“Quella delle cisterne è l’unica strada percorribile per dare acqua a questa parte di Brasile. Peraltro è una modalità che appartiene in toto alla cultura di questa gente. Gli indios, e vicino a Pesqueira ne vivono ancora in piccole comunità, scavavano delle ampie pozze, una sorta di cisterna na-turale, e poi la terra veniva battuta per diventare impermeabile. In questo modo conservavano un po’ d’acqua per i mesi di siccità. Poi, mano a mano che le comunità indios sparivano, si perdevano anche queste tradizioni le-gate all’acqua. Oggi, le cisterne sono tornate. In cemento.

Nelle aree del semiarido piove solo per un breve periodo all’anno e nel sottosuolo ci sono sì sorgenti, ma solo di acqua salmastra non utilizzabile dal punto di vista alimentare. Bisogna allora raccogliere la pioggia e poi non sprecarla. Ecco perché assieme alla costruzione delle cisterne viene condotta una campagna di sensibilizzazione e formazione alla gestione del-l’acqua. La costruzione delle cisterne è comunitaria. Ognuno fa qualcosa e ognuno sa intervenire sull’impianto. Sul tetto delle case - siamo intervenuti su 24 tetti - con la pendenza giusta, viene posta una grondaia che dirotta l’acqua piovana alle cisterne che stanno a una decina di metri dalle case e che vengono interrate per la metà dell’altezza in modo che l’acqua resti un po’ più fresca. La successiva raccolta dell’acqua è manuale, con i secchi, e poi la si porta nelle case. Al di là del controllo tecnico dell’impianto, è importante contestualmente lavorare sulla formazione per rendere indipen-dente la comunità nella gestione successiva delle cisterne”.

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~Brasile~Diocesi di Pesqueira~

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L’area di intervento è inclusa nella zona geografica “Agreste” del Per-nambuco, con accentuata scarsità di risorse idriche e con precipitazioni medie di 700-800 millimetri l’anno. Il semi-arido, di cui fa parte l’area degli 8 comuni interessati dal progetto, è la regione più povera e arre-trata del Nordeste del Brasile e registra i più bassi indici economici e di scolarizzazione. Questa regione rappresenta il 53% del territorio del Nordeste, con una popolazione di 26.000.000 di abitanti. In più, a causa di una temperatura locale compresa tra 23° e 39.8°, forte è l’ evapora-zione delle già scarse risorse idriche esistenti. Le caratteristiche naturali di clima, vegetazione e suolo rendono quindi la regione prigioniera di costante aridità.

Il progetto si propone di ridurre la riproduzione del ciclo di povertà e miseria cui sono soggette porzioni significative della popolazione rurale dell’area semi-arida, mediante un processo di formazione e sensibiliz-zazione, a partire dalle comunità di base locali, che porti alla gestione familiare e comunitaria delle risorse idriche disponibili localmente e favorisca l’accesso all’acqua potabile, riconoscendolo come un diritto umano essenziale per la vita. E in questo modo prevenendo e riducendo l’emigrazione verso i centri urbani.

“Le cisterne”, spiega ancora Fanton, “vengono normalmente affidate a una famiglia che ne ha la responsabilità della manutenzione e che deve garantire la potabilità dell’acqua. Tuttavia, spesso, servono anche quelle famiglie vicine di casa, il più delle volte parenti tra loro, che non hanno una cisterna. Il CEDAPP, il Centro Diocesano di Appoggio al Piccolo Pro-duttore ,partner di Asa in Brasile, incoraggia tale condivisione dell’acqua, in modo che la cisterna sia anche un mezzo per la promozione di tutta la comunità in cui è posta.

Considerando che sono almeno 215 le famiglie coinvolte direttamente nel progetto, e calcolando un numero medio di sei persone per famiglia, almeno 1.300 persone ora hanno accesso all’acqua potabile di buona qua-lità vicina alla propria abitazione, con ricadute molto positive su salute e alimentazione. Tutto ciò permette a questa gente anche di avere maggior fiducia nella capacità di superare le difficoltà legate al vivere in luoghi

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isolati, diminuendo tendenzialmente la migrazione verso le città, dove ven-gono attirati dal miraggio di una vita più facile che si rivela quasi sempre una tragica illusione”.

Il futuro di ASA onlus e del socio Maurizio Fanton potrebbe esse-re ancora in Brasile. Asa ha infatti presentato un nuovo progetto per il bando AATO 2008 con l’obiettivo di costruire altre 148 cisterne in cemento e sabbia, da 16000 litri ciascuna; la ricostruzione di 28 tetti per la captazione dell’acqua piovana; la costruzione di 50 servizi igienici a ridottissimo uso di acqua e con il recupero delle latrine per fertilizzan-ti; l’allestimento di due riserve d’acqua piovana, secondo metodologie locali di captazione sostenibile. Il tutto a favore di 250 famiglie, diretta-mente coinvolte nel progetto dopo la partecipazione ad adeguati corsi di formazione. Le famiglie appartengono a 18 comunità, di cui 2 di indios Xucurù e Kapinawà.

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~A PESQUEIRA ACQUA POTABILE PER 1300 PERSONE~Nella diocesi di Pesqueira, nelle zone semiaride del Nord

Est del Brasile , grazie ad ASA, Associazione solidarietà in azio-ne onlus, 1300 persone, tutti abitanti di una zona rurale che accoglie anche piccole comunità di Indios, possono contare oggi su 120 cisterne “de placas” da 16mila litri ciascuna, per la raccolta delle acque piovane dai tetti delle loro abitazioni. Il progetto, finanziato dall’AATO con 80mila euro, è stato realiz-zato dall’aprile 2006 al giugno 2007.

Il progetto ha previsto la messa in opera di azioni indirizzate alla captazione di acqua piovana attraverso la costruzione di cisterne “de placas” così come al rafforzamento personale e associativo

attraverso una formazione specifica che migliori la qualità della vita del-le persone e delle comunità. Inoltre, per quelle case di famiglie misere che avevano il tetto in paglia, è stato ricostruito il tetto con un materiale in grado di captare l’acqua piovana da convogliare nella cisterna. Il pro-getto mira a promuovere nel breve-medio periodo migliorie significative delle condizioni di vita delle famiglie selezionate, mediante la costruzio-ne di cisterne che garantiscano acqua potabile e riducano gli indici di malattie intestinali e infettive in genere.

La cisterna “de placas” è un serbatoio di 16.000 litri d’acqua costrui-to con argilla e altri materiali reperibili localmente, interrato a fianco della casa e in cui viene convogliata l’acqua piovana caduta sul tetto. Con questo serbatoio, una famiglia di 6 persone ha un’autonomia idrica da 8 a 10 mesi, se utilizza l’acqua esclusivamente per bere e per cuci-nare.

Le attività formative programmate mirano anche a rafforzare le ca-pacità dei beneficiari rispetto alla captazione, conservazione e gestione dell’acqua.

La Diocesi di Pesqueira - 410.000 abitanti su un territorio di 10.065 km2 divisi in 13 Municipi localizzati nel semi-arido del Pernambuco - affronta la sfida del faticoso inserimento di famiglie che vivono sotto

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~Brasile~Diocesi di Pesqueira~

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il livello di povertà. Vent’anni fa, questa problematica stimolò la nasci-ta del Centro Diocesano di Appoggio al Piccolo Produttore (Centro Diocesano de Apoio ao Pequeno Produtor) – CEDAPP, con l’obiettivo di avviare un percorso di liberazione dalla povertà con i lavoratori e le lavoratrici dei campi.

Il personale del CEDAPP partecipa alla ideazione comunitaria dei progetti, alla realizzazione, valutazione, come anche alle “capacitaçoes” (attività formative) specifiche mediante analisi delle richieste dei gruppi sociali più poveri, per accompagnare le loro potenzialità nel contesto di una azione di rafforzamento personale e comunitario dei beneficiari.

~America~

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~Brasile~Diocesi di Pesqueira~

~NORD EST BRASILIANO, LA PAURA DELLA SICCITÀ~

Un milione di cisterne per vivere. Quasi un paradosso per un Brasile ricco di grandi riserve d’acqua dolce. Il suo esteso territorio è solcato da un complesso e ramificato

sistema idrografico, in primis il Rio delle Amazzoni, che raccoglie circa il 14% delle risorse idriche mondiali e l’80% dell’acqua dell’intero Brasile. Difficile pensare che anche questo Paese abbia problemi legati alla ca-renza d’acqua. Invece è così. Attorno al Rio delle Amazzoni, gli abitanti hanno accesso all’acqua soltanto pagandola cara oppure, quando questa non arriva alle case, trasportandola dai pozzi artesiani grazie al lavoro, faticoso e quotidiano, di donne e bambini. Non a caso, quindi, il Forum sociale di Porto Alegre del 2005 ha incluso la risorsa acqua fra i diritti fondamentali dell’umanità condannandone qualsiasi forma di privatizza-zione o mercificazione.

Le cisterne sono l’unica strada per avere acqua nell’area del Brasile semiarido, fatto di zone che si estendono su un’area continua che ab-braccia la maggior parte degli Stati del Nord-Est, occupando una super-ficie totale di circa 1 milione di kmq, tre volte l’Italia. In questa zona si concentra solo il 3% dell’acqua di tutto il Paese a causa di una carenza cronica di piogge. Oltre a questa naturale penuria d’acqua, va aggiunto che il 70% delle falde del territorio è ormai inquinato da un deleterio processo di industrializzazione e dunque non più fruibile.

Nei pochi giorni in cui si concentra, la pioggia è sufficiente a riempi-re le cisterne fino a 16mila litri. Le cisterne emancipano la famiglia dal punto di vista sociale, economico e politico: dal punto di vista sociale, perché donne e bambini non devono più camminare per chilometri per rifornirsi d’acqua, per di più contaminata. I bambini possono andare a scuola e le donne possono lavorare in casa e nell’agricoltura familiare. Dal punto di vista economico, la famiglia è in grado di sviluppare le proprie coltivazioni: la stessa acqua usata in bagno e nella pulizia delle stoviglie viene conservata e utilizzata per innaffiare le piante.

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~Diocesi di Pesqueira~Località Gritosseconda fase dell’intervento

~Diocesi di Pesqueira~Località Salambaia

prima fase dell’intervento

~Diocesi di Pesqueira~Località Retirointervento concluso

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~America~Bolivia~~Cochabamba~

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~L’ACQUA È DI TUTTI E DI NESSUNO~

“Lo ricordo bene Saul. In quei giorni era molto stanco, ma molto felice: mancava pochissimo alla fine dei lavori per la costruzione della rete fognaria di Villas de Chilimarca,

nel Distretto di Tiqupaya, comunità a 10 chilomertri da Cochabamba, in Bolivia.

Circa un anno e mezzo fa Saul era stato eletto Presidente del Comitato istituito per coordinare i lavori della rete fognaria, ed è stato un punto di riferimento e un consulente eccezionale per tutti noi. Gli abitanti gli si accalcavano attorno per raccontare felici di come sia stato posizionato bene il tubo di fronte alla loro casa. Saul aveva una parola davvero per tutti. Sa bene che costruire un modello di autogestione significa facilitare la parte-cipazione di ogni individuo ai percorsi decisionali che riguardano i servizi di base.

È per questo che ogni abitante di Villas de Chilmarca sa oggi come è fatta una camera d’ispezione, sa intervenire con competenze idrauliche per la manutenzione della rete, sa decidere quali siano le tariffe più eque e so-stenibili per ogni abitante. Questa comunità oggi rappresenta la possibilità di costruire modelli alternativi di gestione dei beni comuni, che rispettino i diritti umani rifiutandone qualsiasi logica di mercificazione”.

Cristina Coletto è un fiume in piena. Dopo un’iniziale timidezza, questa giovane ingegnera ambientale, d’origine valtellinese ma veneta d’adozione, racconta senza pause. La incontro a Padova, città dove al momento vive da quando è tornata dalla Bolivia. Dopo i suoi due anni a Cochabamba , su incarico di A Sud, per la realizzazione del progetto finanziato dall’AATO.

Il suo interesse per le problematiche dei paesi del Sud del mondo è prima di tutto umano. Poi professionale. Per lei la cooperazione non è tanto un aiuto, quanto uno scambio continuo di esperienze. E’ reciproci-tà. Nella convinzione che chi poterebbe imparare di più, siamo noi. Da loro.

Dopo la laurea in ingegneria ambientale, Cristina Coletto inizia a lavorare in una società di consulenza. Ma è inquieta. Cerca qualcosa di

~America~

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più appagante. Per crescere. Nel 2005 la svolta arriva con l’iscrizione a un master di cooperazione internazionale promosso dall’Università di Padova con sede in Perù. Sei mesi di frequenza obbligatoria e la prima esperienza in America Latina. Cristina poi rientra e ricomincia a lavorare nella stessa società di consulenza. Ma la valigia è lì, pronta che aspetta.

“È stato un caso, racconta, e ho conosciuto A Sud. Mi sono piaciuti perché non sono un’organizzazione classica, ma un’associazione di scambio di politiche e idee delle popolazioni indigene del sud del mondo. Mi hanno parlato del progetto finanziato dall’AATO e ne sono stata entusiasta. Mi piaceva che il progetto fosse nato dalla lotta di quella gente contro la pri-vatizzazione dell’acqua. Mi sono appassionata e quando mi hanno proposto di seguirlo, non ci ho messo molto a decidere di partire. Mi sono licenziata nell’aprile 2006, rinunciando forse a una prospettiva di lavoro più sicura, se non altro consolidata. Ma non era quello il mestiere che avrei voluto fare per tutta la vita. Sono partita ad aprile 2006 con l’idea di stare un anno. Poi i tempi si sono allungati e sono rimasta fino a febbraio 2008”.

Quando, in un giorno di primavera, Cristina sbarca a Cochabamba, ritrova gli odori e i colori del Sud America, quelli che aveva “annusato” in Perù e che in Bolivia sono ancora più accentuati. Le prime due set-timane ad aiutarla sul campo ci sono anche altri cooperanti di A Sud e il progetto inizia subito all’insegna in un forte coinvolgimento nella vita della comunità, nelle sue problematiche e aspettative. Cristina e Andrea, un volontario che per alcuni mesi la accompagnerà, si stabiliscono in una casetta messa a disposizione della stessa comunità.

“Una decisione importante, questa della casa in comunità, che ci ha permesso di capire le dinamiche interne e per essere coinvolti in modo tota-le. Indispensabile per un progetto fin dall’inizio caratterizzato da una gran-de partecipazione attiva. Tutti i lavori sono stati fatti dai singoli abitanti, sia pur con il coordinamento dell’impresa. Ma è sempre stata la comunità a prendere ogni decisione. Anche tecnica. Quando sono arrivata in Bolivia era appena stato eletto Evo Morales, primo presidente indigeno e primo presidente democraticamente eletto dopo un passato di dittature. La svolta era evidente. Le popolazioni indigene si sentivano più forti, in un nuovo

~Bolivia~Cochabamba~

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cammino. Sempre più orgogliose della propria cultura e tradizione indige-na, nella consapevolezza di quante possano essere le potenzialità del popolo, della comunità, l’unica che può decidere veramente. Tutto ciò dà loro la forza necessaria per portare avanti battaglie come quella dell’acqua. Non abdicano all’idea forte che le risorse naturali siano beni comuni. L’acqua, la terra. Il loro attaccamento alla madre terra non è nominale. I boliviani si sentono in dovere di proteggere la madre terra perché rappresenta la vita. Hanno capito questo con la guerra dell’acqua: l’acqua è di tutti e di nessu-no. Non permetteranno mai che soggetti privati la vogliano fare loro”.

Una consapevolezza, questa, tutta boliviana. La Bolivia è un paese molto duro, dalla natura aspra, dalla vita difficile per chi vive sull’altopia-no con una terra che dai 3000 in su non può dare molto. Eppure, nono-stante le difficoltà e il clima rigido, c’è tanta gente ancora che vive sulle Ande e che è riconoscente nei confronti di una terra quasi inospitale. Perché, comunque sia, ogni risorsa naturale è fonte della vita.

La comunità di Villas de Chilimarca, dove è stata realizzata la rete fo-gnaria, era stata una delle protagoniste della guerra dell’acqua del 2000. Da sempre si autogestiva l’acqua proveniente sia da pozzi che da sorgenti dirette. In quest’area l’acqua non manca. E’ la zona a sud di Cochabamba che è più arida e dove l’approvvigionamento idrico è più problematico. La comunità è formata da circa 7000 persone e conta ben 5 comitati d’ac-qua diversi che si gestiscono approvvigionamento e manutenzione e defi-niscono le tariffe. Qui, già nel 2003, era previsto un progetto per la rete fognaria. L’intervento però avrebbe portato alla privatizzazione del servi-zio. Erano trascorsi appena 3 anni dalla guerra dell’acqua. E la comunità ha detto no e si è opposta al progetto, preferendo successivamente quello “alternativo” dell’AATO che avrebbe garantito loro l’indipendenza della gestione. Così come già avviene con l’approvvigionamento idrico.

Ogni fase di progetto è stata accompagnata da mille riunioni. “E’ la loro modalità”, spiega Cristina, “ qui tutti possono parlare e tutti vengono ascoltati. C’è un grande rispetto per ogni opinione. Balza subito agli occhi la differenza con la nostra società: lì la gente crede davvero nel bene co-mune, quello collettivo. Ognuno si sente parte della comunità e si impegna

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per l’ interesse della comunità. Tantissimi hanno lavorato con noi a titolo gratuito. L’hanno fatto per il bene della comunità. Sono consapevoli che solo se si salvaguarda il bene comune si potrà salvaguardare anche se stessi. Ogni fase del progetto è stata caratterizzata dalla partecipazione attiva della gente, da una stretta collaborazione tra la popolazione e l’impresa costrut-trice dell’opera. Non solo: ogni decisione, sia tecnica che politica, è stata condivisa e discussa. Innumerevoli sono state le riunioni e le assemblee, un vero esempio di democrazia partecipata, in cui tutti i presenti hanno il dirit-to di esprimere la propria idea. Le decisioni non sono mai state prese dai soli dirigenti, ma sempre discusse con tutta la base, nella massima trasparenza, attraverso una forma di “controllo sociale” diretta ed efficace. Un progetto quindi della gente e per la gente, costruito e modificato giorno per giorno con gli stessi beneficiari”.

La rete fognaria di Villas de Chilimarca è finita, ma per entrare in funzione ha bisogno prima che venga realizzato un impianto di depura-zione. Sarà un impianto di fito depurazione per permettere all’acqua di chiudere il proprio ciclo e, una volta depurata, essere utilizzata per l’agri-coltura e l’irrigazione. La comunità e la Coordinadora stanno cercando i fondi per continuare il progetto.

Per Cristina Coletto non è stato facile lasciare la comunità boliviana. Né tornare in Italia e ricominciare qui: “Questi due anni lì mi hanno dato moltissimo. Mi hanno fatto capire quali dovrebbero essere le priorità della vita. Ho capito quanto importante sia la condivisione delle cose, del tempo, delle idee. So che qui le condizioni sono diverse, ma mi sono resa conto che ciò che sta rovinando la nostra società è l’individualismo. In Bolivia invece ho imparato ad aspettare. Lì ho imparato che ci sono delle priorità umane. Non c’è mai nulla di così importante che deve far correre. Se si incontra qualcuno che chiede aiuto, ci si ferma, c’è sempre tempo per un saluto e due parole. Le relazioni umane sono la prima cosa. Qui è diverso, certo. Ma mi piacerebbe comunque mettere in pratica un’altra filosofia di vita. Lo ammetto: sono ancora disorientata. Qui tutto mi sembra grigio e triste. Mi mancano i colori della Bolivia. E mi manca la gente che vive la città. Insieme”.

~America~

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~America~

~CHILIMARCA , 25 CHILOMETRI DI RETE FOGNARIA,115.994 BENEFICIARI DIRETTIE UNA COOPERATIVA PER LA GESTIONE~

Il primo progetto finanziato da Aato in Bolivia e lì gestito da A Sud, ha permesso di riunire 300mila euro da investire nella costruzione di una rete fognaria a Chilimarca, uno dei quar-tieri più poveri di Cochabamba. Il progetto è nato a partire da una proposta della Coordinadora de Defensa del Agua y la vida, principale protagonista delle lotte contro la privatizzazione dei servizi pubblici in Bolivia.

Il progetto, avviato nell’aprile 2006 e concluso a novembre 2007, ha visto la realizzazione di 25 chilometri di rete fogna-ria e il rafforzamento dei Comitati d’Acqua Potabile della zona Sud. Ha ben 115.994 beneficiari diretti. Assieme al progetto si è formata una cooperativa per la gestione pubblica della rete realizzata.

Attraverso il progetto si è voluto dare risposta alle esigenze della popolazione basate principalmente su una proposta di gestione comunitaria dei servizi basici, che sia partecipativa, produttiva,

educativa e di promozione sociale. Obiettivo strategico è quello di dare forma istituzionale alla struttura e all’organizzazione degli attori respon-sabili nella gestione dei servizi basici. La creazione della Fundacion Abril risponde a queste necessità e diviene il catalizzatore strategico delle at-tività della società civile. La Fundacion Abril ha rafforzato l’unità delle strutture già operanti o in fase di progettazione. Ora ha il compito di istituzionalizzare i processi partecipativi sui temi della gestione comuni-taria dei servizi basici. Si è fatta carico di realizzare una mappatura delle realtà e delle situazioni più a rischio, identificando azioni e interventi strategici mirati. Ha fornito appoggio legale, formazione professionale, sensibilizzazione sui temi di pari opportunità e sul rispetto dei diritti umani fondamentali al fine di creare spazi di partecipazione in cui venis-sero individuate e realizzate proposte concrete sulle politiche municipa-

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~Bolivia~Cochabamba~

li, regionali e nazionali relativi alla gestione dei servizi basici. La creazione della Fundacion risponde ad un’esigenza fondamentale

di un territorio e di molte comunità che presentano situazioni di totale degrado socio economico, ambientale e sanitario, e dove il tessuto socia-le appare smembrato e privo di referenti istituzionali.

In tale contesto, la realizzazione di reti fognarie, reti per il recupero d’acqua di scarico, camere d’ispezione e connessioni domiciliari per le famiglie coinvolte, risponde alla necessità di risolvere le gravi condizioni sociali, economiche, ambientali e culturali di degrado in cui è costretta a vivere la popolazione in assenza di sistemi adeguati per l’evacuazione delle acque nere. Inoltre, dato il processo di resistenza messo in atto dal-la popolazione di Chilimarca per non aderire al mega intervento di pri-vatizzazione implementato nella zona, questo progetto ha dato l’oppor-tunità di operare attraverso un’alternativa economica ( il finanziamento della cooperazione internazionale) che ha dato alla comunità autonomia totale e possibilità di autogestione dei servizi di base.

La costruzione di rete fognaria, camere d’ispezione e rete per il re-cupero di acque di scarico, e l’appoggio alla Cooperativa dei Comitati del sud, sono strumenti per migliorare le condizioni di vita di quattro distretti di Cochabamba e ridurranno, nel tempo, le malattie e le in-fezioni legate alla mancanza d’acqua e di condizioni igieniche di base. Oltre alla costruzione di queste infrastrutture, obiettivo del progetto è stato quello di rafforzare il processo di gestione comunitaria dei servizi di base attraverso il coinvolgimento diretto dei partners boliviani. Sono stati gli stessi beneficiari, infatti, a finanziare parte del progetto, a fornire la manodopera, a monitorare e definire le varie fasi di realizzazione at-traverso assemblee pubbliche comunitarie. Il tutto con l’appoggio della Fundacion Abril, che si è posta come coordinatrice e punto di raccordo tra tutti gli attori coinvolti.

La Coordinadora del Agua considera questo un progetto pilota e poli-ticamente emblematico per la modalità di finanziamento e di gestione “dal basso”. Anche in Italia questo progetto rappresenta un’innovazione sia nel-la ricerca dei finanziamenti che nella gestione orizzontale e partecipata.

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~Acqua altra di Venezia~ ~Africa~

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A gestire in Bolivia il progetto è stata A Sud, un’associazione italiana indipendente nata nel 2003 per affiancare i movimenti sociali e indigeni del Sud del mondo attraverso progetti di cooperazione internazionale. Progetti proposti direttamente dalle organizzazioni locali di base e fon-dati sui principi di autogestione, orizzontalità e democrazia partecipata. Attraverso tali progetti e attraverso i finanziamenti della cooperazione decentrata, A Sud cerca di stimolare processi politici dal basso, creare reti di solidarietà e portare avanti azioni e campagne tanto nel sud quan-to nel nord del mondo. In Italia A Sud promuove campagne e attività di sensibilizzazione e formazione sui temi della decrescita, dell’autogover-no, della democrazia partecipata, dei conflitti ambientali e sociali.

A Sud ha tra i suoi principali ispiratori e riferimenti movimenti come i guerrieri dell’acqua di Cochabamba in Bolivia, che hanno dato contenuti e immaginario collettivo a tutto il movimento mondiale per il diritto all’acqua; la CONAIE in Ecuador, che ha mostrato i disastri compiuti dai grandi organismi finanziari e commerciali internazionali; la Onic in Colombia, che ha disegnato una piattaforma di lotta dei popo-li indigeni;le comunità Aymara e Quechua, i Piqueteros argentini, che hanno posto la questione del diritto dei lavoratori ad essere protagonisti dei processi produttivi; gli zapatisti del sud est messicano, che hanno tradotto un’idea di cambiamento sociale in pratiche organizzative di par-tecipazione orizzontale e dal basso; i movimenti indiani contro la costru-zione delle dighe e contro i transgenici, che hanno denunciato i disastri ambientali prodotti dallo sviluppo capitalistico; i movimenti nigeriani in lotta contro lo strapotere delle multinazionali del petrolio che, con metodi diversi, pongono la questione fondamentale della redistribuzione equa delle ricchezze.

A fianco questi e altri movimenti A Sud cerca di “camminare doman-dando”, con l’obiettivo di costruire ponti di comprensione tra il sud e il nord del mondo. E con il sogno di una società basata su giustizia sociale, rispetto ambientale e democrazia partecipata.

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~Bolivia~Cochabamba~

~TIQUIPAYA E LA SUA GUERRA DELL’ACQUA~

Nel 2000, gli abitanti di Cochabamba si sono fatti cono-scere in tutto il mondo per la lotta contro la privatizza-zione dell’acqua. La Banca Mondiale, attraverso il Go-

verno boliviano, aveva tentato di privatizzare il servizio idrico della città causando un aumento delle tariffe di quasi il 300%. La popolazione, dopo mesi di resistenza e mobilitazioni, aveva vinto la guerra cacciando il consorzio di multinazionali e restituendo l’impresa municipale nelle mani del popolo.

Il 2003 è stata la volta di una seconda Guerra dell’Acqua, quella della municipalità di Tiquipaya che ha visto come protagonista la comunità di Villas de Chilimarca, dove è stato realizzato il progetto dell’Aato. Quel-l’anno, sia a Tiquipaya che a Colcapirhua era stato proposto dal Banco Interamericano del Desarrollo un fi nanziamento per la costruzione dei servizi fondamentali, come quello idrico-sanitario, e la costruzione di una rete fognaria, a scapito però della loro successiva privatizzazione. La comunitá di Villas de Chilimarca - che come molte altre comunitá di Cochabamba mantiene una gestione autonoma dell’acqua attraverso i “Comitati di Acqua Potabile” - inizia allora la lotta contro questo proget-to. Vince, dopo settimane di marce e scontri con la polizia, destituisce il sindaco, rifi uta l’intervento proposto e chiede un “progetto alternativo”. Partecipato, autonomo e autogestito. Il progetto viene fi nanziato grazie all’intermediazione di A Sud, che presenta la proposta di costruzione di una rete fognaria per 7000 persone all’AATO di Venezia.

Nel mondo di certa cooperazione, il progetto diventa un esempio di un altro modo di fare cooperazione internazionale: “dal basso”, diretta da popolo a popolo, fi nanziata attraverso un fondo costituito da risorse dirette dei cittadini italiani.

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~Cochabamba~Fase di escavazione con una retro scavatrice del Municipio di Tiquipaya,come appoggio al progetto.

~Cochabamba~Lavoro comunitario sotto la guida di

un ingegnere dell’impresa costruttrice

~Cochabamba~Posa dei tubi: momento essenzialedel lavoro

~Cochabamba~Posa dei tubi: momento essenziale

del lavoro

~Cochabamba~Realizzazione delle cameredi ispezione

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America~Bolivia~Valle Araca~

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~DALL’ACQUA RIAFFIORA UNA COMUNITÀ~

Dolci, vino e foglie di coca sono deposti dallo Yatiri, il maestro rituale della comunità, nel punto esatto del primo scavo per la costruzione dell’acquedotto.

L’offerta rituale è per gli spiriti Achachila. Così non verranno a di-sturbare i lavori e accoglieranno l’opera sulla loro terra. Terra sacra, che l’uomo può “violare” solo con il loro consenso. Così nel 2007, con la pre-ziosa collaborazione delle comunità di Valle Araca e la benedizione degli esseri soprannaturali che la popolano, sono stati costruiti quattro sistemi in pressione di distribuzione dell’acqua, funzionanti a gravità. Sono state realizzate strutture per raccogliere l’acqua dalle fonti, convogliarla in un serbatoio da cui ora parte una ramificazione di tubi che approvvigiona una rete di distribuzione che arriva a tutte le abitazioni dei 1.200 abitanti di quattro comunità Aymara, tra le più povere di questa regione andina della Bolivia: La Lloja, Saya, Sacani e K’ara.

Le grandi montagne andine proteggono i villaggi. Qui si vive a 3000-3500 metri sul livello del mare. Dai monti sgorgano generosi rivoli d’ac-qua che si sperdono sui terreni scoscesi e rotolano verso valle. Imbriglia-re quest’acqua che vive è la prima cosa da desiderare e da fare per poter garantire lo sviluppo di valle Araca. Proprio grazie al costante sforzo della sua gente, l’area ha raggiunto un buon grado di sviluppo sociale. Ma tutto dipende sempre e comunque dalla presenza e dalla disponibilità di acqua. Sia per quanto riguarda la produzione agricola che per l’insieme delle attività urbane, minerarie e industriali.

In questa valle il terreno è molto argilloso. Terra rossa. Da secoli gli abitanti della Valle praticano l’agricoltura e la pastorizia e dall’acqua di-pende la loro sopravvivenza.

L’uso dell’acqua e della terra nella zona è stato sapientemente orga-nizzato dalla civiltà Tiwanaku e ha lasciato pressoché inalterate centinaia di strutture ancora visibili.

Da qui è partito l’intervento di Acra che, oltre a non “scalfire” tradizio-ni e credenze, ha cercato, riuscendoci, di inserirsi nell’ambiente in modo compatibile ed equilibrato.

~America~

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Quest’acqua che vive e le popolazioni che la rispettano così tanto non possono non aver affascinato, e alla fine sedotto, Diego Giacomini, tecnico di Vesta, che in Valle Araca ci è andato per la verifica del progetto AATO.

VESTA è una delle quattro aziende a totale capitale pubblico (insie-me ad ACM di riviera del Brenta-Miranese , ASP di Chioggia e SPIM di Mogliano) che, unitesi in VERITAS SpA, gestisce il bacino di utenza di acqua dell’AATO della Laguna di Venezia. Quest’organismo, secondo la legge Galli del 1994, ha tra i suoi compiti la predisposizione dei Piani d’ambito, cioè strumenti per l’organizzazione, la pianificazione e il gover-no del servizio idrico integrato e la tutela e salvaguardia della risorsa.

Dieci giorni di full immersion in un mondo altro. Un’occasione irri-petibile per un laureato in Scienze ambientali come Giacomini che in tasca ha anche un Master in progettazione e sviluppo sostenibile che ha determinato il suo futuro umano e professionale.

“La missione è durata 10 giorni, dal 16 al 26 febbraio 2007, ecco, vedi, qui ho scritto tutto”, mi spiega, con la foga di chi ama raccontare e rac-contare ancora quell’esperienza boliviana.

“Siamo arrivati nella capitale La Paz, dove avremmo dovuto acclima-tarci un po’ all’altitudine. Una situazione che avevamo sottovalutato: non è facile per noi, abituati alla laguna o al massimo alle Dolomiti, trovarci a vivere e lavorare a quota 3600 metri sul livello del mare! Comunque, un po’ malconci e con tanto mal di testa per alcuni giorni, ne siamo usciti. A La Paz ci siamo messi in contatto con Carlo Krusich che di Acra è il coordina-tore per la Bolivia. Assieme a lui avremmo lavorato anche con i responsabili locali del progetto. Dalla capitale boliviana, in 6 ore di jeep, su strade incre-dibili e panorami mozzafiato, siamo arrivati al primo villaggio interessato. Il nostro lavoro, oltre al controllo tecnico su quanto era stato fatto, sarebbe stato quello di intervistare i rappresentanti e la popolazione delle comunità, per capire fino in fondo cosa aveva portato il nostro aiuto”.

Una delle prime realtà emerse dagli incontri in comunità è stata quel-la della lavoro necessario svolto da Acra per convincere la gente dei vil-laggi a pagare l’acqua.

~Bolivia~Valle Araca~

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Secondo la visione contadina delle Ande infatti, l’acqua vive. Non è solo un’indispensabile risorsa, ma anche e soprattutto un essere vi-vente. L’antica tradizione Aymara la considera “sangue” delle Achachilas, le vette protettrici, e “latte” della Pachamama, la Madre Terra. Proprio come una semplice persona, l’acqua ha qualità e difetti. La Qota mama (il lago Titicaca) è colei che dona la vita alle comunità dell’intera vallata. La Jawira è il fiume, che porta pietre medicinali con cui si fanno infusi miracolosi. Ma ci sono anche le temute Juiphi, la gelata, e la Chijjchi, la grandine.

“L’acqua da queste parti è sentita come un bene di tutti. Da rispettare, certo, ma non da pagare. La tariffa è stata calcolata per coprire i soli costi di costruzione e di manutenzione dell’impianto” spiega Giacomini. “Se siamo riusciti a chiudere il progetto nei tempi previsti è tutto merito di queste persone. Hanno lavorato sempre. E, credimi, non è facile salire su queste montagne con un sacco di sabbia da 20 chili sulle spalle!

Il progetto ha permesso di garantire l’accesso sostenibile all’acqua pota-bile alle popolazioni delle comunita’ di La Lloja, K’ara, Saya e Sacani in un contesto di gestione integrata delle risorse idriche e nel rispetto degli usi e costumi della tradizione locale Aymara. Da un lato ha dunque previsto la realizzazione di opere di presa per convogliare l’acqua dalla fonte a una prima vasca di sedimentazione dalla quale un secondo tubo scende a valle per riempire il vero serbatoio di accumulo. Da qui, dopo un contatore di portata, si dirama la rete idrica verso le case. Dall’altro, uno studio antropo-logico ha permesso di inserire il progetto nel contesto sociale delle comunità insegnando loro l’utilizzo e la manutenzione degli impianti stessi”.

Alfonso Espinal, il coordinatore locale del progetto, è stato il motore del lavoro. Ogni mattina prendeva la jeep per controllare il lavoro dei gruppi e coordinarli. Un crono programma condiviso da tutti scandiva i tempi dei lavori e rendeva conto dell’impegno economico. Il risultato, oggi sotto gli occhi di tutti, sta nel sorriso orgoglioso di Alfonso, ripreso nel video di Acra.

“La partecipazione delle comunità agli interventi ha contribuito a con-solidare negli abitanti della Valle la loro identità etnica. Nel comunicare e

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spiegare ai cooperanti e a noi stessi nelle vesti di verificatori, i rituali, le leggende e le antiche credenze, hanno acquisito sicurezza e maggiore consa-pevolezza e direi anche orgoglio rispetto alle proprie origini e tradizioni”.

“È stata un’esperienza molto emozionante. Ci chiamavano tutti “inge-gnere”, che per loro era evidentemente la massima espressione dell’essere umano. In ogni villaggio c’era una festa. Noi tenevano un discorso di rin-graziamento per la loro preziosa collaborazione. Andavamo a vedere insieme la costruzione. Insieme nel campo a verificare. E’ stato chiaro fin dall’inizio che si sentivano i veri protagonisti del progetto.

Noi abbiamo “solo” creato le condizioni necessarie per avviarlo. Il resto l’hanno fatto loro. Non ho mai visto persone più felici per aver finalmente l’acqua vicino a casa!

Quella valle è un posto unico, sereno, in pace con la vita. Il mio lavoro, lì come qui, è quello di verificare i processi, misurarli. In Bolivia ho portato con me un bagaglio culturale che ho appreso in azienda e che mi trasmesso la mia responsabile Giuliana Da Villa. Ma in quella valle, a differenza di qua dove a volte il metodo prende il posto dei valori, ho avuto la sensazione di aver preso parte ad un ciclo “vitale” non produttivo. L’acqua è un bene inalienabile, una condizione necessaria alla vita. Vedere l’impegno e lo sfor-zo che quelle persone hanno messo in questo progetto mi ha molto gratifica-to. Ci hanno messo l’anima.

Non dovrei forse paragonare le due società. La nostra e la loro. Così lon-tane. Ma l’amore e la passione con cui hanno realizzato questo progetto era palpabile. Impossibile farlo comprendere in un report di missione che per necessità deve valutare aspetti economici e progettuali. Impossibile descri-vere la loro espressione di felicità e orgoglio una volta ultimati i lavori..

Loro sono ricchi, e felici, di ciò che la terra concede loro. Più felici di noi, che forse abbiamo perso il rapporto quotidiano con la natura. Vivono in totale comunità con la madre terra, una splendida terra . La loro forza è ap-prezzare questa ricchezza. Da valle Araca sono tornato cresciuto, contento, più forte. Non parliamo di esportare modelli o strutture. Parliamo invece di reciprocità: a loro possiamo forse insegnare molte cose. Ma sono certo più numerose quelle che noi possiamo imparare da loro”.

~Bolivia~Valle Araca~

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~Bolivia~Valle Araca~

~IN VALLE ARACA, DALLA MONTAGNA ALLE CASE~In Valle Araca, ACRA (Associazione di cooperazione rurale

in Africa e in America Latina) si è occupata della costruzione di 4 sistemi di pressione e di distribuzione dell’acqua funzionanti a gravità che servono le 1210 persone che formano la comu-nità locale. Sono state realizzate le opere di presa, i serbatoi di accumulo e la rete di distribuzione. Il finanziamento per il progetto è stato di 250mila euro. Il lavoro è iniziato nel maggio 2006 e si è concluso nel giugno 2007.

La missione di verifica e controllo- a cura di Vesta – si è tenuta nel febbraio 2007.

I quattro sistemi in pressione, funzionanti a gravità, raccolgono l’ac-qua che si scioglie dai ghiacciai e la convogliano in un serbatoio da cui parte una ramificazione di tubi che alimenta una complessa rete

di distribuzione. Questa arriva nelle abitazioni di 280 famiglie, che ora possono bere acqua “pura” aprendo il rubinetto, senza più bisogno di andare con i secchi a raccogliere quella “contaminata” dei ruscelli, dove si abbeverano anche animali domestici e selvatici.

Valle Araca, provincia di Loayza (dipartimento di La Paz), si trova nel nord-ovest della Bolivia. Nonostante il territorio sia caratterizzato dalla presenza di rilievi e altopiani di origine vulcanica con numerosi corsi d’acqua e ghiacciai, la qualità e quantità d’acqua disponibile è insufficiente per le necessità della popolazione. Colpa della carenza delle infrastrutture, che non sono in grado di soddisfare la domanda e costringono gli abitanti a raccogliere l’acqua dai piccoli fiumi o ruscelli al di fuori dei villaggi, dove si abbeverano anche animali domestici e selvatici. Una soluzione che presenta alti rischi per la salute a causa delle possibili infezioni per le quali l’acqua è veicolo ideale.

Il progetto ha visto il miglioramento delle infrastrutture idriche già esistenti e la costruzione di acquedotti ‘a gravità’, che dalle alte vette boliviane oggi conducono l’acqua fino alle comunità dell’altopiano, col-legandosi alle abitazioni di oltre 1.200 persone, nelle quattro comunità

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di La Lloja, Saya, Sacani e K’ara. In un’ottica di sviluppo sostenibile, la gestione del nuovo sistema è

stato affidato alla popolazione locale attraverso la costituzione di Comi-tati di acqua potabile (Cap) eletti dalle assemblee comunali in accordo ai costumi e alle forme di organizzazione locale.

I Cap hanno il compito di gestire il sistema idrico e vigilare sul-l’applicazione della regolamentazione approvata a livello comunitario. I membri hanno ricevuto una formazione sugli aspetti normativi della ge-stione idrica e sulla valorizzazione delle pratiche tradizionali di gestione dell’acqua potabile.

Il progetto ha previsto anche attività finalizzate alla creazione di una comune consapevolezza e di una visione condivisa dei problemi legati all’accesso e alla gestione sostenibile delle risorse idriche.

In particolare, sono stati promossi incontri e scambi tra le comunità del municipio di Cairoma e quelle delle regioni dell’altopiano, delle valli interandine e dell’Amazzonia boliviana, caratterizzate da problemi e da conflitti per l’accesso e l’uso dell’acqua. Nonostante i beneficia-ri diretti del progetto siano circa 1200 persone, la comunità coinvolta dall’intervento è molto più ampia: l’intera popolazione del municipio di Cairoma che conta circa 12mila individui.

~America~

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~Bolivia~Valle Araca~

~LA BOLIVIA, L’ACQUA E LA SUA GENTE~

La Bolivia, l’acqua e la sua gente. Un rapporto imprescindibi-le. Le etnie andine come quelle dei Quechua e degli Ayma-ra e le etnie amazzoniche come i Guaranì, hanno sempre

vissuto il territorio come parte di esso e non come dominatori. Gli indi-geni boliviani si sentono tutt’oggi parte della Pachamama, della Madre Terra, di cui utilizzano le risorse in maniera tale da non pregiudicarne qualità e disponibilità. E come figli della Madre Terra, i Boliviani difen-dono le proprie risorse, prime fra tutte il gas naturale, quindi la terra, e per l’appunto l’acqua.

È in un contesto come questo che gli ultimi dieci anni della Bolivia sono stati scenario di una vera e propria Guerra dell’acqua.

Tutto iniziò nel 2000 quando nella città di Cochabamba il servizio di gestione di acqua potabile fu affidato alla società Aguas del Tunari, controllata dal consorzio International Water, la cui quota maggiorita-ria è dell’americana Bechtel e a cui aggiunse successivamente l’italiana Acea. Per la popolazione ciò significò un incremento insostenibile delle tariffe e la presenza di acqua non sempre di buona qualità.

Cinque anni di proteste e manifestazioni, ma anche di repressioni da parte delle forze di polizia, hanno costretto la Bechtel a uscire di scena. La vittoria dei “guerrieri dell’acqua” viene decretata nel 2005 con la recessione del contratto con l’azienda americana.

La lotta e la vittoria della gente di Cochabamba si è trasformata in un caso esemplare che ha fatto vedere al mondo intero i rischi di una privatizzazione dell’acqua, aggravata dalla mancanza di una consulta-zione pubblica.

Ancor più simbolica la guerra di Cochabamba lo è diventata per l’ America Latina. Se è vero, infatti, che, secondo dati Unesco, non più del 2,5% dell’acqua della terra è dolce e potabile, un quarto di questa percentuale si trova nel cono sud dell’America Latina. In particolare in Paraguay con l’Acuífero Guaraní, con i grandi fiumi Paraná e Para-guay, Uruguay e Pilcomayo, Iguazú e il Bermejo, l’Apa e il Negro. Con le cateratte di Iguazú e le centrali idroelettriche di Yaciretá (condivisa

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~Acqua altra di Venezia~

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~America~

con l’Argentina) e Itaipú (condivisa con il Brasile, la più grande del mondo).

Quest’oceano d’acqua dolce forma la Cuenca del Plata: un bacino idrografico di 3.2 milioni di km fra Argentina, Brasile, Bolivia, Uruguay e Paraguay.

Il cuore pulsante di questo bacino è appunto il Sistema Acuífero Guaraní. L’acqua sotterranea copre 1.2 milioni di km quadrati e se-condo gli esperti potrebbe soddisfare il fabbisogno di 360 milioni di persone per 100 anni usando solo il 10% della sua capacità totale. Ma la sua ricarica naturale, attraverso le piogge o attraverso l’infiltrazione verticale, può essere danneggiata dai residui industriali e domestici sca-ricati nei fiumi e soprattutto dai pesticidi.

Il movimento internazionale in difesa dell’acqua sostiene che l’Acui-fero Guarani dovrebbe essere dichiarato “patrimonio dell’umanità”, pro-prio in quanto risorsa ambientale di valore inestimabile comune fra i 4 paesi che in qualche modo la posseggono.

Per il presidente boliviano Evo Morales, quest’acqua è un “diritto umano”. Punto e basta. Perché l’acqua, sono ancora parole di questo presidente indigeno, «non può diventare mai un affare privato, ma deve restare sempre un servizio pubblico».

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~Valle Araca~Comunità di K’ara

~Valle Araca~Comunità di La Lloja

~Valle Araca~Comunità di K’ara

~Valle Araca~Comunità di Saya

~Valle Araca~Acqua sul tetto del mondo nella comunità di Saya

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Africa~Mali~Regione di Gao~

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~Acqua altra di Venezia~ ~Africa~

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~IL SOGNO E LA REALTÀ DELLA COOPERAZIONE~

Incontrare Marco Croce in Italia è una gran fortuna. Da due anni vive stabilmente in Mali dove rappresenta l’associazione LVIA. A casa, a Rovigo, torna un paio di volte all’anno. Dall’ottobre 2006 alla prima-

vera 2008 in Mali si è occupato di tutti i progetti nel campo idrico che fanno riferimento all’associazione. Da aprile 2008 è il rappresentante di LVIA nel paese africano. Ha quindi compiti di coordinamento, supervi-sione degli interventi e rapporti con il governo maliano.

Marco ha 30 anni, una laurea in Economia delle Amministrazioni Pubbliche e delle Istituzioni internazionali alla Bocconi e genitori medici che fin da bambino gli hanno fatto respirare e vivere l’aria della coope-razione internazionale. Da due anni quella che era un’intuizione prima, una passione dopo – la cooperazione, l’aiuto al sud del mondo – è diven-tata una professione.

“Fin da quando mi sono iscritto al liceo, ho costruito il mio percorso in funzione di un futuro nella cooperazione internazionale. Dopo la laurea ho fatto parte di progetti in Bolivia e in Nicaragua, poi ho lavorato per una società di consulenza dove mi sono occupato di progetti di sviluppo interna-zionale. Sono in Mali dall’ottobre 2006. Non è stata una scelta, quella del Mali. E’ capitata, quasi per caso.

Avevo messo il curriculum nel sito della Focsiv, la Federazione italiana che riunisce gli organismi cristiani di volontariato, e mi hanno chiamato. Sono stato selezionato dalla LVIA, una delle ONG che fanno parte della FOCSIV, e destinato in Mali , uno dei paesi più poveri del mondo dove le popolazioni sono particolarmente colpite dal processo di desertificazio-ne. La loro, un tempo, era anche un’economia legata alla pastorizia. Ma oggi i pascoli perenni sono scomparsi, gli animali sono morti e i conflitti fra allevatori e popolazione cruenti. Questo è un Paese passato attraverso una ribellione di cui in Occidente poco sappiamo, ma che è costata cara a tutti. Da una parte il governo maliano. Dall’altra il popolo Tuareg, come li chiamiamo in Occidente, gli uomini blu. I Tamasheq, come si vogliono chiamare loro: uomini liberi”.

In Mali Marco Croce ha sempre seguito la realizzazione dei progetti idrici. Uno degli impegni maggiori di LVIA è quello con il progetto del-

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~Acqua altra di Venezia~ ~Africa~

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la Comunità europea “Appoggio alle popolazioni della valle del fiume Niger”: 1 milione e mezzo di euro su 3 anni, 90 pozzi d’acqua lungo il fiume e avvio di strutture per garantire che il lavoro venga realizzato da manodopera locale.

Il progetto AATO ha previsto 5 trivellazioni a supporto di altrettanti Centri di sanità locali.

“È stato un progetto abbastanza fortunato”, spiega Marco, “abbiamo iniziato nell’ottobre 2006, poi i lavori hanno subito un rallentamento cau-sato da un periodo di insicurezza politica e di nuovi scontri fra le popola-zioni Tamasheq e il governo maliano. La fase delle trivellazioni è andata bene. Lo studio geofisico preliminare ci ha convinti a cambiare solo una delle destinazioni previste in un primo momento. Avremmo avuto una bassa probabilità d’acqua e non trovarla sarebbe costato moltissimo. Così abbiamo cambiato e ci è andata bene. Tutte e cinque le trivellazioni sono andate a buon fine. La società locale di trivellazione, alla quale ci appoggiamo sem-pre, ha raggiunto profondità dagli 80 ai 110 metri per trovare acqua buona. La fase successiva è stata quella di installazione delle pompe solari”.

Accanto alla realizzazione dei pozzi, è stata condotta un’attività di sensibilizzazione della popolazione e formazione sanitaria per l’ utilizzo dell’acqua potabile.

“La situazione che abbiamo trovato nei villaggi interessati dal proget-to era molto difficile”, spiega Croce. “C’erano sì piccoli ambulatori per le prime emergenze, ma tutti senza disponibilità d’acqua. Neppure quella per lavare le ferite. I sanitari intervenivano senza le minime condizioni di igiene. Oggi, dieci metri cubi d’acqua al giorno sono destinati in forma gratuita al centro sanitario. Gli abitanti invece pagheranno una tariffa. Far pagare il servizio di estrazione dell’acqua ha un doppio scopo: da una parte responsabilizzare gli abitanti a un uso oculato dell’acqua potabile, dall’altra permettere al villaggio di creare un fondo cassa in grado di far fronte alla manutenzione del pozzo e alle riparazioni minime.

Abbiamo visto troppe volte che se non ci sono i soldi disponibili, an-che in caso di un piccolo guasto, il pozzo viene abbandonato. Mi sembra che questa impostazione sia stata ben recepita dal governo del Mali che ha recentemente varato un nuovo codice per la gestione dell’acqua. Oggi ci

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~Mali~Regione di Gao~ ~Acqua altra di Venezia~

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sono Comitati di gestione che si occupano di tutto, dalla manutenzione alla riscossione del pagamento. In alcuni villaggi, il pozzo viene chiuso con un lucchetto: si preleva l’acqua a orari stabiliti e ogni volta che si va al pozzo si paga il quantitativo d’acqua che ci si porta a casa”.

Riuscire a portare l’acqua potabile alle comunità nel deserto e ai loro centri di sanità significa salvare molte vite.

In Mali ci sono due momenti della vita in cui il rischio di morte è altissimo. Da quando si nasce ai cinque anni e quando, fin dall’adole-scenza, si partorisce. Succede spesso anche in mezzo al deserto. E le giovanissime madri non ce la fanno. Non sopravvivono al loro piccolo. Se è vero che, come denuncia Save the Children nel Rapporto 2008, più di 1 milione di bambini e circa 70.000 madri adolescenti muoiono ogni anno nei paesi in via di sviluppo, il rischio di maternità precoce è più alto e devastante in particolare nell’ Africa subsahariana con Nigeria, Liberia e Mali in cima alla classifica.

In questi Paesi, più di una ragazza su sei tra i 15 e i 19 anni mette al mondo un bimbo ogni anno. Ma quasi uno su sette dei neonati muore entro il primo anno di età.

Le puerpere-adolescenti hanno il doppio delle possibilità di morire per complicazioni legate al parto rispetto alle donne più grandi. E le ragazze sotto i 14 anni corrono un rischio ancora maggiore.

“Se ci fosse un servizio sanitario minimo non ci sarebbero tutte queste morti”, dice Croce, “ Ma mancano in moltissimi luoghi le condizioni igie-niche di base. Se è vero, come canta uno dei detti locali, che l’acqua è la vita, in Mali esistono enormi spazi senza una goccia. E’ bene fare una distin-zione fra acqua in genere e acqua potabile. I maliani in generale pensano che ogni acqua sia bevibile. E invece, nelle zone vicino al fiume, l’acqua fa più danni che altro. Dissenteria, colera, epidemie. Veder morire un bambi-no laggiù è un’atroce quotidianità. Far capire loro che queste malattie sono legate all’acqua è molto, ma molto difficile. C’è da compiere un lunghissimo e costante lavoro di sensibilizzazione. Va fatto capire bene che l’acqua per abbeverare gli animali deve essere distinta da quella per sé stessi. Ma in una cultura dove il bestiame ha la stessa o maggiore importanza della famiglia, è quasi impossibile. La tradizione vuole che prima bevano gli animali, poi gli

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~Acqua altra di Venezia~ ~Africa~

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esseri umani. Siano cammelli, montoni o capre, poco importa”.“Da economista sono convinto che, in ogni caso, per poter creare un

sistema economico e di sviluppo, le condizioni di base siano l’accesso all’ac-qua, la sovranità alimentare, la sanità e l’educazione. Sono questi i requisiti indispensabili per poter avviare qualsiasi forma di cambiamento sociale o economico che si voglia. Per queste ragioni sono lì”.

Marco Croce vive a Gao, a 1200 km dalla capitale. Lo staff LVIA è composto da 25 persone, di cui tre non maliani: l’amministratore senega-lese, una consulente francese e un giovane in servizio civile. Ogni giorno di lavoro è diverso dal precedente e da quello successivo. Si viaggia giorni e giorni fra i villaggi per coordinare i progetti. Si dorme in camerate im-provvisate in scuole o municipi, ospiti delle comunità. Si lavora 24 ore su 24. Sette giorni su sette.

“Amo senza riserve il mio lavoro”, spiega ancora Marco. “Se vuoi dav-vero fare qualcosa per aiutare gli altri, questo mestiere ti regala la possibi-lità di farlo. Ma ti permette anche di entrare in contatto con altre culture. E queste relazioni arricchiscono sempre. Così come vedere quanto queste persone riescano a vivere in condizioni che per noi sarebbero impensabili. Da loro imparo sempre qualcosa di nuovo. E dal punto di vista umano ho molto di più di quello che riesco a dare. Ho imparato, per esempio, a dare importanza a cose che sono molto più reali. Tutto in Mali ha un’importanza vitale. E se lo si compara allo stile di vita che c’è in Occidente...che dire...lo trovo più puro, meno artefatto, più vero. Dare importanza alle cose ve-ramente importanti: la possibilità di trovare e avere l’acqua, per esempio, poi il bestiame, le piogge, la famiglia. L’unico problema di questo lavoro, semmai, è la difficoltà di farsi una famiglia. Per quanto mi riguarda, spero che la mia ragazza mi possa raggiungere una volta finiti gli studi in Italia. Per il resto, ti ripeto, c’è moltissimo da imparare dall’Africa: rapporti umani, condivisione, il vivere in comunità. Tutto ciò che noi stiamo perdendo.

Quando sono partito, temevo che importando laggiù modelli occidentali avremmo travolto i loro. Non è così. La verità è che, muovendosi con atten-zione, abbiamo molto meno impatto sui loro modelli sociali che quello che pensiamo di avere. E portiamo con noi, a casa,un mondo generoso”.

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~NELLA REGIONE DI GAO, 5 POZZI CON POMPAGGIOA ENERGIA SOLARE~

La trivellazione di cinque pozzi e l’installazione di sistemi di pompaggio a energia solare, completi di serbatoi e rubinetteria. E’ il compito assunto da LVIA (Associazione internazionale vo-lontari laici) per un progetto costato 250mila euro a beneficio diretto di 14mila persone che vivono nei pressi dei Centri di salute comunitari del Cercle del Bourem nella regione di Gao in Mali.

Il progetto, avviato nell’aprile 2006 e si è concluso a settem-bre 2008.

La realizzazione del progetto è stata resa difficile – con periodi di necessaria sospensione – dalle tensioni in atto fra go-verno maliano e alcune fazioni della popolazione Tuareg.

Dopo mesi di problemi e scontri, il 21 luglio 2008 ad Algeri, i 200 delegati rappresentanti del governo maliano e dei Tuareg dell’ “Allean-za democratica del 23 maggio per il cambiamento” hanno firmato un accordo per l’immediata fine delle ostilità. L’intesa rientra negli ac-cordi raggiunti nel 2006 sempre in Algeria, principale mediatore tra le due parti, che riaffermano l’unità del paese, e stabiliscono quindi che i ribelli non possono proclamare l’indipendenza da Bamako, ma impon-gono anche al governo maliano di lavorare per lo sviluppo della regione settentrionali, dove vivono i Tuareg.

Un accordo per il cessate il fuoco era stato firmato nell’aprile 2006 a Tripoli, ma poi nella regione erano ricominciate le violenze.

La LVIA - Associazione internazionale volontari laici referente del progetto AATO- è stata fondata da don Aldo Benevelli e ha iniziato a operare nel 1966 con alcuni volontari che dedicavano il loro tem-po libero a gruppi di lavoratori e contadini italiani emigrati all’estero (Germania e Francia) dalle loro regioni, allora afflitte da basso reddito economico. Nacque così un esempio di quello che poi si chiamò volon-tariato internazionale legato alle tre caratteristiche che ne formeranno

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~Mali~Regione di Gao~ ~Acqua altra di Venezia~

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le specificità: continuità, gratuità e professionalità. Nel 1967 la LVIA inizia ad inviare volontari in Africa, nel Distretto

di Meru (Kenya), inaugurando una lunga serie di interventi nel Sud del mondo. Nel 1972 ottiene il riconoscimento di idoneità dal Governo Ita-liano (Ministero degli Affari Esteri), che ha fornito il proprio appoggio a numerosi progetti di sviluppo. Anche la Comunità Europea a partire dal 1978 ha approvato e co-finanziato molte iniziative.

In questi anni LVIA, dopo un’adeguata formazione culturale e pro-fessionale, ha inviato più di 600 donne e uomini a lavorare a fianco delle popolazioni dei paesi più poveri del mondo.

LVIA lavora in Africa da oltre 40 anni al fianco delle comunità lo-cali, realizzando programmi tesi a valorizzare le capacità e le risorse del territorio per rafforzare il loro stesso impegno nello sradicamento della povertà e nella promozione dello sviluppo.

Attualmente è presente in 11 paesi africani: Burkina Faso, Burun-di, Etiopia, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Kenya, Mali, Mauritania, Mozambico, Senegal, Tanzania, oltre che in Albania.

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~UNA FARFALLA NEL DESERTO~

I confini geografici del Mali disegnano una farfalla, incastonata nel-l’Africa occidentale, in una posizione di cerniera tra il Sahara e la regione sudano-guineana, a circa 100 km dall’Oceano. Il Mali è l’area

africana più densa di etnie e ceppi linguistici, un luogo di incrocio per popolazioni nomadi e sedentarie, relazioni economiche e culturali, con-tatti umani lungo le vie desertiche e fluviali. Simbolo del paese è Tom-bouctou, la misteriosa, la perla del deserto, mitica città Tuareg della pista del sale. Oggi una città assopita e semisepolta dalle sabbie del Sahara che avanzano inesorabilmente verso sud.

Questo Mali disperato, un tempo impero dell’oro, oggi è al terz’ulti-mo posto dei paesi più poveri al mondo. Qui la speranza di vita è sotto i 49 anni, l’analfabetismo è pari all’80%, l’età media è di 16 anni, la mor-talità infantile è all’11%. Meno del 15% dei bambini va a scuola .Il Mali è costretto a comprare dai paesi industriali dieci volte più di quanto non venda. Il debito “per lo sviluppo” lo mette in ginocchio.

Il Niger taglia in due la sua capitale, Bamako, ultima barriera al de-serto. Il grande fiume accoglie generoso i tuffi dei bambini, i panni e le stoviglie delle donne. In cambio regala malattie. Terzo fiume d’Africa per lunghezza e portata, e nono del mondo, oggi è stato inserito tra gli undici corsi d’acqua “in via di estinzione”. Colpa della siccità.

Negli ultimi 30 anni le piogge si sono infatti ridotte di un terzo, la stagione umida è di soli due mesi (contro i tre di alcuni decenni fa) e ogni anno mancano all’appello almeno 100 millimetri di acqua piovana. Il deserto avanza e il fiume si insabbia. La prima area di falda freatica è sprofondata a 15-20 metri: tanto bisogna scavare i pozzi per trovare l’acqua.

Dal punto di vista sanitario, il problema principale è quello della scar-sità di acqua potabile. Le popolazioni maliane si trovano a dover fron-teggiare quotidianamente la malaria e spesso anche febbre gialla, tifo ed epatiti. Molte malattie, trasmesse con il cibo e le bevande, si manifesta-no sotto forma di diarrea, dissenteria, vermi intestinali. Spesso letali per i bambini.

Un deciso piano per la potabilizzazione e distribuzione delle acque

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permetterebbe di per sé di risolvere almeno in parte i problemi che deri-vano da questa situazione.

Aiuterebbe anche a rendere meno drammatica la situazione sanitaria delle nascite . Secondo dati 2008 diffusi dal ministero della Sanità e dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms/Who), la situazione si presenta con notevoli disuguaglianze all’interno del Paese. Benché nelle zone urbane la consultazione prenatale sia una pratica esercitata da circa il 90% delle donne, nelle zone rurali solo la metà delle partorienti si reca da un medico nel corso della gravidanza; le nascite in strutture sanitarie sono tre volte meno frequenti nelle zone rurali (26%) e tra le donne non istruite (33%) che nelle aree urbane (80%) e tra le donne istruite (89%). Complessivamente, il tasso di mortalità materna in Mali è stimato in 582 decessi per 100.000 nati vivi. Un livello comparabile a quello degli altri paesi della regione, ma superiore a quello medio osservato nei paesi in via di sviluppo (488 per 100.000) e 20 volte superiore a quello dei paesi sviluppati (30 decessi per 100.000).

Dopo anni di dittatura, oggi il Mali è un paese democratico che con-serva i suoi grandi contrasti ecologici e umani. Un mosaico di etnie, lin-gue, tradizioni, colori che hanno un comune denominatore: un delizioso sorriso e una ben nota gentilezza. I Maliani sono belli, gentili, simpatici, allegri, dal portamento elegante in cui si legge traccia del passato impe-riale. Sono poverissimi, ma sopravvivono grazie a una microeconomia fat-ta di piccole produzioni agricole e piccoli scambi commerciali effettuati in genere nei mercati.

Il Paese è caratterizzato una lunghissima stagione arida, con preci-pitazioni scarse, concentrate in due-tre mesi estivi. L’area anord, la più critica, è pressoché disabitata, dominio di popolazioni berbere, Mauri ma soprattutto Tuareg, che rappresentano il 7,3% della popolazione complessiva del Mali, che non hanno mai accettato il dominio delle po-polazioni sudanesi dopo l’indipendenza, in permanente rivolta contro il potere centrale di Bamako. Verso sud, l’area sudanese è più piovosa e la stagione secca dura mediamente sette-otto mesi. La siccità sta però accelerando il processo di desertificazione di tutto il territorio e la vege-tazione è sempre più scarsa.

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~Regione di Gao~In cammino con l’acqua, verso casa

~Regione di Gao~Felici e orgogliosi del pozzoper il loro villaggio

~Regione di Gao~Attorno al pozzo,

per prendere l’acqua

~Regione di Gao~Sono i bambini, con le donne,a occuparsi dell’acqua

~Regione di Gao~Al lavoro, con gli animali

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Africa~Etiopia~Regione di Gambela~

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~UNA GOCCIA NEL MARE FA MIRACOLI~

“Ho visto nel sud dell’Etiopia, bambine con taniche di ac-qua sulle spalle fare molti chilometri a piedi per rien-trare al proprio villaggio. Bambini di sette, otto anni

rattoppare le strade sotto il sole della Birmania, tra i fumi velenosi del bitume bollente. Ho visto la povertà del Madagascar nascosto. Tante altre scene e tanti altri volti sono rimasti scolpiti nella mia mente. Paesi difficili in cui il diritto sacrosanto di essere bambini felici viene spesso negato dalla povertà e dall’ignoranza”.

Le strade che portano nel sud del mondo sono tante. C’è chi arriva in Africa come missionario, chi come volontario. Altri l’attraversano sol-tanto, abbandonando in quelle terre emozioni e immagini. Altri ancora ci arrivano spinti dal dolore. E dalla vita che continua. E’ quanto è suc-cesso a Claudio Maneri, 60 anni, milanese, architetto di formazione. Fino a pochi anni fa conduceva una vita per così dire normale, tra lavoro e famiglia. Poi è successo l’irreparabile.

La figlia maggiore Sibylle, sposata da due anni, si trova ad affrontare da sola la disperazione causata dalla morte improvvisa del marito. E’ un turbine di angoscia. Sibylle, che ha appena 22 anni, non ce la fa e si uccide. Ai genitori e alla sorella Coralie lascia solo due righe scaraboc-chiate su un foglio in cui chiede di donare i suoi organi e di usare i suoi risparmi per aiutare i bambini bisognosi del Sud America.

In Africa, ma anche in Asia e in America latina, fra coloro che hanno bisogno, l’ha portato questa tragedia. Un dolore indicibile che ha con-dotto Maneri a trasformare la propria vita. A seguire d’impulso le ultime volontà della figlia tanto amata. Ad accettare quell’assenza per regalarle ancora vita. E allora Maneri parte per il Brasile amazzonico assieme a Coralie. Qui doveva trasformare in realtà le ultime volontà di Sibylle: aiutare i bambini del Sud America. Dall’Amazzonia al Nepal. Non ci si poteva fermare. E il 19 novembre 2002, il giorno in cui Sibylle avrebbe compiuto gli anni, dà vita alla fondazione Butterfly, che nel 2004 inau-gura a Katmandu la prima scuola per orfani tibetani.

“Quella in Amazzonia, spiega, è stata l’esperienza che mi ha permesso

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di riconoscere che la volontà di mia figlia era anche la mia. Nel contatto con quella realtà cosi’ diversa dalla mia, ho scoperto che il mio dolore era stato solo lo strumento e il pretesto per intraprendere una strada di solida-rietà che prima non avevo riconosciuto”.

Il dolore per la perdita di Sibylle ha moltiplicato il suo amore per tanti bambini. Senza quasi accorgersene, è diventato un tramite, un motore per realizzare delle cose, per trasmettere un’esperienza: “Forse questo dà un senso diverso anche a quanto mi è accaduto”.

In quei mesi di dolore, accade qualcos’altro d’imprevisto. “Non l’avevo affatto cercato, né pensato possibile. Ma, per una serie

di apparenti coincidenze, sono riuscito a entrare in comunicazione con Sibylle, prima tramite una medium, poi direttamente. L’ho riconosciuta e non ho più voluto perderla”.

Il colloquio con la figlia scomparsa ha portato a un libro - “Ciao papi... Dialoghi con l’altra dimensione”, (edito da Hermes) - destinato a diventare un successo editoriale. Ma anche all’inizio di una nuova vita. Oggi, infatti, Claudio Maneri si dedica quasi esclusivamente a progetti di solidarietà che fanno capo alla Fondazione Butterfly, una farfalla, simbolo di trasformazione.

Nata con l’obiettivo di coinvolgere tutti quei genitori che faticano a ritrovare il senso della vita dopo la perdita di un figlio, la Fondazione realizza progetti di aiuto per altri “figli” bisognosi in tutto il mondo. Progetti di solidarietà nelle zone più povere del pianeta, siano essi pozzi d’acqua, scuole, o strutture sanitarie.

“L’inizio è stato difficile. Molto difficile. Dovevamo conquistarci la cre-dibilità e la fiducia per trovare i fondi necessari a realizzare i nostri progetti a favore dei bambini meno fortunati. Così come voleva Sibylle. Poi, piano piano, sono arrivati gli aiuti e il sostegno economico, da tanti amici, ma anche da parte di aziende. Dopo il Nepal sono arrivati i progetti in Birma-nia e in Madagascar. E infine in Etiopia”.

Dal diritto a un’educazione al diritto all’acqua. “E’ stato un amico a recuperare i primi soldi per un progetto in Africa. Allora mi sono guardato attorno. Avrei dovuto cercare qualcuno che in quel continente già lavo-

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~Etiopia~Regione di Gambela~

rava. Non volevo certo improvvisarmi. Mi sono rivolto inizialmente alla COOPI di Milano e poi al VIS con cui abbiamo realizzato fino a oggi già una trentina di pozzi, compresi quelli finanziati dalla AATO”.

Il progetto con l’AATO è nato da una semplice segnalazione. Qual-cuno ha letto il Bando Fondo Acqua Bene Comune e ne ha parlato a Maneri. “Un’opportunità, certo, ma che noi, da soli, troppo piccoli, non saremmo stati in grado di cogliere. Per questo ci siamo appoggiati a un’or-ganizzazione come la VIS con esperienza collaudata in Etiopia. A noi è rimasto l’onere di coordinare, promuovere, dare visibilità a un’iniziativa che avrebbe portato acqua in una delle zone più disperate del Paese”.

A Gambela, Maneri ci è andato con la figlia Coralie, diplomata in arte-terapia e appassionata fotografa. Gambela è il meno popolato dei dieci Stati in cui è suddivisa la Repubblica federale etiope. Si trova nell’area sud-occidentale del paese e confina con il Sudan. Ci abitano 230mila persone e la capitale, che porta lo stesso nome dello Stato, si trova a oltre 800 km da Addis Abeba. La regione di Gambela è sta-ta raccontata spesso come un insalubre bassopiano con estese savane nella zona di confine. Un’area inospitale, dove miseri villaggi sono col-legati fra loro da vie di comunicazione molto povere. Alle temperature proibitive del bassopiano nella stagione secca, si alternano le devastanti inondazioni nel periodo delle grandi piogge. Verso est, man mano che si innalza verso l’altopiano, il territorio diventa più fertile e coltivabile.

“Gambela è un posto disperato”, racconta Maneri, “siamo in una re-gione che si estende fino al confine con il Sudan e il Kenya. Quando si scende sotto gli 800 metri la situazione è durissima: le piogge scarseggiano, il paesaggio è semi desertico ed è attraversato da fiumi completamente asciutti. In queste terre dimenticate le donne con i loro bambini sono costrette a camminare per chilometri sotto il peso di carichi inumani, a volte enormi fascine di legname, a volte giare d’acqua. Abbiamo dato un passaggio in auto a una bambina che avrebbe dovuto percorrere oltre 40 chilometri a piedi per andare a prendere e riportare l’acqua al villaggio: un cammino estenuante tra mille pericoli. In questa situazione estrema, suc-cede anche che le tribù nomadi scavino buchi profondi nei letti asciutti

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dei fiumi, dai quali estraggono un’acqua che nessun occidentale si azzar-derebbe neppure ad annusare. Ma loro la bevono, la usano per lavarsi e per cucinare... hanno ormai fatto l’abitudine a tutti quei parassiti ...a volte però si ammalano e, soprattutto i bambini, spesso non ce la fanno e muoio-no. Anche qui, come in Nepal, Sud America, Asia, ho visto un’umanità dimenticata.

Sono convinto che queste popolazioni abbiano veramente bisogno di aiuto e che sia importante dare il nostro piccolo contributo, nei limiti delle nostre possibilità: la solidarietà e l’amore verso il prossimo hanno il potere straordinario di farci sentire più in sintonia con noi stessi.”

Nella regione del Gambela, la popolazione cambia fisionomia. E’ la terra delle etnie più antiche. E’ anche un luogo dimenticato, dove da tanti anni operano i salesiani, molto amati e apprezzati come educatori. Ma dove vengono ogni anno anche molti missionari laici.

Qui il clima varia enormemente a seconda della stagione. “Coralie ed io ci siamo arrivati durante la stagione secca. Abbiamo visitato ogni villaggio interessato dal progetto. Ognuno dista dall’altro almeno 5 ore di strada sterrata. Il deserto, in tutti i sensi. Lungo queste strade a buchi abbiamo incontrato solo operatori delle Nazioni Unite con gli aiuti uma-nitari. Nulla di più”.

Per trovare acqua, di qualità e in quantità sufficiente, è stato ne-cessario scavare fino a 50-100 metri di profondità. E’ stata un’azienda locale a effettuare la trivellazione. Nei villaggi di Ochum, Akuaya Jok, Itang War e Itang Akado e Shebo, sono stati trivellati pozzi fra i 50 e i 60 metri di profondità, azionati da pompe a mano. A Gambela e Metu, si è scesi a 85 e 112 metri e si sono utilizzate pompe elettriche. In parallelo, la fondazione di Maneri e i volontari del Vis hanno lavorato alla formazione per la gestione e la manutenzione dei singoli pozzi. Di concerto con i rappresentati del Governo etiope.

A ogni pozzo oggi fanno riferimento 1500 persone che vivono nei paraggi. Pagano l’acqua che prelevano. E’ un costo irrisorio, ma indi-spensabile a costituire il fondo che servirà alla manutenzione dell’im-pianto. Sempre garantito da mano d’opera locale.

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Coralie mi mostra le immagini del lavoro in Etiopia. I bambini. L’ac-qua che finalmente sgorga dal pozzo. Le taniche piene. Le otri delle donne sulla testa. Le feste per l’inaugurazione. Il cammino trionfale e sereno verso casa. Con il bene più prezioso, l’acqua. Cosa significa per una giovane donna non ancora trentenne un impegno di questo tipo?

“Ho sempre avuto la possibilità e il desiderio di conoscere altri mondi”, racconta Coralie, “Avevo vent’anni quando ho viaggiato da sola in Sud America con lo zaino in spalle. Ho vissuto nella comunità indigena dei Quilmes in Argentina.. E lì è stato come se mi avessero iniettato una sorta di virus che non mi ha più abbandonata. Qualcosa che, sono certa, mi porterò dentro tutta la vita. Andare là ad aiutare dove c’è bisogno, è qual-cosa di più forte. Ti stimola a fare qualcosa lì, a portare ciò che ognuno di noi può fare. Perché, ovunque, ricevi sempre di più di quello che dai. A Gambela ci hanno insegnato il valore dell’accoglienza e della fratellanza. Sono poverissimi, ma ogni volta che un pozzo si inaugurava e si faceva festa, erano pronti a dividere con noi quel poco che avevano. E i bambini? Molti non ce la fanno. Gli altri, sono semplicemente felici. Sporchi luridi, affamati, assetati. Ma felici. Spesso ci si immagina il volontariato nel senso del dare. Non è quasi mai così. Sono loro, è quella gente di Gambela, che ci regala davvero il senso della vita”.

~Etiopia~Regione di Gambela~

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~10 POZZI PER GAMBELA~Il Vis, Volontariato internazionale per lo sviluppo, con la par-

tecipazione della Fondazione Butterfly Onlus ha costruito 10 pozzi per cinque villaggi della Regione di Gambela, in stretta collaborazione con le amministrazioni e la popolazione locale in modo da favorire la diffusione di processi di autogestione e l’uso consapevole della risorsa acqua mediante la costituzione di co-mitati di villaggio e la formazione del personale locale addetto.

Si tratta di costruzioni dotate di pompa a mano che oggi for-niscono acqua a 13.760 persone di cui un quarto è composto da bambini di età inferiore al 16 anni e circa il 30% è rappresentato da donne in età compresa tra i 15 ed i 49 anni.

Il costo del progetto è stato di 188.882 euro (di cui 140.000 finanziati dalla AATO). Il lavoro è iniziato il 1° aprile 2006 e si è concluso il 30 aprile 2007.

Il progetto è nato dalla collaborazione tra VIS, Fondazione Butterfly e i Salesiani di Don Bosco che da anni lavorano nel settore idri-co. Le ragioni che hanno portato a scegliere questo intervento

sono numerose. Dalla consapevolezza delle gravi conseguenze che porta il mancato accesso all’acqua potabile, sia in termini di condizioni igienico sanitarie che in termini di esposizione a carestie cicliche, alla conoscenza di una realtà che indica come la maggior parte delle cause di morte nel Paese, soprattutto nei casi di mortalità infantile al di sotto dei 5 anni, potrebbero essere evitate garantendo alla popolazione l’accesso ad acqua potabile e la diffusione di pratiche di igiene di base.

Non ultima, la forte determinazione ad implementare un progetto che non rientrasse nei canoni di un intervento di emergenza quanto piut-tosto in quelli della riabilitazione e dello sviluppo avendo quindi un ap-proccio a lungo termine.

La gestione dei pozzi viene oggi integralmente sostenuta finanziaria-mente dalle comunità locali attraverso il lavoro dei Comitati di Villaggio. Un sistema di “cost recovery” permette, grazie al contributo dl una picco-la somma a fronte dell’utilizzo dell’acqua, di costituire un fondo dedicato

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alle spese di manutenzione e al pagamento del salario dei guardiani dei pozzi.

Il progetto rientra appieno nelle priorità delle autorità locali oltre che in quelle del piano generale del Governo federale dell’Etiopia.

Il coinvolgimento diretto dei benefîciari è elemento fondamentale e imprescindibile per garantire un corretto impatto sociale e una reale “ownership”, proprietà, del progetto oltre ad assicurare la sostenibilità sociale dell’iniziativa.

Il progetto è stato sostenibile anche dal punto di vista ambientale poi-ché le tecnologie introdotte sono rispettose dell’ecologia del contesto.

Il progetto di AATO, Vis e Fondazione Butterfly onlus è stato premia-to nel maggio 2008 dal Parlamento europeo con l’Energy Globe Award. Scelto tra 853 progetti presentati da 109 nazioni, ‘Una goccia nel mare compie un miracolo’ del VIS e’ stato premiato nella categoria ‘vincitori nazionali’.

Il premio dell’Unione Europea e’ considerato uno dei piu’ importanti riconoscimenti in ambito ambientale. I progetti a concorso, provenienti da ogni parte del mondo, sono scelti sulla base della capacita’ di promuo-vere la salvaguardia delle risorse e del riutilizzo dell’energia rinnovabile. Lo scopo e’ quello di suscitare nei cittadini il senso di responsabilità verso le tematiche ambientali e di renderli consapevoli che ciascuno può, impegnandosi, contribuire in modo reale e concreto in tal senso.

~L’AFRICA DELLA GRANDE SETE~

La carenza di acqua potabile e la mancanza di igiene uccide più delle guerre: ogni anno nel mondo muoiono 10 milioni di bambini, per queste ragioni. 30 mila al giorno. E ben la

metà della mortalità infantile mondiale viene registrata in sei paesi. Uno di questi è l’Etiopia.

In Etiopia solo il 36% della popolazione ha accesso ad acque sicure e pulite, appena 24 milioni su una popolazione di 69 milioni. I servizi sani-tari coprono il 29% del Paese. Fatta eccezione per Addis Abeba e alcuni altri centri, i servizi non esistono. Il 17% della popolazione ha accesso a

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latrine. Questa carenza di servizi, e in molti casi assenza, comporta una serie di conseguenze direttamente connesse: le malattie legate all’igiene causate dall’impossibilità di usare l’acqua per ogni tipo di attività della vita quotidiana.

In Etiopia non si spende più di un dollaro e mezzo a persona ogni anno a garanzia della salute. Di conseguenza, la vita media della popo-lazione staziona a livelli molto bassi, 43 anni per gli uomini, 44 per le donne.

La regione Gambela, dove è stato attuato il progetto AATO, è situata a Sud-Ovest del Paese, confi na con il Sudan e conta una popolazione di circa 228.000 abitanti. Le attività economiche principali sono costituite dall’ agricoltura e dall’allevamento. E’ il meno popolato dei dieci Stati in cui è suddivisa la Repubblica federale d’Etiopia. La capitale, che porta lo stesso nome dello Stato, si trova a oltre 800 km da Addis Abeba.

La confi gurazione geografi ca della regione presenta un grande e insalubre bassopiano con estese savane nella zona di confi ne, mentre, portandosi ad est e la capitale Gambela, il territorio diventa più fertile e coltivabile man mano che si innalza verso l’altopiano. Alle temperatu-re proibitive del bassopiano nella stagione secca, si alternano devastanti inondazioni nel periodo delle grandi piogge.

Tuttavia questa regione – in gran parte inospitale e dotata di vie di comunicazione molto povere – vanta una grande abbondanza di risorse naturali, incluse riserve di petrolio non ancora esplorate. Sono presenti anche vari gruppi etnici: nel bassopiano prevalgono i Nuer (40%) da anni in rapida espansione, gli Anuak (27%), e altri gruppi minoritari, fra cui Mezengir, Opio, Komo. L’accesso all’acqua, che è fondamentale per la produzione agricola e il bestiame, è molto limitato. In alcune aree, il 92% della popolazione non ha accesso a fonti di acqua pulita.

L’utilizzo di acqua non sicura da parte della popolazione incrementa l’incidenza della malattie della pelle e di infezioni intestinali che risulta-no spesso mortali, soprattutto per i bambini. Il tasso di mortalità infantile nella regione è pari a 126 per 1.000 nati vivi.

~Etiopia~Regione di Gambela~

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~Regione del Gambela~Nel villaggio di Shebo

Madre e “figli” portano l’acqua

~Regione del Gambela~Dissetarsi in un pozzodel Hope Enterprises

~Regione del Gambela~Donne al pozzodi Agricoltural Land

~Regione del Gambela~Pozzo nel villaggio di Ochum

~Regione del Gambela~Pozzo nel villaggiodi Akuaya Jok

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~Africa~~Burkina Faso~

~Provincia di Boulkiemdé~

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~Acqua altra di Venezia~ ~Africa~

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~IL MONDO DEGLI ULTIMI DOVE L’ACQUAÈ IL PIÙ PREZIOSO DONO~

E’ il mondo degli ultimi, il Sahel. Le statistiche impietose met-tono in evidenza il distacco tra il nostro ricco mondo e la de-solante situazione di paesi attanagliati da una povertà priva di

ogni prospettiva. In Burkina Faso la povertà è strettamente legata alla mancanza d’ac-

qua. Le condizioni climatiche e geologiche non ne permettono di fatto l’accumulo, in superficie, di quantità sufficienti per la popolazione. E negli ultimi decenni la situazione è stata aggravata dal peggioramento sensibile del clima che ha comportato la riduzione delle piogge e delle specie vegetali e l’aumento degli eventi climatici estremi e dei fenome-ni di erosione eolica. La terra secca si trasforma in sabbia. Il deserto avanza.

Soprattutto nelle campagne, l’acqua viene attinta dai pochi poz-zi scavati a mano nel periodo coloniale. Ma l’acqua presa dalla falda superficiale è di pessima qualità, scarseggia o addirittura, nel periodo secco, non c’è. Bisogna scavare più in profondità. La tecnica è quella dei forage, profondi pozzi in grado di intercettare falde ancora incon-taminate, azionati con pompe manuali o a energia solare o con gruppi elettrogeni.

È la terra, come molti altri luoghi d’Africa e del mondo intero, dove donne e bambini percorrono chilometri e chilometri, ogni giorno, per rifornirsi di acqua.

Ma ciò che davvero colpisce il viaggiatore, così come il turista per caso che attraversa il Sahel, fino al Burkina Faso, il paese degli “uomini integri”, è invece la “leggerezza” delle popolazioni che lo abitano. La loro gentilezza e ospitalità. Una leggerezza che, ha ben spiegato l’antro-pologo Marco Aime in uno dei suoi libri più belli dedicato a questi luo-ghi (Le radici nella sabbia. Viaggio in Mali e Burkina Faso, EDT, 1999), “ si contrappone alla grevità della nostra società ricca”.

È fra la gente del Burkina Faso che Giancarlo Gusmaroli, 32 anni, ingegnere ambientale di Mestre, è andato nelle vesti di verificatore del

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~Acqua altra di Venezia~

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~Burikina Faso~Boulkiemdé~

progetto AATO per la riabilitazione di un acquedotto e di 40 forage che oggi, grazie a un investimento di 160mila euro, sono tornati a dare acqua a 20mila persone.

Incontro Gusmaroli nel suo ufficio di Mestre. Sul tavolo mille pro-getti. Sempre meno di quelli che tentano di esplodere nell’animo di questo giovane uomo al quale il mestiere di ingegnere sembra stare un po’ stretto. Non a caso Giancarlo è anche guida ambientale. Sui monti, nelle lagune e in mare, lungo i fiumi. “Se professionalmente scegli di occuparti d’ambiente, dovrai pur viverlo questo ambiente. Conoscerlo, amarlo, rispettarlo”, mi spiega.

Dieci giorni è stato in Burkina per la missione di verifica del pro-getto. Un tempo brevissimo, ma che è sembrato un pezzo di vita per la densità delle esperienze, la qualità degli incontri, l’attesa del fare.

È stata un’esperienza non giunta a caso. Fa parte di un percorso di vita e di intime aspettative. Come spesso succede a chi sceglie il mon-do degli ultimi. Giancarlo Gusmaroli ha sempre viaggiato. Un po’ per passione, un po’ per necessità.

L’occasione che gli ha aperto davvero il mondo della cooperazione internazionale è stato lo Tzunami del dicembre 2005: “Ero già sul piede di partenza per un convegno in India. Avevo già deciso che mi sarei fer-mato laggiù due mesi, per conoscere, scoprire, capire. Non sapevo ancora che strada avrei preso. Quando lo Tzunami si è abbattuto anche su quelle coste, l’ho capito. Ho contattato diverse organizzazioni, governative e non, per offrire il mio aiuto. E proprio un giorno prima di partire, mi hanno contattato. Avevano bisogno di me. Non per fare l’ingegnere, ma per ri-costruire le case spazzate via dall’onda. L’appuntamento era per qualche giorno dopo, a Mumbai. Avevo un indirizzo, nulla di più, e lì mi sono presentato. Poi, da quel momento, sono state settimane di lavoro intenso, in un villaggio di pescatori della costa orientale a sud di Chennai. Lì ho intuito tante cose e ne ho imparate ancora di più. E alla fine è stata un’esperienza immensa. Non posso dire che sia stata bella o brutta. Ma solo importante per la mia vita e le mie future scelte”.

Da quell’esperienza al Burkina Faso, il passo è stato breve e inevi-

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tabile. Questa l’intuizione di Giuseppe Baldo, responsabile della valu-tazione del progetto per conto dell’AATO, che ha proposto a Giancarlo l’incarico e un viaggio che diventa parte di un percorso necessario.

“In Burkina ci sono andato a fine gennaio 2008, con il collega Stefano Nerozzi, da anni impegnato nella cooperazione internazionale in Africa occidentale” racconta Giancarlo. “Questa volta in un’altra veste. Avevo fatto il viaggiatore-turista, e, sebbene fuori dai classici percorsi del turismo di massa, mi avevano spesso guardato come un ‘pollo da spennare’. Avevo fatto il volontario, e mi avevano considerato un uomo generoso. Ora anda-vo a rappresentare un soggetto finanziatore. Avrei dovuto controllare che i soldi impegnati da decine di migliaia di cittadini fossero finiti nelle mani giuste. E, soprattutto, avessero condotto ai risultati attesi: portare acqua a chi non ce l’ha. Non sapevo ancora, prima di partire, che mi avrebbero accolto con tale energia. Che mi avrebbero guardato con immensa gratitu-dine, una gratitudine foriera di aspettative successive. Così è stato”.

Partenza da Venezia, scalo a Parigi, arrivo a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Poche ore di volo per essere catapultati in un altro mondo dove, da novembre a marzo, nella stagione secca, il cielo grigio racconta l’instancabile viaggio da nord est a ovest dell’Harmattan, il ven-to secco e polveroso che corre dal Sahara al Golfo di Guinea, passando sul deserto, raccogliendo fini particelle di polvere, a volte limitando se-veramente la visibilità, fino a oscurare il sole per diversi giorni.

Qui sono stati rimessi in funzione un vecchio acquedotto in area rurale e 40 forage, in 3 dipartimenti (Nandiala, Imasgo e Kindi) della Provincia di Boulkiemdé, che comprende tantissimi villaggi, dispersi nella savana. Un lavoro durato 14 mesi, grazie all’impegno del CISV - Comunità Impegno Servizio Volontariato - e concluso positivamente proprio grazie all’aiuto concreto di un popolo pacifico, famoso non solo per l’ottimismo e l’ospitalità, ma anche per la discendenza da una dina-stia di imperatori che subì l’affronto della colonizzazione e della tratta degli schiavi.

“Pur essendo fra i paesi più poveri del mondo, con poche risorse natu-rali e pochissimi mezzi”, aggiunge Giancarlo, “quello che abbiamo fatto

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laggiù, quello che loro hanno fatto, è la dimostrazione concreta di come il Burkina Faso possa essere in grado di costruire un paese bellissimo e culturalmente forte. Significativo il fatto che l’idea progettuale sia nata proprio dal partner locale della ONG italiana, Asso.Pa. (Association le Paysannat), che poi ha anche curato la penetrazione sociale del progetto nei villaggi con una rete locale di animatori.

“In dieci giorni abbiamo girato e girato, dodici, quattordici ore al gior-no, per raggiungere tutti i forage. Per parlare con la gente. Per scelta non abbiamo, Stefano ed io, voluto tenere un atteggiamento duramente ispet-tivo. Più che un protocollo serrato, abbiamo privilegiato una modalità di colloquio collaborativo e sincero con la ONG beneficiaria. Certo, da un lato il percorso di verifica è stato necessariamente mantenuto preciso e razionale, a garanzia di noi cittadini che l’abbiamo finanziato, ma l’impe-gno di fondo è stato quello di verificare che il progetto avesse ottenuto il risultato auspicato in termini di radicamento positivo nella società locale. Abbiamo voluto creare un clima di agio, rispetto e fiducia reciproche. Di-scutere tranquillamente dei punti di forza e di debolezza di ogni fase del progetto”.

Un forage per villaggio. Per tante piccole case abitate da grandi fa-miglie che vivono quasi esclusivamente del miglio coltivato e di pochi ortaggi, strappati a forza alla siccità.

“Non dovevamo cercarla la gente dei villaggi. Non so spiegarmi come, ma erano sempre con noi. In un luogo dove non esistono infrastrutture di comunicazione veloce e dove un villaggio è fatto di nuclei familiari che vivono in insediamenti sparsi nella savana, isolati, anche a centinaia di metri l’uno dall’altro, le concessionnes. Ogni forage che raggiungeva-mo, in pochi minuti si circondava di persone venite ad accoglierci festose o semplicemente a osservarci, curiose e divertite. Sbucavano dal nulla. Dietro un arbusto quasi senza vita. Dai sentieri senza punti di riferimen-to della savana. Dal deserto, quasi sospinti dal vento. In ogni villaggio, anche grazie agli animatori locali che hanno condotto la parte sociale del progetto - quella dell’educazione all’utilizzo consapevole dell’acqua e della facilitazione alla gestione sostenibile della risorsa - ci accoglievano gli ar-

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tigiani del posto. Quelli che, lavorando ogni giorno ai forage, un domani sapranno anche come intervenire per le riparazioni. Una sicurezza sia per il futuro funzionamento dei forage che per la presa in carico da parte degli abitanti del villaggio di ciò che abbiamo aiutato a realizzare. Oltre alla crescita di un’economia locale che non dovrà cercare all’estero o nelle grandi città la mano d’opera specializzata e necessaria alla manutenzione e alla riparazione delle pompe”.

I forage realizzati pescano a una profondità di 50-60 metri. Sta qui l’acqua buona, quella potabile. L’acqua della falda più superficiale, di-sponibile nei siti di intervento già a 5-6 metri di profondità, può essere usata solo per lavare e irrigare. E tutto ciò è stato insegnato, giorno dopo giorno. Non è stato facile abituarsi a un’acqua di altro sapore, ma sicura. Non è stato facile imparare elementari regole di igiene. Come quel muretto che, in ogni forage, divide e protegge l’acqua da bere delle persone da quella per gli animali.

“Il percorso parallelo di educazione e sensibilizzazione compiuto dagli animatori locali che ci hanno anche accompagnato durante tutta la mis-sione, è stato indispensabile. Lungo, ma necessario. E poi, quando vedi la donna che riempie la cisterna d’acqua potabile e per portarla a casa la copre con un telo per proteggerla dalla polvere, capisci che un passo avanti è stato fatto”.

“E ti rendi conto sul campo di quanto le attività sociali che accompa-gnano gli interventi strutturali costituiscano parte strategica del progetto. L’AATO l’ha capito e ne ha fatto un criterio di valutazione. Non è poca cosa. E allora, che vuoi, io potrei certo raccontarti l’esperienza da un pun-to di vista tecnico. Cosa ho visto, cosa ho rilevato, le cifre, da ingegnere chiamato a fare il mio mestiere. Ma è limitante fermarmi a questo. Dal Burkina Faso ho portato con me un grande senso di gratitudine, un’im-mensa soddisfazione, sia dei partner che dei destinatari del progetto. Ho trovato conferma che la strada del successo, in interventi come questi, non è solo quella della realizzazione del manufatto. Non potresti mai co-struire, aggiustare e poi andartene. Devi invece accompagnare, ascoltare, condividere, creare fiducia, dare continuità a un rapporto di reciprocità

~Burikina Faso~Boulkiemdé~

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che porti all’autonomia.” Strada facendo, il progetto ha dovuto adeguarsi a nuove normative

sulla gestione dell’acqua che sono state emanate dal governo del Bu-rkina Faso come la decisione di decentralizzare la gestione dell’acqua, creare governance territoriali locali e gerarchie di responsabilità.

“Il progetto è stato ritarato su questi temi. E sull’innovativa ricerca di sostenibilità e autonomia gestionale del punto d’acqua. Oggi, gli utenti dell’acqua di ogni forage si organizzano e lo gestiscono. Ogni villaggio, circa un migliaio di persone, afferisce a un forage e l’accesso all’acqua ha una tariffa, a sua volta gestita da un’associazione denominata AUE (Association Usagers d’Eau, ovvero associazione degli utenti dell’acqua). Ne fanno parte i rappresentanti dei vari quartieri del villaggio, di solito sei persone, ognuna con un diverso compito di gestione dell’acqua del forage. Alle donne va spesso il ruolo di Presidente dell’AUE, riconoscimento che rispecchia la competenza domestica dove l’approvvigionamento quotidia-no di acqua è la mansione principale. In alcuni forage abbiamo trovato anche un lucchetto. Si preleva l’acqua per le case a orari precisi. Questo quasi sempre per evitare che i bambini, giocando con la pompa, finiscano per romperla. Quell’acqua è preziosa per intere comunità. E l’acqua che si preleva, viene pagata. C’è chi si incarica di riscuotere la tariffa e con quei soldi garantire il funzionamento della pompa e la manutenzione del forage. Un fondo viene accantonato anche per far fronte alle spese straor-dinarie di manutenzione”.

Giancarlo sorride mostrandomi le foto della missione in Burkina Faso che indugiano sul video del computer. Sono i ricordi e le emozioni che ritornano. Una donna sbuca dalla brughiera, un bambino al suo fianco, un otre colmo d’acqua sulla testa. Non fa rumore. Ad accompa-gnarla solo il silenzio e l’Harmattan.

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~Acqua altra di Venezia~

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~Burikina Faso~Boulkiemdé~

~40 POZZI E UN ACQUEDOTTO PER BOULKIEMDÉ~Il CISV, Comunità Impegno Servizio Volontariato, ha prov-

veduto alla riabilitazione di 40 pozzi con sistema di pompaggio manuale, assieme al recupero di un acquedotto e alla formazio-ne di comitati per l’autogestione dell’acqua in tre dipartimenti. Il finanziamento dell’AATO è stato di 160mila euro.

Il progetto è stato avviato nel novembre 2006 e si è concluso nel gennaio 2008.

Incaricato alla verifica è stato lo Studio dell’ingegner Giu-seppe Baldo di Mestre - Venezia. I tecnici Giancarlo Gusmaroli e Stefano Nerozzi si sono recati in Burkina Faso per i controlli finali nel gennaio 2008.

IlCISV è un’associazione laica di volontariato internazionale, nata a Torino nel 1961 dalla volontà di 5 ragazze e un sacerdote. Decisi a mettersi al servizio dei poveri, hanno dato vita a una

comunità di volontari per svolgere attività di sostegno agli immigrati che arrivavano a Torino in quegli anni dal sud Italia e che vivevano in condizioni di degrado, miseria ed emarginazione estreme. Le evoluzioni politiche e sociali del ‘68 hanno portato in seguito alla necessità di af-frontare i nuovi problemi di sottosviluppo. È cominciato così l’impegno verso il Sud del mondo.

Il CISV basa il proprio intervento in Italia e nel mondo sul rispetto di principi etici e valori che sono raccolti in una carta programmatica che riflette la ragion d’essere dell’associazione. A essa sono ispirate tut-te le scelte politiche e professionali adottate da ogni membro dell’orga-nismo.

Oggi il CISV è una realtà complessa, organizzata in strutture auto-nome ma collegate, suddivise per settore, ognuna specializzata in un determinato ambito di intervento o settore di attività.

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~NELLA TERRA DEGLI UOMINI INTEGRI~

Secondo i rapporti delle agenzie delle Nazioni Unite, il Burkina Faso è tra i paesi più poveri al mondo. La classifica 2007 del-l’Indice di sviluppo umano lo pone al penultimo posto. Migliore

solo della Sierra Leone. Come avviene in molti paesi sub-sahariani, in Burkina è in atto un processo di desertificazione dei terreni e la povertà è strettamente legata alla scarsità di acqua. Le condizioni climatiche e geologiche non ne permettono di fatto l’accumulo, in superficie, di quantità sufficienti a soddisfare le esigenze della popolazione.

In Burkina Faso, spiegano al CISV - Comunità Impegno Servizio Volontario, la ONG che ha condotto il progetto finanziato dall’AATO - il 25% del sistema idrico è fuori uso e il 42% della popolazione rurale consuma acqua dei fiumi, con conseguenze devastanti: incremento del-le malattie, incurabili per chi non può spendere in medicinali; maggiori spese mediche per chi invece se le può permettere; grandi sforzi fisici soprattutto per le donne, incaricate di andare a prendere l’acqua spesso lontano; poco tempo e quasi nessuna energia per frequentare la scuola o svolgere attività produttive.

Anche le abitudini igieniche sono pessime: l’assenza di fognature e di attrezzature sanitarie costringe le famiglie a eliminare i rifiuti vicino alle case, accentuando ulteriormente il rischio di malattie e mortalità. Il problema, dunque, non è soltanto di accesso all’acqua potabile, ma anche di educazione al comportamento e alla gestione dell’acqua.

Il Paese si trova in un’area climatica di transizione tra l’ambiente propriamente saheliano e quello, più umido, di tipo sudanese. L’ele-mento fondante del clima è il variare delle precipitazioni con l’alternarsi delle correnti di aria secca e umida che provengono rispettivamente dal deserto (harmattan, gennaio-febbraio) e dal Golfo di Guinea (luglio-agosto). L’alternarsi delle correnti d’aria secca e di quelle di aria umida determina un gradiente di aridità crescente da sud-ovest a nord-est. Particolarmente problematica risulta quindi la situazione della zona nord-orientale del Paese dove negli ultimi anni si sono registrate pio-vosità inferiori ai 400 mm annui (tutte concentrate in pochi mesi) e

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~Burikina Faso~Boulkiemdé~

temperature massime di oltre 45°. In situazioni di questo tipo, il mantenimento di una copertura ve-

getale, anche se limitata, è essenziale poiché ritarda l’evaporazione del-l’acqua piovana e protegge il terreno dalle violente piogge (fino a 60 mm/h, in alcuni casi), contribuendo così a preservare l’ecosistema e le capacità produttive dei suoli.

Un problema specifico è costituito dal fatto che il Burkina Faso, come del resto anche gli altri Stati della regione, ha assistito negli ultimi decenni a un peggioramento sensibile della situazione climatica che ha comportato la riduzione delle piogge e delle specie vegetali e l’aumento degli eventi climatici estremi e dei fenomeni di erosione eolica.

Soprattutto nelle aree rurali, l’acqua viene attinta dai pochi pozzi scavati a mano già dal periodo coloniale, mentre l’acqua presa dalla fal-da superficiale è di pessima qualità e scarseggia o è assente nel periodo secco. La popolazione vive in villaggi sorti nelle vicinanze dei pozzi, so-vente è costretta ad abbandonarli nel momento in cui l’acqua finisce.

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~Boulkiemdé~Bambini in cammino nella savana

~Boulkiemdé~Al lavoro, con il bestiame

~Boulkiemdé~Al pozzo, per i rifornimenti d’acqua

~Boulkiemdé~Di ritorno al villaggio

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~Africa~~Rep. Dem. Congo~

~Nord Kivu~

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~Acqua altra di Venezia~ ~Africa~

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~IL VOLONTARIO CON L’AFRICA NEL CUORE~

“Le uccisioni e gli stupri di civili nella provincia orientale del Nord Kivu nella Repubblica democratica del Congo continuano a un ritmo terrificante nonostante la firma

nel gennaio 2008 degli accordi di pace. Lo aveva denunciato già lo scorso luglio Human Rights Watch (HRW) a conclusione di una missione di mo-nitoraggio dell’associazione nella zona est della Repubblica Democratica del Congo. Dopo la firma degli accordi di Goma del 23 gennaio 2008 - e solo in questa parte del paese - l’organizzazione americana ha registrato più di 200 civili uccisi, centinaia di donne e giovani ragazze stuprate dai gruppi armati, esercito congolese compreso. I combattimenti tra le va-rie fazioni, tornati cruenti nell’autunno 2007, sono poi responsabili del massiccio spostamento dei civili in cerca di zone tranquille. Dallo scorso gennaio quasi 100.000 persone sono state costrette a fuggire nella zona del Nord Kivu. I profughi in totale sono oltre 3 milioni, in maggioranza donne e bambini”.

Carlo Volpato è senza fiato mentre racconta e mi legge il comunica-to di Human Rights Watch su uno dei tanti conflitti ignorati.

Il suo amato Congo, il Paese al quale dal 1995 dedica almeno 4-5 mesi all’anno, è sempre più martoriato. In particolare è in ginocchio la zona del Kivu, dove dagli anni Sessanta opera l’associazione Mondo Giusto, per la quale Volpato è volontario e che ha seguito il progetto AATO per un sistema di captazione dell’acqua.

È in questo contesto di guerra, disperazione e povertà estrema che il progetto è stato realizzato in poco più di 4 mesi di lavoro. Si è concluso giusto poche settimane prima della ripresa del conflitto.

Ma l’area non è mai stata del tutto tranquilla. Non a caso, per la prima volta nel 2008 Volpato non ha varcato il confine del Congo e ha seguito i progetti dal vicino Ruanda.

“Ma tornerò in Congo, il prima possibile”, mi dice quando lo incontro a Zelarino dove vive. “E’ lì che c’è più bisogno di noi”.

Il signor Volpato non è un ragazzino. Quest’anno compie 75 anni e non ha alcun passato nella cooperazione internazionale. Il volontario ha

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~Rep. Dem. Congo~Nord Kivu~

imparato a farlo quasi per caso. Dopo una vita trascorsa a fare il barbie-re e il parrucchiere a Zelarino.

“Poi, ed era il 1994, mio figlio ha deciso di non fare il militare. A quel tempo si chiamava obiezione di coscienza. Così, invece della naja, si è fatto due anni da volontario in Africa. E’ stata in quell’occasione che ho conosciuto l’associazione Mondo Giusto di Lecco. Mi è stato sufficiente andare una volta in Africa per ripromettermi che appena fosse giunto il momento della pensione, avrei dedicato a quella gente buona parte del mio tempo”.

E così è stato. Dal 1995, ogni anno, da dicembre a maggio, Volpato vola in Africa. Anzi in Congo.

“All’inizio, quando andavo, facevo il meccanico e l’idraulico. E tutto ciò di cui ci fosse bisogno. Ora, che ho qualche anno in più e maggiore esperienza, organizzo il lavoro e seguo la realizzazione dei progetti. Han-no disperatamente bisogno d’acqua. Dobbiamo andarla a prendere sulle montagne, imbrigliare le sorgenti e portarla ai villaggi. Di acqua ce n’è in abbondanza. Non è la quantità il problema. È il fatto che se ne sta lì, sulla montagna. Lontano dai villaggi. Va “solo” portata alle comunità.

Il progetto AATO ha previsto assieme alla captazione della sorgente anche tubazioni per sette chilometri. Prima di iniziare abbiamo dovuto sistemare la strada perché altrimenti i camion con sabbia e ghiaia non avrebbero raggiunto il cantiere. C’è rimasto solo un chilometro da fare con i sacchi in spalla. Poco male. Siamo abituati anche a peggio. Il serbatoio è stato costruito a due chilometri dalla sorgente.

Prima di lasciare l’Italia, mi sono organizzato con il materiale neces-sario che si trovava a una quarantina di chilometri dal posto del progetto. Abbastanza per il Congo, anche perché sono chilometri che nelle stagione delle piogge non sono percorribili. Lì abbiamo poi lavorato con una squa-dra di una decina di operai, tutti del posto. La tubazione è stata posta a 80 centimetri sotto terra, per sicurezza. Dicono che l’acquedotto porta acqua a 5mila persone, ma secondo me sono molte di più. Quella è una zona molto vasta. E non ti dico il giorno della festa di inaugurazione quante migliaia di persone c’erano! Una bellezza”.

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~Acqua altra di Venezia~ ~Africa~

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L’acquedotto di Kagara, ora che la guerriglia ha spinto lontano dalle proprie case migliaia di persone, serve anche un campo di profughi con oltre mille rifugiati. Prima erano senza una goccia d’acqua. Mondo Giusto ha finanziato due ulteriori chilometri di tubazione per portare l’acqua dal serbatoio centrale al campo. Una derivazione per due fon-tane nuove che sono andate in funzione nella primavera 2008.

Ogni progetto seguito da Mondo Giusto è cofinanziato dalle popo-lazioni locali.

“Di solito”, spiega Volpato, “calcoliamo che un 30% della spesa debba essere a carico dei villaggi. E di solito è un contributo in mano d’opera. Ma è essenziale, psicologicamente importante. Solo in questo modo l’in-tervento viene sentito come proprio. Nei primi anni si andava lì e si faceva tutto noi. Abbiamo visto che non funziona. Il rischio è quello di “regalare” strutture che poi alla minima difficoltà vengono abbandonate.

Guardi, il 70% delle risorse economiche di ogni progetto se ne va in trasporto dei materiali”.

Volpato si ferma. Nella mente scorrono tanti pensieri, emozioni, ricordi. Perché il Congo è un Paese che, nonostante tutto, rimane nel-l’animo. È il luogo raccontato da Conrad in Cuore di tenebra. È il paese dei vulcani spenti, delle grandi foreste e del grande fiume che gli dà il nome. Quel fiume che lo attraversa. Che al tempo stesso dà la vita e la morte.

Sul fiume interi villaggi si spostano a bordo di chiatte. Donne, uomi-ni, bambini, animali. Tutti insieme lungo il Congo, che per lunghezza è il secondo fiume d’Africa, dopo il Nilo. Ma il Congo è anche il Paese dei gorilla di Diane Fossey. “Li abbiamo visti, una volta, i gorilla, su, sulle montagne, mentre andavamo alla sorgente”, si illumina di ricordi lo sguardo di Volpato.

“Non so neanche io perché ho cominciato a fare queste esperienze e perché non riesca più a farne a meno. In un primo momento l’ho fatto di slancio, senza pensarci. Ho seguito mio figlio che in Africa è stato due anni. Ora, stare lì per 4-5 mesi è una cosa normale. Una necessità. Se fosse per me, non me ne starei qui gli altri mesi. Lì hanno troppo bisogno.

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~Rep. Dem. Congo~Nord Kivu~

La mia vita è cambiata da quando ho cominciato ad andare in Congo. Ho conosciuto una realtà che da qui non si può capire. È faticoso, duro, rischioso, lo so. Ma poi quando tocco con mano la felicità della gente quando portiamo l’acqua vicino a casa. Quando vedo i loro occhi. Quando so che quella donna, quel bambino, non dovranno più percorrere tanti, troppi chilometri ogni giorno per andare a trovare l’acqua, beh, allora sono felice anch’io.

Ma sa che portando l’acqua potabile nei villaggi in alcuni casi abbia-mo sconfitto il colera? Ma si rende conto delle vite che abbiamo salvato? Non si capirà mai, senza averlo vissuto in prima persona, cosa significhi, cosa e come ti faccia sentire “dentro” vedere la riconoscenza dell’anziana donna che prima era costretta a chiedere la carità dell’acqua alla vicina di casa che andava al fiume a prenderla e che oggi può andare lei stessa alla fontana, poco lontano dalla sua capanna.

Con la possibilità di utilizzare acqua pulita, i casi di verminosi e di infezioni intestinali diminuiscono. E i terreni incolti attorno al serbatoio, che un tempo erano sterile pascolo per le capre, ora sono diventati luoghi d’elezione per costruire capanne e coltivare piccoli orti.

Ecco, fra pochi mesi me ne tornerò laggiù. Nel mio Congo”.

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~Acqua altra di Venezia~

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~Rep. Dem. Congo~Nord Kivu~

~SETTE CHILOMETRI DI CONDOTTAE 10 FONTANE PUBBLICHE PER KAGARA~

L’associazione di Lecco Mondo Giusto ha costruito in Con-go, per conto dell’AATO, un sistema di captazione dell’acqua da due sorgenti. Il luogo di intervento è stato nel villaggio di Kagara, nel nord Kivu. E’ stata realizzata una condotta di 7 chi-lometri che alimenta oggi 10 fontane pubbliche. A beneficiarne sono 5100 persone.

L’intervento è stato realizzato nel corso del 2006. Il finan-ziamento da parte dell’AATO è stato di 25mila euro.

La regione del Kivu, prima al Sud, poi al Nord, è stata per un ventennio il terreno operativo di Mondo Giusto che ha sede a Lecco e che è operativa in Africa dal 1963.

La prima sede in assoluto fu Murhesa, parrocchia di 20 km a Nord di Bukavu: un gruppo di mulini, con magazzino e ufficio, e la residenza dei volontari le opere realizzate in quegli anni.

In seguito, a Birava (40 km a Nord di Bukavu) fu gestito un di-spensario-maternità. Altrettanto si fece sull’isola di Ibinja, di fronte a Birava: un piccolo dispensario venne poi dotato di un pozzo più pompa per acqua potabile, affrancando la popolazione (8000 abitanti) dalle ricorrenti epidemie di colera.

A Murhesa venne pure realizzata una maternità che mediamente assiste 1200 parti all’anno; fu dotata di reparto di isolamento, di ricove-ro pre-natale per le gravide provenienti da villaggi nella foresta. Fu pure costruita una casa per il personale, e l’intero grosso villaggio di Murhesa ricevette una distribuzione d’acqua potabile.

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~Acqua altra di Venezia~

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~Rep. Dem. Congo~Nord Kivu~

~L’ACQUA CHE NON C’È. L’ACQUA CHE UCCIDE~

In Congo solo metà della popolazione ha regolare accesso al-l’acqua potabile. Un bambino su cinque muore prima di rag-giungere il quinto anno di vita. La diarrea e le altre malattie

veicolate dall’acqua sono responsabili di un decimo di queste morti. Ogni giorno donne e bambini devono percorrere chilometri a piedi con ogni genere di bidoni e contenitori sulla testa per raggiungere la sorgen-te di acqua potabile più vicina.

Esistono infatti pochi pozzi privati e spesso sono a rischio. Non es-sendo protetti hanno infiltrazioni di batteri che possono diventare letali per i più piccoli e per i malati. Altri pozzi, troppo poco profondi, si pro-sciugano velocemente durante la stagione secca.

La vita delle donne congolesi è un inferno. Sono costrette a lavorare tutto il giorno per cercare di guadagnare qualcosa con cui sopravvivere e, spesso, sono i loro bambini che vanno a rifornirsi di acqua. Molti si mettono in cammino all’alba, a caccia di pochi litri. Tornano a casa solo quando è già buio, con grandi rischi di molestie e violenze.

Nonostante gli accordi di pace del 1999, il Paese è ancora diviso in tre zone occupate dal governo congolese, dai gruppi ribelli e dai Paesi limitrofi. Il numero dei rifugiati è vertiginoso. Ha raggiunto oltre i 3 mi-lioni e quello delle vittime, soprattutto civili, è sconcertante: dal 1998 a oggi sono più di 2 milioni e mezzo. Molti sono morti per i combatti-menti, ma la maggior parte muore di fame, malattie, mancanza d’acqua e di ogni tipo di assistenza medica.

Il Congo incarna un doloroso paradosso. Se si escludono i paesi produttori di petrolio, questa Repubblica è infatti una delle nazioni più ricche al mondo in materie prime: oro, diamanti, uranio, rame, legname e caffè. Il grande fiume, da cui il Paese prende il nome, per portata idri-ca è secondo solo al Rio delle Amazzoni e ha un potenziale idroelettrico che potrebbe essere in grado di soddisfare il fabbisogno d’energia di gran parte del continente africano.

Il fiume e centinaia di altri corsi d’acqua più piccoli attraversano una lussureggiante campagna e potrebbero fornire tantissima acqua.

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~Acqua altra di Venezia~ ~Africa~

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E poi c’è il coltan, minerale rarissimo, ma abbondante in Congo, per cui si è scatenata una nuova caccia all’oro. La sua importanza è strategi-ca perché componente essenziale dell’industria elettronica avanzata.

In questo paese di ricchezze e potenzialità straordinarie, nelle stra-de della capitale Kinshasa, si aggirano decine di migliaia di bambini, sporchi, affamati, abbandonati al loro destino. I numeri forniti dell’Uni-cef sono atroci: oltre 35.000 sono i bambini soldato coinvolti nei con-flitti, oltre 5.000 le donne e i bambini che subiscono violenze sessuali, un congolese su 20 è sieropositivo, oltre 5.000 bambini sono affetti da malnutrizione a causa della povertà.

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~Nord Kivu~Villaggio di Kagara: donne e bambini prendono l’acqua con le taniche

~Nord Kivu~Villaggio di Kagara: donne e bambini

prendono l’acqua con le taniche

~Nord Kivu~Villaggio di Kagara: una delle 10 fontane pubbliche realizzate

~Nord Kivu~Villaggio di Kagara:

ultimi interventi alle fontane

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~Africa~Eritrea~~Regione dell’Anseba~

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~Acqua altra di Venezia~ ~Africa~

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~UNA SPERANZA IN PIÙ~

Solo i più vecchi ormai ricordano. Il verde delle colline e gli ab-bondanti raccolti. La siccità, che dal 2000 al 2005 ha messo il Paese in ginocchio, ha trasformato quelle verdi colline in un

deserto. La principale occupazione, soprattutto di donne e bambini, è la ricerca di cibo e acqua. Ogni giorno, 10-15 chilometri a piedi. Assie-me alla siccità, il conflitto con l’Etiopia e uno dei governi più temibili d’Africa, hanno fatto dell’Eritrea un Paese sull’orlo del collasso.

Per Sandro Vigato, questa è stata la prima esperienza nel Corno d’Africa. Dopo tanti viaggi, alla ricerca di ciò che più lo appassiona, i vecchi treni a vapore, Vigato è sbarcato in Eritrea su mandato dell’Asp di Chioggia, dove lavora, per la verifica finale del progetto firmato dal-l’AATO e realizzato in collaborazione con l’associazione di Montagnana, nel Padovano, GMA, Gruppo Missionari di Asmara.

“È stata un’esperienza decisamente importante per me, sotto tanti pun-ti di vista”, spiega Vigato. “Mi è servita per vedere le cose in un altro modo. Per rendermi conto come operino le associazioni e le organizzazioni non governative nei Paesi del sud del Mondo. Quanta fatica facciano a trovare i soldi. Ma soprattutto perché ho capito che davvero si può. Insomma, ci si riesce proprio a fare qualcosa di grande, qualcosa di importante, per per-sone che stanno tanto peggio di noi. Il mio compito era quello di andare lì e verificare quanto era stato fatto. L’idea iniziale prevedeva che ci fossero tutta una serie di verifiche, dalla firma del contratto alla presentazione del progetto esecutivo, dall’apertura del cantiere alla conclusione dei lavori. Ma visto che la realizzazione tutto sommato è andata veloce, nonostante le difficoltà oggettive, abbiamo deciso di anticipare la missione da dicembre a ottobre 2006”.

In Eritrea, nella missione di fine ottobre 2006, Vigato si è unito ai rappresentanti di GMA che da tempo risiedono ad Asmara. Non è stata una missione facile. Né per la verifica, né per il progetto. Prima difficoltà la sede del pozzo, decisa dall’associazione di concerto con il governo eritreo. Avrebbe dovuto essere il villaggio di Quakantac, nella valle del fiume Anseba. In una zona particolarmente arida e quasi del

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~Acqua altra di Venezia~

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~Eritrea~Regione dell’Anseba~

tutto sprovvista di acqua potabile. Lo stesso Anseba, in questo angolo dimenticato da tutti, è completamente a secco. La sede del pozzo era stata individuata a metà luglio 2006. Definiti anche i siti della fonta-na, del serbatoio e dell’abbeveratoio per gli animali. Poi sono venuti i carotaggi. Numerosi, ma tutti con esito negativo. L’acqua non c’era. Gioco forza, si è deciso si spostare il sito. La seconda scelta è caduta sul villaggio di Kerbabered, a un’ottantina di chilometri di distanza. Lì l’Anseba riprende respiro. Lì si coltivano anche alberi da frutto, segno evidente della presenza di acqua.

“Kerbabered è un luogo completamente diverso. Non così arido come Quakantac. Il villaggio aveva già un pozzo, ma era inutilizzabile. La gente ci andava prendere l’ acqua con i secchi. Ma nello stesso posto ci bevevano anche gli animali. In breve è diventato una fonte di malattie. Quindi è stato deciso di bonificare il vecchio pozzo, costruire un nuovo abbeveratoio per gli animali, ben diviso dalla fontana con l’acqua potabile per gli abi-tanti. La scarsa disponibilità di gasolio che prima limitava l’uso del pozzo ora è solo un brutto ricordo grazie ai pannelli fotovoltaici che garantiscono l’energia elettrica con continuità.

È stata comunque necessaria una nuova perforazione per individuare acqua migliore. Poi anche un nuovo serbatoio e una nuova fontana. Ecco, possiamo dire che a Kerbabered l’acqua c’era, ma quella gente aveva biso-gno di acqua buona, pulita, sicura. Gliela abbiamo portata”.

Risolto il primo problema, il progetto ha dovuto affrontare l’ultima difficoltà: la verifica. Non tanto il controllo, quanto la possibilità stessa per la missione italiana di Vigato di andare a Kerbabered e verificare appieno la realizzazione del progetto.

“Ci abbiamo provato in tutti i modi. Ogni volta che si esce da una città o da un villaggio si trovano posti di blocco con militari e mitra spianati. Ci sembrava di avere tutti i permessi necessari rilasciati dalle autorità di Asmara. Ma evidentemente non erano sufficienti. Fino a Keren, che è il capoluogo della regione dell’Anseba, tutto bene. Poi, verso il villaggio ab-biamo trovato il posto di blocco. C’era anche una catena che impediva di proseguire sulla strada. Abbiamo consegnato i permessi, abbiamo spiegato

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cosa stavamo facendo, che volevamo andare a Kerbabered a vedere il poz-zo, che avevamo portato acqua buona a quel villaggio. Abbiamo parlato e pregato. Ma nulla da fare. Non ci hanno fatto passare. Siamo tornati a Keren e siamo andati dai funzionari della Regione per spiegare ancora una volta e ancora una volta pregarli di farci passare. Un muro di gom-ma. Inutile. Nessun straniero, se non residente, avrebbe potuto passare e raggiungere Kerbabered. Neppure quelli che, come noi, alla loro gente d’Eritrea avevano portato aiuto”.

E L’Eritrea ne ha tanto bisogno d’aiuto. Non solo di acqua. Soprat-tutto di pace. Il Paese ha ottenuto l’indipendenza dall’Etiopia nel 1993. Nel 1998 una guerra di confine con Addis Abeba per la città di Ba-dme ha portato a morire circa 19.000 soldati eritrei. Da qui, anche una pesante migrazione delle popolazioni eritree e un disastroso con-traccolpo economico. Il conflitto si è ufficialmente concluso nel 2000 sancito dagli Accordi di Algeri, ma la tensione resta altissima. Lo stesso Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a luglio 2008, ha votato all’unanimità la fine della missione di peacekeeping al confine tra i due Paesi. La decisione è maturata dopo che l’Eritrea ha deciso di revocare il proprio sostegno alla forza di pace. Gran parte dei 1.700 caschi blu dispiegati nell’area verranno richiamati entro febbraio 2009.

Oggi, ogni spostamento all’interno dell’Eritrea è soggetto alla con-cessione di uno speciale permesso da richiedersi con buon anticipo alle autorità di Asmara e da esibire ai numerosi posti di blocco lungo le strade. E se sei straniero è quasi impossibile raggiungere tutti i villag-gi. Solo il coordinatore del GMA, di nazionalità eritrea, e i funzionari governativi, hanno potuto raggiungere Kerbabered. La testimonianza della qualità del lavoro e della realizzazione complessiva del progetto è affidata quindi alle immagini che sono state scattate quel giorno.

“Un vero peccato, e per tanti motivi. Nel villaggio ci aspettavano per fare festa. Avremmo dovuto celebrare in grande stile la consegna del pozzo al capo villaggio. E invece, ce ne siamo tornati a casa con la coda fra le gambe. Per questa ragione non abbiamo potuto avere alcun contatto con gli abitanti del villaggio. Ci è stato impedito nel modo più assoluto. Spero,

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prima o poi, di poter tornare. Ma so per certo che agli stranieri è ancora vietato raggiungere molti luoghi. È chiaro che i militari hanno deciso di tenere questa linea dura per poter gestire in toto e in prima persona gli aiuti”.

Mentre il progetto AATO ha portato una goccia in un mare di bi-sogno, l’Eritrea sta facendo i conti con un anno, il 2008, disastroso per la popolazione. Secondo l’Unicef, erano previste 452mila tonnellate di cereali. Se ne produrranno l’84% in meno. Un terzo della popolazione eritrea, più di un milione di persone, secondo il World Food Program, sta correndo il rischio di morire di fame.

A siccità e guerra si aggiunge la disperazione della fuga. Sono mi-gliaia i giovani eritrei che cercano di lasciare il Paese. Viaggiano su quelle navi che, se la fortuna e il mare le assiste, arrivano alle coste di Puglia, Sicilia, Malta. Fra le proteste di Amnesty International, spesso vengono rimpatriati, finiscono nelle prigioni eritree e se ne perdono le tracce. Il più delle volte per sempre. I giovani fuggono all’arruolamento forzato che li vuole tutti sotto le armi, dai 18 ai 40 anni.

Nessuno, senza un visto, può uscire dal Paese. Perfino eritrei con doppio passaporto (italiano ed eritreo) non possono abbandonare Asma-ra per l’estero.

“Ma noi non possiamo fermarci. Possiamo e dobbiamo aiutarli”, mi dice Vigato, mentre sul computer scorrono immagini di bambini e poz-zi. Bambini e acqua fresca.

Basta lo sguardo di uno qualsiasi di questi bambini, in quel villaggio, per convincerti ad andare avanti. I suoi capelli corti corti, la sua realtà fatta di poche capanne circondate da pietre e terra secca, i suoi anni, 5, un traguardo che altri piccoli come lui non hanno potuto raggiungere. Il suo filo di voce. Il suo sorriso generoso quando beve la scodella d’acqua, quasi a sfinirsi.

In Eritrea un bambino su dieci muore perché non ha cibo e acqua a sufficienza. E perché non ci sono ambulatori sanitari. Questo piccolo e i suoi amici, oggi, hanno almeno una possibilità in più. Quella di poter sperare. Di crescere e vivere.

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~A KERBABERED, IL POZZO DELLA VITA~Nel villaggio di Kerbabered, nella regione dell’Anseba, il

GMA – Gruppo Missionari di Asmara, ha risistemato un pozzo dal quale l’acqua viene estratta per mezzo di una pompa a pan-nelli solari. E’ stato realizzato anche un serbatoio di accumulo e un fontanile a sei rubinetti che garantisce l’acqua potabile agli abitanti del villaggio e dei dintorni. Il finanziamento di AATO è stato di 55mila euro. Il progetto è iniziato nell’aprile 2006 e si è concluso nell’ottobre 2006. La missione finale di verifica è stata a fine ottobre 2006.

Il GMA, che ha sede a Montagnana in provincia di Padova, è nato nel 1972 dall’incontro fra un gruppo di giovani e un missionario della Congregazione Pavoniana. Si dedica principalmente agli

orfani e alle persone più povere ed emarginate dell’Eritrea, allora in piena guerra contro la vicina Etiopia. All’inizio i partners sono la Chiesa e la Caritas locali con le quali l’associazione padovana svolge servizio di assistenza fronteggiando le gravi situazioni di emergenza alimenta-re e sanitaria. Successivamente viene costituito un centro operativo in Asmara, il Pavoni Social Centre (PSC), interlocutore diretto per azioni e iniziative di promozione allo sviluppo.

Fino al 1991 il Gruppo opera come associazione, prima di fatto e poi di diritto; l’8 aprile dello stesso anno ottiene il riconoscimento, da parte del Ministero Affari Esteri, come Organismo Non Governativo (ONG) idoneo alla cooperazione internazionale ai sensi dell’Art. 28 del-la Legge 49/87 per le attività di informazione, progettazione a breve e medio termine ed educazione allo sviluppo.

Ulteriore passo in avanti verso la cultura della solidarietà interna-zionale avviene nel 1989 con l’adesione del GMA al Coordinamento Iniziative Popolari di Solidarietà Internazionale (CIPSI): ciò favorisce la crescita culturale dei membri dell’associazione che entrano in stretto contatto con altre ONG, con la loro realtà e operatività.

Nel 1993 il GMA è riconosciuto ONG CEE ottenendo un cofi-

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~Eritrea~Regione dell’Anseba~

nanziamento dall’Unione Europea per la realizzazione di un progetto di sviluppo.

Nel 1994 diviene Ente Morale con DPR 15/04/94. Nel luglio del 1999 ottiene l’idoneità, da parte dei ministeri preposti, al patrocinio delle adozioni internazionali per gli orfani etiopi abbandonati per i quali non siano possibili soluzioni alternative in loco.

La realtà del GMA non è circoscritta al territorio veneto, ma è ra-mificata in tutta Italia attraverso gruppi riconosciuti e consociati che, in sintonia con la sede, diffondono la cultura della solidarietà e della cooperazione tra le famiglie italiane

~GUERRA E MANCANZA D’ACQUA,IL DRAMMA DEL CORNO D’AFRICA~

Pochi litri d’acqua al giorno per ognuno. Molti meno di quei 50 stabiliti come soglia di sopravvivenza dall’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. Questa è l’Eritrea con i suoi 4 milioni e

300mila abitanti, vittime di una guerra che sembra non aver fine, di una delle dittature più atroci d’Africa, della carenza di acqua e di carestie continue.

L’accesso all’acqua potabile continua a essere uno dei problemi principali, sia nelle aree rurali, sia nei piccoli centri abitati del grande Paese del Corno d’Africa.

Nel Rapporto 2008 sulla condizione dell’infanzia, l’UNICEF ha va-lutato che 1 milione e 700.000 persone hanno una primaria necessità di acqua potabile, ovvero ne sono del tutto sprovvisti, nel 70% dei vil-laggi rurali. Solo il 18% degli eritrei ha accesso all’acqua potabile. E in particolari periodi dell’anno, che coincidono con il tempo delle piogge, molti pozzi vengono sommersi dalla sabbia e dal limo, per cui questa percentuale scende ulteriormente. Anche il bestiame allevato risente della mancanza di acqua: almeno il 9% delle bestie muore di sete in particolare nell’area nord del paese.

L’accesso al servizio sanitario è riservato a poco più della metà della popolazione. Risulta la presenza di un medico ogni 33.333 abitanti,

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~Eritrea~Regione dell’Anseba~

mentre la media dell’Africa sub sahariana è di un medico ogni 24.000 abitanti. Alcune ricerche di organizzazioni non governative svolte nella regione di Anseba – la stessa dove è stato realizzato il progetto del-l’AATO - rilevano che quasi il 30% di bambini soffre di malnutrizione. La Croce Rossa Internazionale ha recentemente denunciato un rapido incremento nei casi di malnutrizione infantile acuta nella provincia del Debub.

Gli oltre 30 anni di guerra d’indipendenza con l’Etiopia, il conflitto del 1998-2000 per i confini , la ripresa recente delle tensioni e 5 anni consecutivi di siccità, tra il 2000 e il 2005, hanno causato in Eritrea un drammatico peggioramento delle condizioni di vita di donne e bambini. In un quadro di povertà assoluta, non poter accedere all’acqua potabile pone seri rischi per la loro salute. La mancanza d’acqua, e le lunghe distanze da percorrere per raggiungere il pozzo più vicino, costringono a utilizzare acqua potenzialmente contaminata. La situazione è aggravata dalla mancanza di servizi igienici di base, disponibili per neppure il 4% della popolazione.

Nonostante l’ultima stagione delle piogge sia stata migliore delle precedenti, gli effetti di anni di siccità sono devastanti per l’agricoltura. Nelle aree rurali circa un quarto delle donne e dei bambini soffre di malnutrizione acuta. I beni alimentari scarseggiano. Le fonti di acqua si prosciugano.

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~Regione dell’Anseba~La vallata ha sete

~Regione dell’Anseba~Karen: mestoli per l’acqua riciclati

da barattoli di latta

~Regione dell’Anseba~Quakantac: Acqua il bene più prezioso offerto agli ospiti

~Regione dell’Anseba~Un pozzo nel greto del fiume

a qualche ora di cammino dal villaggio

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~Postfazione~

~IL DESIDERIO E IL DOVERE DI CREDERE IN UN MONDO ALTRO~

Nei giorni in cui questo libro prende forma e va in stampa, le popolazioni del Congo, e in prima fila donne e bambini, assistono inermi alla recrudescenza di una delle guerre

più atroci e dimenticate del pianeta. È nella martoriata regione del Nord Kivu - dove già da alcuni anni la fame e le malattie stanno uccidendo più del piombo che ne è comunque la causa - che l’AATO ha realizzato uno dei suoi progetti: sette chilometri di tubazioni che dalle montagne por-tano l’acqua a 10 fontane pubbliche. E ora anche ai campi profughi che stanno accogliendo centinaia di migliaia di persone in fuga.

La forza del Fondo Acqua Bene Comune è stata anche questa: accet-tare la sfida e spingersi con coraggio in luoghi dove il bisogno d’acqua è negato non solo da situazioni climatiche avverse e da povertà estreme, ma anche e soprattutto da guerre spietate o dalla recrudescenza di tensioni interne, come nel caso del Mali e dell’Eritrea, che hanno reso davvero difficile portare a termine i progetti ed effettuare le verifiche. Nonostan-te tutto, organizzazioni non governative, volontari, tecnici, comunità non hanno perso la speranza e hanno concluso ogni intervento previsto.

La passione e l’impegno di ognuno dei protagonisti degli otto progetti finanziati dal bando dell’AATO hanno trasformato la scrittura di questo libro in un viaggio davvero impegnativo dal punto di vista emotivo. È stato un percorso che mi ha coinvolto non tanto e non solo come una gior-nalista che racconta, quanto come persona. Come donna che ha avuto la grande fortuna, con L’Acqua Altra di Venezia, di fare alcuni incontri inaspettati. E, grazie a questi, di rimettersi in cammino, in movimento, e crescere ancora un po’.

Se all’inizio del viaggio temevo che avrei raccolto testimonianze trop-po simili fra loro, già a metà percorso mi ero convinta esattamente del contrario.

Dal Burkina Faso al Brasile, dall’Etiopia all’Eritrea e alla Bolivia, ogni storia è stata diversa.

Le parole con le quali ogni intervento mi è stato raccontato sono state diverse. Il bagaglio emotivo diverso. Le strade che ha percorso diverse.

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~Acqua altra di Venezia~

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~Postfazione~

Come differenti mi si sono presentate le ragioni del volontario o le emozioni di coloro che in quei luoghi sono andati a verificare i progetti. E molteplici i contesti storici e geografici nei quali ci si batte ogni santo giorno per il diritto inalienabile all’acqua.

Storie diverse, certo. Ma con un resistente filo di dolore, speranza e rinascita che le attraversa tutte. Ogni testimonianza è percorsa da una medesima consapevolezza di reciprocità.

Nulla di ciò che è stato dato da parte nostra è misurabile con ciò che le comunità, in Africa come in America Latina, ci hanno restituito. Loro hanno avuto l’acqua. E noi - volontari, verificatori, tecnici, amministrativi, giornalisti - abbiamo avuto molto di più. Ci siamo tutti rimessi in gioco. Abbiamo ricevuto amore. E un ancor più forte desiderio di un mondo nuovo. Altro e possibile.

Macri Puricelli

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UN EURO PER PORTARE ACQUA DOVE NON C’ÈQUANDO LA COOPERAZIONE NASCE NELLE FAMIGLIE

Il Fondo di solidarietà Acqua Bene Comune nasce dal desiderio di unire cittadini che possono e che hanno, con coloro che dall’altra parte del mondo non possono e non hanno. Da una parte l’estrema ricchezza e lo spreco della risorsa acqua. Dall’altra parte l’assenza. Un piccolo contributo di ognuno che mobilita le coscienze e mette in moto una solidarietà che si basa sulla relazione diretta fra diverse comunità con l’unica mediazione costituita dalle Ong che operano nel territorio dove i singoli progetti stanno prendendo anima e corpo.

Il Fondo Acqua Bene Comune costituisce un tipo innovativo di cooperazione dal basso dove i soggetti attivi sono i singoli cittadini del territorio AATO (circa 630mila) che consumano circa 50 metri cubi d’acqua all’anno.

La cooperazione si basa sull’accantonamento – e il prelevamento diretto dalla bolletta dell’acqua – di 1cent di Euro per ogni mc erogato. In concreto ogni abitante contribuisce al Fondo con un euro all’anno. Un euro con il quale, nella nostra vita quotidiana, compriamo appena un giornale o un caffè.

Questo progetto di solidarietà per i Paesi in via di sviluppo nei quali la risorsa acqua e la sua gestione costituiscono uno dei principali problemi, nasce nell’ambito della Convenzione di salvaguardia agli enti gestori che disciplina l’attuazione del Piano d’ambito dell’AATO. Il progetto è stato proposto con un approccio partecipato alla gestione integrata della risorsa acqua. E’ con questo obiettivo che l’Aato ha promosso un processo di Agenda 21 Locale, chiamato AACQUA21, che interagisce con il Piano d’Ambito. AACQUA21 è un’esperienza unica nel suo genere in Italia che ha coinvolto tutti i rappresentanti di porta-tori di diritti locali creando coscienza e conoscenza del bene acqua e responsabilità del suo uso.

AACQUA21 è dunque un processo partecipato che prevede e facilita il dialogo diretto fra cittadinan-za, istituzioni e organizzazioni attorno a un Forum Civico Ambientale che rende trasparente l’operato dell’AATO. AACQUA21 nel 2004 ha proposto di istituire un fondo permanente - Fondo Acqua Bene Comune – come strumento operativo per il finanziamento degli interventi che possano contribuire all’ac-cesso all’acqua nei paesi in via di sviluppo e migliorare le condizioni igienico sanitarie in paesi sofferenti di penuria di acqua potabile. Il Fondo garantisce un flusso di cassa continuo che offre le necessarie garanzie di continuità ai progetti seguiti in loco da Ong.

~Acqua altra di Venezia~

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IL BANDO 2005La gestione del primo bando 2005-2006 del Fondo è stata disciplinata da un regolamento

applicativo approvato dall’Assemblea d’ambito nel novembre 2004. Nell’aprile 2005 è stato approvato il Bando per la scelta dei progetti finanziabili dal Fondo per i contributi del biennio 2004 e 2005. Le procedure della Commissione di valutazione dei progetti presentati (22) sono iniziate dell’ottobre 2005 e si sono concluse il 21 dicembre 2005 con l’approvazione di 8 progetti finanziabili. La fase operativa è iniziata nel gennaio 2006 e si è conclusa nel corso 2007. Nei suoi primi due anni di vita, il Fondo ha investito circa 1.300.000,00 euro.

Una delle problematiche che l’AATO si è trovato ad affrontare con il Bando 2005 è stata quella della trasparenza delle scelte dei progetti, del controllo della spesa e della corretta realizzazione degli interventi. La fase preliminare della scelta dei progetti è stata affidata a una Commissione etica super partes composta da Carmine Curci, direttore di Nigrizia, la volontaria Nicoletta Retico, Emilio Molinari del Contratto mondiale dell’Acqua, Michela Vitturi del forum di AACQUA21. La scelta dei progetti ha privilegiato quelle proposte che avrebbero coinvolto in prima persona le comunità locali. Il controllo della fase attuativa è stato affidato alle aziende che compongono l’AATO. L’azienda è l’anello intermedio fra tutti coloro che contribuiscono al finanziamento dell’intervento (la popolazione veneziana) e la sua realizzazione (coordinata dalle diverse Ong e realizzata dalle stesse comunità locali). Alle aziende è stato affidato sia il controllo della spesa (con la necessaria rendicontazione) che la supervisione della qualità tecnica della realizzazione del progetto. Ognuno di questi è stato seguito con un cronoprogramma in grado di verificarne i vari stati di avanzamento e la verifica puntuale – tramite raccolta delle pezze giustificative – delle spese.

A dicembre 2006 le famiglie che partecipano al progetto hanno ricevuto assieme alla bolletta dell’acqua il racconto e il resoconto di ciò che il loro sia pur piccolo aiuto, diventato grande, ha contribuito a realizzare.

IL BANDO 2008Trentaquattro sono i progetti arrivati con il secondo bando del Fondo di solidarietà Acqua Bene

Comune dell’AATO Laguna di Venezia approvato nel giugno 2008 (termine ultimo per la presentazione delle domande: 31 luglio 2008).

I progetti interessano: Algeria, Uganda, Mozambico, Paraguay, Benin, Perù, Palestina, Burkina Faso, Senegal, Jenin, Etiopia, Eritrea, Bolivia, Togo, Brasile, Rwanda, Salvador, Mauritania, Kenja, Con-go, Burundi, Argentina, Albania.

In venti hanno superato la prima fase e, mentre andiamo in stampa è in corso la valutazione.

~Acqua altra di Venezia~

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A conclusione dell’iter di selezione, previsto per gennaio 2009, i progetti prescelti verranno avviati ad aprile 2009 e dovranno essere conclusi entro il 2011.

Il Bando 2008, che ha un finanziamento complesso di 1.400.000 euro, ha subordinato l’ammis-sibilità dei progetti a:

1. favorire l’accesso all’acqua potabile delle popolazioni beneficiarie nel rispetto della salvaguardia della risorsa, stimolando processi di autogestione e di partecipazione delle popolazioni locali per miglio-rare ed aumentare l’accesso all’acqua e ai servizi idrosanitari;

2. prevedere il coinvolgimento diretto delle comunità, delle amministrazioni locali e deimovimenti sociali che abbiano dimostrato di condividere gli obiettivi del progettocon una partecipazione attiva allo stesso nelle fasi di proposta, realizzazione egestione;3. stimolare modalità di mobilitazione di risorse locali per la realizzazione ed ilmantenimento delle opere realizzate e la protezione ambientale delle sorgenti/fonti;4. prevedere momenti formativi e di partecipazione delle popolazioni finalizzati allagestione e protezione delle risorse idriche e delle opere realizzate, al fine di stimolareprocessi di democrazia partecipativa e di condivisione del progetto, rendendo lecomunità autonome nella gestione delle strutture realizzate;5. migliorare la qualità della vita di persone che vivono in aree povere e specialmentedi bambini, donne e contadini, diminuendo l’incidenza di malattie infettive legatealla mancanza d’acqua e di sistemi idrosanitari adeguati e riducendo di conseguenzal’esodo delle popolazioni da zone semiaride verso le città ed i centri urbani;6. preservare e tutelare forme autoctone di gestione sociale dell’acqua valorizzandosaperi locali/tradizionali anche in chiave innovativa.

Per ulteriori informazioni sul bando 2008 Fondo acqua bene comune:http://www.atolagunadivenezia.it/pdf_bando/BANDO_FONDO_ABC_2008.pdf

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IL DELICATO LAVORO DELL’AATO,AMBITO TERRITORIALE OTTIMALE LAGUNA DI VENEZIA

L’Ambito Territoriale Ottimale (A.A.T.O.) “Laguna di Venezia” è l’Autorità che governa, regola e controlla il Servizio Idrico Integrato (i servizi di acquedotto, fognatura, depurazione e la loro organizza-zione territoriale ) di un bacino idrogeologico che comprende 25 comuni estesi sulle province di Venezia (Campagna Lupia, Campolongo Maggiore, Camponogara, Cavallino Treporti, Chioggia, Dolo, Fiesso d’Artico, Fossò, martellago, Mira, Mirano, Noale, Pianiga, Salzano, Santa Maria di Sala, Scorzè, Spinea, Stra, Venezia, Vigonovo) e di Treviso (Mogliano Veneto, Morgano, Preganziol, Quinto di Treviso, Sero Branco). Si tratta di un territorio con un’estensione di 1266 Kmq e un bacino d’utenza di circa 630mila abitanti in cui operano 4 enti gestori a totale capitale pubblico: Vesta Spa, Acm Spa, Asp Chioggia, Spim Spa. Il fabbisogno idropotabile annuo dell’Aato – quindi la quantità d’acqua gestita dall’Autorità d’Ambito – è pari a 1/330 del volume del Lago di Garda che a sua volta, da solo, rappresenta oltre il 30% del volume d’acqua dolce raccolto nei bacini naturali e artificiali italiani.

La particolarità di Venezia e della sua laguna è tale da richiedere un’attenzione particolare mirata alla salvaguardia del delicato ecosistema che costituisce il corpo ricettore degli scarichi civili e industriali del sistema integrato governato dall’Aato.

L’Istituzione di questa A.A.T.O. è avvenuta il 29 luglio 1998 con una Convenzione tra Enti Locali partecipanti: le Province di Venezia e Treviso e i 25 Comuni che delimitano i confini del territorio governa-to da questa A.A.T.O. Il Presidente, Davide Zoggia, è anche il Presidente della Provincia di Venezia.

La Costituzione di tale Ente è conseguente alla realizzazione degli obiettivi ambientali e gestionali prefissati dalla “Legge Galli” nel 1994 ,oggi sostituita dal D.Lgs. 152/2006.

Questi obiettivi sono sia la razionalizzazione nell’uso della risorsa idrica, sia la sua tutela e sal-vaguardia, mentre, dal punto di vista gestionale, la “Legge Galli” punta all’organicità, all’efficienza, all’efficacia e all’economicità del servizio oltre al superamento della frammentarietà delle gestioni pree-sistenti.

L’A.A.T.O. “Laguna di Venezia” si avvale di uno strumento di Governo del Sistema Idrico Integrato denominato Piano d’Ambito (PdA), ossia lo strumento pianificatorio principale e necessario al raggiungi-mento degli obiettivi di tutela dell’ecosistema territoriale comprendente anche la Laguna di Venezia, che costituisce il corpo ricettore degli scarichi civili ed industriali.

Il Piano d’Ambito pianifica tutte le fasi di sviluppo del S.I.I. per i prossimi 30 anni consente la migliore gestione e tutela delle risorse idriche oltre che soddisfare la domanda civile ed idropotabile dei cittadini.

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Questo volume è stato stampato

nel mese di novembre 2008

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