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LA FATICA DI CRESCERE

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LA FATICA DI CRESCEREBambini e disagio nell’area torinese

A cura di DARIO REI

Con un commento conclusivo di Roberto Maurizio

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Progetto grafico e impaginazione:Maria Beatrice Zampieri

Illustrazione di copertina:Dragos Georgescu

Finito di stampare nel mese di Agosto 2002presso GRAF ART, Venaria (TO)

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Quando ci si accosta all’Isola del Tesoro,i pirati se ne sono già impadroniti.

(P. MATVEJEVIC)

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PRESENTAZIONE

Paideia è una O.N.L.U.S. che opera prevalentemente a livello regionale per migliorarele condizioni di vita dei bambini disagiati, finanziando e promuovendo nuove inizia-tive in campo sanitario, educativo, assistenziale e ricreativo.

Nel quadro delle sue attività istituzionali la Fondazione ha ritenuto opportuno affian-care ai consueti programmi di intervento, un lavoro di ricognizione analitica sul mondodell’infanzia, sulle tendenze in atto e sulle domande vecchie e nuove che ancora attendonorisposta. Il presente rapporto è il risultato di un’esplorazione informativa e critica nell’areatorinese, intorno ad una serie di problemi che interessano la vita e lo sviluppo dei bambini:un quadro necessariamente incompleto ma che offre più angolazioni e diverse visioni di ciòche abbiamo voluto chiamare «la fatica di crescere».

Frutto di un lavoro collettivo, la ricerca si è giovata dell’apporto di operatori che agisco-no in specifici settori di responsabilità e che hanno trasferito nei loro capitoli un’esperienzamaturata direttamente sul campo.• Mauro Perino, direttore C.I.S.A.P. (Capitolo 2)• Ketty Brucato, assistente sociale presso l’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino.

(Capitolo 3)• Filippo Furioso, insegnante e consulente dell’Ufficio Scolastico Territoriale. (Capitolo 4)• Marina Sutelli, responsabile di redazione del servizio “Informa Handicap” del Comune di

Torino. (Capitolo 5)• Luciano Tosco, responsabile del settore Minori presso l’Assessorato ai Servizi Sociali del

Comune di Torino. (Capitoli 6 e 7)• Sued Benkhdim, mediatrice culturale presso l’istituto minorile Ferrante Aporti di Torino.

(Capitolo 8)Ha fatto seguito a questi contributi una serie di interviste ad esperti e testimoni torinesi

allo scopo di sondare e meglio delineare le aree problematiche ed i possibili interventi.Il gruppo di ricerca è stato diretto da Dario Rei, docente di Politica Sociale presso

l’Università di Torino al quale si deve anche l’inquadramento generale (Capitolo 1), la rea-lizzazione e la sintesi delle interviste (Capitolo 9), oltre all’armonizzazione del testo defi-nitivo.

Roberto Maurizio, studioso di problemi educativi e collaboratore del Centro Naziona-le per l’Infanzia di Firenze, ha delineato le prospettive che concludono il rapporto. (Capi-tolo 10)

Chiara Serra e Filippo Pugnani hanno curato la stesura dei protocolli d’intervista e lacorrezione del testo finale.

Fabrizio Serra che con me ha ideato questo lavoro, ne ha anche assicurato la continuitàe il coordinamento organizzativo.

Con questo rapporto Paideia si augura di fornire uno strumento che aiuti a conoscere ecomprendere ciò che si fa e ciò che potrebbe essere fatto per l’infanzia, da parte delle istitu-zioni, dei soggetti sociali organizzati e degli attori locali, pubblici e privati. La pubblicazio-ne apre una strada che la Fondazione intende proseguire ed estendere, adottando una me-todologia per bandi che consenta di raccogliere idee e proposte, di attuare progetti signifi-cativi e intervenire sulle aree reali di difficoltà e bisogno. Ed in questo spirito propone le pa-gine seguenti alla lettura di tutti coloro che siano interessati ad avviare nuove esperienze difruttuosa collaborazione.

MARCO SOBRERO

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UN QUADRO DI RIFERIMENTO

1.1 Bambini e problemi

Le classi d’età

Bambini sono persone comprese fra 0 e 13-14 anni di età. La fascia si puòulteriormente scomporre in tre classi di età, 0-3 (4) prima infanzia, 4 (5)-10infanzia o fanciullezza, 11-13 (14) preadolescenza. Prepara la fase 14-18adolescenza, che si prolunga in una giovinezza, estesa almeno fino ai 24 an-ni. Le soglie rilevanti in questo ciclo sono l’inizio della scolarità obbligato-ria; il suo termine; l’età minima legale per il lavoro (in Italia 15 anni); l’in-gresso nella maggiore età giuridica (18). Vale anche il criterio della imputa-bilità (14 anni). Considerando i 14 anni la soglia massima a cui limitare lacondizione che facciamo oggetto di osservazione, segnaliamo in apertura lapreoccupazione che «i bambini da 0 a 13 anni sono la condizione sociale piùa rischio in Italia».

È in generale sempre vero che infanzia e adolescenza rispecchiano la so-cietà, ma è altrettanto vero che il rapporto Infanzia adolescenza vs. Societàe istituzioni presenta oggi una problematica insolita. La famiglia negli ulti-mi decenni ha vissuto profonde trasformazioni. Contrazione del numerodei componenti, abbassamento del tasso di natalità, ritardo della nascita delprimo figlio, «paura della procreazione», sindrome di perdita del futuro,cambiamenti negli stili e nelle culture educative. Per citare un dato casuale,ma curiosamente significativo, a Milano in un giorno di giugno 2001 sononate più imprese che bambini.

A ciò si aggiunge l’instabilità coniugale; la formazione di nuovi tipi di fa-miglia ricostituita (Zani e Palmonari 1996; Barbagli Saraceno 1998); un ge-nerale spostamento dell’attenzione e del peso delle politiche sociali verso legenerazioni anziane; una maggiore difficoltà di trasmissione intergenera-zionale di saperi, valori, consuetudini. Col paradosso che il tempo dedicatoall’allevamento dei figli piccoli si riduce (nel caso dei genitori che entrambilavorano), mentre si allunga a proporzioni inusitate il tempo di permanen-za in famiglia di giovani che stentano a conseguire la pienezza dei ruoliadulti.

Mentre la famiglia sembra perdere in parte la sua forza e il suo rilievo«come istituzione», il modello istituzionale «europeo» di famiglia ed educa-zione viene sfidato dal sopraggiungere di gruppi etnici, che hanno organiz-zazioni e stili di vita familiari assai discosti dai nostri, conseguenti doman-de di accoglienza, sanità, inserimento scolastico e lavorativo, connessi pro-blemi di abbandono, marginalità, devianza.

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I bambini nel welfare italiano

I problemi che riguardano i fenomeni di natalità e riproduzione in Italiasi presentano in forme peculiari. L’Italia è l’unico paese dell’Unione europeain cui il peso delle persone con 65 e più anni supera quello dei bambini finoai cinque anni (17% contro 13%). Secondo OCSE (Rapporto Starting strong)l’Italia in Europa è in testa alla classifica della denatalità, e la quota dei bam-bini sotto i 6 anni è scesa, in termini assoluti (da 3,4 a 3,2 milioni) e relativi(dal 6% al 5,6% della popolazione: tabella 1.1).

Tabella 1.1 – Percentuali di persone sotto i 6 anni di età nella popolazione di alcunipaesi europei

L’Unione europea ha una presenza infantile inferiore a paesi come gliUsa (8,6% nel 1996)e Australia (8,1 nel 1999). A parte il caso ceco, che rendemanifesto il drammatico peggioramento dalla condizione infantile in tuttal’Europa ex-socialista, in Europa la riduzione della natalità ha a che fare conscelte di vita individuali (femminili, e non solo), le caratteristiche del mer-cato del lavoro, il costo dei figli e le politiche di welfare.

L’eterogeneità delle politiche per la famiglia che si registra in tuttal’Unione europea discende dal modello di welfare presente nel sistema na-zionale. Si pensi alla distanza che intercorre fra un modello male bread-win-ner (che tendenzialmente non prevede la donna sul mercato del lavoro, e fa-vorisce la copertura previdenziale dei carichi di famiglia attraverso il capo-famiglia maschio occupato) ed un modello dual earner family (che favoriscela presenza della donna attraverso una offerta più generosa di servizi per laprima infanzia e di congedi parentali: tabella 1.2).

10

Paese europeo 1990 1999

Belgio 7,1 6,9

Danimarca 6,6 7,8

Finlandia 7,5 7,2

Norvegia 7,7 8,2

Olanda 7,4 7,4

Portogallo 7,1 6,6

Rep. Ceca 7,4 5,8

Regno Unito 7,9 7,4

Svezia 7,5 6,9

ITALIA 6,0 5,6

(Fonte OCSE, 2001)

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Tabella 1.2 – Welfare per la maternità e la prima infanzia in Europa

In Italia i trasferimenti del welfare hanno a che fare, se previdenziali, conla presenza di un genitore sul mercato del lavoro regolare; se assistenziali,con stati di bisogno da povertà economica accertati nell’ambito della fami-glia. Sono erogati a livello centrale (assegni al nucleo familiare, assegni dimaternità a base previdenziale), e a livello locale da parte degli enti gestoridell’assistenza (sussidi di assistenza economica, assegno per il terzo figlio,assegno di maternità, reddito minimo di inserimento). Poiché il costo me-dio di mantenimento di un figlio è stimato (in Italia) in circa 10 milioni di li-re/anno, è evidente che sia i trasferimenti negativi (come le detrazioni fi-scali), sia i sostegni diretti (assegni previdenziali, sussidi assistenziali) resta-no distanti da tale livello.

Da una parte, l’estensione e l’incremento dei trasferimenti sono invoca-ti a sostenere i costi ordinari, che una famiglia affronta per allevamento cu-ra ed educazione dei figli, riconoscendo l’impatto che la nascita e la «gestio-ne» dei figli hanno sul complessivo budget, a confronto con le famiglie chenon hanno (o non hanno più) analoghe esigenze. Dall’altra parte, il soste-gno al reddito di famiglie con figli si muove seguendo criteri condizionali: seil capofamiglia è un lavoratore occupato, specie se a bassa retribuzione, op-pure se rientri in una qualche situazione di povertà, che è riconosciuta me-ritevole di essere protetta.

Rispondere alla esigenza del primo tipo comporterebbe «un’inversionedi tendenza al deterioramento relativo della posizione della famiglia conminori, rispetto a quella che non ne ha e a quella che ne ha uno solo» (CN-CA, 1997). Per quanto riguarda le prestazioni condizionali, il livello degli as-segni familiari aggiunti alla retribuzione del lavoro, e le modalità delle in-dennità di disoccupazione fornite ai capifamiglia, incidono sulla condizio-ne dei bambini all’interno delle famiglie e sul complessivo tasso di bambinipoveri nella popolazione. Si confronti la situazione della povertà infantile,più elevata in Gran Bretagna rispetto a Germania, Francia (allocation pa-rentale d’éducation fornita dalla sécurité sociale), Svezia e Olanda. Anche inpaesi come l’Italia e la Spagna, dove il numero dei figli per donna è dimi- 11

PaeseDurata congedi di Copertura Servizi per 0-3 anni

maternità (settimane) (% della retribuzione) (% utenti)

Belgio 15,3 077 30

Danimarca 30,3 100 64

Finlandia 52,3 070 22

Norvegia 42,3 100 40

Olanda 16,3 100 06

Portogallo 24,3 100 12

Regno Unito 18,3 044 34 (Inghilterra)

Rep. Ceca 28,3 069 01

Svezia 64,3 063 48

ITALIA 21,5 080 06

(Fonte OCSE, 2001)

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nuito radicalmente, raggiungendo i livelli più bassi del mondo, la povertàdei figli è in aumento. In altri termini, il tasso di povertà dei figli nella popo-lazione non dipende dalla mera ampiezza dell’aggregato familiare, ma davariabili, quali la durata della disoccupazione dei capifamiglia, il livello del-la relativa indennità, il livello complessivo della spesa sociale, il livello deitrasferimenti mirati a sostenere il carico di mantenimento per le famiglieproblematiche.

Da questo punto di vista, l’Italia non ha finora assunto nemmeno le fa-miglie a un solo genitore (perlopiù donna) come target specifico di appositisostegni economici. Né ha accettato il suggerimento (avanzato in passatoda E. Gorrieri) di porre alla base dei trasferimenti di welfare il parametro del«reddito familiare disponibile», che combina varie dimensioni: il rapportofra percettori di reddito e persone a carico, il costo dei carichi ordinari dieducazione e di care, il costo dei carichi aggravati di assistenza specie ai nonautosufficienti. Per contro, una ipotesi di market welfare in via di espansio-ne preferisce compensare gli eventuali carichi di famiglia con il ricorso piùampio allo strumento fiscale (detrazioni d’imposta, deduzioni). Mantenen-do una linea «agnostica» rispetto al riconoscimento delle situazioni «meri-tevoli» di trasferimenti assistenziali positivi, questo approccio non sembrafavorevole all’ampliamento dei servizi a diretto carico della spesa socialepubblica.

La discontinuità educativa e gli scambi difficili

Dopo gli aspetti economici e finanziari, vengono i problemi di scambi einvestimenti intergenerazionali, in senso lato educativi. Registriamo unacrisi evidente dei processi di socializzazione, misurata dall’indebolimentodelle competenze genitoriali, dalla perdita di credibilità e consenso delleistituzioni scolastiche, dalla crescita abnorme della esposizione ai media,dal diffondersi di allarmi, connessi a – reali e rappresentati – fenomeni diabuso, prevaricazione e violenza. Poiché la socializzazione è il canale di co-municazione fra il mondo vitale del bambino e la società degli adulti, vieneda chiedersi che cosa sanno dare gli adulti ai bambini in termini di investi-mento culturale (cognitivo e valoriale) e morale (fiducia e relazione), oltreche economico (mantenimento, reddito, consumi).

Va detto che la propensione a riorientare le politiche sociali dei paesi awelfare progredito, in direzione del lavoro educativo e di care per i bambini,si scontra con le trasformazioni sociodemografiche che mettono in tensio-ne il welfare stesso. Basta considerare: la limitata generalizzazione dei servi-zi per la prima infanzia, il conflitto fra occupazione femminile e cure fami-liari, il rinsecchimento longitudinale delle generazioni, conseguente alla ca-duta della natalità e allo sfrondarsi della parentela. La prospettiva surrealedi paesi composti «di figli unici di figli unici» – dove ogni giovane senza ziiné cugini avrà a carico due pensionati e sei vecchi fra genitori e nonni – get-ta ombre sulla stabilità dei sistemi di sicurezza sociale.

Letta invece nel quadro della globalizzazione, la condizione infantile po-ne in evidenza una serie di altri problemi che «in questa nostra parte delmondo» recano con sé echi di un mondo che si ritiene passato. Tuttavia12

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«metà delle persone povere del mondo sono bambini»1. Malnutrizione emorte per fame; sfruttamento nel lavoro; guerre subite, e talvolta combattu-te; sfruttamento sessuale; assenza di scuole ed analfabetismo: altrettantielementi di una «pedagogia nera» che non possiamo dire di avere lasciatoper sempre alle nostre spalle.

1.2 Bambini in Piemonte

I bambini cittadini italiani

Limitiamo la nostra osservazione alla popolazione infantile del Piemon-te, riprendendo le informazioni fornite dalla Banca Dati Demografici Evolu-tiva della Regione Piemonte.

Nel 1999 la popolazione residente in Piemonte contava 510 mila perso-ne tra 0 e 14 anni, pari all’11,92% della popolazione residente totale (tabel-la 1.3).

Tabella 1.3 – Popolazione infantile in Piemonte

Nel comune di Torino al 31.12.98 si contavano 91.498 persone compresefra 0 e 13 anni, pari al 10,1% della popolazione residente (tabella 1.4).

Tabella 1.4 – Popolazione infantile a Torino città

L’andamento della struttura per età della popolazione piemontese se-gnala,dal 1951 al 1971, un costante incremento della fascia 0-14, seguito daun consistente decremento dal 1981 ad oggi. Il peso relativo della fascia dietà 0-14, che sfiorava il 20% nel 1951, a fine secolo è di poco superiore al10%.Il fenomeno riflette l’impatto e il successivo assestamento del saldo mi-gratorio interno, la costante riduzione dei tassi di mortalità e di natalità, ilridimensionamento dell’aggregato familiare.

Questo mutamento avviene nel quadro di un decremento complessivo 13

Classi di età M F MF Pr. TO M Pr. TO F Pr. TO MF

0-4 87601 82711 170312 46031 43300 89331

5-9 87568 83272 170840 45568 43210 88778

10-14 87399 82309 169708 45561 42915 88476

tutte 262568 248292 510860 137160 129425 266585

(Fonte Regione Piemonte su dati BDDE al 31.12.1999)

Classi di età M va M % F va F % MF va % sul totale

0-13 47020 51,4 44.478 48,6 91.498 10,1

14-17 14269 51,4 13482 48,6 27751 3,1

popolazione 436444 48,0 473297 52,0 908741 100,0

(dati BDDE Regione Piemonte al 31/12/98)

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della popolazione piemontese, che dall’86 al 99 è diminuita di circa 75 milaunità. Nel periodo 97-99 il tasso di natalità in Piemonte è stato pressoché co-stante su un valore 8,06-8,08 per mille (a fronte di un tasso di mortalità 11,5-11,7 per mille).Le province con tassi di natalità più alti sono, nell’ordine,Cuneo, Novara e Torino. Tra il 91 ed il 99, mentre la classe d’età compresa fra5-9 anni nella popolazione piemontese ha perso 2240 unità (-1,29%)e laclasse d’età 10-14 ha perso 36408 unità (-17,66%), nella classe d’età 0-4 an-ni vi è stato un incremento di 6178 unità, ossia un guadagno del 3,76%.

I bambini stranieri e le tendenze demografiche

Alla popolazione dei bambini cittadini italiani vanno aggiunti i bambinifigli di cittadini stranieri. Secondo l’indagine ISTAT sui cittadini stranieriiscritti alle anagrafi comunali, in Piemonte il loro numero è passato dal 93 al99 da 36 mila a 79.900, di cui 14.900 minorenni. La popolazione straniera re-sidente al 1.1.2000 risultava di 92.768 unità, di cui 18.645 minorenni 2. ATorino (dati dell’anagrafe comunale) la popolazione straniera residente al30 giugno 2001 contava 39.516 persone (54% maschi e 46% femmine), di cui7283 minorenni (nati dopo il 30 giugno 1983, di cui il 51,1% maschi e 48,9%femmine).

Quanto ai permessi di soggiorno, a fine 98 risultavano essere 6036 per lafascia di età 0-18 (compresi) o circa 5800 minorenni (di cui 2689 fino a 14 an-ni di età). Le comunità etniche più numerose a Torino, secondo dati dell’a-nagrafe cittadina, sono nell’ordine decrescente marocchini (9603), rumeni(4720), peruviani (2891), albanesi (2241), cinesi (2010) e filippini (1664). Ilnumero dei nati nella popolazione straniera residente è in cinque anni tri-plicato, passando da 485 (1993)a 1516 (1998). Nel periodo 1992-96 sono sta-ti celebrati ogni anno 860 matrimoni con almeno un coniuge straniero. I na-ti (anno 1996) erano per il 51,9% figli di genitori entrambi stranieri, per il32,4 da madre straniera e padre italiano, per il 15,7 da madre italiana e pa-dre straniero. Nel 1999 i bambini nati da almeno un genitore straniero sonostimati in circa 2200, pari al 6,3% delle nascite totali.

Due conclusioni significative di una recente indagine IRES sulle tenden-ze della demografia piemontese:

❖ le immigrazioni non sono mai riuscite a mutare in modo strutturalee duraturo le tendenze di fondo della popolazione locale (denatalitàe invecchiamento);

❖ il meccanismo più rilevante,che offre spiegazione della bassissimanatalità piemontese, chiama in causa non tanto una rinuncia allaprocreazione, quanto la crescente tendenza al rinvio dell’inizio del-l’attività riproduttiva ad età in cui diventa obiettivamente difficile ge-nerare più d’un figlio: «se si riuscisse ad anticipare una parte delle na-scite dei primogeniti rispetto all’arco di vita dei loro genitori, si po-trebbe probabilmente favorire un aumento delle nascite di secondo eterzogeniti, alzando i tassi di riproduzione generali»3. I tassi di occu-pazione femminile a tutte le classi di età hanno una incidenza sul nu-mero dei figli conviventi ed in particolare sulla scelta di non averne,14

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con un differenziale negativo del Piemonte rispetto all’Italia che si at-testa sul 13-14% per donne in età fra 25 e 39 anni4.

Il piccolo recupero delle nascite negli ultimi anni (+1300 nati in regionenel 1999 rispetto alla media 93-96) non può essere attribuito in modo parti-colare ad una sola componente delle scelte riproduttive. «Su quella decisio-ne potrebbe influire un secondo fattore più congiunturale collegato con ilmiglioramento del ciclo economico in atto e delle prospettive del mercatodel lavoro. Infine va ricordato il contributo delle nascite da immigrati stra-nieri, ancora poche rispetto alla presenza di questi ultimi, ma certamente increscita in parallelo con il loro inserimento nel lavoro e nella società»5.

La crescente presenza di bambini stranieri residenti nel territorio è ri-specchiata dall’incremento di questa popolazione nelle scuole (vedi capito-li 4 e 8). In cinque anni (dal 91 al 96) il totale degli stranieri iscritti è passatoda 0,4% a 1,0% sul totale, l’incremento interessa soprattutto la scuola ele-mentare e materna. L’apporto di allievi stranieri all’incremento delle mater-ne e delle elementari è comune a tutta Italia, e Torino è, dopo Milano eRoma, la provincia con l’incidenza più elevata di allievi stranieri.

In quali famiglie

Per quanto concerne la tipologia familiare, i bambini in Piemonte (Rel.IRES 1995 p. 209 ss.) erano collocati in sette diverse situazioni: a coppia co-niugata b famiglia con un solo genitore padre c famiglia con un solo genito-re madre d famiglia estesa (con ascendenti) e famiglia multipla f famiglia difatto g altro (tabella 1.5)

Tabella 1.5. – Bambini in Piemonte per tipologia familiare

Dati più aggiornati relativi a Torino (Tabella 1.6) consentono di indivi-duare analiticamente in quali tipi di famiglie si trovano i bambini delle di-verse classi di età. Si vede che le famiglie nucleari ristrette (con un massimodi due figli) rappresentano oltre due terzi delle situazioni familiari torinesi,in cui vivono figli di età inferiore ai 14 anni.

15

Classi V.A. a b c d e f g

0-5 197700 84.4 0.6 3.5 4.7 2.9 3.5 0.3

6-10 178400 83.9 1.0 5.0 5.5 2.0 2.4 0.2

11-13 123300 82.6 1.4 5.9 6.1 1.7 2.0 0.3

0-13 499400 83.8 0.9 4.3 5.2 2.5 2.8 0.3

(Fonte IRES 1995)

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Tabella 1.6. – Tipologie familiari con bambini a Torino-città

La formazione di famiglie diverse dalla tradizionale famiglia coniugale aun solo nucleo evidenzia l’estendersi di processi di instabilità nella convi-venza familiare. Le dinamiche di instabilità familiare si riflettono anche inambito piemontese negli interventi adottati dal sistema giudiziario:

❖ Nel 1998 in Piemonte i provvedimenti di separazione per via giudi-ziaria hanno interessato 6241 donne e 6220 uomini; i provvedimentidi divorzio 3410 donne e 3391 uomini.

❖ I provvedimenti relativi alla potestà dei genitori sono stati 1539 neltriennio 96-98. Sempre nel triennio 96-98 i provvedimenti per regola-mentare la potestà fra genitori naturali sono stati 1817.

❖ I figli naturali costituiscono circa il 10% dei nati; l’1,1% dei nati non èriconosciuto da nessun genitore (dati 1996 riferiti a 3435 nascite na-turali in Piemonte).

❖ L’ adozione si rivolge con ampiezza su «mercati» esteri. Le richieste,dapprima prevalenti verso il Sud America, mostrano un più recenteorientamento all’Europa dell’Est. Accanto all’adozione internazionaledefinitiva, vanno considerate le esperienze di bambini stranieri tem-poraneamente ospitati: si vedano in Piemonte i casi dei «bambini diChernobyl» e dei bambini ceceni accolti per iniziative di volontariato.

1.3 La protezione della vita e il sistema delle tutele

Alla base di tutte le politiche sociali che concernono la condizione di vi-ta dei bambini, si pongono, in primo luogo, gli atti di tutela «inderogabile»che si preoccupano della sussistenza in vita e della integrità fisica e psichi-ca del bambino.

La casistica

❖ Nel 1996 il tasso di mortalità infantile era di 6,1 morti ogni 1000 nativivi (più elevato del tasso italiano, nel 1997 del 5,9 per mille per i ma-

16

Tipologia 0-2 anni 3-5 anni 6-10 anni 11-13 anni 14-17 anni

coppie+1 f 6418 5513 6153 3265 4667

coppie+2 f 5051 7783 14451 8763 11259

coppie+3+f 1117 1650 3666 2478 3203

padre con f 256 229 452 338 623

madre con f 1597 1903 3855 2709 3804

altri con f 2168 1841 2182 1131 1410

(Dati Bollettino Statistico del Comune di Torino, riferiti al primo semestre del 2001. I valori indicano la numerosità dei tipi di famiglie, non il numero dei bambini.)

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schi e 5,1 per mille per le femmine). Le principali cause di morte perpersone da 0-14 anni nel periodo 91-96 sono, dopo le condizionimorbose di origine perinatale, traumatismi e avvelenamenti (222 ca-si) e tumori (160).

❖ L’incidentalità stradale nel 1998 ha prodotto 1 morto fra conducenticompresi fra 10 e 14 anni, 10 feriti fra conducenti di età inferiore a 10anni (di cui due femmine)e 128 feriti fra conducenti di età 10/14 (dicui 23 femmine).I trasportati morti in età compresa fino a 14 anni so-no stati in totale 10, i trasportati feriti ben 484, di cui il 57,4% sotto idieci anni.

❖ Nel 1998 non vi furono casi di suicidi accertati di persone fino ai 13anni ed 1 caso di tentato suicidio. Di contro, 1 caso di suicidio di per-sone tra 14 e 17 anni e 8 casi di tentati suicidi in quella medesima fa-scia di età.

❖ Per abusi e maltrattamenti, con conseguenti lesioni fisiche e psichi-che, nel triennio 96-98 sono stati emessi dal Tribunale per i Mino-renni nel distretto di corte d’appello di Torino 2012 provvedimenti diurgenza a tutela del minore. Tali provvedimenti nel 38,2% dei casi(772) sono di allontanamento. La quota degli allontanamenti sul to-tale dei provvedimenti è in aumento (quasi il 50% nel 1998).

❖ I delitti denunciati di «atti sessuali con minorenni» in Piemonte dal1985 al 1999 sono stati 216, con una media per anno pari a 14,4 casi,salita nel 1998 a 22, 30 nel 1999. La tendenza è comune all’Italia e ri-flette probabilmente una più avvertita attenzione sociale al fenome-no ed una più incisiva azione di contrasto al problema. Nel periodo1995-1999 le denunce di questi reati sui bambini con meno di 14 an-ni in Italia sono quasi triplicate, passando dalle 205 del 1995 alle 511del 1999. «Deve tuttavia essere chiaro che queste statistiche non ri-flettono in modo soddisfacente la realtà»6.

❖ Non è dato conoscere l’incidenza in regione Piemonte della presenzadi minori in carcere insieme alle madri detenute (al 31.12.2000 risul-tavano 78 casi in tutta Italia con 70 donne detenute).

Le risposte giudiziarie e dei servizi

La dispersione nel sistema della «giustizia minorile» delle competenze,attribuite a diversi enti (Tribunale dei Minorenni in sede penale e in sede ci-vile; Tribunale ordinario in sede penale e civile; Giudice tutelare; servizi so-ciali del Ministero di Grazia e Giustizia; amministrazioni comunali e servizisociali territoriali) da tempo sollecita forme di ricomposizione e integrazio-ne, che rendano più omogenea e rapida la definizione delle situazioni e deiproblemi. Un precedente interessante al riguardo è l’istituzione presso ilTribunale ordinario di Torino di apposita sezione «per le fasce deboli» adul-te. La legge 66/96 prevede l’istituzione di luoghi neutri ossia attrezzati peraudizioni protette, perizie di minori, interrogatori e per incontri fra genitorie figli in situazioni di accesso regolato in via giudiziaria.

Tra i problemi di risoluzione difficile, figura il trattamento dei minoristranieri non accompagnati; questione che si situa, con una problematica 17

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giuridica complessa e peculiare, all’interno del più generale problema deltrattamento dei minori stranieri non residenti. È stata di recente sperimen-tata nell’ambito della L.285/97 a Torino la cosiddetta «tutela civile»: minoriultraquindicenni sono accolti in strutture, e affiancati da tutori «privati» (os-sia diversi dall’amministrazione comunale) proposti da associazioni, coo-perative, professioni ecc. Il tutore assume varie funzioni, tra cui la rappre-sentanza legale del minore, il supporto all’inserimento scolastico e profes-sionale, l’accoglienza in strutture residenziali ecc.

Per connessione, si accenna alla collaborazione fra servizi socioassisten-ziali, servizi sociali del Ministero Grazia e Giustizia e istituzioni del circuitopenale minorile (Centro di Prima Accoglienza e Istituto Ferrante Aporti). IlCodice di procedura penale minorile (Dpr 448/88, art.19) prevede la colla-borazione fra i servizi e l’Ufficio servizio sociale minorenni del Ministero diGrazia e Giustizia; consente l’utilizzo, attraverso convenzioni, di comunitàdi accoglienza, anche per minori che vi sono destinati dal Tribunale a titolodi misura cautelare. Un protocollo d’intesa fra Ministero di Grazia eGiustizia e Regione Piemonte consente l’assistenza sanitaria ai minori figlidi donne detenute.

Nel quadro di attenzione alle problematiche dell’abuso7 confluisconopreoccupazioni per diversi aspetti di violenza e maltrattamento, che hannoper oggetto i minori: violenza e maltrattamento fisico (battering); trascura-tezza materiale e affettiva, abbandono (neglect); abuso affettivo e psicologi-co; abuso e violenza sessuale (abusing). Situazioni a cui risultano più espo-sti i figli di genitori che si trovano in particolari condizioni di sofferenza emarginalità (tossicodipendenti, psichiatrici, alcolisti) o vulnerabili a fattoridi rischio e di stress, che accentuano la propensione al maltrattamento.Emerge altresì l’esigenza di un lavoro integrato fra istituzioni, servizi e ope-ratori della sfera giudiziaria, sanitaria (NPI, psichiatria, pediatria di base,consultorio pediatrico, SERT) e sociale (scuola, servizio sociale, consultoriofamiliare). Altre attività significative in materia sono svolte da centri privatidi formazione ed associazioni di tutela, che si dedicano in particolare allostudio e al trattamento dell’ abuso a contenuto sessuale, che appare la for-ma di abuso socialmente più allarmante.

1.4 I servizi sanitari e sociali

I servizi per la generalità dei bambini fanno riferimento alle loro esigen-ze ordinarie di integrità e crescita. Garantire salute e istruzione sono fra icontenuti di una cittadinanza sociale, che include anche i bambini.

Descrizione dei servizi

❖ La principale risposta ai bisogni di salute dei bambini è fornita daiservizi sanitari, ospedalieri e territoriali. Esistono in Piemonte 146918

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posti letto in istituti ostetrico ginecologici (al 94,6% pubblici), 518 po-sti letto in istituti pediatrici, interamente pubblici. Ad essi si aggiun-gono i ricoveri in regime ospedaliero ordinario e in day hospital. I tas-si di ospedalizzazione totali per bambini con meno di un anno sonostati (dati `97) del 1254,8 per mille, il tasso di ospedalizzazione nellafascia 1-14 anni è stato del 152,9 per mille. I servizi tipici sono fornitidai dipartimenti materno-infantili delle aziende sanitarie locali, dalpronto soccorso pediatrico e dalla pediatria di base. Nelle ASL a livel-lo territoriale sono inoltre collocati servizi e interventi sociosanitari(consultori familiari, neuropsichiatria infantile), che stanno «a pon-te» con i servizi sociali veri e propri.

❖ I servizi sociali per la generalità della popolazione infantile compren-dono: • servizi di istruzione, forniti dalla scuola dell’infanzia (non obbliga-

toria) e dalla scuola dell’obbligo (elementare e media inferiore);• servizi socioeducativi orientati alla socializzazione ed alla crescita,

quali: asili nido, soggiorni di vacanza, centri di educazione extra-scolastica, con varie modalità di gestione (pubblica, associativa e dimercato);

• servizi compensativi per condizioni di svantaggio (disabili, stranie-ri, aree e territori svantaggiati ecc.). I loro interventi sono universa-listici, quando forniscono risorse aggiuntive, allo scopo di consen-tire ai soggetti svantaggiati la miglior fruizione di servizi di caratte-re generale. Sono compensativi, se e in quanto realizzano attività ri-volte alla «integrazione», o quanto meno all’«inserimento» nel siste-ma delle risorse comuni. In caso contrario, rientrano in una dimen-sione assistenziale, che mescola elementi di controllo e aiuto, inuna logica di mantenimento della condizione differenziale.

Fattori di disagio

Un cenno ai problemi connessi alla fruizione dei servizi, rimandando al-l’analisi approfondita dei singoli capitoli, può essere così delineato.

❖ Al censimento 1991 in Piemonte il tasso di scolarizzazione ai cinqueanni si conteneva ad una soglia relativamente modesta (14,7 %), perdiventare pressoché universale tra sei e tredici anni (98,7-98%), co-minciando a flettersi ai quattordici anni (90,4%), in presenza di unauscita anticipata per conseguimento dell’obbligo scolastico e/o perfenomeni di evasione. Si stimava che su 100 alunni iscritti in primaelementare in Piemonte nel 1996-97, il 2,3% sarebbe uscito dal siste-ma scolastico senza conseguire il titolo di scuola media ed il 6,8%non avrebbe proseguito alla scuola superiore, secondaria e/o profes-sionale (v. capitolo 4).

❖ Nell’inserimento scolastico dei disabili, la fascia scolastica più aper-ta risulta essere quella dell’obbligo (elementare e media).

❖ La scuola per l’infanzia (in passato detta «materna») diventa quasiuniversale nell’ultimo anno (il quinto di età) che precede l’ingressonella elementare, con frequenza statale, comunale o privata. La ma- 19

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terna privata (in prevalenza di matrice religiosa),conta in provincia diTorino 200 presenze e circa 14 mila alunni, che valgono il nono postoper numero in Italia (dati FISM).

❖ Gli asili nido servono una popolazione infantile fino ai 3 anni. Dei cir-ca 2000 asili nido comunali in Italia, in prevalenza concentrati alCentro Nord, 211 sono in Piemonte. Secondo dati della metà deglianni Novanta, i bambini frequentanti tali asili erano 5913, di cui 34%a Torino città (59 asili), 26% in provincia di Torino (53 asili),il restan-te 40% nei 99 asili distribuiti in regione. L’incidenza dei frequentantisui bambini fino a 3 anni residenti era del 6 %, in perfetta media na-zionale. Nella provincia di Torino – città esclusa – erano in funzionenel 1998/99 52 asili nido comunali, con una media annua di circa2300 iscritti, e circa 600 bambini in lista di attesa.

La domanda di accesso agli asili nido è insoddisfatta soprattutto nellearee a più alta densità di popolazione, e per coppie in cui entrambi i genito-ri lavorano (tre quarti dei bambini del nido in Italia hanno la madre in que-sta condizione). Ai 100 mila bambini in Italia che frequentano asili nido, sene aggiunge un doppio (stimato) parzialmente affidato a personale retribui-to (baby sitters e simili). La Regione Piemonte, che finanzia per circa 1/4 laspesa complessiva sostenuta dai Comuni, ha proposto il riconoscimento diun servizio («centro di custodia oraria denominato comunemente babyparking»), che accoglie bambini non in età di scuola dell’obbligo (di normafra 13 mesi e 6 anni di età), con un massimo di 25 bambini per struttura. Adifferenza dell’asilo nido, il B.P. non dispone di servizio di mensa, ha orari ri-dotti di permanenza, flessibilità di accesso e ritiro. Può essere istituito «an-che presso aziende e centri commerciali». Il suo funzionamento è regolatoda autorizzazioni ai sensi della L.R.62/95.

1.5 I servizi socioassistenziali

Descrizione dei servizi

I servizi socioassistenziali sono rivolti a bambini, che hanno particolariesigenze di assistenza e sostegno, e si trovano esposti a difficoltà gravi, do-vute ad un contesto familiare mancante, assente o maltrattante, ed ai rischiche ne conseguono di esclusione sociale e marginalità cronica.

Secondo la definizione data dal D.Lgs.112/98, art.123, i servizi sociali (inrealtà socioassistenziali) affrontano situazioni di bisogno e di difficoltà «chela persona umana incontra nel corso della sua vita». Il Fondo per le politichesociali – istituito dalla finanziaria per il 98 – indicava tra i destinatari degliinterventi finanziati dal Fondo «infanzia e adolescenza, minori a rischio, di-sabili, famiglia» (art.59). Lo stesso D.Lgs.112/98 indica tra i destinatari: i mi-nori, inclusi i minori a rischio criminale di cui alla legge 216/91; i giovani; lefamiglie (art.127). 20

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In ambito regionale la L.R. Piemonte n.62 del 1995 ha istituito il serviziosocioassistenziale, con la finalità di «prevenire e rimuovere» situazioni di«bisogno rischio ed emarginazione» che riguardano le persone e le famigliein stato di difficoltà. La tipologia delle attività che hanno più diretto interes-se verso i minori comprende: assistenza economica, assistenza domiciliare,assistenza socioeducativa territoriale, assistenza alla persona disabile, affi-damento (familiare e in comunità), interventi per minori e incapaci in rap-porto con l’Autorità giudiziaria, inserimenti in centri diurni, inserimenti inpresidi residenziali (art. 22/1). Le prestazioni del SSA consistono in inseri-menti in strutture di tutela e controllo (Istituti, Comunità di tipo familiare,Comunità alloggio, Centri di pronto intervento) e interventi di sostegno,mediazione e terapia: affido familiare, assistenza economica, assistenza do-miciliare, assistenza educativa territoriale, centri di attività diurna, centri diaggregazione ecc.

La de-istituzionalizzazione

Fino agli anni Settanta l’assistenza all’infanzia cosiddetta «abbandona-ta» passava attraverso enti nazionali, quali l’ONMI (Opera nazionale Mater-nità ed Infanzia); svariati enti di assistenza per «categoria» (ad es. ENAOLI,Ente assistenza orfani dei lavoratori), l’attività di province e comuni (Istitutiprovinciali per l’infanzia e la maternità), le IPAB. Tipica di questa politica as-sistenziale era la separazione fra il contesto di provenienza (familiare-terri-toriale) del bambino e l’istituzione educativa-assistenziale (a gestione pub-blica, di IPAB, di enti religiosi) in cui veniva collocato.

La spinta alla de-istituzionalizzazione ha proceduto con maggior suc-cesso per quanto riguarda la popolazione dei minori, a differenza di quantoè avvenuto per i disabili e soprattutto per gli anziani. L’attuazione delle nuo-ve leggi sull’affido familiare e l’adozione, la diffusione di servizi territorialiaperti hanno contributo a ridurre in misura considerevole il numero deisoggetti in istituto. Benché le stime in questo ambito presentino sempremargini di incertezza nella rilevazione, in Italia si calcolavano circa 150 mi-la minori in istituto nel 1971, mentre al 1998 sono censiti 14.945 minori inistituti tradizionali e comunità alloggio. Di questi, il 68% compresi nella fa-scia 0-14 anni, il 53,5% maschi, 11,9% stranieri e 7,9% portatori di handi-cap8. Si aggiunga che oltre il 60% dei minorenni collocati in istituti è al Sud.

Tradizionalmente l’accesso all’istituto derivava da mancanza della fami-glia d’origine o da condizioni di estrema povertà. Attualmente le ragioni ri-sultano in prevalenza legate alla condizione della famiglia d’origine e all’in-tervento dell’autorità giudiziaria. «La famiglia d’origine è più disposta ad ac-cettare un ricovero in Istituto (rispetto al quale si sente meno messa in di-scussione)che non l’affido familiare L’inserimento in una struttura educati-vo-assistenziale in alcuni casi può tradursi in una vera e propria «delega» al-le strutture medesime di tutte le responsabilità relativa al progetto con il mi-nore e la famiglia, se non in una vera e propria forma di abbandono istitu-zionale»9. La contrazione delle strutture di ricovero a carattere «istituto» hafatto strada, dalla fine degli anni 70, ad una sperimentazione di alternativequali le comunità alloggio e le comunità di tipo familiare. In taluni casi la 21

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formazione di comunità alloggio è avvenuta non all’esterno delle tradizio-nali istituzioni di ricovero, ma come differenziazione e articolazione internadelle stesse: ciò soprattutto nell’ambito del privato sociale con regime IPAB,o in Enti religiosi.

L’istituto funziona talora, in Italia, come forma di sollievo anche econo-mico alla famiglia di origine. Il fatto che ogni famiglia che accoglie un mi-nore in affido riceva mensilmente un sostegno economico (L. 184/83, art.80) in alcuni contesti locali ha introdotto elementi di «monetizzazione», nondel tutto conformi allo spirito dell’affidamento. Dopo oltre due decenni diesperienza, la formula delle comunità alloggio e di tipo familiare appareesposta a rischi di istituzionalizzazione «di ritorno», che hanno avviato ri-flessioni e necessità di riprogettazione. Una iniziativa è stata di recente pro-mossa dalla Regione Piemonte per una valutazione sullo stato dei ricoveri,che consenta di orientare future scelte in tema di deistituzionalizzazione.

Secondo le più recenti informazioni fornite della Regione Piemonte10, iminori utenti del servizio socioassistenziale in regione sono stati in com-plesso 21.731: il 3,1% della popolazione in età, l’1,8% della intera popolazio-ne piemontese, il 24,3% degli utenti totali. Il 47,5% di tale utenza si collocanella provincia di Torino. Guardando alle specifiche prestazioni rese da ser-vizi territoriali sul totale di utenti censito, risultano prevalenti, nell’ordine:assistenza socioeducativa (per il 20,4%), assistenza economica (18,9), istrut-torie per minori e incapaci (16,7), affidamento familiare (14,3), inserimentoin presidi (6,8), inserimenti in centro diurno (5,9), assistenza domiciliare(5,9), istruttoria adozioni (3,0).

Nella provincia di Torino (città esclusa) gli interventi realizzati dagli Entigestori del socioassistenziale consistono prevalentemente in affidamenti fa-miliari (580 minori, tra cui 9 disabili: 0,28 % dei minori residenti) e in rico-vero in presidi educativo-assistenziali (205 sono i minori ricoverati a caricodegli Enti gestori: solo 1/4 in presidi del territorio, gli altri prevalentementea Torino città e fuori provincia). Si conferma la relativa prevalenza negli isti-tuti della fascia compresa fra 14-17 anni, che include il 46% del totale, con-tro il 40% di bambini nella fascia della scuola d’obbligo 6-13 anni. Nella cittàdi Torino11 l’incidenza dell’affidamento familiare è rilevante (vedi capitolo6). Nel 1994 si avevano 650 inseriti in strutture residenziali e semiresiden-ziali, di cui 44% in istituti ed il resto in comunità alloggio, private, conven-zionate e pubbliche. Nel 1999 gli inseriti in comunità alloggio sono 782(89,6% in posti convenzionati e 11,4% pubblici).

L’assistenza economica

Nel caso del Piemonte, la condizione di povertà minorile è descrivibileconsiderando come variabile prossima le famiglie che ricorrono alla assi-stenza economica erogata dagli enti gestori del socioassistenziale (v. capi-tolo 2). Secondo i dati recenti forniti dalla Regione, i minori destinatari diinterventi di assistenza economica sono stati, nel 1999, 2869 (tra cui un4,2% di disabili). Metà di questi minori assistiti poveri erano collocati nel-la provincia di Torino, circa 600 nella città di Torino (dati fine 99). In un so-lo comune della regione (Nichelino) è stata condotta l’esperienza del22

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Reddito minimo di inserimento. Il Reddito minimo di inserimento, intro-dotto a titolo sperimentale nel 1998 e previsto dalla L.328/00 come futuroistituto di base per il contrasto alle situazioni di povertà grave, ha fra i suoidestinatari preferenziali proprio le famiglie gravemente povere e con mol-ti figli minori a carico (famiglie che sono già oggetto dell’Assegno per il Ter-zo Figlio, misura assistenziale «a tempo» introdotta nel 1998). L’esperienzaevidenzia le difficoltà, comuni in tutta Italia, di stipulare con gli utenti piùdeprivati quel «patto dinamico di inserimento», che tende ad andare oltrela dimensione assistenziale e promuovere una uscita stabile dal rischio dipovertà.

Quanto l’impiego della variabile «assistenza economica pubblica» siaadeguato a cogliere la varia fenomenologia delle povertà che toccano mino-ri e bambini, non è agevole valutare. Sicuramente ad essa sfuggono le situa-zioni di ristrettezza economica dei «working poors», che non si qualificanoper l’assistenza o rifuggono dal ricorrervi. Una rilevazione sugli interventiassistenziali di enti e associazioni religiose e di soggetti privati (ad es. UfficioPio del San Paolo, San Vincenzo ecc.) potrebbe fornire qui elementi ulterio-ri, per cogliere la diffusione e l’incidenza delle situazioni di povertà «appe-na al di sotto della soglia». Tali situazioni, con le insicurezze che diffondonoin un contesto di accresciuta vulnerabilità, ed in assenza di strumenti di si-curezza economica nel transitorio, sono in ogni caso destinate ad incideresui destini sociali delle persone coinvolte, e fra queste dei bambini.

1.6 Innovazioni e progetti

La progettualità di parte pubblica

Su un quadro consolidato nel tempo e assestato nella tipologia delle pre-stazioni - anche se non mancano né disomogeneità territoriali né minordensità istituzionale degli interventi, e ciò quanto più ci si allontana dall’a-rea torinese - si sono via via inseriti, ed in parte sovrapposti, dispositivi diprogetti mirati e di coordinamento delle politiche. Merita qui richiamarne lasequenza cronologica.1989-1991: la Regione istituisce il Consiglio dei minori per il coordinamen-

to di politiche e interventi (L.R. 55/89, attiva nel 1991). La legge 55 pren-de in considerazione una molteplicità di aspetti che riguardano la difesadel minore rispetto a fattori sociali di debolezza. Istituisce un organo diconsulenza e confronto (il Consiglio regionale per i minori), che com-prende rappresentanti di assessorati regionali, enti locali, associazioni. IlCRM nell’ambito delle sue competenze promozionali, elabora linee pro-grammatiche e servizi informativi e di consulenza, per l’integrazione traagenzie formative. Ha anche finanziato i progetti presentati da enti loca-li, scuole e associazioni, con obiettivi di prevenzione e promozione (adesempio i progetti pilota sul Consiglio Comunale dei Ragazzi).

1992-1994: la L.N.216/91 ha consentito l’attuazione di progetti «sulla pre- 23

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venzione della criminalità minorile». Tali progetti avevano coordina-mento finanziamento e valutazione da parte del Ministero dell’Interno,che entrava in rapporto con i soggetti proponenti attraverso le prefettu-re, recuperando la funzione pionieristica di associazioni di volontariatoe cooperative sociali, che avevano sviluppato fin dagli anni Ottanta ser-vizi di assistenza educativa territoriale, svolti in centri diurni e presso lefamiglie. Nel 1993 la Regione Piemonte ha proposto la introduzione qua-le nuovo tipo di presidio socio-assistenziale del «Centro per l’attivitàdiurna a favore di minori in età di scuola dell’obbligo» (D.G.R.n.29 del20.12.93). Si tratta di strutture semiresidenziali per minori con famiglie«in difficoltà ad assolvere i quotidiani impegni educativi e di cura»; of-frono spazi ed attività di socializzazione «anche per prevenire rischi diemarginazione e devianza».

1995-1999: nel 1995 il Comune di Torino ha riconosciuto il servizio deglieducatori «di strada», dando stabilità ad una attività che era stata ogget-to di sperimentazione in quartieri della periferia. Nel 1999 sono stati 660i minori torinesi coinvolti in attività di educativa territoriale (e 104 in no-ve centri diurni). L’istituzione di centri diurni per minori (Delibera del C.Comunale del 10/7/95) e la diffusione dei servizi di educativa territoria-le (a gestione diretta e convenzionata) hanno trovato rilancio in moltiprogetti della L.N. 285/97.

1997-2000: la L.N. 285/97 «per i diritti e le opportunità dell’infanzia e del-l’adolescenza» ha introdotto un fondo nazionale per finanziare progettiaventi come obiettivi: sostegno alla relazione genitoriale; contrasto allapovertà ed alla violenza; misure alternative al ricovero in istituti; nuoviservizi socioeducativi per la prima infanzia; servizi ricreativi ed educati-vi per il tempo libero (v. articoli 4, 5, 6 della legge). I progetti riguardanosia situazioni di disagio, abuso e crisi delle relazioni intrafamiliari, sia of-ferte di servizi prestazioni ed opportunità per una migliore fruizione del-la condizioni di vita ordinaria.

Su oltre 3000 progetti approvati, il 58% degli interventi hanno avuto co-me fruitori prevalenti bambini fra 6 e 11 anni12.Nell’area torinese sono statiattivati un Piano territoriale per Torino ed un Piano territoriale della provin-cia di Torino, detto «Concerto». Un secondo ciclo di progetti secondo la leg-ge 285/97 è previsto per il triennio 2000-2002 (Concerto 2).

Risorse e apporti del sociale

Nella progettualità espressa direttamente da iniziative sociali, si colloca-no le attività di soggetti del Terzo Settore, quali le associazioni di volontaria-to, le cooperative sociali, gli associazionismi familiari e di tutela, le fonda-zioni.

Il volontariato piemontese in riferimento a bambini, adolescenti e fami-glie si impegna in attività di aiuto a base associativa, svolte soprattutto inambito sanitario (associazioni di genitori in campo oncologico, di malattierare, volontariato per i bambini in ospedale ecc.).Il volontariato a connota-zione socioassistenziale ed educativa ha generato una significativa messe di24

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innovazioni, perlopiù avviata su basi spontaneistiche e locali, e sovente svi-luppata in attività di cooperazione- impresa sociale, come mostrano le inte-ressanti storie di organizzazione tipiche dell’area piemontese (scheda A).

Quanto all’associazionismo familiare, in generale esso segue due linee diintervento (Donati Rossi 1996):

❖ il sostegno mutuo delle famiglie, a fronte di specifici problemi da cuisono toccate: bambini portatori di handicap fisici e psichici, patolo-gie ecc.;

❖ forme di aggregazione e socializzazione «tra» famiglie, sia verso pro-blemi della vita ordinaria (servizi per la prima infanzia, sostegni allagenitorialità) sia a fronte di difficoltà che investono lo «specifico fa-miliare»: nascite, separazioni, crisi educative ecc. La vitalità dell’as-sociazionismo familiare in Piemonte appare relativamente più fortenel contesto del mutuo aiuto, dove ha generato esperienze associati-ve di rilevanza nazionale, nel campo dell’affidamento-adozione, del-l’inserimento sociale dei disabili, delle patologie infantili rare e gravi.

Scheda A – Due storie

Ricomposizioni e scoperture nei servizi

Nell’ambito dei servizi formali e professionali, dall’inizio degli anniNovanta ad oggi è cresciuta una separazione alquanto netta fra la tutela sa-nitaria (gestita a base regionale-aziendale), e il socio-assistenziale, affidatoa comuni e loro forme aggregative, secondo la modalità consortile preva-lente in Piemonte. 25

Storia 1.• 1978: si forma come gruppo di volontariato sul disagio giovanile.• 1983: genera una cooperativa strumentale- che si autodefinisce di solidarietà

sociale- per la gestione di servizi rivolti anche a soggetti con handicap.• 1989: forma una associazione che affianca la cooperativa.• 1996: è una cooperativa sociale (L.381/91) che gestisce: comunità per mino-

ri, educativa territoriale e di strada, doposcuola, laboratori pre-professiona-li, gruppi di automutuo aiuto (con il SerT).

Storia 2.• fine anni 70: nasce una iniziativa di volontariato per favorire l’uscita di mi-

nori dall’istituto.• 1981:forma una cooperativa strumentale per la gestione di comunità alloggio

e di centro diurno; successivamente gestisce comunità alloggio, servizi dieducativa territoriale, soggiorni estivi.

• 1996: giunge il momento di ridefinirsi come impresa (ossia la scelta di «met-tersi i pantaloni lunghi»). Gestisce un centro diurno per ragazzi, un serviziodi educativa territoriale, attività extrascolastiche per la scuola dell’obbligo,un progetto di recupero presso il carcere minorile, un centro di attività psi-comotorie.

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L’esigenza della ricomposizione/connessione fra diversi tipi di interven-ti rimane sullo sfondo. Ma viene sempre concretamente chiamata in causa,quando le ragioni dell’efficacia richiedono una risposta adeguata, che sca-turisce dal gioco delle connessioni e dei raccordi.

Il raccordo fra operatori sanitari e operatori socioassistenziali.Gli obiettivi di tutela della salute delineati nel Piano sanitario nazionale

per il triennio 1998-2000 sono stati ripresi ed articolati nel Progetto mater-no-infantile (DM 24 aprile 2000). Esso prevede l’istituzione da parte delleaziende sanitarie di uno specifico dipartimento materno-infantile «a carat-tere tecnico funzionale, ossia non equiparato ad una struttura operativa do-tata di un proprio budget»13.

❖ In Piemonte fin dal 1982 il Piano sociosanitario regionale delineava lelinee di un progetto-obiettivo di tutela materno-infantile e dell’etàevolutiva. La materia permane, nella pianificazione successiva finoad oggi, come prestazione sanitaria a rilievo socioassistenziale, e in-clude fra i suoi interventi (vedi allegato 2 al Piano sanitario regionale97-99) educazione sanitaria e gestione della sessualità, neuropsichia-tria infantile, interventi per i minori portatori di handicap.

❖ Nella legislazione socioassistenziale è previsto, al reciproco, che lad-dove l’intervento del servizio socioassistenziale richieda apporti inte-grativi di carattere sanitario (come nel caso della tutela materno-in-fantile e dell’età evolutiva), siano stipulate apposite convenzioni fraAziende sanitarie locali ed Enti gestori del socioassistenziale (v. L.R.62/95 art. 16). Le attività svolte dal SSA in convenzione con il diparti-mento materno-infantile hanno per obiettivi: • lo sviluppo di programmi alternativi al ricovero; la piena attuazione

della L.184/83 sull’adozione e l’affidamento; • la prevenzione del disagio minorile; l’intervento socioeducativo as-

sistenziale per adolescenti in difficoltà o in situazioni di devianza.S’intende che il problema di una effettiva collaborazione fra professioni

e servizi non si riduce alla stipula di convenzioni-trattati, ma richiede un piùelevato grado di coinvolgimento interprofessionale, che sia in grado di su-perare confini e conflitti di competenze, oggi acutizzati rispetto al passato.

Il raccordo fra interventi «per marginali» e interventi «per tutti» Permane anche il problema di evitare che il sostegno educativo, territo-

riale e domiciliare, a situazioni mirate e problematiche, si carichi di stigmidi assistenza, che tendono a dividere una popolazione «normale» da una«tendenzialmente allarmante», alla quale l’assistenza viene concessa sullabase di parametri di povertà o «gravità» dei problemi. Collegare la preven-zione del disagio con la promozione della condizione «normale» di vita si-gnifica, per contro, non scindere problemi e risorse, difficoltà e opportunità,per popolazioni non comunicanti; bensì cercare di ricollegarle nella pro-spettiva di un percorso di crescita, che manifesti, sia pure in forme e con at-tenzioni diverse, un comune «prendersi cura».

Il raccordo fra luoghi di intervento e tempi di vitaÈ stato notato come la durata delle permanenze dei minori in istituto per26

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più anni non autorizzi di per sé a parlare di segregazione di vecchio stampo,né sia attribuibile alla mancanza di alternative di affidamento o adozione: «iminori in buona parte disabili sono inseriti nei presidi dalle famiglie stesse,ad esempio per motivi di studio; fanno regolarmente ritorno a casa durantei week-end ed i periodi di vacanza»14. Si tratta, in questo caso, di una divi-sione del «lavoro di care» tanto più funzionale, quanto più diretti, agevoli ecoordinati siano i rapporti fra operatori e utenti del servizio. L’apertura al-l’esterno di presidi e strutture non è solo un problema di tempi di perma-nenza, ma dipende dalle modalità prevalenti di interazione.

Come le ricerche sulle comunità per minori evidenziano, l’apertura all’e-sterno, la partecipazione dei genitori alla vita della comunità, il momentodelle dimissioni segnalano soglie non poco critiche. La questione principaleriguarda quegli adolescenti che, raggiunta la maggiore età nella comunità,cercano in essa risorse per conseguire una effettiva autonomia lavorativa,abitativa o sociale. Tuttavia, se la destinazione dopo la dimissione è il ritornopiù o meno forzoso all’ambiente genitoriale di provenienza, lo stesso che hagenerato i problemi del ricovero, allora lo sforzo educativo della comunità(come molti operatori dichiarano di temere) potrebbe rivelarsi improduttivo.Inoltre «solo in pochi casi il minore è stato un interlocutore attivo nelle deci-sioni che riguardano direttamente la sua vita»15. Le ricadute del rapportostrutture-territorio-famiglie chiamano dunque in causa la filosofia comples-siva dell’intervento e il funzionamento dell’intera rete dei servizi.

1.7 Nuove domande e prospettive

Lo specifico familiare

È diventato quasi un luogo comune osservare che in Italia la famiglianon è termine di politica sociale in quanto tale, ma solo se gravata da parti-colari problemi (la povertà, l’handicap, la presenza di anziani non autosuf-ficienti ecc.) che la qualificano per l’assistenza. La famiglia è campo privile-giato dell’incontro relazionale fra generi e generazioni, e allo stesso tempoambito di possibile disagio con almeno una duplice fenomenologia:

• la sofferenza delle famiglie «socialmente inserite, formalmente coe-se, ma che manifestano al loro interno situazioni di lacerazione»;

• il disagio in famiglie «caratterizzate da forme tradizionali di povertàe contemporaneamente segnate da lacerazioni e divisioni»16.

L’obiettivo generale di una politica familiare dovrebbe essere quello di«sostenere la famiglia nelle sue riconosciute funzioni sociali, svolte in con-nessione con tutti gli altri sottosistemi del sistema sociale»17. Ciò conferireb-be alla famiglia diritti ad un duplice insieme di prestazioni, che la aiutino:

• a svolgere compiti specifici di educazione, care e sostegno nellecondizioni di vita ordinaria ;

• a sostenere carichi che altrimenti non saprebbe reggere, quando sia 27

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investita da problemi gravi, connessi a handicap, malattia, disagiomentale, non autosufficienza ecc..

È soprattutto la domanda di sostegno alle competenze «ordinarie» cheindica un’area scoperta, ed apre alla produzione di interventi e servizi per:

• formare e sostenere l’attività di care giving ordinaria della famiglia,attraverso gruppi di auto aiuto e di mutuo aiuto, centri di ascolto edi consulenza leggera, orientamento, attività di mediazione dellerelazioni e dei conflitti;

• fornire risorse di tregua e sollievo alla «famiglia stanca», e rafforzar-ne le competenze educative, relazionali, di supporto.

In questo contesto si segnalano, soprattutto a fronte di un domanda so-ciale parzialmente soddisfatta ma in larga misura solvibile, bisogni non ri-solti di childminding, con diverse alternative:

• potenziare l’offerta di servizi pubblici territoriali a copertura globa-le (inclusa la mensa e l’orario prolungato);

• consentire servizi ad accesso facilitato e con orario modulare; fa-vorire l’auto-organizzazione familiare nei micro-nidi di condomi-nio o di territorio; incrementare l’offerta di nidi sui posti di lavoro,pubblici e privati; sostenere l’offerta di «servizi di prossimità» rea-lizzati dalla cooperazione sociale e dal lavoro autonomo (le «tatefamiliari»).

La comunità responsabile

Non rientrano di norma nell’ambito dei «servizi sociali» a connotazionesocio assistenziale una serie di attività culturali ricreative e del tempo libero,che hanno una prevalente qualità socio educativa. Questa assenza è oltremo-do significativa, se si considerano le analisi sull’uso del tempo libero a livellonazionale18, dove i comportamenti infantili risultano contrassegnati da:

• fruizione dei nuovi media (computer e soprattutto videogiochi)prevalentemente domestica;

• limitato accesso al cinema e alla lettura (il 41% delle famiglie conbambini fino a 14 anni non compra ai figli neppure un libro all’an-no; ovvia preparazione del comportamento adulto, dove oltre il 50%non legge neppure un libro all’anno);

• esposizione alla televisione per un tempo superiore a quello impie-gato nelle attività outdoor (scolastiche sportive e ricreative)e conse-guente ascolto intensivo dei messaggi pubblicitari (fino al «coeren-te» rifiuto di andare a scuola senza zaini griffati o firmati);

• difficoltà nel praticare giochi e sport, fuori dello spazio domestico oin ambienti esterni, quali: il parco, la strada, gli spazi attrezzati, an-che per mancanza fisica dei medesimi; circa un decimo dei bambi-ni e ragazzi da 6 a 17 anni partecipa, anche saltuariamente, alle at-tività di associazioni ricreative, culturali, ambientali, educative -piazza e strada, spazi condominiali e cortili, oratorio e parrocchiasono i luoghi di incontro più frequentati.28

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Vi è un evidente sbilancio fra «consumi privati domestici e di cerchia ri-stretta» e «attività sociali» esterne. Ciò comporta l’esigenza di attivare agen-zie e servizi che forniscano informazioni e risorse per l’accesso alle oppor-tunità del tempo libero e ad ambiti di educazione integrativa e compensa-tiva. In questo senso vanno i progetti, stimolati dalla L. 216/91 e dalla285/97, che hanno promosso iniziative di partecipazione civile e progetta-zione locale (Consigli comunali dei bambini e dei ragazzi e simili). E lo spa-zio riservato al mondo infantile nella elaborazione dei programmi di recu-pero urbano19.

In altri termini, non vi è «sviluppo di comunità» che non trovi risponden-za – almeno a livello di progetto– nello «sviluppo dell’infanzia entro la co-munità». Se comunità sicura è quella che opera per favorire l’orientamentoal futuro, a partire dai suoi componenti più giovani, ciò che qualifica una «re-sponsive community» è il capitale sociale di fiducia che genera e mantiene.

La comunità che si /cura di sé è anche una comunità sicura.

Note

1 Caritas, F. Zancan, 2000, p. 282.2 Informaires, ottobre 2001, p. 75.3 M.C. Migliore e L. Abburrà, 2001, p. 8.4 ibidem, p. 29.5 ibidem, p. 53.6 VV.AA. Relazione 2000, p. 1177 Si segnalano al riguardo le Linee emanate dal Dipartimento Affari Sociali (settembre

1998), le Proposte di intervento per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno delmaltrattamento e le Linee guida per la segnalazione e la presa in carico dei casi diabuso e maltrattamento (delibera n.42 del 2 maggio 2000 della Regione Piemonte, ri-portata alle pp. 356-373 del volume Il bambino tradito. Carenze gravi, maltratta-mento e abuso a danno di minori, Carocci Editore, 2000: questo testo raccoglie ma-teriali e contributi per un corso di formazione degli operatori in tema realizzato dalComune di Torino). Un’iniziativa locale torinese che si sviluppa nell’ambito di ungruppo di progetto interprofessionale e interistituzionale è, dal 1993, «CappuccettoRosso»: v. Il bambino tradito, cit. pp. 281-294.

8 «Poiché l’indagine non ha riguardato i portatori di handicap ricoverati presso struttu-re sanitarie, né i fanciulli accolti nei collegi e convitti di istruzione, si può ipotizzareche i minori istituzionalizzati (in Italia) siano circa 20 mila»: Floridi-Micucci, 2000,p. 472.

9 Kazepov, 1996, pp. 103-108.10 I numeri dell’assistenza in Piemonte, 2001: dati riferiti al 1999, mancano alcuni

Consorzi di gestione.11 Comune di Torino, Guida ai servizi socioassistenziali, dati al 31.12.99.12 Per un quadro generale in Italia: Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione

della L. 285/97 – pp. 215, 373 sul Piemonte e Torino – e la Relazione 2000, pp. 297-301.

13 Relazione 2000, p. 270.14 Provincia di Torino, 2001.15 Bastianoni, 1992, p. 55.16 Caritas, F. Zancan, 2000, p. 11.17 Boffi, p. 25.18 v. il capitolo «Il tempo tra», in Relazione 2000, e i dati dell’indagine ISTAT La vita

quotidiana di bambini e ragazzi, ivi riportati alle pp. 89-90.19 Rei, 2001. 29

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BAMBINI E POVERTA’

2.1 Dimensioni e problemi della povertà economica dei minori

Le analisi sulla povertà in Italia

La povertà economica è un fenomeno complesso, in quanto è l’esito diprocessi molto differenziati nei quali si intrecciano, in diversi modi, varieforme di esclusione. «Il ‘volto della povertà’ è sempre meno definibile conindicatori esclusivamente economici, di reddito, ma si caratterizza come unprolungato processo di indebolimento delle risorse personali e familiari, at-traverso eventi shock di varia natura, economica, professionale, sanitaria, dimancata integrazione sociale, che cumulativamente determinano l’ingressoin una situazione di ’emarginazione’ di cui la povertà economica è solo unadelle componenti. In altre parole, la società contemporanea produce unapovertà di tipo multidimensionale, in cui le dimensioni economiche, rela-zionali, sociali in senso lato sono strettamente correlate.» 1

Come osservano N. Negri e C. Saraceno2 «un reddito insufficiente può es-sere l’esito di un percorso di esclusione da alcuni beni – l’istruzione peresempio – il cui possesso è un requisito indispensabile per accedere ad altribeni: ad esempio, le informazioni e le conoscenze necessarie per svolgere unlavoro decente». La povertà genera, in questo caso, carenze culturali che, aloro volta, producono cronica debolezza sul mercato del lavoro perpetuandonel tempo il meccanismo di esclusione. Ma la carenza di reddito fa anche sìche una persona non possa, per motivi oggettivi o soggettivi, accedere a ser-vizi ai quali avrebbe diritto – ad esempio un servizio sanitario – con il conse-guente insorgere di problemi di salute, che si ripercuotono sulla capacità dilavoro e di guadagno. Si può inoltre perdere il lavoro, e quindi il reddito, acausa dell’alcolismo; così come si può precipitare nell’alcolismo (o in altreforme di dipendenza) perché si è persa la speranza di trovare un lavoro.

Nella nostra società per non essere poveri non basta nutrirsi ed essere inbuona salute; è necessario lavorare, essere istruiti ed abitare in una casa de-cente. L’esclusione da questi beni basilari rende la persona fragile, avvian-dola in un percorso di progressivo impoverimento economico e relazionale,lungo il quale vengono sempre più intaccate le capacità di inserimento so-ciale e di sopravvivenza fisica e mentale. La povertà ha un carattere proces-suale e multidimensionale e gli indicatori normalmente utilizzati per rile-varla (mancanza di reddito, bassa istruzione, dipendenza da sostanze, «car-riere» di marginalità ecc.) non vanno considerati separatamente, secondologiche di causa – effetto, ma occorre studiare le interconnessioni nel tem-po tra i fattori relativi alla situazione personale, alle risorse a disposizione,alla capacità del soggetto di conoscerle ed utilizzarle, alla percezione di séed all’autostima, all’etichettamento sociale.

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Secondo i dati ISTAT 3 nel 1998 risultavano povere in senso relativo circa2 milioni 558 mila famiglie, pari all’11,8% del totale e in termini assoluti –sulla base di un paniere di beni e servizi essenziali – il 4,4% delle famiglie,per un totale di 950 mila unità.4

Dal 1999 al 2000 le famiglie in condizioni di povertà relativa passano da2 milioni 600 mila a 2 milioni 707 mila (dall’11,9% al 12,3%) e le persone da7 milioni 508 mila a 7 milioni 948 mila. I poveri assoluti risultano quantifi-cati, nell’anno 2000, in 2 milioni 937 mila unità corrispondenti a 954 mila fa-miglie (con una media di 3,1 componenti). La percentuale delle personecresce dal 5,1% al 5,7%; quella delle famiglie dal 4,3% al 4,8%.

Con riferimento alla ripartizione territoriale della povertà relativa si rile-va – tra il 1999 e il 2000 – un incremento della percentuale di famiglie dal 5al 5,7 nel Nord del Paese5 (596 mila famiglie nel 2000) e dall’8,8 al 9,7 nelCentro (413 mila famiglie nel 2000). Nel Sud la situazione appare sostanzial-mente stabilizzata su percentuali più alte: 23,9 nel 1999 e 23,6 nel 2000 (1milione 698 mila famiglie)6. Nell’anno 2000 risultano 1 milione 504 mila per-sone in condizione di povertà relativa nel Nord Italia (5,9% dei residenti); 1milione 158 mila persone nel Centro (10,6% dei residenti); 5 milioni 280 mi-la persone nel Sud (25,4% dei residenti).

Il rischio di povertà relativa delle famiglie risulta maggiormente elevatonei nuclei con persona di riferimento donna;7 con elevato numero di com-ponenti;8 con basso titolo di studio degli adulti; composti da persone ultrasessantacinquenni. Un fattore di rischio particolarmente significativo è rap-presentato dai nuclei di una sola persona (specie se donna) o composti dadonne sole con figli. Tra le famiglie povere si trovano innanzitutto le fami-glie di disoccupati, il gruppo più consistente (33,1%) ed i pensionati (14%).Seguono i lavoratori dipendenti (9,8%) e quelli autonomi (7,9%).

Dai dati ISTAT si rileva che la situazione economica attuale delle famiglieitaliane appare caratterizzata dall’appartenenza a quattro grandi fasce. Unaprima fascia, nella quale sono raggruppate le famiglie sicuramente non po-vere con reddito superiore a 1 milione 883 mila lire mensili (il 79,4% del to-tale – 17,5 milioni); una seconda fascia nella quale convergono le famigliequasi povere con redditi mensili compresi tra 1 milione 569 mila lire e 1 mi-lione 883 mila lire (l’8,3% del totale – 1,8 milioni); una terza fascia di fami-glie definite appena povere con redditi compresi tra 1 milione 569 mila lire e1 milione 255 mila lire mensili (il 6,3% del totale – 1,4 milioni) ed infine le fa-miglie sicuramente povere costrette a vivere con meno di 1 milione 255 milalire mensili (il 6% del totale – 1,3 milioni). Quest’ultima fascia comprende le900 mila famiglie (pari al 4,3% del totale) che vivono in condizioni di po-vertà assoluta.

Dall’analisi dei dati si rileva un’elevata componente di inerzia della po-vertà: secondo l’ISTAT, circa il 70% delle persone che risultavano in condi-zione di povertà nel 1994 è rimasto tale sino al 1996. Il rischio di impoveri-mento è dunque più alto per coloro che hanno sperimentato in precedenzauna condizione di disagio. Anche la probabilità di uscire dalla condizione dipovertà è influenzata dalle precedenti condizioni: è infatti nettamente su-periore per le persone che non risultavano povere nel 1994.

Oltre che da difficoltà delle famiglie ad acquisire redditi, la povertà puòessere causata o aggravata da eventi critici in ambito familiare e lavorativo. 33

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L’insorgere del disagio può derivare dal passaggio della persona di riferi-mento della famiglia dalla condizione di lavoratore a quella di disoccupatoo ritirato dal lavoro. Ad incidere negativamente sulla condizione economicafamiliare è anche la nascita di un figlio, soprattutto nel passaggio dalla si-tuazione di single a quella di monogenitore, ma anche da coppia senza figlia coppia con un figlio. Le separazioni e la vedovanza influiscono soprattut-to sulle coppie con figli minori. Ulteriori cause delle gravi difficoltà econo-miche che possono insorgere nel corso della vita sono rappresentate dal-l’acquisto dell’abitazione, dalla malattia o decesso di un familiare, dalla per-dita del lavoro e dall’avvio o dal fallimento dell’impresa familiare.

In generale la probabilità di uscire dalla povertà è determinata dall’am-piezza e dalla struttura della famiglia, ed è più alta dove il disagio è menodiffuso, come nel Nord del paese, e più bassa quanto più il reddito familiareè inferiore alla linea di povertà.

Povertà economica e minori

Dai dati riportati in appendice al quaderno del «Centro nazionale di do-cumentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza»9, che fa il punto sullostato di attuazione della legge 285/9710, si rileva che «le famiglie numerosesono anche quelle con la più alta incidenza della povertà; la massima inci-denza della povertà viene infatti raggiunta nelle famiglie con tre figli e più(24,4%). Le coppie con un figlio minore che si trovano in situazione di po-vertà sono una quota leggermente inferiore alla media nazionale (10,8%),ma bastano due figli minori per ’proiettare’ l’incidenza della povertà dellefamiglie decisamente più in alto della media nazionale (16,4%)».

La tendenza che sembra emergere è che la presenza di almeno due figliin una famiglia rappresenta un fattore di debolezza e di svantaggio, che puòincidere sul livello di povertà economica.

Oltre che sulle famiglie numerose si registra una maggior incidenza dipovertà anche tra le famiglie con persona di riferimento di sesso femminile:posto pari a 100 il totale delle famiglie povere con a capo una donna, 51 diesse sono anziane sole e 25 monogenitori.11

Il «Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adole-scenza» – che riporta i dati sull’incidenza della povertà tra le famiglie italianeaggiornati al 1999 – rileva una situazione sostanzialmente invariata nel trien-nio 1997 – 1999.12 Il Sud continua a presentare una situazione più negativa ri-spetto alle altre aree geografiche, con un’incidenza della povertà (23,9% nel1999) doppia di quella nazionale. La povertà sembra invece diminuire alNord – dove scende al 5% – e crescere al Centro, dove si attesta all’8,8%.

In generale si evidenzia che la condizione di povertà economica riguar-da una percentuale significativa (ma di difficile quantificazione) di minori.Dai dati contenuti nel rapporto del 1994 della Commissione di indagine sul-la povertà e l’emarginazione, risultavano circa un milione di bambini pove-ri nella fascia 0 – 13 anni (il 15% della corrispondente fascia d’età). NelMezzogiorno raggiungono il 25,6%. Ogni 100 persone povere, 13 sono bam-bini fino a 13 anni nel Nord, 12 nel Centro e 20 nel Mezzogiorno.13

Si tratta di una delle componenti dei cosiddetti minori «a rischio» che34

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rappresentano gran parte del target dei servizi sociali territoriali. In realtà ilconcetto di rischio, nel caso dei minori, è – come osservano N. Negri e C.Saraceno14 – «molto più esteso e pone dei problemi di definizione rispetto aquali categorie di minori debbano essere rivolti gli interventi….Più che po-litiche per minori a rischio, quelle esistenti appaiono politiche per minori instato di difficoltà conclamata, dal momento che le misure previste…sonopiù rivolte al contenimento del danno, successive quindi all’insorgenza diproblemi, che politiche mirate alla prevenzione in senso stretto».

Non si può che prendere atto che i servizi sociali – intervenendo in mo-do prevalente, se non esclusivo, sui «minori in stato di difficoltà conclama-ta» al fine di «contenere il danno» – rappresentano, nel bene e nel male, unsensore importante delle problematiche espresse dai bambini e minori ap-partenenti a famiglie in condizione di indigenza economica.

L’assenza di una effettiva politica

Nel nostro sistema di welfare l’efficacia della protezione non stretta-mente socio-assistenziale appare, per i bambini, più incerta rispetto a quel-la garantita dalle misure per gli anziani. Il sistema di protezione sociale ita-liano è infatti caratterizzato da un’incidenza della spesa sociale sul P.I.L.(Prodotto Interno Lordo) inferiore alla media europea, accompagnata dalpiù alto peso delle spese per le funzioni vecchiaia e superstiti. L’Italia si col-loca agli ultimi posti per le risorse attribuite alla copertura di bisogni espres-si dalla famiglia e, in particolare, determinati da disoccupazione ed esclu-sione sociale. Secondo il dato Eurostat 199715 il welfare italiano destina perla maternità e la famiglia, rispettivamente lo 0,1 e lo 0,8% del P.I.L, contro lamedia europea del 2,1%.

La maggior fragilità dei minori dipende dunque dal fatto che la possibi-lità di accedere ad un qualche sostegno economico è legata allo status oc-cupazionale dei genitori. Per poter ricevere l’assegno per il nucleo familiareoccorre essere lavoratori dipendenti o essere rimasti disoccupati ed essereiscritti alle liste di collocamento. In ogni caso, l’importo dell’assegno non ètale da consentire adeguati livelli di sostegno.16 Inoltre è molto difficile perle famiglie in cui vi siano adulti in età da lavoro accedere ad un aiuto eco-nomico certo e continuativo di tipo assistenziale.

Come osserva Yuri Kazepov17 «Quando la disoccupazione diventa di lun-go periodo, i meccanismi di tutela previdenziali esauriscono la propria co-pertura e l’assistenza sociale non è in grado di offrire una rete di garanzia diun reddito minimo certo». Ne consegue l’aumento del livello di discrezio-nalità nella determinazione dell’accesso a diritti considerati minimi, checontribuisce istituzionalmente ad un incremento notevole della vulnerabi-lità. «Nel passaggio dal sistema previdenziale al sistema assistenziale nonc’è, però, solo una discesa di status, ma si perdono quei diritti minimi chevengono garantiti in tutti i paesi europei industrialmente avanzati. L’uscitadalla condizione di bisogno può avvenire, infatti, con progetti costruiti conrisorse a disposizione molto diverse da contesto a contesto, ma che, co-munque, non si possono basare su una garanzia certa dei mezzi di sosten-tamento. Ed è proprio questa mancanza che, oltre a riprodurre le disegua- 35

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glianze sociali, innesca un meccanismo di mobilità discendente istituzio-nalmente strutturato».18

Nel nostro Paese il sistema di assistenza sociale – al quale le istituzioniaffidano la tutela «degli inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari pervivere»19 – è regolato da leggi regionali attuate a livello comunale. A partiredall’approvazione del D.P.R n. 616/77 la legislazione regionale in materia so-cio – assistenziale si è via via arricchita di nuovi provvedimenti normativi,adottati però nell’ambito di un processo non omogeneo di sviluppo degliinterventi e dei servizi offerti. È auspicabile che la legge quadro 32820 diriforma del settore –approvata nel novembre 2000 –favorisca, nei prossimianni, la diffusione sul territorio nazionale di servizi e prestazioni più ade-guati, ma il processo di attuazione non sarà necessariamente lineare edomogeneo.21

Dai dati riportati da N. Negri e C. Saraceno, si rileva ad esempio che nel1990 la percentuale di comuni italiani che erogavano contributi economicia titolo assistenziale era solo del 59,9%. Inoltre in ogni realtà territoriale va-riano il target dei beneficiari, le modalità di erogazione e l’entità dei sussidi.In genere, quest’ultima oscilla tra un importo pari a quello di una pensionesociale ed un importo di poco superiore ad una pensione minima INPS, condelle maggiorazioni sulla base dell’ampiezza della famiglia, dell’età e/o del-la tipologia dei componenti. Quasi dappertutto esiste una accentuata diffe-renza tra le misure destinate agli anziani, ai disabili ed ai minori, e le misu-re indirizzate agli adulti abili ed alle loro famiglie. Le prime tre tipologie be-neficiano di contributi economici di entità maggiore, erogati, in genere, inmodo più continuativo. Non la «semplice» povertà, dunque, ma la presenzadi un bisogno di reddito qualificato dalla particolare condizione di anziano,disabile o minore rende un po’ più sicuro l’accesso agli interventi assisten-ziali locali.

Quanto all’offerta di servizi, negli anni Novanta l’offerta da parte dei co-muni è aumentata, in generale, per tutte le categorie d’utenza, anche se,con riferimento ai servizi per minori ed anziani, l’ISTAT rileva una crescitapiù contenuta22. I servizi per minori più diffusi sul piano nazionale sono larefezione scolastica (88,1%), il trasporto scolastico (81,8%), l’affido familia-re (79,2%) e gli asili nido (77,6%). Dall’esame dei dati si rileva un significa-tivo vantaggio dei comuni settentrionali rispetto a quelli meridionali per iservizi di asilo nido23 e affido familiare (95,6% nel Nord-Ovest; 63-64% cir-ca nel Sud).

In ogni caso i servizi che svolgono una funzione di sostegno diretto allefamiglie per le esigenze legate all’ordinaria quotidianità rappresentano sol-tanto il 16,4% di tutti i servizi sociali attivati dai comuni, e quelli espressa-mente finalizzati al sostegno economico del nucleo familiare con minori ri-sultano erogati solamente dal 63,7% dei comuni. Con specifico riferimento aiprincipali servizi per minori presenti ed attivi nel 1997 nell’area Nord-Ovestsi rileva la seguente situazione: i servizi di refezione sono diffusi nel 91,3% deicomuni; il trasporto scolastico è fornito nell’82,6% dei casi; l’affido e gli asilinido nel 95,6%; l’assistenza scolastica nel 79,6%; i servizi ricreativi (estivi o al-tro) nell’87%; l’assistenza economica a minori illegittimi e a minori in gene-re nel 69,6%; il servizio di orientamento «informa giovani» nel 63,9%; il con-vitto è offerto nel 24,6%; il centro diurno socio-educativo nel 42,1%.36

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Come si evince dai dati, l’attività di protezione dei minori dall’indigenzarisulta, nel Nord – Ovest, decisamente più diffusa rispetto al Mezzogiorno edi 5,9 punti percentuali superiore anche rispetto alla media nazionale (il69,6% dei comuni dell’area Nord Occidentale erogano infatti interventi eco-nomici espressamente finalizzati).

Nonostante negli ultimi anni siano emersi segnali innovativi nelle politi-che assistenziali per i minori e le famiglie in condizioni di disagio economi-co – rappresentati, in particolare, dagli assegni di maternità e per le famigliecon almeno tre figli minori previsti dagli articoli 65 e 66 della legge n.448/9824 e dall’avvio della sperimentazione del reddito minimo di inseri-mento previsto dal D.Lgs. n. 237/9825– si evidenzia comunque pesantemen-te la mancanza di uno strumento specifico e generalizzato di contrasto allevarie forme di povertà. Per le famiglie numerose e per quelle monogenito-riali, soggette ad un maggior rischio di indigenza – così come per le situa-zioni di difficoltà economica temporanea (ma spesso ricorrente) delle fami-glie in generale- l’unico intervento di contrasto al problema della mancan-za o carenza di reddito viene, nella fase attuale, dal sostegno economico for-nito dai Comuni, con risorse di entità variabile in base alle politiche socialiattuate a livello regionale e locale.

Per quanto attiene all’implementazione delle misure di contrasto allacondizione di povertà minorile, con riferimento allo specifico locale, è inte-ressante esaminare i dati sullo stato di attuazione della legge 285/97, relati-vi alla realizzazione degli interventi previsti dall’art.4, comma a), ovveroall’«erogazione di un minimo vitale a favore di minori in stato di bisogno in-seriti in famiglie o affidati ad uno solo dei genitori, anche se separati». Il to-tale dei progetti compresi nell’area «minimo vitale e lotta alla povertà» è 74,pari al 2,6% di tutti i progetti catalogati in banca dati. Gli interventi sono 109e rappresentano l’1,6% del complesso italiano. Di questi il 48,6% riferiti al«minimo vitale» e il 44% al sostegno economico alla famiglia naturale. Soloil 7% degli interventi prevede le due tipologie unite.

La ripartizione territoriale dei 74 progetti vede 7 progetti nel Nord –Ovest (9,5%); 9 progetti nel Nord – Est (12,2%); 24 progetti nel Centro(32,4%); 28 progetti nel Sud (37,8%); 6 progetti nelle Isole (8,1%).

I progetti sono presenti solo in 13 delle 20 Regioni italiane.Pochi anche iprogetti presentati nelle città riservatarie: «forse meno di quanto si potevaipotizzare in contesti metropolitani» – osserva il Quaderno del CentroNazionale – «visto che la povertà delle famiglie e in generale il costo della vi-ta è maggiore nelle grandi città».26

La distribuzione degli interventi, diversamente dai progetti, fa registrare– per quanto riguarda gli ambiti territoriali –una maggiore concentrazionenelle regioni del Centro Italia (44,7%), seguite da quelle del Sud (29,1%),mentre il minor numero si registra nel Nord Ovest (4,9%). Solo 6 interventisu 109 sono stati realizzati nelle città riservatarie (2 a Bologna, 2 a Milano, 1a Napoli, 1 a Taranto).

Se da un lato l’esame dei dati sulla legge 285/97 rimarca la disomogeneasituazione del Paese in termini di diffusione degli interventi di contrasto,dall’altro conferma la diversa incidenza quantitativa del problema della po-vertà economica sulla popolazione minorile.

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2.2 I minori nel sistema di assistenza socialein Piemonte

Minori in carico ai servizi socio - assistenziali

Nel 199927 sono stati in carico alla rete regionale piemontese dei servizisocio – assistenziali 19.758 minori (di cui 1973 disabili) che rappresentano il3,16% della popolazione in fascia d’età 0-17 anni, così ripartiti per provinciadi residenza:

I minori rappresentano il 24,08% del totale degli assistiti dai servizi so-ciali locali nell’anno 1999. Con riferimento al «catalogo» delle prestazionierogate dai soggetti gestori – in ottemperanza al disposto della L.R 62/9528 –i minori risultano aver beneficiato dei seguenti interventi:

Dai dati regionali risulta che i minori appartenenti a nuclei assistiti eco-nomicamente per indigenza dai servizi territoriali sono stati, nel 1999, 2869e rappresentano il 14,52% degli assistiti e lo 0,45% dei residenti in fasciad’età.

Provincia Minori Minori disabiliTotale minori % su minori

assistiti residenti

Alessandria 1.954 331 2.285 4,11

Asti 494 40 534 1,93

Biella 878 66 944 3,73

Cuneo 2.158 258 2.416 2,70

Novara 1.481 132 1.613 3,30

Torino 9.383 953 10.336 3,15

Verbania 815 113 928 3,79

Vercelli 622 80 702 2,80

Totale 17.785 1.973 19.758 3,16

Interventi Minori Minori disabili Tot. minori assistiti

Assistenza economica 2.747 122 2.869

Assistenza domiciliare 642 254 896

Assistenza socio – educativa 2.750 356 3.106

Affidamento familiare 2.125 48 2.173

Istruttoria per adozioni 457 0 457

Inserimenti in centri diurni 723 177 900

Inserimento in presidio residenziale 974 51 1.025

Istruttoria per minori e incapaci 2.487 45 2.532

Inserimento lavorativo 177 75 252

Altro 953 328 1.281

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Con riferimento alle province di residenza risultano:

In cifra assoluta la maggior concentrazione di minori assistiti economi-camente si rileva nella provincia di Torino, con 1443 minori in carico ai ser-vizi, corrispondenti al 50,29% del totale regionale dei minori in assistenzaeconomica.

Il dato sull’incidenza territoriale degli interventi di sostegno economicoè confermato dal numero complessivo di persone (minori, adulte, disabili oanziane) assistite per indigenza nell’area provinciale, che risultano com-plessivamente quantificate in 8.932 unità, corrispondenti al 63,95% del to-tale degli assistiti a livello regionale ed allo 0,39% dei residenti. A confermadella forte concentrazione del problema del disagio economico minorilenell’area metropolitana viene il dato – più recente – fornito dai servizi socialidel Comune di Torino, che nell’anno 2000 hanno assistito economicamentenella sola Città ben 1.367 minori29 – corrispondenti all’1,03% dei residenti 0-19 anni – appartenenti a 1040 nuclei familiari.

Anche dai dati a suo tempo raccolti dalla Provincia di Torino30 si rilevaun numero elevato di minori assistiti economicamente, ed è inoltre possibi-le ricavarne la distribuzione all’interno del territorio provinciale. Nei terri-tori dei 21 soggetti gestori esclusa la città di Torino – che coincidono conquelli delle ex U.S.S.L dell’area provinciale torinese – risultavano, nell’anno1998, 2452 minori beneficiari di assistenza economica (l’1,17% dei 208.115residenti in fascia d’età).

Dalla ripartizione territoriale emergono i seguenti dati percentuali:

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Provincia Minori Minori disabiliTotale minori % su minori

assistiti residenti

Alessandria 306 5 311 0,55

Asti 139 3 142 0,51

Biella 38 2 40 0,15

Cuneo 359 11 370 0,41

Novara 140 7 147 0,30

Torino 1.397 46 1.443 0,43

Verbania 254 46 300 1,22

Vercelli 114 2 116 0,47

Totale 2.747 122 2.869 0,45

Ex U.S.S.LTotale minori % su minori

in assistenza economica residenti

N.24 – Collegno 128 0,89

N.25 – Rivoli 119 1,23

N.26 – Venaria 153 1,12

N.27 – Ciriè 183 1,30

N.28 – Settimo Torinese 231 1,65

N.29 – Gassino 93 1,54

segue

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Non potendo disporre di dati generali riferiti al numero di nuclei fami-liari in carico ai servizi per assistenza economica, risulta difficile compren-dere quanto questo tipo di intervento incida sulle percentuali di povertà ri-levate dall’ISTAT.

Come nel resto del Paese, ai servizi locali è affidato il compito di interve-nire prioritariamente nei confronti di tutte quelle persone il cui diritto all’as-sistenza economica è riconosciuto dall’articolo 38 della Costituzione – cioèanziani, inabili, portatori di handicap e minori – in quanto rientranti tra co-loro ai quali non si possono richiedere prestazioni lavorative. «Si tratta di ungruppo» – osserva Nicoletta Bosco31 – «che, nonostante l’eterogeneità deisoggetti che lo compongono, si caratterizza per la presenza di ’bisogni quali-ficati’ e che, in quanto tale, rimane necessariamente ai margini della discus-sione in relazione ai vincoli di bilancio, dal momento che è piuttosto remotal’idea che eventuali tagli di spesa possano incidere sui sostegni economiciprevisti per coprire i bisogni di reddito di queste categorie di soggetti».

Accanto all’area dei «poveri e inabili» ne esiste però un’altra – più pro-blematica e decisamente meno protetta dagli interventi di sostegno – allaquale appartengono gli adulti «abili al lavoro», la cui situazione di indigen-za non è connessa a problemi di invalidità fisica o psichica, ed il cui bisognodi reddito non si accompagna alla presenza di «bisogni qualificati» definitidall’impossibilità di partecipazione al mercato del lavoro. Di certo gli inter-venti di sostegno forniti attualmente dai servizi socio – assistenziali localinon sono, nella generalità dei casi, estesi alle famiglie in condizioni di «po-vertà relativa». Si può anzi dire che all’interno di un’utenza in condizioni di«povertà assoluta» – così come definita dall’ISTAT – esistono livelli di prote-zione differenziati. Tali da escludere non solo le situazioni «a rischio di po-vertà», di «povertà non conclamata», di «povertà temporanea» ecc., ma an-

Ex U.S.S.LTotale minori % su minori

in assistenza economica residenti

N.30 – Chieri 145 1,07

N.31 – Carmagnola 279 3,53

N.32 – Moncalieri 58 0,49

N. 33 – Nichelino 69 0,56

N.34 – Orbassano 161 1,06

N.35 – Val Sangone 49 1,20

N. 36 – Susa 114 0,85

N. 37 – Valli di Lanzo 63 1,65

N. 38 – Cuorgnè 36 0,37

N. 39 – Chivasso 103 1,09

N. 40 – Ivrea 220 1,79

N. 41 – Caluso 69 1,29

N. 42 – Val Chisone 16 0,65

N. 43 – Val Pellice 27 1,07

N.44 – Pinerolo 136 1,01

Totale 2.452 1,17

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che alcune situazioni di povertà spesso grave (i disoccupati), sulle quali «siconcentrano le preoccupazioni di quanti considerano i sostegni al redditocome un incentivo a comportamenti di passività e di dipendenza dall’assi-stenza, o peggio a un uso opportunistico dei dispositivi di assistenza e di so-stegno economico».32

Questa considerazione sembra suffragata (almeno per quanto riguardala provincia di Torino) dalla descrizione delle problematiche espresse dallapopolazione minorile – e degli interventi di sostegno ad essa rivolti – che isoggetti gestori dei servizi forniscono.33

a) Dai dati raccolti dal CISAP34 – il consorzio che gestisce i servizi deiComuni di Collegno e Grugliasco, un’area territoriale della prima cinturacollocata ad ovest di Torino nella quale risiedono 87.431 abitanti per com-plessivi 34.690 nuclei familiari – si evidenzia un carico di utenza complessi-vo, nell’anno 2000, di 2287 assistiti (il 2,61% dei residenti), appartenenti a1401 nuclei familiari (il 4,03% dei nuclei residenti).

Nell’ambito intercomunale considerato i minori assistiti sono stati 594(di cui 53 disabili) corrispondenti al 26,01% del totale degli assistiti del con-sorzio ed al 4,45% dei minori residenti in fascia d’età. L’1,04% dei minori incarico risulta essere nato nell’anno (8 unità); il 3,92% è di età compresa trazero e dieci anni (312 unità); il 4,13% è nella fascia tra zero e tredici anni (420unità pari al 70,7% del totale dei minori in carico).35

Le famiglie in carico per assistenza economica nel 2000 risultano quan-tificate in 276 nuclei (con una media di 1,8 componenti) e rappresentano il19,7% dei nuclei assistiti e lo 0,79% dei nuclei residenti. Le persone assistiteper indigenza risultano complessivamente 528 (il 23,08% degli assistiti e lo0,6% dei residenti). I minori appartenenti a nuclei in assistenza economicanell’area di Collegno e Grugliasco sono quantificati in 142 unità (età media8,2 anni), rappresentano il 23,9% dei minori assistiti e l’1,06% dei 13.319 mi-nori residenti.

b) Nell’area territoriale del consorzio C.I.DI.S36 – che comprende i co-muni di Beinasco, Bruino, Orbassano, Piossasco, Rivalta e Volvera, con untotale di 88.352 abitanti – risultano in carico ai servizi al 31.12.2000, 2.555persone corrispondenti al 2,89% dei residenti.

I minori assistiti nell’anno sono stati 667 (di cui 38 disabili), corrispon-denti al 16,89% del totale degli assistiti del consorzio ed al 4,47% dei minoriresidenti in fascia d’età. I titolari di interventi finalizzati al sostegno econo-mico sono stati complessivamente 722 unità (il 28,25% degli assistiti e lo0,81% dei residenti). Di queste, 180 sono bambini o adolescenti, che rappre-sentano il 26,98% dei minori in carico al consorzio e l’1,2% dei 14.926 resi-denti in fascia d’età.

c) Nell’area territoriale del consorzio C.I.S37 – che comprende i comunidi Ciriè, Caselle, Borgaro, San Maurizio, Nole, San Francesco, Mathi, SanCarlo, Robassomero, Fiano, Rocca, Front, Barbania, Vauda, Villanova,Grosso e Levono, con un totale di 86.192 abitanti – risultano in carico ai ser-vizi, nell’anno 2000, 3.968 persone (pari a circa 2300 cartelle aperte, di cui il70% attive) corrispondenti al 4,6% dell’intera popolazione residente. I mi- 41

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nori in carico nell’anno sono stati 848, corrispondenti al 21,37% del totaledegli assistiti del consorzio ed al 6% dei 14.03138 minori residenti in fasciad’età.

Le famiglie in carico per assistenza economica nel 2000 risultano quan-tificate in 305 nuclei. Le persone assistite per indigenza risultano comples-sivamente 648 (il 16,33% degli assistiti e lo 0,75% dei residenti). I nuclei conminori in assistenza economica nell’area del C.I.S sono quantificati in 107famiglie per un totale di 139 minori, che rappresentano il 16,39% dei mino-ri assistiti e l’0,99% dei minori residenti.

Si tratta di famiglie, queste ultime, con problemi di carattere economico«legati ad una disoccupazione, meno prolungata rispetto al passato, ma an-cora connotata da instabilità. Un’alta percentuale di nuclei è costituita daun unico genitore a causa di separazione o divorzio, ed è ancora forte il di-sagio rappresentato sia da un’elevata incapacità da parte delle figure geni-toriali di adottare metodi educativi idonei a supportare i figli nel loro per-corso di crescita, sia da una altrettanto elevata disorganizzazione della vitafamiliare».39

d) Nell’area territoriale del consorzio C.I.S.S.P40 – che comprende iComuni di Leinì, San Benigno, Settimo Torinese e Volpiano con un totale di77.443 abitanti – risultano, al 31.12.2000, 979 cartelle di servizio sociale atti-ve, di cui 336 relative a minori in carico. «Significativo è il dato» – si osservanella relazione del consorzio – «che un terzo delle cartelle attive, sia nel 1999sia nel 2000, riguardino minori, con un notevole carico di lavoro che derivada: frequente multiproblematicità delle situazione seguite, con coinvolgi-mento di altri servizi (Servizio di Psicologia dell’età evolutiva, Servizio diSalute Mentale, Servizio per le Tossicodipendenze) e operatori (educatori,pediatri, ecc.); rapporti con l’Autorità Giudiziaria, particolarmente onerosinel caso di apertura del procedimento per la dichiarazione di adottabilità…;costante monitoraggio delle situazioni di minori in comunità…».41

I minori in carico per assistenza economica nel territorio del consorziodi Settimo Torinese risultano quantificati in 31 unità, che rappresentano il12,3% dei 252 assistiti nell’anno 2000 e lo 0,24% dei minori residenti.

e) Nell’area territoriale del consorzio C.I.S.A. 1242 – che comprende iComuni di Nichelino, Vinovo, None e Candiolo per complessivi 74.060 abi-tanti – risultano – a tutto 2000 – 663 persone/nuclei in carico. I minori com-plessivamente seguiti nell’anno vengono quantificati in 157 unità e rappre-sentano il 23% degli assistiti e l’1,25% dei minori residenti. I minori in caricoper assistenza economica censiti dai servizi consortili di Nichelino vengonoquantificati in 55 unità, corrispondenti allo 0,43% dei minori residenti.

I dati rilevati attraverso le relazioni annuali prodotte dai consorzi sem-brano confermare una maggiore incidenza del problema dell’indigenza mi-norile nell’area metropolitana, ove la percentuale di minori assistiti risultaelevata non solo rispetto al complesso della Regione Piemonte, ma anche ri-spetto all’area della provincia torinese. I minori in assistenza economica nel-l’anno 2000 nella Città di Torino e nei 5 consorzi esaminati sono infatti 1894e rappresentano il 66,01% del totale dei minori assistiti – nell’anno prece-dente – a livello regionale. Con riferimento alla Provincia di Torino è signifi-42

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cativo il confronto tra i numeri assoluti: 1894 minori assistiti a tutto 2000 nel-l’area considerata, contro i 1443 assistiti, nel 1999, dai servizi sociali nell’am-bito dell’intera provincia di Torino.

Come segnalato nelle relazioni dei consorzi, i minori seguiti dai servizisociali appartengono a famiglie con problemi legati ad una disoccupazionepiù o meno prolungata degli adulti di riferimento; connotate da instabilità;costituite da un unico genitore; spesso multiproblematiche. Il tratto comuneè in ogni caso rappresentato dalle condizioni di grave indigenza in cui versa-no. Gli enti gestori socio – assistenziali non sono infatti strutturati, come si èdetto, per sostenere le situazioni «a rischio» di povertà – certamente menogravi ma sicuramente molto più diffuse – sulle quali intervengono, con pro-prie «politiche tariffarie», i comuni direttamente, o le ASL per quanto attiene,ad esempio, alle esenzioni dalla spesa sanitaria.43

I nuclei in carico ai servizi sociali – a causa delle condizioni di indigenzaconclamata in cui versano – sono dunque relativamente pochi. I minori coin-volti rappresentano solamente lo 0,45% dei minori residenti a livello regio-nale e lo 0,43 a livello della provincia di Torino. Anche nell’area metropolita-na – ove il dato percentuale è più elevato – gli interventi non affrontano chele manifestazioni più eclatanti del problema dell’indigenza.

Tipologia familiare, indigenza e stile di vita

La povertà economica dei minori «intercettata» dai servizi di assistenzasociale si manifesta dunque – in forme spesso esasperate dal concorso deimolti fattori che la generano – all’interno di nuclei che, in genere, non sonoin grado di garantire adeguate cure ed attenzioni ai figli. Risulta inoltre mag-giormente concentrata in micro-aree territoriali, caratterizzate dalla forte in-cidenza di disagio sociale.

I nuclei seguiti dai servizi di assistenza sociale risultano appartenere, so-stanzialmente, a due tipologie:44 «In alcuni dei nuclei familiari in carico si ri-levano condizioni di estrema povertà economica; in altri, in cui non è pre-valente il problema economico, emerge una situazione di isolamento, inparte derivante da radicati stili di vita (legami familiari deboli, rapporti po-co incisivi con il vicinato ed il territorio...) ed in parte legata a problemi disalute mentale o di alcoldipendenza».

a) Proprio con riferimento agli «stili di vita» si rileva, da parte dei servizi,«… un aumento di richieste provenienti da persone con problemi giudizia-ri (es. ex detenuti, detenuti domiciliari o in attesa di giudizio, persone chesottostanno a misure alternative al carcere ecc.). Da un lato l’aspettativa diqueste persone (con famiglia a carico o in carico alla famiglia) nei confron-ti del nostro servizio è quella di essere destinatari di sicuro aiuto, dall’altrole effettive possibilità di offrire un valido sostegno nel reinserimento socialesono molto limitate, oltre che dalla carenza di risorse, anche dal forte pre-giudizio che esiste nei confronti di chi ha precedenti penali. Ne consegueche spesso i progetti elaborati con queste persone non portano ad un realecambiamento del loro disagio e non incidono sul loro senso di emargina-zione… In particolare ci riferiamo alle maggiori probabilità di fallimento dei 43

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tentativi di inserimento lavorativo rispetto agli altri soggetti. Anche quandosi intravedono reali possibilità di collaborazione con questa tipologia d’u-tenza, l’unico concreto intervento attuabile (quale segnale di sostegno neiloro confronti) è quello dell’assistenza economica, sempre che in famiglianon vi sia già un reddito seppur non elevato. Infatti non è più possibile lapartecipazione di queste persone ai cantieri di lavoro del Comune diCollegno per via dei precedenti fallimenti».

In generale sono gli adulti «…perlopiù soli e in maggioranza di sesso ma-schile» che «..stanno caratterizzando in modo significativo la popolazioneassistita, esprimendo nuove forme di disagio, determinato da assenza diprospettive occupazionali, almeno nel breve periodo, da abbandono da par-te delle famiglie di provenienza e dalla mancanza di positive relazioni socialied affettive. In questa fascia di popolazione sono anche ricompresi adulti ul-tra trentenni, con alle spalle storie di tossicodipendenza, alcoldipendenza,detenzione o con disturbi psichiatrici.»45

Fra i nuclei familiari in carico ai servizi si rileva la massiccia presenza dinuclei ‘storici’ caratterizzati da ‘cronicità assistenziale’ i quali ciclicamenteritornano in carico ripresentando le stesse problematiche. «Con queste fa-miglie» – osserva il servizio sociale46 – «risulta difficoltoso modificare la cul-tura assistenzialista del ‘tutto dovuto’». Si rileva infatti «…come la maggiorparte dei casi di assistiti economicamente rientri nel cosiddetto circolo vi-zioso dell’assistenza, per cui le nuove domande vengono valutate con mag-gior attenzione e in buona parte ricevono risposte negative, mentre chi èstato seguito in passato – e conosce di conseguenza i ‘trucchi’ per essere as-sistito – ottiene sovente le varie agevolazioni possibili». Gli interventi messiin atto dai servizi sono «finalizzati ad un aiuto nella risoluzione dei proble-mi presentati, anche attraverso un’azione di stimolo per l’attivazione dellerisorse personali. La cronicizzazione di molte situazioni rimane però un evi-dente nodo problematico rispetto all’erogazione di alcuni interventi quali,ad esempio, l’assistenza economica, vissuta ancora da molti come una sor-ta di ‘rendita vitalizia’, in assenza di altre alternative».47

Le osservazioni sull’indigenza, formulate dai servizi consortili, si com-pletano con la considerazione48 che «persistono le difficoltà nell’accertare laveridicità delle dichiarazioni rilasciate per ottenere il contributo economi-co, in quanto non è possibile contare su un sistema di verifica efficace.Spesso i controlli dei Vigili non ci aiutano a fare chiarezza sulle situazionidubbie, lasciando a noi l’antipatico compito di richiamare le persone a ren-dere le autocertificazioni quasi credibili, rischiando di incrinare il rapportodi fiducia che si dovrebbe creare». Il lavoro non regolarizzato è infatti diffu-so e, sovente, consapevolmente non dichiarato al fine ottenere agevolazionivarie (sussidi, esenzioni ecc.). Inoltre, per mantenere gli interventi di soste-gno economico, vengono spesso celate le assunzioni, dichiarate false sepa-razioni, richieste cancellazioni dallo stato di famiglia ecc.»

b) Il tema dell’indigenza rimanda a quello del rapporto tra marginalità elavoro: un problema che i servizi cercano di affrontare con strumenti diver-sificati, perché i soggetti tradizionalmente a rischio di esclusione sociale (gliutenti dei servizi sociali), pur appartenendo alla tipologia delle «fasce debo-li del mercato del lavoro», non sono, in genere, dei semplici disoccupati. Ad44

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essi non basta «trovare il lavoro», ma necessitano di aiuto per «reggerlo»,cambiando lo stile personale di vita.

«Molte problematiche portate dagli adulti» – si osserva nella relazione diconsuntivo del C.I.S – «quali la ricerca di opportunità lavorative, nonché dirisorse abitative, non sempre risultano di stretta pertinenza del servizio so-cio-assistenziale, e la carenza di risposte in tal senso spesso vanifica la rea-lizzazione di progetti di reinserimento sociale».49 In ogni caso permane, trale famiglie assistite, un alto livello di disoccupazione sia giovanile (precoceabbandono scolastico, scarsi livelli di istruzione e di specializzazione) sia inetà ’matura’ (difficoltà da reinserimento nel mondo del lavoro successiva-mente a licenziamenti, fallimenti ecc.). «In varie situazioni si rileva la diffi-coltà di reinserimento nel mercato del lavoro: talvolta è subentrata una con-dizione invalidante; in altri casi, la separazione della coppia ha portato aduna instabilità economica, con ricadute in ambito lavorativo e sociale.Sembra essere in aumento, inoltre, il numero di situazioni che vedono uo-mini soli di età media in condizioni di elevato rischio di marginalità, in se-guito alla perdita del lavoro o di riferimenti familiari».50

Dall’osservatorio dei servizi si rileva che «l’incidenza maggiore è quelladi nuclei provenienti da altri territori, spesso dove ci sono genitori moltogiovani con figli minori, con seri problemi legati alla salute di uno dei geni-tori, con grosse difficoltà economiche, di disoccupazione e di relazione(bassa scolarità), con scarsa capacità a muoversi nel mondo dei servizi.Spesso emerge la posizione debole della figura femminile, per la quale è ne-cessario trovare nuove ipotesi di emancipazione (corsi di formazione, inse-rimenti lavorativi) e/o gratificazioni per il ruolo che comunque hanno al-l’interno delle proprie famiglie». I nuclei sono sempre più spesso «famigliecon minori in situazioni socio – economiche gravemente disagiate, che ne-cessitano di immediata presa in carico ed interventi molteplici. In partico-lare si evidenzia un incremento di famiglie di stranieri extracomunitari».51

Infine risulta accelerata la tendenza ad una rottura conflittuale dei rap-porti tra coniugi nel nucleo familiare, «disgregato al proprio interno anchese non c’è una vera e propria separazione in atto; questo spesso comporta lanon adesione ai progetti concordati con i servizi, con il risultato che spessol’operatore si ritrova a comunicare con un solo componente del nucleo, fa-cendo venir meno la globalità del progetto stesso».52

Il circolo vizioso della povertà

Uomini e donne sempre più spesso soli, o inseriti in nuclei familiari con-flittuali, caratterizzati da una forte precarietà economica ed esistenziale deicomponenti, sulla quale gli interventi economici di sostegno non incidonoin modo sostanziale, se non nei rari casi in cui la persona è effettivamentemotivata ad uscire dalla condizione di marginalità.

È prevalentemente all’interno di questi nuclei che si trovano i «bambinipoveri». Per questi bambini la povertà non è quasi mai conseguenza pura esemplice della carenza di risorse economiche della famiglia, ma ha cause edaspetti più complessi, che rimandano agli adulti genitori ed ai loro stili di vi-ta. Adulti con problemi di salute mentale che determinano comportamenti 45

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bizzarri, ai quali il bambino deve adattarsi, in un ambiente spesso turbatosul piano affettivo, sociale e comportamentale.

Non meno gravi i problemi posti dalle famiglie con adulti tossico dipen-denti o alcol dipendenti, nelle quali il minore deve assistere alle continue li-ti, subire l’isolamento del nucleo e le conseguenze delle condizioni di vitaprecarie dei genitori. Padri che entrano ed escono di prigione, per i quali, sela carriera criminale «può essere resa in qualche modo compatibile con unruolo genitoriale quotidiano, in ogni caso la ’neutralizzazione’ del carcereinterrompe fisicamente il rapporto. Per cui, se il problema in genere non na-sce con l’arresto, di certo con questo diventa più traumatico per il figlio».53

Coppie giovani ed immature, nelle quali la presenza di un figlio si pone pre-cocemente ad adulti ancora alla ricerca di una propria autonomia, che nonreggono il ruolo genitoriale e nemmeno la coniugalità. Famiglie divise – dauna separazione giudiziale che giunge dopo lunghi conflitti tra coniugi – maanche famiglie «dissolte», nelle quali gli adulti ricorrono a forme di separa-zione di fatto a cui consegue, spesso, la scomparsa di uno dei genitori. Inqueste situazioni, l’esperienza della separazione (o dell’abbandono del co-niuge-genitore assente) è causa, per il bambino, di privazioni di supportoaffettivo oltre che materiale. Ed è in genere la madre che rimane ad assicu-rare, da sola, la cura quotidiana e ad assumersi la totale responsabilità suuno o più bambini.

In tutte queste situazioni si ritrova anche l’indigenza e, conseguente-mente, vi è la necessità di fornire, al nucleo familiare, quei «contributi eco-nomici» che costituiscono spesso uno strumento per «agganciare» gli adul-ti, al fine di realizzare interventi più incisivi a protezione dei minori.

Il disagio minorile si genera dunque – a partire dal nucleo familiare – nelrapporto tra genitori e figli; tra adulti che propongono modelli educativi in-congrui alle richieste che la società pretende, e ragazzi avviati precocemen-te nel mondo adulto senza la necessaria strutturazione e strumentazione.L’incapacità degli adulti a reggere le «regole del gioco» sociale si trasmette,spesso in modo traumatico, ai figli. Ciò avviene, in particolare, nelle semprepiù frequenti separazioni conflittuali (legali e non) e nelle famiglie multi-problematiche in genere. Famiglie nelle quali lo scontro tra gli adulti è acui-to dalla strumentalizzazione dei figli, e dalla presenza nel nucleo di proble-matiche economiche e psico-sociali di varia natura, tra loro connesse.

La povertà dei minori è l’aspetto più triste della condizione di indigenzadel nucleo familiare – spesso monoparentale; ma, quest’ultima, non è qua-si mai disgiunta dall’incapacità degli adulti di accedere autonomamente al-le opportunità (per limiti di conoscenza e/o per incapacità di rispettare leregole sociali); dall’incapacità di organizzare l’esercizio della genitorialità (odi riorganizzarla alla fine della coniugalità); da situazioni di alcolismo, di-pendenza da sostanze, comportamenti devianti ecc. «È aumentato il nume-ro di minori spettatori, spesso attori, della separazione dei propri genitori,le cui situazioni di conflittualità vengono segnalate al territorio dall’AutoritàGiudiziaria, con la richiesta di intervenire, al di là dell’indagine sociale, confunzioni di protezione nei confronti dei minori (incontri mediati)».54 La po-vertà, per questi bambini, si concretizza nella trascuratezza e carenza di at-tenzioni in famiglia; nella scarsa cura materiale ed affettiva. Viene generatadall’intreccio perverso tra condizioni economiche precarie della famiglia e46

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caratteristiche culturali degli adulti, che «responsabilizzano» precocementei figli più grandi (ai quali è spesso delegata la cura dei piccoli) ed assegnanopoca o nulla importanza all’istruzione scolastica.

Questi messaggi, che disconfermano la scuola, favoriscono il calo di in-teresse da parte dei ragazzi, ponendo le basi per la dispersione e l’abbando-no precoce del percorso scolastico. «L’elevazione dell’obbligo scolastico»fanno osservare i servizi – «sta creando nuove problematiche: i ragazzi nonintenzionati a proseguire gli studi ma non ancora inseribili nel mercato dellavoro, in considerazione dell’età, spesso trascorrono il loro tempo in giroper il quartiere o nei centri commerciali». Ed è tra questi ragazzi (ma non so-lo) che si evidenzia il problema ulteriore dell’uso di sostanze, soprattuttocannabis, ecstasy e altre pasticche.

Un’altra preoccupazione – segnalata dai servizi – riguarda la micro-cri-minalità, le azioni illegali, la piccola delinquenza (furti d’auto o di apparta-mento, piccolo spaccio…). «Questa moda ha rappresentato per alcuni un’al-ternativa alla noia, per altri una trasgressione non troppo rischiosa e per al-tri ancora una pratica risorsa per procurarsi successivamente pasticche o al-tro materiale di consumo per lo sballo. Questo periodo è durato all’incirca 6mesi ed è scemato quando tutti i rischi più ovvi sono incominciati ad emer-gere, un po’ dai nostri discorsi e un po’ dai piccoli imprevisti di questo «me-stiere»: inseguimenti della polizia e dei proprietari delle auto, incidenti avu-ti durante l’allontanamento, conflitti di interesse coi compratori di merce oaltro… Purtroppo rimangono tuttora coinvolti in questi traffici quei pochielementi che non riescono o non vogliono reperire risorse alternative».55

2.3 La complessità delle risposte possibili

Alcuni progetti locali

A conferma della dimensione assunta dal problema dell’intreccio tra si-tuazione di indigenza e difficoltà/incapacità ad esercitare le funzioni geni-toriali da parte degli adulti in carico ai servizi,56 viene il dato più recente re-lativo all’avvio di progetti d’intervento, specificamente finalizzati al soste-gno della genitorialità, da parte dei soggetti gestori delle funzioni assisten-ziali.

Il progetto «Tutti intorno per far quadrare il giorno»57 – elaborato dalconsorzio C.I.DI.S – ha come target donne sole, in difficoltà e con figli mi-nori, e si pone l’obiettivo di aiutare queste donne a fronteggiare le esigenzeorganizzative quotidiane, fornendo loro un punto d’appoggio, e a sostenerele ansie e i timori di tipo educativo, affettivo e relazionale. Va sostanzial-mente nella stessa direzione il progetto «Punto in comune» – gestito dalconsorzio C.I.S.A.P – che si rivolge a quella tipologia di genitori che ha «piùprobabilità di innescare ’circoli viziosi’ nei rapporti familiari, ripetendo er-rori subiti quando erano figli, all’interno di famiglie spesso caratterizzate daun rapporto cronico con i servizi sociali».58 Il progetto prevede la costituzio- 47

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ne di gruppi di sostegno a genitori di ragazzi preadolescenti, destinatari diinterventi erogati dai servizi, e considerati ad elevato rischio di dipendenzada sostanze.

Come si è detto, la povertà «intercettata» dai servizi socio assistenzialirappresenta solo una quota di quella presente sul territorio. La rilevante pre-senza di fasce deboli del mercato del lavoro – che si aggiungono ai soggettitradizionalmente a rischio di esclusione sociale e ufficialmente al di sottodella soglia di povertà – è causa di un impoverimento più diffuso.

La «nuova povertà» si presenta nelle forme di un disagio presente inmolte famiglie «normali», dovuto al divario tra costo della vita e redditi dalavoro, che sempre meno garantiscono un livello esistenziale dignitoso e lapossibilità di accedere con regolarità a consumi «normali».59 Si assiste diconseguenza all’emergere, a livello locale, di richieste di sostegno econo-mico anche da parte di segmenti della cittadinanza in possesso di redditidiversificati, e non collocabili tra i tradizionali destinatari di «assistenzaeconomica».

Il problema viene fronteggiato – in modo più o meno diffuso ed efficace– in piccola parte mediante i servizi socio assistenziali60, ma soprattutto at-traverso le politiche comunali di esenzione dal pagamento dei tickets sani-tari (con criteri generalmente meno selettivi di quelli utilizzati per l’assi-stenza economica); l’esenzione dal pagamento o l’applicazione di quote dimaggior favore per il pagamento dei servizi socio – educativi (rette nidi,mensa scolastica, centri estivi ecc.); l’esenzione dal pagamento o la riduzio-ne degli importi delle tasse e tariffe locali (ICI, raccolta rifiuti).

Nell’area territoriale della provincia di Torino si è inoltre registrato unnotevole sviluppo, nel corso degli anni ’90, di politiche di sostegno del red-dito, attraverso la promozione, da parte dei comuni, di «cantieri di lavoro»(in molti casi organizzati in collaborazione con i servizi socio – assistenzia-li) e di lavori di pubblica utilità (L.S.U; L.P.U) per adulti disoccupati. Si trat-ta di esperienze che hanno consentito ai servizi di sperimentare progetti in-dividuali di «messa alla prova» di beneficiari «storici» dell’assistenza sociale.Con risultati positivi, per le persone più motivate a ricercare, attraverso l’e-sperienza di lavoro, un diverso ruolo nella famiglia e nel contesto di vita e direlazione. Con l’entrata in vigore della legge 431/9861 ai comuni è stato infi-ne consentito di fornire contributi di sostegno per il pagamento degli affitti:intervento gestito in genere direttamente dagli uffici comunali, così comeavviene per l’istruttoria finalizzata all’erogazione, da parte dell’INPS, degliassegni di maternità e per il terzo figlio previsti dagli articoli 65 e 66 dellalegge n. 449/98.62

È appena il caso di osservare che gli interventi messi in atto a livello lo-cale non sono assolutamente risolutivi dei problemi derivanti dall’intrecciotra nuova e vecchie povertà, tra povertà relativa e povertà assoluta, tra uten-ti «cronici» dell’assistenza e cittadini con reddito insufficiente, che faticanoad arrivare a fine mese pur lavorando.

Questa dimensione di complessità, tendenzialmente in crescita, modifi-ca radicalmente la domanda sociale che emerge dal territorio. Il disagio eco-nomico non si manifesta più in modo netto, con il volto del «caso sociale» odel «lavoratore disoccupato» vittima dei processi di ristrutturazione indu-striale, come accadeva nei primi anni ’80. La povertà, intesa come insuffi-48

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cienza di risorse economiche, più diffusa che in passato, si connota come larisultante di molti fattori, che includono – nelle manifestazioni più eclatan-ti – l’esclusione dal lavoro, comportamenti «autodistruttivi», gravi crisi rela-zionali. E, per quanto attiene ai minori, inadeguatezza da parte degli adultia svolgere le funzioni genitoriali.

Scheda A – L’impatto delle nuove misure di sostegno economico ai minori e alla maternità

49

Con la legge n.449/1998 (finanziaria del 1999) sono stati introdotti l’«Assegnoai nuclei familiari con almeno tre figli minori» (art.65) e l’«Assegno di mater-nità» (art.66).L’assegno ai nuclei con tre o più figli in età inferiore ai 18 anni viene concesso,a far data del 1 gennaio 1999, a nuclei composti da cittadini italiani residentiche risultino in possesso di risorse economiche non superiori al valore dell’in-dicatore della situazione economica (I.S.E) di cui al D.Lgs.n.109/199863 pari a36 milioni di lire annue con riferimento a nuclei familiari con cinque compo-nenti. Per nuclei familiari con diversa composizione il requisito economico èriparametrato sulla base di una scala di equivalenza.L’assegno – concesso dai comuni ed erogato dall’I.N.P.S. – è corrisposto inte-gralmente, per un ammontare di 200 mila lire mensili64 e per 13 mensilità, pervalori I.S.E del beneficiario inferiori o uguali alla differenza tra i 36 milioni (per5 componenti) e il doppio dell’importo dell’assegno calcolato su base annua (5milioni 200 mila lire). Per valori ISE del beneficiario compresi tra la predettadifferenza ed il valore ISE assunto a parametro, l’assegno è corrisposto in mi-sura pari alla metà della differenza tra i 36 milioni e l’ISE del beneficiario.L’assegno di maternità è concesso al nucleo familiare di appartenenza dellemadri che risulti in possesso di risorse economiche non superiori al parame-tro ISE fissato in 50 milioni di lire annue con riferimento a nuclei con tre com-ponenti. Per nuclei familiari con diversa composizione il requisito economicoè riparametrato sulla base di una scala di equivalenza.L’assegno è concesso dai comuni ed erogato dall’INPS a far data dal 1 luglio1999 alle madri, cittadine italiane, in possesso dei requisiti previsti, che nonbeneficiano del trattamento previdenziale della indennità di maternità. Vienequantificato in 200 mila lire mensili per cinque mensilità per i figli nati succes-sivamente al 1° luglio 1999. Per i parti successivi al 1° luglio 2000 viene elevatoa 300 mila lire.L’assegno è concesso anche alle lavoratrici che godono di un’indennità di ma-ternità previdenziale di importo inferiore al valore dell’assegno ed abbianoredditi non superiori al parametro ISE. In tal caso alle beneficiarie viene ero-gata la quota differenziale.Le misure introdotte dalla legge n.449/1998 sono doppiamente importanti: daun lato perché assicurano gli interventi di sostegno su tutto il territorio nazio-nale – e quindi anche in quei comuni che non erogano assistenza economicain modo strutturato – dall’altro perché consentono di intervenire su una fasciadi disagio economico più vasta rispetto a quella normalmente coperta dai ser-vizi di assistenza sociale. I criteri ISE utilizzati per la determinazione del reddi-to dei beneficiari e per fissare la soglia di accesso agli assegni includono infat-ti aree di povertà meno conclamate ma più diffuse. Ciò avviene in particolarecon l’assegno di maternità.La relazione sulle attività del 2000, prodotta dal consorzio di Ciriè, segnala leprime ricadute positive dei nuovi provvedimenti sull’attività dei servizi: «…le

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La sperimentazione del RMI e i suoi problemi

Il Decreto Legislativo 18 giugno 1998, n.23766 ha disciplinato l’introdu-zione – in via sperimentale e solamente in alcune aree territoriali delPaese67 – dell’istituto del «reddito minimo di inserimento». Si tratta – comerecita l’articolo 1 del decreto – di «una misura di contrasto della povertà edell’esclusione sociale attraverso il sostegno delle condizioni economichee sociali delle persone esposte al rischio della marginalità sociale ed im-possibilitate a provvedere per cause psichiche, fisiche e sociali al manteni-mento proprio e dei figli». Il reddito minimo «è costituito da interventi vol-ti a perseguire l’integrazione sociale e l’autonomia economica dei soggettie delle famiglie destinatarie, attraverso programmi personalizzati, e da tra-sferimenti monetari integrativi del reddito». Con il decreto viene indivi-duata una possibile risposta al problema di disporre di strumenti efficaci dicontrasto della povertà.

A conferma di una nuova sensibilità al tema della «povertà diffusa» vie-ne infine l’assunzione dell’impegno – formalizzato dall’articolo 23 dellaLegge 328/2000 – ad adottare un apposito provvedimento legislativo che, te-nuto conto dei risultati della sperimentazione effettuata, definisca: «le mo-dalità, i termini e le risorse per l’estensione dell’istituto del reddito minimodi inserimento come misura generale di contrasto della povertà alla qualericondurre anche gli altri interventi di sostegno del reddito…». Senza l’atti-vazione di una misura generale di sostegno agli adulti è infatti impossibilegarantire una seria protezione dei minori appartenenti a famiglie povere.Con le risorse di cui dispongono attualmente i comuni68 si realizzano inter-venti di sostegno economico inefficaci perché sporadici, limitati nel tempoo comunque di entità insufficiente.

È perciò di fondamentale importanza che il R.M.I sia adeguatamente fi-nanziato e soprattutto sia «mirato» alle famiglie con figli minori, allo scopodi ridurre – attraverso l’integrazione del reddito – il disagio economico econtrastare la riproduzione familiare della povertà.

famiglie con minori hanno subito un calo del 15% circa rispetto all’anno pre-cedente; tale calo è stato sicuramente determinato da una maggiore possibilitàdi reperire un’occupazione da parte di giovani adulti, ma anche dall’applica-zione di leggi nazionali (provvidenze per i nuclei numerosi e l’assegno di ma-ternità) che hanno assorbito, benché parzialmente, la richiesta di aiuto econo-mico da parte di famiglie con minori»65.Anche dai dati riferiti all’anno 1999 forniti dal Comune di Grugliasco risultaun’estensione dell’area di disagio coinvolta degli interventi di sostegno. IlComune ha infatti erogato assegni a 34 nuclei con almeno tre figli minori edassegni di maternità a 19 nuclei per un totale di 53 famiglie assistite nell’anno.Solamente 5 di queste famiglie hanno beneficiato, nello stesso anno, degli in-terventi del C.I.S.A.P, il consorzio al quale sono delegate le attività di assisten-za economica ai cittadini di Collegno e Grugliasco.I dati più recenti riferiti all’area territoriale consortile, relativi al primo semestre2001, confermano la tendenza: risultano infatti 42 nuclei percettori di assegni aGrugliasco e 40 nuclei a Collegno per complessive 82 famiglie. Di queste solo 5risultano in carico ai servizi consortili per interventi di sostegno economico.

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Per far sì che il R.M.I possa essere una misura assistenziale «attiva» – chefa fronte all’emergenza, ma mira anche ad attivare risorse e a sviluppare ca-pacità di autonomia – appare indispensabile risolvere, in modo chiaro, il no-do del rapporto tra «sussidio» e lavoro. Il decreto legislativo 237 concede ilreddito minimo alle persone «esposte al rischio della marginalità sociale edimpossibilitate a provvedere per cause psichiche, fisiche e sociali al mante-nimento proprio e dei figli» (art.1); ma richiede a chi ne è beneficiario «la di-sponibilità a frequentare corsi di formazione professionale e la disponibilitàal lavoro» (art.7, comma 2). La «disponibilità al lavoro» di adulti – apparte-nenti a nuclei familiari spesso costituiti da una donna sola con figli a carico,concentrati per lo più nelle aree urbane e, in genere, sprovvisti di qualifica-zione professionale – non può che manifestarsi con il reperimento e l’accet-tazione di lavori scarsamente remunerati.

Si porrà dunque un problema di «convenienza»: è meglio arrotondare unsussidio di 1.060.800 (per un nucleo «a reddito zero» composto da due adul-ti ed un minore) con lavoretti in nero o impegnarsi (dopo averlo attivamen-te ricercato) in un lavoro regolare (es. tempo pieno in impresa di pulizie)con uno stipendio di 1.200.000 – 1.300.000 lire mensili?

Si deve inoltre considerare che, uscendo dall’assistenza economica, siperdono, in genere, i «benefici» connessi, rappresentati dalle esenzioni ge-neralizzate accordate, dai Comuni, agli utenti dei servizi assistenziali. È pro-babile che – se davvero si intende sostituire il welfare con il workfare – sidebba mettere in conto la necessità di «creare intenzionalmente dei posti dilavoro, in quantità, localizzazione e forma adatte alle persone che dovrannooccuparli»69. Siccome i lavori accessibili a molti degli assistiti «fornirannoloro salari bassi e irregolari», il sussidio in denaro dovrà comunque esserepagato – un po’ come «un secondo assegno» – almeno nella prima fase di av-vio al lavoro. Si dovranno, inoltre, mettere in conto «periodici ritorni» in re-gime di assistenza.

Oltre allo strumento rappresentato dal R.M.I – necessario per affrontareil problema della povertà conclamata – la legge di riforma 328/200 individuanei «prestiti d’onore» – erogati dai Comuni con finanziamenti a tasso zero –una ulteriore misura di sostegno economico alle famiglie.

Anche in questo caso si tratta di un intervento importante per il soste-gno di quelle persone o famiglie che – pur non rientrando nei limiti di red-dito che danno titolo all’assistenza – vivono situazioni transitorie (ma spes-so ricorrenti) di difficoltà economica, a causa di eventi «straordinari» che,con redditi adeguati, potrebbero venire affrontati autonomamente. I «con-tributi erogati a titolo di prestito» sono da tempo utilizzati da molti servizisociali della provincia di Torino. In genere risultano efficaci, ed hanno il van-taggio di non sottrarre, in modo definitivo, risorse economiche agli inter-venti di assistenza economica più tradizionali. Il limite è rappresentato dal-l’entità dei fondi che i Comuni, da soli, riescono a mettere in campo. Unruolo importante – per sviluppare e diffondere l’utilizzo della misura di con-trasto della povertà rappresentato dai «prestiti d’onore» – potrebbe veniresvolto dalle fondazioni bancarie, con la messa a disposizione di «fondi di ro-tazione» o, quantomeno, di «fondi di garanzia» che tutelino i Comuni dai ri-schi di mancata restituzione dei prestiti.

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Scheda B – Primi dati sulla sperimentazione del Reddito Minimoa Nichelino

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Nei primi due anni di sperimentazione del R.M.I sono state presentate alComune di Nichelino (47.653 abitanti) 518 domande di cui 352 accolte (il67,95%).Al 31.12.2000 risultavano in carico 232 famiglie di cui 75 composte di adulti so-li; 20 da coppie senza figli; 63 da coppie con figli; 5 da coppie con figli e mem-bri aggregati; 60 risultavano famiglie monoparentali e 9 classificate come «al-tra struttura familiare». Il numero totale di persone beneficiarie risulta quanti-ficato in 620 unità.Delle 226 «persone di riferimento»70 censite, 73 sono maschi e 159 femmine.Con riferimento all’età si rilevano 6 persone tra i 18 e 24 anni; 25 tra 25 e 34 an-ni; 105 tra 35 e 49 anni; 57 tra i 50 e 65 anni e 39 persone oltre 65 anni.Il numero dei nuclei familiari presi in carico e successivamente usciti dalla mi-sura di sostegno nei due anni di sperimentazione è di 120 di cui: 62 per supe-ramento dei limiti di reddito previsti; 38 ai quali è stato revocato il contributoper abbandono dei programmi di inserimento; 20 per altri motivi (di cui 19 ri-nunce).Il RMI mira ad attivare risorse e quindi a sviluppare capacità di autonomia per-sonale attraverso programmi di reinserimento. Gli inserimenti realizzati a que-sto scopo sono stati:• 313 di tipo occupazionale di cui 21 inserimenti lavorativi con tutor;• 27 di tipo formativo (di base e professionale);• 214 di tipo scolastico (alfabetizzazione, recupero dell’obbligo ecc.);• 104 di riabilitazione (percorsi per tossicodipendenti, disabili, alcolisti);• 52 di cura e sostegno familiare (accudimento anziani, minori, sostegno delle

responsabilità genitoriali);• 323 classificati come «altro» di cui: 52 per «sanatoria morosità», 16 reinseri-

menti di ex detenuti; 91 per «integrazioni del reddito».A seguito dei programmi seguiti 91 persone hanno trovato occupazione (di cui10 seguite nell’inserimento lavorativo da tutor); 37 hanno conseguito la licen-za elementare/media; 37 hanno conseguito un diploma/attestato formativo dibase professionale.Le risorse complessivamente erogate (come RMI) ad integrazione dei redditidelle famiglie in carico durante la sperimentazione risultano così quantificate:1999: L.1.529.702.600 – di cui 1.508.952.952 a carico dei fondi ministeriali eL.20.749.648 a carico del Comune;2000: L.1.985.316.300 – di cui 1.960.999.227 a carico dei fondi ministeriali eL.24.317.073 a carico del Comune.Nel biennio si sono spese, per l’erogazione dei contributi, complessivamenteL.3.515.018.900 alle quali vanno aggiunte L.454.384.800 per spese di personalee varie.Se si confrontano i dati di spesa relativi alla sperimentazione del RMI, con quel-li degli interventi di normale assistenza economica svolti dai consorzi socio as-sistenziali, si percepisce chiaramente la portata espansiva della nuova misura disostegno del reddito. Il consorzio CISAP di Collegno e Grugliasco ((87.431 abi-tanti) ha assistito economicamente, nel 2000, 276 famiglie, per un totale di 528persone, spendendo per erogazioni L. 650.343.200 corrispondenti a L. 2.356.315medie annue per famiglia. Nel solo Comune di Nichelino (47.653 abitanti) si so-no potute assistere nello stesso periodo – grazie alla sperimentazione – 232 fa-miglie, per complessive 620 persone, spendendo per i contributiL.1.985.316.300, corrispondenti a L. 8.557.398 medie annue per famiglia.

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Assistenza e sviluppo delle reti sociali

La produzione legislativa degli ultimi anni ha messo in moto una serie diimportanti innovazioni: la centralità del comune e della comunità locale; ilcittadino al centro del sistema dei servizi; un ruolo crescente per le organiz-zazioni del terzo settore e di volontariato; l’affermarsi del principio dellasussidiarietà verticale dei servizi.72 Più in generale sono state poste le pre-messe per un passaggio dal welfare state alla welfare community secondo ilprincipio della stretta correlazione tra risorse e servizi.

Alla necessità di dare puntuale risposta a vecchi e nuovi bisogni si accom-pagna, infatti, la necessità di far sì che la comunità locale sia coinvolta appie-no nel community care, che si attrezzi cioè a «prendersi cura» di se stessa.

Assume dunque importanza strategica la funzione di programmazione ecoordinamento delle reti locali di servizi ed opportunità che può svolgere il«piano di zona» – previsto dall’articolo 19 della legge 328/200 – al quale so-no chiamati a partecipare gli organismi non lucrativi di utilità sociale, dellacooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione sociale, gli entidi patronato, le organizzazioni del volontariato, gli enti riconosciuti delleconfessioni religiose, le I.P.A.B e le fondazioni. Queste ultime, in particolare,possono svolgere un ruolo strategico per lo sviluppo di «politiche mirate» alivello delle comunità locali. Sarebbe in tal senso opportuno il pieno coin-volgimento delle fondazioni negli «accordi di programma», che regolano gliimpegni dei soggetti (istituzionali e non) chiamati a cooperare nel «piano dizona». Ciò consentirebbe di impostare interventi strutturali – caratterizzatida intenzionalità e continuità – finalizzati ad affrontare le problematicheespresse dai settori della popolazione meno tutelati.

Non bisogna infatti dimenticare che – accanto ad attori con poteri deci-sionali riconosciuti – esistono delle «categorie» di cittadini che non sono ingrado di prendere decisioni, né di «rappresentarsi» autonomamente. Tra que-ste, quella dei bambini appartenenti a famiglie povere merita sicuramenteuna particolare attenzione. La promozione di «progetti finalizzati» alla tuteladei minori – ad esempio attraverso il sostegno alle madri sole o l’accompa-gnamento dei padri all’inserimento lavorativo – può esser efficacemente per-seguita solo attraverso l’assunzione di responsabilità dirette nel governo del-la rete di interventi e servizi. È infatti importante evitare la frammentazionedelle iniziative, attraverso il finanziamento di progetti, anche importanti, chenascono e muoiono senza riuscire a consolidare le reti sociali di risposta, acausa della mancanza di coordinamento tra i soggetti attuatori.

Come opportunamente osserva Gabriele Righetto73 «Non tutte le que-

Il raffronto rende bene l’idea della quantità di risorse che sarebbero comples-sivamente necessarie per garantire un sostegno economico – di poco più di700 mila lire mensili medie per famiglia – a nuclei «privi di reddito ovvero conun reddito che, tenuto conto di qualsiasi emolumento a qualunque titolo per-cepito e da chiunque erogato, non sia superiore alla soglia di povertà» stabilitain L.500.000 mensili per una persona che vive sola «fatta eccezione per l’unitàimmobiliare adibita ad abitazione principale se posseduta a titolo di proprietà,il cui valore non può eccedere la soglia indicata dal comune».71

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stioni sociali e ambientali sono esplicitamente sollevate da persone coin-volte. Vi possono essere molti casi di socialità emarginata e depotenziata.Un sistema socio – sanitario partecipato rivela un’autentica vitalità quandonon solo recepisce al proprio interno la dinamicità socio – ambientale espli-cita ed espressa, ma si fa anche carico di individuare la socialità silente, afa-sica, impedita. E promuove forme organizzate perché si passi dall’emargi-nazione e afasia sociale alla partecipazione socio – ambientale».

Si tratta, in buona sostanza, di valorizzare le reti sociali esistenti sul ter-ritorio, non solo per colmare le carenze dei servizi, che vanno comunque at-tivati e potenziati, ma soprattutto per dare dignità, capacità e competenzaai cittadini nella risoluzione dei problemi. In questo senso le famiglie rap-presentano uno dei nodi fondamentali delle reti sociali primarie, da coin-volgere e valorizzare, alle quali riconoscere capacità e competenze, anchequando sono le famiglie stesse a rappresentare «un problema».

Non serve a nulla vivere le famiglie in carico ai servizi come «contropar-te». Vanno ricercate e costruite alleanze educative che consentano di far in-teragire le agenzie presenti sul territorio con le reti sociali primarie. Si devo-no offrire opportunità di formazione per gli adulti ed occasioni che permet-tano alle famiglie di crescere culturalmente, acquisire competenze rispettoai propri compiti educativi, esercitare un ruolo attivo sul territorio. Nella fa-miglia sono soprattutto le donne che si assumono l’onere della rete infor-male degli aiuti, e si trovano in molti casi a dover badare da sole ai figli in as-senza di un partner maschile.

L’area problematica alla quale appartengono queste donne è la fascia fem-minile che, per un insieme di condizioni (basso reddito, bassa scolarità, cari-co familiare, mancanza di reti di sostegno, scarsa mobilità territoriale), non èin grado di utilizzare i normali percorsi di inclusione sociale e lavorativa. Lacostituzione di gruppi di auto e mutuo aiuto tra le donne che vivono nelle mi-cro aree territoriali all’interno delle quali si generano disagio ed emarginazio-ne, può rappresentare un punto di partenza per reimpostare i rapporti tra lefamiglie e gli operatori sociali. Più in generale si tratta di delineare e realizza-re azioni di sviluppo locale in stretta partnership tra le istituzioni pubblicheed i soggetti che operano nel campo dell’economia sociale. In tale contesto, lepolitiche di mainstreaming di genere possono trovare un ambiente maggior-mente favorevole a proporre interventi a favore delle donne, nei settori dellaformazione, del lavoro, dei servizi di sostegno e di supporto; per promuoverecondizioni di uguaglianza di opportunità tra uomini e donne e favorire pro-cessi di inclusione sociale.74 Per sviluppare iniziative e pratiche tese all’em-powerment delle donne, ed al cambiamento delle loro condizioni materiali divita al di fuori dei tradizionali percorsi assistenziali – che producono croniciz-zazione del bisogno, più che sostegno all’autonomia – è necessario prestare ladovuta attenzione all’analisi – da effettuare con il coinvolgimento diretto e lapartecipazione attiva delle donne destinatarie degli interventi – della loro si-tuazione di difficoltà e dei processi di povertà in cui sono coinvolte.

«La letteratura sullo sviluppo di comunità ci ha ormai insegnato che sesi dedica sufficiente tempo ed ascolto a capire il problema, la soluzione na-sce dal rapporto che si è stabilito per capire quel problema»75. Le soluzioninon vengono dunque soltanto dalla capacità di chi analizza il problema, masoprattutto dal processo che si è costruito per risolverlo.

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Note

1. Assessorato alle politiche sociali del Comune di Modena: «Analisi e riflessioni suiprocessi di disagio, povertà e esclusione sociale presenti a Modena» – Quadernodell’Osservatorio sul disagio e le risorse sociali. Citato in «Prospettive Assistenziali»n.134 aprile giugno 2001.

2. N. Negri C. Saraceno, Le politiche contro la povertà in Italia, Il Mulino, Bologna1996, p.11.

3. ISTAT Rapporto annuale – La situazione del paese nel 1999; ISTAT Rapporto annua-le – La situazione del paese nel 2000.

4. Povertà relativa: viene definita povera una famiglia di due componenti con una spe-sa mensile per consumi inferiore o uguale a quella media di una persona nel Paese.Per famiglie di diversa ampiezza si utilizza una «scala di equivalenza». Nel 1999 lalinea di povertà risultava pari a 1 milione 492 mila lire mensili. Nel 2000 la lineastandard di povertà risulta fissata in 1 milione 569 mila lire mensili. Se una famigliadi due persone spende mensilmente un importo pari o inferiore a questa cifra vieneconsiderata relativamente povera. Povertà assoluta: determinata in base ad un panie-re che comprende una componente alimentare, una per l’abitazione ed una per sod-disfare le altre necessità. Nel 1999 la linea di povertà assoluta risultava determinatain 1 milione 29 mila lire per una famiglia di due componenti. Nel 2000 la linea dipovertà assoluta valeva 1 milione 55 mila lire.

5. E le famiglie numerose da 7,3% a 11,3 %.6. Nel Sud risiede il 63% di tutte le famiglie relativamente povere ed il 70,7% delle fa-

miglie in condizioni di povertà assoluta. L’indigenza si concentra in particolare fra inuclei numerosi e nelle famiglie con componenti anziani.

7. Su 100 famiglie povere con a capo una donna prevalgono le condizioni di «anzianesole» e «madri sole».

8. In particolare le famiglie con 5 e più componenti, specie nel Nord e nel Centro.9. Quaderni del centro di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza n. 18

Firenze Istituto degli Innocenti, gennaio 2001, p. 210.10. Legge 28 agosto 1997, n. 285 Disposizioni per la promozione di diritti e di opportu-

nità per l’infanzia e l’adolescenza.11. ISTAT – La povertà in Italia nel 1999 – FORUM Rivista di cultura e amministrazione

delle politiche sociali. N 12, Dicembre 2000, Anno VI, p. 2.12. Con percentuali di incidenza del 12% nel 1997; dell’11,8% nel 1998; dell’11,9% nel

1999.13. N. Negri, C. Saraceno, Le politiche contro la povertà in Italia, p. 255.14. N. Negri, C. Saraceno, Le politiche contro la povertà in Italia, p. 257.15. «Solidarietà Sociale: nel laboratorio del nuovo Welfare» – Presidenza del Consiglio

dei Ministri Dipartimento per gli Affari Sociali, p. 28.16. L’assegno al nucleo familiare per le famiglie numerose e monoparentali è stato ride-

terminato con lo stanziamento, per il triennio 1996 – 1998, di 1.800 miliardi. Le de-trazioni per figli a carico erano uguali a 188.874 lire per quota singola e sono stateportate a 366 mila lire per quota singola. «Solidarietà Sociale: nel laboratorio delnuovo Welfare» – Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per gli AffariSociali, p. 28.

17. Yuri Kazepov: «Povertà e assistenza economica: la tutela istituzionale dei rischi a li-vello locale in Italia» in «Assistenza sociale ed enti locali» – Archivio storico dellaCittà di Torino, p. 246.

18. Yuri Kazepov: «Povertà e assistenza economica: la tutela istituzionale dei rischi a li-vello locale in Italia» in «Assistenza sociale ed enti locali» – Archivio storico dellaCittà di Torino, p. 247.

19. Articolo 38 della Costituzione.20. Legge 8 novembre 2000, n. 328 «Legge quadro per la realizzazione del sistema inte-

grato di interventi e servizi sociali».21. Con la modifica del titolo V° della Costituzione si è stabilito (art.117) che, allo Stato,

compete la «determinazione dei livelli essenziali concernenti i diritti civili e socialiche devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». La riforma «federalista» siinnesta però in una fase di oggettiva debolezza della capacità di indirizzo del parla-mento rispetto al potere acquisito dalle regioni. Può dunque accadere che il parla-mento venga a trovarsi in una condizione di assoluta debolezza nella determinazio-

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ne dei principi e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e so-ciali.

22. L’ISTAT ha rilevato la presenza dei 30 principali servizi socio-assistenziali nei comu-ni di 20.000 abitanti e più. Anno 1997 (per 100 comuni della stessa ampiezza de-mografica) – ISTAT «Rapporto annuale – La situazione del paese nel 1999», p.472

23. A proposito degli asili nido, l’ISTAT rileva che la percentuale di bambini che li fre-quentano è tra le più basse d’Europa: solo il 6% dei bambini tra zero e due anni.

24. Legge 23 dicembre 1998, n. 448 «Disposizioni per la formazione del bilancio an-nuale e pluriennale dello Stato». Con il successivo Decreto ministeriale 15 luglio1999, n. 306 «Regolamento recante disposizioni per gli assegni per il nucleo fami-liare e di maternità, a norma degli articoli 65 e 66 della legge 23 dicembre 1998, n.448, come modificati dalla legge 17 maggio 1999, n. 144» si è avviata la concessio-ne da parte dei comuni di assegni, che rientrano nelle categorie delle provvidenzeeconomiche di tipo assistenziale: dove il primo è una misura di contrasto della po-vertà volta ad aiutare le famiglie numerose nelle quali vi siano tre figli minorenni (200mila lire per 13 mensilità per redditi sino a 36 milioni per nuclei con 5 componenti)e l’altro è una misura di integrazione del reddito, volta ad aiutare le madri che nonhanno copertura previdenziale per affrontare l’evento della nascita (1.500.000 lireper redditi sino a 50 milioni per nuclei di tre componenti).

25. Decreto Legislativo 18 giugno 1998, n. 237 «Disciplina dell’introduzione in via spe-rimentale, in talune aree, dell’istituto del reddito minimo di inserimento, a norma del-l’articolo 59, commi 47 e 48, della legge 27 dicembre 1997, n. 449». Il R.M.I è unamisura assistenziale rivolta a chi si trova in condizioni di povertà e cioè ha un reddi-to inferiore alle 500 mila lire mensili in caso di persona sola, o reddito equivalentein caso di famiglie di due persone o più. Nella fase sperimentale, è rivolto a coloroche sono esclusi dalle misure di sostegno al reddito previste a livello nazionale: peranziani poveri (che fruiscono di pensione sociale) e disabili poveri (che fruiscono diindennità civile), salvo che essi non vivano in una famiglia che, nonostante la pre-senza di queste misure, ha complessivamente un reddito inferiore a quello previstodal D.Lgs.237/98. Di fatto il R.M.I si rivolge ad adulti in età da lavoro, senza handi-cap psicofisici gravi, e alle loro famiglie, in particolare ai loro figli minori.

26. Quaderni del centro di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza n. 18,Firenze, Istituto degli Innocenti, gennaio 2001, p. 213.

27. Regione Piemonte «I Numeri dell’assistenza in Piemonte – i servizi sociali territoria-li». I dati sono riferiti a 54 soggetti gestori su 61.

28. Legge Regionale 13 aprile 1995, n. 62 «Norme per l’esercizio delle funzioni socio-assistenziali». In Piemonte l’attività socio-assistenziale di sostegno al nucleo familia-re o finalizzata alla sostituzione, anche temporanea, dello stesso viene organizzatanelle seguenti prestazioni: assistenza alle persone disabili; affidamenti presso fami-glie, persone singole o comunità di tipo familiare; interventi per minori nell’ambitodei rapporti con l’autorità giudiziaria; inserimenti in centri diurni ed in presidi socio-assistenziali.

29. Di cui 439 per competenze assistenziali della Provincia di Torino.30. Vengono utilizzati i dati – riferiti all’anno 1998 – relativi agli interventi rivolti a mi-

nori residenti nei territori dei 21 soggetti gestori (esclusa Torino Città) che operano inconvenzione con la Provincia di Torino per la gestione delle funzioni assistenziali dicompetenza provinciale (assistenza ai minori figli di ignoti, abbandonati o esposti al-l’abbandono; assistenza integrativa di quella esercitata dai comuni rivolta ai minoriillegittimi in situazione di abbandono morale o materiale o di povertà; gestanti e ma-dri in situazione di povertà o di grave maltrattamento).

31. Nicoletta Bosco: «Il caso Torino: percorsi nell’assistenza e carriere degli assistiti» in«Assistenza sociale ed enti locali» – Archivio storico della Città di Torino, p. 259.

32. Nicoletta Bosco: «Il caso Torino: percorsi nell’assistenza e carriere degli assistiti» in«Assistenza sociale ed enti locali» – Archivio storico della Città di Torino, p. 260.

33. Nella parte seguente si sono utilizzate le «Relazioni di consuntivo anno 2000» di al-cuni dei principali Enti socio – assistenziali che gestiscono i servizi nell’area dellaprovincia di Torino.

34. C.I.S.A.P – «Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spe-se sostenute – anno 2000», giugno 2001.

35. Nel presente testo si parla perlopiù di minori, termine con il quale i servizi sociali co-dificano la fascia di popolazione assistita compresa tra O e 17 anni. È evidente chenon c’è perfetta sovrapposizione fra «minori» e «bambini», e che sarebbe interessan-

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te disaggregare i dati. Purtroppo solo il CISAP fornisce una suddivisione delle fasced’età che consente di quantificare i bambini in carico. La sensazione è comunqueche le percentuali rilevate dal consorzio di Grugliasco e Collegno valgano anche peril complesso dei servizi attivi nell’area della provincia di Torino.

36. C.I.DI.S, «Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sui costi so-stenuti, anno 2000», maggio 2001.

37. C.I.S, «Relazione di consuntivo anno 2000», giugno 2001.38. Dato regionale 1998.39. C.I.S, «Relazione di consuntivo anno 2000», giugno 2001, p. 19.40. C.I.S.S.P, «Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sui costi so-

stenuti, anno 2000».41. C.I.S.S.P, «Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sui costi so-

stenuti, anno 2000», p. 23.42. C.I.S.A 12, «Relazione consuntivo anno 2000».43. È significativo che le esenzioni per reddito praticate dal Servizio Sanitario presup-

pongano la condizione di lavoratore o quantomeno di ex lavoratore. Sono infattiesentati i minori in età 0 – 6 anni e gli anziani ultra 65 anni appartenenti a famigliecon reddito lordo non superiore a L.70 milioni; gli adulti di età compresa tra 60 e 65anni al minimo contributivo pensionistico; i disoccupati – iscritti al collocamento inattesa di seconda occupazione per aver perso un precedente lavoro dipendente – conreddito lordo familiare di L. 16 milioni (22 milioni per due componenti e 1 milionein più per ogni ulteriore persona a carico). Sono inoltre esentati i lavoratori per infor-tunio INAIL. L’esenzione «per indigenza» a coloro che non sono compresi nella ca-sistica prevista viene lasciata ai comuni che, con propri fondi, rimborsano alle ASL lespese sostenute dai propri cittadini in condizioni di disagio economico.

44. C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spesesostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 29.

45. C.I.S, Relazione di consuntivo, anno 2000, giugno 2001, p. 18.46. C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese

sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 28.47. C.I.S, Relazione di consuntivo anno 2000, giugno 2001, p. 18.48. C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese

sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 29.49. C.I.S, Relazione di consuntivo anno 2000, giugno 2001, p. 18.50. C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese

sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 30.51. C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese

sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 30.52. C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese

sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 31.53. Il rischio familiare e la tutela del bambino, a cura di Ernesto Caffo – Guerini e asso-

ciati pp. 276, 277.54. C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese

sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 32.55. C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese

sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 32.56. Nella relazione di consuntivo del C.I.S si registra, come dato positivo rilevato nel

2000: «un maggiore afflusso spontaneo di genitori con richieste di sostegno nei rap-porti interpersonali e di consulenza». C.I.S, «Relazione di consuntivo anno 2000»giugno 2001, p. 19.

57. C.I.DI.S, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sui costi so-stenuti, anno 2000, maggio 2001» p. 36.

58. C.I.S.A.P, Progetto punto in comune, reperibile sul sito www.cisap.to.it in Progettisperimentali.

59. «Il ricorso a contributi straordinari è stato determinato dalle difficoltà che molte fa-miglie, anche in presenza di un reddito, hanno lamentato nell’affrontare le spese con-nesse all’abitazione (affitto e riscaldamento) oltre che per utenze varie. Situazioni de-bitorie, anche considerevoli, sono state presenti nel 50% almeno dei nuclei assistiti.»C.I.S. Relazione di consuntivo 2000, giugno 2000, p. 28.

60. Alle molte persone in difficoltà economica – ma che non rientrano nei criteri d’ac-cesso alle prestazioni economiche deliberati a livello locale, – si risponde, in gene-

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re, segnalando il caso ad associazioni caritative e agli enti competenti a concedereesenzioni, agevolazioni o contributi.

61. Legge 9 dicembre 1998, n. 431 «Disciplina delle locazioni e del rilascio degli im-mobili adibiti ad uso abitativo».

62. Legge 23 dicembre 1998, n. 449 «Disposizioni per la formazione del bilancio an-nuale e pluriennale dello Stato».

63. Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 109 «Definizione di criteri unificati di valuta-zione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni sociali age-volate a norma dell’articolo 59, comma 51, della legge 27 dicembre 1997, n. 449»

64. Quota anno 1999. Gli importi degli assegni e dei requisiti economici di cui agli arti-coli 65 e 66 della legge sono rivalutati annualmente sulla base dell’indice ISTAT deiprezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati.

65. C.I.S. «Relazione di consuntivo 2000», giugno 2000, p. 26.66. D. Lgs. n. 237/98 «Disciplina dell’introduzione in via sperimentale, in talune aree,

dell’istituto del reddito minimo di inserimento, a norma dell’articolo 59, commi 47 e48, della legge 27 dicembre 1997, n. 449».

67. In Piemonte è stato individuata come area di sperimentazione il Comune di Niche-lino.

68. La spesa assistenziale delle Regioni e delle Province autonome è stata quantificata,nel 2000, in 184 mila lire medie pro – capite per abitante: si va dalle 977 mila liredella Valle d’Aosta alle 18 mila della Puglia. Il Piemonte è attestato a 52 mila lire pro– capite per abitante. Fonte: Elaborazione Osservatorio Spi – Cgil su dati Istituto stu-di sulle regioni.

69. Robert Solow, citato in Workfare – Ricetta Usa, sostituire il sussidio di assistenza conil lavoro salariato di Luigi Cavallaro, Il Manifesto, 1 luglio 2001, p. 12.

70. Con «persona di riferimento» si intende il percettore/intestatario dell’assegno relativoal nucleo di appartenenza.

71. D.Lgs. n. 237/1998 articolo 6 «Accesso al reddito minimo di inserimento».72. La dottrina della sussidiarietà è fondata sul principio: «che le autorità pubbliche de-

vono essere coinvolte nella fornitura di servizio solo quando siano completamenteesaurite le capacità e le risorse che permettono alla famiglia, alla comunità e alle or-ganizzazioni primarie di assistere i propri membri. L’ideale di questa dottrina consi-ste in un welfare ad organizzazione privata ma a finanziamento pubblico. La sussi-diarietà attribuisce maggiore importanza agli obblighi ed ai doveri della persona chenon ai diritti del cittadino» (Annueli Anttonen e Jorma Spilia: I modelli di servizi so-ciali in Europa, in I servizi sociali in Europa, a cura di C.Gori, Carocci editore inRoma 2001, p. 30).

73. Gabriele Righetto: Per un approccio ecosistemico al welfare, in «Studi Zancan –Politiche e servizi alle persone», Gennaio/Febbraio N°1, 2001, p. 100.

74. Inchieste & Richieste – Ricerca azione sui nuovi bisogni della popolazione femmini-le, Progetto di ricerca elaborato da Cisap, Comune di Collegno, Comune diGrugliasco, Commissione pari opportunità della Provincia di Torino, Arcst LegaCoop, Arci Valle Susa, Coop. Sociale Atypica.

75. Eleonora Artesio, Collegno Underground – Atti del convegno sui progetti giovani del9.03.2001, p. 16.

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L’ESPERIENZA DELLA MALATTIA

3.1 Non c’è fatalità

Nella letteratura medica contemporanea è scomparso il termine fatalità,che fino a 50 anni fa tendeva a giustificare sofferenze incurabili con conse-guenti morti. Un secolo, appena trascorso, centrato sulla ricerca e speri-mentazione, sul pensiero positivo, ha sottratto alla natura molti dei suoi se-greti, facendo emergere l’effetto terapeutico rafforzato dall’uso della tecno-logia appropriata. Di conseguenza la qualità e la durata della vita sono dimolto cresciute. Ricorda l’Organizzazione Mondiale della Sanità che «la sa-lute non è solo assenza di malattia, ma uno stato di completo benessere fi-sico, sociale e mentale». Purtroppo sovente l’approccio al problema è par-ziale e ciò cancella la necessaria relazione tra le funzioni, la sinergia che l’or-ganicità produce, con effetti curativi o devastanti a seconda della qualità edello stile dell’intervento.

La risoluzione del problema diviene più complessa quando ad esseremalato è un bambino. Sono trascorsi più di cinquant’anni da quando il pe-diatra inglese James Robertson, con il suo libro «Bambini in ospedale», ri-chiamava l’attenzione dell’opinione pubblica sui disturbi comportamenta-li, nei bambini, indotti dalla degenza in ospedale. Nei passati anni Cin-quanta il ricovero causava la separazione dai genitori e l’allontanamento dalterritorio domestico. L’indagine e le considerazioni suscitarono vivo interes-se in tutta Europa, e furono seguite da ulteriori studi volti a cogliere il disa-gio vissuto dal bambino malato e la disperazione negli atti del bambino, in-terpretati precedentemente dai medici come una manifestazione di sere-nità. L’apatia del bambino era in realtà una forma di estrema protesta con-tro la violenza subita ed incompresa dall’istituzione ospedaliera. La dimen-sione dell’ascolto, e non solo nell’intervento medico, richiedeva, e richiede,il recupero del significato etimologico dell’aver cura invece del semplice cu-rare e, nell’accezione sociale della salute, aver chiaro cosa dovesse intender-si parlando di medicina per la comunità.

Dal momento in cui Robertson pubblicò il suo libro, trascorrono moltianni senza che i paesi europei abbiano prodotto leggi e riforme strutturaliconformi a quanto indicato dal pediatra inglese. Nel 1986 il Parlamento eu-ropeo redige la Carta europea dei bambini ricoverati in ospedale, e l’annosuccessivo viene organizzato a Leida, in Olanda, a cura di associazioni di vo-lontariato, il primo convegno su tale argomento con l’obiettivo di definire isettori d’intervento che prioritariamente potessero creare benessere albambino. La «Carta di Leida» indica i settori nei quali operare interventi uti-li a prevenire e ridurre il trauma e afferma che elementi importanti sono lapresenza dei genitori, la preparazione al ricovero, il gioco, anche in ospedale,l’ambiente.

Da allora molto è stato realizzato affinchè la malattia non venga vissuta

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solo come un trauma, ma anche come occasione di apprendimento e ma-turazione. La Regione Piemonte anticipò le richieste della Carta di Leida, enel 1980 con la Legge n. 18 dettò norme per la tutela psico-affettiva dei bam-bini ospedalizzati. In particolare, riconobbe ai genitori il diritto a poter «as-sistere» con continuità, e non più solo nel corso delle visite, il figlio degente,soprattutto se di età inferiore a sei anni. La circolare inviata all’epoca ai pre-sidi pediatrici richiamò l’importanza di concorrere al mantenimento dell’e-quilibrio e del benessere psico – fisico del bambino, garantendo, sia nellemodalità organizzative di degenza, sia nell’attuazione degli interventi dia-gnostico – terapeutici, il rispetto del bambino nella sue esigenze affettive,cognitive ed espressive. Raccomandò che i medici favorissero la presenzadei genitori dei piccoli degenti e realizzassero una informazione corretta,fruibile e non burocratica. A seguito di tali raccomandazioni ai genitori fuconsentita la presenza continuativa nei reparti, esclusi quelli in cui era pre-sente il rischio di contagio.

La Regione Piemonte raccomandò ai presidi ospedalieri che si proce-desse a riforme strutturali onde rendere operativa la presenza e la collabo-razione dei genitori nelle cure rivolte ai figli. Non vennero affrontati temiquali la formazione e la sensibilizzazione del personale ospedaliero, medicoe non, alle problematiche psicologiche del degente e della famiglia.

I medici, in assenza di una formazione di base al colloquio ed alla co-municazione, si trovano disorientati per la presenza in ospedale dei «nonaddetti ai lavori», portatori di ansie e di richieste. Vivono in sostanza unasorta di conflitto interiore, tra l’adesione razionale al principio della terapiapartecipata e l’abitudine inveterata ad operare in completa autonomia e re-sponsabilità. Una assistenza al bambino di tipo nuovo deve sempre più te-ner conto del valore della comunicazione, che, nel caso specifico, non puòessere asettica ma coinvolgente.

I ventidue anni trascorsi dall’emanazione della legge regionale permet-tono un consuntivo e rinforzano la convinzione che è possibile ed auspica-bile, in molti casi, un approccio non traumatico all’evento patologico quan-do coinvolge bambini. Tra la fatalità, di cui parlavamo all’inizio, e la presun-zione di onnipotenza, deve e può esistere una terza modalità d’incontro,una sorta di «riduzione del danno».

Il ricorso alle cure ospedaliere

L’insorgere della malattia nel bambino produce disagio nell’intera fami-glia, che oltre alla generale preoccupazione, deve affrontare problemi d’or-dine pratico che determinano stati di ansia e difficoltà operative. Il primointervento consiste nel «chiamare il medico»; ma non sempre ciò è possibi-le perché non è più il momento per effettuare la visita domiciliare, o è pas-sata l’ora, o è sabato o domenica o l’ambulatorio è chiuso… Telefonare adun pediatra privato è un’alternativa possibile, soltanto se si dispone deimezzi economici per far fronte alla parcella, sovente onerosa.

La soluzione più semplice ed accessibile è far ricorso alla cure dell’ospe-dale. Si avvolge il piccolo in una coperta e via verso il Pronto Soccorso. Manessuna soluzione è facile e per comprendere meglio la complessità del fe-60

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nomeno, esorcizzata, a volte, da semplificazione istituzionale, si cercherà ditracciare un percorso: una sorta di Via dolorosa, con le sue stazioni rituali, eirradiazioni microsociali.

L’ospedale è una realtà con un nome ed un indirizzo, ed ha una funzio-ne definita. Nell’immaginario dei pazienti e di coloro che ad esso fanno ri-corso, vi è la certezza che la domanda di cura verrà accolta in qualsiasi mo-mento essa sia posta, e che l’intervento diagnostico e terapeutico sarà rapi-do ed efficace.

Le fantasie di fiducia elaborate nei genitori che conducono il bambino inospedale producono sollievo e riducono l’ansia presente nell’ambito fami-liare, la quale proietta sensi di colpa, e impotenza, a fronte di un avveni-mento che coglie tutti di sorpresa, ed intacca il bisogno di tranquillità e disviluppo senza ostacoli. Persino il bambino, al centro di queste scariche in-controllate, può provare sensi di colpa, trasformando, così, il dolore in ma-le, realtà estranea che occupa un corpo non suo.

Da indagini recenti emerge che solo il 12% dei bambini dopo la visita me-dica al Pronto Soccorso viene ricoverato. La domanda che ci poniamo è per-ché l’88% di bambini viene condotto in ospedale, senza che oggettivamenteemerga un reale bisogno. Varie possono essere le risposte. La scarsa educa-zione alla salute, intesa come benessere complessivo e non solo come assen-za di malattia, induce i cittadini ad una dipendenza quasi «magica» dall’isti-tuzione, che ha i mezzi per ristabilire la salute; la perdita di un approccio aldolore di tipo olistico, caratteristico delle generazioni contadine passate, che,al di là dell’efficacia oggettiva, conteneva la sofferenza con il gesto e con il di-re, si traduce in un orfanaggio, nel bisogno di una nuova «tata» rassicurante,l’ospedale; l’incapacità di modulare il dolore e di darne un senso, per cui siintende la cura come «negoziazione» della sofferenza (che si trasforma inmale) spinge ad una rapida soluzione, ad un «soccorso pronto».

Secondo questa lettura, il pagamento del ticket, per le prestazioni dipronto soccorso erogate senza che ce ne sia urgenza, pur previsto nella re-cente legge dello Stato, non modificherà il comportamento dei genitori.

Giunti in ospedale, i genitori ed il bambino hanno l’impressione che iltempo si fermi, inoltre si è immessi in un’atmosfera generalmente morbosaed il disagio aumenta. Il sistema triage, attivo quasi ovunque, ha miglioratola qualità dell’attesa, in quanto il bambino è visitato per ordine di gravità enon di arrivo, ma poco si concilia con le aspettative dei genitori. L’ansia im-pedisce l’insorgere di atteggiamenti solidali, per cui i pazienti si guardano, siosservano, senza riuscire a condividere nulla. L’accoglienza è lenta e caren-te e non vede quasi mai gli operatori sanitari in un ruolo attivo. I genitoripresenti, risorsa potenzialmente preziosa, finiscono col trasformarsi in am-plificatori di sentimenti negativi, che coinvolgono, volente o nolente, ancheil bambino.

L’ingresso del bambino in reparto è il momento in cui ha inizio l’espe-rienza più difficile, sia per il bambino che per la sua famiglia. Un luogo chenon si conosce ingoia il malato e gli fa sperimentare una sorta di spaesa-mento. Al dolore fisico si aggiungono la perdita delle abituali coordinatespazio-temporali, l’impossibilità d’essere attivo in un ambiente conosciuto,la presenza di figure sconosciute, a volte vissute come minacciose, la modi-ficazione dei ritmi di sonno e veglia, che devono adattarsi ai ritmi ed alle esi- 61

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genze dell’istituzione (prelievi, misurazione della temperatura, visite deimedici…).

Il fenomeno dello sradicamento, dello spaesamento, è ben noto a tutticoloro che hanno a che fare con l’infanzia (e non solo). Psicologi, sociologied educatori ne hanno esaminato le manifestazioni patologiche ed hannoproposto interventi. Non essere a proprio agio in un ambiente dato, signifi-ca sentirsi «straniero sulla Terra», in balìa degli eventi più diversi, quasi sem-pre negativi. Il bambino, se ne ha la capacità reagisce, cercando di rico-struirsi un angolo di intimità e continuità con il mondo domestico. Non ra-ra è la richiesta del degente di portare con sé un oggetto, che costituisca unasorta di legame con la casa-nido e con il mondo affettivo traumatizzato.

La risposta varia a seconda delle diverse età del bambino. Nella primis-sima infanzia, il disagio causato dalla sofferenza fisica è acuito dalla pre-senza di figure estranee al suo mondo abituale, che riusciva a decodificaree a controllare. Fantasie di aggressione e di lesione possono essere alimen-tate dal dolore e dalla paura. Intorno ai tre anni, il bambino ha una mag-giore consapevolezza del proprio corpo, ed è più preoccupato dalla perditadella integrità fisica. L’incapacità, connessa alla malattia, d’essere sempreall’altezza della situazione gli fa introiettare il senso del limite, vissuto, so-vente, come abbassamento del livello di autostima. Crescendo, accade chericordi meglio e con più intensità le esperienze spiacevoli, specialmentenei casi di cronicità. La causa della malattia gli resta sconosciuta e le curemediche inspiegabili. Può colpevolizzarsi, sentendosi responsabile dellacondizione morbosa.

Nella fase dello sviluppo, che da noi coincide con la scolarizzazione, equindi con il confronto tra pari, può avvenire che il bambino malato si mi-suri con il coetaneo sano. Se la malattia è stata transitoria, e occasione perricevere tenerezze supplementari e doni dagli adulti, verrà esibita come tro-feo; se, invece, è cronica, lo metterà in condizione di verificare e conferma-re la propria diversità.

Il vissuto dei genitori

Ai genitori, con la malattia del figlio, toccano risposte nuove rispetto aquelle abituali. È il momento in cui il pensiero subisce un’accellerazione: cisi interroga sulla scelta del medico e dell’ospedale, sul perché non ci si eraaccorti prima del malessere del bambino, sentendosi per questo in colpa. Cisi interroga sulla scelta del medico e dell’ospedale. Ci si domanda se nonfosse possibile prevenire, o prevedere, l’evento o se, per caso, non siano sta-ti proprio loro, genitori, a determinarlo. Quesiti senza soluzioni soddisfa-centi, che si aggiungono ad altre difficoltà d’ordine organizzativo, complica-no l’esistenza e creano una sorta di nebbia attorno al gruppo.

La malattia del bambino produce un effetto analogo a quello d’una pie-tra gettata in uno stagno. La quiete dell’acqua si frantuma, e intorno alla pie-tra si formano cerchi concentrici, che aumentano in rapporto al volume del-l’oggetto caduto. Ambiti diversi vengono sconvolti dalla malattia, e la rea-zione del nucleo familiare dipende dal reddito, dalla cultura, dal numero deicomponenti, dalla provenienza geografica della famiglia.62

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I primi interventi riguardano l’organizzazione della quotidianità. Oc-corre consentire ad almeno uno dei genitori, di solito la madre, di accudireil figlio e di assisterlo per la durata della degenza se ospedalizzato. Nonsempre ciò è facile, perché il lavoro e eventualmente gli altri figli presenta-no difficoltà. L’esigenza assistenziale, unita alle apprensioni per la malattia,assumono proporzioni così ampie da ridurre la capacità dei genitori di ras-sicurare e intrattenere il figlio. Nel corso della degenza, finiscono col diven-tare l’ombra degli adulti che solitamente sono, a discapito della relazionecon il bimbo e con il personale medico. Si manifestano comportamenti reat-tivi all’ambiente: le lamentele proliferano e, se non prese in considerazione,diventano una insormontabile barriera, suscitata anche dall’incomprensio-ne delle procedure dell’ospedale e delle prescrizioni terapeutiche.

Se, nonostante le difficoltà, la degenza è stata lunga, l’annuncio delle di-missioni produce uno stato di ansia da insicurezza. Per il bambino si ap-prossima una nuova separazione e la faticosa ma fruttuosa compensazioneoperata nel reparto di degenza (nuovi amici piccoli e grandi, nuovi giochi,nuovi oggetti entrati a far parte del suo mondo intimo) si dilegua. Il ricordoe il desiderio della casa sono forti ma lontani, l’esperienza ospedaliera na-sce dalla sofferenza ma è prossima. Sia l’entrata che l’uscita dall’ospedale ri-chiedono un sostegno adeguato. Il passaggio repentino da un mondo all’al-tro produce una sensazione di «vertigine».

Quando il bambino viene dimesso dall’ospedale, il responsabile dellesue cure scrive una «lettera di dimissione» nella quale descrive le cure prati-cate, i risultati ottenuti e le terapie che eventualmente si dovranno seguire.Se tale «lettera» è spiegata ai genitori, da essi compresa, diviene una sorta disalvacondotto, di rassicurazione, quasi dicesse «la società ti vuole bene enon ti abbandona, l’ospedale rappresenta il suo intervento benefico; ora sa-rai affidato ad altre persone valide che di te avranno cura».

Se la malattia è cronica

La condizione di malattia cronica richiede un approfondimento specifi-co, in quanto non solo è caratterizzata da una durata che va ben oltre l’in-tervento episodico, ma produce cambiamenti strutturali nella realtà com-plessiva della vita del bambino e dei suoi genitori.

La prima cosa che si modifica è la percezione del tempo che scorre: cam-biano i sentimenti di appartenenza, il rapporto con il desiderio, la voglia diprogettualità. Per conto suo, il bambino colpito da malattia cronica vedemutare intorno a sé la rete familiare da cui si sentiva sostenuto nella sua cre-scita. I suoi genitori, dopo lo stress causato dalla diagnosi, devono cambia-re gli stili di vita e ciò influisce sui rapporti interni alla famiglia. Devono ac-compagnare il bambino nel percorso di cura, e le difficoltà che si presenta-no sono tante. Gli obblighi sociali aumentano, si trasformano in rigidità; idiritti sembrano scemare progressivamente. Incertezze e dubbi sulle coseda fare contribuiscono al disorientamento ed al senso di inadeguatezza. Piùla malattia è grave, più i genitori vivono in isolamento, che viene accentua-to al rientro dall’ospedale.

I parenti e gli amici sembrano non saper più trovare il consueto linguag- 63

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gio affettivo. Occorre misurarsi con la nuova organizzazione familiare, ove lacoppia fa fatica a riconoscersi, poiché la necessaria ridistribuzione dei ruo-li determina sentimenti di estraneità, già sollecitati da sensi di colpa più omeno consci; le attenzioni terapeutiche, che in ospedale sembravano cosìsemplici da soddisfare, diventano gravose («ho imparato, ma ora ho pauradi fare»). Muta il rapporto con l’ospedale, in assenza di un sostegno domici-liare: il legame con la struttura assume significati diversi, che inducono di-pendenza, oppure isolamento e senso di abbandono.

Contemporaneamente vi sono genitori che ritengono, pur non avendocompetenza, di accostarsi a scelte terapeutiche alternative. Sembra loro cheogni decisione relativa alla salute dei bambini sia legittima e, dopo aver rac-colto informazioni da fonti diversificate, iniziano il «consumismo sanita-rio». I «viaggi della speranza» hanno costi emozionali ed economici elevatie, se la famiglia non ha strumenti culturali od economici adeguati, viene adaccentuarsi lo stato di disorientamento iniziale.

Dalla focalizzazione della famiglia sul bambino malato emerge il rischiodella desertificazione dei rapporti. Anche il dialogo della coppia diviene mo-notematico, e si indebolisce il rapporto di intimità che teneva uniti. Il bambi-no malato rischia di finire al centro di una ragnatela di rapporti, dove è debo-le il principio di reciprocità, sovrastato dalla condizione dell’obbligo che i ge-nitori stanno vivendo: acquisire un nuovo linguaggio, per poter usufruire delvocabolario richiesto dal percorso di cura; svolgere funzioni tipicamente in-fermieristiche; rassicurare il bambino; accogliere gli eventuali altri figli, chesembrano non capire o capire troppo; rispondere alle richieste del datore dilavoro, che non può dare il denaro a chi non c’è; trovare le risorse economicheche sembrano non bastare mai, sebbene rese necessarie da una giusta causa.

A completare il quadro, c’è un infelice incontro con la burocrazia delleistituzioni che, a fronte di necessità di medicamenti, ausili o altro, sembranon essere in grado di rispondere in modo soddisfacente.

3.2 ASO e ASL: la rete dei servizi sanitari

Nell’arco di pochi anni i cambiamenti in atto nel Servizio SanitarioNazionale hanno costretto gli utenti ad appropriarsi di termini nuovi: SAUB,USL, ASL ed ASO. Nel linguaggio più comune molti continuano a parlaretuttavia di «Mutua», termine che è rimasto nella memoria, a indicare un ser-vizio di scarsa qualità. Dal canto suo l’ospedale, nell’immaginario collettivo,continua ad essere visto come una struttura forte, protettiva, alla quale, incaso di bisogno, si può senza attese fare ricorso.

La rete ospedaliera non è una realtà sé stante, ma integrata nell’insiemedei servizi. In sede locale, il Distretto Sanitario si pone come interprete deibisogni della popolazione e come mediatore fra i diversi attori coinvolti nel-l’erogazione, evitando frammentazioni, duplicazioni, separatezze nell’ero-gazione delle cure.

Gli obiettivi complessivi sono la definizione di un ventaglio flessibile di64

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diverse soluzioni fra cui scegliere, e la personalizzazione della risposta, nonsolo in termini qualitativi e di soddisfazione dell’utenza, ma anche in fun-zione dell’efficacia e dell’economicità.

Assistenza Distrettuale

Per quel che concerne l’organizzazione dei servizi rivolti all’infanzia,possiamo individuare due reti: una dell’assistenza distrettuale ed una del-l’assistenza ospedaliera.

L’Assistenza Distrettuale, che comprende la medicina di base, l’assisten-za farmaceutica, l’assistenza specialistica ambulatoriale e di territorio, è labranca dei servizi più vicina, non solo come ubicazione, ai bisogni degliutenti ed è il tramite più facile per l’ accesso ai servizi.

È nell’Assistenza Distrettuale che si colloca il Dipartimento Materno In-fantile, struttura operativa aziendale, che collega ed integra funzionalmen-te i servizi territoriali ed ospedalieri rivolti alla tutela materno-infantile. IlDipartimento ha come obiettivo il miglioramento degli interventi di educa-zione sanitaria, di prevenzione, di diagnosi, di cura e riabilitazione dei bam-bini, attraverso l’unitarietà, l’interdisciplinarietà e la continuità delle pre-stazioni. Nel Dipartimento confluiscono, a livello territoriale, le unità ope-rative che hanno competenza nel settore dell’infanzia:

❖ la pediatria di comunità ed il consultorio pediatrico;❖ la pediatria di base;❖ l’unità operativa di N.P.I. (neuropsichiatria infantile);❖ i servizi di riabilitazione dell’età evolutiva;❖ l’A.D.I.(assistenza domiciliare integrata);❖ l’Assistenza Infermieristica Domiciliare.Si realizza una rete operativa che, nel rispondere a bisogni complessi, de-

ve interagire ed integrarsi con i servizi afferenti all’area socio-assistenziale.Sul piano organizzativo il modello non presenta lacune, eppure continua adessere carente la risposta ai bisogni di cura dei bambini. Si avverte la man-canza di una «cerniera», che metta in moto un sistema flessibile all’internodel Dipartimento, in grado di orientare le risorse che il territorio esprime. IlPiano Sanitario Regionale individua tale cerniera nella Pediatria di Comunitàe ne indica le funzioni ed il significato nelle linee guida applicative. Per la suaimportanza rispetto alla prevenzione ed alla accoglienza del disagio infanti-le conseguente a malattia, si riportano stralci (dalle linee guida regionali),mentre per le altre unità operative se ne riassumono brevemente le funzioni.

La Pediatria di Comunità

Il PSR individua nella Pediatria di Comunità uno degli strumenti neces-sari a perseguire gli obiettivi relativi alla tutela della salute materno-infanti-le. Alla base di questa scelta vi è l’esigenza di affrontare la salute del bambi-no oltre che con un approccio individuale, quale può essere fornito dalla pe-diatria di base ed ospedaliera, da un «approccio di popolazione», che consi-deri i bambini e le famiglie nella comunità e nel contesto sociale, che rac- 65

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colga, interpreti e trasmetta dati al singolo operatore e ai centri epidemiolo-gici e decisionali dei vari livelli, che identifichi gruppi ad elevato rischio ocon bisogni speciali e ne affronti i problemi. Dagli studi epidemiologici ap-pare sempre più evidente come la salute del bambino sia condizionata dafattori molteplici ed assai diversi e, come fra questi, divengano via via più ri-levanti quelli psicosociali. Pertanto è necessario garantire interventi interdi-sciplinari che oltre a concorrere all’integrazione assicurata dal DMI, di cui laPediatria di Comunità fa parte, assicurino il collegamento con gli altri Di-partimenti territoriali e con le Agenzie esterne all’Azienda (scuole, assisten-za sociale ecc.).

La Pediatria di Comunità dovrà quindi svolgere una funzione di cernie-ra, ma anche integrare le attività dei pediatri di famiglia ove questi non co-prono ancora tutta la popolazione pediatrica (aree disagiate ed età adole-scenziale). Essa si caratterizza per un’offerta attiva nei confronti di quelle fa-sce sociale ove si annidano i bisogni di salute più rilevanti, incapaci, per li-miti culturali e sociali, di utilizzare autonomamente i servizi. La Pediatria diComunità dovrà avvalersi dell’apporto di personale medico, infermieristicoed amministrativo, che in buona parte è già disponibile in servizi attual-mente non integrati (consultori, medicina scolastica, operatori dei nidi,ecc.) (….omissis….).

Le funzioni della Pediatria di Comunità sono di concorrere a realizzare:❖ controlli di salute periodici estesi a tutta la popolazione da 0 a 14 anni;❖ promozione del benessere dei bambini con malattie croniche e disa-

bilità, oppure in situazioni di disagio psico-sociale;❖ controllo delle malattie infettive e parassitarie;❖ educazione sanitaria collettiva.Nello spirito della 285 «Disposizioni per la promozione di diritti e di op-

portunità per l’infanzia e l’adolescenza» la pediatria di comunità deve rap-presentare l’anello di collegamento della politica sanitaria pediatrica localecon le altre politiche locali coinvolte.

In questa prospettiva nell’ambito del triennio di validità del piano, gliobiettivi da realizzare sono:

a) Controlli di salute (bilanci di salute e screening) (….omissis…)b) Vaccinazioni (…omissis…)c) Integrazione dell’assistenza al malato cronico.Essendo i bisogni dei bambini con malattie croniche non soltanto di na-

tura medico-specialistica, ma anche di tipo sociale, educativo, riabilitativo,psicologico, economico, di accompagnamento e trasporto, la Pediatria diComunità deve:

❖ elaborare un sistema di monitoraggio dei bisogni, espressi e nonespressi, delle risorse dell’Azienda e del territorio;

❖ attivare ed aggiornare il registro delle malattie croniche infantili, pre-vedendone il collegamento con il Progetto ALI di cui alla D.R.G. n°25-23435 del 15.12.97;

❖ essere di supporto e stimolo ai pediatri di base nella creazione dellarete assistenziale (centro ospedaliero, neuropsichiatria infantile, ser-vizi sociali, scuola, enti vari, associazioni di volontariato) che garan-tisca al proprio assistito la soddisfazione dei bisogni, la garanzia deidiritti e l’integrazione dei vari interventi. (….omissis…)»66

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L’unità operativa di Neuropsichiatria Infantile

L’unità operativa di NPI svolge attività di prevenzione, diagnosi, cura eriabilitazione della patologia neuropsichiatrica del bambino e dell’adole-scente. A livello territoriale garantisce:

❖ prestazioni specialistiche neurologiche e psichiatriche;❖ la presa in carico precoce del bambino con disabilità fisica, psichica,

sensoriale e della sua famiglia;❖ la presa in carico della psicopatologia dell’adolescenza;❖ la collaborazione per l’inserimento scolastico dei disabili;❖ la collaborazione per l’inserimento lavorativo o socializzante del di-

sabile;❖ l’attività di tutela dei minori abusati, deprivati, allontanati da casa

con provvedimenti giudiziari;❖ l’attività riguardante l’affidamento familiare e le adozioni;❖ l’attività di abilitazione-riabilitazione della neuropsicomotricità, del

linguaggio e della comunicazione.L’Équipe di N.P.I. presente in 70 distretti, collabora con i Centri di Ria-

bilitazione psico-motoria e, per più competenze, opera in stretto contattocon il Servizio Sociale e l’Autorità Giudiziaria.

Il ventaglio di attività copre dai bisogni propriamente clinici fino a quel-li di carattere psico – sociale. Sarebbe necessario un maggiore investimento,in termini di attenzione e di strutture, in modo che il servizio possa real-mente soddisfare la composita domanda di cura.

I Consultori Pediatrici

I consultori pediatrici costituiscono, per storia e competenza, una risor-sa preziosa per la gestione della salute del bambino, poiché soddisfano il bi-sogno diffuso di molte madri di esprimere inquietudini legate all’alleva-mento del neonato, ma non ancora sufficientemente chiare da essere por-tate al medico di famiglia od ad un medico specialista. La loro competenzarientra appieno nella pediatria di comunità e concerne:

❖ visite domiciliari ai nuovi nati;❖ corsi post-parto e massaggi al neonato;❖ informazione su argomenti di puericultura, promozione all’allatta-

mento materno;❖ controlli di salute a bambino senza assistenza sanitaria;❖ controllo pediculosi e malattie infettive;❖ screening in collettività.

L’ Assistenza Domiciliare Integrata

L’ADI è un servizio deputato a soddisfare le esigenze di malati che ne-cessitino di un’assistenza domiciliare complessa di tipo socio-sanitario. Èprevalentemente utilizzata per rispondere ai bisogni di salute di soggetti an-ziani, anche se nessuna norma vieta che ne beneficino i bambini, qualora 67

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affetti da malattie oncologiche o comunque fortemente invalidanti.Il Piano Sanitario Nazionale per il triennio 1998-2000 ha collocato que-

sto servizio, come alternativa all’ospedalizzazione, nel Patto di solidarietàper la salute, rivolto ai soggetti particolarmente deboli, bambini compresi.La Regione Piemonte non ha fornito alle ASL indicazioni operative vinco-lanti e l’ADI si è sviluppata utilizzando modelli diversificati, legati più a scel-te amministrative delle singole Aziende che alla necessità espressa dall’u-tenza. Non sempre nel personale adibito all’ADI è presente una specificaformazione professionale infermieristica dell’età pediatrica.

L’Assistenza Ospedaliera

I presidi ospedalieri vengono classificati, nel nostro sistema sanitario,secondo criteri organizzativo-gestionali e funzionali.

Sul piano organizzativo-gestionale i Presidi si distinguono in:❖ Presidi Ospedalieri Aziendalizzati (ASO, Istituti di Ricerca e Cura a ca-

rattere scientifico, ospedali ex art.4 e 43 legge 833/78 e strutture ospe-daliere private);

❖ Presidi Ospedalieri unici di ASL;❖ Presidi Ospedalieri riuniti di ASL.Dal punto di vista funzionale, li distinguiamo in:❖ Ospedali di rilievo nazionale e di alta specializzazione (ASO e IRCCS);❖ Ospedali di rete;❖ Ospedali monospecialistici;❖ Ospedali di Distretto.

La tabella 3.1 raccoglie i presidi ospedalieri che, nella nostra Regione, han-no competenza in ambito pediatrico, indicandone la collocazione territorialee la tipologia funzionale. Sul totale di 45 presidi, 39 hanno competenza pedia-trica in regime di ricovero, 6 svolgono attività di alta specialità clinica.

Come si rileva dalla tabella, la distribuzione territoriale dei posti letto, perl’utenza in età pediatrica, risponde alle più comuni ed essenziali esigenze dicura, ma presenta aree di disomogeneità per quanto riguarda interventi e pre-stazioni sanitarie specialistiche. Questo problema acquista un maggior rilievoin presenza di bambini con patologie complesse, che vivendo lontano daiCentri specialistici di riferimento, debbono affrontare supplementari diffi-coltà di tipo assistenziale. Per risolverlo adeguatamente sarebbe necessarioche i diversi livelli di assistenza (ospedali di 1°, 2° e 3° livello) tra loro intera-gissero, individuando, per ogni singolo caso, le reciproche competenze.

Tabella 3.1

68

Denominazione struttura sede classificazione

Ospedale Martini Torino ASL 2 di rete

Ospedale Maria Vittoria Torino ASL 3 di rete

Ospedale Mauriziano Torino ex art.41

Casa di Cura Koelliker Torino privato

segue

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È probabile che molti accertamenti clinici siano effettuabili proficua-mente anche presso presidi di primo o secondo livello, prossimi alla resi-denza degli assistiti. Non mancano strumenti per una efficace comunica-zione tra il personale dei differenti presidi; purtroppo si assiste alla tenden-za, da parte di molte strutture ospedaliere, ad un comportamento autarchi-co, che preclude scambi di informazione ed utilizzazioni di capacità dia-gnostiche. Si rischia così di rafforzare negli utenti un sentimento di sfiduciaverso i presidi di cura di primo livello («se lo specialista dà delle regole ha i

Denominazione struttura sede classificazione

OIRM Torino ASO

Ospedale San Luigi Orbassano ASO

Ospedale Infermi Rivoli ASL 5 di rete

Stabilimento Ospedaliero Ciriè ASL 6 di rete

Ospedale Civico Chivasso ASL 7 di rete

Ospedale Maggiore Chieri ASL 8 di rete

Ospedale Santa Croce Moncalieri ASL 8 di rete

Ospedale Civile Cuorgnè ASL 9 di rete

Ospedale Civile Ivrea ASL 9 di rete

Osp. Civile E. Agnelli Pinerolo ASL 10 di rete

Osp. San Giovanni Battista Gattinara ASL 11 di rete

Ospedale S. Andrea Vercelli ASL 11 di rete

Ospedale San Pietro e Paolo Borgosesia ASL 11 di rete

Ospedale Infermi Biella ASL 12 di rete

Ospedale San Lorenzo Carmagnola ASL 8 di rete

Ospedale SS Trinità Borgomanero ASL 13 di rete

Ospedale San Biagio Domodossola ASL 14 di rete

Stabilimento Ospedaliero Verbania ASL 14 di rete

Nuovo Ospedale Ceva ASL 16 di rete

Ospedale Maggiore Annunziata Savigliano ASL 17 di rete

Ospedale Santa Croce e Carle Cuneo ASO

Ospedale SS Trinità Fossano ASL17di rete

Ospedale Civico di San Lazzaro Alba ASL 18 di rete

Ospedale Santo Spirito Bra ASL18 di rete

Ospedale Civile Asti ASL 19 di rete

Ospedale SS. Antonio e Biagio Alessandria ASO

Ospedale SS. Antonio e Margherita Tortona ASL 20 di rete

Ospedale Santo Spirito Casale ASL 21 di rete

Ospedale Civile Acqui Terme ASL 22 di rete

Ospedale San Giacomo Novi Ligure ASL 22 di rete

Ospedale Maggiore della Carità Novara ASO

Centro Auxologico Piancavallo ASO

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suoi buoni motivi per farlo, come genitore devo adeguarmi nell’interesse delmio bambino»), perdendo così l’occasione di fruire delle cure presso serviziprossimi al luogo di residenza. Indirettamente i servizi di rete perdono a lo-ro volta opportunità di sviluppare immagine e professionalità.

3.3 L’informazione

L’introduzione dello stile aziendale in sanità ha modificato il rapportocon il paziente, offrendo servizi e prestazioni di qualità e facendoli semprepiù conoscere in modo da stimolare la fruizione. In quest’ottica di mercato,avere da parte del cliente risposte positive diviene un’esigenza prioritaria. Ilrapporto tra chi eroga salute e chi è malato potrebbe permettere a quest’ul-timo di sapere preventivamente cosa offrirà la prestazione e di scegliereconseguentemente.

Le carte dei servizi rispondono ad un bisogno di conoscenza importan-te, ma non sono ancora soddisfacenti e non possono esaurirsi nelle paginedi un opuscolo. Il cliente vuol sapere cosa attendersi dalla prestazione of-ferta, indipendentemente da cosa essa sottenda sul piano tecnico.

La conferenza dei servizi è l’occasione per la dirigenza dell’Azienda Sani-taria, i sindaci, i rappresentanti delle Associazioni di Volontariato, gli opera-tori ed i cittadini, di incontrarsi e fare il punto sull’attività dell’Ente, trac-ciando insieme strategie e programmi futuri. Poiché il confronto avviene supiani diversi e tra soggetti con interessi non uniformi, l’incontro è difficol-toso: ciò che è giusto, dal punto di vista clinico o gestionale, può non soddi-sfare le attese ed i bisogni dei pazienti, così come non sempre ciò che la me-dicina offre soddisfa le attese dei malati. La situazione sanitaria è tale per cuiil soddisfacimento delle necessità cliniche di un malato può mettere in di-scussione la distribuzione delle risorse tra gli altri aventi diritto: questo ri-marcano numerose associazioni. Se è difficile sul piano strettamente medi-co, l’incontro si appiana, fino a divenire collaborativo, quando l’obiettivo èil miglioramento della qualità dell’accoglienza dei pazienti. In particolare,l’Azienda ospedaliera riconosce nelle organizzazioni di volontariato una ri-sorsa importante per il raggiungimento, da un lato, di uno standard di qua-lità nella gestione dell’accoglienza, dall’altro, per il contributo in terminieconomici che queste sono in grado di fare affluire al Servizio.

L’Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP)ha l’espresso compito di realiz-zare un dialogo con i cittadini che usufruiscono dei servizi dell’ASL, allo sco-po di accogliere e tutelarne i diritti. Fornisce informazioni e chiarimenti sul-le prestazioni, sui tempi di attesa e sulle modalità di accesso, e raccoglie leproposte ed i suggerimenti volti al miglioramento dei servizi erogati. L’URPsi fa carico delle istanze e dei reclami dell’utenza e provvede, dopo averesvolto istruttoria, a darvi risposta scritta. Il ruolo svolto dall’Ufficio può es-sere più o meno significativo, a seconda di come le Aziende lo interpretano.Può caratterizzarsi come monitoraggio delle carenze del luogo di cura, nonlimitandosi ad una funzione «consolatrice», la quale non modifica le dina-70

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miche che si vorrebbero correggere. Può offrirsi come luogo di deposito diprogetti correttivi portati dagli utenti, o ancora divenire promotore di pro-getti alternativi. Il rischio è che nel tempo l’URP riduca la propria attività adimpegni residuali di rappresentanza, «sprecando» l’opportunità che gli vie-ne offerta dall’incontro con l’utenza e i suoi disagi.

3.4 L’uso dell’ospedalizzazione

Due eventi significativi ci aiutano a comprendere le conseguenze pro-dotte dalla malattia del bambino: il ricorso al pronto soccorso e la degenzaprolungata in ospedale.

Il Pronto soccorso e i ricoveri

I dati, relativi all’Ospedale Infantile Regina Margherita, sono riferiti aipassaggi in pronto soccorso dal gennaio 2001 al novembre 2001. Ammon-tano a 50.123 unità, nella media degli anni passati. Di questi passaggi, 6070(12%) hanno avuto come esito il ricovero (Tabelle 3.2, 3.3).

I dati confermano la convinzione che chi si rivolge all’ospedale lo utiliz-za sovente in modo improprio, per malattie che potrebbero essere diagno-sticate e curate in altra sede. Il primo anno di vita del bambino è il periododi maggior ricorso al Pronto Soccorso. Il 31% dei bambini visitati appartie-ne a questa fascia di età, all’interno della quale il 16% è stata ricoverata.L’ansia dei genitori è inversamente proporzionale all’età: minore è l’età delbambino, maggiore è la preoccupazione parentale. I dati contenuti nella ta-bella 3.4 confermano ulteriormente il fenomeno.

Tabella 3.2 – Passaggi in P.S. Tabella 3.3 – Passaggi in P.S.con conseguente ricovero senza ricovero

71

Fascia di età Passaggi

0 – 1 1.733

1 925

2 551

3 433

4 359

5 5.262

6 245

7 229

8 237

9 238

10 214

Fascia di età Passaggi

0 – 1 6.695

1 6.467

2 4.908

3 4.443

4 3.497

5 2.738

6 2.221

7 2.049

8 1.975

9 2.084

10 1.907

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Tabella 3.4 – Degenze presso ospedali pediatrici della Regione Piemonte relative all’anno2000. Fascia di età 0-17. Distribuzione per giorni di degenza

Fascia di età Passaggi

11 209

12 189

13 135

14 47

15 32

16 13

17 8

altre 11

totale 6.070

n° giorni n° ricoveri

1 8390

2 16346

3 8892

4 5801

5 3592

6 2296

7 1566

8 1005

9 683

10 497

11 390

12 293

13 216

14 195

15 157

16 109

17 103

18 86

19 56

20 56

21 66

22 44

23 48

24 41

n° giorni n° ricoveri

25 34

26 37

27 32

28 31

29 36

30 29

oltre 560

totale 51.677

Fascia di età Passaggi

11 1.842

12 1.523

13 1.200

14 206

15 44

16 27

17 15

altre 182

totale 44.053

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Le degenze

I dati relativi ai ricoveri ospedalieri in Piemonte (tabelle 3.5/3.8) induco-no una considerazione sulla durata della degenza. Per semplicità, nella tabel-la 3.5, sono state identificate tre grandi tipologie di ricoveri: degenze di 1, 2 eoltre i 30 giorni. Nel primo caso si tratta di un intervento para – ambulatoria-le, che sottolinea il limite delle strutture presenti sul territorio piemontese, inquanto gli ospedali vengono chiamati a supplire quelle attività che dovrebbe-ro svolgere i servizi territoriali; il dato è ancora più evidente se osserviamo lefasce di età dei soggetti. Ben il 33% è compreso nella fascia di età sotto i dueanni di vita, e le cure ospedaliere svolgono quella funzione di rassicurazionedei genitori che più propriamente potrebbe essere assunta dal pediatra di fa-miglia. La degenza di 1 o 2 giorni, lo conferma la tabella 3.7 nell’analisi dellapatologia manifestata, è causata da malattie risolvibili in ambito domestico enon produce risultati migliori di quelli che si otterrebbero trattenendo ilbambino a casa, dando ascolto al pediatra di base. Nel contempo, l’uso im-proprio intasa le strutture ospedaliere, impedendo un loro uso ottimale.

Tabella 3.5 – Ricoveri presso ospedali pediatrici della Regione Piemonte. Anno 2000Distribuzione per fasce di età e giorni 1, 2 e 30 di degenza

Fascia di età n° ricoveri gg. 1 n° ricoveri gg. 2 n° ricoveri gg. 30

0-1 1551 2008 135

1 999 1192 13

2 689 901 9

3 546 1268 7

4 537 1569 5

5 435 1394 6

6 363 1034 6

7 334 848 10

8 360 829 14

9 327 772 17

10 313 702 18

11 306 646 27

12 321 589 35

13 270 511 43

14 269 516 70

15 239 528 48

16 245 490 56

17 286 549 70

totali 8390 16.346 589

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Tabella 3.6 – Ricoveri presso ospedali pediatrici Regione Piemonte – anno 2000. Fasciadi età 0-1 degenza giorni 1 e 30 (ed oltre); distribuzione per reparti

Tabella 3.7 – Ricoveri in Pediatria, per giorni 1, fascia età 0-1

Tabella 3.8 – Ricoveri in Cardiochirurgia, Neuropsichiatria Infantile ed OncologiaDistribuiti per fasce di età – Regione Piemonte, anno 2000

Reparto n° ricoveri gg. 1 n° ricoveri gg. 30

Cardiochirurgia 6 15

Cardiologia 5 4

Chirurgia 103 8

N.P.I. 12 6

Ortopedia 34 3

Pediatria 1173 13

Gastroenterologia 4 2

Neurochirurgia 28 2

Urologia 66 /

Terapia intensiva 23 77

Pneumologia 6 5

Totali 1551 135

Patologia n° ricoveri

Convulsioni, cefalee 11

Stato soporoso e coma di origine traumatica 45

Commozione cerebrale 64

Otiti 148

Laringotracheiti 26

Bronchiti, asma 95

Infezioni prime vie aeree 39

Esofagiti, gastroenteriti 175

Infezioni vie urinarie 20

Malattie di origine virale 60

Avvelenamenti, effetti tossici da farmaci 35

Totale 1173

Fascia età Cardiochirurgia N.P.I. Oncologia

0-1 65 92 12

1-2 10 99 54

2-3 7 82 34

3-6 10 91 165

6-10 11 138 136

10-17 16 181 223

Totale 119 683 624

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3.5 Due casi esemplari

La legislazione italiana prevede che la famiglia abbia obblighi primarinei confronti dei propri membri, specie se di età minore, mentre le altre isti-tuzioni hanno compiti sussidiari. Carente è però l’indicazione, da parte delsistema sanitario regionale, su come affrontare le nuove evidenziate neces-sità in modo armonico ed efficiente, anche perché si ignora, di fatto, laquantità di malati cronici di cui ospedali, famiglie e territorio debbono oc-cuparsi. L’alta sopravvivenza dei bambini affetti da malattie croniche o ne-cessitanti di lunghi periodi di cure, ha evidenziato gli effetti psicologici con-seguenti alla malattia.

La storia clinica di Aldo e di Lucia, e delle loro famiglie, è quella di tutti ibambini malati cronici o con patologie gravi. L’esistenza è scandita dalle cu-re domiciliari e dai ricoveri ospedalieri e dal timore di non sapere fronteg-giare altre evenienze.

Aldo ha tre anni, i sintomi di una possibile malattia cronica si sono ma-nifestati quando aveva pochi mesi di vita. Soffriva di disturbi gastroentericie polmonari, respirava e digeriva con difficoltà. La tosse non gli dava tregua,sudava abbondantemente, non cresceva. Il pediatra ha consigliato ai geni-tori accertamenti. In ospedale al bambino è stato praticato un test indolore,che è bastato per diagnosticare una fibrosi cistica. Da quel momento la vitaquotidiana della famiglia è stata la seguente:

Martedì- mercoledì, giovedì- domenicaOre 7.00 suona la pompa, sono finiti i lipidi, spengo la pompaOre 8.00 lavo il piano di lavoro, preparo le siringhe per il lavaggio del catete-

re e per l’eparinaOre 9.00 suona la pompa, è finita la sacca con la tpn, la spengo, stacco, fac-

cio il lavaggio del catetere ed eparinoOre 10.00 preparo l’aerosol e lo si faOre 10.30 è l’ora della fisioterapiaOre 11.30 schiaccio e riduco in polvere la mezza pastiglia di vitamineOre 12.30 prendo le due sacche dal frigo e le metto a temperatura ambienteOre 15.00 preparo l’aerosol e lo si faOre 17.00 lavo e disinfetto il piano di lavoro, preparo le sacche, inserisco il

deflussore ecc. ecc.Ore 18.00 metto la flebo a mio figlio, accendo la pompa della tpnOre 19.00 accendo la pompa dei lipidiOre 21.00 preparo l’aerosol e lo si fa

Lunedì – venerdìOre 7.00 suona la pompa, sono finiti i lipidi, spengo la pompaOre 8.00 lavo il piano di lavoro, preparo le siringhe per il lavaggio del catete-

re e per l’eparinaOre 9.00 suona la pompa, è finita la sacca con la tpn, la spengo, stacco, fac-

cio il lavaggio del catetere ed eparino 75

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Ore 15.30 lavo e preparo il piano di lavoro, preparo le sacche e preparo an-che il materiale per la medicazione sterile. Nei giorni della medicazionefaccio il bagnetto al bambino

Ore 18.00 metto la flebo al bambino, accendo la pompa della tpnOre 21.00 aerosolterapia

SabatoOre 8.00 lavo il piano di lavoro, preparo le siringhe per il lavaggio del catete-

re e per l’eparinaOre 9.00 suona la pompa, è finita la sacca con la tpn, la spengo, stacco, fac-

cio il lavaggio del catetere ed eparinoOre 10.00 preparo l’aerosol e lo si faOre 11.30 schiaccio e riduco in polvere la mezza pastiglia di vitamineOre 15.00 aerosolOre 21.00 aerosol

Ogni seraCambio l’acqua dello sterilizzatore e metto a sterilizzare mascherine e am-

polle usate durante la giornata per l’aerosol

Ogni venti giorniTelefono alla Baxter (ditta fornitrice delle sacche e di tutto il materiale ine-

rente all’alimentazione parenterale) per l’ordinazioneArriva il materiale a casa: 2 grosse scatole e 2 scatole piccole. Le due scatole

piccole contengono le sacche da mettere immediatamente in frigorifero;le altre due le sistemo in un secondo momento.

Devo portare le bolle della merce ricevuta all’ASL

Una volta al mese – se non si verificano imprevistiFaccio i tamponi nasali e faringeo; chiamo la Traco che viene a prenderli a

domicilio o diversamente li porto presso un punto di raccolta TracoDay Hospital della durata media di 5 oreQuasi tutti i mesi nei tamponi del bambino trovano dei germi che vanno

trattati con terapie antibiotiche che, a seconda del tipo di germe, duranodai dieci ai venti giorni

Mi reco alla farmacia dell’Ospedale di zona a prendere le medicine che, manmano che finiscono, riordino

Imprevisti conosciuti sino ad oraRicoveri ospedalieri ripetuti.Day Hospital ravvicinati. Non uno al mese come previsto ma anche due vol-

te la settimana.Difficoltà nel funzionamento della pompa (non parte e suona, il deflussore

è occluso, c’è aria nel deflussore).

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Superfluo ogni commento. Le manovre che compie la mamma di Aldosono di vitale importanza per il bambino, e si comprende come non possané voglia esimersi dal farlo. L’affetto moltiplica le energie, ma resta com-plessa la gestione familiare: la mamma di Aldo ha dovuto licenziarsi, perl’impossibilità di conciliare cure e lavoro.

Chiameremo Lucia, la protagonista di un’altra vicenda, simile tuttavia acentinaia di altre storie dolorose.

La bambina ha quattro anni e vive in un paesino del sud. La sua famigliaè composta da madre, padre e tre figli. Lei è la primogenita. La madre lavoracome operatrice scolastica e il padre è impiegato presso un ente pubblico.

Poco tempo dopo la nascita della sorellina, Lucia lamenta dolori diffusi,febbre alta, linfonodi ingrossati. La febbre non smette ed i genitori si rivol-gono al pediatra di famiglia, il quale li invia presso l’Ospedale locale. I me-dici sospettano che i sintomi siano segnali di una presunta leucemia e, in as-senza di competenze specifiche, suggeriscono ai genitori di ricorrere alle cu-re presso alcuni Ospedali specializzati.

I genitori «scelgono» il presidio sanitario ed i medici prendono contattocon i colleghi. A questo punto ritengono di aver adempiuto ai loro obblighie, in nome della libertà di scelta da parte dei genitori, latitano. Chi aiuteràquesta famiglia, allertata sulla probabile patologia della figlia, abbandonataa se stessa in preda all’angoscia e a difficoltà oggettive nel tentativo di af-frontare la nuova realtà? Non è compito dell’ospedale, ma di chi allora? Nonsiamo di fronte ad una sorta di pilatismo sanitario?

L’ospedale a cui la famiglia si rivolge, si trova a Torino. Nei pressi dellacittà risiedono alcuni parenti della famiglia di Lucia. La bambina viene visi-tata, sottoposta a nuovi accertamenti finalizzati alla conferma del sospettodiagnostico e, quindi, ricoverata. Quando viene confermata la diagnosi conil medico, c’è lo psicologo ad accogliere la richiesta di aiuto dei genitori che,provati dalle trascorse ansie, sono increduli e confusi. La famiglia, ospitepresso parenti, attende l’esito dei primi interventi. Le uniche notizie certesono che, per due anni almeno, tra Lucia, la sua famiglia e l’Ospedale si do-vrà stabilire una sorta di cordone ombelicale. Nel frattempo chi si prendecura degli altri due figli, di cui una neonata? I nonni ed il padre, il quale, al-meno sulla carta, ha la possibilità di usufruire di due anni di congedo, nonpagato, nell’arco di tutta la sua carriera lavorativa. E poi?

La madre, per poter seguire Lucia, chiede, in un primo tempo, permessinon pagati per assentarsi dal lavoro ma, infine, sarà costretta a licenziarsi.

La bambina non può lasciare la città ospitante anche quando non ne-cessita di ricoveri in ospedale. Il suo desiderio è di ritornare alla famiglia, aifratelli, ai luoghi della sua infanzia drammaticamente messa in crisi, ma perdue anni vivrà prevalentemente tra il nuovo domicilio e l’ospedale. Le esi-genze crescenti di cura consiglieranno la famiglia ad accettare l’ospitalitàofferta dall’Associazione di volontariato: l’alloggio è situato vicino al presi-dio ed il problema del trasporto, che aveva angustiato la famiglia, non siporrà più, verrà però meno il conforto dei parenti. I volontari dell’Asso-ciazione si prodigheranno, per non lasciare soli Lucia e la mamma, offrendocompagnia, conforto, denaro. 77

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3.6 Struttura ospedaliera e umanizzazione

Nell’interesse del bambino è bene che l’ospedale, in quanto spazio di vi-ta, assuma nuovi aspetti, che lo colleghino maggiormente alla tipicità do-mestica, integrandolo sempre più nel vissuto quotidiano ordinario. È notoche le istituzioni totali tendono a caratterizzarsi come un microcosmo au-tonomo, con propri stili, regole e morfologie. Alla base di tutto ciò, sono esi-genze operative specifiche, le quali però non sempre comunicano con l’u-tente. Spesso trasmettono una sensazione di alienazione, di estraneità. Nelcaso dell’ospedale, che ha come compito specifico alleviare il dolore, curareil malato e rimetterlo in grado di gestire la propria vita, la collaborazione at-tiva del paziente con l’operare dei medici è fondamentale per la riuscita de-gli interventi. La non-comunicazione, il disagio ambientale, divengono im-pedimenti alla realizzazione piena della cura.

Un ambiente accogliente

Le pareti degli ospedali e dei reparti «non comunicano». Dipinte in bian-co, non lasciano spazio alla giocosità, alla varietà. La monocromia non pro-duce discorsi, dialoghi, assorbe ed annulla. Coloro che provvedono alla ma-nutenzione degli edifici ospedalieri invocano, a favore di questa scelta, l’i-giene, quasi che una tinta fosse più impermeabile di altre ad intrusioni in-fettive. Nel bianco totalizzante dell’ospedale, il bambino vive un’esperienzadi privazione. Il messaggio è chiaro: «Guardare e non toccare». Questo è unmondo di adulti, ed i bambini non possono interferire.

Si ha l’impressione che si ignorino le esigenze profonde del bambino,per di più malato, invalidato e traumatizzato nella visione buona di sé. Gli sichiede, in sostanza, una resa completa allo stile di vita adulto in una realtàparticolare. Il mondo del bambino non è monocromatico, ma vario, artico-lato, gridato. Laddove si osserva un bambino che è privo di colori nel suoesprimersi, di certo siamo in presenza d’una qualche sofferenza d’anima, avolte sintomo di patologie ben più gravi, quali l’autismo. I colori sono vita,emozioni, stimoli, gusti. Suggeriscono che il mondo è bello, vario, plastico,e tutto da scoprire, anche nella malattia.

Il gioco in ospedale

Il bambino ha necessità di chiarire con se stesso i sentimenti che prova,quando è ospedalizzato. Difficile per lui è riuscire a comunicarli a chi di luiha cura. Può però riuscirvi giocando: l’attività ludica gli è familiare e lo aiu-ta ad elaborare l’esperienza. Inoltre nel gioco trova conferma che, sia purein un luogo che gli è estraneo, come l’ospedale, la sua occupazione preferi-ta può continuare. Nel gioco il bambino riesce a volte ad esprimere conflit-ti e paure ed a sdrammatizzare una situazione che sembrava densa di osta-coli. Ama invertire i ruoli bambino-medico e vedere la realtà della malattia,e delle cure che teme, da una differente angolatura, riuscendo in tal modo a78

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controllare le paure provate. Angela, in dialisi da più di un anno, è riuscita aricreare sul proprio bambolotto il trattamento che subiva e, nel farlo, le sueresistenze nell’avvio delle sedute si sono dissolte.

La funzione terapeutica del gioco si è affermata,negli ospedali pediatricipiemontesi, più di vent’anni fa. Si inseriva nel quadro di una politica di«umanizzazione della medicina», sostenuta anche in Piemonte da un eleva-to numero di medici, psicologi, infermieri. Erano gli inizi degli anni ’80 e siera appena riconosciuto il diritto del bambino ad avere vicino a sé i proprigenitori nel momento della malattia. Ma questi genitori si presentavano an-siosi ed inquieti, con una forte accentuazione della sensibilità emotiva, che liportava ad avere minore capacità di fronteggiare la situazione e ad interagi-re nella comunicazione con il figlio ed il personale medico. Le attività di gio-co hanno costituito un rimedio, inserendo adulti e bambino in un terreno co-mune. Infatti il figlio che gioca pone se stesso e la propria malattia in un con-testo reale, meno fantasmatico, che permette di elaborare risposte operativeconcrete. Come è successo ad una madre, che ha potuto considerare il figlionon più come un problema medico, ma come un individuo che, nonostantela malattia, intendeva continuare a ridere, scherzare, e fare le cose che avevafatto prima dello scatenarsi dell’evento patogeno. Era lo stesso bambino, conuna nuova storia complessa. In sostanza il gioco in ospedale soddisfa i biso-gni di tutti i soggetti che si occupano, con differenti funzioni, del bambino epreviene - allenta - scioglie le tensioni, che lo stato di malattia genera.

Va detto che nei presidi pediatrici della Regione Piemonte l’attività ludi-ca è una realtà diffusa. Al gioco, ove possibile, sono state destinate delle ap-posite sale, e animatori, bambini e genitori creano un clima che aiuta tutti avivere meglio il trauma della malattia del bambino.

Presso l’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino le sale giococompiranno tra breve vent’anni: sono otto, ubicate nelle chirurgie, in neu-rochirurgia, presso il centro ustionati, in neuropsichiatria, in ortopedia, inurologia, in diabetologia ed in nefrologia-dialisi. Ad animarle provvede per-sonale comunale dell’Assessorato Istruzione, Progetto «Gruppo Gioco inOspedale», grazie ad una convenzione tra il Comune e l’Azienda. In questianni l’attività è andata differenziandosi, secondo l’età dei bambini, gli inte-ressi manifestati, lo stato di salute, la possibilità di movimento, ed ha rispo-sto ai bisogni dei degenti in modo più pregnante.

I progetti, gestiti dagli operatori, sono nati dalla collaborazione tra figu-re professionali diverse, medici ed infermieri, di modo che l’operazione ap-pare estremamente significativa.

❖ La Storia Cancellapaura ha trasformato i materiali sanitari in mate-riali ludici;

❖ L’operazione in gioco prepara i bambini all’intervento chirurgico;

❖ Bibliomouse è una biblioteca itinerante ma anche un locale di lettu-ra per tutti i bambini degenti.

L’operazione in gioco affronta il difficile momento del ricovero in ospe-dale, in attesa di intervento chirurgico. «L’importante», si legge nella presen-tazione dell’opuscolo, «è non mentire, non nascondere la realtà, ma presen- 79

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tarla nel modo opportuno, comprensibile, con la certezza che non siete soli,che ci sono persone che si prendono cura di voi con competenza e disponi-bilità». L’informazione diviene gioco ed il gioco veicolo di informazione.

Anche presso il reparto di pediatria dell’Ospedale Martini di Torino, lasala gioco è animata da personale dell’Assessorato Istruzione del Comune diTorino. Presso il reparto di Pediatria dell’OIRM ed in altri presidi del territo-rio regionale (Ospedale Mauriziano di Torino, gli ospedali di Biella, Cuneo,Domodossola, Mondovì e Savigliano), il gioco è offerto ai bambini dall’ABIO(Associazione Bambini in Ospedale), attraverso la presenza di volontari pre-parati.

3.7 La scuola in Ospedale

La scuola, in ospedale, è parte integrante dell’attività curativa, in quan-to contribuisce al mantenimento o al ricupero dell’equilibrio psicofisico delpiccolo ricoverato. Essa ha una grande importanza nella vita del bambino ri-coverato, in quanto non soltanto costruisce uno spazio di apprendimentocontinuo e di sviluppo, ma favorisce l’incontro e il confronto con adulti nongenitori e con coetanei. L’apprendimento può avvenire in vari modi, anchenon istituzionali, ma la scuola è un momento particolare, carico di emozio-ni e significati, soprattutto quando l’allievo è in ospedale.

Quando al bambino si comunica la diagnosi ed il percorso di cura, oeventuali operazioni chirurgiche, ci si sente chiedere: «Ma allora dovrò la-sciare la scuola?». L’abbandono dei compagni, degli insegnanti che si occu-pano principalmente di lui, provoca nel bambino sentimenti di perdita e diseparazione, che si manifestano repentinamente, e conferma la necessità direstituirgli questa parte di normalità, così importante proprio in circostan-ze traumatiche.

Le prime classi di scuola elementare operano nelle principali clinichepediatriche a partire dagli anni ’50, e hanno visto un notevole sviluppo a ca-vallo tra gli anni ’70 ed ’80, grazie alle leggi regionali che hanno permesso lapresenza in ospedale di figure non sanitarie, quali i volontari, gli educatori,gli animatori e gli insegnanti. Per gli adolescenti degenti si è dovuta atten-dere la seconda metà degli anni ’90, proseguendo il lavoro già svolto dallascuola dell’obbligo, in seguito alla emanazione delle Legge 104/921 e graziealle aperture concesse dalla Legge 59/972, che hanno favorito l’autonomiadidattica ed organizzativa della scuola, stimolando la progettazione di in-terventi sul territorio a favore di coloro che non sono in grado di seguire re-golarmente gli studi.

Circolari ministeriali hanno meglio definito in seguito le modalità di at-tuazione del servizio scolastico in ospedale. In tempi recenti, il Protocollod’intesa siglato dai ministri della Pubblica Istruzione, della Sanità e dellaSolidarietà Sociale (27.9.2000), a tutela dei diritti alla salute, al gioco, all’i-struzione e al mantenimento delle relazioni affettive ed amicali dei cittadinidi minore età malati ha impegnato i firmatari al raggiungimento dell’obiet-80

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tivo fissato. I precedenti provvedimenti normativi (legge 9/99 sull’innalza-mento dell’obbligo scolastico; legge 144/99 sull’obbligo formativo; legge30/2000 sul riordino dei cicli scolastici) richiedevano la definizione di diver-si modelli di attuazione del servizio scolastico, rivolto a ragazzi fino al di-ciottesimo anno in strutture ospedaliere; con il Protocollo d’intesa sono sta-te poste le basi per la realizzazione di servizi efficienti attraverso la parteci-pazione delle Istituzioni coinvolte. Inoltre con il Protocollo d’intesa siglato il23 febbraio 2001 tra Ministero della Pubblica Istruzione, Ministero per i BeniCulturali e Ministero della Sanità, si conferma la validità delle iniziative cul-turali, ludiche e ricreative rivolte ai bambini in ospedale ed alle loro fami-glie, sollecitando anche la promozione di spettacoli all’interno dei reparti didegenza o di day hospital.

Vi sono perciò oggi tutti i presupposti per garantire al bambino malatouna presenza scolastica organizzata. L’insegnante dovrà aiutare i suoi nuoviallievi ad integrare l’ospedale come parte di un’esperienza più ampia, riccaed emotivamente densa, trasformandola in occasione d’indagine, riflessio-ne, espressione. Se il bambino è interessato al servizio scolastico proposto,si contatta la scuola di appartenenza. Agli insegnanti viene comunicata la si-tuazione dell’allievo, la possibilità d’uso del servizio scolastico e la richiestadi una fattiva collaborazione didattica. Tramite fax o e-mail, possono essereinviati all’ospedale esercizi da affrontare con i bambini, e altrettanto può es-ser fatto da parte dell’istituzione sanitaria. Si apre un canale di comunica-zione, attraverso il quale passano proposte, risposte, valutazioni e giudizi. Iltutto in funzione della non esclusione del malato dalla sua classe di prove-nienza. Questo tipo di attività serve certamente al malato, ma ingenera an-che nei compagni sani un proficuo spirito di collaborazione e sostegno.

I bambini che necessitano di lunghe degenze, o di ricoveri frequenti perpatologie gravi, si appoggiano maggiormente alla scuola ospedaliera.Pretendono d’essere valutati, vogliono il voto e superare le prove finali comei loro compagni più fortunati, che trascorrono il proprio tempo nelle auledella scuola. Queste attività aiutano i degenti in età scolare a non restare in-dietro rispetto ai coetanei, e favoriscono un rientro meno traumatico nellaclasse di appartenenza. La didattica consueta, qui, deve essere individualiz-zata, adattata alle esigenze del bambino e del reparto, che possono produr-re continue e non sempre gradite interruzioni (terapie, visite, pasti) oppureoggettivamente limitare gli spazi con relative carenze di attrezzature.3 Non èfacile essere maestri in ospedale! Centrale è la collaborazione tra operatoridi diverse istituzioni e formazione, per evitare comportamenti contraddito-ri che possono disorientare bambino e famiglia.

La scuola elementare statale, presente al Regina Margherita sin dal 1967,è una delle prime in Italia. L’iniziativa fu progettata e realizzata dalla profes-soressa Livia Di Cagno, Direttore della cattedra di Neuropsichiatria Infantile.Nel 1998, a seguito della Circolare Ministeriale con la quale si istituiva lascuola media inferiore negli ospedali pediatrici, viene formalizzata l’inizia-tiva, avviata sperimentalmente cinque anni prima tra la Scuola Media A.Peyron ed un gruppo di genitori con bambini a patologia oncologica. Dal1999 è presente, presso i reparti di oncologia ed ematologia, un’insegnantedi scuola materna. Inoltre, di anno in anno, vengono attivate iniziative conscuole diverse, nell’ambito di progetti elaborati con il Comune di Torino. 81

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Scuola elementare e scuola media parteciparono al Progetto Torino 2000,utilizzando nuove tecnologie per le attività didattiche, di comunicazione eraccordo con le scuole di provenienza dei degenti.

Significativo, e molto importante, è stato il progetto di teledidattica, fi-nalizzata all’organizzazione di modalità di studio e lavoro per ragazzi lun-godegenti, i quali, a causa dei pesanti e prolungati protocolli di cura, nonpossono partecipare alle normali attività scolastiche nelle scuole di appar-tenenza. Un insegnante, che opera presso il Regina Margherita, sostiene che«la navigazione in Internet consente un virtuale ma benefico distacco dalcontesto ospedaliero, favorendo inoltre nuove forme di socializzazione a di-stanza, attraverso l’uso della posta elettronica, di bacheche apposite, di listedi discussione adeguate all’età».4 All’inverso, la teledidattica favorisce la co-noscenza, da parte dei bambini non ospedalizzati, di una istituzione estre-mamente importante per il benessere di ciascuno, mostrandone un’imma-gine più amichevole, diversa da quella che normalmente essi hanno.

3.8 Il Terzo Settore e l’offerta di sostegno

Operano negli ospedali pediatrici numerose associazioni di volontaria-to, che attraverso stili improntati alla spontaneità e all’ innovazione, e per ilfatto di non subire vincoli ed obblighi istituzionali, riescono a portare avan-ti iniziative a sostegno del bambino e della sua famiglia. Vogliamo ricordare,nel grande arcipelago di volontari, alcune associazioni che, più di altre, so-no «militanti» in ospedale con presenze quotidiane. Molte di queste Asso-ciazioni sono riunite in una Federazione, che ha sede presso l’OspedaleRegina Margherita.

L’Associazione Bambini In Ospedale (ABIO) ha come obiettivo primarioquello di minimizzare i traumi psico-affettivi legati al ricovero del bambino.Opera attraverso volontari, preparati allo scopo, che si collocano nella strut-tura sanitaria come figure prive di un compito specificatamente terapeuti-co, e si inseriscono con discrezione tra l’operatore sanitario, il bambino ma-lato ed i suoi genitori. Così recita lo statuto. Nata nel 1978, l’associazione so-lo recentemente sta estendendo la propria presenza all’interno dei presididella nostra Regione.

L’attività è di: accoglienza al momento del ricovero, facilitando l’inseri-mento del bambino in reparto; sostegno durante le visite ambulatoriali; col-laborazione con il personale infermieristico nella preparazione delle diverseprocedure terapeutiche, utilizzando appropriate tecniche e materiali appo-sitamente studiati. Anche il genitore del malato rientra nell’impegno del vo-lontario ABIO. È aiutato a sdrammatizzare la malattia, informato sul com-portamento da tenere, con una presenza amica che facilita l’affido del figlioall’ospedale. L’ABIO ha organizzato seminari di studio sul disagio infantilenel corso delle degenze in ospedale, favorendo in queste circostanze loscambio di esperienze tra i diversi paesi europei. Collabora con la scuoladell’obbligo per informare correttamente gli scolari sulla realtà ospedaliera.82

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L’Associazione Volontari in Ospedale (AVO) è conosciuta in tutto il terri-torio regionale, perché i suoi volontari sono presenti in molti presidi ospe-dalieri. La si trova nei presidi pediatrici ove sostituisce il genitore nell’intrat-tenimento del bambino. Si tratta di interventi da parte di personale forma-to, e quindi capace di rispettare la complessità della malattia.

L’Unione Genitori Italiani (UGI) è sorta nel 1980, per iniziativa dei geni-tori coinvolti nel dramma della malattia oncologica. L’impegno è andato neltempo diversificandosi, lavorando a fianco dei medici per migliorare le con-dizioni di cura (la TAC, il Centro Bassa Carica Batterica, l’acquisto dellaRisonanza Magnetica Nucleare) ed evitare che i bambini fossero spostati inaltri presidi con conseguente disagio; e, dall’altro lato, per rispondere ai bi-sogni di bambini e famiglie conseguenti al protrarsi delle cure mediche.

L’attività svolta dall’UGI sul versante del sostegno ai bambini ed ai geni-tori, presenta la seguente tipologia di iniziative:

❖ Progetto accoglienza –affidata alla capacità dei volontari, ha lo scopodi rendere meno disagevoli i tempi del ricovero e delle cure;

❖ Progetto ospitalità - molte famiglie risiedono lontano dal luogo di cu-ra, e hanno bisogno di ospitalità. I costi sarebbero insostenibili, sel’associazione non avesse approntato una rete di 14 alloggi, concessiin uso con modesti contributi;

❖ Progetto sostegno economico – con erogazione di sussidi mensili a fa-miglie in difficoltà economiche;

❖ Progetto di assistenza infermieristica domiciliare – per far fronte aproblemi relativi alla gestione delle terapie;

❖ Progetto di assistenza domiciliare – per allentare le tensioni intrafa-miliari, con una presenza solidale;

❖ Progetto di assistenza scolastica domiciliare – nato per dare un ap-poggio didattico ai bambini costretti a lunghi periodi di assenza dascuola.

L’elenco non comprende tutte le iniziative, poiché la tensione solidaleintorno al bambino affetto da malattia oncologica, ha fatto crescere le risor-se UGI, ma anche la volontà dell’associazione di accogliere l’espressione dinuovi bisogni. Creatività, intelligenza, sensibilità ed ottime capacità orga-nizzative fanno il resto. Vi sono altre Associazioni che in modi diversi espri-mono sostegno alle famiglie dei bambini affetti da malattie croniche, quali:l’Associazione Bambini Cardiopatici (ABC), l’Associazione Giovani Diabetici(AGD), l’Associazione Spina Bifida (A.SPI.B), l’Associazione Bambini Nefro-patici, l’Associazione per la Lotta Contro La Fibrosi Cistica, l’AssociazioneGianni, Wendy e Michele, l’Associazione Trapiantati di Fegato, l’AssociazioneTalassemici.

L’attività che queste associazioni svolgono è legata ai presidi ospedalieridi riferimento.

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3.9 La comunicazione tra diversi soggetti

La cura al bambino è, in questi anni, migliorata, offrendogli uno «spazio»ove esprimere le sue emozioni: l’importanza degli interventi psicologici ededucativi è stata culturalmente riconosciuta, così come favorito è stato l’ap-porto dei volontari nei presidi sanitari. Nel rapporto tra chi cura e chi è cu-rato, l’organizzazione ospedaliera ha, in qualche modo, alleviato le difficoltàdi adattamento del bambino alla nuova realtà, ma nonostante le risorsemesse in campo, rimane insufficiente e migliorabile la qualità della comu-nicazione tra i diversi soggetti coinvolti.

Esordio della malattia.

Normalmente è il pediatra di base che invia il bambino malato all’ospe-dale di 2° o di 3° livello a seconda della diagnosi. La collaborazione tra pe-diatra e ospedale offre la possibilità all’équipe curante di raccogliere l’a-namnesi clinica, e di avere una conoscenza del malato più approfondita,con uno «sfondo» che evita ai medici ospedalieri inutili ricerche. Attual-mente questa esigenza viene soddisfatta, bene o male, dai genitori, nonsempre competenti a riguardo. Questo tipo di comunicazione ha un effettorassicurante sul bambino e la sua famiglia, poiché l’invio in ospedale nonviene più percepito come delega ad altri, ma come scelta consapevole sulpiano umano e professionale. Il ruolo attivo del pediatra, inoltre, assicuraun buon ritorno del bambino a casa, una volta risoltosi l’episodio morboso,e una più serena convalescenza.

È una modalità semplice e vantaggiosa perché, implicando una intera-zione tra medici, produce un reciproco arricchimento professionale. Inol-tre gli interessi clinici ed istituzionali coincidono con quelli del bambinomalato, rafforzando un rapporto di fiducia e sostegno che genera benesse-re. È efficace pure sul piano simbolico, e riesce a ridurre il disagio del bam-bino e dei genitori, oltre ad essere un precedente per le eventuali future oc-casioni di cura. Nella sostanza, i rapporti del medico con i familiari del pic-colo paziente sono molto importanti: se tra famiglia e pediatra c’è un buonrapporto, se il bambino è abituato a sentire parole di fiducia nei confrontidel medico, questo clima positivo, vissuto al domicilio o in ambulatorio,viene trasferito sull’ospedale e permane anche nei momenti più difficilidella malattia.

In un’ottica di reciprocità, nel caso in cui si tratti di un ricovero d’urgen-za, dovrà essere il personale ospedaliero a sollecitare il contributo del pe-diatra di base. Se la malattia è grave o cronica, e richiede cure protratte neltempo, la presenza in ospedale del pediatra è indispensabile.

Imminenza della dimissione

In caso di malattia cronica o grave, dove si richiede alla famiglia un’atti-vità terapeutica domiciliare, la mancata relazione tra ospedale e pediatra84

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isola il bambino dimesso e la sua famiglia, privandoli di punti di riferimen-to importanti.

I medici ospedalieri svolgono la loro attività di routine tutta all’internodel presidio, senza che venga sentita la necessità di un rapporto stretto conl’operatore di territorio, il quale, a sua volta, in questi frangenti, assume uncomportamento passivo di attesa. Vecchi pregiudizi discriminano tra il cor-po medico ospedaliero, visto come professionalmente più avanzato e spe-cializzato, ed il pediatra, considerato medico «per tutti gli usi» e per un pri-mo intervento. Lodevole eccezione è l’attività svolta dai neuropsichiatri in-fantili, i quali, per la loro formazione professionale, prestano attenzione aibisogni complessi del bambino e della sua famiglia.

Quando l’abitazione del bambino è distante dal presidio ospedaliero, sa-rebbe bene che la famiglia fosse informata delle opportunità di cura esi-stenti nel territorio prossimo. Dovrebbe rientrare nei doveri dell’ospedaleinstaurare rapporti articolati con le varie strutture periferiche, perché nonsempre i genitori sono in grado di farlo, per realizzare in tal modo anche unacomunicazione scientificamente più corretta. La ricerca di alternative allecure ospedaliere, per problemi risolvibili con altre opzioni assistenziali ed inaltri contesti, produce migliore qualità di vita: sarebbe auspicabile che fos-se una prassi abituale. Se la rete sanitaria diffusa non è qualificata, o talenon viene considerata dagli utenti, questi ultimi si rivolgeranno ossessiva-mente all’ospedale, eletto come garante di una buona sanità a scapito dellestrutture territoriali.

Le difficoltà di comunicazione si manifestano anche nei rapporti traspecialisti operanti nello stesso presidio, nei casi in cui il bambino malatopresenta patologie differenziate. I diversi medici non sempre si parlano, edil collegamento è portato avanti solo dalla famiglia.

Comunicazione e cultura della malattia

La comunicazione tra i medici ed i genitori incide sullo stile di cura fami-liare,mentre la distanza culturale e sociale tra operatori sanitari e pazientiaumenta il rischio di incomprensioni. Una comunicazione imperfetta pro-duce effetti negativi, che a volte sfuggono alla percezione dei medici, soprat-tutto quando non è stato dedicato tempo alla conoscenza della storia fami-liare. Genitori che protestano, che contravvengono le indicazioni terapeuti-che, sono genitori che non sono stati accolti. La capacità di ascolto, la comu-nicazione colloquiale, dovrebbero diventare stili comportamentali consuetie diffusi; la presenza dello psicologo in ospedale, nei momenti più delicatidella storia clinica del bambino, non può essere sostitutiva di una relazioneumana benevola e compassionevole. Se i sanitari assumono, nei riguardi deiloro interlocutori, un atteggiamento altezzoso, ermetico, frettoloso, verrà mi-nata la fiducia necessaria ai genitori per proseguire nei loro compiti. Si ac-centuerà la tendenza, già forte nei casi di malattia infantile, a trasferire sulmedico, quale capro espiatorio, frustrazioni e risentimenti. Così facendo, lafamiglia ritirerà sempre più la propria aspettativa benevola nei riguardi delmondo esterno, e l’efficacia terapeutica della medicina si attenuerà.

La sofferenza di cui tener conto non è solo quella presente nella diagno- 85

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si medica, ma si manifesta in forme diverse che sfidano il medico nella suadeontologia professionale. E la nostra stessa cultura della malattia e della vi-ta. La malattia è sempre presente nel percorso di vita. Un’educazione scor-retta, fondata sull’onnipotenza o sulla difesa ad oltranza del sé, porta a leg-gere l’evento morboso quale oltraggio ai propri diritti alla felicità. Così nonè, ovviamente. Il bambino malato è l’espressione delle complesse relazioniche sostanziano l’essere-al-mondo. La sua sofferenza riguarda tutti, è unasorta di insegnamento, doloroso fin che si vuole, rivolto all’ambiente pros-simo. Stimola negli altri sentimenti di protezione e solidarietà, ridonandodignità a individui che non sempre l’hanno manifestata. Il bambino colpitodal morbo esprime la nostra fragilità, ci induce a considerare la vita comeoccasione di gioia e bellezza.

Note

1. Legge 5 febbraio 1992 n. 104 – Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione socialee i diritti delle persone handicappate (Gazzetta Ufficiale 17 febbraio 1992, n. 39,S.O.).

2. Legge 15 marzo 1997, n. 59, Delega al Governo per il conferimento di funzioni ecompiti alle regioni e agli enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione eper la semplificazione amministrativa (Gazzetta Ufficiale del 17 marzo 1997, n. 63).

3. N. Pacini, I. Monaco, Rapporti con il personale medico e paramedico – La scuola inospedale – Modelli relazionali e organizzazione del lavoro per una scuola inOspedale Pediatrico, supplemento a Informazioni I.R.R.S.A.E Liguria n 9, settem-bre/dicembre 1988.

4. C. Moro – Progetto Torino 2000 – Ospedale Regina Margherita di Torino, SeminarioNazionale Interdirezionale – Le nuove tecnologie nella scuola in ospedale, Genova,aprile 1998.

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IL DISAGIO NELLA SCUOLA

4.1 Di cosa stiamo parlando?

Comunemente diciamo che il disagio è un fenomeno ampiamente dif-fuso e difforme di malessere, prodotto da cause diverse: sociali, culturali,emozionali, istituzionali, familiari. «Genericamente con il termine disagio cisi riferisce alle difficoltà che ha un soggetto ad usare le proprie capacità inrelazione conseguentemente con una certa quota di sofferenza emotiva sulpiano dei rapporti interpersonali» (Barone).

Il disagio scolastico va inteso come insieme di difficoltà relazionali e diapprendimento, in stretta interdipendenza. Vanno abbandonate le idee del-l’eccezionalità del disagio a scuola, per assumere un nuovo paradigma, che,dato il cambiamento avvenuto di società e scuola, comprenda costanza e ri-corsività. Pur essendo usata frequentemente, l’espressione «disagio scola-stico» dovrebbe essere sostituita con «il disagio che si esprime a scuola»; nelsenso che difficoltà di natura diversa, che originano da problemi nella vitadi un bambino anche profondi e remoti, si esprimono e/o si acuiscono afronte delle richieste della nuova situazione rappresentata dalla scuola. «Piùcorrettamente si può dire che (il disagio che si esprime a scuola) è frutto del-la relazione intercorrente tra un bambino che vive un’esperienza di disagioe l’adulto, l’insegnante, l’operatore che entra in rapporto con lui, sentendo-si a disagio a sua volta» (Bucciarelli).

In relazione all’eziologia del «cosiddetto» disagio scolastico, pare appli-cabile anche a questo contesto un ragionamento su una serie di fattori fa-vorenti (Scheda A):

❖ ascrivibili alle dinamiche del sistema sociale globalmente inteso;

❖ rilevabili nel contesto relazionale più prossimo all’individuo, nella fa-miglia in particolare;

❖ rintracciabili in problemi delle funzioni cognitive e strumentali e/odella sfera affettiva e relazionale e/o in eventi imprevedibili/scate-nanti;

❖ riferibili alle condizioni di funzionamento della scuola, al «clima» edalle relazioni interne.

In un’ottica che potremmo definire prognostica, resta fuori discussioneche la possibilità di percorrere regolarmente l’itinerario della socializzazio-ne scolastica resta ancora il migliore, anche se non l’unico, predittore di unvissuto indenne da rischi inaccettabili, da disagi insopportabili, da emargi-nazioni ingiuste o da devianze pericolose.

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Disagio, malessere, insuccesso.

Quel che è necessario subito sottolineare è che il processo formativo og-gi, a differenza che nel passato, è caratterizzato da un modello policentrico,cioè da una molteplicità di interventi posti in atto da soggetti formativi di-versi in relazione non gerarchizzata tra loro.

Con la consapevolezza «che il successo scolastico è una parte del suc-cesso formativo. […] Il primo contribuisce al secondo, non lo sostituisce»,1

si intende riproporre l’importanza di declinare insieme, per quanto riguar-da l’ambito scolastico, disagio/agio/benessere e insuccesso/successo comevariabili interdipendenti fra loro, e dipendenti anche dal tipo di azione for-mativa che la scuola mette, o può mettere, in atto.

Disagio ed insuccesso scolastico non sono sinonimi. Certamente esisteuna stretta relazione tra agio-disagio/successo-insuccesso scolastico, seconsideriamo l’importanza del senso di appartenenza e di come questo siastrettamente correlato con il livello di autostima dei bambini; ma l’apparte-nenza, la disponibilità a identificarsi e a spendersi nell’istituzione, cambia-no radicalmente di intensità, a seconda che si vivano diverse situazioni di ti-po affettivo, sociale e intellettivo.

Sembra addirittura banale ricordare che un bambino-ragazzo che nonsta bene, che soffre, non può imparare bene; le sue energie, la sua attenzio-ne, saranno distratte e disturbate dallo sforzo per il controllo di sé e della si-tuazione.

Un bambino o una bambina può sentirsi ospite indesiderato a scuola,oppure «prigioniero», non accettato, o più semplicemente non riesce a ca-pire gli scopi e le regole del gioco; comunque sia vivrà male l’esperienzascolastica.

È necessario perciò capire cosa succede nel bambino/bambina, per ilfatto di essere obbligato/a ad esercitare il diritto di frequentare la scuola, efar sì che si producano risultati positivi in termini di crescita personale e diapprendimento, evitando che la frequenza si riduca ad un «pedaggio» da pa-gare per diventare grande. L’obbligo scolastico non deve produrre discrimi-nazione negativa per chi è, in un certo senso, «costretto a sperimentare l’in-successo». La frequenza scolastica può essere vissuta in modo più o menopositivo o negativo, in relazione al vissuto della propria condizione, forte-mente influenzato dalla percezione che il bambino ha di essere «tenuto inconto».

Va evidenziata, ancora, la correlazione tra la percezione che il bambinoo la bambina ha dell’essere tenuto/a in conto, il grado di benessere scolasti-co (intendendo benessere come essere in relazione positiva con se stessi econ gli altri) e tra queste, che potremmo considerare delle precondizioni, ela qualità dell’apprendimento: poiché dal benessere nascono le motivazio-ni per capire, informarsi, investire energie ed idee nel gruppo classe, che al-lora diventerà non solo un aggregato di individui nello stesso spazio, ma unriferimento per la propria crescita individuale. Nel gruppo classe, grandeimportanza hanno quegli insegnanti che riescono ad avere uno «spazio nel-la mente» per ogni bambino e bambina, cercando di conciliare il diritto diciascuno alla propria formazione e la valorizzazione delle personalità indi-viduali, con la dimensione comunitaria del fare scuola.88

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Infine, una correlazione che va ancora evidenziata è quella fra disagioscolastico e forme di insuccesso non scolastico, sul piano affettivo, familia-re, sociale, ecc. Su questa base germina gran parte della devianza: se il bam-bino si scontra con diverse forme di insuccesso, fra le quali si stabiliscononecessariamente relazioni, si crea un circolo vizioso in cui il suo disagio nonpuò che aumentare.

Gli interventi educativi e sociali svolti in un’ottica di prevenzione cerca-no di impedire che si verifichino queste correlazioni. Ma le diverse situazio-ni di tipo affettivo, sociale e intellettivo cui si è fatto cenno non si realizzanosolo in ambito scolastico, né caratterizzano esclusivamente la condizione discolaro: non dobbiamo dimenticare che la scuola non è «il» luogo che deci-de del bene e del male della vita di un bambino, che lo salva o lo annienta,ma «una» delle opportunità a disposizione del bambino: importante, nonunica.

Da ciò il richiamo alla necessità di un impegno condiviso tra i diversi at-tori ed enti o agenzie educative, nella ricerca dei giusti raccordi interistitu-zionali.

Fattori del disagio

Lo svantaggio socio-culturale ed economicoPressoché in tutte le scuole troviamo taluni bambini o ragazzi che vivo-

no in famiglie, la cui situazione è caratterizzata da svantaggio socio-cultura-le, rispetto ad un ipotetico livello standard; vi sono realtà scolastiche inseri-te in territori in cui il numero delle famiglie e di bambini che vivono una si-tuazione simile è elevato, e in cui spesso, proprio per questo motivo, il lavo-ro di prevenzione e contenimento del disagio ha una storia più antica emaggiormente visibile.

Cause di tipo prevalentemente sociale e culturale influiscono sul pro-cesso di interiorizzazione della cultura, e sono alla base di carenze nella ca-pacità linguistica e di concettualizzazione, così come nelle motivazioni allostudio, provocando piuttosto spesso anche fattori psicologici secondari cheaggravano il quadro (frustrazione, sensi di colpa, autosvalutazione, …). Inestrema sintesi, succede che una forma di svantaggio socio-culturale, pre-sente già all’ingresso di questi bambini a scuola, sia causa di difficoltà, chea loro volta possono causare un accrescimento dello svantaggio stesso, e deldisagio conseguente. Si rischia così un circolo vizioso, in cui le disugua-glianze tendono spontaneamente ad aumentare nel corso degli anni dellafrequenza scolastica.

Ci si riferisce soprattutto: a famiglie troppo numerose; a diversi nucleiconviventi in situazioni di sovraffollamento; alla rottura di nuclei familiaricon assenza di una delle figure adulte di riferimento; alla presenza di pato-logie organiche e/o psichiche e a frequente ospedalizzazione civile o psi-chiatrica di un membro della famiglia; alla presenza di una madre depres-sa/esaurita; a scarsa o errata alimentazione; a stato di povertà economica.

Certo, oggi si parla meno di povertà in senso «classico», e più di «nuova»povertà: «si parla di povertà assoluta, di povertà relativa, di quasi povertà, dipovertà estrema, riferendosi ad essa come ad un fenomeno multifattoriale, 89

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sul quale non incide solo la variabile economica, ma anche gli aspetti rela-zionali, l’ambiente di vita, l’istruzione, ecc.».2 Ci si riferisce quindi a perso-ne che vivono in situazioni di fragilità e precarietà, con assenza di relazionisociali significative, e quindi in isolamento sociale ed affettivo. Si parla an-cora di «povertà educativa», in presenza di un ambiente scarsamente sensi-bile alla cura del bambino, privo di stimoli.

Lo svantaggio socio-culturale fa riferimento proprio a questi ultimi temi,in relazione con la situazione socio-economica di vita.

Problematiche emozionaliParlare di disagio esclusivamente causato da svantaggio socio-culturale

sarebbe tuttavia limitativo. Ci sono bambini e bambine che esprimono undisagio di tipo emozionale, che sembrerebbe provocato da squilibri, caren-ze, frustrazioni affettive sofferte nell’ambiente familiare. Il riferimento è al-le disarmonie familiari che disturbano il processo di identificazione coi ge-nitori; a incoerenza educativa fra un genitore e l’altro; ad un clima familiarecaratterizzato dall’aggressività; a iperprotezione del bambino, cui viene evi-tato il contatto con la realtà e negate anche le normali frustrazioni, incre-mentando i sentimenti di dipendenza e rendendo difficile ogni tentativo disocializzazione. A genitori troppo esigenti e perfezionisti, che chiedono ai fi-gli prestazioni sproporzionate al patrimonio intellettivo e all’età, inducendosentimenti di colpa ed inferiorità negativi in ambito scolastico.

In queste situazioni i bambini esprimono difficoltà a convivere con com-pagni ed adulti, ad accettare un minimo di regole di convivenza. Emergonoforme di isolamento e/o aggressività, cambiamenti improvvisi di umore, ecc.

Difficoltà ad apprendereUn disagio che potremmo definire cognitivo, è tipico di quei bambini

che incontrano soprattutto difficoltà nell’apprendimento.

❖ Ci sono bambini con piccoli danni a carico del sistema nervoso, incui vi è una maturazione cerebrale disarmonica, che si traduce in dif-ficoltà di apprendimento in particolari settori; per questi bambiniesistono non pochi problemi di individuazione e diagnosi, prima an-cora che di intervento; dovrà essere messo in campo, in un indispen-sabile lavoro interdisciplinare, anche un forte impegno di professio-nalità specialistiche di tipo neuropsichiatrico e psicologico.

❖ Ci sono bambini con un disturbo funzionale dell’apprendimento. «Sitratta di bambini intelligenti, che spesso hanno avuto separazionifrequenti e precoci dalla famiglia e che all’entrata nella scuola mater-na, elementare e media, presentano delle notevoli difficoltà ad ap-prendere il linguaggio parlato, scritto, letto, ed il calcolo aritmetico.Possono apparire ben adattati alla vita sociale, anche se spesso sonodefiniti timidi o turbolenti, inibiti o aggressivi, sempre comunque inseria difficoltà per un buon inserimento scolastico … Sono queglialunni che non presentano dei seri disturbi psicopatologici, né pro-blemi socio-economici-culturali importanti, ma piuttosto un distur-bo funzionale, senza lesioni organiche evidenziabili».390

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❖ Ci sono bambini che incontrano «troppe» difficoltà ad apprendere,più direttamente connesse con l’organizzazione dei saperi propostadalla scuola. Il linguaggio e gli strumenti utilizzati in essa sono scar-samente adeguati ai cambiamenti di talune strutture del pensiero in-fantile odierno, la disabitudine all’uso di risorse logiche base dell’ar-gomentazione, ecc.

Rispetto all’apprendimento, il confine fra «difficoltà» e «patologia» in al-cuni casi è molto incerto, labile, aleatorio, discutibile e discusso; ma si è fat-ta strada l’idea della pericolosità di una sanitarizzazione del problema nellascuola. È ormai universalmente accettata una logica che non legge più ledifficoltà o diversità come incompatibili con la vita della scuola e/o comecarenze o disturbi da curare, sicché si possono aiutare gli alunni in difficoltàsenza concepirli necessariamente come «malati».

Essere bambini stranieriSi è quasi costretti a trattare separatamente il possibile disagio dei bam-

bini stranieri, figli di emigrati da paesi poveri extracomunitari, che si trovanoa fare i conti con problemi che possono originare dalla somma di diversitàcon i loro coetanei, legate ad aspetti culturali, etnici, linguistici, religiosi.

«Le trasformazioni che stanno interessando i flussi migratori degli ultimianni, in particolare la crescente incidenza dei ricongiungimenti familiari ela progressiva stabilizzazione dei nuclei immigrati in Italia, influiscono si-gnificativamente sulla presenza dei minori stranieri nel nostro Paese e, inspecial modo, nelle scuole italiane. Esiste un ampio consenso nel ritenereche la scuola rappresenti il primo e il principale canale d’inserimento deiminori immigrati nel Paese ospitante e quindi rivesta il ruolo di ambito im-portante di confronto/incontro tra culture diverse, oltre che di luogo desti-nato alla trasmissione e alla costruzione di modelli culturali. …potendo in-serire anche i minori irregolari, la scuola diviene un ambito privilegiato diosservazione del fenomeno migratorio legato alle fasce più giovani, poichédà visibilità anche a coloro che non sono registrati ufficialmente».4

Questi alunni che tipo di situazioni di disagio vivono? La loro presenza,e la multiculturalità che si crea di fatto nelle scuole, rappresenta anche unarisorsa, un’opportunità, o è soprattutto un problema? Il problema eviden-ziato dalla presenza di alunni stranieri è come nella scuola si possono ga-rantire pari opportunità educative a tutti i bambini e le bambine.

Anche la scuola in Italia si confronta con il fatto che l’aumento dellapresenza infantile straniera, a differenza che in altri Paesi europei, è statosolo recentemente massiccio, ed ha riguardato bambini provenienti daaree del mondo molto diverse, e lontane fra loro sia geograficamente siaculturalmente. Soprattutto nella scuola di base, diverse culture entrano incontatto e si confrontano su aspetti intimi, quali i problemi relativi all’ac-cudimento e all’educazione dei bambini; aspetti importanti per l’identitàdi ciascuno e di ciascun gruppo, delicati sul piano emotivo, che chiamanoin causa le diverse interpretazioni del ruolo genitoriale e le rappresentazio-ni dell’infanzia.

Rispetto ai bambini arrivati nel nostro Paese da poco, si può osservareuna differenza significativa, a seconda che abbiano già alle spalle un’espe-

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rienza di scolarizzazione nel loro Paese d’origine o in un’altra nazione, o no.Nel primo caso, incontrano minori problemi nell’integrazione scolastica;nel secondo l’indispensabile alfabetizzazione e l’insegnamento della linguaitaliana come seconda lingua devono ancor più fare i conti con la necessitàdi un’accoglienza globale e un’attenta cura degli aspetti affettivi.

La necessità, comune peraltro a tutti i bambini e le bambine, di trovarenella scuola un posto «caldo», affettivamente valido, che fornisce concretiappigli di realizzazione e valorizzazione umana e culturale, non è ostacola-ta solo da difficoltà linguistiche. Al nostro livello di ragionamento, l’appren-dimento della lingua italiana può assumere una particolare problematicità,per esempio quando il bambino si trova ad essere eccessivamente respon-sabilizzato con improprie richieste di diventare un facilitatore di relazioni,su problemi la cui mediazione, più che linguistica, è culturale in senso lato.Sempre a livello di insegnamento della lingua italiana, un tema emergenteche riguarda tutti, pur essendo nel caso specifico più accentuato, è la moti-vazione alla comunicazione, cioè sapere «cosa, perché e a chi comunicare».

Per i genitori dei bambini stranieri i problemi non si limitano all’ambitolinguistico; spesso si pongono con maggior forza problemi che attengonoalla costruzione dell’identità, che è strettamente intrecciata con il senso diappartenenza: bambini stranieri che vogliono a tutti i costi essere italiani,genitori che si sentono integrati come stranieri in Italia, e faticano ad accet-tare che i figli non si sentano per nulla stranieri. Ci sono genitori che incon-trano difficoltà a fornire adeguato sostegno ai figli, rispetto a situazioni nuo-ve in un universo sociale differente da quello ben conosciuto del paese diprovenienza. È ancora alto il numero di genitori immigrati che non hannoalle spalle un’esperienza scolastica, e anche per questo si trovano a corto diopzioni da confrontare e proporre alla scelta dei figli, sentendo così la pro-pria storia personale troppo lontana e scarsamente utile a sostegno alla lo-ro genitorialità.

La situazione delle madri spesso è particolarmente difficile: le mammenon lavoratrici vivono condizioni di isolamento non dissimili da quelle ita-liane, aggravate dalla debolezza o assenza di reti sociali parentali e comuni-tarie inclusive e protettive; le madri lavoratrici non possono, per esempio,fare ricorso alle nonne, una delle soluzioni più praticate anche dalle colle-ghe italiane.

Un altro tema fondamentale nella riflessione sulla qualità del sistemascuola, riproposto dalla presenza di alunni stranieri, è quello della condivi-sione educativa fra famiglie e istituzione. Si può far riferimento alle diver-sità di quadri normativo-valoriali, che sono importantissimi per tutto ilquadro del funzionamento mentale e delle performance di ciascun indivi-duo. Tutto ciò assume una grande importanza, perché nella comunicazio-ne interculturale è fondamentale non dimenticare che ci sono regole e mo-dalità diverse, oltre che diversi strumenti: ci si confronta con «parole», si dàun nome alle cose del mondo e si «mette in parola» il proprio vissuto in mo-do differente. Si devono tenere presenti questi problemi, se si vuole che lescuole rappresentino «luoghi in cui possono crearsi legami positivi con lacomunità locale e con l’amministrazione pubblica, in cui si possono fareesperienze di partecipazione sociale, luoghi in cui il confronto fra culture èposto in risalto». 592

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La famiglia è centrale, sempre

Il disagio scolastico dei bambini è parte ed allo stesso tempo concausadi un più ampio disagio formativo, per la comprensione del quale non sipuò prescindere dalle diverse tipologie di famiglia che si muovono nello sce-nario sociale.

A proposito del disagio nei contesti familiari, il Rapporto 2000 sull’e-marginazione e l’esclusione sociale6 parla di «una fenomenologia del disa-gio familiare che tende a svilupparsi lungo due direttrici parallele:

❖ da un lato, la tendenza al progressivo coinvolgimento in situazioni diemarginazione e sofferenza di famiglie socialmente inserite, formal-mente coese, ma che manifestano al loro interno situazioni di lacera-zione e di disagio intergenerazionale. (…)

❖ d’altra parte situazioni di disagio in famiglie caratterizzate dalla per-manenza di forme tradizionali di povertà e contemporaneamente se-gnate da lacerazioni …», sempre più multiproblematiche.

Soprattutto fra queste ultime famiglie e le istituzioni emerge moltospesso un’interazione disturbata. Vediamo rapporti strumentali, nel sensoche istituzioni e/o servizi vengono avvicinati solo per obbligo, o per rispo-ste immediate a situazioni di bisogno; scarsa discriminazione, nel sensoche il giudizio dipende esclusivamente dal grado di soddisfacimento dellarichiesta presentata; eccessiva personalizzazione, con l’identificare l’interaistituzione o servizio con il singolo operatore, percepito come detentoreunico del potere decisionale. Inoltre il peso esercitato dalle culture familia-ri è sempre rilevante. Queste si possono rappresentare come un vero e pro-prio «patrimonio culturale» che «continuerebbe, nonostante tutte le politi-che sociali realizzate, a operare da forte discrimine tra gli alunni, indiriz-zandone modelli di socializzazione e definendone le capacità effettive diapprendimento. … Vi è la possibilità concreta che, davanti ai mutamentiprofondi indotti dalla diffusione delle nuove tecnologie, i patrimoni cultu-rali a disposizione dei singoli bambini e ragazzi contribuiranno ad ap-profondire le disuguaglianze (…)».7

Accenneremo solo ad alcuni di questi cambiamenti che, essendo tra-sversali, attraversano i diversi tipi di famiglia. Questi non rappresentano, diper sé, fattori di rischio che si cumulano ed interagiscono fra loro, ma pos-sono essere anche fattori di opportunità, a seconda di come si declinanonella concreta esperienza familiare ed in relazione con il territorio.

Le famiglie sono cambiate, per composizione e dimensioni. Alle famigliemononucleari si affianca una crescente e diversificata minoranza di famiglie«post-nucleari»: un solo genitore, più spesso la madre; uno dei partner nongenitore, che può avere altri figli; diversi nuclei familiari provvisoriamenteconviventi; «moltiplicazione» dei nonni; nonni conviventi per periodo pre-fissati; parenti che suppliscono alle carenze di genitori inadeguati, ecc.

Soprattutto per le mutate condizioni delle donne, non riconducibili soloalle nuove realtà lavorative, è aumentato il numero di madri che lavoranofuori casa, che generano ad un’età più avanzata il primo figlio, il quale spes-so rimane unico; diminuite le situazioni familiari in cui a prendersi cura dei 93

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figli troviamo altri parenti conviventi. Ovviamente il fenomeno dell’innalza-mento dell’età, così come quello della scelta del figlio unico riguarda anchei padri; anche nelle famiglie «tradizionali», talvolta, fratelli o sorelle nati indiverse epoche di vita dei genitori assumono connotazioni da figli unici.Tutto ciò spiega la diffusione della genitorialità come scelta fondamental-mente culturale, basata su processi di autorealizzazione degli adulti.L’opzione della genitorialità è diventata solo una delle possibilità, sia pureimportante, per gli uomini e le donne. Ci troviamo di fronte a genitori abi-tuati a rivendicare la propria realizzazione attraverso il lavoro e la produzio-ne; che, quando si sentono «finalmente arrivati», generano figli ai quali nonlasciano posto e per i quali non prevedono un futuro migliore (e non inve-stono quindi molto).

Nei confronti del proprio bambino prevale soprattutto un sentimento diproprietà autorealizzativa, in cui lo «stare molto» e il «fare molte cose» conlui serve innanzitutto a rinforzare la propria autostima personale di «bravogenitore». Spesso questo stesso genitore ricerca soluzioni alimentando ilmercato di specialisti, consulenti, psicologi, riviste, enciclopedie.

In questo clima, è facile che si deprimano le «sane» spinte alla ribellione,indispensabili per crescere staccandosi dalla famiglia. A complicare le cose,molti di questi genitori si trovano schiacciati in una relazione che li vede an-cora figli di nonni giovanili, se non giovani, e/o bisognosi di attenzioni e cu-re. In una dimensione fluttuante, dove vi è confusione e scarsa chiarezza suruolo, funzione e compiti dei genitori, è facile che si assista ad un affievoli-mento della loro autorevolezza. Gli adulti, sempre più amici e fratelli mag-giori, per non essere autoritari e impositivi non offrono ai loro bambini mo-tivazioni forti ed il gusto dell’impegno, contribuendo a farli diventare incer-ti e demotivati. «È paradossale, ma una confusione esagerata tra compiti im-pegni e risultati determina non tanto un «rilassamento» nelle azioni, mauna «demotivazione confusa negli obiettivi» che fa correre rischi per lo svi-luppo psicologico e sociale dei bambini. Se accompagniamo questo aspettoal fatto autoidentificatorio di una più massiccia presenza psicologica adultanelle motivazioni del bambino (con una presenza forte di cose da fare in co-mune) e un bambinismo adulto, ecco apparire un bambino meno divergen-te di quanto vorremmo. Sì, certo: meno divergente, meno cioè coraggiosonelle proprie azioni ma più portato a gratificare l’adulto o all’acquisizionepassiva di modelli preconfezionati.».8

Scheda A – Il disagio scolastico: manifestazioni e indicatori

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Principali manifestazioni• basso livello delle prestazioni, eccessiva eterogeneità dei livelli di apprendi-

mento, insuccesso scolastico non dovuto a deficit;• isolamento, solitudine, lontananza e scarsa capacità di instaurare positivi

rapporti con i compagni e con l’insegnante;• fobia scolare, pianto, ansia, fuga;• aggressività, bullismo, vandalismo, mini delinquenza;• rifiuto e/o disturbo delle attività, noia, iperattività;

segue

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4.2 Di chi stiamo parlando?

Attualmente non sembrano disponibili sul territorio locale ricerche este-se e/o confrontabili, che incrocino dati riferiti ai diversi tipi di indicatori acui ci si è precedentemente riferiti. Alcune scuole hanno cercato di colmarequesta lacuna con ricerche autonome o in collaborazione con agenzie di-verse.

Confronti da una ricerca romana

Da una recente ricerca condotta a Roma, che secondo gli autori può benrappresentare la realtà di tutta Italia, emerge che il 36% dei bambini, quasi4 scolari su 10, presenta un disagio a scuola.9 Il dato disaggregato rivela cheper il 10% circa il disagio si deve a difficoltà di apprendimento, per il 15% adifficoltà ad instaurare un rapporto con i compagni; nel 6% il disagio si ri- 95

• scarsità di attenzione, concentrazione, impegno, motivazione, aspettative;• precari livelli di autostima, di speranza e proiezione positiva nel futuro (ve-

dersi adulti);• debole autonomia individuale rispetto allo svolgimento di semplici attività;• difficoltà a raggiungere processi di astrazione;• problemi di memorizzazione, stentata assimilazione degli apprendimenti e

difficoltà a trasferirli in ambiti diversi; • ritardi, frequenze irregolari, abbandono.

Principali indicatori• Indicatori ambientali: socio – economici, di disaggregazione sociale, di ca-

rattere culturale, problematiche familiari;• Indicatori personali generali: di tipo emotivo e relazionale, di tipo intelletti-

vo, di tipo comportamentale, relativi al corpo, di cura;• Indicatori personali scolastici: attenzione e concentrazione, motivazione ad

apprendere, autonomia, relazionalità sociale e comunicazione, livello degliapprendimenti e delle competenze, frequenza;

• Indicatori a carico della scuola, che riguardano gli insegnanti: il sistema divalutazione, le disparità di trattamento, il carico di lavoro (compresi i compi-ti a casa), la preparazione sul piano educativo e culturale e le metodologie di-dattiche;

• le strutture: l’ubicazione della scuola, le barriere architettoniche, la struttu-razione dell’orario scolastico, l’organizzazione interna (scadenze varie, iscri-zioni, livello della comunicazione formale: orari di colloquio, accesso e mo-dalità);

• le relazioni: le violenze fra coetanei, il livello della comunicazione informale,le violenze degli insegnanti e degli operatori verso bambini e genitori.

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vela nell’ansia da inserimento, che si manifesta anche con vere e proprie fo-bie scolastiche, nel rimanente 5% il disagio risiede nella noia, nell’accettarela scuola con un senso di fastidio.

La ricerca tenta di individuare le responsabilità di questo disagio, che ri-trova nel 70% dei casi nella famiglia e nel 30% all’interno della scuola. Perquanto riguarda la famiglia, vengono evidenziate particolari responsabilitàin comportamenti di genitori troppo presenti o troppo assenti, che distor-cono la relazione del figlio con la scuola, e sovrastimano i figli, riversando sudi loro aspettative eccessivamente elevate.

Le responsabilità della scuola andrebbero equamente divise tra gli inse-gnanti e la scuola come istituzione. Gli insegnanti si sentono oberati da ec-cessivi carichi di responsabilità (si richiede loro di essere un po’ tutto: edu-catori, psicologi, assistenti sociali, sorveglianti), con scarsi spazi per la co-municazione fra colleghi e con i genitori degli alunni, scarsa conoscenzadelle dinamiche di gruppo e conseguente difficoltà nella gestione del grup-po-classe, pochi momenti di autoanalisi e verifica. È la scuola dove regnal’episodicità, che permette a buone progettualità (con punte di eccellenza)di convivere con una quotidianità spesso non attrezzata a farsi carico deibambini, per un numero di ore, giorni ed anni così elevato e importante.

Dati raccolti a livello locale

Un’indagine analoga, condotta nell’anno 1997 nelle scuole materne edelementari di una Direzione Didattica della periferia nord-ovest di Torino,raccoglieva i seguenti dati.10

Facendo riferimento agli indicatori elencati in precedenza, si è eviden-ziato che il 18,3% di alunni vivevano in famiglie problematiche (genitori se-parati, mancanza di un genitore, affidamento ai nonni o in comunità), il15% erano figli unici, mentre il 7,9% vivevano in famiglie con più di 3 figli;nel 5,3% dei casi si rilevava la convivenza fra diversi nuclei familiari. Nontrascurabile la presenza di famiglie che vivevano al loro interno esperienzequali l’uso di droghe o il carcere (6,1%), difficoltà economiche (13,8%), unasituazione lavorativa instabile o la disoccupazione dei genitori (10,3%).Infine, nel 4,2% dei casi, erano ancora presenti genitori analfabeti.

Rispetto al secondo gruppo di indicatori, i docenti indicavano, nellescuole elementari, che il 15% di bambini manifestava situazioni scolasticheparticolarmente problematiche, con prevalenza degli aspetti emotivo-com-portamentali; il 4,2 % avevano una evidente scarsa cura dell’igiene persona-le e il 5,6% presentava vistosi problemi nel rapporto peso/altezza.

Rispetto al terzo gruppo di indicatori si rilevava che il 24,1% dei bambi-ni manifestava problemi di attenzione, il 6,9% comportamento motorioscomposto, il 12,2% metteva in atto azioni ripetute di disturbo. Per l’8,8%degli studenti si notava una generale mancanza di autonomia, per il 7,9% at-teggiamenti aggressivi, per l’8,2% atteggiamenti rinunciatari, per il 13,3%problemi di linguaggio. Complessivamente, il 17% degli alunni aveva note-voli problemi di apprendimento scolastico. Il 6,1% degli alunni aveva una

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frequenza scolastica discontinua. Infine veniva sottolineata la scarsa parte-cipazione dei genitori alla vita scolastica dei figli.

In questa ricerca si sono utilizzati dati forniti dagli insegnanti, con note-vole fiducia nelle loro capacità di cogliere elementi significativi di disagioquali fattori di rischio educativo. La prevalenza delle percezioni dei docentirispetto alla problematica del disagio dei bambini a scuola, non è di per séun tratto negativo. Bisogna infatti considerare che gli insegnanti «vivono» leclassi per come le descrivono: le percezioni e le rappresentazioni che hannodella realtà, pur non corrispondendo sempre e necessariamente alla «ogget-tività», contribuiscono in modo significativo alla sua costruzione, e condi-zionano i loro comportamenti, l’atteggiamento complessivo della scuola, lestesse performance degli alunni.

Ulteriori elementi di indagine

Altri elementi utili, sul modo di condurre la propria vita e quella scola-stica in particolare, di bambini e bambine torinesi, si possono ricavare al-l’interno di due ricerche condotte nelle scuole elementari e medie inferioridel territorio della Circoscrizione n. 5 di Torino. Queste ricerche11 sono sta-te alla base del lavoro di un gruppo che ha prodotto anche proposte e ma-teriali di intervento per un’azione pedagogico-didattica di prevenzione del-la violenza fra coetanei nella scuola.

Nelle scuole elementari vennero intervistati, mediante questionarioanonimo, 584 bambini e bambine delle classi quarte e quinte. Quasi il 96%di questi alunni aveva un buon rapporto con i genitori (il 76,5% dichiaravadi andare «molto» d’accordo con il papà ed il 76,9% con la mamma). Fra lecose che piacevano meno della propria famiglia era indicato il «non poterfare quello che voglio» nel 26,7% delle risposte, «i litigi con i miei fratelli e so-relle» nel 38,7%, «i litigi tra gli adulti» nel 27,9%, «le punizioni che mi danno»nel 14,2%, altro nel 7,4%, «non poter confidarmi, parlare» nel 4,2% e «lamancanza di affetto» nel 2,4% delle risposte.

L’esperienza scolastica era vissuta in maniera piuttosto positiva, salvoche da una minoranza peraltro consistente. Alla domanda: «Venire a scuolati piace?», il 40,3% ragazzi rispose «molto», il 45,7% «abbastanza», mentre al14% l’esperienza piaceva «poco» o «nulla».

Alcune domande facevano emergere orientamenti, che evidenziavanol’importanza degli aspetti relazionali, sia di tipo orizzontale (tra compagni)sia di tipo verticale (tra alunni e insegnanti). Alla domanda: «Cosa ti piace dipiù della tua scuola?» le risposte furono: «Stare con gli amici» (30,5%), «Lecose che si imparano» (25,3%), «Le attività diverse» (24,8%), «La gentilezza el’amicizia delle maestre» (17,4%), altro (1,9%). Le risposte alla correlata do-manda: «Cosa ti piace di meno della tua scuola?», sono state: «Dover staretanto tempo fermo e attento» (28,4%), «Il comportamento dei compagni»(26,2%), «I compiti e lo studio troppo difficili» (20,9%), «La severità dellemaestre o dei maestri» (14,7), altro (9,8%).

Un ulteriore conferma veniva dal fatto che il 91,9% dei/delle bambi-ni/bambine andava d’accordo con i compagni («molto» 44,2%, «abbastan-

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za» 47,7%) e che l’89% dichiarava che diversi compagni erano «veramenteamici» (60,6% «tanti», 28,4% «due o tre», solo 1,8% «nessuno»). Infine al85,8% piaceva abitare nel proprio quartiere («molto» al 53,2%, «abbastan-za» al 32,6%).

Nelle scuole medie inferiori, una precedente analoga ricerca avevacoinvolto 1414 studenti di tutte le classi di cinque scuole. L’88,4% degli stu-denti vivevano con entrambi i genitori, ed i rapporti con loro apparivanopiuttosto buoni (il 62,3% li definiva «molto buoni» con il padre ed il 72%con la madre). Ciò che piaceva di più della propria famiglia era, per il42,4%, «l’affetto che mi danno» e per il 25,3% «la fiducia che hanno in me»;quello che piaceva di meno erano «le punizioni» per il 35,1%, «i litigi fra gliadulti» per il 31,8%, mentre di «mancanza di libertà» si lamentava il 14,3%degli studenti.

Andare a scuola piaceva abbastanza alla maggioranza degli studenti(59,7%) e molto al 12,2%, ma erano ben il 28,1% coloro a cui piaceva poco oper nulla. I motivi per cui la scuola piaceva erano soprattutto «perché ci sitrova con gli amici» (39,2%) e «per le attività diverse dallo studio che vi si svol-gono» (22,7%). Ciò che, invece, piaceva di meno della scuola erano «le diffi-coltà nello studio» per il 29,5% degli studenti, «gli atteggiamenti dei compa-gni» (21,3%), «la severità dei professori» (20,4%). I rapporti con i compagnierano molto significativi: praticamente tutti (96,3%) affermavano di avererapporti «molto» o «abbastanza» buoni con i compagni di scuola; il 50,2% de-gli studenti aveva i migliori amici a scuola; seguivano a distanza notevole ifratelli e i cugini (16,7%). Il 52,9% apprezzava il gruppo di amici, soprattutto«perché si gioca e ci si diverte insieme», il 24,2% «per l’aiuto che può offrire».

In sintesi, anche qui sembrava molto apprezzato e gradito il ruolo e lospazio di socializzazione offerti dalla scuola, decisamente meno il suo ruo-lo istituzionale di istruzione e formazione.

Questi ragazzi sembravano avere una buona immagine di sé, anche dalpunto di vista scolastico; la cosa che piaceva di meno di sé era rappresenta-ta dalle difficoltà nello studio (33,4% degli studenti) e dall’aspetto fisico(29,4%). In generale si dichiaravano contenti del quartiere dove abitavano(88,2%), soprattutto per la presenza degli amici (60%).

Emerge, in sostanza, l’immagine di un bambino o una bambina «nor-male», o almeno che così si percepisce, relativamente soddisfatto/a di comeè, della vita che conduce e delle relazioni che intesse, relazioni per le quali ilcontesto scolastico si rivela importantissimo.

Eppure, non pochi di questi ragazzi e ragazze/bambini e bambine (qua-si 4 su 10 nella scuola elementare secondo la ricerca romana, ma le cose nonvariano molto analizzando i dati della ricerca di Torino nord-ovest) vivono emanifestano, anche a scuola, situazioni di disagio, che talvolta a causa dellascuola stessa si acuiscono.

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4.3 Ciò che preoccupa

Bullismo: la violenza fra coetanei

Fra le manifestazioni di disagio che maggiormente preoccupano tutti gliadulti ma anche i bambini, spicca negli ultimi anni il fenomeno del «bulli-smo» nella scuola. Ne è testimonianza l’aumento di ricerche, analisi, saggi ela crescente richiesta di formazione specifica da parte del personale. D’altraparte studi nazionali ed europei sembrano rilevare un aumento ed una di-versificazione del fenomeno della violenza fra minori, in particolare nellescuole.

È soprattutto l’enfasi dei mass-media che fa considerare il bullismo co-me un fenomeno in crescita smisurata, o addirittura nuovo, mentre sarebbepiù ragionevole pensare ad un aumento di visibilità del fenomeno, favoritadall’interesse per il tema della violenza ai bambini, e dal diffondersi di mo-delli di relazione adulto-bambino maggiormente basati sul dialogo, con unamaggiore attenzione ai diritti individuali ed alla loro tutela.

Scheda B – Il bullismo: definizioni

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Un inquadramento del problema ce lo fornisce lo psicologo norvegese DanOlweus, forse lo studioso maggiormente conosciuto: «Uno studente è oggettodi azioni di bullismo, ovvero è prevaricato e vittimizzato, quando viene espo-sto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto daparte di uno o più compagni. Un’azione viene definita offensiva quando unapersona la infligge intenzionalmente o arreca un danno o un disagio a un’altra.Tali azioni negative o «prepotenze» possono essere compiute attraverso: 1)contatto fisico (percosse di varia natura e intensità), 2) parole ingiuriose o ge-sti offensivi, 3) allontanamento o esclusione dal gruppo». Per poter parlare dibullismo deve anche esserci «uno squilibrio di forze, ossia una relazione di po-tere asimmetrica, per la quale il ragazzo esposto ai tormenti evidenzia diffi-coltà nel difendersi».12 Olweus distingue tra i bulli il tipo «aggressivo» e quello«passivo» (che partecipa ma abitualmente non prende iniziative), e tra le vitti-me il tipo «passivo-sottomesso» e quello «provocatore». Sharp e Smith ci forniscono questa definizione: «Un comportamento da «bul-lo» è un tipo di azione che mira deliberatamente a ferire: spesso è persistente,talvolta dura per settimane, mesi e persino anni ed è difficile per coloro che nesono vittime difendersi. Alla base della maggior parte dei comportamenti so-praffattori c’è un abuso di potere e un desiderio di intimidire e dominare. (…)Il bullismo assume forme differenti: fisiche, verbali, indirette. Le vittime deibulli hanno vita difficile, possono sentirsi oltraggiate, possono provare il desi-derio di non andare a scuola. Nel corso del tempo è probabile che perdano si-curezza e autostima, rimproverandosi di «attirare» le prepotenze dei loro com-pagni. Questo disagio può influire sulla loro concentrazione e sul loro appren-dimento».13

A. Fonzi nel presentare una ricerca svolta in diverse regioni italiane scrive: «…Con il termine bullismo si intende riunire in un’unica categoria sia gli aggres-sori che le vittime (…) intenzionalità, persistenza e disequilibrio sono gli ele-menti che caratterizzano il fenomeno del bullismo; i primi due sono a carico

segue

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A Torino è stata condotta sul bullismo una ricerca in diverse scuole me-die, coordinata da F. Prina, che scrive: «Parlando di bullismo intendiamo ri-ferirci a comportamenti di tipo offensivo, provocatorio, prevaricatorio, inti-midatorio, ricattatorio, aggressivo, violento, che si concretizzano in azioni –episodiche o reiterate – quali percosse, maltrattamenti, minacce, insulti,umiliazioni, molestie e abusi sessuali, furti, estorsioni, esclusione dal grup-po, che connotano relazioni caratterizzate da aggressività, prepotenza,mancanza di rispetto per le sensibilità, la dignità, i diritti altrui, che si svi-luppano in situazioni in cui sono presenti, in qualità di attori della relazio-ne, singoli o gruppi di “aggressori”, singole o gruppi di “vittime”, singoli ogruppi di “osservatori”».15

È utile accennare, anche solo brevemente, ad alcuni fattori favorenti l’in-sorgere del bullismo, invitando innanzitutto alla cautela, per non cadere intrappole di semplificazione e di stereotipia, in particolare per quanto riguar-da i fattori ascrivibili alle dinamiche del sistema sociale globalmente inteso.

Alcuni di questi fattori favorenti si possono individuare nel contesto re-lazionale più prossimo ai bambini/ragazzi di cui ci occupiamo (quartiere,famiglia, ecc.): fenomeni di disgregazione sociale, vicinanza di situazioni incui l’esercizio della violenza è comune, assenza di opportunità di certiquartieri, hanno un peso notevole, soprattutto se si combinano con un cer-to clima relazionale esistente in famiglia, e con talune modalità educativeadottate dai genitori. Per esempio, un atteggiamento negativo, rifiutante,direttivo e disconfermante, magari associato a punizioni fisiche, può pro-vocare forti tendenze aggressive e ostilità nel figlio; uno ostile e aggressivopuò fungere da modello per il bambino; un’educazione trascurata, incoe-rente, con relazioni genitori-figli carenti, ostacola lo sviluppo di meccani-smi di regolazione interna dell’aggressione; sempre «… la reazione dei ge-nitori di fronte al comportamento aggressivo assume una posizione cru-ciale...» (Fonzi, op.cit.).

Per quanto riguarda le condizioni di funzionamento della scuola, il «cli-ma» e le relazioni interne, per il bullismo sono confermate connessioni conil tipo di relazioni interpersonali tra gli alunni della classe e con gli inse-gnanti. Particolare peso possono avere un’istituzione rigida, o, al contrariolassista, dove si percepisca un’assenza di impegno in direzione del rispettodelle regole; la possibile insoddisfazione per l’esperienza scolastica, nei ca-si d’insuccesso, fortemente legata alla qualità dell’intero processo di inse-gnamento-apprendimento; l’atteggiamento degli insegnanti, e di tutti gliadulti della scuola, in particolare nei confronti dei conflitti e delle possibi-lità e modalità di risoluzione. Si deve considerare che «la presenza di sog-getti in cui si sia strutturata una propensione psicologica all’aggressività o,100

di colui che compie l’azione, il terzo distintivo della situazione nella sua glo-balità (…). Ci si riferisce (…) ad un processo dinamico in cui persecutori e vit-time sono entrambi coinvolti (…) in definitiva, entrambi gli attori di quel com-plesso dramma chiamato bullismo, risultano «sgrammaticati» in una compe-tenza sociale fondamentale, quella che permette di cogliere i segnali emotiviche provengono dagli altri».14

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all’opposto, alla remissività, non necessariamente determina il prodursi diepisodi di violenza o l’instaurarsi di relazioni stabili connotate da prevarica-zione» (Prina, op.cit.).

Tra i fattori scatenanti, particolare attenzione si può porre alle dinami-che «offesa/reazione»: nella scuola non è infrequente che nel rapporto traalunni e tra insegnanti-alunni vi siano diversi tipi di offesa che provocanoreazioni violente (l’offesa alla dignità, l’essere paragonato ad altri che han-no creato problemi, il ricevere una punizione ingiusta, l’assenza di conside-razione da parte degli altri e soprattutto dell’insegnante, ecc.). Si possonoavere perciò delle reazioni violente, che si dirigono verso vittime «designa-te», che fungono da «capro espiatorio».

Ancora è utile distinguere tra un bullismo diretto, caratterizzato da at-tacchi evidenti nei confronti di una vittima, e bullismo indiretto, che si ma-nifesta soprattutto con l’isolamento e l’esclusione dal gruppo. Il bullismo èanche un fenomeno di gruppo. Si possono verificare forme di «contagio so-ciale» verso ragazzi più insicuri; nel gruppo può esserci un indebolimentodel controllo e dell’inibizione nei confronti delle tendenze aggressive, so-prattutto se il comportamento violento è «oggettivamente premiato». Nel-l’ambito scolastico, di frequente i gruppi sono relativamente ristretti e scar-samente organizzati, e mettono in atto comportamenti aggressivi contro in-dividui che, per qualche motivo, sono considerati diversi (straniero, handi-cappato, debole, grasso, ecc.).

E gli adulti? «…Si ha l’impressione che [gli adulti] acquisiscano consape-volezza del fenomeno in questione quando questo ha già raggiunto eviden-ze eclatanti o quando le vittime abbiano corso concreti e ripetuti rischi didanneggiamento fisico e psicologico. O quando sono gli stessi adulti a farele spese delle prepotenze agite dai ragazzi». (Prina op.cit.)

A seconda del modo in cui gli adulti reagiscono, essi corrono il rischio difavorire reazioni a catena, del tipo: offesa –> provocazione –> punizione –>nuova provocazione –> nuova punizione –>ulteriore provocazione –> puni-zione formale (spesso espulsione), ecc. A tutto ciò si accompagna, o a causadi ciò si determina, un processo di stigmatizzazione, che fissa l’identità delbambino/ragazzo in termini negativi, attaccando la sua immagine di sé e lasua autostima, con una sclerotizzazione delle relazioni tra il bambino ed ilcontesto, dove il circolo vizioso tenderà a ripetersi e ad ingigantirsi, in unaspirale che potrà sembrare ben presto inarrestabile.

Che si tratti della vittima, del bullo o dei compagni, tutti avranno deidanni da un clima di forte conflittualità e di tensione: «l’esposizione a mo-delli di comportamento e a stimoli aggressivi provoca in primo luogo un ap-prendimento, che conduce alla ripetizione dei comportamenti osservati.Questo apprendimento impedisce a sua volta la rielaborazione di strategiepiù evolute e più complesse di risoluzione delle situazioni conflittuali, qua-li sono le strategie cooperative e prosociali».16

Quantità e qualità della violenza nella scuola

Una ricerca condotta su 1258 soggetti, maschi e femmine, di scuola ele-mentare e scuola media inferiore del Piemonte e Valle d’Aosta, dalla terza 101

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classe elementare alla terza classe media, rivela che la percentuale di bam-bini e bambine che hanno subito prepotenze «qualche volta o più» in un pe-riodo di tre mesi è più elevata nelle scuole elementari (35%) che non nellescuole medie (18%); in percentuale quasi identica fra maschi e femminenella scuola elementare, mentre nella scuola media i maschi sono colpitimaggiormente (il 19,2% contro il 16,5%). La percentuale di bambini e bam-bine che si dichiara responsabile di prepotenze ai danni dei compagni, conla medesima frequenza e nello stesso arco temporale, è piuttosto elevata evede prevalere i maschi della scuola elementare (30% contro il 25% di fem-mine) in prevalenza abitanti nelle periferie cittadine. Inoltre si nota un ab-bassamento numerico nella scuola media, dove abbiamo il 22% di respon-sabili maschi e il 10% femmine.

La violenza fisica è la modalità più frequente solo per i maschi alla scuo-la elementare, per le altre età e per le femmine la modalità più frequente èl’offesa verbale. Questo andamento risulta più lineare nelle realtà cittadine.La grande maggioranza del campione denuncia di subire prepotenza all’in-terno della sua stessa classe (47,8% dei maschi e 61,5% delle femmine alleelementari, 60% dei maschi e 70,1 delle femmine alle medie). Spesso l’auto-re delle prepotenze è un compagno maschio che agisce da solo.

Pur non essendo fra loro confrontabili, per le differenze nelle modalitàdi svolgimento, negli strumenti utilizzati e nell’impostazione di fondo, puòrisultare interessante affiancare i dati di due ricerche condotte in scuole del-l’obbligo di un quartiere periferico di Torino nel 1997 e nel 1999, che abbia-mo già utilizzato in precedenza. 1414 ragazzi e ragazze di cinque scuole me-die vennero intervistati sugli episodi di violenza nell’arco degli ultimi cin-que mesi di scuola. Il 37% delle vittime dichiara che nei casi di aggressionefisica il responsabile è un compagno di classe e il 21% che si tratta di ragaz-zi di altre classi. Preoccupa il numero di ragazzi e ragazze che ammettono diaver perpetrato un atto di violenza nei confronti di qualche loro compagnoo compagna, come di coloro che dichiarano di averlo subito; in non pochicasi anche la gravità degli atti è rilevante.

Nella tabella 4.1 riportiamo alcuni dei dati quantitativi maggiormentesignificativi, relativi agli episodi di violenza che i ragazzi e le ragazze hannoammesso di aver compiuto.

Tabella 4.1 – Episodi di violenza significativi ammessi da bambini e bambine aggres-sori. (F. Prina, op. cit.)

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Picchiato un compagno o compagna da solo 30,7%

Picchiato un compagno o compagna con altri 14,1%

Toccato qualcuno in parti intime 18,3%

Costretto qualcuno a consegnare soldi o a portare qualcosa da casa 5,2%

Dette cose brutte o false su qualcuno 39,1%

Insultato 35,9%

Spaventato un compagno 49,6%

Preso in giro per difetto o carattere fisico 47,3%

Preso in giro per qualche altro motivo 41,0%

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È particolarmente interessante osservare la graduatoria delle più fre-quenti modalità di aggressione ammesse dai ragazzi e dalle ragazze, e le dif-ferenze a seconda del sesso, come risultano dalla tabella 4.2.

Tabella 4.2 – Modalità di aggressione più frequenti. (F. Prina, op. cit., p.42)

Proponiamo anche un confronto con le graduatoria dei più frequenti ca-si di vittimizzazione, di cui i ragazzi e le ragazze dichiarano di essere stati og-getto (Tab. 4.3).

Tabella 4.3 – Bullismo subito (F. Prina, op. cit., p. 36)

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MASCHI FEMMINE

1 Spaventato un compagno 1 Preso in giro per difetto o carattere fisico

2 Buttato a terra per scherzo 2 Dette cose brutte o false su qualcuno

3 Fatto a botte 3 Spaventato un compagno

4 Preso in giro per difetto 4 Preso in giro per qualche o carattere fisico altro motivo

5 Picchiato un compagno da solo 5 Accusato ingiustamente di qualcosa

6 Preso in giro per qualche 6 Insultatoaltro motivo

7 Insultato 7 Buttato a terra qualcuno.

8 Dette cose brutte o false 8 Minacciato di rivelare qualcosasu qualcuno

9 Minacciato di dare botte 9 Fatto a botte

10 Accusato ingiustamente di qualcosa 10 Minacciato di dare botte

MASCHI FEMMINE

1 Insultato 1 Insultata

2 Accusato ingiustamente di 2 Dette cose brutte o false sul qualcosa suo conto

3 Buttato a terra per scherzo 3 Presa in giro per difetto o carattere fisico

4 Dette cose brutte o false sul suo 4 Accusata ingiustamente di qualcosaconto

5 Preso in giro per difetto o 5 Presa in giro per qualche altro carattere fisico motivo

6 Fatto scherzi tipo carnevale 6 Fatto scherzi tipo carnevale

7 Dette cose brutte su suoi parenti 7 Buttata a terra per scherzo

8 Preso in giro per qualche altro 8 Minacciata di rivelare qualcosa motivo di se

9 Minacciato di botte 9 Spaventata

10 Minacciato di rivelare qualcosa 10 Dette cose brutte su suoi parentidi se

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Analizzando i motivi dichiarati dalle vittime come causa delle aggressio-ni subite, si rileva che ciò avviene, per lo più, a seguito di uno scambio di in-sulti, perché l’aggressore si è sentito offeso, perché qualcuno voleva così di-vertirsi, perché l’aggredito non ha voluto cedere a una qualche pressione, inqualche caso per reazione ad uno sgarbo fatto. Gli aggressori giustificano illoro gesto soprattutto come reazione ad uno sgarbo o un’offesa, o come se-guito di uno scambio di insulti (rispettivamente nel 41,7% e nel 34,4% deicasi): si percepisce una «normalità» e quotidianità, sulla base della qualeemerge una certa non rigidità dei ruoli di aggressori e vittime.

Alcuni elementi di profilo delle vittime dicono che i maschi sono in mag-gioranza (65,4%) e sono maggiormente presenti nelle prime e seconde me-die; a loro piace meno che alla generalità dei compagni andare a scuola, e piùdella metà ha basse valutazioni scolastiche. Rispetto alla famiglia, l’unicoelemento degno di rilievo è un denunciato cattivo rapporto con il padre(11,9% contro il 6% degli studenti in generale). Infine, le vittime danno unavalutazione di sé più negativa, e dichiarano di aver rapporti piuttosto negati-vi con i compagni, in misura superiore alla media degli studenti in generale.

Gli aggressori sono soprattutto maschi (79,4%) e sono più presenti interza media. Anch’essi denunciano un cattivo rapporto con il padre. La per-centuale di bocciati è decisamente alta (23,2%), così come quella di coloroche hanno basse valutazioni scolastiche. Anche alta è la percentuale di co-loro a cui non piace andare a scuola e che hanno basse valutazioni.Appaiono isolati o dominanti rispetto ai compagni, e indicano fra i loro ami-ci più spesso ragazzi del quartiere. I ragazzi di questo sottogruppo sonomaggiormente favorevoli all’uso della forza per farsi rispettare in reazionead insulti, e sono meno disponibili a parlarne con i genitori o i professori.

Passando ai fenomeni di bullismo nella scuola elementare, gli alunnidelle classi quarte e quinte intervistati furono 585. Nella tabella 4.4 si vede ladiffusione e la rilevanza delle principali forme di prepotenza, aggressività,violenza secondo le ammissioni degli stessi bambini e bambine aggressori,dati utili anche per un confronto con quelli delle scuole medie.

Tabella 4.4 – Episodi di violenza significativi nelle scuole elementari ammessi da bam-bini e bambine aggressori.

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Fatto a botte con qualcuno 44,6%

Insultato qualcuno 42,3%

Spaventato qualche compagno/a 41,2%

Escluso da gioco o attività qualche compagno/a 40,3%

Preso in giro per difetto o caratteristica fisica 38,0%

Preso in giro qualcuno per qualche altro motivo 37,6%

Detto cose brutte o false su qualche compagno/a 33,4%

Picchiato un/a compagno/a con altri compagni/e 11,7%

Toccato qualcuno in parti intime 7,6%

Costretto a darti merendine o cose di scuola 7,4%

Costretto uno a fare male, picchiare compagno/a 7,2%

Costretto qualcuno a darti dei soldi 3,4%

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È interessante notare quanto sia alta la percentuale di coloro che rileva-no un sostanziale non intervento, sia fra gli aggressori sia fra le vittime(Tabella 4.5).

Tabella 4.5 – Conseguenze degli episodi di violenza

Anche in questo caso, cogliere la percezione che i bambini e le bambi-ne esprimono è più importante che sapere se essa corrisponde o meno al-la realtà. In queste ricerche sono stati costruiti alcuni indici di vittimizza-zione e di aggressione, «che hanno permesso di tenere conto di più indica-tori contemporaneamente, sintetizzando la molteplicità delle informazio-ni originarie».17 Si sono così ottenute le posizioni riassunte nelle tabelle se-guenti 4.6 e 4.7.

Tabella 4.6 – Sintesi degli indici di vittimizzazione

Tabella 4.7 – Sintesi degli indici di aggressione

In chiave preventiva, appare importante intervenire sulla fascia dei «ten-denziali» aggressori e/o vittime, che raggiunge tra un quarto e un terzo del-la popolazione scolastica interessata.

Disagio emotivo-comportamentale e difficoltà d’apprendimento

Ricerche anche recenti hanno evidenziato la presenza di una percentua-le significativa di bambini che affrontano l’ambiente scolastico con unabuona dose di insicurezza; un numero non irrilevante esprime svalorizza-zione della famiglia o un conflitto affettivo al suo interno, vive con qualchedisagio l’appartenenza al proprio nucleo familiare. Spesso sono bambini obambine che non hanno potuto sperimentare il piacere di un coinvolgi-mento emotivo ed operativo dei genitori nei primi apprendimenti scolasti-ci, di cure ed attenzioni, soprattutto materne, in momenti così importanti. 105

Vittime Aggressori

risolvono fra bambini 46,8% risolvono fra bambini 33,7%

non succede nulla 31,1% non succede nulla 31,8%

totale non intervento 77,9% totale non intervento 65,5%

Scuola media Scuola elementare

vittime 21% vittime 7%

non vittime 54% non vittime 57%

tendenziali vittime 25% tendenziali vittime 36%

Scuola media Scuola elementare

aggressori 17% aggressori 8%

non aggressori 58% non aggressori 60%

tendenziali aggressori 25% tendenziali aggressori 32%

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In non pochi casi, pare che i genitori restino a guardare disarmati ed impo-tenti, probabilmente perché ciò che accade nella scuola al figlio è così lon-tano dalla loro cultura da restare in un mondo a parte; sembra che questi ge-nitori possano pensare alla scuola solo in termini di diffidenza. In altre si-tuazioni, si tratta forse più di una distanza emotiva, di adulti troppo centra-ti su se stessi, immaturi.

Una «Indagine emotivo-comportamentale per la prevenzione del disa-gio e delle difficoltà di apprendimento» è stata condotta sul territorio tori-nese tra il 1994 e il 1999 per meglio individuare alcune cause favorenti l’in-successo scolastico.18 «L’ipotesi di partenza è stata quella dell’esistenza diuna correlazione tra successo scolastico e aspetti che hanno a che vederecon l’idea di sé, non soltanto a livello cognitivo, ma a livello emotivo …Fattori quali la speranza, la fiducia in sé, la capacità di vedersi adulti, posso-no influenzare l’atteggiamento verso l’apprendimento e la vita scolastica,nonché le possibilità di successo scolastico. A questo livello risultano parti-colarmente importanti il modo di percepirsi e i vissuti dei singoli, accantoagli effettivi elementi di realtà».

Nell’indagine sono stati coinvolti circa 2000 alunni delle scuole ele-mentari dal 1994/95 al 1996/97; successivamente più di 300 alunni delleclassi prime elementari; infine, fra i dati emersi dalle interviste a questi ul-timi, sono stati isolati quelli riguardanti gli alunni che, a giudizio degli in-segnanti, presentavano difficoltà di apprendimento.

Si è rilevato che, già in prima elementare, gli alunni con basso rendi-mento scolastico, pur avendo scarsa consapevolezza rispetto a ciò che nonsanno fare in generale, si ritengono poco competenti in cose attinenti lospecifico scolastico, dimostrando così di essere discretamente capaci di ef-fettuare un corretto esame di realtà. Ben il 52% di questi alunni, contro il19% del totale, infatti, fa riferimento a difficoltà nelle attività scolasticheastratte. «La linea di demarcazione tra consapevolezza dei propri limiti esfiducia nelle proprie capacità in un bambino di 6/7 anni non è così netta:gli sconfinamenti potrebbero minare il senso di autostima e le stesse pos-sibilità di speranza, con effetti a catena sulla sua vicenda scolastica». Il 52%degli alunni in difficoltà esprime desiderio di apprendimento relativo alleattività scolastiche, con particolare riferimento proprio alle aree in cui sisente debole, contro il 38% del totale. Ancora, nel 55% di questi bambini,contro il 37% del totale, si evidenzia «una maggiore propensione alla di-pendenza dal giudizio degli adulti; il riferimento a «imperativi categorici»sembra essere maggiormente il criterio di definizione degli aspetti positividi sé». Solo il 59% degli alunni in difficoltà ritiene di aver avuto più espe-rienze positive nella propria vita, contro il 79% del totale, e coloro che ri-tengono di aver avuto più esperienze negative sono il 24%, percentualedoppia rispetto al totale: «come a dire che questi allievi si sentono, già cosìpiccoli, poco fortunati».

Infine, mentre quasi tutti i bambini intervistati esprimono una buonafiducia nell’attribuire ai propri genitori un giudizio positivo su di sé, il datosugli insegnanti cala dal 79% del totale al 59% nel caso degli alunni in diffi-coltà; fra questi ultimi è quindi piuttosto consistente il numero di coloroche a scuola «sentono di non poter essere apprezzati». Non ci si deve me-ravigliare se per taluni bambini si parla già di «defuturizzazione»: una sin-106

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drome che, più preoccupante in adolescenza, induce a porsi con pessimi-smo nei confronti del proprio futuro, fino a non riuscire più, nei casi piùgravi, a pensarlo.

Scheda C – La televisione può amplificare le difficoltà di apprendimento?

Si parla spesso delle influenze che l’esposizione ai media ha sui processi d’ap-prendimento dei bambini e delle bambine, soprattutto in termini negativi.Senza voler ingrossare le fila dei catastrofisti antitelevisivi, vogliamo solo ac-cennare ad alcuni elementi che appaiono effettivamente influenti sui mecca-nismi dell’apprendimento. Anche se la maggior parte dei bambini guarda la TVper capire il mondo, è per loro molto difficile distinguere fra la realtà ed unasua replica, i fatti e la finzione. La confusione tra realtà e fantasia è favorita dal-la pubblicità, che contribuisce a concretizzare i personaggi delle storie che so-no anche oggetti che si possono comprare. L’uso del telecomando, e le imma-gini che scorrono velocemente, contribuiscono ad una tensione verso la no-vità, a discapito dei processi di approfondimento critico degli argomenti checontribuiscono alla produzione del sapere, almeno per i meccanismi che co-nosciamo. Negli spettatori bambini viene indotta passività soprattutto dall’apparentesemplicità delle immagini, che non necessita di partecipazione intellettiva, edal fatto che la TV è diventata il rumore di fondo della loro giornata. La TV, pri-vilegiando l’immagine visiva, toglie spazio all’esercizio della lettura e conse-guentemente riduce la capacità di sintesi e di attenzione di cui il testo scrittonecessita. Il privilegiare l’immagine sulla parola rappresenta un’eccessiva sem-plificazione, con cui la televisione, in fondo, ripropone una modalità di pensa-re il mondo che apparteneva alle culture preletterate.Se si considera che il flusso televisivo modifica le categorie spazio-temporali,si viene a creare un effetto di «piatto presente astratto», che toglie al bambinoindispensabili appigli alla comprensione e favorisce l’instaurarsi di una dele-teria abitudine alla loro assenza. Al contrario di quanto facciamo noi adulti, ela scuola stessa, per cui è privilegiata una concezione del tempo sequenziale(con un prima, un adesso e un dopo) il tempo/spazio della televisione consu-mata dai bambini si basa su un’idea ciclica del tempo e sul prevalere della fis-sità dei luoghi: ogni episodio di una storia che può essere infinita, può esserecompreso senza necessità di riferimenti a conoscenze pregresse; si svolge inuno spazio che non cambia mai; in cui, soprattutto, non cambiano gli elemen-ti del contesto. La mediazione dell’esperienza diretta non viene contemplatanell’uso del mezzo televisivo e si sa quanto siano importanti le esperienze con-crete-dirette per favorire apprendimento reale e duraturo nei bambini.Numerosi esperti sostengono che: «Con il computer è diverso: il soggetto in-

teragisce, stabilisce i suoi percorsi, si riappropria della possibilità di progetta-re, della capacità di essere attivo, prova piacere ad apprendere, si predispone afronteggiare la cangiante realtà complessa. Vi è più corrispondenza tra pensie-ro e prodotto. Inoltre la multimedialità, sollecitando l’unitarietà tra saperi di-versi, favorisce la multidisciplinarità e l’interdisciplinarità, rende il pensierofluido, critico, originale, anticonformista, indipendente nei giudizi.»19

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Il maltrattamento

Nella scuola «più spesso di quanto vorremmo credere, dietro a compor-tamenti genericamente definiti inadeguati (difficoltà di apprendimento,non rispetto delle regole, aggressività incontrollata, isolamento, ecc.), si na-scondono drammi ben più gravi riconducibili a situazioni di maltrattamen-to e/o di abuso sessuale.»20

La scuola è fondamentale per ogni intervento su e con i bambini mal-trattati. Il bambino non sempre riesce a confidare il suo malessere o verba-lizzare richieste di aiuto; i comportamenti allora rappresentano segnali im-portanti che l’insegnante può raccogliere, se è in grado di porsi in un atteg-giamento di ascolto del bambino, standogli affettivamente vicino. In questomodo, dalla rilevazione del disagio si avvia l’importante processo d’inter-vento, che può poi proseguire con l’eventuale segnalazione, la dovuta e de-licata indagine, una valutazione soprattutto della recuperabilità della rela-zione adulto (spesso genitore) – bambino, il trattamento terapeutico e di so-stegno.

Si propongono qui alcune riflessioni, guardando questo tema da due di-verse angolature:

❖ la scuola (e quindi gli insegnanti, i dirigenti, gli operatori scolastici) difronte al maltrattamento subito dagli alunni, di cui essa viene (o puòvenire) a conoscenza: il maltrattamento extrascolastico;

❖ la scuola rispetto al maltrattamento che produce (o può produrre) inproprio: il maltrattamento intrascolastico.

Il maltrattamento extrascolasticoPerché per rendersi conto che in classe c’è un bambino maltrattato an-

che grave ci vogliono sovente molti anni e a qualcuno non viene assoluta-mente in mente? Perché talvolta serve l’alleanza di più persone affinché uninsegnante prenda coscienza di essere l’unica persona che, vedendolo tuttii giorni, può essere un testimone soccorrevole per il bambino che vive quel-la situazione? Perché spesso si reiterano i tentativi di parlare con la madre, oal contrario si ritiene che sia perfettamente inutile parlarle, ritenendo anchelei vittima come il figlio?

Le difficoltà che gli insegnanti incontrano, nel rilevare il maltrattamen-to, riconoscerlo come tale, segnalarlo e intervenire, spesso risiedono nelfatto che essi stessi sono corazzati di difese, sia in quanto adulti, sia perchéinseriti in un’istituzione sociale che è fatta di regole che servono anche perdifendersi. L’incontro con il maltrattamento provoca in ciascuno dei mec-canismi emotivi inconsapevoli, difensivi dal dolore che si potrebbe prova-re, e da emozioni che non si vogliono vivere e rivivere. I principali mecca-nismi sono:

❖ La rimozione: si vede il problema, ma la complessità e l’incertezzadella situazione, la difficoltà a trovare risposte risolutive, ecc. potreb-bero produrre vissuti di dolore ed impotenza difficilmente sopporta-108

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bili. Allora lo si allontana. Succede che il problema è percepito e ac-cantonato contemporaneamente, e così il bambino viene come «di-menticato»: ci si attiva, magari freneticamente, alla fine del ciclo sco-lastico, quando non è più possibile attuare provvedimenti.

❖ La negazione: si cerca, per esempio, di spiegare sempre con l’acci-dentalità e/o l’unicità fatti che in realtà fanno parte di una serie, eperciò rappresentano sicuramente maltrattamento di cui preoccu-parsi. È un po’ come chiudere gli occhi per non vedere ciò che ci fastar male, un meccanismo infantile per negare ciò che accade.

❖ L’idealizzazione: viene sopravvalutato uno dei genitori, spesso la ma-dre, su cui si ripongono «magiche» ma immotivate speranze di cam-biamento e soluzione del problema. Così ci si convince, contro ognievidenza, che basti poco, un semplice messaggio al genitore, unachiacchierata a quattr’occhi fra persone adulte. Il distacco emotivoporta a nascondersi dietro alla professione, con la sua rigidità di ruo-li ed automatismi. Si invocano altre figure professionali. La propriaaffettività viene in qualche modo bloccata, impedisce di immedesi-marsi, per non dover incontrare la sofferenza del bambino.

❖ La razionalizzazione: si cercano «validi e razionali» motivi per giusti-ficare in qualche modo il maltrattamento; si ridimensionano i segna-li che il bambino ci invia; ci si appella al fatto di non avere prove evi-denti; si invocano altre figure professionali competenti («Ah, questoè compito dell’assistente sociale!»). Oppure, al contrario, ci si im-provvisa specialisti, psicologi in particolare, immaginando comples-si edipici non risolti, diagnosticando l’incapacità nel bambino di di-stinguere vissuto-fantasia-realtà.

❖ La scissione: l’istituzione in questo caso rappresenta sempre il bene,e la famiglia il male; considerare la famiglia irrecuperabile permettedi non fare i conti con la sofferenza, la rabbia, il senso di impotenza,e quindi l’ansia, che l’adulto rischierebbe di dover tollerare, se sce-gliesse di approfondire.

Il maltrattamento intrascolasticoI meccanismi cui si è accennato diventano incredibilmente più forti

quando si tratta di affrontare un problema di maltrattamento interno allascuola, provocato da educatori-insegnanti. Non si può onestamente negareche anche a scuola si produce maltrattamento, o quantomeno si favoriscel’insorgere e l’aumentare del disagio.

Una prima forma è rappresentata dal trattare i bambini in maniera nonadeguata al raggiungimento del loro benessere. È indispensabile accennareall’importanza della riflessione sul significato implicito delle scelte che gliadulti/insegnanti compiono, e sul quadro di riferimento interpretativo dicui sono, più o meno consapevolmente, portatori. In linea di massima gli in-segnanti aderiscono, magari implicitamente-inconsapevolmente-contrad- 109

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ditoriamente, al modello pedagogico adultocentrico prevalente nella nostrasocietà odierna. Nell’ipotesi di un continuum del maltrattamento, che iniziaa casa per espandersi nella società, la scuola ha talune caratteristiche, chepossono indurla a divenire una sede dove si perpetua un maltrattamentosoprattutto occulto. Questo avviene attraverso l’indifferenza, la creazione dibarriere alla comunicazione o, peggio, con comportamenti aggressivi (deni-grare, umiliare, deridere). Un fattore favorente è costituito anche da un«normale» insegnamento spesso spersonalizzato. Succede che i comporta-menti di alcuni insegnanti a volte siano di maltrattamento, malgrado le lorointenzioni, sostenute dalla convinzione di svolgere bene il proprio ruoloeducativo.

Il rischio di comportamenti maltrattanti è particolarmente alto quandosi verifica un «intenso coinvolgimento dell’educatore a modificare compor-tamenti (del bambino) ritenuti inadeguati».21 Le motivazioni sono ricondu-cibili in buona parte ad un’interpretazione che sopravvaluta l’intenzionalitàdei comportamenti dei bambini e li legge come provocatori. Vi è una rea-zione al presunto attacco all’immagine sociale e professionale dell’inse-gnante (se non alla sua integrità fisica), un richiamo alla preoccupazione sulfuturo del bambino («...ti punisco per il tuo bene!»), la necessità di fornire al-la classe esempi in chiave preventiva, le esplicite richieste delle famiglie, lostress provocato dalle condizioni in cui si svolge l’insegnamento.

4.4 La scuola del disagio «normale»

A scuola vanno tutti i bambini e le bambine intorno al loro sesto anno divita: già a 5 anni sono più del 95% quelli che la frequentano. In Piemonte sitratta di circa 325.000 bambini e bambine, di cui 165.000 ca. nella Provinciadi Torino e più di 70.000 nella città di Torino.

Riassumiamo in Tabella 4.8 i principali dati della scuola dell’obbligo pie-montese, in modo da fornire anche un’idea della dimensione in cui si inse-riscono i problemi.

Tabella 4.8 – Alunni – classi - insegnanti

Alunni Sc. Materna Sc. Elementare Sc. Media

Piemonte 61.228 162.848 101.058

Provincia Torino 28.963 83.626 51.498

Classi Sc. Materna Sc. Elementare Sc. Media

Piemonte 2.538 9.502 4.862

Provincia Torino 1.163 4.546 2.421

Insegnanti Sc. Materna Sc. Elementare Sc. Media

Piemonte 5.478 18.012 10.920

Provincia Torino 2.507 9.240 5.383

M.P.I. «Scuola statale, sintesi dei dati a. s. 2000/01»

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La scuola si inserisce ad un punto già avanzato del processo di sviluppoe apprendimento dei bambini e delle bambine, e con intenzionalità forma-tiva cerca di favorire il progresso di ciascuno, proponendo conoscenze for-mali. Essa può essere un osservatorio privilegiato, ed un luogo di interventia cavallo tra la prevenzione primaria e quella secondaria, quando i docentisono in grado di rilevare, e occuparsi adeguatamente delle situazioni deibambini e delle bambine, che necessiterebbero di un’attenzione particola-re, per il fatto di vivere una qualche forma di disagio e/o di rischio socio am-bientale e/o emotivo. Certo, non si può richiedere alla scuola di farsi caricodi tutti i disagi che originano in altri contesti, anche perché così facendo sifavorirebbero le logiche di delega deresponsabilizzante di altre agenzie. Sitratta di comprendere, invece, che le finalità stesse della scuola prevedonouna valutazione delle potenzialità dei bambini e delle bambine; la capacitàdi calibrare su queste la propria proposta; di comprendere a che punto sta(e come sta!) ogni bambino e bambina mentre progredisce; di correggere iltiro se necessario, per favorire in ciascuno la coscienza e lo sviluppo delleproprie potenzialità.

In realtà la scuola dell’obbligo si presenta per lo più con un’organizza-zione rigida e adultocentrata: con insegnanti scarsamente valorizzati, tal-volta anche poco motivati, trasmettitori di un sapere statico, non sempre at-tenti ai diversi canali della comunicazione e stili di apprendimento, né ingrado di porsi positivamente in una relazione educativa personalizzata(…una scuola grigia, insomma!).

Non va dimenticato che il disagio scolastico può essere letto anche co-me disagio degli adulti nella scuola, posti come sono di fronte a richieste diveri e propri «compiti impossibili». Questa scuola può a sua volta produrresituazioni di disagio nei bambini e nelle bambine, che spesso si sommano aquelle che essi vivono in altri contesti della loro vita. Talvolta ci troviamo difronte ad una scuola addirittura maltrattante, malgrado le buone intenzionidegli insegnanti, sostenuti dalla convinzione di agire per il bene dei bambi-ni. Non dobbiamo cadere nella trappola della generalizzazione, ma neppu-re possiamo considerare i numerosi esempi di buone pratiche, che scuole edocenti attuano, individualmente o in gruppi, come elementi che caratte-rizzano l’intero sistema.

Scheda D – Principali cause di disagio interne alla scuola

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• scarso valore attribuito alla conoscenza intesa come capacità, desiderio epossibilità di avere e coltivare curiosità, fare osservazioni ricerche e manipo-lazioni;

• dovere dello studio basato sullo sforzo (per cui la scuola dell’obbligo non di-venta mai «scuola del desiderio»);

• surmenage scolastico;• modalità di gestione della classe da parte dell’insegnante (autoritario o lassi-

sta);• scarsa attenzione alle differenze individuali; • scissione tra sapere ed esperienza, tra conoscenza ed emotività;

segue

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La dispersione

Un indicatore di mal funzionamento associato a fenomeni di disagio èravvisabile nei processi di dispersione.

La dispersione paleseI dati sulla dispersione scolastica comprendono gli alunni ritirati entro il

15 marzo dell’anno scolastico, quelli non valutati per assenze dovute a mo-tivi di salute, oppure per interruzione della frequenza scolastica in corsod’anno per motivi non conosciuti dalla scuola, quelli che seppure iscrittinon hanno mai frequentato.

Nella scuola elementare la dispersione scolastica «ufficiale» è fortunata-mente prossima allo zero: a livello nazionale il fenomeno coinvolgeva nel1998/99 molto meno di un alunno su mille (0,04%).

Nelle scuole medie nello stesso anno si raggiungeva lo cifra di 0,38%,quasi un alunno ogni duecento22. È evidente che qui ci riferiamo a quelloche comunemente viene definito l’aspetto palese della dispersione scolasti-ca, che, secondo diversi esperti, nel nostro Paese avrebbe assunto ormai unadimensione fisiologica, che non si può pensare di comprimere ulteriormen-te, se non in alcune aree dove è più significativa.

Le ripetenzeAppare utile riproporre l’accento su un problema spesso sottovalutato e

costitutivo della selezione, quello delle ripetenze, dove le cifre assumono inItalia una dimensione ancora significativa (Tabella 4.9).

Tabella 4.9 Ripetenze in Italia

• «accanimento educativo» degli adulti della scuola per la «correzione» di talu-ni comportamenti;

• svalutazione e offese alla propria dignità, reali o percepite come tali daglialunni;

• squilibrio tra le aspettative altrui (genitori, insegnanti, adulti e compagni) ela realtà o ciò che il bambino o la bambina percepisce come tale;

• inadeguatezza degli insegnanti nella scelta ed utilizzo di metodi didatticiadeguati;

• accentuazione dei meccanismi premio/punizione legati alle prestazioni, va-lutazione globale da parte degli insegnanti dei bambini e delle bambine sul-la base di queste;

• effettive difficoltà di apprendimento non affrontate adeguatamente;• incoerenza educativa/contraddittorietà di messaggi e richieste che arrivano

ai bambini; • organizzazione scolastica rigida anche nella gestione di tempi e spazi.

% alunni respinti % al. ripetenti % al. in ritardo

Sc. Elementari 0,60 0,34 2,01

Sc. Medie 5,46 4,34 11,69

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Il numero degli alunni respinti mantiene dimensioni preoccupanti nelleprime medie, dove raggiunge il 7,27%, confermando una delle tipiche carat-teristiche della selezione, che è di essere, all’interno di ogni ordine di scuo-la, massima nel primo anno e successivamente in diminuzione. Questi tas-si, alti o bassi che li si voglia considerare, nei due ordini di scuola sono cin-que volte superiori a quelli della dispersione scolastica. Il Piemonte registravalori leggermente più bassi, attestandosi su un totale di ripetenti del 4,1%sul totale degli allievi e del 5,6% nelle prime medie, con un innalzamentonella città di Torino (Tabella 4.10).

Tabella 4.10 – Alunni respinti nella scuola media (%)

Il fenomeno delle ripetenze si riflette sulla dispersione scolastica, ali-mentandola. È il fenomeno palese di cui maggiormente occorre preoccu-parsi e su cui lavorare, per il suo abbattimento.

La dispersione occultaL’aspetto occulto della dispersione scolastica non è quantificabile, ed è

un tipico prodotto della scuola dell’obbligo. In particolare, carenze dei pre-supposti familiari ed ambientali propedeutici alla scolarizzazione, e scarsistimoli all’uso degli strumenti culturali appresi a scuola, disarmonie nellamaturazione e nello sviluppo individuale, piccoli danni cerebrali, frequen-temente sono concausa delle diffuse difficoltà di apprendimento scolastico,e non incentivano la motivazione all’apprendimento ed allo sforzo richiestodalla scuola.

La dispersione scolastica occulta si manifesta, oltre che come mancatoraggiungimento delle capacità e degli obiettivi formativi previsti dagli inse-gnanti, come malessere nello stare a scuola e come comportamenti distur-bati-disturbanti e comunque non adeguati. Nella sua definizione vi è la ten-denza a ricomprendere tutti i disagi più o meno sommersi dei bambini ascuola. Va però ribadito con forza, mantenendo ancora l’attenzione all’in-terno della scuola, che le conseguenze dello svantaggio socio-culturale-eco-nomico, in relazione agli ostacoli all’apprendimento e al pieno sviluppo del-la formazione del bambino, non vanno lette solo come una serie di elemen-ti negativi, tali da rendere impossibile l’apprendimento stesso e l’inseri-mento sociale di un soggetto. Sono anche segnali di disequilibrio, che ri-chiedono risposte adeguate, in una scuola capace di intervenire positiva-mente, per attutire le differenze che costituiscono svantaggio, valorizzarequelle che si esprimono in positivo, e promuovere il successo formativo ge-neralizzato. 113

✖ «Osservatorio sulla condizione giovanile» – Rapporto 1998/99, Scuola – Comune diTorino

✪ II Concerto, Piano Territoriale di intervento per l’infanzia e l’adolescenza – Provinciadi Torino, L. 285/97

✦ Nel passato anno scolastico questa percentuale sarebbe scesa al 4,7%.

classe prima classe seconda classe terza TOTALE

Provincia (✪ ) 5,87 2,77 3,72 4,12

Torino (✖ ) 7,9 4,8 4,5 5,7 (✦ )

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4.5 Linee di risposta istituzionale.

Cercheremo ora di occuparci delle linee che emergono dalla realizza-zione di azioni istituzionali di prevenzione e degli interventi di contrasto aldisagio, con un’attenzione particolare alla scuola dell’obbligo nell’area to-rinese.23

Sono oramai numerose le realtà scolastiche in cui, in modo più o menocompatto, si cerca di intervenire a livello di prevenzione primaria del disa-gio/promozione dell’agio, attraverso azioni sulle metodologie didattiche, lerelazioni interpersonali, gli aspetti organizzativi del servizio, sempre piùspesso collaborando e coprogettando con i servizi e le agenzie del territorio.

Ci sono sempre stati docenti e ricercatori sensibili a questi problemi epreparati nell’affrontarli, vere e proprie «colonne della scuola», spesso scar-samente riconosciute, che hanno prodotto una varietà di progetti, e messoin evidenza il grande limite rappresentato dalla loro episodicità.

L’episodicità è dovuta al fatto di essere costretti a progettualità troppospesso di corto respiro, sempre «sperimentali»; ma si registra anche in rife-rimento alla vita scolastica quotidiana di bambini ed adulti, nel senso chespesso si confezionano episodi più o meno isolati, anche ben strutturati,che tuttavia non incidono a fondo sulla relazione educativa alla base deiprocessi di insegnamento-apprendimento. Anche quando è predispostauna qualche ricaduta degli interventi sull’attività curricolare, qualcuno pa-ragona questi interventi «aggiuntivi» alla classica «ricreazione».

La «preistoria»

L’azione sul disagio che si esprime nella scuola è debitrice del lavoro dimolti anni svolto a favore dell’integrazione scolastica degli alunni in situa-zione di handicap. Già a metà degli anni Settanta, la normativa che preve-deva l’integrazione scolastica nelle classi comuni degli alunni in situazionedi handicap faceva riferimento alle situazioni di disagio. Per queste ultime,non erano previste risorse particolari, ma veniva proposta una modificazio-ne dell’organizzazione scolastica e della classe, che sembrava doversi in-staurare «spontaneamente».

Negli anni immediatamente successivi, in molte scuole soprattutto delleperiferie urbane vennero elaborati, autorizzati ed attuati specifici progettisperimentali di interventi sul disagio da svantaggio socio-culturale, così pre-sente ed evidente in quelle aree, che prevedevano anche azioni integrate coni servizi del territorio, e spesso la creazione ad hoc di organismi locali.Crebbe l’attenzione a queste problematiche anche a livello ministeriale, co-sì che nel 1989 vennero elaborate, recependo in parte le indicazioni fornitedalle esperienze di base, analisi e proposte per «aree prioritarie di interven-to», individuate a livello nazionale mediante una ricerca affidata al CENSIS.In queste aree si avviarono esperienze pilota, basate sulla ricerca-azione esull’approccio integrato fra istituzioni, nel tentativo di coinvolgere tutti i ser-vizi del territorio. L’anno successivo vennero istituiti gli Osservatori interisti-tuzionali a diversi livelli: dalla singola scuola fino al livello nazionale.114

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L’ipotesi di lavoro prevedeva che, individuate le aree in cui ragioni so-prattutto di carattere socio-culturale ed economico determinavano tassi didispersione scolastica superiori alla media nazionale, la scuola elaborasseun buon progetto, possibilmente trovando forme di raccordo con altre isti-tuzioni e servizi del territorio, a cui destinare risorse umane ed economicheaggiuntive. Le aree individuate sul territorio torinese furono: CastelloMirafiori, Falchera, Vallette, Via Artom.

Di fatto le risorse non furono sufficienti a coprire le esigenze, le scuolenon poterono attuare programmazioni a lungo termine, non sapendo di an-no in anno con precisione quale fosse la disponibilità. Prevalse il già segna-lato limite dell’episodicità/discontinuità. Soprattutto non venivano affron-tati alcuni dei nodi problematici principali della rigida struttura scolastica,rappresentati dalla motivazione e scelta degli insegnanti, dalla loro stabilità,dalla formazione del personale e dall’assunzione del lavoro di rete comemodalità ordinaria e necessaria di lavoro.

Dispersione scolastica e promozione del successo formativo

È del 1995 la proposta di Progetti Provinciali per la prevenzione della di-spersione scolastica. A livello torinese «l’obiettivo fondamentale viene dasubito precisato … come promozione del successo formativo (ritenuto pro-spettiva più alta della prevenzione della dispersione scolastica.)».24 Si ripar-tiva dalle «aree» precedentemente individuate, a cui vennero aggiunteSettimo Torinese ed Ivrea, con l’idea di diffondere l’esperienza attraverso lacostituzione di grandi reti interscolastiche (Centro, Nord Ovest, Sud, Set-timo T.se, Ivrea).

L’ipotesi di un Piano che «trascorre dalla presa in carico della emergen-za e dello straordinario (rischi educativi evidenziati in aree prioritarie di in-tervento) a presa in carico dell’ordinario, con la generalizzazione dell’agio edella qualità del servizio formativo sull’intera area provinciale, «valorizzan-do e integrando l’esperienza maturata in aree territoriali definite» non pareessersi realizzata pienamente. Le condizioni per portare a sistema le moda-lità più interessanti delle esperienze precedenti, non erano favorevoli findall’inizio, anche se molto lavoro è stato fatto. Si può parlare perciò di unasorta di eredità, che le scuole hanno mantenuto presso di sé e talvolta han-no diffuso ad altre: l’esperienza della realizzazione dell’autonomia didatti-ca/organizzativa degli istituti scolastici, accompagnata dal cosiddetto di-mensionamento, che ha visto la fusione di diverse scuole, il loro fraziona-mento e spesso un rimescolamento del personale, si è potuta avvalere dicompetenze specifiche precedentemente maturate. Ciò ha evidenziato lanecessità del lavoro di rete, anche interistituzionale, per affrontare i proble-mi correttamente ed in modo incisivo; le scuole coinvolte nelle sperimenta-zioni di tutti questi anni hanno consolidato elementi organizzativi, affinatoaspetti metodologici, capacità progettuali e atteggiamenti del personale,che sono entrati ormai sempre più nella didattica quotidiana.

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Scuole situate nelle aree a rischio

Attualmente si interviene ancora su scuole situate nelle cosiddette areea rischio, anche se con forti elementi di discontinuità rispetto alle esperien-ze precedenti. La riproposizione della tematica è avvenuta a livello dellacontrattazione sindacale. Il Contratto Collettivo Nazionale di LavoroIntegrativo del comparto Scuola del 1998 infatti prevede, all’art.4, un nuovoistituto contrattuale, che si ispira alla differenziazione della retribuzione delpersonale. Si tratta di un riconoscimento economico aggiuntivo, per il per-sonale di scuole che operano in aree considerate a rischio, che si impegna arealizzare un progetto, elaborato dalla singola scuola e approvato dal Mini-stero, e a rimanere in quella sede per almeno tre anni. L’obiettivo di preven-zione primaria ha alla sua base l’ipotesi che disagio, selezione, insuccesso,evasione e abbandono dell’obbligo scolastico siano fattori di rischio rile-vanti, rispetto al fenomeno della stessa criminalità minorile.

Sono state individuate come aree a rischio 28 province e quattro areemetropolitane (Genova, Milano, Torino, Roma). Il modello di riferimentosono le Z.E.P. (Zone di Educazione Prioritarie) francesi degli anni Ottanta.Con un approccio sistemico è previsto il coinvolgimento dei soggetti, isti-tuzionali e non, del territorio per la realizzazione di un sistema formativointegrato. Sono previste modalità flessibili di insegnamento, ampliamentodei tempi di funzionamento del servizio, una maggiore apertura ad inizia-tive locali, il coinvolgimento delle famiglie, anche attraverso interventi for-mativi ed informativi per gli adulti, il collegamento formale con gli EntiLocali e le istituzioni territoriali, finanziamenti per attività formative delpersonale.

A fronte del migliore inquadramento del problema, rispetto alla situa-zione precedentemente descritta, emergono i seguenti elementi proble-matici:

❖ non viene riconosciuto l’impegno del personale che negli anni pre-cedenti si era impegnato nei progetti contro la dispersione scolasticaper il successo formativo;

❖ la continuità triennale non è stata garantita al livello dell’organizza-zione complessiva, per cui si è assistito ad una certa mobilità annua-le del personale;

❖ non è stato previsto un incremento di fondi per le dotazioni di at-trezzature e materiali necessari;

❖ la sperimentalità dell’operazione, e lo scarto fra le risorse disponibilie le esigenze individuate a livello locale, hanno scatenato una com-petizione quanto meno anomala fra scuole, che non sempre ha favo-rito la qualità progettuali;

❖ vi è stata scarsa chiarezza verso gli impegni richiesti al singolo, ed illoro legame con la situazione di rischio; 116

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❖ la progettualità ha eccessivamente sfavorito alcuni istituti, che purtrovandosi in aree a rischio non hanno potuto rientrare fra quelli am-messi a godere dei benefici economici.

Per l’individuazione delle aree «a rischio» e delle scuole al loro interno, alivello torinese sono stati utilizzati dati diversi, come il numero e la percen-tuale di minori assistiti (dati forniti dagli Assessorati all’Assistenza deiComuni), il numero dei fascicoli civili aperti presso il Tribunale per iMinorenni, il numero di alunni residenti e la percentuale delle famiglie as-sistite delle scuole di ogni area (dati forniti dalle scuole stesse). Le aree di ri-ferimento a Torino sono risultate: Borgo Cina, C.so Grosseto, C.so Taranto,Falchera, Porta Palazzo, S. Salvario, Vallette, Via Arquata, Via Ivrea, per lacittà; aree di Collegno, Grugliasco, Moncalieri, Nichelino, Venaria per la cin-tura cittadina.

Le scuole dove si sta realizzando la specifica progettualità sono tuttescuole dell’obbligo: D.D. «Costa», D.D. «Frank», D.D. «Pellico», I.C. «Turoldo»in Torino; I.C. «King» Grugliasco. Nonostante le contraddizioni indicate, nel-le scuole il lavoro è stato, ed è, molto significativo e partecipato.

L’educazione alla salute

Un aspetto non secondario della prevenzione del disagio è l’educazionealla salute. La Legge n. 216 del 1991 esplicitamente richiama interventi fina-lizzati a rimuovere le condizioni di disagio, in particolare mediante «l’attua-zione di interventi da realizzare … nell’ambito delle strutture scolastiche inorari non dedicati all’attività istituzionale o nel periodo estivo». Il D.P.R. n.309 del 1990 «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefa-centi e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativistati di tossicodipendenza», indica la necessità della promozione e del coor-dinamento di «attività di educazione alla salute e di informazione sui danniderivanti dall’alcoolismo, dal tabagismo, dall’uso delle sostanze stupefacen-ti o psicotrope, nonché dalle patologie correlate», e contestualmente ag-giunge che queste attività «si inquadrano nello svolgimento ordinario del-l’attività educativa e didattica, attraverso l’approfondimento di specifichetematiche nell’ambito delle discipline curricolari.».

Vengono istituiti i Comitati Tecnici, a livello nazionale e provinciale, e inogni scuola è individuato un docente referente. Si prevedono corsi di for-mazione e momenti di informazione per il personale scolastico, in partico-lare per i docenti referenti di scuola, ed il coinvolgimento delle famiglie.Grazie allo stesso testo, prendono avvio, solo negli istituti di istruzione se-condaria superiore, i Centri di informazione e consulenza per gli studenti(CIC) e le Iniziative di studenti animatori (gruppi di almeno venti studentipossono proporre iniziative, da realizzare con la collaborazione del perso-nale docente).

Nella legge vi è una distinzione fra attività di educazione alla salute einformazione sui danni derivanti dalle dipendenze, che impegna la scuolasu entrambi i fronti. Nel 1999 la Legge n. 45 ha modificato la precedente leg-ge in particolare nella parte riguardante i finanziamenti. La nuova legge pre-

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vede che il 75% del fondo nazionale sia affidato alle Regioni e che per il re-stante 25% anche il Ministero della Pubblica Istruzione possa proporre pro-getti triennali sperimentali ed innovativi, mirati alla prevenzione ed al recu-pero delle tossicodipendenze.

In questi dieci anni di Educazione alla Salute e prevenzione delle tossi-codipendenze i progetti sono stati diversi. Il Progetto Giovani del 1993 ave-va quale finalità di promuovere migliori rapporti nelle interazioni fra i gio-vani e la società. Il progetto Ragazzi 2000 è più mirato alla scuola elementa-re e media, in cui viene ribadito che l’educazione alla salute deve essere in-serita all’interno della programmazione ordinaria delle attività educative edidattiche. Il progetto Arcobaleno, per la scuola materna, incentiva l’elabo-razione di progetti in cui sia evidenziata la necessità di conservare e miglio-rare il «bene salute». A livello locale, una importante circolare delProvveditore agli Studi di Torino, la n. 13 del 1999, si apre con l’affermazio-ne che: «I processi di riforma che accompagnano la trasformazione del no-stro sistema scolastico si propongono di disegnare una scuola, la cui co-struzione ruoti intorno allo studente come persona in formazione e comesoggetto di un percorso di apprendimento …»; e indica fra gli obiettivi quel-lo di «creare e consolidare in tutte le scuole una cultura della prevenzioneradicata nell’ordinarietà».

Scheda E – Educazione alla salute: qualche concetto di base

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Assumendo il concetto di salute come definito dalla O.M.S. «Stato di benesse-re psichico, fisico e mentale dell’individuo e della collettività, in interazione di-namica con l’ambiente naturale e sociale», intendiamo gli interventi nel setto-re dell’educazione alla salute come lavoro per il riconoscimento del diritto al-la salute e al benessere del bambino come soggetto di diritto. Pare tuttora vali-da la definizione di Educazione alla Salute come: «Attività mediante la quale sicreano le premesse per cui ogni allievo, ogni docente ed ogni genitore si occu-pa positivamente di sé e del proprio benessere, di quello degli altri e dell’am-biente che lo circonda». Educare alla salute, più che trasferire informazioni(operazione necessaria, ma non sufficiente), o lavorare per la dissuasione dacomportamenti indesiderabili attraverso l’addestramento alla resistenza acondizionamenti esterni, o ancora modificare abitudini, significa mirare allapromozione di competenze psicosociali, di quelle abilità che permettono di af-frontare efficacemente le richieste e le sfide della vita di tutti i giorni.Ancora l’O.M.S. ricorda che intervenendo su queste abilità fondamentali ci sirivolge ai «fattori psicosociali che intervengono nei comportamenti, che a lorovolta contribuiscono a determinare problemi sociali e di salute». La scuola conl’educazione alla salute mira ad avere un ruolo attivo in iniziative di promo-zione del benessere psicofisico di tutti i suoi attori, ma anche a limitare l’inci-denza delle malattie, intervenendo soprattutto su fattori di rischio (compresal’adozione di comportamenti a rischio per la salute). Rivalutando l’importan-za della relazione educativa e della valenza educativa delle discipline all’inter-no della scuola, incrementando le necessarie conoscenze e competenze, essacontribuisce alla prevenzione primaria del cosiddetto disagio infantile, co-munque esso si manifesti. Lo specifico dell’Educazione alla Salute è fatto essenzialmente di:

segue

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L’autonomia scolastica

Le recenti innovazioni del settore scolastico, che hanno il loro puntoprincipale nel DPR n. 275 del 1999 «Regolamento recante norme in materiadi autonomia delle istituzioni scolastiche», possono apparire come un arci-pelago di momenti isolati fra loro, se non si considera il concetto di «suc-cesso formativo» come base ed obiettivo comune a tutta l’operazione.

Il DPR infatti all’art. 1 recita: «l’autonomia delle istituzioni scolastiche ègaranzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzianella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, forma-zione e istruzione, mirati allo sviluppo della persona umana (…) al fine digarantire [agli studenti] il successo formativo, coerentemente con le finalitàe gli obiettivi generali del sistema d’istruzione …». Il Piano dell’offerta for-mativa (Pof) è il «documento fondamentale costitutivo dell’identità cultura-le e progettuale delle istituzioni scolastiche». Nel Pof deve essere esplicitata«la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativache le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia», promuo-vendo «le potenzialità di ciascuno e adottando tutte le iniziative utili al rag-giungimento del successo formativo».

Come si vede, l’obiettivo del «successo formativo» si è inserito a fianco diquello del «benessere», indicato alle scuole dalla già citata legge n. 309 del1990 sull’educazione alla salute.

«Per intendere il valore formativo di questi concetti basta pensare che siè arrivati a proporli come valori di sintesi dell’azione formativa della scuola,antagonisti di due mali quali il disagio giovanile e la dispersione scolastica…».26 In questo modo si integrano e si precisano le indicazioni già forniteche permettevano alla scuola di organizzarsi per intervenire efficacementeanche sul disagio degli alunni, superando le confusioni sui concetti di facol-tativo e, in particolare per la scuola dell’obbligo, di extracurricolare.

• attenzione ai temi educativi, soprattutto sulla dimensione educativa delle di-scipline; capacità di lettura e di comprensione di segnali riguardanti feno-meni negativi per lo sviluppo individuale e sociale, abbinata alla ricerca supossibili cause e concause;

• studio e proposte di alcune strategie per affrontare, in chiave preventiva,quei fenomeni;

• promozione di iniziative e attività che incrementino il benessere all’internodella scuola;

• lavoro in rete con le altre agenzie educative, e partecipazione alla «vita» delterritorio, per un sistema formativo integrato.

Su questi punti gli insegnanti «referenti» hanno sviluppato precise competen-ze e le hanno messe al servizio della scuola. Questo non significa che l’educa-zione alla salute sia compito di alcuni docenti, al contrario essa è tematicaconnettiva che attraversa tutto il Piano di offerta formativa (Pof) di ogni scuo-la. I docenti referenti/esperti quindi, pur in un’ottica di differenziazione dicompiti e di cooperazione, rappresentano un patrimonio di competenze a cuiattingere, piuttosto che figure a cui delegare burocraticamente i compiti diEducazione alla Salute.

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Già il DPR n. 567 del 1996 prevedeva infatti che le scuole definissero «ini-ziative complementari e integrative dell’iter formativo degli studenti, lacreazione di occasioni e spazi d’incontro riservati loro, le modalità di aper-tura della scuola in relazione alle domande di tipo educativo e culturale pro-venienti dal territorio …». Tali iniziative integrative «sono finalizzate ad of-frire occasioni extracurricolari per la crescita umana e civile e opportunitàper un proficuo utilizzo del tempo libero; sono attivate tenendo conto delleesigenze rappresentate dagli studenti e dalle famiglie, dalle loro proposte,delle opportunità esistenti sul territorio, della concreta capacità organizza-tiva espressa dalle associazioni studentesche, nonché, per la scuola dell’ob-bligo, delle associazioni di genitori».

Ora ogni scuola deve sentirsi obbligata «a pensarsi come comunità, cioècome realtà relazionale che stabilisce legami di reciprocità e solidarietà fra isuoi membri, a costruirsi come risorsa territoriale a tutti gli effetti, ad atti-vare e promuovere le risorse presenti nell’ambiente esterno», a collegarsi inrete con altre scuole. Le indicazioni della riforma qui richiamata possonoessere sintetizzate, a partire dai suoi valori fondamentali, con lo schema chesegue:

A supporto del processo di autonomia delle scuole, il Provveditoratoagli Studi di Torino ha attivato delle Unità Territoriali di Servizi professio-nali per i Docenti (U.T.S.), tematiche e distribuite sul territorio, con un’at-tenzione particolare ai punti sopra indicati. Le U.T.S. funzionanti sono ot-to: Necessità Educative Speciali, Servizi per l’Orientamento, Centro Infor-mazione Documentazione Inserimento Scolastico Stranieri, Centro Pro-vinciale per l’Educazione degli Adulti, Servizi per l’educazione Motoria, Fi-sica e Sportiva, Dimensione Europea dell’Educazione, Centro Risorse Ter-ritoriale per le Lingue Comunitarie, Dipartimento di Scienze Umane,Sociali e Umanistiche.120

Centralità del soggetto che apprende. Dal diritto allo studio al diritto all’apprendimento.

Valore formativo della cultura. Successo formativo.

Formazione del cittadino. Riconoscimento e valorizzazione delle diversità, differenziazione, formazione permanente, trasferibilità.

Solidarietà e cooperazione. Contratto formativo, corresponsabilità frainsegnanti, alunno, famiglia, territorio.

grandeattenzione

a

METODOLOGIAflessibilità, articolazione, individualizzazione,

apprendimento costruttivolavoro di rete

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Gli interventi degli Enti Locali e la Legge 285/97

Gli interventi degli Enti Locali, a supporto e/o in collaborazione con lescuole, contro il disagio infantile nella nostra realtà piemontese coprono unampio spettro di possibilità. Sono interventi gestiti anche, attraverso appo-site convenzioni, da associazioni di volontariato e cooperative sociali.

Si devono considerare almeno alcuni interventi diretti: da quelli dellacosiddetta Educativa Territoriale e domiciliare a quelli di supporto alla geni-torialità, ai centri di ascolto, all’affidamento diurno, al sostegno psicologico;particolarmente significativo è il progetto «Provaci ancora Sam». Ancora,non va sottovalutata la partecipazione della scuola a diversi Tavoli Sociali eContratti di Quartiere, realizzati in alcune zone particolarmente sensibili.Anche interventi per così dire più indiretti, quali laboratori territoriali e dianimazione, i soggiorni, ed esperienze formative diverse che rappresentanoconcrete possibilità di intessere relazioni significative con il territorio di ap-partenenza e di sviluppare il protagonismo dei bambini, sono fortementesignificativi nella lotta al disagio dei bambini a scuola.

In particolare la Scuola piemontese è stata coinvolta in numerosi pro-getti, finanziati grazie alla Legge 285 del 1997, «Disposizioni per la promo-zione di diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza», soprattutto aisensi degli articoli 5, 6 e 7. Nella sola Città di Torino sono state più di 35 lescuole dell’obbligo impegnate nella gestione dei progetti, con prevalenzadelle scuole elementari.

Nel dettaglio, si tratta di:

❖ «Azioni per la promozione delle opportunità di socializzazione posi-tiva »: Scuole aperte il pomeriggio;

❖ Ampliamento del servizio (orario e utenza) dei laboratori della scuo-la dell’obbligo, delle ludoteche e punti gioco;

❖ Apertura delle strutture scolastiche durante le festività del calendarioe/o durante il periodo estivo;

❖ «Azioni volte alla promozione del protagonismo di preadolescenti eadolescenti»:Percorsi sicuri a scuola;

❖ Ristrutturazione dei cortili scolastici;

❖ Progettazione partecipata per la trasformazione della realtà urbana;

❖ «Azioni di accompagnamento ai percorsi evolutivi»: Scuola e lavoro;

❖ Soggiorni (Loano, Pra Catinat, La Mandria);

❖ Luoghi della cultura;

❖ Scambi scolastici nazionali e internazionali.

Particolarmente significativa è stata la presenza delle scuole situate nel-le zone «a rischio».

Oltre all’accordo di programma, previsto dalla legge stessa, tra ilComune di Torino e il Provveditorato agli Studi, che ha partecipato alle di-verse fasi di consultazione, preparazione, avvio e monitoraggio delle pro- 121

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gettualità, l’avvio di alcuni progetti è stato accompagnato dalla sottoscrizio-ne di accordi specifici; così è stato per i progetti Drop Out «Provaci ancoraSam» (recupero scuola media), Inserimento a scuola minori stranieri (14 –18anni) C.I.D.I.S.S. (Centro Informazione Documentazione InserimentoScolastico Stranieri), Crescere in Città con Torino 2000, Estate Ragazzi, Lascuola adotta un monumento, Scuola Internazionale Europea.27

Anche nel nuovo Piano Territoriale triennale «Concerto 2»della Provinciadi Torino, varato nel gennaio 2001, che comprende 125 progetti dei Comunie/o Consorzi, fra gli enti coinvolti troviamo un elevato numero di scuole, inprevalenza dell’obbligo, che sono presenti in più di 50 progetti. In questoPiano c’è una varietà di temi-azioni ed iniziative, poiché la scelta dellaProvincia di Torino è stata di «valorizzare e stimolare la capacità e la volontàprogettuale dei soggetti locali».

Le tipologie di progetti in cui sono coinvolte le scuole riguardano preva-lentemente:

❖ Spazi per la famiglia (mediazione, confronto, sportelli d’ascolto);

❖ Sportelli d’ascolto per adolescenti; Laboratori anche in orario extra-scolastico (teatrali, musicali, grafico-pittorici, manuali, per l’educa-zione ambientale, per lo sviluppo della creatività);

❖ Attività ludico-ricreative, di tempo libero; Protagonismo dei ragazzi(Consiglio Comunale dei Ragazzi);

❖ Città amica, sviluppo abilità sociali;

❖ Educativa territoriale (potenziamento degli interventi su singoli «ca-si a rischio», sviluppo iniziative e azioni per gruppi anche misti, coin-volgimento famiglie);

❖ Scuola e disagio;

❖ Lavoro in rete con/fra servizi;

❖ Biblioteche.28

I due piani prevedono azioni mirate per la sensibilizzazione e la forma-zione di operatori, insegnanti e educatori, in particolare su abusi e maltrat-tamenti, su cui interviene anche la Regione Piemonte, e azioni rivolte allapromozione dei diritti e educazione alla cittadinanza, attraverso la produ-zione di materiali e l’organizzazione di seminari e conferenze-dibattiti.

Nella realtà sopra richiamata, elementi di eccellenza convivono con ladifficoltà ad avere e mantenere buoni ed efficaci livelli di coordinamento esinergia, fra diverse agenzie ed enti e fra gli interventi. I rapporti faticano adivenire sistema, anche a causa di una certa burocratizzazione ancora dif-fusa. L’evoluzione, in ogni caso, è verso politiche che prevedano interventisempre più integrati e partecipati, dando vita a rapporti di complementa-rietà tra diversi tipi di attori, pubblici e privati, favorendo la comunicazionee la partecipazione dei soggetti a vario livello diversamente interessati.

Gli interventi «possono incidere positivamente solo se sono in grado dimobilitare energie sociali ed economiche endogene».29

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4.6 Lavori in corso, strategie possibili

Due domande fondamentali riguardano il rapporto disagi dei bambini-e-scuola fin qui trattato:

❖ quali condizioni agevolano l’elaborazione e la realizzazione di effica-ci strategie contro il disagio di bambini e bambine nella scuola?

❖ quali iniziative può assumere, quali interventi valorizzare e potenzia-re, un soggetto esterno alla scuola, che intenda contribuire alla lottaal disagio dell’infanzia così come si manifesta nella scuola?

«La risposta che la scuola può dare si colloca tanto sul versante dell’a-zione educativa e didattica, quanto sul versante delle politiche scolastiche edegli interventi istituzionali. Da un lato riguarda, per così dire, l’ordinarietàdell’esperienza scolastica, che deve essere di qualità, dall’altro la capacità disviluppare una strategia istituzionale che preveda interventi organici, mira-ti e integrati.»30

Con la consapevolezza che al «sistema del disagio» è bene offrire un «si-stema di risposte», in cui quello educativo-scolastico rappresenta uno deisottosistemi più interessanti ed utili, si cercherà ora di indicare alcuni pun-ti di forza, che costituiscono tessere importanti del mosaico e per la genera-lizzazione dei quali sarebbe opportuno lavorare. Per alcuni di questi punti sipuò solo auspicare e prevedere un potenziamento dell’iniziativa istituzio-nale, per altri invece l’aiuto, anche economico, di enti e agenzie esterne ri-sulterebbe indubbiamente utile ed efficace.

Lavorare per promuovere e prevenire

Ancora una volta siamo in debito con le riflessioni svolte, e le azioni at-tuate, per l’integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap.Prendiamo infatti in prestito il concetto di «speciale normalità» proposto inun recente Convegno internazionale sull’integrazione. La Speciale Nor-malità «rappresenta una condizione «mista», intricata in modo complesso,di normalità e di specialità, che coesistono, si influenzano reciprocamente ein cui l’una (la specialità) si trasforma nell’altra (la normalità), ne viene as-similata e la trasforma arricchendola. In questa sintesi però deve prevalerela Normalità: la scuola di tutti, quella «vera» (…)

Troviamo anche la Speciale Normalità nella crescente eterogeneità del-le nostre classi, crescente sia in termini di reale presenza di alunni con spe-ciali caratteristiche …, sia in termini di sempre maggiore capacità e volontàda parte dei docenti di comprendere le differenze e le individualità per ten-tare di rispondere in modo più individualizzato.

Troviamo la Speciale Normalità in quel crescente numero di alunni«normali» che però presentano bisogni educativi speciali, che vanno af-frontati adeguatamente. (…)

Troviamo anche la Speciale Normalità nella sempre maggiore consape-volezza delle normalissime differenze individuali delle «specialità» e singo- 123

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larità di tutti gli alunni, che chiede differenziazioni nella didattica e varieindividualizzazioni, ad esempio:

❖ le differenze di stile nell’elaborazione delle informazioni e nell’ap-prendimento

❖ la pluralità delle intelligenze e degli stili di pensiero.

Dunque vediamo la normalità sempre più sfaccettata, e ricca di elemen-ti e caratteristiche di specialità: anche nell’alunno più apparentemente nor-male si trovano notevoli differenze e specialità, che vanno incontrate, cono-sciute, e a cui va data possibilità di espressione e valorizzazione. (…) Anchenel caso degli interventi psicoeducativi sui comportamenti problema pos-siamo rimanere, sbagliando, al livello di interventi strettamente individuali,oppure possiamo evolvere la nostra relazione educativa, leggendo le funzio-ni, prevalentemente comunicative e interpersonali, dei comportamentiproblema e proponendo all’alunno modalità sostitutive, più accettabili, dicomunicare. (…) [Il punto è di assorbire] all’interno di una prassi rivolta atutta la classe i principi di un intervento tecnico specialistico originaria-mente rivolto soltanto al soggetto problematico.»31

Questa lunga citazione, utile per la chiarezza dell’esposizione, esprimel’ambito all’interno del quale vogliamo inserire alcuni suggerimenti di stra-tegie educative possibili. Proponiamo alcuni «slogan», che dovrebbero faremergere gli elementi di coerenza del quadro complessivo che si cerca didelineare:

❖ valorizzare l’ecosistema formativo: progettare in modo unitario e in-tegrato, dai progetti nella scuola al progetto della scuola; creare lavo-ro di rete all’interno della scuola, fra le scuole e con gli enti e le agen-zie educative del territorio (e fra queste le famiglie); favorire la diver-sificazione per mirare gli interventi; ricercare il coinvolgimento ditutti gli attori del sistema scuola; curare l’ambiente scuola e il conte-sto prossimo ad essa;

❖ considerare la dimensione esistenziale: privilegiare la relazione edu-cativa, presupposto per la qualità dell’apprendimento; dare valore al-l’attenzione e all’ascolto, permettere alle emozioni ed ai vissuti diemergere; favorire la costruzione dell’identità degli alunni;

❖ intervenire sulla classe, inserendo al suo interno eventuali interven-ti di tipo specialistico, e operando perché diventi un gruppo coope-rativo;

❖ potenziare la formazione: degli insegnanti in particolare, prevedendoanche forme di accompagnamento di tipo psicopedagogico in itine-re, senza dimenticare i dirigenti ed il personale non docente.

Si può applicare anche alla scuola il concetto di «glocal», coniato dagliambientalisti, traducendolo nel senso della necessità di porre contempora-neamente attenzione ad aspetti globali (la società, l’educazione e l’appren-dimento, il contesto prossimale di vita degli alunni e delle loro famiglie, maanche l’istituto, il progetto formativo, …) e aspetti locali (dalla classe, fino124

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alla storia del singolo individuo-alunno, con i suoi problemi e le sue risor-se, alla qualità dell’esperienza scolastica nella quotidianità). Tutto ciò conl’obiettivo di avere una scuola sempre più qualitativa (evitando quindi dipensare ad una scuola che si occupi di tutto, rischiando poi di non occu-parsi sostanzialmente delle cose essenziali), che sia in grado di aiutare tut-ti gli studenti nel lavoro continuo di conoscenza e scelta fra strategie, for-nendo loro gli strumenti e le procedure necessarie per vivere consapevol-mente nella nostra società. La nostra realtà scolastica è attualmente carat-terizzata da una «randomizzazione» delle risposte, ma in molte di esse giàsi trovano elementi, se non proprio di un disegno strategico, di risposte po-sitive possibili.

Una scuola che si ri-progetta

Le scuole che si confrontano da anni con il disagio hanno compreso, at-traverso l’esperienza, l’importanza di collocare i propri obiettivi all’internodel quadro di riqualificazione scolastica complessiva. Alcune esperienze,che si stanno rivelando vincenti, hanno tra i principali fattori di successo:

❖ una certa ricchezza, intesa come disponibilità di mezzi economici edi risorse professionali adeguata alle necessità, in modo da permet-tere alle scuole di acquisire gli strumenti utili per gli interventi predi-sposti;

❖ una buona disponibilità e capacità del personale della scuola al lavo-ro in team;

❖ la cura dell’alta qualità professionale individuale, anche medianteforme mirate di formazione;

❖ una disponibilità a leggere i processi, innestati dalla realizzazionedell’autonomia scolastica, come spinta all’innovazione e ad una rin-novata qualificazione anche pedagogica dell’istituto scolastico, e del-la sua offerta formativa;

❖ un progetto unitario di scuola, articolato e attento ai diversi livelli,compreso quello individuale;

❖ una rete interistituzionale e di relazioni interpersonali, che concre-tizza la visione di sistema integrato.

Esiste un filo comune fra queste diverse realtà, rappresentato dalla ri-cerca della migliore risposta pedagogica e didattica alle esigenze culturaliespresse dal territorio in cui sono inserite, e dall’attuazione di una lineaoperativa che si propone di valorizzare i fattori protettivi della scuola. Nellascuola, infatti, ogni bambino/a può sperimentarsi in un contesto di relazio-ni significative, il ruolo dei coetanei e degli adulti può influenzare l’interio-rizzazione delle regole sociali, l’autostima e l’autonomia; si possono pro-porre esperienze che alimentino il senso di un possibile successo in campidiversi, con insegnanti che fungano da «figure di attaccamento secondarie».

Tutto l’intervento educativo e didattico, con le sue attività, è finalizzato 125

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al superamento delle situazioni di disagio e di instabilità relazionale, nellacontinua ricerca di fornire ai bambini adeguate opportunità per l’acquisi-zione delle competenze della alfabetizzazione culturale, e favorire il mag-gior sviluppo possibile della loro personalità. Questo richiede che il proces-so di insegnamento-apprendimento sia connotato in senso orientativo, conl’offerta di seri contributi all’orientamento nel mondo, e la valorizzazione diinteressi attitudini e potenzialità, rivolgendo l’attenzione al contesto am-bientale e culturale in cui la scuola è inserita, rendendola concreto tramitetra il bambino e la realtà.

Non va mai dimenticato, peraltro, che il modo di conoscere ed orientar-si nell’ambiente è legato agli aspetti affettivi e relazionali dei bambini e del-le bambine. Gli obiettivi di prevenzione e contrasto del disagio nella scuolasi realizzano perciò soprattutto attraverso l’allestimento di interventi didat-tici mirati, spesso di tipo laboratoriale, con proposte metodologico-didatti-che ed organizzative innovative. Le relazioni interpersonali sono da consi-derare fondamentali per tali processi di insegnamento-apprendimento, co-sì come l’attenzione alle differenze individuali. Si cerca di superare la di-stinzione fra curricolare ed extracurricolare, e la scissione tra conoscenza edemozione, socializzazione e apprendimento, così da garantire un insegna-mento attraente e flessibile.

In linea di massima, i progetti migliori coinvolgono, come già detto, l’in-tera scuola, a livelli differenti a seconda delle responsabilità e sensibilità in-dividuali, con i docenti che svolgono attività di ricerca-azione sui fattori didisagio di bambini e bambine, sui temi della relazione educativa e sullo sti-le educativo.

Sviluppare cooperazione, aprire le scuole

È a questa serie di esperienze significative e di buone pratiche che ci ri-facciamo anche entrando più nel dettaglio, con alcuni concreti suggeri-menti. I ripetuti inviti, contenuti anche nella normativa, al lavoro di rete frascuole e sul territorio, trasversalmente con tutte quelle agenzie deputate adoccuparsi di salute, sicurezza, educazione, se presi seriamente in conside-razione evitano la trappola degli interventi separati, puntiformi, che nonraggiungono risultati soddisfacenti. Le collaborazioni stabili e la co-proget-tazione di interventi di rete con il territorio, e con gli Enti e le istituzioni ivioperanti, comprese le realtà di volontariato e del terzo settore, vanno pra-ticate non solo perché la scuola ha «bisogno di aiuto», quanto per l’originedel disagio e i suoi possibili esiti, e a salvaguardia dell’unitarietà di ognibambino/a.

Ma, coerentemente con quanto scritto sino ad ora, per intervenire conmaggiore efficacia contro il disagio dei bambini, la scuola può proporre, an-che in controtendenza rispetto a certi modelli vincenti, vere attività coope-rative. Come detto, interessanti esperienze di questo genere sono state av-viate da alcune scuole, ed hanno prodotto risultati sul piano dell’integrazio-ne degli alunni, delle motivazioni, dei comportamenti, ma anche delle ac-quisizioni di carattere cognitivo.

Abbiamo così esperienze cooperative interne alla scuola, per la prepara-126

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zione di merendine come per la produzione del giornalino scolastico, maanche giochi cooperativi in cui la riuscita è intrisecamente legata alla coo-perazione fra i partecipanti. Una cooperazione più «esterna» è quella in cuila scuola, o la classe, partecipa come tale ad iniziative concordate con, o ri-volte al territorio, al contesto prossimale. Può essere l’adozione di una par-te di territorio, la partecipazione a progetti di solidarietà sociale, a manife-stazioni culturali e/o ludico-sportive, l’offerta di locali, come di attrezzaturee competenze per iniziative di associazioni, ecc. Tutto ciò sviluppa il sensodi appartenenza e di comunità e funziona da antidoto nei confronti del di-sagio infantile, anche perché permette ai bambini di esprimere capacità ditipo non strettamente scolastico e di trovare più facilmente significativi mo-menti di visibilità positiva.

Un altro aspetto da mettere in rilievo è la possibilità di apertura dellascuola oltre l’orario e il calendario scolastico per gli alunni. Non si voglionoriproporre qui il modello del doposcuola, né situazioni in cui si garantiscesemplice badanza a bambini e bambine «bisognosi/e», o momenti per il re-cupero scolastico. Perché sia proficua, l’apertura della scuola deve prevede-re attività opzionali in cui l’aspetto vocazionale sia valorizzato al massimo.

Classi e laboratori

Nelle classi vengono realizzate attività di tipo laboratoriale ed a classiaperte: intendendo la classe come gruppo e luogo fisico, ma anche spaziomentale e di relazioni, a cui fare riferimento e ritorno, in un insieme di pro-poste e stimoli educativi diversificati: classe eterogenea, in cui si possa svi-luppare il fondamentale processo della coeducazione.

Si privilegia l’apprendimento cooperativo, cercando di valorizzare le di-verse intelligenze e i differenti stili di apprendimento individuali, offrendo atutti opportunità per l’acquisizione del massimo di conoscenza, competen-ze e capacità. Le modalità d’intervento maggiormente diffuse in queste si-tuazioni prevedono anche il lavoro con piccoli gruppi di alunni, ma non vie-ne escluso il rapporto individuale fra docente e alunno/a, sia pure in tempiparziali e definiti, e per attività specifiche.

Entrano quindi a far parte del bagaglio delle competenze necessarie pergli insegnanti, oltre alla rinnovata conoscenza di metodologie didattiche at-tive, la capacità di svolgere osservazioni sistematiche, di padroneggiare ledinamiche di gruppo, di guidare le discussioni collettive e quelle attività egiochi utili alla comprensione delle relazioni interpersonali, e per l’appren-dimento di buone abilità pratiche e di vita.

La produzione di interventi pedagogico-didattici articolati e personaliz-zati impone un ampliamento della programmazione delle attività e dellospazio educativo, in modo da tener conto delle varie esigenze dei bambini,e una maggiore collaborazione collegiale fra gli adulti, anche per realizzarel’arricchimento della valutazione scolastica in senso processuale, e con unagiusta attenzione all’area non cognitiva.

Lo sforzo di seguire i bambini secondo percorsi specifici e personalizza-ti, la realizzazione di progetti che intersechino le attività scolastiche conquelle del tempo libero, che assumono dignità e importanza per la loro cre- 127

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scita e maturazione, vengono costruiti cercando di realizzare una program-mazione degli interventi comune con gli altri servizi ed agenzie educativedel territorio.

A sua volta, il laboratorio va inteso non come momento aggiuntivo, macome tessuto di connessione nella pratica didattica quotidiana anche perla ripresa e/o l’approfondimento di specifiche tematiche. È un ulteriorespazio organizzato, dove si realizzano percorsi didattici strutturati per unpotenziamento dei livelli di apprendimento, in particolare per i bambini ele bambine che vivono situazioni di disagio, con una didattica in cui il faree il pensare sono uniti, e sono facilitate le relazioni interpersonali, ancheconfidenziali.

In questo modo si persegue la costruzione di un sistema in cui differen-ti momenti, attività e modalità di approccio-proposta, con diversi adulti ediversi compagni, favoriscono nei bambini il superamento dell’instabilità,oltreché la capacità di autonoma elaborazione di strategie d’apprendimen-to, per l’acquisizione e la capacità di transfert, nelle esperienze affettive esociali che vivono, di strumenti culturali di base.

Sono necessarie quindi proposte ricche, non scontate, che offrano op-portunità di ampliamenti interdisciplinari, e l’utilizzazione di linguaggi di-versi. Nello specifico dell’intervento contro il disagio, si tratta di rompere ilcircolo vizioso che confermando una già scarsa autostima non fa altro cherinforzarla: proposte in cui sia possibile mettere in gioco solo una parte disé, non sia scontato l’insuccesso, si parta dalle conoscenze e capacità che ibambini possiedono e dalla loro esplicita valorizzazione. Vengono privile-giate quelle attività che favoriscono una ricerca della risoluzione di proble-mi; un’attenzione particolare viene dedicata anche ai problemi di natura so-ciale, articolati sui temi della comprensione di sé come agente sociale e de-gli stati emotivi esperiti nelle relazioni interpersonali, alla esplicitazione diregole di convivenza, alla gestione del conflitto, al valore della cooperazioneed allo sviluppo dell’empatia.

I laboratori cercano di valorizzare l’operatività vicina alle esigenze diconcretezza che molti bambini manifestano, così come di offrire ad alun-ni/e attività opzionali. Si propongono attività che permettono di concretiz-zare un prodotto finito (con un effettivo valore d’uso), anche per il forte va-lore educativo-didattico che possiede il continuo intreccio fra il lavoro diideazione, progettazione e quello operativo, per il benefico stimolo di capa-cità cognitive e per il loro conseguente potenziamento. È necessario predi-sporre tempi non troppo lunghi, e controllabili anche dal bambino o bam-bina senza bisogno di troppo aiuto; il prodotto, infine, deve avere visibilitàesterna, permettendo al bambino e alla bambina di dire con soddisfazione:«Questo l’ho fatto io!».

Non sono necessari, in queste situazioni, grandi interventi; per favorirela cooperazione, di cui i bambini hanno proprio bisogno, i progetti ben fat-ti hanno intrinseca necessità del contributo degli altri e agli altri. Così con-cepiti, i laboratori possono essere fortemente connotati in senso curricola-re, o privilegiare contenuti tradizionalmente considerati meno scolastici; inogni caso si tratterà di prestare la massima attenzione e di intrecciare fra lo-ro, sia gli aspetti metodologici più attinenti ai rapporti interpersonali e alledinamiche di gruppo, sia quelli riguardanti le tecniche di insegnamento-ap-128

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prendimento, lo statuto epistemologico ed i linguaggi delle discipline, siainfine gli aspetti specifici del contenuto scelto.

Qui si accennano solo alcuni esempi di percorsi possibili in sede di la-boratorio, cercando di mettere in risalto l’importanza dell’intreccio sopradescritto.

Il teatro, utilizzato come percorso educativo, favorisce insieme l’uso in-tegrato di strumenti tecnici e disciplinari, l’apertura espressiva e all’altro, el’uso non stereotipato del corpo; inoltre permette l’esplorazione del valorecognitivo e affettivo della relazione e la percezione della coralità necessariaalla realizzazione del prodotto.

L’utilizzo di strumenti che la tecnologia offre comunemente, quali la te-lecamera ed il computer, e multimediali, permette la gestione del processodi costruzione del prodotto e la sua progressiva trasformazione, l’uso com-binato di modalità espressive diverse, una diversità modalità di interfaccia(se è permessa la parola!), una rapidità di comunicazione, che altrimenti sa-rebbero impensabili: un uso, quindi, non separato e astratto di saperi e tec-nologie. Si può inoltre fare educazione all’immagine ed opera di decondi-zionamento, facilitati dall’uso diretto ed appropriato di questa strumenta-zione. Infine, e per i bambini che vivono situazioni di disagio è molto im-portante, il computer non si arrabbia anche se si ripetono le stesse opera-zioni, una telecamera e un televisore permettono di vedersi come in unospecchio, di cancellare le immagini non riuscite e di vedere e far vedere mol-te volte quelle riuscite o ben montate.

La musica crea facilmente un clima che aiuta la creatività e l’approccioalle emozioni da parte dei bambini, e può altresì favorire l’ampliamento dellinguaggio, supportando attività di produzione e comprensione di testi.

La costruzione del rapporto fra alunno/a e la natura, attraverso un’edu-cazione delle capacità di intervento sull’ambiente – a partire da quello cir-costante del giardino della scuola, alla costruzioni di micro-ecosistemi o al-la coltivazione di fiori e piante – permette un proficuo lavoro con le perce-zioni e la possibilità di progettazioni individualizzate e, in quanto più facil-mente controllabili, meno ansiogene di altre. Anche un laboratorio di ag-giustaggio, bricolage e di produzione di materiali per i compagni – giochi,arredi, strumenti, materiali di scena per il teatro, ecc. – può avere valenzeeducative e didattiche importantissime, andando oltre le «attività manuali epratiche» o quelle di scienze naturali. Si possono così offrire al bambino obambina anche opportunità di acquisire facilmente consapevolezza dell’u-tilità del proprio lavoro, e di incrementare il senso di appartenenza alla co-munità, con un implicito insegnamento del rispetto delle cose pubbliche.

La scoperta ed il controllo del proprio corpo, del movimento e dell’e-spressività, pur essendo trasversali a diversi dei percorsi appena indicati,necessitano anche di momenti specifici, in cui l’obiettivo della ricomposi-zione tra fare e pensare sia esplicitamente riferito alla fisicità ed al pensiero.Infine, per l’acquisizione da parte dei bambini di maggiori capacità relazio-nali e della presa di coscienza dei propri bisogni, emozioni e risorse, sonocertamente importanti gli atteggiamenti quotidiani degli insegnanti per unacorretta educazione socio-affettiva. Ma è anche «necessario riuscire a favo-rire la conquista di competenze prosociali attraverso un «allenamento» cherichiede tempo e specifiche attività (…) Si tratta di un percorso di apprendi- 129

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mento che coinvolge abilità cognitive ed atteggiamenti emotivi nello stessotempo».32

Talvolta può essere utile che questi programmi, almeno in una prima fa-se, vengano proposti da persone esperte e specificatamente preparate, incompresenza con un insegnante, che potrà così a sua volta, attraverso que-sta formazione, incrementare le proprie capacità.

L’accompagnamento

Le esperienze di accompagnamento e tutoraggio degli alunni, nei casimeno gravi di disagio, vedono la presenza di giovani all’interno della scuo-la, anche in tempi e spazi diversi, per attuare interventi individualizzati, instretta collaborazione con i docenti.

Si vuole evitare così una posizione «assistenzialistica» ed intervenire inmodo utile ed efficace su cause non eccessivamente profonde del disagio.Vengono quindi attivate, all’interno della rete scuola-servizi-territorio, ri-sorse inusuali, rappresentate da giovani che per lo più vivono nel medesi-mo territorio, sono fortemente motivati, appartenendo a strutture del vo-lontariato sociale, e sono più vicini agli alunni negli interessi e nel linguag-gio. Nei casi di bambini e ragazzi che manifestano un disagio più profondo,e i cui comportamenti tanta influenza hanno anche sul clima complessivodelle classi e della scuola, si deve partire dall’obiettivo dell’aggancio emo-tivo per un tentativo di rimotivazione, prima di pensare al rendimento sco-lastico.

Nella nostra realtà, il Comune di Torino, la Direzione Generale regionalepiemontese dell’Istruzione, alcuni Istituti di scuola media della città el’Ufficio scuola dell’Istituto San Paolo di Torino da alcuni anni hanno attiva-to un Progetto di recupero scolastico, complesso ed articolato in veri e pro-pri obiettivi di intervento preventivo della devianza giovanile - «Provaci an-cora Sam»- e propongono un nuovo segmento di questo progetto. Oltre alrecupero scolastico dei minori dai 14 ai 16 anni, esclusi dal normale percor-so scolastico, ed il recupero di minori della fascia d’età 15-18 anni nei CentriTerritoriali per l’educazione Permanente (CTP), si sta sperimentando nelleclassi di prima media il progetto prevenzione– accompagnamento solidale,che ha coinvolto 18 scuole.

Sono necessari a questi progetti una forte articolazione, tempi lunghi,molteplicità e stabilità di figure adulte, cura della formazione delle personeche collaborano con i docenti, e dei docenti stessi, con un’attenzione parti-colare agli aspetti psico-pedagogici della relazione d’aiuto che si vuole in-staurare. Nell’ottica di una sempre maggiore e positiva integrazione sociale,si pone la garanzia di una supervisione in itinere, anche a sostegno della fa-tica emotiva richiesta agli adulti coinvolti. Con un giro di parole, si può direche è necessario prevedere un «accompagnamento degli accompagnatori».

Nei casi in cui il disagio manifestato da alcuni alunni a scuola apparegrave, può essere necessario ipotizzare interventi multiformi e multipli, ar-rivando quasi ad una presa in carico dell’intero nucleo familiare. In questicasi, oltre a quanto previsto e messo in atto dai servizi sociali, può risultareutile prevedere un accompagnamento educativo particolare, per offrire al130

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bambino l’opportunità di compiere esperienze di vita e di socializzazioneimportanti, ed utili a metterlo in condizione di affrontare i compiti di svi-luppo cui è chiamato. L’educatore professionale può svolgere efficacemen-te questo compito – dentro e fuori la scuola; – così come può fare da inter-mediario all’eventuale intervento di uno specialista con specifiche compe-tenze psicologiche, per un intervento preventivo che eviti l’allontanamentodel minore dalla famiglia e valorizzi residue capacità dei genitori, aiutando-li anche ad inserirsi gradualmente in una rete di supporto come preceden-temente descritta.

Alcune volte è possibile, come hanno dimostrato significative esperien-ze attuate in alcune scuole, prevedere degli interventi educativi e didattici incui si cerchi di potenziare la «coscientizzazione» del patrimonio conoscitivopresente in ogni bambino; obiettivo primo è contribuire alla costruzione, inquesti bambini, della coscienza di essere in grado di sapere e saper fare del-le cose e di provare il piacere di farle. È indispensabile lavorare anche conpiccolissimi gruppi di alunni, impostando interventi che intreccino in mo-do evidente e palpabile il fare e il pensare, e con adulti accoglienti, attenti aibisogni affettivi dei bambini, e capaci di creare un clima di lavoro e relazio-ni interpersonali favorevoli. La massima cura deve essere posta alle moda-lità del processo di insegnamento-apprendimento: con una continua espli-citazione dell’obiettivo, del contenuto della proposta e delle sequenze logi-che e operative necessarie, in ingresso; con una grande attenzione al lin-guaggio e al suo arricchimento, alla necessaria riflessione, ma soprattutto alcontrollo dell’impulsività e dell’emotività, nella fase intermedia; concluden-do con numerosi tentativi di generalizzazione e trasposizione a diverse si-tuazioni (bridging) delle modalità e dei processi messi in atto, e delle cono-scenze apprese.

Il coinvolgimento delle famiglie

L’obiettivo di avere genitori maggiormente consapevoli e collaborativipuò essere perseguito, a partire dal considerarli una risorsa, attraverso la ri-cerca di coinvolgimento in iniziative e attività di cui sia percepibile l’utilità;per ottenere un effetto moltiplicatore positivo, si creano microstrutture adhoc, anche gestite direttamente dai genitori. Spesso, per agganciare le fami-glie che assumono un atteggiamento di delega nei confronti della scuola, sirivela importante lavorare per piccoli gruppi «tematici». In questi casi i ge-nitori possono assumere un ruolo di mediazione culturale importante siaper i bambini sia per altre famiglie, e diventare efficaci moltiplicatori di par-tecipazione consapevole alla vita scolastica.

Sono indispensabili iniziative mirate, che abbiano come presuppostoquello di voler valorizzare gli aspetti migliori, le capacità spesso insospetta-te, ma anche i desideri dei genitori. Gli esempi possono essere diversi. Sipuò partire coinvolgendo un gruppo di genitori in attività di preparazionedei materiali per una festa o per uno spettacolo, o di uno spettacolo dei ge-nitori, di miglioramento estetico della scuola, di riparazione di arredi o stru-mentazione, di assistenza in attività oltre l’orario scolastico, di elaborazionedi proposte didattiche per gli alunni, di allestimento e cura del funziona- 131

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mento di una biblioteca locale. Proporre il giornale dei genitori o la fre-quenza di un corso, se si rileva un bisogno di formazione specifica.

Esiste, e sarebbe da studiare e potenziare, qualche interessante espe-rienza anche di accompagnamento dei genitori da parte di altri genitori:questa forma di tutoraggio non invadente può permettere a genitori «trop-po» occupati da loro stessi, genitori in difficoltà che non «vedono» i figli, diriscoprirli, attraverso, per esempio, la valorizzazione dei prodotti dei bam-bini. È un lavoro molto delicato, che necessita di una certa formazione deigenitori tutor e di un monitoraggio costante, ma leggero, delle situazioni.

Per favorire un contatto diretto, in alcune scuole si sono allestiti anchenuovi servizi ed opportunità per le famiglie, come sportelli-centri d’ascolto,che consentono ai genitori di portare all’attenzione della scuola problemi,richieste, suggerimenti e proposte, e di ricevere attenzione, informazioni,suggerimenti, indicazioni. Si fornisce così alle famiglie l’opportunità di rice-vere informazioni sui servizi, le agenzie e le risorse, innanzitutto di tipo edu-cativo, che «fanno rete» con la scuola. Il tutto in una situazione più acco-gliente, e nello stesso tempo più «neutra» e riservata, rispetto al colloquiocon l’insegnante del proprio figlio o figlia.

Ancora, la realizzazione di forme di counselling vero e proprio rivolte aigenitori, ma anche agli insegnanti, ha lo scopo di rafforzare la rete di inter-venti di protezione nei confronti dello sviluppo di bambini e bambine, e de-ve essere strettamente connessa con gli altri interventi attivati a livello so-cio-assistenziale e sanitario. Il dibattito sul luogo più adatto per svolgere unsimile servizio, in modo da favorire l’accesso di coloro che ne hanno biso-gno e per i quali nasce, è ancora aperto. In questa sede ci si limita a rilevareche solo un’attenta analisi del territorio, e dei bisogni che esprime, permet-tono di sciogliere, almeno provvisoriamente, questo nodo.

Queste iniziative sono per lo più gestite dalle scuole in collaborazionecon operatori di altri servizi del territorio e/o di associazioni. Quello che ècerto è che qualunque iniziativa si voglia attuare sono necessarie risorse,perché l’impegno volontario delle persone abbia sempre un supporto – inmateriali, strutture e finanziamenti – che stimoli anche quello spirito d’im-presa, di cui oggi tanto si parla, e che solo in parte normalmente una scuo-la può garantire.

Note

1. Non solo sfruttati o violenti - Bambini e adolescenti del 2000, Ist. degli Innocenti,Dip. Affari Sociali, 2001

2. Non solo sfruttati o violenti, cit.3. La difficoltà ad apprendere, Convegno Internazionale, Torino 1988, L. Di Cagno (in-

troduzione)4. Non solo sfruttati o violenti, (cit.) - p. 202. V. il cap. 8 del presente Rapporto.5. T. Musatti, Attorno ai più piccoli: confronto multiculturale e socializzazione, MPI /

CNR Convegno «Scuola e società multietnica», Roma 20016. La rete spezzata, Caritas Italiana e Fondazione Zancan, Feltrinelli, 2000132

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7. Indagine sulla dispersione scolastica, Comm. Cultura Camera dei Deputati 19998. «Se 0.3 vi pare poco: demografia e scuola» – Valore Scuola – CGIL Scuola, febbraio

19949. F. Bianchi di Castelbianco, M. Di Rienzo, Vivere bene la scuola. Esplorazione del di-

sagio infantile nel mondo scolastico, Edizioni Scientifiche MaGi, Roma, 200010. Per il successo scolastico - Giornale dei docenti D.D. «Leopardi», Torino11. Nodi&Snodi (Progetto ITACA Comune di Torino, in collaborazione con Provvedito-

rato agli Studi di Torino) 200012. D. Olweus, Bullismo a scuola, Giunti ed., 199613. Sharp e Smith, Bulli e prepotenti a scuola, Erickson, 199514. A. Fonzi, Bullismo in Italia, Giunti ed., 199715. F. Prina, Bullismo e violenza a scuola, Città di Torino, 199716. S. Bonino, Piemonte e Valle d’Aosta: i ragazzi si raccontano, in A. Fonzi, op. cit.,

199717. Nodi&Snodi, op. cit.18. Gruppo di Ricerca insegnanti utilizzati progetto provinciale prevenzione dispersione

scolastica e promozione del successo formativo – Settore Sc. Materna ed Elementare,Torino

19. N. Citarella, Scuola e multimedialità, in «Babele», Ass. Psicologi SRM, n. 18/200120. CISMAI, Il fenomeno dell’abuso sessuale e del maltrattamento ai danni di minori,

200021. Zecca, Il bambino inferiorizzato, p.11722. I dati riportati in questo paragrafo provengono, salvo diversa indicazione da M.P.I. –

Servizio statistico23. Sembra diffusa la consapevolezza di quanto ben espresso in uno dei rapporti che

l’Istituto degli Innocenti di Firenze ha realizzato per il Ministero della SolidarietàSociale: «Nelle scuole, sul piano concreto e su quello teorico, assistiamo ad una sor-ta di tensione divaricante fra funzione di apprendimento e funzione di socializzazio-ne. In realtà … le due funzioni non sono separabili che attraverso un esercizio diastrazione. (…) Quella tensione divaricante sottolinea il duplice rischio che vive lascuola oggi, pur fra tanto qualificato impegno: il carattere astratto, irrilevante ai finipersonali, non gratificante della funzione di apprendimento che vi è svolta; per con-tro, il suo essere spesso luogo di socializzazione povera, casuale, più riparo tempo-raneo alle insicurezze che alla frammentazione e alla solitudine contemporanea»:Unvolto o una maschera?, Ministero degli Affari Sociali, 1997

24. Osservatorio & C., Provveditorato agli studi di Torino, 1998 (p.164)25. Rosina, Zucchi, L’educazione alla salute nella scuola, Provveditorato Studi di Torino,

199726. Non solo sfruttati e violenti, op. cit., p.5827. Elaborazione dal Piano Triennale, a cura di Torino Città Educativa28. Elaborazione da «Concerto 2» Piano Territoriale d’Intervento, 2000/2002, Provincia

di Torino29. IRES Piemonte, La configurazione sociale dei diversi ambiti spaziali nella città di

Torino, 2000, p.430. MPI, La scuola e i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, nota d’indirizzo, 199831. D. Ianes, Il bisogno di una «speciale normalità» per l’integrazione, Convegno «La

qualità dell’integrazione nella scuola», Erickson, 200132. Nodi&Snodi, op. cit.

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BAMBINI E DISABILITÀ

5.1 Premessa

In queste pagine si è tentato di offrire una lettura che nasce soprattuttodall’esperienza diretta con i bambini disabili e con le loro famiglie, svilup-pata all’interno dei servizi e dei gruppi di auto mutuo aiuto. Il taglio, più em-pirico che scientifico – analitico in senso stretto, trova il proprio fondamen-to nella richiesta dei cosiddetti utenti, che, soprattutto, desiderano essereaffrontati, trattati, avvicinati come individui e non come «casi». Si impara aguardare le persone negli occhi, a non farsi spaventare dai loro bisogni e dal-le loro paure. Sicuramente questa è una lettura parziale, non solo per le pre-messe esposte, ma soprattutto per la complessità del problema trattato.

L’handicap nella maggioranza dei casi, a differenza di altre condizionisfavorevoli, è uno «svantaggio permanente», che determina nelle personeuna situazione di dipendenza, nel tempo duratura e costante, seppur mute-vole. Le condizioni di autonomia sono quindi compromesse, in relazione amolte variabili: tipologia, gravità ed esiti dell’handicap, condizioni econo-miche, sociali, culturali, qualità degli interventi e degli esiti riabilitativi, e co-sì via. In qualsiasi caso, le condizioni di autonomia possibili e realizzabilinon sono scontate, ma da conquistare, dimostrare, difendere, ottenere, sianei confronti di persone (genitori, fratelli, sorelle, insegnanti, operatori ecc.)sia verso i servizi. La dipendenza si traduce, infine, nella moltiplicazione difigure professionali, e di soggetti erogatori di prestazioni e di servizi. Ciò si-gnifica che, nel «panorama esistenziale e relazionale» di una persona disa-bile e della sua famiglia, sono presenti molti e diversi soggetti, sia pubblicisia del terzo settore, che intervengono a vario titolo e con competenze di-verse. Alcuni di questi costantemente (medici, assistenti sociali, terapistiecc.), altri variano a seconda delle fasce di età (educatori, insegnanti di so-stegno, associazioni di volontariato e così via).

Inoltre, nell’ambito dei minori, le informazioni sono molto frammenta-te e parziali, poiché risentono delle diverse «titolarità» di intervento: si trat-ta, per ricostruire tale panorama, di cercare di capire «chi fa cosa» e riflette-re su «chi e cosa non c’è».

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5.2 Problemi di classificazione e definizione

Concetti

Quando si parla di disabilità, molte sono le trappole in agguato, spessoriferibili alla terminologia corrente, agli strumenti utilizzati e all’ottica concui si affronta la lettura del problema, o alla inadeguatezza che si avverte difronte a certe complessità: servizi e operatori spesso non hanno risposte. Isignificati e le implicazioni terminologiche, innanzi tutto, variano a secon-da del soggetto classificatore o utilizzatore.

Per l’OMS, le definizioni che individuano disabilità, handicap, menoma-zione seguono determinati criteri ed hanno precise implicazioni non sem-pre esattamente coincidenti con quelli adottati, ad esempio, dai servizi so-ciali, che devono ragionare in termini di prestazioni, servizi e liste d’attesa.(Scheda A).

Scheda A – Definizioni della disabilità

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Nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha proposto una classifica-zione generale così articolata:

DisabilitàDefinizione:Nell’ambito delle evenienze inerenti alla salute, si intende per disabilità qual-siasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) delle capacità disvolgere un’attività nel modo o nei limiti considerati normali per un essereumano.

Caratteristiche:La disabilità è caratterizzata da scostamenti, per eccesso o per difetto, nellarealizzazione dei compiti e nella espressione dei comportamenti, rispetto a ciòche sarebbe normalmente atteso. Le disabilità possono avere carattere transi-torio o permanente ed essere reversibili o irreversibili, progressive o regressive.Possono insorgere come conseguenza diretta di una menomazione o comereazione del soggetto, specialmente da un punto di vista psicologico, a unamenomazione fisica, sensoriale o di altra natura.

Classificazione:• Disabilità nel comportamento• Disabilità nella comunicazione• Disabilità nella cura della propria persona• Disabilità locomotorie• Disabilità dovute all’assetto corporeo• Disabilità nella destrezza• Disabilità circostanziali• Disabilità in particolari attività• Altre restrizioni all’attività

segue

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HandicapDefinizione:Nell’ambito delle evenienze inerenti alla salute, l’handicap è la condizione disvantaggio conseguente a una menomazione o a una disabilità che in un sog-getto limita o ostacola il compito di una funzione ritenuta normale per un in-dividuo, in relazione alla sua età, sesso e condizione socio-culturale.

Caratteristiche:L’handicap è collocato alla fine di un processo di dipendenza funzionale, pre-ceduto dallo stato di malattia, menomazione, disabilità. L’handicap, quindi,non è attributo funzionale del soggetto, ma risultato dell’interazione fra il sog-getto (disabile) e il sistema in cui si trova ad interagire; riguarda il significatoassunto da una situazione o esperienza individuale quando essa si scosta dal-la normalità.Esso è caratterizzato dalla discrepanza tra l’efficienza o lo stato del soggetto ele aspettative di efficienza e di stato sia dello stesso soggetto sia del particola-re gruppo di cui fa parte.

Classificazione:• Handicap nell’orientamento• Handicap nell’indipendenza fisica• Handicap nella mobilità• Handicap occupazionali• Handicap nell’integrazione sociale• Handicap nell’autosufficienza economica• Altri handicap

MenomazioneDefinizione:Nell’ambito delle evenienze inerenti alla salute, per menomazione si intendequalsiasi perdita o anormalità temporanea o permanente di una funzione psi-cologica, fisiologica o anatomica.

Caratteristiche:La menomazione è caratterizzata da perdite materiali o anormalità che posso-no essere transitorie o permanenti e comprende l’esistenza o l’equivalenza dianomalie, difetti o perdite a carico di arti, tessuti o altre strutture del corpo. Lamenomazione può rappresentare visibilmente uno stato patologico e, in lineadi principio, può riflettere i disturbi manifestati a livello organico.

Classificazione:• Menomazioni della capacità intellettiva• Altre menomazioni psicologiche• Menomazioni del linguaggio e della parola• Menomazioni auricolari• Menomazioni oculari• Menomazioni viscerali• Menomazioni scheletriche• Menomazioni deturpanti• Menomazioni generalizzate, sensoriali e di altro tipo.

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Così nel campo della disabilità i concetti di lieve, grave e gravissimo, im-piegati per precisare le condizioni di una persona con insufficienza menta-le, poco dicono di quell’individuo, mentre fanno subito intuire il tipo di ser-vizio e quindi di assistenza necessari.

Cosa dire di tutte le situazioni in cui convivono più disabilità, o in cuiqualcuna non è riconosciuta? Ad esempio, in diversi casi, di fronte ad una si-tuazione di handicap motorio evidente, affiancato ad una insufficienzamentale lieve, la famiglia preferisce riconoscere (o riesce a riconoscere) so-lo la disabilità motoria. Ciò per molti motivi: è meno vergognosa, si pensa dipoterla «curare», è intollerabile pensare di avere un figlio handicappato datutti i punti di vista, e così via. E cosa dire delle implicazioni neurologiche,che si ripercuotono anche da un punto di vista cognitivo, comportamenta-le e culturale?

Un altro aspetto problematico è dato dalle zone di contiguità tra la ma-lattia (che di per sé può non essere invalidante) e complicanze, che possonodeterminare condizioni di disabilità: l’anoressia è un esempio interessante,perché coinvolge giovani in età sempre più precoce. La persona malata, in al-cuni casi, è una persona da curare; in altri è una persona da assistere, e puòessere considerata malata o disabile a seconda del servizio fruito. Si sta assi-stendo alla trasformazione dell’utilizzo di alcuni servizi, che, nati per le per-sone con handicap, ora sono richiesti da persone malate, come ad esempioil servizio di trasporto tramite buoni taxi. Questo servizio, organizzato peraiutare le persone che hanno gravi impedimenti alla deambulazione (anzia-ni, disabili motori e non vedenti) che usufruiscono del trasporto tramite buo-ni taxi, ha poco più di 3000 utenti a Torino (181 di questi sono minori com-presi nella fascia 2-18 anni). È ora in grande difficoltà, per il numero delle ri-chieste, sempre crescente, di trasporti per persone con malattie oncologiche,che devono recarsi ad effettuare terapie, compresi anche bambini. Si può co-sì concludere che una persona disabile non è solo un malato, e che un mala-to può essere anche una persona disabile.

Il concetto di disabilità dunque è trasversale e variegato; bisogna evitarele semplificazioni e gli accorpamenti artificiosi. La condizione di disagio e didifficoltà psicologica e/o relazionale non necessariamente coincide con unacondizione di disabilità. La legge 104 del 1992 stabilisce che «è persona han-dicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale,stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di re-lazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo disvantaggio sociale o di emarginazione». Questi presupposti riguardano tut-ti gli individui disabili; quindi, da un punto di vista formale, la condizione dihandicap deve essere accertata e diagnosticata dall’équipe multidisciplina-re dell’A.S.L. del territorio di residenza del minore. Solo dopo tale accerta-mento, un soggetto è considerato disabile, e può accedere ai servizi e alleforme di sostegno previste. È evidente che tale certificazione riguarda esclu-sivamente gli aspetti funzionali e che i fattori concernenti il/i deficit sonodeterminanti al fine della definizione delle reali e generali condizioni disvantaggio: le limitazioni date da una insufficienza mentale gravissima nonsono le stesse prodotte da una disabilità sensoriale.

Il problema della definizione certa di una condizione di handicap di-venta spinoso, soprattutto nei casi che riguardano i disturbi della comuni- 137

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cazione e del comportamento. Un esempio interessante, sia dal punto di vi-sta dell’evoluzione diagnostica, sia rispetto ai ruoli e alle funzioni di stimo-lo e innovazione che, anche in questo campo, i servizi possono assolvere, èdato dall’autismo, e dal progetto ad esso collegato promosso in ambito re-gionale (Il bambino che scende dalla luna). Una delle principali finalità del-l’iniziativa promossa dalla Regione Piemonte, è infatti quella di promuove-re e migliorare la fase diagnostica nel campo dell’autismo. È molto impor-tante comprendere l’importanza di una diagnosi certa e precoce, in quantoil successo degli interventi educativi e/o riabilitativi in molti casi è stretta-mente connesso alla pertinenza e alla tempestività degli interventi stessi.

Veniamo ora ai bambini (minori) disabili. Qual è il nesso che unisce i dueconcetti, quale equilibrio esiste tra le due condizioni, una sicuramentesvantaggiata (l’essere disabile), l’altra non necessariamente (l’essere mino-re)? Nella realtà si registra tra le due espressioni uno scarto concettuale, checonnota, forse con eccessiva enfasi, la condizione sociale del minore, a sca-pito del riconoscimento e dell’intervento specifico sul deficit, in termini digamma delle offerte e di integrazione in senso globale. In altri termini, i ser-vizi tendono a riconoscere e tutelare la condizione di minore più che quelladi disabile. Ciò, se da un punto di vista delle buone intenzioni sembra un at-teggiamento moderno e democratico, nella realtà si traduce nella difficoltàda parte dei bambini e delle famiglie di trovare migliori risposte ai bisogni.Le offerte fino a 6 anni riguardano quasi esclusivamente l’ambito sanitario,e l’approccio è curativo, riabilitativo, più che di integrazione nel senso pie-no del termine. Successivamente, da 6 fino a 14 anni, è la scuola dell’obbli-go, attraverso l’assegnazione di insegnanti di sostegno, a rappresentare ilsoggetto erogatore di servizi; ancora una volta, la visione è parziale, perchérisponde ad una particolare tensione, quella dell’integrazione scolastica. Èuna visione parziale, che corrisponde ad una scansione temporale specifica(6-14 anni), che rappresenta solo una porzione del tempo globale di un in-dividuo.

L’atteggiamento che considera il bambino disabile esclusivamente unminore, e la conseguente scelta di «investire» dal punto di vista della sua in-tegrazione solo in tali termini, è dunque una posizione inadeguata. Questolimite si manifesta con evidenza soprattutto in due situazioni:

❖ durante il periodo della scuola dell’obbligo, quando la scuola (da so-la) non riesce a colmare le richieste di normalità e socializzazione delbambino;

❖ successivamente, quando per un ragazzo disabile (pur essendo mi-nore) non sono previsti offerte e interventi specifici.

Infatti, per la fascia di età dai 14 ai 18 anni, i servizi sono quasi assenti: iragazzi sono troppo cresciuti per fruire dei servizi scolastici, ma troppo pic-coli per ottenere quelli previsti in ambito socio assistenziale, il terzo settoresolo parzialmente riesce a colmare le lacune esistenti. Ciò è tanto più vero,se riferito all’ambito dell’insufficienza mentale grave e gravissima. Questecontraddizioni si avvertono in maniera sensibile quando si raccolgonoinformazioni nel campo: l’ambito statisticamente meglio rappresentato è,ancora una volta, quello della scuola. Ciò non perché la scuola «lavora» be-138

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ne, ma perché, insieme al sistema sanitario, è sovente l’unica istituzione chelavora a vantaggio di questi soggetti (Scheda B).

Scheda B – Il trattamento dei bisogni

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Presa in caricoÈ il processo integrato e continuativo, attraverso cui deve essere garantito il go-verno coordinato dell’insieme degli interventi sulle condizioni che ostacolanol’inserimento sociale, scolastico e lavorativo, inteso a favorire il più completodispiegarsi della personalità dei singoli individui. In un quadro di riferimentosulla nuova classificazione ICDH-2 (International Classification of DiseaseDisability and Handicap) dell’OMS, la presa in carico dovrebbe essere definitacome la strategia di attenzione di servizi, distribuiti omogeneamente sul terri-torio, verso la condizione di svantaggio delle persone con disabilità. Questastrategia di attenzione deve tradursi, attraverso l’offerta di servizi pubblici oprivati, in interventi, coordinati e con la continuità necessaria, che abbiano lafinalità di valorizzare le capacità e le abilità delle persone con disabilità, e dioperare, con risorse e competenze adeguate, per il conseguimento di una pariopportunità di condizione tra i cittadini, limitando o eliminando le discrimi-nazioni sociali e culturali.La presa in carico è uno dei momenti fondamentali per l’impostazione e ilmantenimento del rapporto persona/famiglia/sistema dei servizi/contesto so-ciale. È quindi un processo che, rispettoso delle scelte individuali delle perso-ne in situazione di handicap e dei loro familiari, è influenzato dalla entità equalità delle risorse esistenti, dai livelli di integrazione tra servizi e istituzioni,oltre che dalla loro capacità di garantire con continuità il coerente evolversi deipercorsi di vita. Richiede particolare attenzione nei contesti di intervento adampia espressività interistituzionale, e nelle fasi di passaggi evolutivi di parti-colare significatività, come ad esempio quello infanzia/adolescenza o adole-scenza/età adulta.

(a cura del gruppo di lavoro «Presa in carico e riabilitazione»Prima Conferenza Nazionale sulle Politiche dell’Handicap)

Bisogni Educativi Speciali (B.E.S.)Con questo concetto si intende l’analisi dei bisogni individuali di particolarifasce di popolazione, e la pianificazione di strategie utili a compiere processidi integrazione sociale nei diversi contesti di vita.Anche in questo caso ci sono problemi di classificazione generale rispetto al si-gnificato attribuito a tale termine dalle diverse realtà nazionali. L’OCSE sotto-linea che esistono differenze tra un paese e l’altro nel modo di valutare i biso-gni dei minori, differenze che riguardano la terminologia usata, ma anche lecategorie con le quali sono classificati i minori in difficoltà. Ciò spiega l’incer-tezza con cui si confrontano tra un paese e l’altro i numeri di minori con biso-gni educativi speciali.Una parte dei minori inseriti in questa categoria sono portatori di minorazio-ni o deficit, secondo le definizioni fornite dall’Organizzazione Mondiale dellaSanità.L’Unione Europea, attraverso il Progetto MOISE inserito nel Programma SO-CRATES, ha finanziato diversi soggetti istituzionali europei, che si sono impe-gnati, con compiti e obiettivi diversi, nella definizione di un ModelloOrganizzativo Internazionale dei Servizi per Bisogni Educativi speciali, da cuil’acronimo del Progetto.

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I dati ovvero la loro mancanza

«Finora le analisi e le valutazioni di carattere epidemiologico sull’handi-cap, compiute a livello nazionale, non hanno permesso di ottenere infor-mazioni complete per conoscere quanti siano i portatori di handicap in etàevolutiva, e ancor meno, di descrivere compiutamente quali e quante sianole diverse problematiche. L’utilizzazione di diversi criteri e parametri non haconsentito di pervenire ad una corretta rilevazione statistica; ha contribui-to, invece, ad alimentare informazioni confuse e incerte, nonché l’invisibi-lità sociale di questa realtà».

Questo veniva affermato dall’Istituto degli Innocenti di Firenze nelRapporto 1996 sulla condizione dei minori in Italia, ed è valutazione che tro-va un riscontro nell’esperienza di coloro che operano nel campo. Si cerca diprodurre numeri, e di ottenere cifre, ma sono quasi sempre informazioniche, per la loro parzialità e incertezza, poco dicono rispetto alla vastità del-l’argomento. Con questo non si intende sostenere che non esistono statisti-che capaci di restituire adeguatamente i confini del «fenomeno» indagato,ma che dal punto di vista statistico il fenomeno non è ancora stato studiatoadeguatamente.

Analizzando le statistiche prodotte in ambito nazionale, si scopre che idati più consistenti e approfonditi inerenti i minori disabili riguardano lescuole dell’obbligo, per ciò che concerne le forme di sostegno scolastico.Altre informazioni reperibili interessano l’handicap in generale; il fenome-no è analizzato per ampie fasce di età (6-14 anni), in relazione alle condi-zioni di salute e al ricorso ai servizi sanitari: nulla, o poco, si sa sul tempo li-bero, gli stili di vita, le tipologie delle famiglie e così via. Secondo i dati del-l’indagine Multiscopo Istat, riferiti al lontano 1994, si contavano in Italia2.364.000 famiglie con almeno un disabile. Le disabilità in persone compre-se tra 6 e 14 anni, per il 56% maschi e 44% femmine, raggiungevano 400.000casi in Italia (Tab. 5.1)

Anche dal punto di vista locale (regionale o provinciale) la situazionenon cambia, è sempre l’ambito scolastico ad essere meglio analizzato.

Non manca una «autarchia» delle banche dati. Queste non dialogano enon scambiano informazioni. Ogni soggetto costruisce i propri archiviinformatizzati e si «tiene» le proprie informazioni. Inoltre, oltre a non dialo-gare, le banche dati sono scarsamente visibili e difficilmente consultabili.Tutto ciò denuncia la debolezza degli Osservatori quali strumenti istituzio-nali utili allo studio e al controllo di determinati fenomeni sociali. In diver-si casi sono degli strumenti poco funzionanti. Si deve ricorrere direttamen-te ai servizi, agli operatori e alle famiglie, per ottenere le informazioni utiliper capire il fenomeno.

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Tabella 5.1 – Disabili, per classe di età, tipo di disabilità e sessoMaschi (dati in migliaia)

Femmine (dati in migliaia)

Tipo di disabilità Classi di età (anni) Totale

6-14 15-24 25-34 35-44 45-54 55-6465

e oltre

Disabili 106 35 37 35 54 135 626 1.028

Confinamento individuale 7 11 6 11 17 34 237 323

Disabilità nelle funzioni 102 14 18 18 23 93 461 729

Difficoltà nel movimento 3 3 6 6 17 50 268 353

Difficoltà vista, udito e parola 5 17 15 9 15 19 135 215

Totali 223 80 82 79 126 331 1.727 2.648

Fonte ISTAT Indagine multiscopo sulle famiglie, anno 1994

Tipo di disabilità Classi di età (anni) Totale

6-14 15-24 25-34 35-44 45-54 55-6465

e oltre

Disabili 82 24 21 34 79 160 1.249 1.649

Confinamento individuale 5 8 11 11 24 48 494 601

Disabilità nelle funzioni 74 9 9 12 31 80 873 1.088

Difficoltà nel movimento 6 6 8 12 30 70 598 730

Difficoltà vista, udito e parola 7 10 10 7 15 25 208 282

Totali 174 57 59 76 179 383 3.422 4.350

5.3 Le competenze e gli interventi del settore pubblico

I principali soggetti pubblici erogatori di servizi per l’ handicap sono col-locati nel settore sanitario (Aziende Sanitarie Locali e Aziende Ospedaliere),nella scuola (Direzioni Generali Regionali Scolastiche), e nel settore Socio-assistenziale (Enti Locali, soprattutto Comuni, e loro Consorzi).

Le aziende sanitarie: le funzioni

Per ciò che concerne le prestazioni rivolte alle persone in condizione dihandicap, le Aziende Sanitarie Locali gestiscono in forma diretta alcuni ser-vizi a valenza sanitaria e, parallelamente, concorrono alle spese per la ge-stione di servizi socio assistenziali con caratteristiche e componenti anchesanitarie (ad esempio i servizi residenziali e semi residenziali, ecc.); talicompetenze in alcuni casi non sono di facile definizione. Inoltre, si deve ri-

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cordare che il sistema sanitario prevede un certo grado di autonomia ge-stionale delle Aziende Sanitarie, che si traduce in offerte di servizi piuttostodiversificate nelle Aziende Sanitarie Locali piemontesi.

In sintesi si offre una definizione generale delle offerte in ambito sanita-rio, per ciò che concerne la popolazione oggetto di intervento.

Neuropsichiatria infantile (N.P.I.)Il Servizio di Neuropsichiatria infantile fornisce prestazioni di diagnosi,

terapia e riabilitazioni a minori (da 0 a 18 anni) con problemi psicologici e/ocon handicap. Si occupa delle prevenzione e cura dei disturbi neuropsichia-trici e neurologici:

❖ disturbi psicologici e relazionali❖ disturbi logopedici (della comunicazione, del linguaggio, della deglu-

tizione) in età evolutiva❖ attività in materia di inserimento scolastico di allievi portatori di

handicap

Prestazioni:❖ visite neuropsichiatriche e neurologiche❖ colloqui ed esami psicodiagnostici❖ inquadramenti logopedici❖ riabilitazione logopedica❖ terapia farmacologica❖ psicoterapia e colloqui di sostegno❖ colloqui e consulenze specialistiche neuropsichiatriche, psicologi-

che, a genitori e insegnanti, servizi specialistici ad istituzioni che sioccupano di minori

Assistenza riabilitativaIl Servizio garantisce interventi riabilitativi e rieducativi per il recupero

funzionale a seguito di traumi e malattie. In alcuni casi (a discrezione del-l’ASL) l’assistenza può essere svolta a domicilio.

Prestazioni:❖ visite fisiatriche❖ terapia riabilitativa ❖ rieducazione motoria❖ rieducazione logopedica per linguaggio e deglutizione❖ prescrizione di protesi e ausili per disabili

Assistenza medico-legaleIl Servizio di Medicina Legale interviene nell’esprimere valutazioni a ca-

rattere medico in casi particolari e per situazioni precise stabilite a norma dilegge. Utile per:

❖ certificazione dello stato di handicap (L. 104/92)142

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❖ ottenimento dell’indennità di invalidità civile❖ rilascio del contrassegno speciale per il permesso di sosta❖ assistenza protesica (protesi e ausili)

Diagnosi funzionale (D.F.)L’équipe multidisciplinare dell’A.S.L. del territorio di residenza della fa-

miglia, su richiesta della stessa, ha il compito di redigere la DiagnosiFunzionale, documento indispensabile per ottenere i benefici della Legge104/92. Tale documento, inoltre, è necessario in altre situazioni, quali l’i-scrizione del bambino alla scuola dell’obbligo. La Diagnosi Funzionale è ildocumento indispensabile per chiedere l’insegnante di sostegno e tutti isupporti utili all’integrazione. In mancanza di tale documento, l’allievo nonpuò in alcun modo essere considerato in situazione di handicap.

Le Direzioni generali regionali scolastiche

Nell’intenzione legislativa, l’integrazione scolastica del disabile si realiz-za prevalentemente attraverso gli strumenti di lavoro partecipati (i gruppi),che operano a livelli diversi e con obbiettivi differenti. Parallelamente, perrispondere ai bisogni di sostegno individuale degli alunni in condizione dihandicap sono state predisposte due tipologie di risposte: gli insegnanti disostegno e gli assistenti per l’autonomia e la comunicazione. Questi due in-terventi dovrebbero inserirsi all’interno di una progettazione integrata, chevede impegnati diversi gruppi: il gruppo tecnico, il gruppo di studio e di la-voro di Circolo o di Istituto, il Gruppo di Lavoro InteristituzionaleProvinciale, e così via. Infine, l’Unità Territoriale di Servizi Professionali peri Docenti «Necessità Educative Speciali», attraverso le proprie attività, assol-ve prevalentemente a funzioni formative e informative.

Ricostruiamo le sequenze dei diversi livelli di intervento, partendo daquelli direttamente rivolti agli studenti in condizioni di handicap.

Gruppo tecnicoPer ciascun alunno, il gruppo tecnico è formato dai docenti del Consiglio

di classe, dall’eventuale operatore psicopedagogico, dagli operatori del-l’A.S.L., dai genitori dell’alunno in situazione di handicap e dal dirigentescolastico o suo delegato. Il Gruppo tecnico deve (v. Scheda D):

❖ predisporre il Profilo Dinamico Funzionale (P.D.F.)❖ predisporre il Piano Educativo Individualizzato (P.E.I.)❖ verificare l’attuazione del P.E.I.❖ verificare gli effetti dei diversi interventi e l’influenza esercitata dal-

l’ambiente scolastico❖ aggiornare il P.D.F.

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Gruppo di studio e di lavoro di Circolo/IstitutoIl gruppo è composto dai docenti di classe e di sostegno, dal Dirigente

scolastico, dagli operatori dei servizi, dai genitori e, per le superiori, daglistudenti stessi in situazione di handicap e non. Il gruppo può essere inte-grato, almeno nel primo periodo dell’anno scolastico, anche dagli inse-gnanti che hanno seguito l’alunno nel precedente ordine di scuola.

Questo gruppo collabora alle iniziative di integrazione scolastica ed ha ilcompito di:

❖ analizzare la situazione complessiva nell’ambito delle scuole di com-petenza (numero di alunni in situazione di handicap, tipologia deglihandicap, classi coinvolte)

❖ organizzare e coordinare attività di integrazione (corsi di formazione,assemblee degli studenti sulla diversità, attività teatrali, ecc.)

❖ predisporre le procedure di continuità❖ osservare e analizzare le difficoltà sorte e attivare strategie organizza-

tive capaci di rispondere efficacemente alle problematiche eviden-ziate

❖ attivare il raccordo con gli Enti corresponsabili del processo di inte-grazione

❖ offrire agli Organi collegiali consulenza per la formazione delle classi.

La presenza degli studenti nei Gruppi di Studio e di Lavoro è una inno-vazione importante introdotta dalla Legge 104/92. Si riferisce, in primo luo-go, alla scuola secondaria superiore, e riguarda:

❖ la presenza degli studenti nel gruppo con attenzione a tutte le inizia-tive idonee a facilitare i rapporti di amicizia e di aiuto reciproco tracompagni

❖ il coinvolgimento dello studente in situazione di handicap nella defi-nizione dei documenti e dei provvedimenti relativi al suo percorsoeducativo e formativo ed a sostegno dell’integrazione nella scuola.

Gruppo di lavoro Handicap provinciale (Gruppo H) Tali gruppi non hanno un carattere interistituzionale-rappresentativo,

come previsto per i G.L.I.P, ma una connotazione tecnico-professionale isti-tuzionale. Essi, infatti, sono costituiti da operatori attivi nell’ambito del si-stema educativo e svolgono una funzione consultiva nei confronti dell’Uffi-cio Scolastico. Ai Gruppi H spettano competenze di carattere istituzionale:

❖ l’esame dei documenti diagnostici❖ l’analisi dei materiali di programmazione educativa didattica riferiti

ai singoli alunni in situazione di handicap❖ attività di ricerca❖ promozione di attività inerenti all’integrazione degli alunni in condi-

zione di handicap

Gruppo di lavoro Interistituzionale Provinciale (G.L.I.P.)Voluto come strumento per l’integrazione dei servizi e delle attività in

ambito scolastico, il gruppo di lavoro prevede la presenza rappresentativa di144

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diverse organizzazioni istituzionali impegnate a vario titolo nel settore. IlG.L.I.P. è composto da:

❖ un ispettore tecnico nominato dal Direttore Regionale❖ un esperto della scuola❖ due esperti designati dagli Enti Locali❖ due esperti designati dalle Aziende Sanitarie Locali❖ tre esperti designati dalle associazioni di persone disabili

In ogni Provincia è prevista la presenza di un G.L.I.P. che dura in caricatre anni, i cui compiti sono:

❖ consulenze e proposte al Provveditore agli Studi❖ consulenze alle singole scuole❖ collaborazione con gli Enti locali e le Aziende Sanitarie Locali per

• produzione di materiali finalizzati alla stipula, alla realizzazione,al monitoraggio e alla verifica degli accordi

• attività di ricerca e analisi• rilevazione di dati, comparazione fra contesti territoriali differenti• individuazione dei piani educativi individualizzati• altre attività inerenti all’integrazione degli alunni in difficoltà di

apprendimento

Unità territoriale Necessità educative specialiÈ una iniziativa della Direzione Regionale di Torino per favorire un buon

risultato formativo degli studenti in situazioni particolari: disabili, ospeda-lizzati con lunghe degenze, con difficoltà di apprendimento e di relazione.

Il gruppo favorisce la qualificazione dell’offerta formativa riferita ai biso-gni educativi speciali nell’ottica della piena integrazione scolastica; collaboracon la scuola nella stesura dei piani dell’autonomia per trovare le soluzioniformative adatte agli specifici problemi. L’attività si svolge su quattro livelli:

❖ informazione❖ documentazione❖ consulenza❖ promozione

L’Unità Territoriale «Necessità Educative Speciali» raccoglie e potenzia leesperienze di più soggetti presenti sul territorio:

❖ Gruppo H della Direzione Regionale❖ G.L.I.P. (Gruppo Interistituzionale Provinciale)❖ Centro Idea❖ Progetto A.L.I.❖ I.T.C. Arduino❖ Centro di Documentazione per l’Orientamento❖ I.T.C. Marro❖ Progetto Sfida (a favore degli studenti ospedalizzati).

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Insegnanti di classe e di sostegnoIn tutti gli ordini di scuola è garantita la presenza di insegnanti di soste-

gno, ma tutti i docenti devono farsi carico della programmazione e dell’at-tuazione degli interventi didattico educativi previsti dal P.E.I.

I docenti nominati per le attività di sostegno fanno parte del Consiglio diclasse, e pertanto partecipano a pieno titolo alle operazioni di valutazioneperiodiche e finali di tutti gli allievi ed agli esami di licenza di scuola mediae di qualifica professionale.

Assistenti per l’autonomia e la comunicazioneNel caso in cui la situazione dell’alunno lo richieda, oltre agli insegnanti

di classe e di sostegno, sono previste altre figure professionali per affrontarei problemi di autonomia personale e/o di comunicazione, come stabilitodalla Legge 104/92, art. 13 comma 3.

Scheda C – Le risorse della scuola per l’handicap

Allievi con handicap nella scuola piemontese

Le tabelle 5.2, 5.3a, 5.3.b ricavate da Statistiche della scuola materna edelementare (Istat 2000) indicano la presenza di bambini portatori di handi-

Profilo Dinamico Funzionale (P.D.F.):Dopo un primo periodo di frequenza scolastica, i genitori, il referente del caso(in genere il medico che segue il bambino), il consiglio di classe e gli operatori(gruppo tecnico) sulla base della conoscenza dell’alunno, e del contenuto delladiagnosi funzionale, concordano gli obiettivi didattici (di apprendimento, di au-tonomia, di socializzazione, ecc.) e le proposte di attività che saranno program-mate nel corso dell’intero ciclo scolastico. Successivamente il gruppo tecnico ve-rifica gli obiettivi che ha concordato e, se necessario, provvede a modificarli.«Il profilo dinamico funzionale è aggiornato a conclusione della scuola mater-na, della scuola elementare, della scuola media e durante il corso di istruzionesecondaria» (Legge 104/92, art. 12)

Piano Educativo Individualizzato (P.E.I.):Il gruppo tecnico che ha concordato il P.D.F. – tenendo conto delle indicazionicontenute nella Diagnosi Funzionale e nel Profilo Dinamico Funzionale – pro-pone interventi integrati tra di loro. Queste proposte devono essere finalizzateal superamento della disabilità, delle difficoltà che da questa derivano e mira-re allo sviluppo delle potenzialità esistenti.Il gruppo che redige il P.E.I. verifica anche il raggiungimento degli obiettivi pre-visti; tale verifica avviene più volte nel corso dell’anno. Gli studenti maggio-renni che non sono né interdetti né inabilitati partecipano direttamente alladefinizione del profilo dinamico funzionale e del piano educativo individua-lizzato e li firmano. I P.E.I. vengono redatti anche dagli educatori impegnati neiServizi socio educativi, quali i Centri Socio Terapeutici e i Centri di AttivitàDiurna. Come in quello scolastico, nel P.E.I. socio educativo si stabilisconoobiettivi e, quindi, attività finalizzate al raggiungimento di questi. I risultati so-no soggetti a verifiche periodiche.

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cap nelle scuole materne piemontesi, con informazioni sul tipo di handicape sulla presenza di insegnanti di sostegno.

Tabella 5.2 – Bambini portatori di handicap scuole materne in totale – area piemontese suddivisione per provinciavalori assoluti e in percentuale – a.s. 96-7

Tabella 5.3a – Bambini portatori di handicap per tipologia di handicap e insegnantidi sostegno di ruolo scuola materna statale – area piemontese suddivisione per provinciavalori assoluti e in percentuale – a.s. 96-7

147

ProvinceBambini portatori di handicap

Totale %

Torino 606 1,2

Vercelli 37 1,0

Biella 47 1,2

Verbano Cusio Ossola 34 0,9

Novara 67 0,8

Cuneo 127 0,9

Asti 43 1,1

Alessandria 76 0,9

Piemonte 1037 1,1

Bambini portatori handicap Insegnanti Province

Psico fisico Uditivo VisivoTotale % di sostegno

di ruolo

Torino 90,0 7,0 3,0 271 1,0 92

Vercelli 100,0 - - 33 1,2 8

Biella 75,0 22,7 2,3 44 1,5 3

Verbano Cusio Ossola 100,0 - - 33 1,6 3

Novara 100,0 - - 47 1,2 8

Cuneo 91,2 8,8 - 113 1,3 22

Asti 95,2 2,4 2,4 42 1,8 7

Alessandria 98,6 1,4 - 70 1,2 18

Piemonte 92,2 6,3 1,5 653 1,2 161

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Tabella 5.3 b – Bambini portatori di handicap per tipologia di handicap scuola materna non statale – area piemontese suddivisione per provin-cia – valori assoluti e in percentuale – a.s. 96-7

Le tabelle 5.4a, 5.4b, 5.5, 5.5a ricavate da Statistiche della scuola mediainferiore (Istat, 1999) riportano i dati sugli alunni con handicap e gli inse-gnanti di sostegno nella scuola dell’obbligo elementare e media.

Tabella 5.4 a – Alunni portatori di handicap per tipologia di handicap e insegnanti di sostegno di ruoloscuola elementare statale – area piemontese suddivisione per provinciavalori assoluti e in percentuale – a.s. 96-7

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Bambini portatori handicapProvince

Psico fisico Uditivo VisivoTotale %

Torino 77,0 13,1 9,9 335 1,4

Vercelli 100,0 - - 4 0,4

Biella 66,7 - 33,3 3 0,2

Verbano Cusio Ossola 100,0 - - 1 0,1

Novara 85,0 10,0 5,0 20 0,5

Cuneo 85,7 - 14,3 14 0,3

Asti - - 100,0 1 0,1

Alessandria 100,0 - - 6 0,2

Piemonte 78,1 12,0 9,9 384 1,0

Bambini portatori handicap Insegnanti Province

Psico fisico Uditivo VisivoTotale % di sostegno

di ruolo

Torino 93,1 4,6 2,3 1422 1,7 349

Vercelli 98,8 0,6 0,6 155 2,4 33

Biella 96,6 3,4 - 116 1,8 13

Verbano Cusio Ossola 100,0 - - 89 1,6 18

Novara 100,0 - - 285 2,2 58

Cuneo 97,3 1,9 0,8 360 1,5 63

Asti 97,4 2,6 - 192 2,6 34

Alessandria 93,0 3,9 3,1 382 2,8 71

Piemonte 95,1 3,3 1,6 3001 1,9 639

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Tabella 5.4 b – Alunni portatori di handicap per tipologia handicap scuola elementare non statale – area piemontese suddivisione per provincia – valori assoluti e in percentuale – a.s.96-7

Tabella 5. 5 – Alunni portatori di handicap per tipologia di handicap scuole medie in totale – area piemontese suddivisione per provinciavalori assoluti e in percentuale – a.s. 96-7

Bambini portatori handicapProvince

Psico fisico Uditivo VisivoTotale %

Torino 57,9 42,1 - 19 0,3

Vercelli - - - - -

Biella 100,0 - - 1 0,3

Verbano Cusio Ossola - - - - -

Novara 100,0 1 0,1

Cuneo 75,0 25,0 - 4 0,9

Asti - - - - -

Alessandria 100,0 1 0,1

Piemonte 65,4 34,6 - 26 0,2

Alunni portatori handicapProvince

Psico fisico Uditivo VisivoTotale %

Torino 94,1 4,0 1,9 1158 2,0

Vercelli 95,2 1,6 3,2 124 2,7

Biella 97,6 1,6 0,8 127 2,7

Verbano Cusio Ossola 100,0 - - 111 2,7

Novara 100,0 - - 274 3,0

Cuneo 92,9 6,1 1,0 312 2,0

Asti 96,4 1,6 2,1 192 3,8

Alessandria 96,3 2,0 1,7 348 3,7

Piemonte 95,5 3,0 1,5 2646 2,4

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Tabella 5.5 a – Docenti di ruolo di sostegno agli alunni portatori di handicap per tipologia di handicap scuola media statale – area piemontese suddivisione per provinciavalori assoluti – a.s. 96-7

Un quadro della situazione aggiornata all’ anno scolastico 2000 – 2001 èfornito dalla tabella 5.6.

Tabella 5.6 – Alunni portatori di handicap iscritti alla scuola statale, distribuiti per ti-po di scuola, tipo di handicap e per province piemontesi a.s. – 2000/2001

Docenti di sostegno di ruoloProvince

Psico fisico Uditivo VisivoTotale

Torino 261 16 6 283

Vercelli 40 1 2 43

Biella 32 1 - 33

Verbano Cusio Ossola 21 - - 21

Novara 84 - - 84

Cuneo 123 8 3 134

Asti 59 - - 59

Alessandria 107 4 4 115

Piemonte 727 30 15 772

(Fonte: Sistema Informativo del Ministero della Pubblica Istruzione, dati Organico di fatto, situazione al 28/02/01).DH: minorati dell’udito; CH: minorati della vista; EH: minorati psicofisici.

ProvinceScuola Infanzia Scuola Elementare

DH CH EH totale DH CH EH totale

Alessandria 1 1 73 75 6 82 356 444

Asti 0 0 52 52 5 1 222 228

Biella 6 0 38 44 15 1 116 132

Cuneo 4 3 123 131 19 10 406 435

Novara 32 0 29 61 0 0 356 356

Torino 12 2 224 238 61 23 1494 1578

Verb.Cusio-Ossola 3 0 20 23 5 1 113 119

Vercelli 0 0 28 28 0 2 141 143

Piemonte 58 6 588 652 111 120 3204 3435

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5.4 I servizi socio assistenziali locali

Le competenze e i servizi

Gli Enti Locali promuovono iniziative a favore delle persone disabili tra-mite diversi Assessorati, a seconda della materia oggetto dell’intervento:Assistenza, Istruzione, Lavoro, Edilizia Pubblica e privata, Viabilità e così via.Certamente i primi due settori sono quelli maggiormente coinvolti e attivinelle problematiche riferibili ai bambini disabili. Alcuni campi sono diesclusiva competenza socio assistenziale, altri sono promossi dall’istruzio-ne, alcuni, infine, prevedono l’impegno distinto dei due settori con finalitàanaloghe: l’ambito delle competenze varia a partire dalle scelte promosseda ogni singolo Comune e/o Consorzio.

Vista la complessità e la diversificazione degli interventi, questi sono sta-ti raggruppati per aree, seguendo le modalità di individuazione e di classifi-cazione fornite in ambito ministeriale, integrate da alcune voci ulteriori.

Servizi alla famiglia e all’individuoGli enti gestori della funzione socio assistenziale realizzano numerosi

interventi a favore delle persone e delle famiglie in difficoltà. Questi sonoattuati tramite i Servizi socio assistenziali, ai quali è necessario rivolgersiper ottenere tali interventi e che, previa valutazione, li accordano. Di segui-to sono riportati i principali sostegni di natura economica e/o di aiuto allapersona:

❖ affidamento familiare❖ assistenza domiciliare❖ assistenza e contributi economici 151

(Fonte: Sistema Informativo del Ministero della Pubblica Istruzione, dati Organico di fatto, situazione al 28/02/01).DH: minorati dell’udito; CH: minorati della vista; EH: minorati psicofisici.

ProvinceScuola Media di I grado Scuola Secondaria di II grado

DH CH EH totale DH CH EH totale

Alessandria 5 8 391 404 0 0 152 152

Asti 3 0 173 176 3 0 86 89

Biella 0 1 94 95 4 1 51 56

Cuneo 8 94 222 324 11 5 154 170

Novara 0 1 303 304 0 0 120 120

Torino 42 20 1095 1157 60 24 646 730

Verb.Cusio-Ossola 4 1 82 87 4 0 54 58

Vercelli 1 1 144 146 4 3 44 51

Piemonte 63 126 2504 2693 86 33 1303 1422

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❖ contributi per l’abbattimento delle barriere architettoniche (in edifi-ci privati)

❖ educativa territoriale handicap❖ integrazioni rette❖ permessi di parcheggio e transito per persone disabili

Assistenza scolasticaL’assistenza scolastica non è di stretta competenza socio assistenziale,

quindi non tutti i soggetti gestori sono impegnati in tale attività. È il serviziodi trasporto per gli alunni delle scuole dell’obbligo, rivolto anche ai bambi-ni con disabilità, a rappresentare l’impegno più consistente in questo cam-po. È di competenza degli Enti Locali in base alla Legge Regionale 49/85, ri-guardante le modalità per l’esercizio delle funzioni di assistenza scolasticaattribuite ai Comuni, che provvedono al trasporto degli alunni dalle zonedecentrate alle scuole. Per l’erogazione piò essere richiesta una partecipa-zione alla spesa come previsto dalla stessa Legge, ma per gli alunni disabiliil servizio è gratuito.

In alcuni casi gli enti pubblici ampliano il proprio impegno anche nel-l’ambito scolastico, tramite l’assegnazione di personale specializzato per ilsupporto e il sostegno degli allievi in condizione di handicap. Le attività ex-trascolastiche raramente sono settore di intervento diretto per la pubblicaamministrazione.

Accoglienza diurnaÈ questo uno dei campi in cui l’offerta dei servizi si concentra. Le tipolo-

gie sono diverse, e variano a seconda della tipologia degli utenti accolti, del-le loro abilità e dei loro livelli di autonomia, ovvero delle finalità perseguitedai servizi stessi. Prevalentemente essi sono rivolti a persone con disabilitàpsicofisica, con età superiore a 14 anni e si distinguono in:

❖ Centri diurni❖ Centri occupazionali❖ Centri ricreativi❖ Centri socio-educativi riabilitativi. Questi ultimi sono rivolti, soprat-

tutto, alle persone con insufficienza mentale medio grave, quindi conun grado di autonomia relativamente basso.

Accoglienza residenzialeI servizi residenziali sono uno degli elementi principali delle iniziative ri-

volte alle persone con disabilità. Anche in questo caso si stanno affermandodiverse tipologie di risposte residenziali, a seconda della tipologia degliutenti e dei loro bisogni. Il modello della comunità alloggio attualmente èquello più invalso, anche se le richieste non trovano sempre soddisfazionenell’offerta. Per i minori disabili è un servizio residenziale utilizzato per le si-tuazioni di maggior emergenza e difficoltà, quando il nucleo familiare nonriesce più a sostenere la situazione (handicap psicofisico grave e gravissimo,famiglie in grandi difficoltà e/o pressoché inesistenti). Per ciò che concernei minori disabili si preferiscono aiuti diretti al nucleo e/o alla persona e co-me soluzione temporanea, l’affidamento familiare diurno o residenziale.

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Integrazione socialeDa questo punto di vista sono stati fatti pochi progressi per migliorare il

panorama delle offerte. Queste ancor oggi sono scarse; solo nelle localitàpiù importanti o dove sono maggiormente attive realtà del non profit, so-prattutto associazioni di volontariato, vi è qualche iniziativa volta ad inte-grare i minori disabili anche nelle attività sportive e del tempo libero.

Per quanto concerne i soggiorni e le vacanze, nei migliori dei casi sonorealizzati dalle strutture di accoglienza (comunità alloggio e centri diurni),ma sono in prevalenza le associazioni di volontariato ad organizzare i sog-giorni estivi per bambini disabili.

Le prestazioni socioassistenziali del Comune di Torino

Gli impegni del Comune di Torino nel campo socio assistenziale sono ri-levanti, e annoverano un numero di iniziative, a favore delle persone disabi-li e delle loro famiglie, piuttosto vasto e diversificato. Tali azioni sono pro-mosse innanzitutto dagli Assessorati ai Servizi Sociali e al SistemaEducativo, e sono garantite da un numero consistente di figure professiona-li differenti. Torino, grazie ad alcune scelte decisive realizzate in passato, hagarantito da anni ai propri cittadini svantaggiati servizi di pregio, quali il tra-sporto per disabili mediante buoni taxi, le comunità alloggio per disabili in-tellettivi e per disabili motori adulti, i Centri Educativi Municipali e così via.

Per chiarezza espositiva, si è preferito suddividere gli interventi a favoredei bambini disabili e delle loro famiglie, distinguendo quelli predisposti inambito socio assistenziale da quelli in ambito educativo.

Affidamento familiareÈ un servizio di volontariato sociale, svolto da singoli o da nuclei fami-

liari, disciplinato dalla legge n. 184 del 1983, ed ha l’obiettivo di offrire tem-poraneamente ai minori (anche disabili) che vivono in nuclei con gravi dif-ficoltà, un ambiente affettivo e sociale idoneo alla loro crescita. L’affida-mento può essere residenziale o diurno, quest’ultimo in accordo con i geni-tori che si occupano del figlio la sera e i fine settimana. È disposto dal servi-zio sociale, con il consenso della famiglia d’origine (definito «affido consen-suale»), o in base ad un provvedimento del Tribunale per i minorenni.

Può essere effettuato sia da parenti sia da terzi; a questi ultimi è offertala possibilità di partecipare ad incontri formativi, cui seguono, se permanela disponibilità, alcuni colloqui di approfondimento, utili ad individuare l’i-doneità rispetto le diverse condizioni e caratteristiche di affidamento.

Le persone che si impegnano per un affidamento ricevono, oltre alla co-pertura assicurativa, un rimborso spese mensili commisurato alle condizio-ni dell’affidato.

Assistenza domiciliareQuesto servizio ha lo scopo di facilitare alle persone disabili la perma-

nenza nel proprio nucleo familiare ed evitare il loro ricovero in strutture re-sidenziali. È fornito dal Servizio socio assistenziale competente per territo-rio, in base ad una valutazione sulla necessità di intervento ed è soggetto a 153

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lista d’attesa, con priorità per le persone sole e a basso reddito.In collaborazione con il servizio sanitario, sono previsti interventi di tipo

integrato, quali, ad esempio, la cura della persona, la conduzione della casa,la gestione di attività extra domestiche (visite mediche, accompagnamentoa scuola dei bambini ecc.) e così via.

Contributo economico «Custodia»È un contributo economico riconosciuto alle persone disabili adulte e

minori (con necessità di assistenza e di cura e con un reddito insufficiente),per consentire loro di essere accudite da familiari, parenti, vicini e volonta-ri. Gli importi sono riconosciuti in base alle condizioni della persona e l’as-sistito ha l’obbligo dell’assunzione del «lavoratore domestico», a cui vannocorrisposti, oltre alla retribuzione oraria, i contributi INPS. Retribuzione eoneri seguono un tariffario stabilito dagli uffici competenti e variano a se-conda della condizione in cui si trova il lavoratore domestico (coniuge, pa-rente affine, convivente, ecc.). Il rapporto di lavoro segue regole precise; iminori non possono essere datori di lavoro, il rapporto quindi può instau-rarsi con i genitori.

Educativa territorialeÈ una iniziativa rivolta a persone disabili adulte e minori, con proble-

matiche di inserimento sociale, che, per tali motivi, possono aver necessitàdi un sostegno educativo. La finalità è di favorire le condizioni per migliora-re i rapporti tra persona e ambiente (famiglia, scuola, tempo libero ecc.),agendo sui fattori di rischio e di disagio a cui il minore può essere soggetto.Poiché l’intervento è orientato all’inserimento sociale, esso non viene rea-lizzato all’interno delle strutture socio assistenziali, ma in collaborazionecon la scuola e la famiglia, e si concretizza nei luoghi frequentati quotidia-namente dalla persona.

Attualmente si sta sviluppando un tipo di intervento che intende supe-rare l’ottica della presa in carico del singolo caso, privilegiando il lavoro coni gruppi formali (a scuola, all’oratorio, ecc.) e informali («di panchina», «distrada», ecc.), attingendo alle risorse che l’ambiente può esprimere. Può es-sere una forma efficace ed alternativa ad altre soluzioni di allontanamentodal nucleo familiare, in quanto le caratteristiche di tale attività sono la gra-dualità e il sostegno. La prestazione viene fornita in base ad una valutazio-ne da parte del Servizio socio assistenziale dopo la segnalazione dei servizisociali, della scuola frequentata dal minore, del Tribunale, o del singolo edu-catore.

Mobilità - TrasportiLa Città è da tempo impegnata nell’offerta di servizi, capaci di risponde-

re ai bisogni di mobilità delle persone disabili e delle loro famiglie. Alcuni sono analoghi a quelli presenti su tutto il territorio nazionale, al-

tri riguardano la realtà torinese:

❖ Permesso di libera circolazione e sosta in aree pubbliche. Tale permes-so consente alle persone disabili (motorie e/o non vedenti) di transi-tare in zone altrimenti vietate (ad esempio Zone a Traffico Limitato,154

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vie riservate ai mezzi pubblici, ecc.) e di sostare nelle aree di par-cheggio pubbliche. Per il rilascio del permesso, è necessario rivolger-si al competente ufficio comunale e, successivamente, sostenere unavisita medico-legale per l’accertamento delle condizioni di necessità.

❖ Servizio di accompagnamento Pronto Passepartout. Le persone condifficoltà di deambulazione, che hanno necessità di recarsi pressoservizi e uffici comunali parzialmente accessibili o inaccessibili, pos-sono rivolgersi a questo servizio. Esso può essere prenotato tramitetelefono, con un preavviso di due giorni. La persona disabile dal pro-prio domicilio viene accompagnata gratuitamente, tramite mezzo at-trezzato, presso l’ufficio interessato e viceversa. Gli accompagnatori,tramite ausili e punti di chiamata, aiutano la persona per l’espleta-mento delle pratiche amministrative.

❖ Servizio trasporto disabili. È riservato ai soggetti di età superiore ai 2anni, residenti in Torino, con disabilità motoria tale da impedire lorol’accesso ai mezzi pubblici di trasporto e ai non vedenti. Dietro richie-sta dell’interessato, una commissione medica e una tecnica valutanola presenza dei requisiti necessari e, qualora riconosciuti, valutate leesigenze dei soggetti, è accordato il servizio e il relativo numero men-sile di buoni trasporto. I buoni taxi costano l’equivalente del bigliettosui mezzi di trasporto pubblici e conseguentemente possono subireanaloghe modifiche nel prezzo. L’utente può essere accompagnato,senza ulteriori spese, da una o due persone se utilizza il taxi, da una seutilizza il minibus attrezzato. Per tutti gli utenti il servizio è esteso finoai primi due chilometri oltre al confine cittadino, mentre, esclusiva-mente per chi utilizza il servizio mediante taxi, è possibile recarsi neicomuni confinanti per motivi di lavoro, per corsi di formazione pro-fessionale o pre-lavorativi e per cure riabilitative. L’utilizzo dei mini-bus attrezzati è riservato alle persone con carrozzella a motore.

Servizi informativiSono ormai attivi diversi spazi informativi dedicati all’ambito dell’han-

dicap e rivolti alle persone disabili, alle loro famiglie, agli operatori, alle or-ganizzazioni impegnate nel settore. Oltre allo sportello cittadino InformaHandicap, aperto al pubblico dal 2000, e alle pagine web curate dal 1996 dal-la redazione del servizio per disabili motori Passepartout, sono in funzionealtri punti informativi territoriali. Scopo principale è quello di fornire infor-mazioni e consulenza sugli argomenti attinenti l’ambito della disabilità fisi-ca e psichica: servizi, mobilità e trasporti, tempo libero, formazione e lavo-ro, ausili e così via. Attualmente sono presenti nelle Circoscrizioni 3, 4, 5, 6e 10, ed è ragionevole ipotizzare che presto saranno aperti altri sportelli nel-le altre Circoscrizioni cittadine.

Comunità alloggioSeppur prevista come tipologia, per i bambini disabili tale offerta resi-

denziale non è stata attualmente attivata in ambito cittadino. Sono privile-giati, infatti, interventi non istituzionalizzanti, quali i sostegni domiciliari ol’affidamento familiare.

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Le comunità alloggio sono strutture residenziali, in cui abitano da unminimo di sei ad un massimo di dieci persone. I modelli organizzativi sonotra loro diversi, perché rispondono alle diverse autonomie delle personeospitate e ai relativi bisogni educativo-assistenziali. Esse tendono ad averele caratteristiche di un normale appartamento, e cercano, per quanto possi-bile, di ricreare una condizione ambientale affine a quella familiare.L’inserimento, soggetto a lista d’attesa, può essere definitivo o temporaneoa seconda delle necessità e caratteristiche dei soggetti, ed è effettuato sullabase di una valutazione del Servizio socio educativo o assistenziale compe-tente. La gestione di tali strutture può essere di diretta competenza dell’En-te, o affidata in gestione ad organizzazioni convenzionate, prevalentementecooperative sociali.

Comunità familiariSono realizzate da nuclei familiari in condizione di ospitare non più di

quattro minori e si possono considerare come delle «famiglie affidatarie al-largate». Quando la famiglia si rende disponibile ed esistono le condizioniambientali, nelle comunità familiari sono inseriti anche bambini disabili.Alle famiglie viene corrisposto un contributo, che diventa superiore nel ca-so di bambini disabili, e varia a seconda della gravità dell’handicap.

Interventi socioeducativi del Comune di Torino

Centri per disabili sensorialiSono servizi «storici» del Comune di Torino. Uno è rivolto alle persone

non vedenti (Centro non vedenti), l’altro alle persone audiolese (CentroAudiolesi). Entrambi offrono consulenza e formazione alle insegnanti e allefamiglie. Organizzano corsi di lingua braille e di lingua dei segni, svolgonoservizio all’interno degli ospedali che si occupano delle disabilità sensoriali(Ospedale Oftalmico). Si occupano, infine, della gestione dei casi nelle scuo-le municipali.

Centri Educativi Specializzati Municipali (C.E.S.M.)È un servizio rivolto a bambini e ragazzi portatori di handicap in età di

obbligo scolastico. Il bambino o il ragazzo deve essere iscritto alla scuola del-l’obbligo e questa, in accordo con il C.E.S.M., stabilisce un programma mira-to secondo le necessità del singolo caso. Per il bambino con handicap vienepredisposto un progetto specifico, ove si stabiliscono eventuali ambiti di svi-luppo educativo. Tale progetto è concordato con tutti quei soggetti che ap-partengono al panorama relazionale ed educativo del bambino: famiglia, cu-rante (se esiste), referenti dell’area handicap del Provveditorato agli Studi, re-sponsabile del C.E.S.M. Sono privilegiati gli interventi individuali specifici oin piccoli gruppi, e in essi si prevedono i tempi e i metodi di frequenza rela-tivi sia al C.E.S.M. sia alla scuola dell’obbligo di appartenenza.

Per usufruire del servizio è indispensabile una documentazione medicaaggiornata che, insieme alla richiesta di ammissione, sono valutate dallacommissione handicap del Provveditorato agli Studi; quindi l’accesso del-l’utenza non è libero, ma integrato con le scuole. Attualmente sono attivi,

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mattino e pomeriggio, 4 Centri Educativi Specializzati Municipali, ognunosegue circa 25 progetti speciali, che vedono impegnate più di 60 insegnantispecializzate.

Consulenza Educativa Domiciliare (C.E.D.)È un servizio che si rivolge alle famiglie con bambini portatori di handi-

cap da 0 a 6 anni (in alcuni casi, è attivato già durante il periodo di gestazio-ne), che non hanno la possibilità di frequentare altre strutture educative ter-ritoriali.

I casi possono essere segnalati direttamente dalle famiglie interessate,oppure dai servizi territoriali assistenziali e sanitari.

Le insegnanti specializzate, con la presenza della responsabile del servi-zio, dietro richiesta della famiglia intervengono a domicilio, per orientare igenitori verso i servizi pubblici (comunali e sanitari) ritenuti più adeguati.Insieme ai genitori possono, inoltre, programmare attività formative finaliz-zate a favorire lo sviluppo del bambino; individuare giochi, sussidi, attrezzisanitari necessari all’orientamento educativo; seguire la famiglia per l’e-spletamento di pratiche burocratiche necessarie per l’ottenimento di pre-stazioni quali il servizio di trasporto.

La gestione del servizio è fruibile esclusivamente dai cittadini residentinella città.

Gruppo giochi ospedaliÈ un progetto attivo in alcuni ospedali della città, come, ad esempio, il

Regina Margherita e il Martini. Negli ospedali coinvolti dal progetto sono at-tivi, oltre agli operatori sanitari e al personale specializzato, anche alcuneinsegnanti di sostegno comunali, che svolgono attività di intrattenimentocon i bambini ospedalizzati.

LaboratoriNel corso degli anni, a partire dalle attività svolte all’interno delle scuole

municipali e dei servizi, si sono strutturati diversi laboratori impegnati in at-tività di varia natura: informatica, musica, pittura, ceramica, ecologia e cosìvia. Il numero dei laboratori e le tipologie delle attività da questi svolte sonoda censire (il numero stimato era oltre 50, in una ricerca del 1998/99).Ognuno di essi attiva progetti che vedono come parte attiva e integrante lescuole. Le scolaresche si recano presso i laboratori per svolgere le attivitàpreviste nell’ambito educativo e scolastico. Alcuni dei laboratori municipa-li accettano libera utenza.

Pool di specialisteIl progetto Integrazione e Sviluppo del settore Servizi educativi scolasti-

ci ha promosso la costituzione di un gruppo di specialiste, esperienza nelsuo genere unica in Italia. Si tratta di insegnanti molto specializzate, capacidi fornire consulenze e di fornire loro stesse servizi riferiti alle rispettivecompetenze. Il pool è composto da esperte di psicomotricità e competentisugli aspetti della relazione e della comunicazione. Le esperte lavorano al-l’interno del circolo didattico, e quindi intervengono all’interno delle strut-ture (asili nido e materne), non dei nuclei familiari. Seguono prevalente- 157

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mente i casi non certificati, da 0 a 6 anni, e lavorano a stretto contatto conle insegnanti che non sono in grado di effettuare gli interventi specialisticisopra evidenziati.

Scuole e nidi per l’infanzia La Città di Torino ha previsto, sia per gli asili sia per le materne, la pre-

senza di proprie insegnanti di sostegno. La famiglia che desidera iscrivere inun nido o in una scuola per l’infanzia municipale il proprio figlio, portatoredi disabilità di vario tipo e grado, può segnalarlo direttamente alla respon-sabile del Circolo didattico. Una commissione apposita valuta le richieste, e,in base al progetto Integrazione e Sviluppo del settore Servizi educativi sco-lastici, esamina i criteri per l’ingresso e per l’assegnazione dell’insegnante disostegno. Le insegnanti non sono affidate alle scuole, bensì seguono i casi;quindi, fatto salvo il bisogno di mantenere la continuità educativa e i riferi-menti all’interno della scuola, sono mobili sul territorio comunale. Da par-te della famiglia non vi sono somme da corrispondere per la presenza del-l’insegnante di sostegno; il costo è dato dalla quota mensile variabile a se-conda del reddito familiare, così come prevista per tutte le famiglie che frui-scono del servizio.

Insegnanti di sostegno comunali per scuole statali dell’obbligoÈ un servizio che si rivolge ai bambini e ai ragazzi disabili frequentanti le

scuole statali dell’obbligo e prevede, dietro presentazione di richiesta, lapresenza delle insegnanti di sostegno comunali, utili per favorire l’inseri-mento sociale ed educativo. La famiglia deve inoltrare la richiesta diretta-mente al direttore della scuola frequentata. È il direttore, a sua volta, a doverinformare il Provveditorato della necessità di affiancare alla persona disabi-le una insegnante di sostegno comunale. Attualmente nelle scuole cittadinesono impegnate circa 200 insegnanti di sostegno comunali, realtà pressochéunica a livello nazionale, poiché tale funzione deve essere assolta dallo Statoattraverso i propri Uffici Scolastici territoriali. L’insegnante di sostegno af-fianca la persona, seguendo un progetto concordato tra i referenti dell’areahandicap dell’ufficio Scolastico e del Settore Servizi educativi del Comunedi Torino.

Servizi estiviSi rivolgono a tutti i bambini in età compresa tra 6 e 14 anni, quindi an-

che ai bambini disabili. I servizi estivi possono essere organizzati in città,grazie all’apertura di alcune scuole municipali che vengono utilizzate perattività diurne extra scolastiche; di Estate Ragazzi, le cui iniziative sono ri-servate ai bambini da 6 a 10 anni. È prevista la presenza di bambini disabi-li, per i quali sono contemplati insegnanti di sostegno o animatori in so-vrannumero, per garantire le attività di socializzazione e di integrazione.Parallelamente sono organizzati, in diversi luoghi di villeggiatura, i tradizio-nali soggiorni estivi, per i bambini da 6 a 14 anni. In tali soggiorni possonoessere inseriti bambini con handicap, previo colloquio con la famiglia, percapire le necessità e quindi per offrire un affiancamento adeguato.

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Servizi informativi per le famiglieSono servizi informativi rivolti alle famiglie in generale, non esclusiva-

mente a quelle con bambini e/o ragazzi disabili. Aperti dal 2000 con orariprecisi, i servizi sono diversi, variamente distribuiti e assolvono a funzioniinformative diversificate:

❖ Sportelli informativi per le famiglie. Sono sportelli informativi rivoltigenericamente a tutte le famiglie con figli da 0 a 6 anni, decentrati al-l’interno delle scuole municipali. Per gli addetti è prevista una for-mazione. Oltre a fornire informazioni e consulenza, gli sportelli pos-sono organizzare incontri di sensibilizzazione e di informazione sutemi specifici, connessi ai temi educativi e rivolti alle famiglie, aglioperatori e al territorio.

❖ Punto Famiglia. Sono sportelli informativi rivolti a quelle famiglieche non hanno i propri bambini inseriti nelle scuole municipali, asi-li nido e scuole materne.

❖ Informa Handicap. Rivolto esclusivamente alle famiglie con problemidi handicap, lo sportello è stato attivato in collaborazione con laDivisione servizi socio assistenziali. Un giorno alla settimana, il mer-coledì, le referenti del Progetto Integrazione e Sviluppo offrono infor-mazioni e consulenze sulle materie di loro competenza.

La scheda D (nella pagina seguente) sintetizza l’offerta dei servizi, socio-assistenziali ed educativi, del Comune di Torino per i minori disabili.

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Scheda D – Servizi per l’infanzia presenti sul territorio cittadino epresenza dei minori disabili

Tipologia di prestazioni e fasce di età coinvolte (anno 98/99)

(*) Il numero degli utenti dei 4 servizi (Educativa assistenziale, C.A.D., C.S.T. e Centri dilavoro guidato) complessivamente ammonta a 1292.

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Prestazioni AssessoratiEtà

utenti1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18

Assistenza S. Socio economica Assistenziali 2066

Interventi ass. econ. Servizi numeroed esenzione tariffe Educativi non rilevato

Consulenza educat. Servizi 22 famiglie Domiciliare Educativi 23 bambini

Assistenza S. Socio 100 utentidomiciliare Assistenziali

Progetto ServiziIntegrazioneEducativi

268 utentie Sviluppo

Gruppi gioco Servizi numeroin ospedale Educativi non rilevato

Centri Educativi Servizi numeroMunicipali Educativi non rilevato

Educativa S. Socio 600 utentiterritoriale Assistenziali

Educativa S. Socio (*)assistenziale Assistenziali

Centri di Attività S. Socio Diurna (C.A.D.) Assistenziali (*)

Centri di lavoro S. Socio guidato Assistenziali (*)

Centri Socio S. Socio Terapeutici (C.S.T.) Assistenziali (*)

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Ulteriori prestazioni per tipologia e fasce di età (anno 00/01)

(**) Sono 1200 i minori seguiti attraverso l’affidamento (diurno o residenziale), circa25/30 sono minori disabili

(***) Le comunità familiari sono 10 e sono accolti 3 bambini disabili(****) Lo sportello cittadino Informa Handicap è stato aperto nell’ottobre del 2000, non

è ancora possibile stabilire con esattezza il numero delle persone che si sono ri-volte al servizio per ottenere informazioni. Da gennaio ad aprile 2001 su 210 do-mande pervenute (di persona o tramite telefono) circa 20 riguardano minori.

I progetti speciali nel Comune di Torino

I progetti in corso riguardano vari aspetti relativi all’apprendimento, al-l’educazione affettiva e all’inserimento sociale e pre lavorativo.

Didattica e informatica (DI.DA) Il gruppo di lavoro è composto da educatori provenienti da alcune

Circoscrizioni, che lavorano in stretto raccordo con agenzie e altre realtàformative. Il progetto si propone come elemento di stimolo, supporto e con-sulenza, per rendere «quotidiano» l’utilizzo del PC anche nella realtà dellepersone disabili. L’iniziativa, rivolta alle persone disabili (fisiche e intelletti-ve), alle loro famiglie, agli operatori e agli insegnanti, si propone di:

❖ raccogliere le esperienze maturate nel settore e promuovere il «lavo-ro di rete» con le diverse realtà impegnate nel campo educativo e for-mativo

❖ offrire informazione, consulenza e diretta sperimentazione sugli au-sili hardware utilizzabili

❖ proporre esempi di applicazione multimediali❖ allestire e aggiornare una banca dati sulla materia❖ offrire percorsi formativi e informativi ad educatori e insegnanti

Progetto Handicap e Sessualità - P.H.S.Le tematiche connesse alla sessualità e all’affettività delle persone por-

tatrici di handicap sono, da diversi anni, oggetto di specifica attenzione e

Prestazioni AssessoratiEtà

utenti1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18

Assistenza S. Socio economica Assistenziali 2066

Buoni trasporto S. Socio Assistenziali 181

Affidamento S. Socio (**)familiare Assistenziali

Comunità S. Socio (***)familiari Assistenziali

Sportello S. Socio (****)informativo Assistenziali

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sensibilità da parte degli operatori dei servizi socio educativi della Città diTorino e della Regione Piemonte.

Il progetto, promosso dalle Circoscrizioni 3 e 10, è costituito da unaéquipe di educatori professionali coordinata da uno psicologo e sessuologo,e si rivolge alle persone disabili, ai familiari, agli operatori e agli insegnanti.Gli obiettivi principali sono:

❖ offrire consulenze informative❖ promuovere ricerche, studi e «lavoro di rete» sulle problematiche

specifiche❖ favorire una nuova cultura dell’integrazione sociale delle persone di-

sabili

Lavorare insiemeL’iniziativa, rivolta ai ragazzi con disabilità intellettiva, cerca di promuo-

vere l’integrazione di questi soggetti all’interno del proprio contesto.Finanziato dalla Regione Piemonte, il progetto vede il coinvolgimento dellescuole dell’obbligo e dei centri diurni rivolti alle persone con insufficienzamentale (Centri Socio Terapeutici - C.S.T. e Centri di Attività Diurna - C.A.D).

Lavorare insieme prevede la possibilità per i ragazzi disabili (ultraquat-tordicenni) di svolgere attività lavorative all’interno delle scuole. Viene cosìsteso un progetto, ove si pianificano le attività da svolgersi (manutenzione,migliorie e abbellimento dell’edificio scolastico), i tempi necessari e l’ac-quisto del materiale necessario. Gli operatori del settore Integrazione eSviluppo svolgono funzione di interfaccia tra la scuola e il servizio (C.S.T. oC.A.D.). Tale esperienza serve per migliorare la conoscenza tra scuole e ser-vizi, e mostra alla famiglia che ha un figlio disabile inserito nella scuola del-l’obbligo quale futuro può prospettarsi per il proprio ragazzo.

Il bambino che scende dalla lunaIl progetto è rivolto ai bambini che soffrono di autismo. Vede la presen-

za di diversi soggetti: il Comune di Torino (Servizi Educativi e SocioAssistenziali), 5 A.S.L. (Torino e Mondovì), la Regione Piemonte, ed è con-dotto insieme all’associazione delle famiglie con bambini autistici.

Viste le ultime evoluzioni della diagnostica riferita alla materia, la fina-lità prevalente del progetto è la formazione rivolta alle famiglie, agli inse-gnanti, al personale impegnato in questo ambito. Altri obiettivi del progettoriguardano:

❖ l’ideazione di servizi capaci di rispondere efficacemente ai bisognipeculiari dell’autismo

❖ l’adattamento e la riformulazione dei servizi esistenti❖ lo sviluppo del lavoro di rete tra sanità, scuola, assistenza, famiglia.

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5.5 L’apporto del terzo settore

Un profilo complessivo

Nell’ambito dei minori disabili, la descrizione dell’apporto fornito dalterzo settore, vista la varietà e la vastità del fenomeno, meriterebbe una trat-tazione a sé stante. In questa sede si accennerà brevemente ad alcune si-tuazioni e ad alcuni aspetti riguardanti il contributo offerto dalle organizza-zioni, soprattutto rispetto a talune esperienze maturate nell’ambito asso-ciazionistico (escludendo il campo della cooperazione sociale, che lavora inconvenzione con l’Ente pubblico).

Per le associazioni di volontariato, è utile tentare di individuare alcunecategorie di analisi che possono guidare una lettura, seppur parziale, relati-va alle azioni prodotte, e ai rapporti che si instaurano con gli altri attori de-gli interventi socio assistenziali.

Dimensione territorialeUn primo livello di verifica quantitativa del fenomeno è alquanto par-

ziale, infatti sono molte le realtà di volontariato che, per vari motivi, nonsono iscritte all’albo regionale. Nel territorio piemontese la presenza delleorganizzazioni di volontariato è comunque significativa: nel 1999 le orga-nizzazioni iscritte al registro regionale ammontavano a 1.188, salite a oltre1300 nel 2001 (dati ISTAT). In una ricerca prodotta nel 1997 dallaFondazione Italiana per il Volontariato, su 603 realtà piemontesi censite,182 si concentravano nella provincia torinese (30,2 % sul totale). Semprenel censimento Fivol su 603 organizzazioni:107 rivolgevano il proprio im-pegno verso i disabili fisici (17,7%), 85 verso gli insufficienti mentali(14,1%), 108 operavano con i minori nella fascia 0-12 anni (17,9%) e 103nella fascia 13-17 (17,1%).

Delle oltre sessanta associazioni impegnate nel campo della disabilità,censite nella Guida Ragionata delle Associazioni di volontariato e dellecooperative sociali in Piemonte (il numero differisce dal censimento Fivol,in quanto nella pubblicazione piemontese si tenta di offrire un panoramasui servizi offerti più che un registro vero e proprio), la maggior parte ope-ra in ambito locale, cittadino e/o regionale, e circa un terzo a livello nazio-nale. Queste ultime rappresentano esperienze «storiche» dell’associazioni-smo le quali, nel corso del tempo, hanno svolto ruoli e attività di fonda-mentale importanza: ad esempio la Fondazione Don Gnocchi, l’AISM,l’Associazione Nazionale Famiglie di disabili intellettivi e relazionali(Anffas). Tali realtà sono diffuse e radicate nel territorio nazionale attraver-so una precisa ramificazione geografica e strutture organizzate. La UILDM,ad esempio, è articolata in comitati regionali, provinciali e sezioni cittadi-ne. L’analisi quantitativa della distribuzione geografica rivela un fenomenospecifico legato alle realtà urbane, quale è il territorio torinese. In tali con-testi, si assiste ad una moltiplicazione e ad una frammentazione associa-zionistica, ma soprattutto ad una tendenza alla informalità. «È evidenteche nei centri non urbani il dialogo e il rapporto con le istituzioni localisembra raggiungere una dimensione più accessibile, e congrua a sancire 163

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un certo grado di legittimità e visibilità sociale delle organizzazioni sul ter-ritorio. Ciò appare più difficoltoso quando ci si muove su grandi aree urba-ne: la lontananza (in senso fisico, ma ancora di più in senso «percettivo»)dalle amministrazioni locali, influisce sul carattere più spontaneo ed infor-male, e sull’azione più decentrata e isolata, che caratterizza in particolare igruppi metropolitani.» (S. Menna 1996)

A Torino, vi sono diverse associazioni che operano solo all’interno delproprio quartiere. Alcune circoscrizioni sono ricche di associazioni «di ter-ritorio», altre, al contrario, non ne hanno. Così nella Circoscrizione 2, com-prendente i quartieri di Santa Rita e Mirafiori Nord, sono presenti ben 5 or-ganizzazioni che operano territorialmente (Aladino, Arca di Noè, Disabili2000, La Scintilla e La Perla) ed è la Circoscrizione più feconda della città peri disabili. Nello stesso territorio, sono attivi 3 gruppi di auto aiuto, di cui duesono rivolti ai genitori di persone con handicap che utilizzano i servizi co-munali (centri diurni e comunità alloggio), mentre il terzo è frequentato dapersone con disabilità fisica/motoria.

Nelle aggregazioni associazionistiche di quartiere, il tipo di organizza-zione varia a seconda della natura e dei motivi che hanno originato la na-scita dell’associazione stessa: alcune hanno assetti fortemente formali estrutturati, altre sono caratterizzate da maggiore flessibilità.

Tipologia dell’utenza interessataQuasi tutte le realtà associazionistiche si rivolgono contemporaneamen-

te sia alle persone disabili sia alle loro famiglie. Più difficile è stabilire il con-fine «anagrafico» degli interventi, vale a dire se essi sono destinati ai minorio agli adulti disabili. È possibile riconoscere vocazioni specifiche esclusiva-mente nelle associazioni che operano nell’area sanitaria o in quella legataall’integrazione scolastica.

Nel primo caso, si tratta di organizzazioni attive all’interno degli ospe-dali infantili, quale il Regina Margherita di Torino, o dei reparti pediatrici,quale il SS. Annunziata di Savigliano, che operano a sostegno sia dei bambi-ni sia delle loro famiglie, per aiutare i soggetti ad affrontare la condizione diemergenza data dall’ospedalizzazione. La vocazione è sanitaria; i bambinipresi in carico sono per la maggior parte bambini malati ma, in alcune cir-costanze, anche bambini disabili ricoverati nelle strutture ospedaliere trag-gono beneficio dalle attività dei volontari. Il secondo caso è rappresentatoprevalentemente dalle varie associazioni rivolte alla Sindrome di Down, lequali operano con i bambini affetti da tale patologia e, conseguentemente,hanno tra le proprie finalità anche quella dell’integrazione scolastica.

La selezione riguarda non tanto l’aspetto «anagrafico», quanto lo speci-fico tipo di handicap su cui l’organizzazione interviene. In tal senso, vi sonodue macro categorie: le associazioni che operano a favore di una patologiaparticolare, e quelle che intervengono per limitare la condizione di disagioindipendentemente dalla tipologia dell’handicap. Le prime sono diffuse a li-vello nazionale e intervengono a sostegno di patologie, quali la distrofia, lepatologie della vista, dell’udito, della parola, la sclerosi, la Sindrome diDown, l’insufficienza mentale, la spasticità, ecc.

Le seconde perlopiù sono organizzazioni locali. L’area metropolitana to-rinese vede la presenza di molte associazioni con tale caratteristica: presen-164

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ti in diverse città quali Rivoli, Chieri, Alpignano, Orbassano, Nichelino, Bor-garo, esse assicurano territorialmente servizi e interventi, volti all’integra-zione sociale delle persone disabili.

Forme e caratteristiche delle azioni sostenuteIl settore associazionistico esprime varie tipologie di offerte, oltreché di-

verse forme, proposte e richieste di integrazione con il sistema dei servizipredisposti dalle istituzioni. Se si tratta di servizi costosi e complessi, quali iservizi destinati alle persone con gravi e gravissime forme di disabilità, cen-tri diurni e comunità alloggio innanzitutto, essi quasi sempre sono gestiti inconvenzione con gli enti pubblici. Tale modalità di amministrare servizi einteragire con il sistema si è velocemente trasformata negli ultimi anni;mentre queste forme di gestione sono state adottate da tempo dalle orga-nizzazioni legate alla cultura cattolica, le realtà di matrice laica le hanno ac-colte solo in tempi recenti.

Alcune realtà significative

Vi sono esperienze di terzo settore da tempo impegnate nel fornire ser-vizi, in proprio e in convenzione, che hanno ormai consolidato la propriaposizione all’interno del sistema di welfare. Altre operano con orientamen-ti rivendicativi e di tutela, o forniscono servizi su base associativa e di mu-tuo aiuto.

Il CottolengoNell’home page del sito Internet dell’Istituto Piccolo Cottolengo di Don

Orione di Tortona si può leggere: «Il Piccolo Cottolengo di Tortona svolge lapropria attività di assistenza e cura ai disabili fin dal giugno 1940, epoca incui accolse i primi portatori di gravi handicap provenienti da Genova. Da al-lora è sempre stato attento alle esigenze sempre più incalzanti dei disabili,esigenze imposte dai progressi della moderna medicina, fino a raggiungereun livello di alta specializzazione nell’assistenza e cura di questi soggettigravissimi. Oggi, l’Istituto, accoglie 40 bambini di età compresa tra pochimesi e 18 anni. I casi sono segnalati all’Istituto dalle aziende ospedaliere ditutto il territorio nazionale, proprio perché si tratta dell’unica struttura ingrado di far fronte alle enormi esigenze dei soggetti di cui sopra. Il tipo di as-sistenza offerta è possibile grazie all’attività svolta dal personale infermieri-stico, dagli psicoterapisti, dai pedagogisti e dalle educatrici, coordinati dalDirettore Sanitario in collaborazione con i medici di base e gli specialistidelle aziende ospedaliere di Alessandria e Tortona. (…) I Volontari diTortona e dintorni frequentano con assiduità il Piccolo Cottolengo, sono nu-merosi e di diverse età. (…) La Comunità religiosa del Piccolo Cottolengo or-ganizza per il periodo estivo dei campi servizio di una settimana per ragaz-ze da 17 anni in poi, provenienti da tutta Italia, che desiderano condividerein gruppo il servizio ai bambini come animazione ludica, fraternità, pre-ghiera. Accoglie durante l’anno le giovani che intendono condividere la vitacomunitaria come esperienza di vita (…)». Il testo tratto da Internet chiari-sce la tipologia e la portata delle azioni realizzate da queste organizzazioni, 165

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ma soprattutto mostra che, in questi casi, vi è una risposta precisa ad un bi-sogno. Le istituzioni affidano a questi soggetti settori di interventi socio sa-nitari, che in proprio non possono, o non vogliono, gestire.

La Fondazione Don GnocchiUn ulteriore esempio è rappresentato dalla Fondazione Don Carlo

Gnocchi, attiva nell’ambito della disabilità fin dal 1945. Ai suoi esordi il fon-datore si occupò di bambini mutilati e nel 1951, con la nascita della Fon-dazione Pro Juventute, gli impegni si rivolsero ai bambini poliomielitici e,più in generale, ai minori con patologie fisico-motorie. Attualmente è «rico-nosciuta Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (segnatamenteper i centri di Milano e Firenze), ha alle proprie dipendenze quasi 3.000 ope-ratori, ed eroga le proprie prestazioni in regime di convenzione con ilServizio Sanitario Nazionale in 19 centri, distribuiti in 8 regioni italiane. Hainoltre ottenuto il riconoscimento ufficiale di Organizzazione Non Governa-tiva per un più diretto intervento nei Paesi in via di Sviluppo».

Le attività della Fondazione riguardano i campi della riabilitazione (ero-gate in regime residenziale, day-hospital, ambulatoriale e domiciliare); del-la ricerca scientifica (in collaborazione con il Politecnico di Milano ha isti-tuito un Centro di Bioingegneria); della formazione per disabili (scuole ma-terne, elementari, corsi didattici con attività manuali e corsi di formazioneprofessionale per disabili); della formazione per operatori sociali (corso ri-conosciuto dalla Regione Lombardia); della gestione di servizi diurni e resi-denziali (comunità alloggio e centri socio educativi). Relativamente allarealtà milanese, e più in generale lombarda, la Fondazione Don Gnocchi, ol-tre ad essere un soggetto economico di grande peso, ha assunto un valoreassai significativo nella storia e nella cultura dei servizi. A Torino la Fonda-zione è presente con un Centro di Riabilitazione, che opera, sia privata-mente sia in convenzione con le aziende sanitarie locali piemontesi, in regi-me residenziale, day-hospital, ambulatoriale e domiciliare. Il sistema deiservizi torinese individua il Centro di Torino come un normale fornitore diservizi, presente sul mercato, capace di soddisfare i bisogni riabilitativi del-le persone disabili.

L’ANFFASTalune realtà associazionistiche locali in tempi recenti hanno deciso di

affrontare le attività di gestione dei servizi. L’ANFFAS, ad esempio, nelcontesto torinese fa ormai parte del sistema dei servizi, come le coopera-tive sociali partecipa alle gare d’appalto, offrendo servizi (non limitata-mente ai propri associati) quali i centri socio terapeutici, i soggiorni estiviecc.

Ciò che, in alcuni casi, la rende «vincente» è la grande esperienza e ilknow-how maturato nel settore. Per l’ANFFAS torinese questa svolta «versoil mercato» è stata determinata, da un lato, dal bisogno di accettare le nuo-ve logiche del sistema, affrontando anche le attuali prospettive d’impresa,necessarie alle associazioni per capitalizzare. Dall’altro, dalla necessità diincrementare l’offerta di servizi rivolti alle persone con handicap grave egravissimo, non delegando alle istituzioni la soluzione del problema, maoperando direttamente.166

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È possibile che tale situazione sia determinata dal compito che, storica-mente, svolgono le istituzioni locali nella scelta delle strategie di politica so-ciale e dalla posizione che il terzo settore ha assunto all’interno di tali equi-libri. Se, da un lato, gli enti cittadini hanno chiesto alle organizzazioni la me-ra gestione dei servizi più consolidati, queste ultime, talora, si sono «appiat-tite» su tale funzione, che non necessariamente comporta spazi progettualiorientati alla definizione di nuove forme e tipologie di interventi.

Il CSA«D’altra parte la «scoperta del no-profit» porta con sé rischi non irrile-

vanti per l’identità stessa delle organizzazioni no-profit. L’elemento che leaccomuna consiste infatti nella necessità di conciliare lo svolgimento di uncompito di servizio (che deve essere assicurato attraverso un livello accetta-bile della performance organizzativa) con il mantenimento e la continua ri-vitalizzazione della loro identità originaria (che vengono garantiti dall’ele-vata adesione ideale del personale e dei soci alla missione associativa). Èproprio la conciliazione di identità e servizio il tratto che differenzia l’orga-nizzazione no-profit dall’azienda privata lucrativa e dalla burocrazia pub-blica. Ma è proprio questa ambivalenza ad essere sotto tensione, in una fa-se in cui l’attenzione verso il terzo settore si concentra più sulla sua funzio-ne di servizio che su quella di democratizzazione e di attivazione della so-cietà civile» (Ranci, 1999).

Diverso è il caso del Coordinamento Sanità e Assistenza tra i movimentidi base a Torino. Se pressoché tutte le associazioni, piccole e grandi, si di-chiarano impegnate nel campo dell’informazione, della consulenza e dellasensibilizzazione, rivolte sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione,vi sono alcune realtà «specializzate» nei settori dell’informazione, della sen-sibilizzazione, della consulenza e dell’advocacy. Un esempio significativo alivello torinese è quello del C.S.A., che ha come finalità principale di«…coordinare le associazioni che si occupano di tutela della fascia più de-bole della popolazione, e in particolare di promozione e difesa dei diritti de-gli anziani cronici non autosufficienti, dei minori in situazione famigliareproblematica, degli handicappati (in primo luogo di quelli intellettivi).»(Coero Borga, Degiacomi, Fabbri, Bonisoli, s.d.).

Il Coordinamento presenta alle istituzioni programmi, progetti e pro-poste su problematiche precise, spesso riguardanti l’apertura, la diffusionee la qualità dei servizi, quali i centri diurni e le comunità alloggio. Ne fannoparte: Ass. Genitori Fanciulli handicappati ASL 34, AIAS, AISM, Ass. Na-zionale Famiglie Adottive Affidatarie, UTIM, Ass. Odissea 31 di Chivasso,Ass. Promozione Sociale, Ass. La Scintilla di Collegno-Grugliasco, ASVAD,Ass. Spina Bifida, Comitato Integrazione Scolastica Handicappati, Coordi-namento dei Comitati Spontanei di Quartiere, Coordinamento Para-Tetra-plegici, Comitato Utenti Mezzi di Trasporto Accessibili, Gruppo Inseri-mento Sociale Handicappati ASL 27, Unione per la Lotta contro l’Emar-ginazione Sociale, Ass. Vivere Insieme di Rivoli, Ass. Oltre il Ponte di Lanzo,Ass. Prader Willi.

Il C.S.A., oltre a svolgere attività di coordinamento, compie azioni im-portanti di advocacy, con funzioni di interfaccia e controllo nei confrontidegli enti pubblici, soprattutto verso quelli che realizzano attività socio as- 167

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sistenziali. Per il Coordinamento, i servizi dovrebbero essere di piccole di-mensioni e distribuiti sul territorio. Da tempo chiede l’apertura di comunitàalloggio rivolte alle persone disabili, laddove vi è tale necessità. Le comunitàdovrebbero essere integrate nel quartiere e collocate in contesti «normali»;in passato tale principio aveva scatenato la dura contrapposizione del C.S.A.all’apertura di una comunità alloggio per persone con handicap motorio al-l’interno dell’Istituto di Riposo per la Vecchiaia di via San Marino.

Il Coordinamento intende essere soggetto politico creativo e autonomo,capace di influire sulle scelte politico istituzionali locali e, pur nell’asprezzadel rapporto dialettico con le istituzioni, contribuisce a mantenere viva latensione progettuale e l’attenzione alla qualità dei servizi erogati. È impor-tante, infine, l’attenzione che il C.S.A. rivolge alle realtà territoriali, con lequali collabora strettamente.

Le associazioni minoriSpesso sono proprio le associazioni di quartiere a rappresentare un ele-

mento di garanzia e di «protezione» sociale, perché sono disponibili ad in-tervenire sul bisogno specifico del singolo individuo e/o della famiglia e a«rattoppare le smagliature» della rete del sistema, offrendo servizi di ac-compagnamento, attività di animazione, di socializzazione, ecc.

Fra le realtà del terzo settore vanno compresi i gruppi di auto mutuo aiu-to, la cui formazione, nell’ambito della disabilità, è piuttosto recente ed haconnotati autenticamente informali. Viste le caratteristiche dell’auto aiuto(empowerment, cittadinanza attiva, aumento della competenza, condivi-sione dell’esperienza, spirito solidaristico, ecc.) e i campi tradizionali dellasua applicazione (alcol dipendenza, tossico dipendenza, dipendenze affet-tive, ecc.), questo nuovo sviluppo nell’ambito dell’handicap è da osservarecon grande interesse.

Il fenomeno, per la sua dimensione fortemente informale, è difficilmen-te quantificabile. Attraverso la ricerca di alcuni operatori impegnati nel set-tore sono stati individuati:

❖ 5 gruppi di genitori con figli disabili nell’ambito del territorio delCanavese, coordinati dalla Fondazione Ruffini

❖ 4 gruppi di genitori con figli disabili nell’ambito del ConsorzioMonviso Solidale, di cui 1 nella città di Fossano, 1 nella città diSavigliano, 2 nella città di Saluzzo

❖ 3 gruppi di genitori con figli disabili nell’ambito del territorio torine-se, gestiti dall’associazione E.C.O. per conto dell’Anffas

❖ 2 gruppi di genitori con figli disabili, nell’ambito del territorio torine-se - Circoscrizione 2 (1 autogestito)

❖ 1 gruppo di persone con disabilità fisico/motoria nell’ambito del ter-ritorio torinese - Circoscrizione 2

❖ 2 gruppi di genitori con figli disabili nell’ambito del territorio torine-se - Circoscrizione 6

❖ 1 gruppo di genitori con figli disabili, gestito dalla Cooperativa ICSper conto del Consorzio C. I. di S. di Orbassano.168

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In ambito piemontese si ha una percezione ancora imprecisa del feno-meno, anche se si registra un netto aumento dell’interesse sull’auto mutuoaiuto, vista la diffusione e la moltiplicazione di percorsi di sensibilizzazionee formazione rivolti agli operatori, alle famiglie e ai volontari.

I rapporti che questi gruppi stabiliscono con enti pubblici e organizza-zioni formali del terzo settore (cooperative e associazioni) sono assai diver-sificati, ed hanno caratteristiche specifiche nelle singole realtà. Va sottoli-neato che di questi progetti:

❖ nessuno è stato avviato autonomamente dalle famiglie❖ tutti sono nati grazie all’iniziativa delle organizzazioni citate❖ eccetto i gruppi collegati all’Anffas, sono tutti sostenuti, in forma più

o meno diretta, dai settori socio assistenziali degli enti pubblici.

È ragionevole sostenere che, mentre l’associazionismo - legato alla ri-vendicazione di diritti e servizi - nasce come iniziativa autonoma, o in col-legamento con esperienze analoghe già avviate, le iniziative di self-help, al-meno in una prima fase, vista la delicatezza tipologica dell’iniziativa e la suarelativa «fragilità», hanno bisogno di essere sostenute dal settore pubblico.Ma l’esperienza piemontese mostra che, in alcuni casi, il percorso di em-powerment può successivamente produrre nelle famiglie processi di auto-nomia. Ad esempio, nel 1999 ad Ivrea sotto l’egida della Fondazione Ruffini,è nata l’associazione Gr.a.m.a. (associazione dei Gruppi di Auto MutuoAiuto del Canavese) la quale, oltre a proseguire le attività di self-help, è im-pegnata nell’organizzazione di vacanze estive, corsi, attività di sensibilizza-zione e formazione.

Il problema delle modalità con cui vanno gestiti i rapporti e i collega-menti tra settore pubblico ed esperienze di auto aiuto è questione delica-ta. Il grande pericolo è quello di fraintendere la natura di queste esperien-ze, snaturandone caratteristiche e finalità fino a farle divenire dei servizi dicura formali. Questi rischi si possono correre quando, ad esempio, all’in-terno di un appalto l’ente pubblico, oltre a richiedere una serie di servizi,sollecita ai soggetti gestori anche l’attivazione di gruppi, con modalità pro-gettuali e gestionali simili a quelle adottate per la creazione di servizi verie propri.

Le associazioni in Piemonte

Le informazioni riguardanti le organizzazioni che si occupano di han-dicap infantile sono tratte dalla Guida Ragionata delle Associazioni di vo-lontariato e delle cooperative sociali in Piemonte. Poiché il campo della di-sabilità è trasversale ad altri ambiti, soprattutto quello sanitario, nell’elen-co sono state incluse varie tipologie di associazioni. Sono state esclusequelle che operano unicamente nel campo delle patologie che insorgono inetà adulta.

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A.B.I.O. Associazione per il Bambino In OspedaleHa sede presso l’Ospedale SS. Annunziata di Savigliano CN. Svolge atti-vità di gioco e animazione per bambini (0-14 anni) ricoverati nel repartopediatrico dell’ospedale e aiuta i genitori ad affrontare i problemi di de-genza dei loro bambini. • Nel 1997 si è costituita la sede locale dell’associazione fondata aMilano nel 1978.

A.G.B.D. Associazione Genitori Bambini DownOpera nelle province di Novara, Verbania-Cusio-Ossola. Oltre a forniresostegno alle famiglie, organizza seminari informativi per le famiglie, glioperatori e gli insegnanti. Promuove la ricerca scientifica sulle cause del-la Sindrome e sui metodi di prevenzione. Avvia contatti con le strutturepubbliche presenti sul territorio per sviluppare progetti finalizzati all’in-serimento lavorativo. Un gruppo di medici svolge gratuitamente visitepreventive ai ragazzi iscritti. • Formatasi nel 1990 come punto d’incontro per le famiglie, è cresciu-ta grazie all’aiuto di vari gruppi di volontari, una parte dei quali costitui-sce un’équipe professionale di sostegno.

A.G.D. (ONLUS) Associazione per l’aiuto al Giovane Diabetico -Piemonte e Valle d’Aosta

Promuove iniziative di informazione e di formazione anche attraverso lapubblicazione di periodici d’informazione sulla patologia. Organizzacampi scuola educativi, manifestazioni e occasioni di incontro e scambiodi esperienze per i giovani diabetici e i familiari. • È stata costituita nel 1975

A.I.A.S. Associazione Italiana Assistenza SpasticiOpera nel settore socio assistenziale e promuove la difesa dei diritti del-le persone disabili. Pubblica un periodico mensile. • L’associazione nata nel 1961, è presente sul territorio nazionale attra-verso sezioni locali. A livello locale la sezione torinese fa parte del C.S.A.(Coordinamento Sanità Assistenza), mentre a livello nazionale partecipaal C.I.S.A. (Consorzio Interregionale Sezioni AIAS).

A.I.R. Down (ONLUS) Associazione per l’Autonomia l’Integrazione e la Riabilitazione

Ha sede a Moncalieri, Alle famiglie fornisce sostegno psicologico e infor-mazioni concernenti la sindrome di Down. Per consentire lo sviluppo el’integrazione sociale delle persone disabili offre, inoltre, l’ausilio di tera-pie riabilitative, la consulenza di tecnici e l’aiuto di volontari. Organizzacorsi e seminari d’aggiornamento rivolti ai docenti delle scuole e agli ope-ratori sanitari.

A.I.R.H. Associazione Italiana Ricerca e prevenzione HandicapSviluppa azioni di divulgazione e informazione, con l’obiettivo di forniresostegno economico a ricercatori ed enti che si occupano delle proble-matiche connesse all’handicap. Organizza corsi di formazione e sensibi-170

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Page 169: LA FATICA DI CRESCERE - Paideia€¦ · LA FATICA DI CRESCERE Bambini e disagio nell’area torinese A cura di DARIO REI Con un commento conclusivo di Roberto Maurizio paideia.doc.

lizza le strutture socio sanitarie ad organizzare attività di formazione sulterritorio attraverso le scuole, i CST, le cooperative e le associazioni chesi occupano di handicap. Nel settore della genetica assegna borse di stu-dio a giovani ricercatori e gestisce un sistema informatico collegato inInternet con i centri mondiali di ricerca genetica. • Si sviluppa sul territorio nazionale attraverso le diverse sezioni locali.A Torino si è formata nel 1984 e fa parte della Consulta Handicap-Unidown

A.I.S.A. Associazione Italiana per la lotta alle Sindromi AtassicheOffre informazione e sostegno ai malati e alle famiglie e fornisce consu-lenza genetica. Segue e sostiene la ricerca scientifica per la cura e la pre-venzione genetica delle sindromi atassiche, contribuendo con borse distudio e acquisto di apparecchiature scientifiche. Per i soci pubblica unperiodico d’informazione. Fa parte dell’associazione europea per le sin-dromi atassiche (Euro-Ataxia) il cui centro si trova a Bruxelles. • Si è costituita nel 1982

A.M.A.M.I. Associazione Malati Anemia Mediterranea ItalianaPromuove l’individuazione dei portatori di tale malattia e facilita la pro-grammazione familiare mediante l’istituzione di servizi di assistenza gi-necologica. Favorisce l’inserimento dei malati di anemia mediterraneanella vita scolastica e sociale. Sollecita la creazione di centri specializza-ti, partecipa alla ricerca scientifica e ne diffonde i risultati. • È stata costituita nel 1997

A.N.F.F.A.S. Associazione Nazionale Famiglie di disabili intellettivi e relazionali

Fornisce un servizio sociale di informazione e guida ai servizi pubbliciesistenti e agli uffici preposti. Su convenzione con il Comune di Torinogestisce centri Socio Terapeutici che ospitano utenti gravi e gravissimi.Nei mesi estivi realizza soggiorni montani e marini per insufficienti men-tali. All’interno dell’associazione opera un gruppo di volontari che orga-nizza attività ricreative per i soci. Organizza un corso annuale di forma-zione per assistenti di persone disabili. Per le famiglie ha attivato gruppidi auto mutuo aiuto. A livello nazionale l’associazione pubblica un pe-riodico. • L’associazione nazionale è stata fondata nel 1958 ed è stata ricono-sciuta nel 1964. In Piemonte conta 19 sezioni. Precedentemente il nomedell’associazione era Associazione Nazionale Famiglie Fanciulli e AdultiSubnormali.

A.N.P.V.I. (ONLUS) Associazione Nazionale Privi della VistaSvolge attività di accompagnamento e di assistenza domiciliare e ospe-daliera, di consulenza e di assistenza per la tutela dei diritti. Promuovel’integrazione sociale delle persone non vedenti. • È un ente morale fondato nel 1978 e organizzato in segreterie nazio-nali, regionali e provinciali. A Torino l’associazione opera dal 1986.

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A.N.V.I.C.I.A. Ass. Nazionale dei Volontari per l’Integrazione deiCiechi, Ipovedenti e pro Anziani.

Offre servizi di accompagnamento e di assistenza (a domicilio e presso lestrutture sanitarie) ai soggetti non vedenti. Segue i giovani nello studio,nelle attività sportive e in quelle ricreative. Per le persone non vedentisvolge attività di lettura e di registrazione di testi e documenti. • Promossa a livello nazionale dall’ANPV, si è formata a Torino dal1999.

Arca di Noè (ONLUS)Ha sede a Torino. Organizza e gestisce attività ludiche, di intrattenimen-to e di socializzazione con persone disabili all’interno dei CST dellaCircoscrizione 2 di Torino, nonché soggiorni e momenti di vita comuni-taria. Promuove la cultura del mutuo aiuto mediante la gestione di grup-pi di auto aiuto. Offre servizi di assistenza domiciliare, affido diurno e cu-stodia; propone attività sportive e di doposcuola. • Si è costituita nel 1999

A.RE.A. Associazione Regionale Amici degli handicappatiL’attività si snoda su tre settori di intervento. Mediateca del software: an-che tramite il sito Internet, è un punto di riferimento per le informazionisull’utilizzo delle nuove tecnologie da parte di persone disabili.Organizza corsi di formazione e seminari, e fornisce consulenza a geni-tori, insegnanti e riabilitatori. Ha attivato un centro per la diagnosi e iltrattamento dei disturbi dell’attenzione e dell’iperattività. Da gennaio2000 gestisce un sito per ragazzi, disabili e non, di età compresa tra 11e 16 anni, che ha l’obiettivo di favorire le comunicazioni interpersonalitra i ragazzi. Servizio di ascolto: per le persone disabili e per le loro fa-miglie, connesso con la rete dei servizi socio sanitari e delle associazio-ni. Sviluppa progetti di ricerca/intervento e di formazione.Spazi/Famiglia: attraverso attività rivolte ai bambini, ai ragazzi e ai lorogenitori si promuove la valorizzazione delle risorse presenti nelle fami-glie. Le attività comprendono per i bambini disabili della scuola ele-mentare un laboratorio di danza-terapia; per i ragazzi maggiorenni un la-boratorio e un progetto di supporto all’autorganizzazione del tempo li-bero. Infine «Spaziogioco» che accoglie e intrattiene bambini e ragazzidisabili durante gli incontri dei genitori e «Spaziogenitori» che promuo-ve momenti di scambio e riflessione per i genitori con figli portatori dihandicap.

A.S.H.I. Associazione Subacquei Handicappati ItalianiTiene lezioni formative con frequenza trisettimanale in piscine cittadine ecorsi settimanali di teoria per i subacquei; le attività sono svolte in localisenza barriere architettoniche. Con cadenza mensile organizza immer-sioni in mare o in laghi. Mette a disposizione dei soci attrezzature subac-quee, biblioteca e videoteca sull’argomento. Partecipa a convegni medi-ci e sportivi per mantenere la didattica al passo con la ricerca scientificae per sensibilizzare l’opinione pubblica per l’abbattimento delle barrierearchitettoniche e culturali. 172

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• È attiva dal 1987 inizialmente all’interno della UICEP. Come associa-zione si è costituita nel 1991 e collabora con il Centro di RieducazioneFunzionale del C.T.O. di Torino.

A.P.I.C. Associazione Portatori Impianto CocleareSensibilizza le strutture pubbliche per migliorare l’assistenza e la diffu-sione delle informazioni su questo tipo di intervento sanitario efficace peril trattamento della sordità profonda. Offre supporto ai soggetti in attesadi intervento (o che ad esso siano appena stati sottoposti) e promuovel’aiuto reciproco fra gli associati mediante incontri. Fa opera di informa-zione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle problematiche ri-guardanti la sordità grave. • L’associazione è stata costituita nel 1998

A.Pi.C.E. Associazione Piemontese Contro l’EpilessiaOffre opportunità di socializzazione e di formazione attraverso un labo-ratorio di piccoli lavori artigianali, una compagnia teatrale stabile e unapalestra dove svolgere diverse discipline sportive. Organizza gite, sog-giorni, convegni e seminari. Pubblica un trimestrale di informazione sul-la malattia e l’attività dell’associazione

A.Pi.S.B. Associazione Piemontese per la Spina BifidaOffre assistenza morale e materiale ai bambini e agli adulti affetti da spi-na bifida e ai loro familiari. Fornisce un servizio di informazione sulla le-gislazione sanitaria, scolastica e occupazionale per le persone disabili.Sensibilizza le istituzioni e i servizi territoriali per la cura e l’integrazionesociale delle persone portatrici di handicap funzionali. Promuove e inco-raggia la ricerca scientifica sulla spina bifida. • Costituita nel 1991, fa parte della FAISBI (Federazione delle Asso-ciazioni Italiane Spina Bifida e Idrocefalo).

A.P.R.I. Associazione Piemontese Retinopatici e IpovedentiCollabora con i servizi di Oftalmologia Sociale dell’Ospedale Maurizianodi Torino e dell’Ospedale Valdese presso cui finanzia borse di studio e in-dirizza i propri soci. In convenzione con la Città di Torino gestisce ilConsultorio Retinopatici. Organizza tavole rotonde, congressi e manife-stazioni, pubblica opuscoli, riviste informative e notiziario su audiocas-setta per non vedenti. • L’associazione è stata costituita nel 1990 e fa parte della FIARP(Federazione Italiana delle Associazioni contro la Retinite Pigmentosa).Collabora con l’associazione nazionale Privi della Vista.

A.T.E. Associazione Traumatizzati EncefaliciFornisce informazioni ai traumatizzati cranici e alle loro famiglie sullestrutture pubbliche e private esistenti e sui servizi cui hanno diritto e, nelcaso di necessità, sostegno morale, economico, assistenza. Sostiene la ri-cerca scientifica, organizza corsi di formazione per volontari ospedalierie domiciliari, istituisce borse di studio, fa opera di prevenzione presso igiovani. 173

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AU.DI.DO. Autogestione Diversamente DotatiHa sede ad Alpignano dove organizza laboratori manuali e culturali perdisabili mirati alla loro autonomia e autogestione (disegno e pittura, edu-cazione al movimento, acquaticità/nuoto, ceramica, informatica, judo,ecc.): nel 1998 è nato un laboratorio teatrale che ha dato vita alla com-pagnia «Fuori Testo» composta sia da persone disabili sia normodotate. Èattivo un laboratorio di terapia per i genitori. Organizza soggiorni marinie pubblica un periodico. • Fondata nel 1992.

A.V.O.I. Associazione Volontari Ospedalieri per l’Infanzia (c/oPresidio Pediatrico C. Arrigo Alessandria).

Organizza attività ludiche, didattiche, di animazione e d’intrattenimentoper i minori tramite materiale ludico adeguato alle varie età (P.C., testi esoftware didattici, videogiochi, biblioteca mobile, ecc.). • È nata ad Alessandria nel 1993.

Associazione AladinoHa sede nella Circoscrizione 2 dove organizza e gestisce attività ludicherivolte a soggetti portatori di handicap e soggetti normodotati. Organizzagite, promuove attività di formazione per volontari, fornisce un supportoalle persone disabili nell’inserimento lavorativo, promuove la cultura del-l’auto aiuto. • Si è costituita nel maggio del 1998.

Associazione ArcobalenoHa sede a Mompantero (TO) e con le sue attività promuove e favorisce lacostituzione di case-famiglia per bambini disabili in affidamento nell’areapiemontese.

Associazione Case-Famiglia P.G. FrassatiOpera nella provincia torinese per promuovere e favorire la costituzionedi comunità residenziali (case-famiglia), per disabili esclusivamente fisici,anche gravi. Promuove la ricerca di soluzioni di assistenza domiciliareidonee. • È stata fondata nel 1991 da persone con disabilità motoria

Associazione DownA Torino organizza una forma di prima accoglienza e di assistenza socia-le nei confronti delle famiglie con bambini Down, seguendoli nello svi-luppo cognitivo della prima infanzia, nei problemi adolescenziali, nel-l’inserimento scolastico in ogni grado di scuola. Organizza convegni, cor-si e stage di aggiornamento sulla trisomia. • L’associazione è stata costituita nel 1992 e collabora con l’équipedell’Ambulatorio Down presso l’Ospedale Infantile Regina Margherita diTorino e con altri ospedali di Torino e provincia, con le Aziende Sanitariee con l’Associazione Down di Barcellona.

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Associazione Gianni, Wendy e MicheleOpera a Torino nel campo del disagio e dell’emarginazione dei minori in-teressati da patologie pediatriche correlate al virus HIV e delle loro fami-glie naturali, affidatarie o adottive. Oltre all’assistenza in ospedale, inter-viene anche a domicilio. Organizza momenti di incontro collettivi al difuori dell’ospedale tra i bambini sieropositivi e altri piccoli affinché pos-sano giocare insieme, mentre i loro genitori si confrontano e scambianoesperienze. Per alcuni bambini sieropositivi accompagnati dai genitori or-ganizza brevi periodi di vacanza con l’appoggio di volontari, soci e me-dici. Inoltre, organizza spettacoli e concerti per sensibilizzare e racco-gliere fondi. • Si è costituita in Torino nel febbraio 1995

Associazione Insieme Gruppo Handicappati CenisiaOffre occasioni di socializzazione alle persone disabili, anche attraversoattività di laboratorio. Ogni due anni organizza nelle scuole dell’obbligoun concorso denominato «Tutti hanno diritto a vivere insieme»; pubblicaun periodico. • Si è formata nel 1977 per iniziativa della Commissione servizi sociosanitari, dell’allora Comitato di quartiere spontaneo Cenisia, e di alcunefamiglie di persone portatrici di handicap. Nel 1984 si è costituita in as-sociazione.

Associazione per l’aiuto ai soggetti con sindrome di Prader-Willi e alle loro famiglie (c/o Azienda Materno-Infantile ReginaMargherita, Divisione Endocrinologia di Torino)

Favorisce la ricerca medica e la conoscenza della malattia. Aiuta i sog-getti con tale sindrome e le loro famiglie ad affrontare percorsi di integra-zione sociale. Cura la pubblicazione di un periodico

Associazione ShantalaHa sede a Nichelino (TO.) dove offre occasioni di socializzazione allepersone portatrici di handicap organizzando, ad esempio, uscite per iltempo libero. Ha rapporti con gli enti locali per la definizione di politi-che sociali nel territorio. • Fondata nel settembre 1987.

Associazione talassemici di TorinoOrganizza manifestazioni per la raccolta fondi. Essi sono impiegati per lecure dei talassemici, in particolar modo per quelle da effettuarsi all’este-ro. Finanzia la ricerca e pubblica un bimestrale. • È nata nel 1980

Associazione volontariato CottolenghinoOpera a favore degli ospiti delle Piccole Case della Divina Provvidenzapresenti nel territorio regionale. • Il volontariato Cottolenghino nasce contemporaneamente alla PiccolaCasa della Divina Provvidenza, fondata nel 1897. Nella sua forma mo-derna si sviluppa dal 1965. 175

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Casa AmicaAttiva a Torino, è formata da 12 piccoli alloggi in cui vengono ospitati pa-renti di ammalati (soprattutto bambini) degenti in ospedale, per lo più alRegina Margherita di Torino, che provenendo da fuori città non possonopermettersi altre sistemazioni. Collabora con l’U.G.I. (Unione GenitoriItaliani). Ogni alloggio si autogestisce con l’aiuto dei volontari e delleSuore Luigine. Le famiglie contribuiscono alle spese con un modesto con-tributo. • Opera dal 1989.

C.I.L.P. (ONLUS) Centro Internazionale Libro ParlatoPer i non vedenti e per tutti coloro che, per varie patologie, hanno diffi-coltà a leggere produce «Libri parlati», opere librarie su richiesta speci-fica degli utenti, registrati da «Donatori di voce» su audiocassette (sonoin catalogo più di 9.000 opere: romanzi, testi di studio, ecc.). Provvedea stampare trascrizioni e spartiti musicali in braille; pitture, piante di edi-fici e percorsi, sia naturalistici che cittadini, in rilievo. Collabora con va-ri musei tra i quali quelli di Belluno, Treviso e Verona ed ha utenti ancheall’estero. • Il centro opera dal 1983.

Comitato per l’integrazione scolastica degli handicappatiFornisce attività di segreteria e consulenza. Sensibilizza l’opinione pub-blica, gli operatori scolastici e i servizi sulle problematiche dei minori edegli adulti in situazione di handicap. Promuove convegni, tavole roton-de, congressi e, con la collaborazione di esperti, ha creato un centro distudio e di documentazione. Pubblica e diffonde un periodico di infor-mazione. Divulga un notiziario e partecipa alla pubblicazione di testi diinformazione sull’handicap.

Coordinamento para-tetraplegici del PiemonteCollabora con l’Unità Spinale di Torino (c/o il Centro di RieducazioneFunzionale del CTO) dove vengono curati i paraplegici e i tetraplegici.Favorisce attività di appoggio e informazione rivolte alle persone ricove-rate al CRF, per le quali organizza uscite mirate al reinserimento sociale. • L’associazione è nata nel 1983 e aderisce alla FAIP (FederazioneAssociazioni Italiane dei Para-tetraplegici), al CSA (Coordinamento SanitàAssistenza) al CUMTA (Comitato Unitario per i Mezzi di TrasportoAccessibili) e al CREBA (Comitato Regionale per l’Eliminazione delleBarriere Architettoniche).

C.V.A. - Centro Volontari AssistenzaAd Alba assiste disabili, ammalati e anziani, offre assistenza ospedalierae a domicilio, e prestazioni infermieristiche in due ambulatori. Presta at-trezzature sanitarie (carrozzine, stampelle, materassi ad acqua, letti, ecc.)e mette a disposizione un servizio di trasporto.• È nata nel novembre 1992

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Disabili 2000A Torino sostiene le persone disabili e le loro famiglie nella rivendicazio-ne e nella tutela dei diritti, anche informandoli sulla legislazione esisten-te in materia di handicap. Grazie all’attività dei volontari supporta i disa-bili privi di assistenza domiciliare. Organizza attività ludiche, ricreative,sportive e culturali, rivolte a soggetti portatori di handicap fisico-mentalie a soggetti normodotati. Promuove la cultura dell’auto aiuto ed esercitaforme di controllo continuativo sulle condizioni di vita all’interno dellestrutture in cui i disabili sono istituzionalizzati.

Epi ’76 (ONLUS) Associazione per la lotta all’EpilessiaEffettua un servizio di accoglienza su appuntamento, con presa in caricodelle diverse e complesse domande di cui, chi soffre di epilessia, è por-tatore. Tali domande vengono analizzate da volontari esperti nella rela-zione di aiuto, al fine di segnalare risorse e opportunità. Inoltre, si propo-ne come centro di raccolta dei dati e delle esperienze che concernonol’epilessia al fine di sviluppare l’informazione, favorire l’aggiornamento epromuovere ricerche mirate. • Nel 1976

F.I.A.D.D.A. (ONLUS) Famiglie Italiane Associate per la Difesa deiDiritti degli Audiolesi

Fornisce informazioni e supporti alle famiglie. In particolare, affianca ibambini sordi in età prescolare e scolare, promuovendone l’educazionesecondo la metodologia oralista e favorendone l’inserimento sociale. Faopera di sensibilizzazione e di informazione attraverso l’organizzazionedi convegni, seminari e corsi rivolti soprattutto agli operatori sanitari e so-ciali, agli educatori e agli insegnanti. • L’Associazione nazionale è stata fondata nel 1973 ed è organizzata insezioni sparse in tutta Italia. La sezione di Torino è stata costituita nel1979 come Associazione Genitori Audiolesi Piemontesi e nel 1991 haaderito alla FIADDA. È associata a Federazioni nazionali ed europee.

G.I.L.S. Gruppo Italiano per la Lotta alla SclerodermiaSi occupa dell’assistenza e della tutela degli ammalati di sclerodermia.Promuove programmi periodici di sensibilizzazione attraverso campagnedi informazione, allo scopo di far conoscere le tappe della ricerca scien-tifica sulle cause e sulle possibili terapie. Organizza campagne per la rac-colta fondi. • È stata fondata nel 1993 a Milano.

G.R.H. Genitori Ragazzi HandicappatiHa sede a Druento (TO.) e svolge la sua attività principalmente sul terri-torio dell’ASL 26 della Regione Piemonte, dove organizza iniziative disocializzazione per il contenimento del disagio: attività di laboratorio ma-nuale (pittura, cucito, lavori in creta, ecc.), gli oggetti prodotti vengonoesposti e venduti alle mostre-mercato. Organizza feste e gite, accompa-gna i ragazzi allo stadio per le partite di campionato. D’estate effettua unsoggiorno marino con il supporto di personale esperto e specializzato e 177

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durante l’anno organizza servizi di trasporto. Sostiene le persone disabilie le famiglie nella rivendicazione e nella tutela dei diritti. • L’associazione è nata nel 1989.

Gruppo IncontroOpera a Torre Pellice dove, per le persone portatrici di handicap menta-le, organizza uscite quindicinali di un giorno (domenica) o di due giorni(sabato e domenica), per andare in discoteca, al bowling, alle partite dicalcio, al mare, in montagna, ecc. • È attiva dal 1979.

Gruppo InsiemeÈ attiva a Torino, dove organizza forme di animazione per il tempo libe-ro e un lavoro di sensibilizzazione, di difesa dei diritti e di sostegno perle persone con handicap fisico-motorio e intellettivo e per le loro fami-glie. Promuove la cultura dell’auto aiuto attraverso l’attivazione di ungruppo di genitori. • Formata come gruppo nel 1979, è diventata associazione nel 1986.

G.V.A. Gruppo Volontariato Assistenza handicappatiCon la sezione locale dell’ANFFAS, ha gestito un centro diurno per disa-bili medio-gravi. Attualmente, tramite convenzione, si occupa del servi-zio di trasporto e di varie attività educative all’interno del centro diurno.Inoltre, è impegnata nel fornire assistenza domiciliare e nel divulgareinformazioni sulle materie attinenti l’handicap. In tal senso gestisce, in-fatti, una biblioteca-centro di documentazione aperta al pubblico. • Fondata nel gennaio 1984.

G.V.V. Gruppi di Volontariato VincenzianoOpera in molte direzioni (anziani, immigrati, giovani a rischio, senza fis-sa dimora, ecc.) organizzando veri e propri servizi (mense, centri e casedi accoglienza, consultori, scuole materne, soggiorni, ecc.). All’internodegli interventi sociali e pastorali nelle diverse realtà territoriali, ove ne-cessario, si possono realizzare iniziative di sostegno rivolte direttamentealla persona e/o alla sua famiglia. • Nel 1617 S. Vincenzo de’ Paoli fondò la prima esperienza e nel 1655in Piemonte nasceva il primo gruppo. Oggi l’Associazione è estesa in tut-to il mondo come A.I.C. (Associazione Internazionale della Carità).

Handicap e sviluppoA Torino persegue la promozione e lo sviluppo dei servizi domiciliari ter-ritoriali e di aiuto alla persona, il superamento delle barriere architettoni-che, la promozione e lo sviluppo del trasporto pubblico accessibile e in-tegrato per consentire autonomia e indipendenza alle persone con disa-bilità. Raccoglie, organizza, produce, elabora e diffonde informazioni sul-le realtà e problematiche inerenti la disabilità fisica, psichica e sensoria-le, soprattutto relative al sud del mondo. • Si è costituita nel 1990.

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Il camminoL’associazione è attiva a Torino, dove organizza un «Centro di aiuto allostudio» che non è solo un doposcuola, ma un luogo di educazione com-plessivo e di socializzazione. Per particolari situazioni di handicap, soli-tudine, malattia realizza anche interventi domiciliari. • Nata dal 1975, collabora con altre associazioni e i servizi territoriali.

Il cerchio apertoMediante iniziative culturali, formative e di ricerca nel campo incoraggiala cultura dell’integrazione. Elabora, inoltre, progetti volti a migliorare larealtà personale, sociale e lavorativa delle persone disabili. Promuove leattività di formazione al lavoro e/o di mantenimento delle abilità lavora-tive: per mezzo di apposite strutture che si occupano di orientamento einserimento, alle persone disabili sono proposte esperienze di tirocinio,stage e borse lavoro. • È stata costituita nel gennaio 1998 per iniziativa delle associazioniACLI Piemonte, la sezione torinese dell’ANFFAS e dell’UN.I.DOWN.

Insieme per l’handicapA Borgaro Torinese assiste le famiglie con portatori di handicap nei rap-porti con le istituzioni. Per persone disabili medio-gravi trasferisce su sup-porti informatici attività di «comunicazioni alternative», mentre per quel-le con handicap fisico/motorio organizza corsi di informatica e di telela-voro finalizzati alla realizzazione di cooperative sociali.

Iris Associazione di volontariato per la lotta contro l’anoressia e la bulimia

In ambito cittadino e regionale si propone di offrire sostegno e informa-zione alle famiglie e ai soggetti colpiti. A tal fine ha creato un centro diascolto telefonico ed ha attivato un numero verde. Sensibilizza l’opinio-ne pubblica e, soprattutto, i giovani sui problemi inerenti i disturbi ali-mentari, mediante cicli di incontri condotti da personale specializzato ela pubblicazione di materiale informativo. Promuove attività di espressio-ne corporea da affiancarsi alle terapie tradizionali.

L’AncoraNel territorio torinese offre aiuto e sostegno alle famiglie, soprattutto incampo legislativo. Incentiva la prevenzione e la cura dei disturbi psico-relazionali sostenendo la ricerca, nonché l’integrazione e l’inserimentodei portatori di handicap.

La Perla (ONLUS)A Torino offre sostegno ed occasioni di socializzazione ai ragazzi conhandicap mentale medio lieve, che hanno ultimato la scuola dell’obbligoe sono in attesa di inserimento lavorativo.

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La ScintillaÈ dotata di strutture e laboratori di musica e attività manuali e di una strut-tura per soggiorni estivi. Ha delimitato il suo ambito di intervento al quar-tiere S. Rita per garantire una maggiore integrazione dell’associazione neltessuto urbano e per favorire l’impegno dei volontari. All’obiettivo inizia-le di fornire un appoggio alle famiglie, si è aggiunta l’opera di sensibiliz-zazione sulle problematiche connesse all’handicap. • Si è costituita nel 1981.

La Vita NuovaOpera nel territorio torinese a favore dei ragazzi con handicap intelletti-vo di lieve e medio grado tramite attività mirate e specifiche. Li segue edassiste con i genitori e i soci e promuove iniziative per contrastare l’e-marginazione.

L’ho dipinto conNella provincia torinese favorisce le persone con difficoltà fisiche e/o psi-chiche a sperimentare percorsi espressivi (pittura, scultura e disegno) conartisti affermati. Per pubblicizzare l’iniziativa organizza mostre-mercato ecollabora con altre organizzazioni ed enti, soprattutto la Provincia diTorino.

Noi come voiA Galliate (NO) propone attività volte all’integrazione psicofisica e allasollecitazione multisensoriale dei disabili: pittura, musicoterapia di grup-po, attività motoria e acquatica, psicomotricità, laboratorio di intaglio dellegno, danza e attività corporee, attività teatrale, attività ludiche.Organizza gite nelle città d’arte, visite a musei, incontri con personaggidel mondo dello sport e della musica. Si occupa del recupero scolasticoe, d’estate, di un centro estivo. • È stata costituita nel 1988.

P.A.N.D.HA. Polisportiva Associati Normodotati Disabili ed Handicappati

Le attività sportive sono svolte nelle palestre accessibili di Torino e sonorivolte a persone con handicap mentale. Tutte le attività sono proposte siasotto l’aspetto ludico motorio, sia sotto l’aspetto agonistico e riguardanoil nuoto, la pallacanestro, l’atletica leggera, il tennis e lo judo. • Fondata nell’aprile 1989, tramite la F.I.S.D. (Federazione Italiana SportDisabili) è in contatto con tutte le altre associazioni italiane che pratica-no gli sport special olympics.

Piccolo FioreA Sagliano Micca (BI) organizza mostre e manifestazioni benefico-solida-ristiche, il cui ricavato viene utilizzato in favore degli ospiti del Centro diRiabilitazione Domus Laetitial. Propone incontri e momenti di confrontosu specifiche tematiche contemporanee per far conoscere le problemati-che legate al mondo dell’handicap e stimolare il confronto e lo scambiodi esperienze.180

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PRO.GIO. (ONLUS) Associazione ProGioPromuove a Torino iniziative di assistenza e sostegno a favore delle per-sone disabili. Per il tempo libero organizza momenti di socializzazione.Si occupa di formazione e aggiornamento dei volontari.

O.F.T.A.L. Opera Federativa Trasporto Ammalati a LourdesOpera a livello nazionale offrendo assistenza socio sanitaria agli amma-lati durante i pellegrinaggi ai santuari mariani.

Regina della PaceÈ attiva a Torino, dove sviluppa progetti di volontariato socio assistenzia-le rivolti alle diverse fasce sociali deboli. Per le persone disabili organiz-za un laboratorio giornalistico (la stampa del giornale per i soci) e forni-sce assistenza lavorativa ai disabili della cooperativa sociale Il Cammino. • È nata nel 1993.

Tribunale dei diritti del malatoAi cittadini che intendono far valere i propri diritti, mette a disposizionecentri nei quali i volontari, debitamente informati, forniscono informa-zioni e assistenza e, quando necessario, consulenza legale. Alcuni grup-pi di volontari eseguono sopralluoghi nelle strutture sanitarie con lo sco-po di valutarne qualità e sicurezza. Organizza giornate di formazione. È presente sul territorio regionale tramite sezioni.

U.G.I. Unione Genitori Italiani contro il tumore dei bambiniIn stretta collaborazione con il personale sanitario svolge assistenza neireparti di oncologia ed ematologia pediatrica. Intrattiene i bambini affettida tumore e leucemia con attività ludiche e sostiene le famiglie in diffi-coltà offrendo, inoltre, anche un servizio di assistenza domiciliare Ognianno assegna borse di studio e finanzia corsi di aggiornamento per per-sonale medico e paramedico. Stampa pubblicazioni di studi e ricerchespecifiche finalizzate sia alla diffusione delle informazioni sia alla sensi-bilizzazione dell’opinione pubblica. • Fondata negli anni ’80, è stata legalmente riconosciuta nel 1989. Faparte della Federazione Nazionale delle associazioni di genitori di bam-bini emato-oncologici fondata nel 1987.

U.I.L.D.M. Unione Italiana Lotta alla Distrofia MuscolareOltre ad occuparsi dell’assistenza alle persone affette da distrofia, la sezio-ne torinese e l’Università di Torino, nel 1989, hanno firmato una conven-zione per l’istituzione, presso la Clinica Neurologica II, di un centro per lostudio delle malattie neuromuscolari. Il centro «P. Peirolo» svolge, inoltre,attività di assistenza sanitaria per l’iter diagnostico e ambulatoriale. L’asso-ciazione sostiene la ricerca scientifica del settore, anche mediante la raccol-ta di fondi, che avviene in varie forme, tra cui la conosciuta iniziativa «Tele-thon» in collaborazione con la RAI. Per gli iscritti e i sostenitori delle variesezioni italiane è pubblicato un mensile e parecchi opuscoli. Il Comitato re-gionale piemontese divulga un notiziario dal titolo «Vincere Insieme». • A livello nazionale esiste dal 1961, con riconoscimento del Presidente 181

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della Repubblica nel 1970. La sezione di Torino è stata fondata nel 1967ed ha collegamenti locali con l’AISM e i Centri di coordinamento per pa-raplegici. È fondatrice dell’EAMDA (comitato che raggruppa tutte le asso-ciazioni per la distrofia europee).

UN.I.DOWN (ex CEPIM) Unione Italiana DownOffre informazioni sulla sindrome di Down e sostegno psicologico allepersone affette da tale patologia e alle loro famiglie. Collabora con asso-ciazioni, iniziative o strutture che abbiano come finalità l’integrazionedelle persone con handicap. Attraverso l’opera di personale specializza-to incoraggia interventi terapeutici il più possibile precoci. Offre, inoltre,ai ragazzi Down la possibilità di partecipare a gruppi di attività. • Fondata a Torino nel 1979 con il nome CEPIM (Centro PersoneDown), nel 1983 con altre associazioni italiane di genitori di bambiniDown ha dato vita all’UNIDOWN.

Unione Silenziosi Torinesi (ONLUS)Per le persone sordomute organizza attività ricreative, culturali, sportive,all’interno del gruppo di volontari e soci. Fornisce assistenza e consulen-za ai sordomuti e promuove corsi di lingua dei segni.

U.N.I.T.A.L.S.I. Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari Internazionali

Organizza pellegrinaggi ai santuari mariani: per persone ammalate e/o conhandicap (anche grave) effettua, con mezzi attrezzati, viaggi speciali. In talcaso, tramite la presenza di volontari laici e religiosi, è assicurata alle per-sone disabili un’assistenza adeguata e costante. Inoltre, svolge regolar-mente anche altre attività di cura spirituale, sostegno e condivisione. • Nata nel 1903, l’associazione è diffusa su tutto il territorio nazionale.

U.N.I.VO.C. Unione Nazionale Italiana Volontari pro CiechiSi occupa dell’accompagnamento dei non vedenti, per aiutarli ad esple-tare le incombenze dell’attività quotidiana, di seguirli nelle attività di tem-po libero e di fornire assistenza domiciliare. I volontari sono coadiuvatidal personale dell’Unione Italiana Ciechi. • Nata nel 1989 nell’ambito dell’Unione Ciechi, ha assunto una propriaautonomia organizzativa e gestionale nel 1993.

U.T.I.M. Unione per la Tutela per gli Insufficienti MentaliOpera per la difesa e la tutela dei diritti degli insufficienti mentali.Organizza incontri aperti alla cittadinanza, per informare i familiari dipersone con insufficienza mentale sui diritti di questi ultimi, soprattutto ri-spetto a temi quali l’inserimento scolastico e lavorativo, l’assistenza e lariabilitazione, ecc. Favorisce la medicina preventiva e sollecita gli entipubblici competenti ad intervenire per il potenziamento dei servizi. Offreconsulenza su pratiche inerenti la pensione d’invalidità, l’indennità di ac-compagnamento, l’interdizione ed altro. • È stata fondata nell’aprile del 1991. Aderisce al CSA e collabora conaltre associazioni.182

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VivereA Chieri (TO) offre sostegni pratici alle famiglie con figli portatori di han-dicap mirati all’integrazione nel tessuto urbano, rurale, scolastico e lavo-rativo. Organizza iniziative di sensibilizzazione rivolte alla popolazionee agli enti pubblici e privati su temi e problemi collegati all’handicap.Una volta all’anno con l’aiuto di esperti tiene un corso di formazione. • È stata fondata nel 1988.

Vivere Insieme Associazione per l’assistenza e la difesa dei diritti agli handicappati

Nel territorio di Rivoli (TO) aiuta, assiste e appoggia i disabili fisici e le lo-ro famiglie, anche attraverso la gestione di comunità alloggio. Tra le ini-ziative vi è l’acquisto di un minibus attrezzato per il trasporto dei disabi-li. È particolarmente impegnata nei confronti delle istituzioni per l’aboli-zione delle barriere architettoniche. Collabora con l’ASL, la rete Progeste l’associazione Arcobaleno per corsi di formazione rivolti ai nuovi vo-lontari. • È stata fondata nel 1991.

Volare AltoNel territorio di Rocca Canavese (TO) fornisce aiuto alle famiglie deibambini disabili che, prima di tutto, devono essere accettati dal proprionucleo familiare. A tale scopo gestisce un punto d’ascolto diretto alle fa-miglie, che si configura come un gruppo di auto aiuto. • È nata nel 1997.

Volontari San Giovanni BoscoOffre assistenza domiciliare e trasporto a disabili, anziani e malati. Svolgeconsulenze legali e servizi di patronato, attività di animazione periodicae continuativa. Promuove conferenze e dibattiti pubblici su temi riguar-danti il volontariato e la tutela dei diritti dei malati e dei disabili, al finedi sensibilizzare la collettività.

ZEROTRE (ONLUS) Associazione GenitoriOpera a Torino dove sostiene le famiglie dei bambini nati prematuri e/ocon patologie croniche complesse. Promuove le reti di relazioni tra geni-tori e operatori ospedalieri e di territorio per una comune presa in carico.Sollecita i presidi ospedalieri a riservare posti a bambini da 0 a 3 anni af-fetti da patologie complesse e a rivedere le modalità di passaggio dellecompetenze tra le neonatologie e i reparti specialistici. • Fondata nel 2000, ha costituito un comitato scientifico medico.

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5.6 Nodi e problemi

Dalla parte delle famiglie

La comunicazione della diagnosi «Sono la mamma di Pietro, nato 32 anni fa a Catania, dove noi viviamo.

Pietro è stato il mio primo figlio. Avevo 17 anni quando è nato: un fagottinotenero che mi guardava spaurito. Non capivo che cosa potesse avere.Nessuno mi ha aiutato a comprendere cos’era accaduto. Il foglio di diagnosiche ho ricevuto era veramente tremendo, per due anni sono come morta. Poigrazie all’aiuto di mio marito, alla sua pazienza, al suo amore, sono riuscita avedere mio figlio per quella persona bellissima che ancora oggi è. Quella dia-gnosi parlava di una vita breve per mio figlio, fatta di malattie e di sofferenze,una vita che avrebbe sconvolto tutta la nostra famiglia.(…) Oggi, rivivendoquello che è successo, penso a quanto sia assurdo presentare diagnosi del ge-nere. Si sono fatti molti progressi nell’ambito della Sindrome di Down ma lacomunicazione della diagnosi non è cambiata molto: notizie date per i corri-doi, prevalentemente a un solo genitore, in modo sbagliato. In questo modosi uccidono i genitori, che trovano faticoso riprendere a vivere.(…)

Bisogna aiutare le famiglie ad affrontare bene il loro grande «problema»,che poi tale non è se si guardano le cose dal lato giusto, e si affrontano inmaniera adeguata. Introdurre una nuova cultura, o almeno inviare un di-verso tipo di messaggio. «Quando una madre porta una creatura nel ventre,per nove mesi le parla, le racconta le sue cose, ripone su di lei le sue attese.Il bambino che vive dentro di lei rappresenta tutto il suo domani, la sua con-tinuità. Poi il parto; ti portano il bambino e non è quello che avevi sognato,è diverso da come te lo immaginavi. Lo guardi e resti disorientata; vorrestichiudere gli occhi, e risvegliarti pensando che tutto ciò sia solo un incubo.Ti senti tradita… Poi ti innamori comunque di lui, perché una madre si in-namora sempre del proprio figlio, lo ama! Ed è proprio in quel momento chedevono intervenire le persone giuste, per non lasciare sola quella donna inquell’enorme travaglio interiore, aiutarla a camminare insieme, da subitocon la propria creatura, per dare serenità alla famiglia, ad iniziare un per-corso comunque difficile (…)».

Questo è l’intervento di Aida Fazio Russo, rappresentante dell’Associa-zione Italiana Persone Down (AIPD), alla Prima Conferenza Nazionale sullepolitiche dell’handicap, tenutasi a Roma nel dicembre del 1999. La testimo-nianza, analoga a quella di molte altre madri con figli disabili, evidenziaaspetti delicati e complessi, che riguardano non solo la qualità e l’efficienzadei servizi, ma soprattutto la sensibilità e l’efficacia con cui questi vengonoorganizzati, gestiti e messi a disposizione delle famiglie e delle persone di-sabili. Si può tentare di tracciare un percorso ideale, a partire «dall’evento»,per comprendere quali problemi e possibili soluzioni affrontano la personadisabile e il suo nucleo familiare, e per capire se le situazioni esistenti dianoreale soddisfazione alla quantità e alla qualità delle problematiche che si in-contrano nell’ambito della disabilità.

Nel racconto di quella donna si trovano alcuni passaggi cruciali, utili percomprendere le implicazioni e le difficoltà che una madre, un figlio, un nu-184

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cleo familiare nel suo complesso devono affrontare, allorché si presenta unevento inaspettato. Un evento di per sé non è positivo o negativo, lo è in re-lazione alle conseguenze che comporta: è evidente che la nascita di un figliodisabile per una famiglia è un fatto traumatico, doloroso e privo di senso.Queste emozioni sono comuni a tutti quei genitori che hanno figli disabili,anche quando la disabilità è successiva alla nascita ed interviene in un mo-mento qualsiasi della vita. In realtà un evento così doloroso come l’esseredisabile è di per sé traumatico, e difficile da sottoporre a valutazioni prede-finite. Non si può sostenere se è più sfortunata una persona che è disabiledalla nascita o lo diventa, se è più difficile prendersi cura di persone conhandicap fisico o con insufficienza mentale, e così via.

Queste affermazioni, condivisibili perché di estremo buon senso, siscontrano con una realtà, che trova inadeguati gli operatori ad affrontare lespecificità delle persone, a partire dal momento in cui un operatore sanita-rio si trova a fronteggiare il problema della comunicazione della diagnosi.Questione di fondamentale importanza, perché da tale istante si giocano lepossibilità di una persona disabile e della sua famiglia di conoscere corret-tamente il «problema» e le eventuali risorse esistenti. Lavorando a contattocon le famiglie delle persone disabili, è frequente ascoltare racconti in cuiriaffiorano sentimenti analoghi a quelli sopra riportati. Ciò che stupisce è la«freschezza» delle emozioni, anche a distanza di parecchi anni.

Questo conferma la necessità di produrre progressi nell’ambito dello sti-le e delle modalità con cui vengono comunicate le diagnosi. Si tratta di pro-muovere scelte attente al processo di avvicinamento ai servizi, perché taliscelte producono emozioni, che si traducono in atteggiamenti, che, una vol-ta provocati, difficilmente e solo con il tempo e a fatica si rimuovono. Si so-stiene la necessità di ragionare con maggiore attenzione intorno al problemadella comunicazione e dell’informazione su aspetti che riguarderanno lepersone coinvolte per tutta la loro esistenza. Cosa significa aiutare una per-sona a comprendere cosa è accaduto? A capire il tradimento di un figlio atte-so «sano» e nato «malato», quindi «diverso» dagli altri bambini? A compren-dere un «tradimento biologico»? Non ci sono, allo stato attuale, ricette riso-lutrici o figure professionali che, all’interno del proprio compito istituziona-le, abbiano trovato tecniche adatte alle diverse situazioni.

Che cosa accade a tutte le madri che partoriscono un figlio disabile oche, per diversi motivi, si ritrovano ad affrontare problemi di disabilità in-sorta? Succede che, dopo essere state tramortite dall’evento, e dopo averpassato un certo lasso di tempo per riprendersi (tempo che varia a secondadelle persone, alle volte può durare tutta la vita), provano a capire cosa pos-sono fare per aiutare il proprio figlio. Da questo momento in poi, si apre ilventaglio dell’offerta delle prestazioni, dei servizi e dei soggetti implicati.

Il linguaggioUn grande problema è quello del vocabolario, con terminologie da ad-

detti ai lavori, che variano con il variare degli ambiti di intervento: sanitario,assistenziale, educativo, legale, ecc. Quindi le persone diventano utenti,l’occuparsi di loro diventa una presa in carico, che può essere riabilitati-va/sanitaria, assistenziale, educativa, legale, e così via, con una pluralità diriferimenti frammentaria, raramente integrata, mai totale. Il concetto di 185

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presa in carico, nei suoi elementi più alti, designa «il processo integrato econtinuativo attraverso cui deve essere garantito il governo coordinato del-l’insieme degli interventi sulle condizioni che ostacolano l’inserimento so-ciale, scolastico e lavorativo, e inteso a favorire il più completo dispiegarsidella personalità dei singoli individui» (Gabriel Levi). Nella realtà, a tutt’og-gi, la presa in carico si traduce nella somma di prese in carico, ovvero «nel-l’apertura di cartelle», sanitarie, educative, socio assistenziali, e così via.

Al momento dell’evento la famiglia si ritrova, come è stato detto, a con-frontarsi con parole nuove e con nuovi soggetti, fino ad allora sconosciuti oquasi, che inizialmente sono da riferirsi quasi esclusivamente all’ambito sa-nitario/riabilitativo.

In alcune realtà territoriali, prime fra tutte la Città di Torino, oltre agli in-terventi sanitari sono previste forme di assistenza, e servizi comunali chehanno il compito di affiancare la famiglia con supporti specifici e mirati, tra-mite azioni di sostegno rivolte sia al bambino disabile sia al suo nucleo: l’at-tenzione posta al «problema» non riguarda esclusivamente il versante me-dico, e la risposta non è unicamente di cura. La Città di Torino, pur con li-miti e difficoltà, ha da tempo compreso che, quando si parla di bambino di-sabile, la presa in carico riguarda innanzitutto la famiglia, perché da essa di-pende il futuro del bambino.

A Torino, quindi, una famiglia a cui è appena nato un bambino con han-dicap può fare riferimento agli interventi riabilitativi, all’assistenza sanitaria,ai servizi collegati alla medicina legale, alle attività della neuropsichiatria in-fantile (in campo sanitario), alla consulenza educativa domiciliare e, se è instruttura sanitaria, al gruppo giochi degli ospedali (da parte comunale).

Isolamento e rischio di povertàL’esperienza, ancora una volta, evidenzia uno scollamento tra risorse,

offerte, risultati attesi e ottenuti, perché la presa in carico riguarda solo ilproblema dell’handicap, non gli sconvolgimenti e le trasformazioni chequesto ha prodotto. L’approccio è quello professionale e terapeutico, dovec’è poco posto per accogliere il senso di solitudine e l’enorme travaglio inte-riore. Spesso una madre si ritrova sola nell’educazione e nella cura del figlio,perché il padre si ritaglia una parte marginale, volta all’esterno, agli impegnilavorativi. Sono lacerazioni che una coppia si porta dietro, più o meno si-lenziosamente, nel corso degli anni, e riemergono quando alle persone, co-me avviene, ad esempio, nei gruppi di auto aiuto, viene offerta la possibilitàdi parlare di sé stesse.

Il senso di solitudine può riguardare la famiglia anche nelle relazionicon l’esterno, che spesso si riducono drasticamente, per diversi motivi: difronte ad un grande dolore, si preferisce interrompere il circuito delle re-lazioni; a torto o a ragione, «non ci si sente capiti»; fare attività socializ-zanti con un figlio disabile è difficile, e spesso considerato imbarazzante.Non è facile convincere le persone che può essere «normale» cercare piz-zerie, case, cinema accessibili; che gli «sbavamenti» possono non creareproblemi, che le domande insistenti, a volte noiose e ripetitive, si possonotollerare. Questa famiglia, nel corso del tempo, è condannata a rimaneresola, e, se fortunata, può contare esclusivamente sui legami parentali. Daun lato, a livello formale, una famiglia conta su una sequenza di servizi,186

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non sempre integrati e con lacune spesso evidenti; dall’altro, a livelloinformale, vede che i rapporti di amicizia si diradano, la qualità delle rela-zioni parentali si trasforma, disgregandosi o stringendosi come una mor-sa eccessivamente solidaristica. In ogni caso, il bambino disabile e la suafamiglia vivono in una sorta di campana di vetro, che taglia fuori tutta lavarietà delle relazioni.

In alcuni casi, poi, la madre rimane letteralmente sola, perché la coppianon resiste all’evento. È una madre che difficilmente conserva il proprio po-sto di lavoro; una donna che, come conseguenza diretta, rientra nelle fascedeboli della popolazione, e smette di essere socialmente competitiva, rien-trando in una condizione di povertà economica, culturale e affettiva.

La solitudine Partendo dal presupposto che la disabilità, intesa nella accezione con-

sueta (mentale, fisico-motoria e sensoriale), è un evento inaspettato, nonprevedibile, che può colpire qualsiasi individuo appartenente a qualsiasiceto sociale, fuori di condizioni economiche e socio culturali specifiche, èdifficile stabilire la «famiglia tipo» cui appartengono le persone disabili. Ibambini con handicap hanno genitori di tanti tipi, come tutti i bambini; ciòche fa la differenza sono le risorse, economiche e culturali, che il nucleopossiede, per rispondere efficacemente ai problemi, senza schiantare difronte all’evento. Se la qualità della vita dei bambini è strettamente connes-sa alla qualità espressa dalla loro famiglia, ciò è tanto più vero per un bam-bino disabile, perché la famiglia di tale bambino, e soprattutto la madre, sa-ranno l’unico suo vero punto di riferimento affidabile e certo. Un riferi-mento che durerà per anni e anni, anche quando la madre invecchierà esarà stanca.

Attualmente il maggior numero delle famiglie denunciano una grandesolitudine sociale, accompagnata da emozioni parallele, quali la depressio-ne e il pessimismo, per le quali spesso non c’è risposta, nè la somma delleprestazioni riesce a colmare. Ma un bambino che convive con queste emo-zioni può essere un bambino integrato?

La famiglia di un bambino disabile cerca di farcela sempre da sé, rara-mente delega la cura e la crescita del proprio figlio ai servizi. Questo è di-mostrato dall’esperienza, dalla realtà dei servizi e dagli studi statistici.Secondo i dati forniti dalla Regione Piemonte, nella provincia di Torino visono solo 18 minori disabili inseriti in presidi socio assistenziali, di età com-presa tra i 14 e 18 anni: si tratta di ragazzi con insufficienza mentale gravis-sima, ospitati, per le loro condizioni, all’interno di Istituti. A questo numerosi può sommare il dato regionale che riguarda l’affidamento familiare, e siarriva a 27 casi nella provincia di Torino di minori disabili allontanati dallafamiglia. Il confronto con altri numeri giustifica l’affermazione che vedenella famiglia un elemento centrale, sempre presente, che raramente «ab-bandona» il figlio disabile. Semmai, all’opposto, la famiglia vive per tutta lasua esistenza con il fantasma dell’abbandono, della delega ad altri; temequesta eventualità, la evoca con grandi sensi di colpa. Solo negli ultimi tem-pi, da parte di alcune famiglie più coraggiose, ci si è posti il problema del«dopo di noi» come fatto che va gestito «durante noi». Stanno emergendotentativi di strategie e soluzioni. 187

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Famiglia e serviziLa realtà mostra quanto le famiglie siano restie a richiedere l’intervento

dei servizi sociali. La famiglia tende a ritardare questo momento, sperando,da un lato, di poter reggere autonomamente l’impegno necessario per oc-cuparsi di una persona disabile; cercando, dall’altro, di evitare una condi-zione che viene percepita come stigmatizzante. Ciò significa, in altre parole,che quasi sempre una famiglia si «rimbocca» le maniche e cerca di fare dasé, perché pensa di potercela fare, vuole a tutti i costi farcela. E soprattuttoperché andare ai servizi sociali a chiedere aiuto, significa collocarsi nelle co-siddette fasce deboli, diventare utenti, veder aprire una cartella in cui si rac-colgono anamnesi, diagnosi, fotocopie di certificati e dichiarazioni dei red-diti, dove c’è poco spazio per dolori e solitudini. Aspetti non sempre deside-rabili e desiderati. Una famiglia che vive una condizione di solitudine edesclusione, come è la famiglia di un bambino disabile, non vuole sentirsi an-che «marchiata», e cerca di ritardare tale momento, che quasi sempre coin-cide con la fine della scuola dell’obbligo.

Quando ciò accade, la stessa famiglia si ritrova effettivamente sola a nonsaper cosa fare. Per i ragazzi con insufficienza mentale, si apre la lista d’at-tesa per l’ingresso ai Centri Socio Terapeutici (C.S.T), ai Centri di LavoroGuidato (C.L.G), ai Centri di Attività Diurna (C.A.D), ai molti laboratori e co-sì via. Per i ragazzi con disabilità motoria o sensoriale poco si sa, se non at-traverso la scuola e i servizi che si occupano di inserimenti lavorativi.

I fratelli e le sorelleMaggiori considerazioni meriterebbero anche i fratelli e le sorelle. Si po-

ne troppa poca attenzione a queste figure parentali, nonostante i ruoli svol-ti. In molti casi, a loro viene chiesto, più o meno esplicitamente, di occupar-si dei fratelli non solo mentre i genitori sono in vita, ma, soprattutto, quan-do non saranno più vivi. Sono «vite ipotecate», di cui si sa troppo poco persostenere qualsiasi cosa: una realtà scarsamente visibile e poco sostenuta.

Dalla parte dei servizi

Presidi, affidamenti, comunità familiariPer vari motivi può accadere che una famiglia non ce la faccia, e allora per

il bambino si apre la sofferenza dell’allontanamento. Le soluzioni, nel corsodegli anni, si sono progressivamente orientate verso servizi con caratteristi-che le più vicine possibili al modello familiare: agli Istituti si sono preferite lecomunità alloggio. Nella realtà, vi sono ancora diversi minori ospitati all’in-terno di «case protette», nei casi di insufficienze o di malattie mentali gravis-sime. Questi Istituti hanno utenti le cui rette sono in convenzione con le ASLdi tutta Italia e, quindi, sono sparsi su tutto il territorio nazionale.

Alcuni di questi minori non sono stati inseriti attraverso i servizi sociali,ma direttamente dall’ASL: la verifica su questi casi è molto complessa, es-sendo i dati sommersi e difficilmente reperibili. Negli ultimissimi tempi sista assistendo alla trasformazione di alcuni presidi in Centri diRiabilitazione. In risposta alle necessità riabilitative dei disabili gravissimi,potrebbe così aumentare il numero dei minori inseriti in tali strutture, umi-188

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liando i bisogni di umanizzazione e di legami significativi che tutti gli indi-vidui hanno.

I servizi sociali, come è stato detto, sono sempre più orientati a favorirela permanenza dei minori, anche disabili, all’interno del proprio nucleo fa-miliare. Uno strumento importante è l’affidamento familiare, diurno o resi-denziale. Nel caso dei bambini disabili, gli affidamenti residenziali realizza-ti sono pochissimi (a Torino circa una decina; inoltre, su una lista d’attesa dicirca 60 bambini 3 sono disabili); alcuni riguardano bambini piccoli e av-vengono tramite gli Ospedali cittadini. In questo caso, più che di affida-menti familiari, si tratta di «adozioni mascherate», in quanto quasi nessunodi questi bambini tornerà mai in famiglia. Il problema del «dopo di noi» èanalogo sia per una famiglia d’origine sia per una famiglia affidataria; per-ché quest’ultima dovrebbe impegnarsi in un affidamento che dura tutta lavita e ipoteca anche la morte? Probabilmente, se si cominciassero a trovaresoluzioni più adeguate, qualche famiglia in più potrebbe candidarsi a pren-dere in affidamento minori disabili, con la tranquillità che una volta, diven-tati anziani, «qualcosa accade».

Come strumenti di sostegno per le famiglie affidatarie, sono stati attiva-ti dal 1996 i gruppi di sostegno e successivamente quelli di auto-mutuo aiu-to. Attualmente i gruppi rivolti alle famiglie affidatarie sono così articolati:

❖ Gruppi informativi: si occupano dell’accoglienza, dell’orientamentoe dell’informazione delle famiglie candidate all’affido;

❖ Gruppi misti e di sostegno, nei quali le famiglie che hanno già allespalle una lunga esperienza affiancano le famiglie appena arrivate al-l’affidamento. Tale aiuto si realizza attraverso il confronto, la valoriz-zazione, il supporto reciproco e la ricerca di strategie per affrontare ledifficoltà;

❖ Gruppi di auto mutuo aiuto, nei quali la presenza di un conduttorenon è più necessaria.

Un’altra esperienza interessante, come tipo di risposta residenziale, è laComunità familiare. Essa ha la caratteristica di essere gestita all’interno diun nucleo familiare esistente, che può ospitare non più di 4 minori. Anchein questo caso il modello di riferimento è quello familiare, e il tentativo è direstituire al minore delle condizioni di vita affettiva e relazionale equilibra-te e soddisfacenti. A Torino vi sono 10 comunità familiari, e in 3 di queste so-no ospitati bambini disabili. I racconti degli operatori restituiscono l’ideadell’estrema importanza e validità, riconoscibile e misurabile, dei risultatiottenuti.

I «buchi»Si registrano gravi carenze di intervento e offerta rispetto ad alcune tipo-

logie di handicap (gravi, gravissime, pluriminorazioni, borderline ecc), diservizi (di socializzazione, per le situazioni di emergenza, ecc) e fasce di età(0-6 anni,14-18 anni).

Queste carenze, o la cattiva organizzazione delle risorse esistenti, metto-no in grave difficoltà i servizi e gli operatori. Non c’è niente di più doloroso 189

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di non poter trovare risposte adeguate a situazioni di grande malessere.L’impotenza, il «senso di colpa» e la frustrazione sono alcuni dei sentimentiche spesso serpeggiano tra gli operatori, i quali fanno fronte come possono,e quanto le condizioni attuali dei servizi consentono.

Le informazioniCome è stato detto, i numeri attualmente diffusi sono piuttosto parziali,

poiché provengono in maniera disorganica dai diversi servizi e campi che«prendono in carico» i bambini disabili: la sanità attraverso la neuropsi-chiatria e i servizi di riabilitazione; l’istruzione, tramite le insegnanti di so-stegno, l’assistenza grazie agli interventi rivolti alla famiglia, i trasporti, ecc.

Va precisato che i dati maggiormente reperibili riguardano il campo del-l’istruzione, perché essi spesso fanno riferimento alle insegnanti di sostegnoe al rapporto numerico tra queste e i bambini disabili: informazioni oggetti-vamente reperibili e quantificabili. Ma come è stato detto, sono informazio-ni frammentate, che non dialogano tra loro; nessuno cerca di seguire le trac-ce di questi numeri, e da soli essi non restituiscono il senso degli interventi.

Uno dei problemi più sentiti, da chi si occupa della programmazionedelle azioni e degli interventi in ambito sociale, è capire qual è la distribu-zione dei sostegni, ovvero «chi fruisce di cosa», per comprendere se esisteuna distribuzione equa delle offerte, o se, al contrario, ci sono persone chegodono di molti servizi e altre che hanno poco o niente. Il sospetto è che siaabbastanza diffusa la seconda eventualità. Quando si cerca di quantificaregli sforzi che l’assistenza produce nel campo dei servizi, si scopre che non èraro imbattersi nell’assenza di numeri certi, perché gli operatori sono abi-tuati a lavorare nell’emergenza e nella routine, restando lontani dai concet-ti di verifica e misurazione.

Integrazione e lavoro di reteIl problema della classificazione e delle definizioni (v. il paragrafo 5.2),

specularmente si ricollega al problema dell’inadeguatezza terminologica edè causa di una condizione di disagio e difficoltà, avvertibile nelle strategie enelle azioni di welfare locale. Stabilire se un utente è una persona «da cura-re» o «da assistere» significa riconoscere una diversa titolarità progettuale egestionale.

In una situazione in cui, sempre più, le persone possono essere utenti diservizi diversi, il modello legislativo e gestionale che si sta affermando pre-vede l’integrazione. Tale termine compare nel titolo della Legge 328/00(«Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e ser-vizi sociali»), e il riferimento a tale concetto è forte e ripetuto, a dimostra-zione della necessità imprescindibile di operare in tal senso. È chiaro a tuttiche, viste le difficoltà e le complessità che si determinano dal rapporto bi-sogni/offerte, è indispensabile pensare e offrire un sistema integrato di in-terventi e servizi. Ma all’interno di tale concetto sono impliciti problemi enodi di gestione ancora in gran parte da risolvere. Tali ostacoli sono denun-ciati sia dagli utenti, che spesso sono ostaggio delle incertezze, sia dagli ope-ratori che, pur con tutte le buone intenzioni, affrontano le stesse difficoltàstando dall’altra parte «della barricata».

Questo si evince dalle relazioni dei vari gruppi di lavoro integrati. Un190

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esempio è evidenziato nel testo redatto dai Gruppi di Lavoro InterdivisionaliProvinciali dei Provveditorati agli Studi - G.L.I.P. («Relazione annuale alParlamento sullo stato di attuazione delle politiche per l’handicap in Italia -1999») dove, tra i diversi problemi aperti, concernenti l’integrazione scola-stica, si segnalano:

❖ la scarsa diffusione della stipula di accordi di programma❖ la riorganizzazione amministrativa e funzionale delle A.S.L., la scar-

sità di organici del personale socio-sanitario chiamato a collaborarecon l’istituzione scolastica, ai fini della stesura della D.F., del P.D.F. edel P.E.I.

❖ la disomogeneità della compilazione delle D.F. da parte dei distrettiA.S.L.

❖ la diversità di linguaggio tra operatori della scuola, ASL ed Enti Locali,che ostacola una comunicazione efficace, finalizzata al coordina-mento degli interventi

❖ l’individuazione di sistemi integrati per la circolazione delle informa-zioni, affinché queste raggiungano tutte le persone interessate allaproblematica dell’handicap e specialmente le famiglie; più in gene-rale, la scarsa diffusione delle conoscenze circa le problematiche del-l’handicap e del disagio

❖ l’integrazione scolastica difficile di alunni con handicap di particola-re gravità

❖ la mancata rimozione di quanto ostacola un pieno esercizio del dirit-to allo studio (trasporti, abbattimento delle barriere architettoniche).

Tra le varie proposte, le principali riguardano:❖ l’integrazione degli alunni con handicap sensoriale❖ il coinvolgimento di tutte le figure professionali interessate all’inte-

grazione scolastica❖ il collegamento tra scuola e lavoro❖ la diffusione delle esperienze positive maturate e delle buone pra-

tiche❖ l’attivazione di un servizio di consulenza nelle scuole❖ il collegamento in rete.

Contenuti assai analoghi sono segnalati da operatori del Comune diTorino, all’interno della Ricerca esplorativa sui servizi per l’infanzia (a curadelle Divisioni Servizi Socio Educativi, Servizi Socio Assistenziali e SettoreGioventù - 1998/99). Tra gli aspetti «a rischio» si segnalano:

❖ un basso livello di integrazione tra i progetti❖ un non sempre presente coordinamento tra progetti che attengono

allo stesso ambito di intervento, e il rischio di dispersione degli inve-stimenti

❖ la carenza di precisi elementi quantitativi, relativamente ai costi, aidestinatari, alla durata e alle risorse impiegate

❖ la difficoltà nel fornire indicatori di trasformazione sociale. 191

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Tutto ciò denuncia un’evidente distanza tra l’intenzione e lo stato del-l’arte. È ancora presente il problema delle suddivisioni delle competenze,che penalizza operatori, persone disabili e famiglie e che, probabilmente, vaaffrontato da altri punti di vista. Si potrebbe sostenere che la somma delleprestazioni non fa un intervento integrato, e, soprattutto, non si traduce insoddisfazione per l’utente.

L’inserimento socialeQuesto concetto è collegato al precedente, perché un sistema integrato

dei servizi dovrebbe produrre come effetto la piena integrazione dell’indivi-duo e del suo nucleo familiare. È ovvio che, vista la difficoltà a procedereverso una integrazione dei primi, diventa difficile pensare a grandi progres-si rispetto al resto. Si dovrebbe smettere di «parlare di» integrazione per«agire la» integrazione, producendo quotidianamente gesti e pensieri volti agenerare normalità nell’accezione più evoluta e generosa. L’integrazione so-ciale è un aspetto, per certi versi, ancora più complesso dell’integrazione or-ganizzativa, ma, in ogni caso, passa attraverso le risorse dell’individuo, lespecificità del nucleo familiare e del contesto sociale di riferimento. Dai rac-conti delle madri di bambini disabili con età diverse, si capisce che molti so-no stati gli sforzi e i cambiamenti prodotti in ambito scolastico: ad esempio,i bambini disabili ora frequentano tutti le scuole dell’obbligo e non più iCentri Educativi Speciali. Ma, sempre nei racconti, emerge un quadro pocorassicurante per ciò che concerne altri aspetti.

Le scuole, soprattutto quelle che ospitano le medie inferiori e superiori,sono piene di barriere architettoniche, e i bambini con la carrozzella e le lo-ro famiglie frequentemente sono costretti a fatiche e mediazioni inimmagi-nabili, per cui la scelta della scuola spesso è determinata esclusivamentedalla accessibilità dell’edificio scolastico. Le barriere architettoniche sonopresenti, oltre che in molte scuole, nella gran parte degli edifici sportivi pub-blici, nei cinema (a Torino solo 13 sale su 44 hanno sale e bagni accessibili),nelle strutture alberghiere e così via.

Può accadere che un ragazzino non frequenti attività di laboratorio per-ché, mentre l’aula è stata ospitata al piano accessibile, i laboratori spesso so-no localizzati in spazi «di risulta» o in seminterrati, comunque non trasferi-bili; quindi lo stesso ragazzino è «integrato» in situazioni alterne, a secondadelle attività da svolgere.

La presenza di insegnanti di sostegno garantisce un supporto durante leattività scolastiche, ma che ne è delle attività extrascolastiche? Attualmentequeste ultime rappresentano gran parte delle attività di socializzazione deibambini, e proprio in questi frangenti i bambini disabili e le loro famiglie siritrovano spesso soli ed esclusi. Quando un bambino disabile racconta ilproprio tempo libero, le proprie attività sportive, le proprie vacanze, cosanarra, quali emozioni condivide con i suoi compagni di classe? Come sonole vacanze estive di una famiglia con un bambino disabile? Non in albergo eneppure in campeggio; in alcuni casi la famiglia, se ha le possibilità econo-miche, va in appartamento, finché il bambino è piccolo e la sua disabilitànon è troppo evidente e faticosa. I problemi emergono quando il bambinocresce, e i suoi bisogni e le sue difficoltà anche, soprattutto se la condizionedi handicap è grave.192

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Molte famiglie non vanno in vacanza con il proprio figlio perché nontrovano la struttura accessibile, e/o adatta o disponibile ad ospitare ragaz-zi con tali problemi. Poiché l’assistenza di un ragazzo con handicap moto-rio o mentale grave è faticosa, spesso la famiglia preferisce stare in città,dove almeno può godere di alcune forme di aiuto. L’assistenza fuori cittànon è quasi mai prevista e la si deve pagare. Gli unici casi in cui si osserva-no vacanze congiunte è quando un genitore, quasi sempre la madre, ac-compagna il proprio figlio presso un centro di riabilitazione convenziona-to con l’ASL; in tal caso le spese del ragazzo sono interamente a caricodell’Azienda sanitaria e l’onere a carico della famiglia è quello dell’accom-pagnatore. Le vacanze diventano momenti di separazione tra il bambinodisabile e la famiglia, il primo perché partecipa ai soggiorni estivi, la se-conda perché «tira il fiato».

Ma la quotidianità per un bambino con handicap e per la sua famiglianon riserva emozioni tanto diverse. Si è pensato che organizzare iniziativeche promuovono l’integrazione dovrebbe generare una crescita culturale intale direzione: è così, ma parzialmente. Per i bambini che frequentano lescuole medie inferiori, l’offerta istituzionale delle iniziative extrascolastichescarseggia, il Terzo settore è meno impegnato. Per i bambini da 10 a 14 annisi apre una fase esistenziale piuttosto faticosa e dolorosa, dove essi toccanocon mano il senso dell’esclusione; soprattutto per i ragazzi con handicapmotorio, sensoriale e mentale grave, il concetto di barriere architettonicheassume un significato davvero pregiudiziale.

Allora che ne è stato di tutto il processo di integrazione scolastica? Ditutti gli sforzi per promuovere una cultura attenta alle differenze e alla so-lidarietà, fatti negli anni scolastici precedenti alla scuola media inferiore?Forse, anche in questo caso, oltre a proposte mirate, si dovrebbe avviareuna prassi più democratica, dove le iniziative prevedono «geneticamente»l’integrazione, ovvero non producono esclusione. Così, ad esempio, lestrutture sportive dovrebbero essere accessibili a tutti (disabili, anziani, cit-tadini con difficoltà motorie temporanee, ecc); al loro interno dovrebbe es-sere previsto l’intervento di insegnanti preparati ad allenare anche ragazzicon handicap; si deve immaginare la presenza di attività speciali fruibili daiminori disabili.

Nuove risorse per l’integrazione

Molti bisogni, che emergono dalle famiglie, poco hanno a che fare con ladimensione istituzionale. Ciò significa che la maggior parte delle rispostepossibili non riguardano le istituzioni, e non implicano necessariamenteun’ulteriore offerta di servizi. È probabile che ciò che si deve attivare sonorisorse meno formali, legate direttamente all’esperienza, in grado di sinto-nizzarsi meglio con le esigenze espresse o sottese dai genitori. Vediamo al-cune necessità di frequente espresse.

InformazioneNon solo sportelli informativi, ma soprattutto processi informativi at-

tenti ai loro linguaggi. È stato detto come gli operatori utilizzano codici lin- 193

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guistici diversi da quelli usati dalle famiglie. Perché una informazione arri-vi correttamente al destinatario, il codice linguistico e i canali di trasmis-sione utilizzati devono essere adeguati. Sono soprattutto le famiglie deibambini più piccoli che necessitano di tali attenzioni, perché sono più con-fuse, devono imparare tutto, si deve interrompere da subito il «cerchio del-la solitudine». Il problema dell’informazione riguarda soprattutto il Terzosettore, che, da questo punto di vista, registra un certo ritardo rispetto allapubblica amministrazione. Le associazioni di volontariato faticano a divul-gare le informazioni fuori dai propri circuiti associativi (bollettini e perio-dici, assemblee, passaparola, ecc). Sono ancora poche le realtà associativeche presentano le proprie attività su Internet, e la maggior parte dei siti al-lestiti sono «di vetrina» più che «di servizio». Ancora oggi esempi quali i si-ti della UILDM (Direzione Nazionale, Handylex, Handylink) sono esperien-ze rare, che molto possono insegnare nell’ambito dell’informazione tele-matica. Anche i call center possono svolgere una importante attività di sup-porto da un punto di vista informativo. È decisivo insistere sul valore del-l’informazione e della comunicazione, perché è fondamentale che i cittadi-ni diventino preparati e consapevoli; la qualità dei servizi dipende anchedalla qualità della domanda: buone domande obbligano a buone risposte(Scheda E).

Scheda E – Domande archiviate dall’Informa Handicap cittadino(gennaio - aprile 2001)

194 segue

1. Richiesta inoltrata dalla madre, di affiancare bambino autistico di 7 anninelle ore pomeridiane (16.00-18.00) da lunedì al venerdì, dopo la scuola

2. Richiesta di informazioni per ottenere abbonamento Atm per un bambinocon lieve insufficienza mentale di 10 anni

3. Bambino distrofico che frequenta il primo anno della scuola media infe-riore ha problemi di barriere all’interno dell’edificio scolastico

4. La mamma di una bambina cerebrolesa chiede qual è la procedura per ot-tenere l’esenzione del bollo auto

5. Mamma di bambino di 9 anni ammalatosi a 8 compiuti chiede informa-zioni e consulenza per l’inoltro di richiesta di aspettativa. La signora è di-pendente del Comune di Torino

6. Richiesta di informazioni e consulenza per ottenere pensione di invaliditàe di accompagnamento per una bambina di 11 anni affetta da osteogenesiimperfetta

7. Richiesta di un sostegno extrascolastico per un bambino di 11 anni con in-sufficienza mentale, anche a pagamento

8. Mamma di bambino con tetraparesi spastica di 7 anni che ha problemi dibarriere all’interno della propria abitazione

9. Richiesta di informazioni sulla accessibilità delle scuole elementari vistoche quella di zona è inaccessibile per la figlia

10. Mamma con figlia affetta da tetraparesi spastica distonica chiede informa-zioni sulla possibilità di richiedere il periodo di aspettativa di due anni re-tribuito.

11. Chiede, inoltre, qual è la procedura per ottenere l’esenzione del bollo auto

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Le richieste pervenute all’Informa Handicap della Città di Torino mo-strano alcuni bisogni informativi comuni, i cui contenuti sono riferiti:

❖ al trasporto e alla mobilità❖ alle barriere❖ all’assistenza diretta (con l’utilizzo di periodi di astensione e di per-

messi lavorativi) o con il sostegno di altre persone❖ all’assistenza economica e alle agevolazioni fiscali❖ alle attività sportive

Altri elementi possono così essere sintetizzati:❖ le richieste provengono in numero superiore dalle madri❖ le fasce di età interessate riguardano, prevalentemente, la scuola del-

l’obbligo (sopra i 6 anni)❖ le patologie sono variamente rappresentate, e sono, inoltre, presenti

anche situazioni di patologie rare ❖ quasi la totalità delle domande riguardano la possibilità di ottenere

servizi, prestazioni e agevolazioni.

Cittadinanza ed empowermentDifficilmente invece la «logica» della richiesta muove in un contesto di

cittadinanza attiva, o comporta un modo diverso di utilizzare la propriacompetenza. I genitori dei bambini disabili frequentemente pensano chel’unico modo per raggiungere l’integrazione possa realizzarsi attraverso ilreclamo dei propri diritti. In tal modo, le attività delle associazioni diventa-no di pura rivendicazione, e la progettualità e la creatività dei singoli vengo-

12. La mamma di un Bambino distrofico di 12 anni chiede informazioni sulleattività sportive frequentabili da bambini disabili in Città di Torino

13. La mamma di una bambina con tetraparesi spastica di 8 anni chiede qua-li piscine sono accessibili a Torino

14. Il papà di un bambino di 3 anni chiede qual è la procedura per ottenere ibuoni per il trasporto

15. Il papà di una bambina affetta da spina bifida chiede informazioni per ot-tenere i permessi previsti dalla L.104

16. Richiesta di informazioni per ottenere abbonamento ATM per un bambi-no con lieve insufficienza mentale di 13 anni

17. Richiesta di informazioni per ottenere assegno di accompagnamento perun bambina di 12 anni con trauma cranico

18. Richiesta di affiancare bambino psicotico di 11 anni nelle ore pomeridiane(16.00-18.00) da lunedì al venerdì, dopo la scuola

19. Permesso di transito e sosta per l’auto di un papà con bambino di 9 anniinsufficiente mentale e disabile motorio

20. Richiesta di una madre con bambina con disabilità mentale gravissima dipoter richiedere l’aspettativa retribuita per il periodo di due anni. La si-gnora lavora in un Ospedale Cittadino

21. Una educatrice chiede informazioni su iniziative di supporto alla famiglia,una collega ha partorito un bambino con sindrome di Down

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no sacrificate. È importante invece che le persone, allorché imparano ad es-sere più abili ed esperte, decidano di mettere a disposizione della propriacomunità tali competenze.

Il concetto si collega direttamente al processo di empowerment.Quest’ultimo si costruisce intorno al pensiero del «prendere in mano» lapropria vita, imparare a comprendere la propria condizione, per essere ingrado di attivare autonomamente soluzioni capaci di prospettive positive. Sitratta di uscire da una condizione sociale che delega la responsabilità delproprio benessere solo a figure professionali, in un rapporto di curato/cu-rante. È un modo per riappropriarsi attivamente dei propri problemi, tra-sformandoli per sé e per la propria comunità in risorsa.

Auto mutuo aiutoDa intendersi non come obiettivo, ma come strumento utile alle perso-

ne per raggiungere una condizione di sofferenza accettabile. Un dolore co-me quello dell’avere un figlio disabile non può essere risolto; può solo tro-vare punti di equilibrio, che lo rendano più tollerabile. I gruppi di auto aiu-to, per le loro specificità e per gli obiettivi che si prefiggono, possono assol-vere a tale scopo. Possono aiutare le famiglie in momenti particolari della lo-ro vita a promuovere processi di «riconoscimento nel dolore dell’altro», so-lidarietà, empowerment, capaci di interrompere il cerchio della solitudine.Molte fasi caratterizzano tale cerchio: l’evento, la speranza (delusa) dellaguarigione, l’accettazione rancorosa e/o depressa e così via. Il gruppo di au-to aiuto obbliga l’individuo a guardare da altri punti di vista le fasi attraver-sate, tentando di attribuire a queste significati ulteriori, condivisi attraversole esperienze delle altre persone. Le coppie possono ricominciare un dialo-go interrotto, le persone possono sentirsi meno colpevoli, e soprattutto me-no sole. È importante condividere l’idea che il gruppo non è l’obiettivo ulti-mo, ma un utile strumento per imparare altri linguaggi e quindi capitalizza-re maggiori risorse. I gruppi A.M.A. sono utili anche per la marginalità che viassume il «tecnico», e per il superamento del rapporto di dipendenza che siinstaura tra curato/curante.

Insufficienti mentali gravi e gravissimiLa loro cura può uccidere un genitore. Se è vero, come è stato detto, che,

la totalità delle famiglie tiene a casa i propri figli disabili, anche se gravi ogravissimi, non si può pensare che a queste famiglie non si offra mai una oc-casione per «tirare il fiato».

Sono necessari più servizi di «pronto intervento», da intendersi non soloin termini residenziali (posti in comunità alloggio), ma anche domiciliari,programmabili su richiesta. Una interessante offerta di sostegno al nucleo ri-guarda l’affidamento individuale, diverso dall’affidamento presso una fami-glia. Mentre per il secondo è necessaria una valutazione del Tribunale per iminori e dell’U.V.H. (Unità Valutazione Handicap), per l’affidamento indivi-duale non è previsto alcun allontanamento; anzi viene offerto un sostegnoindividuale, secondo un programma riferito al progetto globale d’intervento.Ciò significa che la famiglia può contare su una persona che, per un numeroprestabilito di ore settimanali e per un certo lasso di tempo, svolge una seriedi attività con il minore disabile, concordate progettualmente.

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Tempi dei serviziI tempi delle famiglie con persone disabili non corrispondono ai tempi

delle famiglie «normali». Un problema assilla le famiglie, soprattutto le ma-dri che lavorano: i servizi non rispettano quasi mai i tempi della famiglia.Prevalentemente sono attivi dal lunedì al venerdì, dalle 8,30/9,00 alle 16,00.Questi tempi, già difficili per qualsiasi madre che lavora, diventano impos-sibili per le madri di disabili. C’è da chiedersi come fanno queste donne aconciliare tutti gli obblighi: sempre impegnate a portare i bambini alle atti-vità di fisioterapia e di riabilitazione, alle attività socioanimative e ludiche, ecosì via. È interessante ascoltare i loro discorsi sulla scarsità del tempo.

Tempo libero Uno degli aspetti di maggiore difficoltà riguarda la possibilità per i bam-

bini disabili di «occupare» il proprio tempo libero insieme ad altri bambini,realizzando attività «normali», capaci di sviluppare un processo di integra-zione reale e non surrogato. Come è stato osservato, molte delle richieste diinformazioni, pervenute nei primi sei mesi di apertura dello sportelloInforma Handicap del Comune di Torino, riguardano tale aspetto: sono con-nesse ai temi della mobilità (agevolazioni fiscali, permessi di circolazione eservizi di trasporto), delle barriere architettoniche e dell’accessibilità.

MediatoreLe offerte di prestazione sono molteplici; ma, ammesso che una famiglia

possa attingere a tutte quelle presenti nel territorio torinese, come riesce adistricarsi nei molti linguaggi? A confrontarsi con tutte le figure e le profes-sionalità? Come può ricomporre da sola la frammentazione? Come puòconcretizzarsi un processo di inclusione e di solidarietà, di comprensionedei bisogni e di integrazione dei linguaggi? Forse è necessario un agente ca-pace di catalizzare il processo.

Visti tutti i tentativi voluti dalle istituzioni, e solo parzialmente riusciti,può essere sensato pensare che tale ruolo sia positivamente assunto da per-sone che conoscono il problema, non perché professionisti, ma perché lo vi-vono direttamente. Chi meglio di una madre e un padre con un figlio conhandicap può comprendere le difficoltà di un’altra coppia? Solo una madre«esperta» può mediare e tradurre una realtà difficile, complessa e incom-prensibile, ad una «madre inesperta». Nelle tradizioni contadine le donnepiù anziane avevano il compito di aiutare le giovani ad affrontare le respon-sabilità dell’essere moglie e madre. Oggi tale funzione è surrogata da lettu-re, esperti, corsi preparatori, e dai servizi. Ciò che può funzionare se le diffi-coltà sono circoscrivibili, diventa inadeguato nelle situazioni connesse allanascita di un figlio disabile. La capacità di realizzare autonomamente pro-cessi di problem-solving nelle famiglie a cui nasce un figlio con handicap siriduce drasticamente, perché si è sommersi da una angoscia che non si rie-sce a comunicare. Una persona «esperta», che ha vissuto e vive quotidiana-mente in prima persona quel problema, può riattivare questa abilità.

Il concetto di mediazione è vicino al principio dell’auto mutuo aiuto, ov-vero della funzione terapeutica assolta dalla condivisione delle difficoltà tra«pari». Ma, in questo caso, la prospettiva è di affiancare agli operatori dellefigure «esperienziali» con funzioni di mediazione, catalizzazione e tutoring, 197

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che siano in grado di comunicare e di accompagnare la famiglia inesperta ein difficoltà, fino a che questa non è in grado di sviluppare autonomamenteproprie condizioni di equilibrio.

In conclusione, si deve pensare ad un sistema di cura rivolto alla comu-nità, alle famiglie e agli individui, dove il ruolo delle persone capaci di tra-sferire competenze assume un significato e un coinvolgimento maggiore,fuori e dentro i servizi. Il compito delle istituzioni non deve essere solo quel-lo di moltiplicare la stessa offerta, ma di promuovere offerte differenziate,anche facendosi da parte e lasciando spazio ad una pluralità di risorse.

5.7 Riferimenti

Normativi

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Legge 66/62 Assistenza economica ai ciechi

Legge 482/68 Collocamento obbligatorio

Legge 381/70 Assistenza economica sordomuti

Legge 118/71 Invalidi civili (assistenza economica, sanitaria, protesica, inserimento scolastico)

Legge 517/77 Integrazione scolastica

D.P.R 384/78 Eliminazione barriere architettoniche

Legge 180/78 Riforma psichiatrica

Legge 833/78 Riforma sanitaria

Legge 18/80 Indennità di accompagnamento

Legge 41/86 Eliminazione barriere edifici pubblici

Legge 508/88 Modifiche norme assistenza economica

Legge 13/89 Eliminazione barriere edifici privati

Legge 104/92 Legge-quadro sull’handicap

D.P.R 503/96 Eliminazione barriere edifici pubblici

Legge 285/97 Promozione diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza

Legge 162/98 Modifiche alla legge-quadro sull’handicap

Legge 9/99 Elevamento obbligo istruzione

Legge 17/99 Integrazione e modifica legge-quadro sull’handicap

Legge 68/99 Diritto al lavoro dei disabili

Legge 53/00 Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità

Legge 328/00 Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali

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Bibliografici

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lontariato socio-assistenziale a Torino, TorinoM. Niero, I sistemi informativi nei servizi socio sanitari, in AA.VV., L’organizzazione nel

lavoro sociale, Torino1996Istituto degli Innocenti (per conto del Dipartimento Affari Sociali), Diritto di crescere e di-

sagio - Rapporto 1996 sulla condizione dei minori in Italia, RomaR. Rutigliano, È un problema di informazione, in «DM» n. 129, Padova1997Istituto degli Innocenti (per conto del Dipartimento Affari Sociali), Un volto o una ma-

schera? I percorsi di costruzione dell’identità - Rapporto 1997 sulla condizione del-l’infanzia e dell’adolescenza in Italia, Firenze

1999Atti della Iª Conferenza Nazionale sulle politiche dell’handicap - Liberi di vivere come

tutti. RomaM. Cattai, O. Elia, M. Trovò, L’auto-mutuo-aiuto nella disabilità: percorsi di condivisione

per uscire dall’isolamento e migliorare la qualità della propria vita, tesi di diploma -Scuola Formazione Educatori Professionali, Torino

Comune di Torino a cura delle Divisioni Servizi Socio Educativi, Servizi Socio Assisten-ziali e Settore Gioventù, Ricerca esplorativa sui servizi per l’infanzia presenti sul ter-ritorio cittadino, Torino

C. Ranci, Oltre il welfare state. Terzo settore, nuove solidarietà e trasformazioni del wel-fare, Bologna

2000Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per gli Affari Sociali, Handicap,

Relazione annuale al Parlamento sullo stato di attuazione delle politiche per l’handi-cap in Italia, Roma

2001Provveditorato agli Studi di Torino - Gruppo di Lavoro Interistituzionale Provinciale, La

nostra scuola - orientamenti per un’integrazione consapevole, TorinoSenza dataD. Coero Borga, C. Degiacomi, M. Fabbri, E. Bonisoli, Guida ragionata delle associazio-

ni di volontariato e delle cooperative sociali in Piemonte, Torino

InternetSiti istituzionali (europei e nazionali)

http://www.affarisociali.it (sito del Ministero del Lavoro e dellePolitiche Sociali)

http://www.affarisocialihandicap.it (portale sull’handicap a cura delMinistero del Lavoro e delle PoliticheSociali)

http://www.handicapincifre.it (sito a cura del Ministero del Lavoro edelle Politiche Sociali)

http://www.istat.it (sito dell’Istituto Nazionale di Statistica)http://www.mix.it/eurispes (sito dell’Istituto di studi Eurispes)http://moise.lu/moise1.htm (sito europeo del Progetto MOISE/SO-

CRATES)http://web.tiscali.it/moiseitalia (sito italiano del Progetto MOISE/SO-

CRATES)

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Siti regionali, municipali e reti civiche

http://www.alihandicap.org (sito del Progetto A.L.I. - Regione Pie-monte)

http://www.comune.alessandria.it (sito del Comune di Alessandria)http://www.comune.asti.it (sito del Comune di Asti)http://www.comune.biella.it (sito del Comune di Biella)http://www.comune.novara.it (sito del Comune di Novara)http://www.comune.torino.it/citedu (sito dei Servizi Educativi del Comune

di Torino)http://www.comune.torino.it/pass (sito dell’Informa Handicap del Comu-

ne di Torino)http://www.comune.vercelli.it (sito del Comune di Vercelli)http://intracom.comune.torino.it/assistenza (rete intracom del Comune di Torino)http://www.regione.piemonte.it/sanita (sito della Regione Piemonte)http://www.regione.piemonte.it/sanita/asl01-22 (sito delle Asl 1-22 - Regione Pie-

monte)http://www.necessitaeducativespeciali.it (sito del Provveditorato agli Studi di To-

rino - Necessità Educative Speciali)http://provvbo.scuole.bo.it/insieme (sito del Provveditorato agli Studi di Bo-

logna Settore Integrazione Handicap)http://www.to2000.it/provvto (sito del Provveditorato agli Studi di To-

rino)

Siti delle associazioni, fondazioni e terzo settore

http://dirittoefamiglia.it (sito della Società italiana per lo studiodel Diritto e della Famiglia)

http://users.iol.it/mario.ferrero/home.html (sito della sezione torinese dell’Ass.UN.I.Down)

http://utenti.tripod.it/cristina/ (sito dell’Associazione Nazionale Geni-tori Soggetti Autistici)

http://web.vita.it (sito di informazione sociale realizzatoda alcune delle principali organizzazio-ni del terzo settore)

http://www.aiasmilano.it (sito della sezione milanese dell’Asso-ciazione A.I.A.S)

http://www.aipd.it (sito dell’Associazione Italiana PersoneDown)

http://www.aism.it (sito dell’Associazione Italiana SclerosiMultipla)

http://www.anffas.net (sito dell’Associazione A.N.F.F.A.S)http://www.asphi.it (sito dell’Associazione per lo Sviluppo

di Progetti Informatici per gli Handi-cappati

http://www.centrodown.org (sito della sezione alessandrina del-l’UN.I.Down)

http://www.cottolengo.org (sito dell’Istituto Cottolengo)http://www.dongnocchi.it (sito della Fondazione Don Gnocchi)http://www.fivol.it (sito della Fondazione Italiana Volonta-

riato-FIVOL)http://www.fondazioneruffini.com (sito della Fondazione Ruffini)http://www.minori.it (sito del Centro nazionale di documen-

tazione ed analisi per l’infanzia e l’ado-lescenza)

http://www.parentproject.org (sito dell’Associazione DuchenneParent Project)

http://www.ragainrete.org (sito a cura dell’Associazione A.R.E.A)http://www.tor.it/piccolocottolengo/istituto.html (sito del Piccolo Cottolengo di Don

Orione di Tortona)http://www.uildm.org (sito dell’Associazione UILDM)

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VIVERE IN UN’ALTRA FAMIGLIA

6.1 Premessa

Il contributo fornito in questo capitolo e nel successivo vuole essere unariflessione sulle forme del disagio infantile grave, che comporta l’allontana-mento anche temporaneo dalla propria famiglia e sulle principali risposte (emancate risposte) che riceve. Dopo una sintetica analisi dell’ambiente di ri-ferimento sia a livello socio-familiare che istituzionale e normativo, vengonotrattate alcune delle principali situazioni/problemi, sia negli aspetti quanti-tativi sia in quelli qualitativi, che comportano il rischio dell’allontanamentodal nucleo. Successivamente sono affrontate le principali forme di interven-to (Affidamento/Adozione/Strutture residenziali), individuandone le carat-teristiche, gli attori, gli aspetti di complessità, nonché evidenziando le speri-mentazioni in atto, con particolare riferimento alla realtà torinese. Infine si facenno ad iniziative e servizi consolidati ed innovativi, miranti al sostegno al-la famiglia, sia per evitare il rischio di allontanamento che per favorire il rien-tro. Saranno in particolare trattati gli aspetti di complessità tecnico-organiz-zativa, che condizionano l’efficacia di questi interventi e servizi.

6.2 Aspetti di contesto

Uno sguardo d’insieme

Un’analisi della situazione dei minori, in Italia in generale e nella nostraRegione in specifico, non può non rilevare come ci siano sempre menobambini. Al punto che le persone di età inferiore ai 18 anni presentano untrend costante di decremento in percentuale rispetto alla popolazione tota-le, fino a rappresentare appena il 17,8% della stessa.

Tale fenomeno è parzialmente mitigato da una riduzione inferiore per lafascia 0-14, dovuta ad un arresto del decremento di natalità, grazie soprat-tutto all’immigrazione extracomunitaria, e alla significativa componente dipersone di età inferiore ai 15 anni immigrate. Gli anziani comunque supe-rano i bambini fino ai 14 anni in tutte le regioni del Nord e del Centro, cosìcome sono in continuo calo le famiglie con almeno un figlio minorenne. Ilnumero medio di figli per donna è pari a 1,18, ben sotto alla soglia di fecon-dità necessaria per la «sostituzione generazionale».

Peraltro alcuni indicatori relativi alla salute segnalano una situazionesoddisfacente (diminuzione malattie infettive e ricoveri per gravi malattie,diminuzione morti per cause morbose e altre cause nella fascia 0-14). Per

6

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quanto riguarda i servizi educativi, si riscontrano carenze relativamente ainidi, mentre è soddisfacente la rete delle scuole materne e dell’obbligo. Ladispersione scolastica si attesta su livelli «fisiologici», anche se occorrerebbeapprofondire gli aspetti qualitativi di tali dati. Per esempio, chiedersi se que-sta stabilità è determinata da un aumento degli interventi e della loro effi-cacia, oppure da una diminuzione del livello di competenze richieste: alcu-ne analisi rilevano come gli allievi che hanno ottenuto la valutazione di suf-ficiente al termine del ciclo dell’obbligo rischiano, dopo qualche anno, l’a-nalfabetismo di ritorno. Per quanto riguarda la povertà, la sua incidenza sul-la popolazione tende ad un lieve aumento e colpisce, in particolare, le fami-glie con più di due figli.

Sono in aumento le denunce per violenza sessuale su minori, mentre losfruttamento di minori italiani (al contrario per gli stranieri) sotto i 14 annisembra essere contenuto e non in aumento. Risultano in aumento le sepa-razioni e i divorzi.

Pur esprimendo alcuni indicatori un aumento del disagio (povertà fami-liare, abusi, separazioni e divorzi), in generale la situazione per i minori 0-14anni sembra essere accettabile, o almeno non mostra segni di peggiora-mento generalizzato.

L’ambiente di riferimento

I dati e le considerazioni di cui sopra dovrebbero trovare riscontro in unadiminuzione degli interventi nell’ambito delle situazioni gravi. Al contrario,per esempio a Torino, a fronte di una diminuzione della popolazione mino-rile si rileva un progressivo aumento degli interventi rivolti alle situazioni digrave difficoltà (educativa territoriale, centri diurni, borse formazione lavo-ro, affidamenti diurni, inserimenti in strutture residenziali). Tali interventisono stati 2250 nel ’96, 2460 nel ’97, 2630 nel ’98, 2740 nel ’99, 2754 nel 2000,2806 nel 2001. Il trend di aumento è dovuto non ad un maggior numero dinuovi minori che necessitano di intervento, ma ad un sempre minor nume-ro di bambini e ragazzi che escono dal circuito assistenziale. Ciò è dovuto,oltre a cause connesse alla erogazione dei servizi (delega, induzione, assi-stenzialismo), soprattutto all’aumento della gravità delle situazioni, e alladifficoltà di uscire dai meccanismi di esclusione sociale.

L’ambiente di riferimento, relativamente ai minori in situazioni di gravedisagio personale/sociale e familiare, è caratterizzato da un elevato livello dicomplessità, trasformazione, imprevedibilità. I principali aspetti possonoessere così sintetizzati:

❖ tipologia di utenza con situazioni di deprivazione sociale e culturale,conflittualità intrafamiliare, difficoltà cognitive, progettuali e relazio-nali; tali da richiedere interventi poco standardizzabili, flessibili, per-sonalizzati;

❖ aumento continuo della quantità e multidimensionalità dei problemisociali ed emergere di nuove domande e bisogni (es. tutela minorineonati e piccoli, madri sole in gravi difficoltà, minori extracomuni-tari non accompagnati in condizioni di povertà estrema e di abban-202

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dono e sfruttamento, bambini/e soggetti ad abusi e maltrattamentianche all’interno della propria famiglia);

❖ complessità delle risposte e degli esiti delle stesse. Basti pensare ai ri-schi di delega degli interventi ai servizi da parte delle famiglie, nel ca-so di interventi di sostegno al nucleo quali l’educativa territoriale, e aiconseguenti processi di «assistenzializzazione»;

❖ incertezza sulle risorse disponibili e mobilitabili, e impossibilità di si-gnificative modificazioni delle stesse, a fronte di una domanda siaqualitativamente che quantitativamente crescente. L’esperienza hadimostrato che politiche miranti ad interventi «leggeri», di supportoal nucleo e all’affidamento familiare, non portano all’automatica di-minuzione degli interventi in comunità alloggio, e quindi ad una ri-conversione della spesa;

❖ interdipendenza, relativamente all’efficacia ed efficienza degli inter-venti, tra varie Istituzioni che perseguono obiettivi e compiti diversi(Servizi sociali – Servizi sanitari – Scuola – Autorità GiudiziariaMinorile).Spesso cambiamenti e difficoltà in uno dei segmenti (es.carenze di organico nella neuropsichiatria infantile, ritardi nei prov-vedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile ecc.) comportano signi-ficative ripercussioni per tutto il sistema degli interventi.

6.3 L’allontanamento della famiglia

Aspetti normativi

In questo contesto, l’obiettivo generale delle politiche per i minori in si-tuazione di grave difficoltà, anche in ottemperanza alla normativa vigente,è di favorire al massimo percorsi di autonomia e responsabilizzazione, for-nendo servizi e prestazioni di sostegno e supporto ai nuclei in difficoltà e aibambini e ragazzi presenti negli stessi. Ciò al fine di permettere la perma-nenza dei minori nel proprio ambiente di vita. Qualora, per la gravità dellasituazione familiare, nonostante gli interventi non sia possibile il manteni-mento del minore nel suo nucleo, devono essere attivati interventi di sosti-tuzione, di norma temporanea, della famiglia.

Quanto sopra indicato richiama a due principi fondamentali, sia di di-ritto minorile che deontologici e professionali per chi opera in questo am-bito: Genitorialità e Protezione/Tutela. La legge 184/83 sull’affidamento eadozione e successive modificazioni sancisce il diritto del minore alla pro-pria famiglia, ossia a crescere e ad essere nella stessa educato (art. 1). Lecondizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà nonpossono essere di ostacolo all’esercizio di tale diritto. Lo Stato, le Regioni egli Enti locali sostengono con idonei interventi i nuclei familiari a rischio, alfine di prevenire l’abbandono e consentire al minore di essere educato nel-l’ambito della propria famiglia.

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La L. 176/91, che ratifica la convenzione di New York dell’89 sui diritti delfanciullo, stabilisce l’interesse superiore dello stesso quale diritto soggetti-vo. Infatti l’art. 3 comma 1 recita: «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, dicompetenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, deitribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interessesuperiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente». All’art. 9comma 1 si stabilisce che: «Gli Stati parti vigilano affinché il fanciullo nonsia separato dai suoi genitori contro la loro volontà, a meno che le autoritàcompetenti non decidano, sotto riserva di revisione giudiziaria e conforme-mente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessa-ria nell’interesse preminente del fanciullo». L’art. 20 comma 1 e 2 prevedepoi, che «ogni fanciullo, il quale è temporaneamente privato del suo am-biente familiare, oppure non può essere lasciato in tale ambiente nel suo pro-prio interesse, ha diritto ad una protezione e ad aiuti dello Stato. Gli StatiParti prevedono per questo fanciullo una protezione sostitutiva, in confor-mità con la loro legislazione nazionale».

La citata legge 184/83 e successive modificazioni prevede, quali forme disostituzione della famiglia di origine, l’istituto dell’affidamento familiare,oppure, ove ciò non sia possibile, l’inserimento in una comunità di tipo fa-miliare o ancora in un istituto (ad eccezione dei minori di anni 6). In ognicaso, i ricoveri in istituto per i minori devono essere superati entro il 2006.Sono dichiarati in stato di adottabilità quei minori di cui sia stata accertatala situazione di abbandono morale e materiale da parte dei genitori o deiparenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia do-vuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio. Non c’è causa di for-za maggiore, quando i genitori rifiutano le misure di aiuto e sostegno offer-te dai servizi sociali, e tale rifiuto viene ritenuto dal giudice ingiustificato.

La funzione «vicaria» alla famiglia può essere esercitata in forma direttao consensuale da parte della famiglia stessa. Infatti la legge 184/83 e succes-sive modificazioni prevede affidamenti familiari, a cura dei genitori, pressoparenti entro il quarto grado o altre persone, come prevede affidamenti di-sposti dal servizio sociale locale con il consenso dei genitori. Nel contemponon è escluso l’inserimento diretto, da parte dei genitori, dei propri figli instrutture residenziali. In ogni caso, il legislatore non considera «normali» lecollocazioni eterofamiliari dirette o consensuali, al punto da sottoporle alcontrollo dell’Autorità giudiziaria. Il giudice tutelare rende esecutivo conproprio provvedimento l’affidamento disposto dal servizio sociale con ilconsenso dei genitori. Tale affidamento deve durare al massimo due anni, euna eventuale proroga può essere disposta solo dal Tribunale per i Mino-renni. Al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorennideve pervenire semestralmente, da tutte le strutture residenziali, l’elencodei minori collocati presso di loro, con l’indicazione, tra l’altro, dei genitori,al fine di valutare eventuali situazioni di stato di abbandono.

Il genitore che affida direttamente il figlio, e l’affidatario non parente en-tro il quarto grado che accoglie un minore per un periodo superiore ai seimesi, ne devono dare comunicazione al Procuratore della Repubblica pres-so il Tribunale per i Minorenni.

Se la decisione di «vicariare» le proprie funzioni può essere assunta dal-la famiglia direttamente, o comunque consentita dalla stessa, pur con i con-204

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trolli di cui sopra, l’allontanamento dal nucleo può essere deciso, anchecontro la volontà dei genitori, dall’Autorità giudiziaria minorile. Il nostro or-dinamento, infatti, prevede il diritto/dovere dei genitori ad esercitare la po-testà nei confronti dei figli (art. 316 C.C.) ai fini del loro mantenimento e svi-luppo. Nel caso in cui l’esercizio di tale potestà sia di pregiudizio per i figli,l’Autorità giudiziaria può disporne la limitazione, con provvedimenti di na-tura civile, per la protezione e tutela del minore stesso. In genere per «con-dotta pregiudizievole» di uno o entrambi i genitori nei confronti del figlio, siconsiderano uno o più comportamenti che causano danni fisici, educativi,evolutivi e per la strutturazione della personalità. Tali comportamenti pos-sono assumere sia una valenza passiva (trascuratezza, mancanza di cure)che attiva (maltrattamenti, abuso di mezzi di correzione, abusi). In tali casi,il giudice può adottare provvedimenti idonei, compresi l’allontanamentotemporaneo dal nucleo (art. 333 C.C.) e, nei casi di grave pregiudizio, anchela decadenza della potestà (art. 330 C.C.). Quando i comportamenti pregiu-dizievoli si sommano, sono reiterati, o restano immutati, nonostante gli in-terventi di sostegno, e causano danni spesso irreversibili, si possono confi-gurare gli estremi di «stato di abbandono», quale privazione (attiva e/o pas-siva) di assistenza materiale e morale, di cui alla citata legge 184/83 e suc-cessive modificazioni.

I provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile possono essere assun-ti su autonoma iniziativa, ma, di norma, avvengono a seguito di segnalazio-ne, sia di qualunque cittadino che di pubblici ufficiali o incaricati di pubbli-co servizio. Peraltro i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio(qualsiasi servizio a gestione diretta o in affidamento a terzi da parte di Entipubblici) sono tenuti a denunciare qualsiasi notizia di reato perseguibiled’ufficio di cui vengano a conoscenza nell’esercizio della loro funzione (art.331 C.P.). Occorre infine rilevare come, ai sensi del D.P.R. 616/77, gli Enti lo-cali, in quanto titolari delle competenze socio-assistenziali, hanno la com-petenza circa gli interventi urgenti di protezione e tutela dei minori (art. 403C.C.). Inoltre, ai sensi dell’art. 25 del decreto di cui sopra, i servizi sociali de-gli Enti locali hanno la competenza istruttoria e di esecuzione dei provvedi-menti civili dell’Autorità giudiziaria minorile.

Implicazioni tecnico - professionali

Il quadro normativo brevemente delineato, richiama i principali Istitutie Servizi che «vicariano» la famiglia di origine, in situazioni di grave pregiu-dizio nonostante l’attivazione degli aiuti e supporti di sostegno: Affi-damento familiare / Comunità di tipo familiare / Istituto (forma residuale e«ad esaurimento») / Adozione.

Tale funzione vicaria può essere decisa direttamente dagli esercenti lapotestà parentale, oppure dal Servizi sociali su consenso degli stessi. In talcaso è comunque prevista l’informazione e il controllo dell’Autorità giudi-ziaria minorile. Nei casi di condotta pregiudizievole dei genitori, l’allonta-namento, anche contro la loro volontà, viene disposto dall’autorità giudi-ziaria minorile spesso su segnalazione dei servizi pubblici (in particolare so-ciali, sanitari e, in misura minore, scolastico-educativi). 205

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I Servizi sociali, con l’apporto di quelli sanitari se di competenza, hannopoi compiti istruttori per gli eventuali provvedimenti di esecuzione (es. in-serimento in una comunità alloggio).

Da quanto sopra indicato, si inferisce chiaramente il ruolo centrale deiservizi sociali, relativamente alla segnalazione, al parere e all’esecuzione deiprovvedimenti di allontanamento. La rappresentazione «popolare», chel’Assistente sociale porta via i bambini, ha un certo suo fondamento. Menofondata, anzi quasi sempre sbagliata, è invece l’idea di un «accanimento» daparte dei servizi verso genitori sostanzialmente validi ed adeguati. Sui gior-nali appare solo e sempre la versione degli interessati, né potrebbe essere al-trimenti, per motivi di evidente obbligo di riservatezza e deontologia da par-te degli operatori interessati. Ma nella realtà della nostra Regione in genere,e di Torino in specifico, i servizi di sostegno al nucleo sono talmente capilla-ri e sviluppati da permettere di evitare allontanamenti impropri.

Va detto che il ruolo dei servizi, di segnalazione, proposta ed esecuzionedi interventi sostitutivi alla famiglia, e contro la volontà della stessa, peral-tro obbligatorio per legge, può confliggere con quello, ugualmente attribui-to dalla normativa ai servizi, di sostegno e aiuto alla stessa, per esercitare lecompetenze genitoriali.

La coesistenza in capo allo stesso servizio, e anche agli stessi operatori,di funzioni di sostegno e valutazione/controllo delle competenze genitoria-li richiede l’assunzione di responsabilità e capacità culturali, operative e re-lazionali estremamente complesse, ma ineludibili.

In alcuni casi, per affrontare tale complessità, si sono teorizzate e anchesperimentate soluzioni, quali servizi separati, di aiuto/sostegno e di allon-tanamento. In altri casi, in modo più o meno esplicito, si sono strutturatiruoli diversi all’interno dello stesso servizio: operatore con funzione più diascolto – in genere l’educatore – e operatore con funzioni più normative-sanzionatorie.

In genere, nella realtà che stiamo analizzando, l’esercizio contestualedell’aiuto e della valutazione/controllo è stato ed è esercitato con modalitàdi lavoro di servizio sociale fondate su modelli di approccio integrato (uma-nistico / contrattuale-comportamentale).

Situazioni di rischio

Gli interventi di sostituzione del nucleo familiare interessano pesanti si-tuazioni sociali-relazionali-familiari e di struttura della personalità del mi-nore. Tale fenomeno si può ipotizzare determinato da un aggravamento deimeccanismi di esclusione sociale di alcune fasce di popolazione, e dal falli-mento per le stesse dei processi di integrazione ed inclusione. I fenomeni dicronicità assistenziale ed «ereditarietà» del disagio pesante, trasmesso daipadri ai figli e da questi ai propri figli, sono ben noti agli operatori. Nel con-tempo la cultura dei servizi esclude sempre più il tradizionale utilizzo dellesoluzioni eterofamiliari in senso «preventivo». Ormai più nessun operatoresi sogna di proporre l’inserimento in struttura residenziale di un bambino(«andare in collegio per studiare»), perché possa agevolmente seguire il ci-clo scolastico senza le «perturbazioni» di una situazione difficile.206

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Peraltro tale cultura è avvalorata dalle pressioni di contenimento delbudget che vengono da amministratori e dirigenti, poiché l’inserimento incomunità incide in modo particolarmente significativo, essendo la mediadi costo di una comunità alloggio pari a 80 euro giornalieri per persona.Infine, la rete capillare di interventi territoriali e domiciliari di sostegnopermette il mantenimento nella propria famiglia di minori anche in situa-zioni difficili.

In sintesi, i principali fattori/problemi che possono comportare la neces-sità di collocazione eterofamiliare risultano essere i seguenti: Abbandono /Trascuratezza grave / Abusi sessuali e maltrattamenti / Sfruttamento grave(prostituzione, spaccio) /Tossicodipendenza dei genitori/ Tossicofilia /Problematiche relazionali connesse alla situazione familiare e sociale /Patologie relazionali (v. Scheda A) / Disagio grave e marginalità sociale /Multiproblematicità della famiglia / Deprivazione socio-culturale.

Di seguito affronteremo alcuni aspetti/fattori di rischio per l’allontana-mento che hanno particolare rilevanza, a causa della complessità dei pro-blemi e dei relativi interventi, della gravità delle situazioni, della «novità» delfenomeno, delle storie personali.

6.4 Abusi e violenze

I maltrattamenti

Per abuso e maltrattamento dell’infanzia si intendono: «gli atti e le ca-renze che turbano gravemente i bambini e le bambine, attentano alla lorointegrità corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, lecui manifestazioni sono la trascuratezza e/o lesioni di ordine fisico e/o psi-chico e/o sessuale da parte di un familiare o di terzi» (IV SeminarioCriminologico – Consiglio d’Europa, Strasburgo 1978). I maltrattamenti in-cludono sia comportamenti «attivi», come la violenza fisica, emozionale ol’abuso sessuale, che «passivi», come la mancanza di cure adeguate, tipicadella trascuratezza. Tali comportamenti possono presentarsi come isolati, oassociarsi in diverso modo tra loro, determinando manifestazioni diverse evariabili nel tempo. Il maltrattamento produce una ricaduta sul bambino,con implicazioni per l’evoluzione dello stesso, che vanno direttamente a mi-nare la salute fisica, la sicurezza, l’equilibrio emotivo, lo sviluppo psico-re-lazionale, la stima di sé, il presente e futuro ruolo sociale. Nella storia delmaltrattamento sono comprese evoluzioni gravi, che intaccano la successi-va possibilità dell’adulto, maltrattato nell’infanzia, di stringere legami affet-tivi stabili, e di svolgere un competente ruolo genitoriale.

Il maltrattamento può comportare vari aspetti:

❖ lesioni non accidentali. Di regola queste lesioni vengono riferite co-me accidentali ma alcuni indicatori possono indurre dubbi: ad esem-pio il ritardo nel ricorrere al medico, racconti vaghi e poveri di detta- 207

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glio del fatto, incompatibilità tra tipo di lesione e descrizione dell’ac-caduto, reiterazione di tali «incidenti» ecc.;

❖ trascuratezza grave. Il quadro è quello di alterazioni dello stato gene-rale, ritardi nell’accrescimento staturo-ponderale e dello sviluppopsicomotorio, alterazioni del comportamento associate a segni este-riori di carenze di cura, quali scarsa igiene, inadempienza dell’ obbli-go scolastico ecc. Si possono presentare anche gravi ritardi nel lin-guaggio, nell’apprendimento e nelle «performance» intellettive, pro-blemi comportamentali quali aggressività, irritabilità ecc.;

❖ maltrattamento mentale o psicologico. Si tratta di comportamentidell’adulto, e in particolare dei genitori, di eccessiva rigidità, ricattoaffettivo, eccessiva e ossessiva cura che impedisce l’acquisizione diesperienze autonome e processi di «distacco» dalle figure parentali.Anche in questo caso le conseguenze riguardano deficit dello svilup-po psicomotorio e turbe della condotta. In particolare, possono deri-vare quadri sintomatologici apparentemente opposti: da un lato agi-tazione, iperattività, opposizione e aggressività; dall’altro, depressio-ne, apatia, passività;

❖ abuso sessuale. Consiste nel coinvolgimento di un minore da parte diun partner preminente in attività sessuali, anche non caratterizzateda violenza esplicita.

L’ abuso sessuale

Le norme e i comportamentiPer abuso sessuale si intende qualunque tipo di coinvolgimento in atti-

vità sessuali, anche senza violenza esplicita, di soggetti minorenni ai qualimanca consapevolezza delle proprie azioni e capacità di scegliere.Rientrano, quindi, nell’abuso sessuale all’infanzia, oltre alle pratiche ses-suali che comportano rapporti completi, anche gli atti di libidine e la parte-cipazione attiva o passiva ad atti sessuali tra adulti, in pratica in tutti queicasi in cui non può esservi un libero e consapevole consenso del bambino.

È un fenomeno che si configura sempre come un attacco confusivo e de-stabilizzante alla personalità del minore e al suo percorso evolutivo. L’in-tensità e la qualità degli esiti dannosi derivano dal bilancio tra le caratteri-stiche dell’evento (precocità, frequenza, durata, gravità degli atti sessuali) egli interventi protettivi e riparativi esterni che si attivano. Il danno è tantomaggiore, quanto più il fenomeno resta nascosto e non viene riconosciuto;non viene attivata protezione a livello del contesto primario e nel contestosociale; l’esperienza resta non elaborata e verbalizzata; è forte il legame didipendenza fisica e psicologica dall’abusante.

L’abuso sessuale può avvenire da parte di un adulto o di coetanei al difuori della famiglia. Nella famiglia da parte dei genitori (il caso più frequen-te è quello del padre con la figlia), ma anche di altri parenti prossimi quali ifratelli. Infine l’abuso può collegarsi ad aspetti di sfruttamento, con l’im-missione nel circuito della pornografia e della prostituzione.

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Il concetto di consapevolezza e capacità/possibilità di scegliere è assun-to anche dal legislatore nel distinguere tra reati sessuali a querela e reati pro-cedibili di ufficio, per cui lo Stato è tenuto a perseguire il responsabile a pre-scindere dalla volontà dei privati titolari dei diritti violati. Sono procedibilid’ufficio i seguenti reati sessuali nei confronti di minori:

❖ atti sessuali con persona che al momento del fatto non ha compiutogli anni dieci, da chiunque commessi;

❖ la violenza sessuale, quando ad essere costretta a compiere o subireatti sessuali sia una persona che al momento del fatto non ha com-piuto gli anni quattordici;

❖ la corruzione di minorenni, che consiste nel commettere degli attisessuali in presenza di persona minore di anni quattordici al fine difarla assistere;

❖ gli atti sessuali con persona che, al momento del fatto, non ha com-piuto gli anni sedici, se il fatto è commesso dal genitore, anche adotti-vo, o dal di lui convivente, dal tutore ovvero da altra persona cui il mi-nore è affidato per ragioni di cura, educazione, vigilanza o custodia;

❖ la violenza sessuale commessa da pubblico ufficiale o da incaricatodi pubblico servizio nell’esercizio delle proprie funzioni;

❖ la violenza sessuale di gruppo;❖ i maltrattamenti in famiglia (art. 572 codice penale), tra i quali rien-

tra anche l’abuso a sfondo sessuale.

In ogni caso, anche nei reati procedibili a querela di parte per i minori dietà inferiore agli anni quattordici, è possibile, nel caso di conflitto di inte-ressi tra esercente la potestà e il minore, la nomina di un curatore specialeche sostituisce i genitori nella possibilità di procedere alla denuncia.

È evidente come la legge, tutelando con la procedibilità d’ufficio o la no-mina di un curatore i minori al di sotto di una determinata età, riconoscaquanto gli atti e gli abusi a sfondo sessuale (e non solo la violenza) possanoessere «subdoli». Infatti spesso non sono esplicitamente riconoscibili dallavittima, perché ancora piccola, senza conoscenze specifiche, fiduciosa.Sono perpetrati in un ambiente conosciuto e da persone significative, e lavittima è ricattabile con minacce o affettivamente. «Accennavo a ribellarmi,e allora, avevo ormai quindici anni, oltre a chiedermi di stare zitta, di non di-re niente alla mamma, diede inizio ad una nuova strategia. Lo sai cosa suc-cede se parli – sibilava – la colpa è tua, non farai che aggravare la tua posi-zione. Cominciò a dirmi anche questo, che l’avevo sedotto io. E pian piano mene convinsi anch’io» (Caputo, 1995). Infatti l’abuso sessuale, specie se per-petrato in famiglia, ed incestuoso, in quanto tra parenti prossimi, non è qua-si mai violenza esplicita, o almeno come tale non è percepito dalla piccolavittima. È una violenza consumata nel silenzio, che fa leva sulle asimmetriedi età e di autorità, sulla fiducia e sull’inconsapevolezza, e probabilmenteanche sul timore di non venire credute da parte delle giovani vittime.

Non a caso, le rivelazioni da parte degli interessati avvengono nell’etàpreadolescenziale e adolescenziale, per la maggiore coscienza dei compor-tamenti, e per il desiderio del distacco dalla famiglia proprio di questa età.O per voler proteggere il fratello o sorella minore, rispetto al quale si perce- 209

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pisce possono venir attuati gli stessi comportamenti abusanti. L’inequivo-cabilità di questi comportamenti giunge fino al vero e proprio atto sessuale,che spesso si consuma contestualmente allo sviluppo psico-fisico della vit-tima. «Avrò avuto l’età di circa sette anni quando mio padre, con la scusa chemia madre faceva i turni di notte, mi invitava a dormire nel suo letto. Ricordoche ogni qual volta andavo a letto approfittava nel toccarmi le parti intime.Poi, avevo undici anni, mio padre mi si avvicinava mostrandosi nudo e simetteva nel letto dove ero distesa, inizialmente ha incominciato ad accarez-zarmi la parti intime e sul seno baciandomi sulle labbra. In una successivaoccasione ricordo di aver sentito tanto dolore. Ricordo ancora oggi il rumoredelle ciabatte calzate da mio padre che di notte si avvicinava al mio letto»(storia raccolta in Veneto e citata in «Pianeta Infanzia», 1998).

L’esperienza apre nella vittima ferite profonde, spesso difficili di rimar-ginare, perché in qualche modo rimosse e «spostate», in quanto non solo in-dicibili ma anche impensabili. È una ferita che si aggrava nella solitudine,all’interno del luogo che dovrebbe essere il più sicuro. Dice una ragazza noncreduta dalla madre: «Lui mi ha violentata e tormentata per tutta l’infanzia.Ma mia madre mi ha uccisa» (Caputo 1995)

Alcuni dati statisticiI dati statistici relativi al fenomeno dell’abuso sessuale provengono da

fonti giudiziarie. Essi presentano indubbiamente dei limiti, in quanto nonsono rappresentativi dell’universo del fenomeno, caratterizzato dalla presu-mibile significativa presenza di reati non scoperti o denunciati. Di contro, ilnumero delle denunce può non essere indicativo di un aumento del feno-meno, in quanto tale fatto potrebbe essere letto come segno di maggioresensibilità, attenzione e controllo sociale. I dati ISTAT, tratti dai volumi del-le Statistiche giudiziarie penali, indicano un aumento delle denunce di vio-lenza carnale nei confronti di minori di anni 14 (258 nel ’84 / 305 nel 1996).Per contro, nella regione Piemonte c’è stata una diminuzione, da 25 casi nel’84 a 16 nel ’96. Le violenze sessuali risultano in aumento nel 97 sia in Italiache in Piemonte, per effetto della legge 15 febbraio 1996 n.66 (art. 609 c.p.:violenza sessuale), che sostituisce il vecchio concetto di violenza carnale,comprendendo nel nuovo anche fattispecie delittuose che prima non eranooggetto di rilevazione statistica. Sono 470 in Italia le violenze sessuali de-nunciate contro minori di 14 anni, di cui 30 in Piemonte.

Da una ricerca relativa alle denunce per reati sessuali, sporte a Milano ea Napoli e in quattro Tribunali del Veneto in alcuni anni campione (Terragni,1997) emergono alcuni dati più «disaggregati» del fenomeno. La stragrandemaggioranza degli abusanti ha un’età superiore ai 30 anni. Ciò indica comel’abuso su bambini non avvenga nell’ambito della stessa generazione, masia un comportamento di prevaricazione messo in atto da persone adulte.La maggioranza delle vittime ha un’età superiore ai sei anni: ciò non signifi-ca necessariamente che l’abuso colpisca la fanciullezza e l’adolescenza.Infatti più difficile è la rilevazione e la rivelazione da parte dell’interessato dicomportamenti abusanti nei suoi confronti nel periodo dell’infanzia. Lamaggioranza degli abusi si consuma in ambito familiare o di conoscenti, ecioè in presunti luoghi «sicuri» e da parte di persone di «fiducia». Inoltre lareiterazione e la durata dell’abuso sono tanto più rilevanti, quanto più esi-210

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ste un legame forte, familiare o di conoscenza. Nella maggioranza dei casinon c’è esplicita violenza (minacce, uso della forza, armi). Come di normal’abusante non ricorre a forme esplicite di coercizione, la vittima non mettein atto strategie attive di evitamento. Tali forme avvengono più frequente-mente in ambiti esterni, non quando l’abuso si perpetua un luoghi familia-ri o conosciuti.

In sintesi,dai dati emerge la conferma di quanto espresso dalla letteratu-ra e dalla clinica. Le bambine e le adolescenti presentano una vulnerabilitàmaggiore dei loro coetanei maschi. Il rischio aumenta nel periodo dellapreadolescenza e adolescenza, dove la violazione, in concomitanza con losviluppo, diventa sempre più esplicita e chiaramente «sessuata». L’abuso suibambini tende ad avvenire in luoghi chiusi, da parte di persone conosciute,adulti di riferimento, quali padri, zii, patrigni, che fanno leva sulla fiducia esulla autorità. La violenza commessa da estranei appare più marginale, siain termini quantitativi che di gravità. L’abuso in questi casi tende ad essereepisodico, non assume le forme più gravi, e soprattutto non intacca (perchénon esiste) un rapporto di affetto e una relazione preesistente emotivamen-te significativa.

Prevenzione e uscita dal trauma dell’abusoIl modo migliore, anche se più complesso perché non specificamente

mirato, per attuare azioni di tutela contro l’abuso, è quello finalizzato allasua prevenzione, attuata aiutando il bambino ad assumere una salda co-scienza e rispetto di sé e della sua identità di genere. Ciò può essere attuatodalle agenzie educative, soprattutto la scuola, anche attraverso l’educazionesessuale.

È indispensabile preparare gli adulti, che quotidianamente sono in con-tatto con i minori, ad una nuova sensibilità ed attenzione verso l’infanzia, efornire loro competenze per affrontare adeguatamente i problemi connessialla sessualità. La sensibilizzazione al fenomeno dell’abuso come «preven-zione secondaria» consiste nella capacità di rilevarne precocemente i possi-bili segnali. Infatti, il bambino abusato solitamente non riesce a far parolacon nessuno di ciò che gli è capitato, per le pesanti rimozioni cui soggiace;ma lascia delle tracce eloquenti, che adulti attenti sono in grado di interpre-tare. Si tratta, per esempio, di bruschi cambiamenti nel rendimento scola-stico, regressioni a stadi di apprendimento precedenti, che possono essereseri campanelli d’allarme, soprattutto se associati a modalità di comporta-mento fortemente sessualizzate e seduttorie, oppure a comportamenti ag-gressivi, provocazioni verbali e fisiche, attaccamenti morbosi, distrazione,svogliatezza. La sintomatologia patologica è varia (mutismo, disturbi delsonno, malattia, mimica corporea, fobie).

La deliberazione della Regione Piemonte del 2 maggio 2000 n. 42-29997:«Approvazione linee guida per la segnalazione e la presa in carico dei casi diabuso sessuale e maltrattamento ai danni di minori da parte dei servizi so-cio-assistenziali e sanitari», sulla base della letteratura scientifica, della nor-mativa e delle procedure giudiziarie, individua strumenti e percorsi meto-dologici per il «trattamento» dell’abuso.

La rilevazione consiste nell’attenzione ai segnali provenienti dal bambi-no e dalla famiglia, e la valutazione se gli stessi siano riconducibili ad un’i- 211

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potesi di sospetto abuso o maltrattamento. In caso di valutazione positiva, ècompito dell’operatore non accertare il fatto, ma dare avvio ad un percorsodi tutela del minore, attraverso la segnalazione alla Magistratura minorile.Con la segnalazione, gli operatori dei servizi informano la Procura minorilecirca gli elementi che hanno rilevato e la situazione di pregiudizio in cui sitroverebbe il minore.

Nel caso invece di rivelazione del fatto da parte dell’interessato, c’è l’ob-bligo anche di denuncia alla magistratura penale ordinaria, qualora si trattidi reato perseguibile d’ufficio. Qualora il presunto fatto sia avvenuto in fa-miglia, nel caso di rilevazione e successiva segnalazione alla Magistraturaminorile, può essere definito un provvedimento di allontanamento tempo-raneo dal nucleo quale forma di protezione e tutela; esso sempre avviene,qualora ci sia una rivelazione da parte della vittima, e il fatto assuma la gra-vità del reato procedibile d’ufficio. Quasi sempre gli interventi avvengonoattraverso l’inserimento in una comunità, dato anche il carattere di urgenzadegli stessi. Di particolare complessità, in tale periodo, è il rapporto con lafamiglia, che non può essere coinvolta dagli operatori nel riconoscimento etrattamento dell’abuso, in quanto lo stesso è presunto, mentre occorre evi-tare di compromettere l’esito di eventuali atti di indagine penale in corso odi urgente effettuazione.

La protezione e tutela, ove attuata, avviene contestualmente alla valida-zione e cioè all’approfondimento circa l’attendibilità della presunta vittima,e la sussistenza dell’ipotesi di abuso e maltrattamento. Tale validazione siavvale anche di strumenti quali il referto medico e l’esame medico clinico,mirante ad accertare sul corpo della vittima le tracce della violenza. La dia-gnosi consiste poi, a livello multidisciplinare, nel raccogliere tutti gli ele-menti necessari per una valutazione globale e complessiva, relativamente alminore e alla famiglia. Tale valutazione permette la formulazione di unaprognosi, in particolare circa la recuperabilità della relazione genitori-figli.Tale prognosi può dunque essere positiva o negativa, e la valutazione incidesulle successive modalità di intervento/trattamento. Nel primo caso, il trat-tamento può consistere nella terapia familiare e individuale, nel sostegnoalla relazione genitori-figlio in vista di un rientro in famiglia. Nel secondocaso, oltre alla terapia individuale occorrerà prevedere una definitiva collo-cazione eterofamiliare (comunità-affido-adozione) e/o il sostegno per unavita autonoma.

Il percorso sopra definito, utile come orientamento metodologico e ope-rativo, presenta molteplici aspetti di complessità; connessi alle indagini e al-le procedure giudiziarie, alla «tensione emotiva» cui è sottoposta la vittima,in una fase che può protrarsi ai diversi livelli del giudizio, alla situazione psi-cologica del minore (elaborazione del trauma, sensi di colpa ecc.).

I servizi di fronte al maltrattamento.

A tali complessità, è necessario aggiungere quella relativa alla compe-tenza e organizzazione dei molteplici operatori e servizi, coinvolti nelle va-rie fasi di validazione, protezione tutela, diagnosi e trattamento. I fenomenidi maltrattamento e abuso coinvolgono infatti molteplici servizi, socio-sa-212

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nitari e non (Servizio sociale, Neuropsichiatria infantile, Pediatria di comu-nità, Consultorio familiare, Servizi tossicodipendenze e di Salute mentale,Comunità alloggio, Famiglie affidatarie, Scuola). La complessità e specificitàdel problema, e dei relativi interventi, richiede competenze adeguate, nonnecessariamente presenti in servizi ad esso non dedicati in modo esplicito.In effetti, l’abuso e il maltrattamento, e i relativi interventi, costituisconouna «cartina di tornasole» particolarmente significativa rispetto alla que-stione delle caratteristiche dei servizi territoriali, tra globalità e specificità.

Quando, ormai 25 anni fa, lo scrivente ha iniziato a lavorare nei servizisocio-assistenziali torinesi «andava di moda» l’operatore unico. Ci si è pre-sto accorti che era necessario acquisire specifiche competenze, attraversoruoli differenziati tra figure professionali diverse, inserite in équipe che sidovevano occupare di una vasta area di tipologie e problematiche della po-polazione. Successivamente, gli operatori dei centri sociali di base, pur con-tinuandosi ad occupare di tipologie di situazioni molto differenziate relati-vamente alla presa in carico della persona (anziani, minori, disabili ecc.), sisono specializzati in particolari aree, diventando referenti e consulenti pergli altri colleghi.

Attualmente i Centri sociali di base si stanno articolando per aree ancherelativamente alla presa in carico del caso singolo. Pertanto, le assistenti so-ciali si «specializzano» per i minori, oppure per i disabili o gli anziani. Per-corso analogo verso la specificità è stato svolto dai servizi sanitari territoria-li. Poiché la differenziazione tra il comparto socio-assistenziale e quello sa-nitario, e all’interno dei singoli comparti, richiede poi sintesi e coordina-mento, data la interrelazione fra gli interventi e la complessità dei bisogni,l’organizzazione si sta orientando verso la costituzione di équipe socio-sa-nitarie pluriprofessionali, mirate per specifiche problematiche e competen-ze. Di queste équipe fanno parte operatori di vari servizi, che alle stesse de-dicano parte del loro tempo-lavoro. Si sono così costituite équipe per gli af-fidamenti, per le adozioni, unità di valutazione geriatrica, per l’handicap,per i minori con disturbi relazionali ecc.

La deliberazione regionale sopra citata prevede anche questo tipo diéquipe per gli abusi e i maltrattamenti. In specifico, dispone la costituzionesul territorio regionale di équipe multidisciplinari composte da operatori deiservizi di NPI, Sert, Servizio sociale, pediatri di comunità, salute mentale, chevi lavorano a tempo parziale. Compito di tali équipe è fornire consulenza intutte le fasi del procedimento e, quando necessario, prendere in carico i casiconcreti. Si ribadisce, inoltre, che tutti gli operatori dei servizi territoriali de-vono avere conoscenze specifiche su come comportarsi, nell’espletamentodi interventi che rientrano comunque nelle competenze istituzionali.

È evidente come la soluzione organizzativa adottata voglia conciliare l’e-sigenza di specificità con la scelta di non creare servizi specialistici dere-sponsabilizzando quelli territoriali. Tale soluzione presenta molteplici com-plessità. Cosa significa consulenza e come si esercita? Se sono semplici con-sigli, non si rischia una perdita di tempo? Se invece è cogestione con i servi-zi territoriali, come fa una équipe a seguire tutte la situazioni? Cosa signifi-ca «presa in carico quando è necessario»? Si potrebbe ipotizzare che la pre-sa in carico da parte di questa équipe sia necessaria per tutti i casi in una de-terminata fase del percorso, per esempio la validazione e la valutazione? 213

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Cosa comporta «togliere» operatori dai servizi per partecipare, anche sein tempo parziale, alle équipe? Non si rischia che nei servizi di base ci sianosempre meno risorse? E ancora, come conciliare l’esigenza di interventi glo-bali e di più servizi, con la diversità di tempi, modalità di presa in carico, li-ste di attesa degli stessi?

Le comunità contro l’abusoQuando il minore è in comunità, la «discrasia» nei tempi di intervento

dei vari servizi appare evidente, e a volte drammatica. Sono infatti semprepiù numerosi gli inserimenti di minori in comunità per problemi di abusosessuale, in genere intrafamiliare. La complessità del problema e dell’inter-vento richiede, come nel caso delle équipe di cui sopra, la presenza di edu-catori e comunità «dedicate»: non solo ad ospitare minori vittime di abuso,ma dotate di una «qualità specifica», per aiutare bambini/e che portano consé ferite profonde. Ferite che toccano e coinvolgono gli operatori come pro-fessionisti, ma anche come persone/figli e spesso anche genitori.

La comunità è un luogo di vita dove si agisce la quotidianità nel qui edora, in un rapporto forte di vicinanza, continuità, intensità emotiva tra i mi-nori e le figure adulte degli educatori. «Dopo aver sentito tutto questo cosa ri-spondi quando ti chiede se la adotti, se la prendi in affidamento? Quando di-ce di volere un papà come te?» (un educatore di comunità). In questo senso,la comunità assume un ruolo strategico non solo per la tutela e la protezio-ne, ma anche per la validazione, la valutazione e il trattamento. In genere,dopo l’inserimento in comunità non c’è racconto dell’abuso, che viene alcontrario ridimensionato, minimizzato, in qualche modo rimosso. «A voltela vittima di abuso non si sente di parlare spontaneamente, ma vuole perce-pire l’interesse dell’adulto a conoscerla. Fammi tu delle domande, chiedimiancora» (un educatore di comunità). Si avverte un grande senso di colpa,vergogna e svalutazione del sé. Viene fuori la paura di ciò che potrà adessoaccadere, per sé, per i fratelli. Oppure la rimozione si sposta su comporta-menti sessualizzati, su tentativi di riprodurre la relazione abusante. Tuttociò richiede grande preparazione e capacità di ascolto da parte dell’educa-tore; il non forzare i tempi o richiedere cose in quel momento «irracconta-bili». «Il sentimento più forte è quello dell’impreparazione, dell’inadeguatez-za. Che domande fare? Tocca a me farle? In certi momenti stando ad ascolta-re e basta, essendo presente con profonda attenzione, in altri chiedendo (an-che con una certa frequenza): vuoi che continuiamo, ti dà fastidio?» (un edu-catore di comunità).

Si richiede anche di non negare o reprimere determinati comportamen-ti, ma accoglierli tentando di aiutare ad elaborarli e «canalizzarli» in positi-vo. «Sono le tre di notte. Mi chiama «papà» e non vuole schiodarsi dalla miastanza. Non riesco in nessun modo a mandarla a dormire. Vorrebbe dormirecon me. Le dico, esasperato, che i papà non dormono con le figlie. Mi rispon-de: Ma tu in che mondo vivi? Questa risposta apre la possibilità di parlare diquel mondo in cui lei ha vissuto. Le dico: Puoi fidarti di me perché io resisto.Perché non parliamo? Da questo momento alle avance si sostituisce il rac-conto, spesso al buio (la vergogna, la paura, l’imbarazzo di essere vista rac-contare?), su due poltrone di fronte (ormai hai resistito, sono sicura, ma ho bi-sogno comunque di mettere un po’ di distanza, le parole sono ancora troppo214

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forti)» (un educatore di comunità). Nel contempo l’educatore deve vivere inuna situazione emotivamente pesante istanze contraddittorie, tra il deside-rio di tutelare e considerare il minore, e quello più inconsapevole di salva-guardare le immagini «interne» buone dei genitori.

«Si avverte un enorme disagio, una forte incredulità, a volte il desideriodi essere altrove, un senso di scollamento dalla realtà» (un educatore di co-munità). «Per me è molto difficile condurre il colloquio, ma sento dentro unarabbia sorda e dolorosa» (una educatrice di comunità). Il confidente in po-sizione d’ascolto, che non tradisce, è insieme un esercente di pubblico ser-vizio, con doveri di denuncia e testimonianza giudiziale, e uno che può es-sere vissuto come un «delatore», responsabile di una eventuale condannadel familiare abusante. «Altro sentimento, potremmo dire un’arma a doppiotaglio, è il senso di gratificazione. Ci si sente il prescelto, la prescelta, colui/co-lei che è riuscito/a a trovare un aggancio con la ragazza, con cui lei si confi-da. Anche se poi si deve reggere il peso di queste confidenze» (un educatoredi comunità).

La gestione dei rapporti con i familiari, sia a livello simbolico/rappre-sentativo che reale, risulta complessa. Il rapporto di amore-odio con i fami-liari, e soprattutto con il genitore non abusante (in genere la madre) deve es-sere gestito nella quotidianità con rispetto delle scelte e del tempo del mi-nore. «Francesca è risolutissima nel non volerli incontrare, ha paura e vergo-gna e noi educatori non abbiamo mai forzato la mano in questo senso; ab-biamo sempre accolto le sue richieste, ascoltando e condividendo le sue ansie»(una educatrice di comunità). Per aiutare la persona a sostenere scelte di ri-conciliazione o separazione, serve, da parte dell’educatore, un atteggia-mento di comprensione nei confronti del genitore abusante e/o di quello«complice». Aiutando la vittima a capire che il padre è malato, che ha biso-gno di essere aiutato, che il suo comportamento non dipende da quello diuna bambina, che la mamma ha paura ed è succube del marito, è possibileattivare un percorso di uscita. Che le permetta di prendere le distanze, su-perare i sensi di colpa legati ad un’esperienza confusiva, che ha impedito diinteriorizzare una chiara distinzione tra il colpevole e la vittima; andarsene,se lo decide, psicologicamente e/o fisicamente anche dalla propria famiglia«senza sbattere la porta». «L’ascoltavamo e non sempre era facile, cercavamodi smontare i suoi sensi di colpa, di rafforzare le sue qualità, di convincerlache nulla poteva una bambina di sei anni contro un uomo maturo, ma so-prattutto contro il proprio papà, che con le parole e il comportamento le di-ceva di essere la figlia preferita. Francesca sente di essere un po’ più libera fi-nalmente, dopo molti anni, ed è contenta di aver trovato delle persone che l’a-scoltano e non provano «schifo» per lei, che si è macchiata, in quanto consen-ziente, di colpe molto gravi» (una educatrice di comunità).

Nell’esperienza delle comunità ci si è trovati, giorno per giorno, a doverripetere tante volte queste cose. Accanto alla fatica di gestire la relazionequotidiana e vicina, con situazioni di ferite e sofferenze così profonde, le co-munità scontano i tempi, gli scollamenti e le procedure di tutti gli altri atto-ri istituzionali. Gli educatori non devono soltanto accogliere e rispettare itempi del minore, ma anche quelli dei vari servizi. La differenza è che, i pri-mi, fanno parte di un percorso di crescita e necessaria evoluzione, gli altrispesso a questo percorso sono disfunzionali, se non dannosi. «In tutto il 215

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contesto le nostre difficoltà maggiori sono state rivolte all’esterno, al reperi-mento di figure di riferimento in ogni fase processuale, al ruolo dell’assisten-te sociale, all’invadenza dei periti di parte» (una educatrice di comunità). Nederiva il senso di solitudine di chi, con questo minore, ha relazioni intense econtinue altamente coinvolgenti per entrambi, e non solo sporadiche sedu-te terapeutiche, colloqui di servizio sociale, interrogatori per le indagini.

In particolare, il periodo che va dalla segnalazione/denuncia alla sen-tenza con gli eventuali ricorsi è eccessivamente lungo (perizie di parte, au-dizioni protette, dibattimento ecc.) e difficile da sostenere. «Nella gestione diquesto caso abbiamo rilevato che il periodo che va dalla denuncia alla finedell’istruttoria è un periodo molto delicato e complesso; le situazioni si susse-guono a ritmo incalzante e spesso gli educatori non sono attrezzati per af-frontarle» (una educatrice di comunità). «L’epilogo della vicenda giudiziariasi è concretizzato un anno e mezzo dopo il suo ingresso in comunità, con laconfessione del padre, il patteggiamento, la condanna e il risarcimento deidanni» (una educatrice di comunità).

Nel contempo, la presa in carico terapeutica da parte dei servizi sanitarispesso ritarda a causa dei carichi di lavoro, e quindi ci si limita ad una ge-nerica supervisione nei confronti degli educatori, decidendo che al mo-mento «l’intervento educativo» è sufficiente. Spesso neppure sono chiari i li-miti, le possibilità, le interpretazioni delle norme. «Ci è capitato di ospitareragazze abusate per cui non era ancora stato emesso un provvedimento chedelineasse i confini entro cui ci si potesse muovere. In questi casi come ci sicomporta, con un genitore che telefona e vuole vedere la figlia? Come ci sicomporta dinanzi ad un perito di parte, che pretende di interrogare la mi-nore con un preavviso di poche ore? E soprattutto siamo tenuti a permette-re questi incontri con modalità discutibili?» (un educatore di comunità).

Scheda A – Le patologie relazionali: una storia

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C’è una terra di nessuno in cui «vivono» tutti quei ragazzi e ragazze, quasi sem-pre preadolescenti, che hanno dei problemi di relazione, con gli altri e conl’ambiente sufficientemente gravi da «farsi notare», ma non così gravi da esse-re «certificati». Appartengono al piccolo, ma sempre più numeroso popolo distudenti difficili da gestire in classe. Mette in crisi gli insegnanti che richiedo-no il «sostegno», ma non ci sono elementi per una diagnosi che lo permetta.C’è qualcosa che supera i «normali» problemi dell’adolescenza e fa presagirenulla di buono. Questi bambini vivono per anni nel limbo tra normalità e patologia. La fami-glia dapprima non riconosce il problema, anzi lo nega; poi addebita ad altri lacolpa, chiede aiuto, fino ad arrendersi e a volere l’allontanamento, quando iproblemi esplodono in modo drammatico e il bambino un po’strano si trasfor-ma in un piccolo adulto aggressivo o estraneo alla realtà. Tutti allora si chiedo-no cosa è successo e se non era meglio intervenire prima, magari anche con unallontanamento temporaneo dalla famiglia. Tutti si chiedono cosa fare e bale-na l’idea «scandalosa» di una comunità terapeutica (quelle «normali» nonsembrano poter reggere questi ragazzi): per alcuni nome improponibile, collo-cazione impensabile per una così giovane età.La storia di Susanna è una tra le numerose storie di questo tipo. Susanna, ra-

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6.5 I genitori tossicodipendenti

Aspetti generali

La tossicodipendenza come fattore di rischio per la collocazione del bam-bino al di fuori della propria famiglia, è indicata dall’incidenza degli inseri-menti in comunità di bambini di madri tossicodipendenti. Il Comune diTorino, ha dovuto inserire, nel periodo 1996-1999, 165 bambini nella fascia di

gazzina dalla carnagione olivastra, lunghi capelli neri e grandi occhini scuri,arriva accompagnata al centro diurno dai suoi genitori: due persone cordiali,attente alla figlia e preoccupate per la sua eccessiva timidezza. Hanno chiestoaiuto ai servizi sociali perché fa fatica nel fare i compiti in prima media. Laneuropsichiatria aveva conosciuto Susanna durante la scuola materna perchéaveva alcuni problemi nell’alimentazione e adesso diagnosticava un «proble-ma adolescenziale di relazione con la madre».Susanna parla raramente, fa dei grandi sorrisi, mangia molto lentamente gi-rando la posata nel piatto in modo lento e metodico. A scuola ha delle lacune,ma non più di altri; socializza solo con le ragazze e si affeziona in particolare adue del centro, molto vivaci e gentili con lei. Sembra tanto timida, eppure qual-che suo comportamento stupisce; a volte il suo sguardo si perde nel vuoto, ri-de a sproposito, ha paura di rimanere sola e si «attacca» alle compagne e all’e-ducatrice. I genitori sostengono che non ci sono mai stati particolari problemi;in famiglia tutto va bene; ha un fratello più grande di lei di 10 anni, è amata ecoccolata da tutti. Susanna alterna periodi di buon umore, in cui prevale l’a-spetta della ragazzina dolce, affettuosa, timida, ad altri in cui le sue paure pre-valgono, dice che ce l’hanno tutti con lei, piange facilmente, ha scatti di rabbia.Tutto normale, dice lo psicologo, è solo più fragile di altri adolescenti, fatica acostruire la sua identità e a relazionarsi con la madre. Susanna mangia sempremeno, i suoi inspiegabili scatti di ira al centro diurno sono sempre più fre-quenti, a scuola incominciano a non sopportarla più. Racconta bugie, qualchevolta strane e non collegate alla realtà. La famiglia riporta una situazione sem-pre più difficile da gestire. Ha iniziato ad isolarsi in camera, non mangia, a vol-te la sua rabbia la porta a rompere gli oggetti. I litigi con la madre sono semprepiù frequenti e violenti. Standole vicino ci si accorge che non si lava. I genitoriiniziano a litigare tra di loro, il fratello cerca di stare fuori casa il più tempo pos-sibile, gli amici incominciano a dare consigli: le erbe, lo psicologo, il prete, l’e-sorcista…Gli incontri tra i servizi si intensificano, ma Susanna non può essere presa incarico, per esempio con una psicoterapia: si dice che i problemi sono da colle-garsi a crisi adolescenziali che i genitori non sanno contenere. «La madre è unache esagera e drammatizza, faceva così anche quando Susanna era piccola». Lepaure di Susanna aumentano, sente voci che la perseguitano, piange perchécrede che tutti parlino male di lei, il cibo non le piace, l’odore che si porta ad-dosso è sempre più acre. L’insegnante che più le sta vicino va in crisi; il padreè sempre più triste; la madre cerca mille soluzioni, ma sente il rifiuto della fi-glia, questo la fa arrabbiare.Certo è una grave crisi adolescenziale, Susanna soffre il disturbo della perso-nalità e la relazione con la madre molto problematica. È in lista d’attesa per lapresa in carico. Durante l’estate viene ricoverata all’ospedale disidratata, pesa30 chili ed ha una crisi prepsicotica.

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età 0-3 anni, di cui ben 68 figli di mamme tossicodipendenti, pari al 41%. Lagravità di tali situazioni può essere ulteriormente dimostrata dal fatto che so-lo 13 si sono successivamente ricongiunti alla mamma (quasi tutti in comu-nità terapeutica), mentre per gli altri è proseguita la collocazione eterofami-liare (7 affidamenti «normali», 39 a rischio giuridico e 6 preadottivi), con «pro-gnosi» di adozione per la maggior parte (45). Questi dati sono confermati daquelli relativi agli inserimenti nelle comunità della Provincia di Torino perbambini piccoli. Su 262 minori inseriti dal 1991 al 1999, di cui 118 non rico-nosciuti e 144 riconosciuti da almeno un genitore, ben 79 di questi ultimi so-no figli di madri con problemi di tossicodipendenza. Anche in questo caso lamaggior parte non ha fatto rientro in famiglia o si è ricongiunta con le mam-me. Ulteriore conferma è data dai procedimenti di adottabilità aperti dalTribunale per i Minorenni di Torino. Su 152 casi nel ’99, ben più di un terzo ri-guardavano bambini nati da donne tossicodipendenti che li avevano ricono-sciuti. Ad essi devono aggiungersi i 27 che riguardavano figli di ignoti (tra iquali presumibilmente anche qualcuno figlio di tossicodipendente).

La genitorialità «impossibile», per i genitori con problemi di tossicodi-pendenza, è determinata da una condizione esistenziale spesso totalizzan-te, tale da escludere ogni altra motivazione, interesse, relazionalità, che nonsia connessa alla sostanza. Nella maggior parte di questi casi, il partner del-la donna tossicodipendente è anche lui tossico. Sono molto frequenti part-ner molto disturbati, anche con problematiche psichiatriche, con un au-mento dell’area di comorbilità tra disturbi da uso di sostanze psicotrope epatologie psichiatriche.

Quasi mai la coppia ha una casa in cui portare il bambino, quasi mai haun lavoro, spesso si mantiene con la prostituzione e attività illecite. Una si-tuazione particolare riguarda i bambini nati in SAN (sindrome di astinenzaneonatale): la mamma ha assunto sostanze durante la gravidanza e anchenell’ultimo periodo, con conseguenze rilevanti e spesso gravi per il bambi-no, che nasce prematuro, sotto peso, con un punteggio di salute (abgar)spesso molto basso. Questi genitori, totalmente oppressi dalla loro condi-zione, non vogliono o non sono in grado di «mentalizzare» il proprio figlio,e assumono un comportamento gravemente pregiudizievole per il nascitu-ro, gravemente abusante, al pari di quello fisicamente maltrattante. Infatti citroviamo di fronte ad un bambino sofferente, di cui si è violato il diritto al-l’integrità psicofisica: è possibile che i danni prodotti siano irreversibili, èipotizzabile che gli atti e le carenze vengano reiterati.

Pur esprimendo sempre una «genitorialità difficile», le situazioni di tos-sicodipendenza sono tuttavia molto diverse l’una dall’altra, e non compor-tano soltanto una «genitorialità abbandonica». Si va da chi ha una vita sban-data, senza casa e senza lavoro, mantenendosi per esempio con la prostitu-zione, a chi invece tiene, apparentemente, una condotta regolare; da chi ri-cade periodicamente a chi va avanti con la dose di mantenimento di meta-done, con il supporto e il controllo dei servizi, a chi riesce a conciliare l’usodella sostanza con il mantenimento di una vita sociale apparentementenormale. Ne deriva, pertanto, una capacità genitoriale del tutto assente, op-pure certo difficile ma possibile, con potenzialità di positivi sviluppi, se sup-portata dalle reti sociali primarie e/o dai servizi territoriali. Per riprenderel’esempio relativo ai nati in SAN, diversa è l’assunzione di eroina durante la218

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gravidanza, da una terapia metadonica seguita dal SERT. In questo caso lagravida tossicodipendente, accettando di essere seguita, accettando i con-trolli e la terapia a scalare, dimostra la vicinanza mentale ed affettiva neiconfronti del bambino. Al quale ha saputo, in tal modo, garantire quell’assi-stenza morale e materiale nei limiti delle sue possibilità, che esclude l’abu-so e l’abbandono.

Interventi e servizi

Le differenze sopra espresse richiedono la presenza di una rete di inter-venti, che permettano progetti e percorsi diversificati.

❖ Presa in carico fin dalla gravidanza. La principale strategia di appog-gio alla genitorialità, anche al fine di garantire un intervento precoceed adeguato alla peculiarità della situazione specifica, è quella del-l’intervento precoce, non solo ai fini strettamente sanitari (controllomedico della gravidanza), ma soprattutto per definire per tempo ilprogetto per il bambino che nascerà, per i suoi genitori, nonché pereventuali supporti da parte di nonni o altri parenti. Sarebbe impor-tante valutare la disponibilità e l’idoneità dei parenti quando la don-na è ancora gravida, se vogliamo evitare il passaggio in comunità co-me oggi spesso avviene. Se vanno bene i nonni, il bambino vada su-bito con gli stessi, senza attendere che siano loro a farsi vivi, magariin Appello, a seguito di un’apertura di adottabilità. A questo proposi-to, da anni è attivo presso l’Ospedale ostetrico-ginecologicoSant’Anna di Torino un coordinamento tra Servizio ospedaliero dimaternità e i Sert cittadini, per la presa in carico delle donne in gra-vidanza con problemi di dipendenza. L’esperienza ha evidenziatouna significativa e positiva incidenza di questi interventi, anche in re-lazione all’attaccamento e alla futura permanenza del bambino conla mamma.

❖ Servizi territoriali di sostegno alla famiglia. Una seconda strategia diinterventi è relativa al potenziamento della quota di aiuto sociale sulterritorio, sia durante la gravidanza, sia alla nascita e nei primi annidi vita. In particolare, occorre potenziare i servizi sanitari distrettua-li, e, all’interno degli stessi, attivare e potenziare progetti relativi allegravidanze «a rischio». Per quanto riguarda i servizi sociali, si può ri-levare come la rete di interventi sia ormai nella Regione Piemonte, ein particolare a Torino, ampia e capillare (servizi primari, educativaterritoriale, affidamenti diurni, assistenza domiciliare, centri diurniecc.). Questi servizi ed iniziative hanno negli anni agito in modo so-stanzialmente soddisfacente, pur scontando alcuni limiti che ne han-no diminuito l’efficacia.

❖ Servizi esterni e/o di sostituzione della famiglia. Qualora l’aiuto socio-sanitario territoriale non sia sufficiente, la terza strategia dovrebbeessere rappresentata dalla Comunità Madre - bambino, o ancheGenitori-bambino, che deve essere proposta al più presto. Con la pre- 219

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sa in carico precoce, il progetto dovrebbe essere attivato durante lagravidanza, in modo da evitare al bambino alcuni passaggi, quali laprolungata permanenza in ospedale, l’inserimento in comunità perminori o l’affidamento a terzi. L’inserimento in una comunità madre-bambino è certamente preferibile ad altri interventi, in cui vi è la se-parazione del minore. Nella comunità, la madre viene osservata edimpara ad occuparsi del bambino, l’assunzione della sostanza è so-spesa, e può essere formulato un progetto di autonomia.

Alcuni dati confermano la positività di tale intervento. Dei 50 bambiniinseriti dal Comune di Torino in Comunità con la mamma con problemi ditossicodipendenza, nel periodo 1996-1999, 23 sono rientrati a casa con ilgenitore, 9 sono in comunità con la mamma, 4 affidati a parenti, gli altrihanno avuto una collocazione eterofamiliare. La maggiore incidenza dirientro in famiglia, nel caso di comunità madre-bambino, o comunque dipermanenza con il proprio genitore, fa supporre una soddisfacente capa-cità di prognosi e sostegno da parte dei servizi che inseriscono in comunitài bambini.

Si potrebbe ipotizzare che proprio la lontananza dal figlio rende difficilelo sviluppo di attaccamento e competenza genitoriale, e più probabile un al-lontanamento a lungo termine o definitivo. Al contrario, il sostegno nellaquotidianità a tali competenze, da parte di educatori specificatamente pre-parati, favorisce nella madre la «mentalizzazione» e l’attaccamento al pro-prio figlio. Qualora, per le gravi difficoltà e/o la cattiva collaborazione dellamadre (o di entrambi i genitori) non siano percorribili queste strade, l’altrastrategia è l’inserimento del bambino da solo in comunità, o presso una fa-miglia affidataria. Queste soluzioni hanno due grandi limiti: proteggonomeno i legami dei genitori con il bambino, e i tempi di recupero degli adul-ti, qualora sia possibile un recupero, sono lunghi e non rispettano i tempidei minori. Andrebbero attuate solo quando c’è una prognosi negativa, fon-data sull’assenza della famiglia estesa, e su una previsione di irrecuperabi-lità dei genitori.

In sintesi, il percorso di intervento dei servizi sopra delineato prevedepresa in carico e valutazione precoce delle potenzialità genitoriali e delnucleo allargato, al fine di poter definire e attivare il più presto possibile(fin dalla nascita) gli interventi necessari, in un ordine di priorità che com-porta:

❖ sostegno domiciliare e territoriale al genitore e/o famiglia;❖ inserimento in comunità madre-bambino;❖ inserimento transitorio eterofamiliare (affidamento familiare /co-

munità);❖ in ultimo, adozione.

Questo percorso deve considerare la peculiarità di ogni situazione e pre-vedere la necessaria flessibilità, che salvaguardi, sempre e comunque, senell’interesse del minore, il ricongiungimento ai propri genitori. Non sonopoche le esperienze di bambini ospiti presso le comunità per minori, chehanno raggiunto la mamma in comunità terapeutica o sono rientrati pressoil nucleo allargato.220

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Aspetti di complessità.

❖ Integrazione delle culture e prassi professionali. In questi anni, l’at-tenzione al bambino e ai suoi bisogni da parte dei SERT e delleComunità terapeutiche, si è progressivamente potenziata, con l’inte-grazione progettuale con il Servizio Sociale, che, per compito istitu-zionale, deve porre specifica attenzione alla tutela del minore.Peraltro non esiste, almeno in teoria, un conflitto di interessi traServizi per adulti e il Servizio Sociale, in quanto per entrambi è im-portante la riabilitazione della mamma (se è vero che un bambino«sta bene» se stanno bene i suoi genitori). Il percorso di integrazionedi culture e prassi professionali non è ancora compiuto, e sensibilisono le differenze da Sert a Sert, e nei rapporti con i Servizi che si oc-cupano dei minori. Si riscontra ancora, a volte, una funzione «ancil-lare» del Servizio Sociale, che paga il posto in comunità per il bambi-no ospite in attesa del completamento del percorso terapeutico dellamamma. Anche le Comunità terapeutiche, se accolgono con le mam-me anche i bambini, devono avviare una riflessione sui loro modelliorganizzativi, gestionali, strutturali ed educativi. Occorre ricordarsi,quando la madre è in comunità terapeutica, che è lì non solo per«guarire» dalla sua tossicodipendenza, ma anche per ricostruire lasua identità materna. L’attenzione della comunità deve quindi essererivolta al sostegno, aiuto e valutazione delle competenze e capacitàgenitoriali, e non solo al percorso terapeutico individuale. Il bambi-no, necessita di specifici momenti di ascolto, aiuto, intervento per sestesso. Chi cura il suo inserimento, chi segue i suoi bisogni, chi lo ac-coglie e «vicaria» o «integra» la mamma, in relazione al tempo, realee mentale/simbolico, che la stessa sa e può dedicare a lui?

❖ La rete familiare. Dai dati del campione esaminato, emerge l’esiguitàdella rete familiare come supporto e sostegno. Dei 68 bambini inseri-ti soli in comunità, soltanto 6 (8,8%) sono stati alle dimissioni accoltipresso parenti. Dei 50 inseriti in comunità con la mamma, solo 4 (8%)sono accolti alle dimissioni presso parenti. Questi dati contraddico-no gli indirizzi generali di lavoro sociale, ma anche la normativa vi-gente che individua nelle reti familiari le prime risorse di riferimento.Una sfiducia nei confronti dei «nonni» da parte dei Servizi edell’Autorità giudiziaria minorile? Oppure la difficoltà ad occuparsianche dei nipoti, in una situazione pesante, e a volte drammatica dasostenere, per la condizione di tossicodipendenza dei figli?

❖ Tempi della mamma, tempi del bambino. La necessità che il minorepossa vivere o ricongiungersi con i genitori non deve pregiudicare ilsano e corretto sviluppo psicologico e della personalità del bambino,a causa dei tempi troppo lunghi da parte del genitore per «esserepronto» ad esercitare i propri compiti. Purtroppo, nel caso della tos-sicodipendenza, le «prognosi» sono spesso «riservate» nei tempi e ri-sultati, i percorsi accidentati, con sviluppi positivi e successive rica-dute. Nel caso di inserimento in comunità terapeutica, per esempio,il percorso può essere lineare o difficoltoso. Nella migliore delle ipo-

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tesi, dura 18 mesi. Nella fase del reinserimento, la donna può farcela,ma anche avere ricadute o crolli. Spesso ciò dipende dal partner: se èancora tossicodipendente, se ha disturbi del comportamento, se en-tra ed esce dal carcere; dal tipo di relazione che la donna ha con lostesso; dalla famiglia, se è accogliente o rifiuta, dal tipo di relazioneche la persona vuole avere con la sua famiglia. In ogni caso il percor-so è lungo. Il bambino può aspettare? E se la donna non regge la co-munità, riprende a bucarsi e a prostituirsi? Se lascia la comunità? Ilbambino viene trasferito in un’altra comunità per soli minori, forseviene dichiarato adottabile. Ma la madre può opporsi, perché dopoessere «sparita» per qualche tempo, ritorna al Sert, che dà l’avvio al-l’ennesimo scalare di metadone, e magari ad un nuovo inserimentoin comunità. E se entrambi i genitori sono tossicodipendenti, la cop-pia non vuole separarsi («non entro io se non entra lui») ma uno deidue non è ancora pronto? E una volta in comunità, quali le ripercus-sioni, per esempio sulla donna, nel caso del fallimento del percorsoterapeutico del partner? In sintesi, la madre ha diritto a curarsi, ma itempi della cura sono ancora troppo poco rispettosi delle esigenzedei bambini. Relativamente allo specifico delle tossicodipendenze, levariabili sono davvero molteplici: percorso terapeutico non linearema «altalenante» della mamma, situazione del padre, spesso anchelui con problemi di tossicodipendenza, coinvolgimento del nucleoallargato, carenze di organico dei servizi, difficoltà di coordinamentotra gli stessi, difficoltà di valutazione ed intervento, complessità nelleprocedure giudiziarie.

❖ Il bambino che ancora non c’è. Il bambino (per la legge italiana dalterzo mese di gravidanza) nella pancia è già portatore dei diritti di cuialla citata legge 176/91? Da quando ce ne dobbiamo occupare? Forseda prima che nasca, magari in SAN? E come? Con quali procedure ecoordinamento dei servizi, ospedalieri, sanitari territoriali, sociali?

Non casi ma persone

È bene terminare questa parte sulla «genitorialità difficile» per chi haproblemi di tossicodipendenza con un cenno all’ultimo periodo della storiavera di Marco e della sua mamma Anna (nomi di fantasia). Una storia, per-ché le storie sono importanti, almeno quanto, se non più, dei numeri e del-le statistiche.

Marco è figlio di una tossicodipendente, anzi di una persona con pro-blemi di tossicodipendenza. Anna è stata con Marco in Comunità terapeu-tica e adesso vivono insieme in un alloggio messo a disposizione dallaComunità. Ha un piccolo lavoro, è sostenuta dagli educatori della Comunitàe dalla Assistente Sociale del Comune per i problemi quotidiani, e per com-pletare l’acquisizione di quelle abilità sociali e relazionali necessarie per lacompleta autonomia.

Anna è lì con suo figlio, grazie a se stessa. Ha problemi, limiti, ma è at-taccata a suo figlio, ne ha cura, è responsabile e attenta verso di lui. Anna eMarco sono lì, grazie alla capacità progettuale ed operativa della Comunità.222

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Marco e Anna sono lì grazie ad un Ufficio del Comune, che non sta solo die-tro la scrivania, ma dialoga con il Servizio Sociale che «segue i casi», e per-tanto ha inventato e reso possibili, amministrativamente e finanziariamen-te, quei progetti di autonomia che permettono ad Anna di abitare ed essereaiutata nel suo piccolo alloggio. Anna e Marco sono lì, perché il Sert ha aiu-tato Anna a «farcela», prima e durante la permanenza in Comunità. Marco eAnna sono lì perché l’Assistente Sociale del Servizio Sociale territoriale hacreduto in lei, l’ha aiutata, ma soprattutto ha coordinato le risorse facendoquel lavoro che adesso va di moda dire di «case manager».

Ho accennato alla storia di Marco e Anna, perché sarebbe bello che ognivolta che si parla di integrazione, rete, sviluppo di comunità, case manager,domiciliarità, genitorialità, tutela … ognuno pensasse a reali e potenzialiMarchi e Anne, e ne uscisse con più voglia di trasformare queste fredde e al-la fine fastidiose parole, troppo abusate, in nomi di persone, come Marco,Anna, Giuseppe, Piera …

6.6 Una risposta istituzionale: l’affidamento

Cos’è l’affidamento familiare

Prima dell’entrata in vigore della legge 184/83, erano diffuse nel nostropaese forme di affidamento denominate «baliatico» e «collocamento». Il ba-liatico era previsto dal Regio Decreto 27 luglio 1934 n. 1265 (T.U. delle leggisanitarie) in alternativa all’inserimento in istituti e brefotrofi. «L’eserciziodel baliatico è subordinato all’autorizzazione del Sindaco, che viene rila-sciata dopo la visita medica, la quale abbia accertato che la balia non è af-fetta da sifilide, tubercolosi o altra malattia diffusiva». Si può notare come lasola preoccupazione del legislatore fosse di tipo sanitario, e ciò confermal’impostazione, allora dominante, di attenzione esclusiva alla salute e profi-lassi, presente anche nell’organizzazione sanitarizzata dei brefotrofi.

Il collocamento può essere invece definito come baliatico per un bam-bino non da allattare ed ha origini storiche ben lontane, trovando le sue ba-si nell’uso di affidare bambini, ragazzi e adolescenti a famiglie artigiane ocontadine, perché imparassero un mestiere e col proprio lavoro contribuis-sero al sostentamento del nucleo. Anche il collocamento era fondato su unaconcezione restrittiva dei diritti del minore, intesi come interventi che lostesso deve «subire» per il suo bene. Mentre nel caso del baliatico l’attenzio-ne è sulla salute fisica, nel collocamento è sull’imparare un mestiere e nonessere nel contempo di peso alla famiglia.

Il successivo istituto dell’affiliazione conferma tale impostazione. Nellarelazione di presentazione di questo istituto giuridico, si parla del diritto diun minore illegittimo «a che sia cancellata la inferiorità familiare e socialeche loro infligge la colpa dei genitori», ma nel contempo del «bisogno spiri-tuale, morale e talora economico, specie in campo agricolo, delle famigliesterili o fornite di poca prole, di avere un focolare allietato dal sorriso del 223

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fanciullo e di reclutare nuove forze di aiuto e di completamento della co-munità economica familiare».

Nella nostra realtà, le prime esperienze di affidamento familiare avven-gono a partire dal 1971, con l’istituzione del servizio di affido della Provinciadi Torino. La deliberazione istitutiva modifica sostanzialmente l’imposta-zione precedente, evidenziando il ruolo dei tecnici nella promozione, ge-stione e supporto degli affidamenti, e la necessità di attuare tali interventiall’interno di una rete di servizi zonali. Prevede un rimborso spese alle fa-miglie indipendentemente dalla loro condizione economica, ma in relazio-ne ai bisogni e alle condizioni psico-fisiche del minore, evidenziando così ilruolo della famiglia per l’educazione del minore. «Alla famiglia affidataria,nel cui ambito si svolgono processi fondamentali di identificazione e quindidi ristrutturazione della personalità disadattata, viene riconosciuto un obiet-tivo ruolo tecnico e pertanto essa partecipa su un piano di parità e contribui-sce a tutte le principali decisioni di équipe riguardanti l’educazione e la tera-pia del minore affidato». Successivamente, con deliberazione del 14 settem-bre 1976 «Affidamenti e inserimenti attuati tramite volontari e comunità al-loggio comunali», l’Amministrazione comunale di Torino istituisce l’affida-mento familiare.

Queste sperimentazioni preparano e permettono la promulgazione del-la legge 184, «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», cheviene approvata, dopo un ampio dibattito parlamentare e una approfondi-ta indagine conoscitiva, nel 1983. Per quanto riguarda, nello specifico, l’affi-do, questa legge prevede, nel caso non sia possibile la permanenza del mi-nore nella propria famiglia ove lo stesso ha diritto di essere educato, l’affi-damento in via temporanea ad altra famiglia, possibilmente con figli mino-ri, a una persona singola, o a una comunità di tipo familiare.

L’affidamento, come già precedentemente indicato, può essere consen-suale tra i genitori e parenti entro il quarto grado, oppure tra i genitori e al-tre persone (per non più di sei mesi, oltre i quali occorre segnalare all’Au-torità giudiziaria), oppure ancora disposto, su consenso delle famiglie affi-dataria e affidante, dai servizi territoriali previa approvazione del giudice tu-telare. L’affidamento può anche essere disposto dal Tribunale per i minoren-ni con specifico provvedimento, quando manca l’assenso, in applicazionedegli articoli 330 e seguenti del codice civile (articoli sulla sospensione o sul-la decadenza della potestà parentale e/o di allontanamento del minore).

La legge 149 del 28/3/2001 di modifica della 184 apporta alcune signifi-cative novità rispetto all’affidamento. Il diritto del minore a crescere ed es-sere educato nell’ambito di una famiglia deve essere assicurato senza di-stinzione di sesso, etnia, età, lingua, religione e nel rispetto della identitàculturale del minore. Le condizioni di indigenza dei genitori non possonoessere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. LoStato, le Regioni e gli Enti locali devono sostenere, nell’ambito delle propriecompetenze e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei familia-ri a rischio, al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di es-sere educato nella propria famiglia. Inoltre devono promuovere iniziative disensibilizzazione all’affido. La nuova legge innova la 184, in quanto subor-dina ogni altro tipo di inserimento eterofamiliare all’affido: «Il minore tem-poraneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli inter-224

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venti di sostegno e di aiuto disposti ai sensi dell’articolo 1, è affidato ad unafamiglia, preferibilmente con figli minori o ad una persona singola, in gradodi assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affet-tive di cui egli ha bisogno (art 2 comma 1). Ove non sia possibile l’affida-mento nei termini di cui al comma 1, è consentito l’inserimento del minore inuna comunità di tipo familiare….» (art. 2 comma 2).

Al servizio sociale locale è attribuita la responsabilità del programma diassistenza, compresa la previsione della sua durata, che deve essere rappor-tata al complesso degli interventi volti al recupero della famiglia di origine,nonché la vigilanza durante l’affido. Lo stesso è tenuto a presentare per ogniaffidamento una relazione semestrale sull’andamento del programma, sul-la sua presumibile ulteriore durata, e sull’evoluzione delle condizioni di dif-ficoltà del nucleo familiare di provenienza. Tale programma prevede la par-tecipazione attiva della famiglia affidataria, che deve essere sentita nei pro-cedimenti civili in materia di potestà, di affidamento e di adottabilità relati-vi al minore affidato, e che esercita i poteri connessi con la potestà parenta-le, in relazione agli ordinari rapporti con l’istituzione scolastica e con le au-torità sanitarie.

A conferma della necessità che l’affidamento sia temporaneo, e collega-to ad interventi di sostegno alla famiglia di origine, la legge prevede che lasua durata massima sia di due anni. Qualora sia necessario un prolunga-mento, lo stesso deve essere disposto dal tribunale per i minorenni su pro-posta del giudice tutelare.

Problemi dell’affidamento

Se, come la legge dispone, l’affidamento è la prima soluzione da perse-guire nel caso della necessità di collocazione eterofamiliare di un minore,esso si presenta comunque come una soluzione complessa. Le difficoltà so-no molteplici, e rivestono una connotazione «sistemica».

Un primo elemento di complessità riguarda il momento dell’affido.Spesso all’affido si arriva dopo molti tentativi di supporto del nucleo, e colbambino ormai grandicello. Ci si chiede se l’affido non debba assumere in-vece una connotazione più «preventiva», oppure limitarsi alle situazionigravi, quando non è più possibile la permanenza in famiglia (non è casua-le il fatto del continuo aumento degli affidamenti disposti dall’autorità giu-diziaria).

Un secondo aspetto riguarda il tempo dell’affido. Sono sempre più fre-quenti gli affidamenti sine die, addirittura oltre la maggiore età, con perma-nenza del ragazzo presso la famiglia affidataria e successiva vita autonoma.Si tratta di adozioni di fatto, anche se non giuridicamente sancite. Ci si chie-de se sia questo il vero spirito dell’affido, oppure se non sia il caso di distin-guere progettualità lunghe da quelle a breve termine, definendo anche isti-tuti giuridici diversi. La nuova legge introduce, seppur timidamente, attra-verso il meccanismo della durata dei due anni e successivo provvedimentodell’autorità giudiziaria in caso di prosecuzione, questa distinzione.

Un terzo aspetto riguarda la doppia appartenenza del minore, che di-venta particolarmente complessa nel caso di rapporti difficili o compro- 225

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messi con la famiglia di origine. Nelle famiglie affidatarie, vi è a volte l’ideadi poter modificare gli orientamenti del minore accolto, proponendo i pro-pri modelli culturali, ma sottovalutando la sua difficoltà a raccordarsi conun mondo diverso. Gli affidatari, di solito, non sono particolarmente pro-pensi a farsi carico dei problemi della famiglia di origine, non perché consi-derino ciò non rilevante, ma perché ritengono di essere impotenti e inadat-ti, sia a livello emotivo che pratico, ad occuparsene. Non pochi definiscononegativo il loro rapporto con la famiglia affidante, e comunque le relazionisono mediate attraverso il minore stesso (Garelli 2000). In effetti, proprio lafamiglia di origine sembra essere l’anello debole dell’affidamento, rimanen-do sullo sfondo per gli affidatari e a volte anche per i servizi.

Tale questione richiama alla necessità di non «ideologizzare» la differen-za tra affido e comunità, indicando quest’ultima sempre in subordine al pri-mo. Infatti, se è vero che una comunità non può sostituire figure di riferi-mento con funzioni genitoriali di identificazione, è anche vero che in molticasi, in particolare di preadolescenti e soprattutto adolescenti, la personanon è preparata ad entrare in un’altra famiglia. I rapporti ambivalenti neiconfronti dei genitori, in una situazione di profonda interiorizzazione di ta-li figure parentali,possono portare a dei rifiuti dell’affido da parte dell’inte-ressato; e, anche se accettati, aprono ferite profonde, difficili da gestire. Incerti casi è meglio avere accanto un fratello maggiore (vedi educatore) cheun altro genitore (vedi affidatario). In secondo luogo, l’affidamento non è unservizio, che si attua con atto di un’amministrazione tramite appalto, accre-ditamento ecc; richiede invece una disponibilità volontaria, ed in molti casiè difficile trovare famiglie disponibili ad accogliere minori con handicap, ocon gravi malattie, oppure adolescenti difficili. In questo caso è indispensa-bile la presenza di servizi residenziali.

Da quanto detto emerge un ulteriore aspetto di complessità. Se gli eroi ei pionieri ci sono sempre, le disponibilità di chi eroe non è si ottiene attra-verso aiuto e supporto. «Venti anni fa abbiamo accolto un ragazzo di diecianni, la stessa età di nostra figlia, per un affido consensuale residenziale co-me è stato per gli altri affidamenti successivi. Il ragazzo ha, con fatica, ma congrande volontà terminato gli studi, ha un buon lavoro ed è felicemente spo-sato. Con lui come con la sorella abbiamo ottimi rapporti e ci possiamo con-siderare tutti come fratelli» (una affidataria). In altre parole, le famiglie affi-datarie possono essere molte, a condizione che gli enti preposti non solo av-viino campagne di sensibilizzazione, ma aiutino e sostengano le famiglie. Lamigliore campagna è il tam tam tra le famiglie, la comunicazione dell’espe-rienza positiva, che quelle affidatarie portano agli altri all’interno del loroambiente.

Le famiglie affidatarie sono in genere soddisfatte dell’esperienza fatta.Riconoscono la validità dell’affido nella stragrande maggioranza dei casi,l’80% giudica positivamente la propria esperienza. Per contro, solo 1/5 dellefamiglie accetterebbe un nuovo affido subito, mentre la metà considerereb-be la cosa dopo un periodo di riflessione e a determinate condizioni, quali unmaggior appoggio e sostegno dei servizi. «Non ci sono stati proposti altri affi-damenti: abbiamo voluto prenderci una pausa, che è durata un anno, poi ab-biamo dato la nostra nuova disponibilità ai servizi. Abbiamo quindi iniziatoun nuovo affidamento, anche perché crediamo nell’utilità ed importanza di226

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questo servizio.» (un’affidataria). Il 60% ritiene che l’affidamento potrebbe es-sere più diffuso se le famiglie potessero contare su un maggior aiuto e sustrumenti più adeguati da parte dei servizi. (Garelli, 2000; Scheda B).

Ma il sostegno e la promozione degli affidamenti implicano investimen-ti di risorse e di fondi: il vero affidamento costa come una comunità, inquanto impegna personale e risorse. Le critiche da parte delle famiglie affi-datarie nei confronti dei servizi riguardano principalmente la carenza diprogettualità, la rigidità delle procedure burocratiche, la tendenza alla dele-ga: «ci ha assicurato che per qualsiasi problema era a disposizione nel suo uf-ficio. Ed è stato così, in quanto quelle poche volte che abbiamo avuto bisognodi lei l’abbiamo trovata disponibile, ma niente più» (un’affidataria). «In con-clusione devo dire che il nostro primo affidamento ce lo siamo gestiti da solied è merito del ragazzo se al compimento dei suoi 18 anni l’affidamento è ter-minato in modo positivo» (famiglia affidataria) Rapporti non idilliaci manemmeno compromessi. «In questi anni di esperienza di affido il rapportocon i servizi si è rivelato spesso deludente: se si considera a parte l’aspetto delrapporto umano e personale, di solito abbastanza soddisfacente, la procedu-ra di affidamento appare lacunosa soprattutto per ragioni generali e non di-pendenti dai singoli operatori» (un affidatario).

Un’ulteriore questione, connessa alla precedente, riguarda il rapportotra famiglia affidataria e il minore che viene accolto. La capacità di gestire larelazione con funzioni genitoriali, ma nel contempo di mantenere la «di-stanza», cioè non identificarsi con il ruolo di genitore (non siamo la tuamamma e papà), nonché quella di «sostenere» il distacco nel periodo pre-cedente alle dimissioni e in quello successivo, richiedono competenze nonindifferenti. È possibile che qualcuno le abbia «innate», o acquisite nella suastoria di vita, ma sicuramente sostegno e formazione non possono essereevitati. L’esigenza è avvertita da sempre più famiglie, consapevoli che l’e-sperienza dell’affido non si regge soltanto su forti motivazioni e capacità af-fettive. Ciò richiama ulteriormente alle responsabilità degli Enti pubblici.«Abbiamo partecipato, perché siamo stati contattati dal Comune, ai gruppidi sostegno famiglie affidatarie, che hanno operato per otto mesi; le sei fami-glie che formavano il nostro gruppo avevano minori di età eterogenea e affi-damenti diurni e residenziali; abbiamo lavorato in 10 incontri con l’aiuto didue assistenti sociali, cercando insieme strategie per affrontare momenti e si-tuazioni problematiche. In un secondo tempo il gruppo è diventato di auto-mutuo aiuto, e anche senza la presenza dell’assistente sociale ha continuatoad incontrarsi mensilmente» (un’affidataria).

Spesso un minore in affidamento è conosciuto e seguito da una pluralitàdi operatori non sempre coordinati (assistente sociale, educatore, inse-gnante, neuropsichiatra infantile, psicologo, giudice, perito del tribunale,perito di parte, avvocato ecc.). Spesso le decisioni tardano ad essere prese,perché nessuno ha la facoltà e possibilità di decidere senza l’altro, spesso ipareri non sono concordi. In tale quadro chi ha la titolarità del caso (cioèmolti degli attori sopra indicati) a volte non riconosce il ruolo e l’impegnodelle famiglie. Dove, come a Torino, ci sono attive organizzazioni di famiglie,le tematiche e iniziative relative all’affidamento si sono significativamentesviluppate. Non per questo il rapporto tra organizzazioni di tutela, advocacye volontariato, i gruppi di famiglie e l’ente locale, esclude il conflitto. Spesso 227

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l’Ente pubblico si trova, in posizione di accusato, a doversi difendere da pre-sunte mancanze, mentre le famiglie affidatarie risultano essere le «vittime»di tali carenze.

Le ricerche tendono a rafforzare tale approccio: si parla delle famiglie af-fidatarie e dei loro problemi, della loro difficoltà di ottenere ciò che chiedo-no dai servizi sociali e sanitari. Molto meno si parla dei problemi dei servizisocio-sanitari nel supportare e sostenere le famiglie, dei carichi di lavoro, delpeso emotivo cui quotidianamente è sottoposto un operatore sociale, che sadi non poter soddisfare tutte le richieste e di non sapere/poter scegliere.

In sintesi una seria politica di potenziamento dell’affidamento implica:❖ la presenza di un forte impegno per la deistituzionalizzazione dei

minori;

❖ la consapevolezza che l’affidamento non è uno strumento adeguatoper tutti i minori che vivono in situazione di gravi difficoltà;

❖ interventi di promozione, sostegno delle famiglie affidatarie e diquelle d’origine, nella consapevolezza che le risorse per l’affido nonsono solo delle famiglie affidatarie, e l’affido non deve essere intesocome strumento di risparmio finanziario;

❖ il sostegno alle famiglie e ai gruppi di auto-mutuo aiuto, il riconosci-mento delle organizzazioni di famiglie affidatarie e del loro diritto arelazionarsi, come soggetto collettivo, con gli enti pubblici e con iservizi;

❖ l’attenzione al progetto e ai relativi tempi, per evitare che l’affida-mento si configuri come collocazione sine die, con prospettive incer-te e lasciate al caso.

Politiche dell’affidamento a Torino

La Città di Torino ha maturato una lunga esperienza di affidamento fa-miliare, poiché la deliberazione istitutiva del servizio risale al 1976, ben set-te anni prima della legge 184. Successivi provvedimenti hanno, sulla basedell’esperienza, apportato ulteriori specificazioni:

❖ estendendo l’affidamento ad anziani ed handicappati (Deliberazionedel Consiglio Comunale 9203354/19);

❖ prevedendo l’affidamento a parenti, in caso di gravi carenze educati-ve, ricoveri ospedalieri, morte dei genitori;

❖ istituendo l’affidamento diurno per situazioni che necessitano di so-stegno ed aiuto, senza allontanamento (Deliberazione del ConsiglioComunale del giugno ’86 mecc. 8606570/19);

❖ prevedendo le comunità familiari quale forma di estensione dell’affi-do, e cioè famiglie allargate che ospitano fino a quattro bambini oltreai propri eventuali figli (Deliberazione Giunta Comunale del dicem-bre ’93, mecc. 930824/19);

❖ prevedendo la prosecuzione degli interventi assistenziali, e quindi228

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anche l’affidamento oltre i 18 anni e fino ai 21, su progetto che rap-presenti una reale necessità per la conclusione positiva dell’interven-to a suo tempo deciso;

❖ attivando il Progetto Neonati (deliberazione della Giunta Comunaledel novembre 1995 mecc. 9508697/19). Questa iniziativa prevede af-fidamenti familiari di breve periodo, per bambini di età compresa tragli 0 e i 18 mesi, quale alternativa all’inserimento in comunità in at-tesa dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile. Dall’anno2001 è iniziata una sperimentazione di collegamento tra una comu-nità alloggio a gestione diretta per bambini 0-3 anni e tale progetto:attraverso una profonda riorganizzazione della struttura, gli educato-ri garantiscono l’accoglienza residenziale di un numero limitato diminori, e il supporto alle famiglie di origine e affidatarie. Tale sup-porto consiste sia nel sostegno che nella osservazione della compe-tenza genitoriale, al fine di poter nei tempi più brevi possibili fornireal Tribunale gli elementi per una decisione (rientro in famiglia, affi-damento a rischio giuridico, apertura stato adottabilità, affidamentoa medio-lungo termine);

❖ favorendo i progetti di autonomia dei giovani già in affidamento(Deliberazione della Giunta Comunale del 18 aprile 2001 mecc.200103392). In specifico si prevede la realizzazione di progetti rivoltiai ragazzi per i quali, al compimento della maggiore età, non è possi-bile il rientro presso il nucleo di origine, ma si può avviare un percor-so per l’autonomia personale, lavorativa, abitativa, con ulteriore per-manenza fino ai 21 anni presso la famiglia affidataria. Ogni progettodeve essere presentato dai servizi sociali competenti su proposta del-la famiglia affidataria con il consenso dell’interessato ed è gestito dal-la famiglia stessa, a fronte di un contributo massimo di 10 milioni perspese relative alla sistemazione abitativa, alla vita di relazione, allafrequenza a corsi e scuole, compresi quelli universitari.

Gli affidamenti familiari a Torino sono aumentati progressivamente ne-gli anni. In 25 anni di lavoro ed esperienza nel campo sono stati realizzatiquasi 5000 affidamenti, numero di gran lunga superiore a quello di qual-siasi altra Città d’Italia, in 9 casi su 10 l’affidamento riguarda i minori (Ta-bella 6.1).

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Tabella 6.1 – Affidamenti realizzati a Torino nel periodo 1993 – 2001

Secondo i dati riferiti al 1999, la modalità prevalente di affidamento deiminori è l’affidamento non consensuale a famiglie di terzi e di parenti, cheavviene in circa il 50% dei casi. Segue l’affidamento diurno a terzi (36%) el’affidamento consensuale (14%) a terzi e parenti. Il ricorso alle reti di pa-rentela per l’affidamento è in evidente contrazione.

L’andamento nel tempo degli affidamenti è stato determinato da un au-mento degli affidamenti sia residenziali che diurni (aspetto positivo), e dauna lunga permanenza dei minori nelle famiglie affidatarie (aspetto di com-plessità, dovuto alla situazione sempre più problematica di molte famiglie,per la condizione delle quali non è possibile attuare un rientro del minore,ma neppure una procedura di stato di adottabilità). Peraltro, un significati-vo numero di minori continua a rimanere in strutture residenziali, per la dif-ficoltà a reperire famiglie affidatarie adatte o disponibili a situazioni parti-colarmente difficili, per età (adolescenti), per handicap, e per problemi sa-nitari (hiv).

La spesa si è progressivamente incrementata, fino a raggiungere 8 mi-liardi annui di lire. Questa non è la reale spesa degli affidamenti, in quantol’intervento non si limita al solo rimborso alle famiglie, ma comprende iltempo lavoro degli operatori, e in particolare degli assistenti sociali, che aciascun affido devono dedicare molto più tempo rispetto all’inserimento incomunità.

I rimborsi previsti per ciascun minore sono i seguenti:

❖ affidamenti residenziali a terzi 380 euro mensili;

❖ affidamenti residenziali a parenti 266 euro mensili

❖ affidamenti diurni con pasto 266 euro mensili

❖ affidamenti diurni senza pasto 196 euro mensili

❖ progetto neonati 760 euro mensili

❖ comunità familiare 832 euro mensili

Anno Interventidi cui

Minoriresid. a terzi resid.a parenti diurni

1993 647 614

1994 647 624

1995 692 657

1996 785 330 277 178 741

1997 914 370 286 258 852

1998 1035 408 302 325 962

1999 1167 429 311 427 923

2000 1161 1006

2001 1315 409 240 666 1114

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È prevista la possibilità di aumento delle quote del 30%, per bambini conparticolari situazioni socio-ambientali e sanitarie e per adolescenti; del 60%per handicappati e del 100% per minori riconosciuti totalmente invalidi.Inoltre è prevista la possibilità di erogare contributi straordinari per specifi-ci bisogni, quali acquisto occhiali, cure ortodontiche ed ortottiche, sostegnoscolastico individuale, spese per soggiorni brevi, spese per iscrizione a cor-si e esigenze accessorie.

Nel ’96 è stata organizzata una prima campagna di sensibilizzazione, cuihanno risposto più di 500 famiglie delle quali più di 200 sono diventate poiaffidatarie; attualmente ne è in corso una nuova. Al fine di sostenere le fa-miglie affidatarie, a partire dal ’ 95 sono stati avviati gruppi di sostegno, diauto-mutuo aiuto e misti, tra famiglie affidatarie e persone che si avvicina-no per la prima volta al tema e non hanno ancora esperienze concrete. Taligruppi, condotti da operatori dei servizi socio-assistenziali opportunamen-te formati, sono stati finora una quindicina, coinvolgendo circa duecentonuclei di affidatari. Attualmente è in fase di avvio un gruppo di sostegno perfamiglie di origine che hanno bambini in affidamento.

È stata realizzata dalle Associazioni di famiglie affidatarie una ricerca, incollaborazione con l’Università di Torino e con il patrocinio del Comune edella Provincia di Torino, circa i percorsi e le problematiche nelle diverse fa-si dell’affido (Garelli 2000). È in fase di predisposizione una convenzionecon le ASL cittadine relativa agli affidamenti e alle adozioni. La Città fa par-te, fin dal suo inizio (’98) del Coordinamento nazionale Servizi Affidi.

Scheda B – Le famiglie affidatarie a Torino

231

Da una recente ricerca (Garelli 2000) emerge che il minore affidato appartieneper lo più all’infanzia e alla prima adolescenza. La maggior parte dei minorinon presenta problemi gravi a livello personale, bensì legati alla situazione so-cio-familiare, Non sono rari i casi di accoglienza di bambini e ragazzi con pro-blematiche rilevanti sia di salute che relazionali, o che provengono da istituti ecomunità. La difficoltà maggiore secondo le famiglie affidatarie è l’adattamen-to alle regole, il che si può anche ricondurre alla diversità culturale e socialecon quella d’origine.La famiglia affidataria tipo ha figli propri biologici e perciò si orienta all’affida-mento non per colmare dei vuoti, ma sulla base di motivazioni positive, chespesso derivano da un impegno sociale e vogliono essere l’espressione concre-ta di tale impegno. «La nostra famiglia è composta da tre persone, un papà, unamamma e una figlia. Quando è iniziata la nostra avventura di affidatari nostrafiglia aveva 8 anni. Io ero insegnante in pensione (baby pensionata!), mio mari-to faceva il negoziante. Lui si è sempre occupato, con un caro amico mancatoqualche anno fa, di aiutare ragazzi disabili. Desideravamo però metterci a di-sposizione come famiglia. Di qui la nostra candidatura quale famiglia affidata-ria». Un atteggiamento di fondo laico anche dove la fede religiosa è parte rile-vante della propria identità personale e sociale. «La motivazione che ci ha spin-ti alla nostra scelta si radica nella nostra comune aspirazione ad essere una fa-

segue

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Aspetti tecnici e organizzativi.

La gestione complessiva dell’affidamento familiare a Torino comportaprecise fasi, che richiedono ciascuna l’esercizio di attività e compiti.

❖ Campagne di sensibilizzazione: per il reperimento di potenziali fami-glie affidatarie.

❖ Accoglienza: occorre una organizzazione efficace e efficiente, che ac-colga in tempi molto brevi la richiesta di informazioni,attraverso, peresempio, una linea telefonica «ad hoc», colloqui individuali, serateinformative per gruppi ecc.

❖ Conoscenza/selezione. Le famiglie che intendono, dopo la fase del-l’accoglienza, avviare l’esperienza dell’affido devono approfondirecon operatori dei servizi sociali e sanitari la loro motivazione e ido-neità all’affido.

❖ Abbinamento. Ciascun minore, in relazione alla condizione e ai biso-gni, viene abbinato con la famiglia che si ritiene più adatta.

❖ Sostegno. La fase relativa alla gestione dell’affido, può essere condottasia attraverso il rapporto interpersonale con operatori dei servizi so-ciali e sanitari, oppure con gruppi di sostegno e di auto-mutuo aiuto.

La Città si è dotata negli anni, ritenendola importante per assolvere aqueste funzioni, di una organizzazione per l’affidamento, che tenesse in ri-levante considerazione il coinvolgimento del territorio e dei servizi decen-trati. Per questo motivo non ha costituito un servizio affidi centralizzato (co-

miglia aperta: il mistero che da sempre avvolge l’inizio di un amore tra un uo-mo e una donna si è per noi in parte rivelato nella consapevolezza di dover do-nare la nostra gioia di innamorati al mondo che ci stava intorno… Nel nostrocomune sentimento religioso dunque ha molto peso la condivisione delle fatichedel prossimo: non si tratta quindi tanto del bisogno di realizzare un impegno so-ciale fine a se stesso, quanto quello di credere che nella solidarietà, nella dona-zione umana reciproca, siano svelate alcune importanti risposte esistenziali».Quella «tipo» è una famiglia di età adulta, con alle spalle anni di vita comune.Appartiene al ceto medio con scolarità medio alta. «Siamo sposati da più didieci anni e abbiamo quattro figli e due bambini in affidamento. Io sono archi-tetto e lavoro a tempo pieno, mentre mia moglie è medico e lavora a metà tem-po. Entrambi siamo liberi professionisti e disponiamo quindi di una certa li-bertà nell’organizzazione degli impegni giornalieri». Presenta una rete paren-tale e di amicizie ampia e significativa. Come in ogni «normale» famiglia, il pe-so dell’educazione e la cura dell’affidato ricadono prevalentemente sulla don-na. Gli affidatari presentano un approccio pragmatico e realistico alla situazio-ne, si rendono disponibili ad impegni compatibili con le loro condizioni di vi-ta. Non pretendono di «cambiare» il bambino, ma intendono offrire occasionidi sicurezza, aiuto, conferma di sé, crescita il più possibile equilibrata.

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me altre Città italiane hanno fatto), ma ha strutturato un sistema di gestio-ne integrata tra livello cittadino e decentrato. In specifico, con circolare del1997, è stato definito l’assetto organizzativo, proponendo un raccordo pre-ciso tra i diversi servizi e soggetti coinvolti. È stata prevista la figura dell’as-sistente sociale referente per l’affido nell’ambito territoriale di circoscrizio-ne, come riferimento sia per le risorse (le famiglie affidatarie) sia per i biso-gni (i minori in difficoltà), e occasione di collegamento costante con le altreCircoscrizioni e con la Divisione. Tutti i referenti circoscrizionali, e due ope-ratori della Divisione, costituiscono il gruppo cittadino con funzioni di ri-cerca e di studio, sede degli abbinamenti sovrazonali, luogo di coordina-mento generale di tutto il lavoro sull’affido.

Il modello organizzativo adottato ha senza dubbio prodotto risultati po-sitivi, quali vicinanza al territorio, maggiore capillarità e produzione di mag-gior sensibilità e cultura sull’affido, realizzazione di un lavoro di rete e colle-gamento fra i diversi servizi sociali di base. Ha però anche evidenziato i li-miti di interventi, per tutti i livelli di cui sopra, troppo diversificati da zona azona, sia per modalità che tempi, e troppo legati a contingenze specifiche(per es. in particolare la carenza di personale in un determinato Centro diservizio sociale).

Per quanto riguarda l’accoglienza, dovendosi rivolgere ciascuna famigliaal servizio sociale circoscrizionale, si sono riscontrate diverse modalità etempi nell’ascolto e nell’informazione. Anche per quanto riguarda la cono-scenza/selezione, le procedure ed i tempi sono molto diversificati, dipen-dendo da organizzazione, priorità, lista d’attesa, sia delle singole équipe del-la neuropsichiatria infantile, sia dei servizi sociali decentrati. Per quanto ri-guarda gli abbinamenti, ogni Circoscrizione opera gli stessi nel proprio ter-ritorio (famiglie e bambini della Circoscrizione), segnalando le famiglie «li-bere» agli Uffici centrali. Ove non sia possibile l’abbinamento a livello circo-scrizionale, il Servizio sociale territoriale si rivolge alla Divisione centraleper il reperimento di una famiglia a livello cittadino. Negli anni si è rafforza-ta la tendenza ad un eccessivo «federalismo» circoscrizionale da parte deiServizi territoriali, che consiste nel non mettere a disposizione della Città le«loro famiglie», tenendole in attesa di un bambino di quel territorio.

I limiti dell’assetto organizzativo sopra descritto hanno portato a nuovemodalità e procedure organizzative, necessarie per la gestione di interventisempre più complessi e numerosi, in concomitanza con la nuova Campa-gna aperta a fine anno 2000. Infatti sarebbe controproducente, per l’imma-gine della Città, una campagna svolta senza una efficace ed efficiente acco-glienza, rapide selezioni/conoscenze e efficaci/efficienti abbinamenti sututta la Città. Lo stesso dicasi per il sostegno alle famiglie affidatarie, inquanto la loro valutazione positiva dell’esperienza favorisce la disponibilitàalla continuazione, e l’allargamento ad altre famiglie attraverso la concretatestimonianza di quelle «soddisfatte». Il nuovo assetto prevede che le atti-vità e i compiti relativi alle fasi operative dell’affidamento di cui sopra sianosvolti a due livelli, uno cittadino e l’altro circoscrizionale.

Attività a livello cittadino. La Casa dell’Affido.L’esperienza degli ultimi anni ha fatto emergere la necessità di un luogo

fisico quale punto di riferimento cittadino, dove raccogliere e coordinare 233

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tutta l’attività. La Casa dell’affido (sita in piazza della Repubblica 22) costi-tuisce il luogo per l’esercizio a livello cittadino, al fine di garantire maggioreefficacia ed efficienza, di specifici compiti relativamente alle funzioni/fasisopra indicate:

❖ per la sensibilizzazione, si struttura come polo di ricerca e di infor-mazione (es. biblioteca, foglio informativo ecc.), di organizzazione dicampagne, generali e mirate per specifiche problematiche e fasce dietà;

❖ per l’accoglienza, costituisce il riferimento per tutte le persone, fami-glie e nuclei, che intendono conoscere l’affido, e si rivolgono per laprima volta ai servizi, attraverso un primo colloquio individuale econ l’organizzazione di incontri informativi a cadenza mensile;

❖ per l’abbinamento, è la sede della «banca delle famiglie affidatarie» edella «banca dei minori da affidare», ove vengono decisi gli abbina-menti a livello cittadino, per quei minori che non hanno trovato ri-sposte adeguate nel loro territorio di residenza;

❖ per il sostegno, rappresenta il punto di riferimento per tutta l’attivitàdei gruppi di sostegno e di auto-mutuo aiuto.

La Casa dell’affido è sempre aperta e viene gestita a turno dalle assisten-ti sociali referenti, nonché da famiglie affidatarie singole o di associazioniallo scopo disponibili.

Attività a livello Circoscrizionale.A questo livello, viene esercitata la funzione di «selezione/conoscenza»

delle famiglie e persone, di norma inviate, per competenza territoriale, dal-la casa dell’Affido dopo la prima accoglienza ed informazione. Allo scopoviene costituita una micro équipe circoscrizionale, composta, oltre che dapersonale delle ASL, dal referente e da uno o due assistenti sociali con espe-rienza maturata in questa attività. Il percorso di conoscenza deve essereconcluso entro due mesi dalla prima segnalazione. In ogni circoscrizione,opera un referente per l’affido, ossia l’assistente sociale, che gestisce con lecolleghe e con i referenti dell’affido del Settore minori tutte le attività previ-ste nella Casa dell’Affido. Il suo impegno è quantificabile in 11 ore mediesettimanali. La referente svolge funzioni di coordinamento e consulenza, alivello di Circoscrizione per le colleghe che seguono gli affidamenti.

I principali aspetti di complessità di questa organizzazione si possonoriscontrare nei rapporti con i servizi sanitari, e in specifico la NPI,per la co-stituzione e funzionamento delle micro équipe per la selezione e il sostegno;nel conciliare gli impegni delle referenti relativi al lavoro presso il centro so-ciale di riferimento con quello per gli affidi; oltre che in consueti vincoli bu-rocratici, quali la carenza di personale anche connessa alle numerose situa-zioni di part time, turnover ecc.. Sempre a livello circoscrizionale, vieneesercitata la funzione di sostegno all’affido, relativamente alla presa in cari-co individuale, con i problemi conseguenti.

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6.7 L’adozione

Aspetti generali

In Italia, cresce il numero delle coppie, in maggioranza senza figli biolo-gici e con la presumibile «esigenza» di genitorialità, che fanno domanda diadozione. Per le coppie che fanno domanda di adozione non è facile trova-re una soddisfazione alle loro esigenze: non tanto perché, almeno formal-mente, le norme prevedono «un genitore per il bambino e non un bambinoper il genitore», ma in quanto, a fronte dell’ aumento di richieste, il numerodei minori in stato di adottabilità non mostra alcuna tendenza alla crescita.Erano 1231 nel ’93, sono 1246 nel ’99, dopo aver raggiunto nel ’97 il valoremassimo di 1440. La stabilità del numero dimostra che, in Italia, i bambiniabbandonati e quelli tolti ai genitori per gravi motivi, aggiunti a quelli nonriconosciuti da entrambi i genitori naturali, rappresentano un fenomenoquantitativamente contenuto.

Questa situazione, a fronte della crescente domanda, orienta sempre piùle coppie verso l’adozione internazionale, che presenta un bacino potenzia-le di minori adottabili ben più vasto. Nel periodo 1993-99, a fronte di 59 mi-la domande di adozione nazionale, ci sono stati 6074 decreti di adozione,mentre nello stesso periodo alle 44 mila domande di adozione internazio-nale hanno corrisposto 14.607 decreti. Quindi, ogni 100 domande naziona-li si hanno 10,1 decreti, ad ogni 100 domande di adozione internazionalecorrispondono 32,9 decreti. Ne deriva la maggiore probabilità di poter adot-tare un bambino straniero. La maggioranza proviene dall’Est (Russia, Ro-mania e Bulgaria) con ben il 57% dei bambini, il 22% proviene da India,Brasile e Colombia. La richiesta pare orientarsi verso paesi più poveri, ma icui bambini sono per tratti somatici più simili ai nostri.

Nel ’99, 615 coppie hanno presentato domanda di adozione nazionale odichiarazione di disponibilità per l’adozione internazionale al Tribunale peri minorenni di Torino, di cui 133 residenti in Città. Tale numero è aumenta-to nel 2000 (184), mentre registra una flessione nel 2001 (158) (Tabella 6.2).

Tabella 6.2 – Disponibilità di adozione – coppie residenti a Torino per anni e tipo diadozione

Fonte: Comune di Torino

L’adozione internazionale in questi anni ha conosciuto un fortissimosviluppo. Nel 1982 le adozioni di bambini stranieri erano meno di trecento,a fronte di più di mille nazionali. Nel 1999 a fronte, come si è detto, della sta-bilità di adozioni nazionali, le domande per l’internazionale sono state più 235

Anni Nazionale Internazionale Doppia Totale

1998 52 14 80 146

1999 41 21 71 133

2000 58 24 102 184

2001 39 25 94 158

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di settemila. Questo fenomeno peraltro si riscontra in tutti i paesi economi-camente sviluppati.

La normativa

L’istituto dell’adozione, dopo il precedente ordinamento sancito dallalegge 431/67, è attualmente regolato dalla legge 184/83, modificata dallalegge 476/98 che recepisce la Convenzione dell’Aia sull’adozione interna-zionale, e dalla legge 149/2001. La 184/83 così come modificata definisce lecaratteristiche generali dei procedimenti di adozione.

Requisiti per presentare domanda di adozione.❖ La domanda è consentita ai coniugi uniti in matrimonio da almeno

tre anni, senza separazione negli ultimi tre anni, neanche di fatto. ❖ È sufficiente aver stabilmente convissuto per tre anni immediatamen-

te prima del matrimonio, che comunque deve avvenire nel momentodi presentazione della domanda (modifica apportata dalla 149).

❖ L’età deve superare di almeno 18 e non più di 45 anni (prima della 149erano 40) quella dell’adottato.

❖ Per casi particolari, e nell’interesse del minore, i limiti di cui soprapossono essere derogati dal Tribunale per i minorenni (previsionenon presente nella 184/83).

I requisiti di età massima possono essere presenti in uno solo degli adot-tanti (modifica apportata dalla 149). I requisiti di cui sopra valgono sia perl’adozione nazionale che internazionale.

Condizioni e procedure per l’idoneità all’adozione:❖ Chi intende adottare, se in possesso dei requisiti, deve presentare do-

manda al Tribunale per i minorenni competente per territorio. La do-manda decade dopo tre anni dalla presentazione(in precedenza dueanni) e può essere rinnovata.

❖ La legge sull’adozione internazionale, peraltro recepita dalla 184,prevede per le coppie momenti sia di informazione che di prepara-zione.

❖ Il tribunale, dopo aver verificato i requisiti, dispone adeguate indagi-ni, ricorrendo ai servizi socio-assistenziali degli enti locali, nonchéavvalendosi delle professionalità presenti nelle aziende sanitarie lo-cali e ospedaliere. Tali indagini devono riguardare in particolare l’at-titudine a educare il minore, la situazione personale ed economica, lasalute, l’ambiente familiare degli adottanti, i motivi per i quali desi-derano adottare. Devono essere avviate e concludersi entro 120 gior-ni (in precedenza non erano previste scadenze perentorie); la previ-sione del periodo entro il quale devono concludersi le indagini (in ca-so contrario si incorre nell’omissione di atti d’ufficio) esprime l’esi-genza del legislatore di favorire le famiglie che vogliono un bambino.Tale disposizione era stata introdotta dalla legge sull’adozione inter-

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nazionale e poi, con la 149, recepita anche per la nazionale. Non sicapisce tuttavia perché la stessa previsione e obbligatorietà non siastata fatta dal legislatore per gli affidamenti familiari, con obbligato-rietà delle campagne di sensibilizzazione, termini perentori per la se-lezione ecc. Da ciò deriva, per i servizi, la necessità, di dare la prioritàalle adozioni rispetto agli affidamenti, per rispettare disposizioni dilegge cogenti.

Apertura del procedimento di adottabilità❖ Per legge sono dichiarati in stato di adottabilità dal Tribunale per i

minorenni territorialmente competente i minori di cui sia accertatala situazione di abbandono, perché privi di assistenza morale e ma-teriale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purchéla mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggioredi carattere transitorio.

❖ Non sono considerate cause di forza maggiore quei comportamentiche persistono a seguito anche di un rifiuto delle misure di sostegnoe di aiuto. Pertanto la povertà economica non è mai determinante invia esclusiva per l’adozione, né lo è il ricovero in istituto, se accom-pagnato da un concreto interessamento nei confronti del figlio. Ciòpuò spiegare, almeno in parte, il contenuto numero delle adozioninazionali e l’aumento degli affidamenti sine die (dove non c’è possi-bilità di rientro in famiglia, ma neanche stato di abbandono comedefinito dalla legge).

❖ La legge prevede che il minore debba essere sentito nella varie fasi delprocedimento, se ha compiuto i dodici anni e anche se di età inferio-re, in considerazione della sua capacità di discernimento. Inoltre ilminore che abbia compiuto i 14 anni deve esprimere consenso sia al-l’affidamento preadottivo che all’adozione. Il procedimento di adot-tabilità deve svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza legale del mino-re e dei genitori o degli altri parenti. (È prevista anche la possibilità dinomina di difensore d’ufficio). Tale disposizione è stata sospesa (condecreto legge 150/2001 convertito in legge 240/2001) in attesa dell’e-manazione di una specifica disciplina sulla difesa d’ufficio, e comun-que non oltre il 30 giugno 2002.

Procedure per l’adozione❖ Conosciuta una situazione di presunto abbandono (chiunque ha la

facoltà di segnalarlo e in specifico ne hanno il dovere gli incaricati dipubblico servizio e i pubblici ufficiali) su iniziativa del Procuratoredella Repubblica il Tribunale per i Minorenni può dichiarare l’aper-tura dello stato di adottabilità. A ciò conseguono indagini circa l’esi-stenza di genitori o parenti entro il quarto grado, che con il minoreabbiano mantenuto rapporti significativi. A conclusione delle indagi-ni e accertamenti di cui sopra, può essere pronunciato lo stato diadottabilità dal Tribunale, se i genitori e i parenti entro il quarto gra-do non si sono presentati senza giustificato motivo o se l’audizione

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degli stessi «ha dimostrato il persistere della mancanza di assistenzamorale e materiale e la non disponibilità ad ovviarvi».

❖ Prima di procedere alla dichiarazione dello stato di adottabilità de-vono essere sentiti anche gli operatori dei servizi, l’eventuale famigliaaffidataria e il tutore.

❖ Fino a questo punto della procedura i provvedimenti possono esseresospesi o revocati dal Tribunale stesso, se cambiano le condizioni cheli hanno determinati. Il provvedimento può essere impugnato inAppello e poi in Cassazione. Durante lo stato di adottabilità è sospe-so l’esercizio della potestà, e di conseguenza è nominato un tutoreprovvisorio.

❖ Il provvedimento di affidamento preadottivo è successivo a quello distato di adottabilità, e consiste nell’abbinamento del minore con unafamiglia. Dura un anno, durante il quale l’inserimento viene seguitodai servizi territoriali competenti. Può essere revocato, quando ven-gano accertate difficoltà di idonea convivenza ritenute non superabi-li; può essere prorogato una sola volta.

❖ Al termine del periodo di affido preadottivo, nel caso di esito positi-vo, viene pronunciato dal Tribunale il decreto di adozione. Anche inquesto caso è previsto ricorso in Appello e Cassazione. Con l’adozio-ne, l’adottato acquista lo status di figlio assumendo e trasmettendo ilcognome della nuova famiglia; cessano i rapporti di ogni tipo con lafamiglia di origine.

Adozione internazionale❖ Per quanto riguarda le procedure dell’adozione internazionale, il

Titolo III della legge 184, modificata dalla 149, recepisce integral-mente la legge sull’adozione internazionale del ’98 già citata.

❖ Questa legge mirava a superare l’adozione internazionale «fai da te»,come veniva comunemente indicato il sistema per il quale ognunopoteva scegliersi liberamente il proprio «intermediario» (un legale,una associazione di volontariato, un semplice missionario o anchequalche «affarista», con collaboratori di fiducia all’estero). A questosistema era talvolta legato un «mercato» delle adozioni internaziona-li, in cui si potevano nascondere situazioni a rischio per le coppieadottive e soprattutto una mancanza di tutela dei diritti dei minori.

❖ La legge, oltre agli attori già presenti (Tribunale e servizi) introduce duenuovi soggetti (una Autorità centrale e Enti autorizzati), ne regolamen-ta le funzioni e i rapporti. Gli enti autorizzati devono, tra l’altro, curarecon gli enti locali l’informazione sulle procedure dell’adozione inter-nazionale e sulle concrete prospettive; svolgere le pratiche e procedu-re di adozione presso le autorità del paese di origine, sia dal punto divista amministrativo che tecnico, fino al trasferimento in Italia delbambino adottato; curare i rapporti con la Commissione per le Ado-zioni internazionali. L’Autorità centrale, denominata Commissioneper le Adozioni internazionali, ha compiti, tra l’altro, di promozionedell’adozione internazionale; studio sulle tematiche dell’adozione;

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promozione della cooperazione internazionale in materia di autoriz-zazione degli enti che ne fanno richiesta; proposta di stipula di accor-di bilaterali in materia, con gli Stati che non hanno firmato la conven-zione internazionale; autorizzazione all’ingresso e al soggiorno perma-nente del minore straniero adottato, o affidato a scopo di adozione.

❖ Gli enti locali e i servizi sanitari mantengono le attribuzioni già con-ferite, e possono svolgere le attività di competenza in collaborazionecon gli enti autorizzati, con esclusione della valutazione dei requisitidella coppia. Le regioni e le province autonome hanno funzioni dipromozione della formazione, di coordinamento e messa in rete traservizi territoriali sociali e sanitari, enti autorizzati, Tribunale.Possono istituire con legge propria un servizio di adozione interna-zionale equivalente a quello svolto dagli enti autorizzati.

❖ Per quanto riguarda le procedure, la coppia dichiarata idonea dal Tri-bunale per i minorenni competente deve conferire l’incarico ad unodegli enti autorizzati entro un anno, altrimenti l’idoneità scade e deveessere rinnovata. L’Ente incaricato svolge le necessarie procedure, tra-smettendo tutta la documentazione, compreso il provvedimento delgiudice straniero, al Tribunale per i minorenni e alla Commissione cen-trale. La Commissione autorizza l’ingresso su richiesta dell’ente e la re-sidenza permanente del bambino adottato, in Italia. Il consolato, sullabase di tale autorizzazione, fornisce il visto di ingresso.

❖ Se all’estero è già pronunciato provvedimento di adozione, lo stessoassume tutti gli effetti previsti nell’ordinamento italiano. Se invece laprocedura di adozione non è terminata nel paese estero, ma il bam-bino è affidato dal paese estero alla coppia per adozione, allora si av-via in Italia la procedura di affidamento preadottivo, con le regoledell’adozione nazionale.

❖ La famiglia che intende adottare un bambino straniero ha dalla leggealcune agevolazioni, quali poter detrarre nella misura del 50% le spe-se sostenute per viaggio e permanenza all’estero dalla denuncia deiredditi e ottenere per quel periodo il congedo non retribuito dal la-voro, nonché tutte le altre normali agevolazioni previste in caso diadozione (es. astensione obbligatoria i tre mesi successivi all’ingres-so del bambino in Italia).

Considerazioni sulla nuova normativaRisulta evidente, dalle disposizioni della legge 149/2001, una estensione

della possibilità di adottare rispetto alla precedente normativa. Si ritiene chetale estensione possa essere considerata positivamente, se permette ad unbambino di avere una famiglia, ma sia discutibile nel momento in cui mira,di fatto, a «permettere ad una famiglia di avere un bambino». È positiva laderoga del limite di età, in caso di disponibilità all’adozione di bambinohandicappato o con altri gravi problemi di tipo sanitario, in assenza di altrecoppie con i requisiti richiesti. È discutibile invece l’estensione a 45 annidella differenza di età, e la presenza di questo requisito anche solo per unodei coniugi, se ciò è per consentire ad un coppia non più giovanissima diavere dei figli piccoli. Infatti non c’è assolutamente, come abbiamo eviden-

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ziato, carenza di famiglia adottive. Queste disposizioni sembrano quindicontraddire le finalità della legge, che, per le adozioni internazionali, parladi disponibilità all’adozione e non di domanda, quasi a voler sottolineare idiritti superiori del bambino rispetto alle esigenze dell’adulto. La previsionedel matrimonio con precedente convivenza stabile è il risultato di un com-promesso tra forze politiche, con posizioni diverse nel merito del riconosci-mento o meno delle famiglie di fatto.

Per quanto concerne l’adozione internazionale, la ristrettezza dei tempiprevisti per la conoscenza della coppia aspirante da parte dei servizi pare incontrasto con l’esigenza di rendere consapevole una scelta particolarmentedifficile e non reversibile. Inoltre l’adozione internazionale spesso vieneconsiderata dalle coppie una scelta surrogata, perché mancano minori di-chiarati adottabili sul territorio nazionale, ma è ancor più difficile e com-plessa, data la situazione e storia dei bambini adottati da paesi esteri. Intempi ristretti e cogenti, si deve fornire una valutazione di idoneità che vale«per sempre», non considerando che di bambini spesso maltrattati e di-strutti si dovranno occupare gli adottanti, e non di neonati «splendidi e sa-ni». Il fenomeno dei fallimenti, non ancor studiato approfonditamente sia alivello clinico che statistico e comparativo, è evento «sentinella», che devefar riflettere, e nel caso di adozioni internazionali potrebbe assumere parti-colare gravità. Del resto «restituzioni» da parte della famiglia, diagnosi di pa-tologie relazionali, gravissimi reati, atti anticonservativi, sono fenomeni chesi stanno sempre più riscontrando in preadolescenti e adolescenti adottati.

L’organizzazione degli interventi

La Regione Piemonte, con direttiva n. 8 del 1986, aveva dato disposizio-ni circa la costituzione di équipe per le adozioni, da attivare a livello di cia-scuna unità sanitaria locale e composte da almeno due operatori socio-as-sistenziali e uno psicologo. La scelta dell’équipe era determinata dalla ne-cessità di preparare personale con capacità specifiche che, pur non occu-pandosi solo di adozioni, svolgesse tale funzione in modo significativo, da-ta la complessità dell’intervento e la necessità di mantenere rapporti co-stanti ed efficaci con altri interlocutori istituzionali, quali il Tribunale per iminorenni. Venivano definiti compiti di tali équipe:

❖ indagini per la valutazione di idoneità delle famiglie, con relazionesociale psicologica e secondo i dettami della legge;

❖ preparazione delle famiglie che aspirano all’adozione;❖ programmazione di momenti di sensibilizzazione;❖ conduzione di gruppi di sostegno; ❖ supporto al Tribunale per gli abbinamenti; ❖ sostegno e valutazione degli affidi preadottivi.In attuazione della legge sulle adozioni internazionali, e cercando di

uniformare, ove possibile, interventi e procedure tra adozioni internaziona-li e nazionali, la Regione, con deliberazione del marzo 2001 n. 27-2549, hamodificato la precedente direttiva. In specifico, si forniscono disposizionicirca l’organizzazione dei servizi; si individua il percorso metodologico del240

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lavoro delle équipe adozioni e degli enti autorizzati con relative interazioni;si prevede un percorso formativo per il personale, nonché la predisposizio-ne di un sistema informativo adeguato, utile in particolare per il monitorag-gio del fenomeno, ma anche per gli abbinamenti. Si dispone la gratuità de-gli esami medici per accertare, come previsto dalla legge, l’idoneità fisica, sidefinisce uno schema tipo per la predisposizione della relazione per il giu-dizio di idoneità da inviare al Tribunale.

Per quanto riguarda, in particolare, l’organizzazione si dispone entro unanno la ridefinizione delle attuali équipe per le adozioni, con riduzione dal-le attuali 70 a 22 (una per ciascuna ASL). Si definisce il numero minimo dioperatori: tre assistenti sociali dei servizi socio-assistenziali, di cui due tito-lari e un supplente e due (uno titolare e uno supplente) psicologi o neuro-psichiatri infantili. Gli operatori delle équipe non devono essere a tempopieno per questa attività, considerato che a tali profili professionali sono de-mandate anche altre attività del progetto tutela materno-infantile. Sono de-finite le ore di impegno di ciascun operatore, per ogni ruolo sociale o sani-tario e per ogni intervento previsto (informazione sia alla coppia che in in-contri a gruppi con diversi «esperti»/fase istruttoria/fase preadottiva e adot-tiva). Ogni équipe deve essere dimensionata (fatti salvi i livelli minimi) in re-lazione al numero di domande pervenute nel 1999.

Per quanto riguarda il ruolo e i rapporti dei vari soggetti gli indirizzi for-niti riguardano l’attività di preparazione/informazione rivolta alle coppie, lavalutazione di idoneità dei coniugi, la consulenza e il sostegno nella fase diinserimento del minore nella nuova famiglia, la valutazione dell’affido prea-dottivo.

6.8 Valutazioni conclusive

Anche se i bambini hanno diritto a vivere e crescere nella propria fami-glia, spesso sono costretti ad abitare in un’altra casa. Queste case si chiama-no affidamento familiare, comunità, struttura residenziale compresi i vecchiistituti, adozione.

Pur essendo migliorata, nel nostro paese in generale e in Piemonte, la si-tuazione dei minori e la loro qualità della vita, si riscontra una significativarilevanza del fenomeno dell’allontanamento, che deriva sia da aggravate si-tuazioni di difficoltà (aumento della forbice tra chi è socialmente incluso e ilivelli di esclusione e cronicità assistenziale), sia da maggiore sensibilità so-ciale ai problemi e diritti dei minori. Vi è una migliore e più capillare rete deiservizi, che non solo intervengono, ma anche scoprono situazioni altrimen-ti non conosciute. Pertanto, anche se tutta la normativa indica come priori-tario il mantenimento in famiglia, e i servizi si strutturano sempre più in talsenso, non si riscontra una significativa diminuzione delle situazioni di«abitazione in altre case». Anzi, alcuni sostengono che in famiglia a rischiosi sta troppo tempo, gli affidamenti e le comunità dovrebbero non esserel’ultima spiaggia ma avere una funzione preventiva, e si arriva alla soluzio- 241

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ne eterofamiliare, nella preadolescenza e adolescenza, quando ormai ètroppo tardi.

Le condizioni che più richiedono l’allontanamento sono quelle relativeall’abuso e maltrattamento, all’abbandono e trascuratezza grave, allo sfrut-tamento nella prostituzione, alla tossicodipendenza dei genitori, alle pato-logie relazionali e a gravi disturbi del comportamento. Spesso tali fattori sicombinano in un quadro multiproblematico. Meno incidenti, in quanto piùaggredibili con interventi di sostegno al nucleo, il disagio, la marginalità so-ciale, la deprivazione socio-culturale. Gli abusi sessuali sono un fenomenoemergente (forse anche per la maggiore sensibilità sociale e la conseguentevisibilità) che quasi sempre, specie se perpetrati in famiglia, implicano l’al-lontanamento. In genere, la collocazione eterofamiliare avviene in comu-nità, a causa della necessità di intervento immediato, e della difficoltà di tro-vare una idonea e disponibile famiglia affidataria. O per la inopportunità diproporre immediatamente un’altra famiglia, e per la necessità di trovare unarisposta più «neutra», a seguito di un trauma profondo, causato proprio dafigure genitoriali. Successivamente, definito il percorso del trattamento, sipossono attivare inserimenti in famiglie affidatarie. Un secondo rilevantefattore di rischio per gli interventi eterofamiliari, la cui incidenza pare negliultimi anni stabilizzata, è costituito dalla presenza di genitori tossicodipen-denti di figli molto piccoli. Anche in questo caso, la soluzione più immedia-ta è quella dell’inserimento in comunità, anche se si stanno consolidando osperimentando altri interventi, quali l’affidamento a brevissimo termine ol’affidamento a «rischio giuridico» (a famiglia affidataria idonea all’adozio-ne, nell’ipotesi di un allontanamento definitivo dal nucleo di origine).

Preoccupa l’aumento delle situazioni di gravi disturbi o patologie rela-zionali in preadolescenti ed adolescenti, a fronte di una assenza, almeno inPiemonte, di interventi di tipo residenziale. Infatti, nonostante la normativanazionale lo preveda, non esistono comunità terapeutiche, né tantomenoreparti o posti letto ospedalieri per il trattamento delle fasi gravi ed acute. Iminori finiscono nei repartini psichiatrici anche per mesi, secondo quantoè previsto da una deliberazione regionale, che «tampona» una situazione or-mai inaccettabile e insostenibile. Le neuropsichiatrie infantili, competentiin materia, sono le cenerentole della sanità territoriale, che a sua volta risul-ta di fatto ben meno considerata, in termini di attenzione e allocazione di ri-sorse, rispetto a quella ospedaliera. I minori «psichiatrici» finiscono per es-sere inseriti in strutture fuori regione o in strutture socio-assistenziali asso-lutamente inadeguate per affrontare i loro problemi.

A fronte di questa situazione complessiva di rischio, le risposte «conso-lidate» sono quelle dell’affidamento, adozione, inserimento in strutture re-sidenziali. Gli affidamenti familiari, regolamentati da una legge dell’83 re-centemente modificata, costituiscono una risposta prioritaria, ma nel con-tempo presentano rilevanti complessità: per i minori, che devono lasciare ilproprio nucleo e andare in un’altra famiglia spesso culturalmente distante econ abitudini, modalità, relazioni molto diverse; per le famiglie di origine,che possono vivere come antagoniste quelle affidatarie («se il bambino stabene da loro ciò significa che noi non siamo in grado di tenerli ed educar-li»); per le famiglie affidatarie, cui viene richiesto di mantenere loro i rap-porti con le famiglie di origine, curando la relazione con le stesse; per gli242

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operatori sociali, che devono seguire il minore e le famiglie, sia di origineche affidatarie, garantendo presenza, sostegno e supporto, e non possonodemandare gran parte del lavoro ad altri (come avviene nel caso di inseri-mento in comunità). Anche attraverso la collaborazione con le famiglie affi-datarie e le loro associazioni, gli enti più sensibili hanno comunque potutoe saputo attivare esperienze significative: sostegno, auto-mutuo aiuto, pro-getti neonati e autonomia adolescenti ecc.

Per quanto riguarda l’adozione, accanto agli aspetti positivi della leggesull’adozione internazionale che impone, nell’interesse del minore, proce-dure più chiare, trasparenti e qualificate, emergono preoccupazioni circa lamaggior possibilità di adozione concessa alle famiglie, in una situazione incui il numero dei bambini in stato di adottabilità è di gran lunga inferiore al-le domande.

Inoltre, la previsione di tempi di valutazione delle famiglie obbligatoria-mente non superiori a 4 mesi, costringe i servizi a dare priorità a questo com-pito, tralasciando la selezione delle famiglie affidatarie, per la quale la leggenon prevede alcun termine. Forse l’adozione è più importante dell’affido?Non sembra che l’obiettivo di garantire, in modo più ampio e in tempi piùbrevi, un bambino ad una famiglia, tenda a prevalere sul compito di garanti-re una famiglia ad un bambino? Resta aperto il problema di come abbinarebambini e famiglie, nel modo più rispettoso ed efficace per entrambi.

6.9 Riferimenti

Normativi

Legge 176/91 di ratifica della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989. All’art 34 prevede l’impegnodegli Stati contraenti alla protezione dei minori da ogni forma di sfruttamento e violenza sessuale.

Legge 66/1996 Abroga i tre reati precedenti di violenza carnale, libidine violentae congiunzione carnale connessa con la qualità di pubblico ufficiale o esercente pubblica funzione. Introduce la fattispecieunica della violenza sessuale.

Legge 269/98 Apporta modifiche al codice penale, introducendo reati specifici ai danni di minori e relative pene. Induzione e sfruttamento della prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico con minori, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, tratta di minori.

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COMUNITÀ, TERRITORIO

7.1 Premessa

Le politiche sociali, e la normativa degli ultimi vent’anni, sottolineano lanecessità di deistituzionalizzazione dei minori, e l’importanza di assicurarela crescita e sviluppo all’interno della propria famiglia quando possibile, econ l’inserimento in altra, se necessario, ed esperiti tutti gli aiuti e supportiper il mantenimento in quella d’origine.

Sia la legge 184/83, che la recente L. 149/01 di modifica, affermano lapriorità dell’affidamento familiare rispetto alla comunità e ad altre struttu-re residenziali, quali gli istituti, a cui il minore viene inviato qualora non siapossibile l’affidamento. La legge non chiarisce ambiti e limiti di tale «nonpossibilità». Si tratta per esempio di mancanza di disponibilità di famiglie, acausa del numero limitato, o dei gravissimi problemi dei minori (es. handi-cap grave o problemi sanitari rilevanti), oppure di rifiuto esplicito all’affidoda parte dello stesso adolescente? Oppure ci possono essere situazioni perle quali è preferibile, rispetto alla famiglia affidataria, una struttura residen-ziale di tipo comunitario? In altre parole, possono le famiglie affidatariesempre e comunque sostituire le comunità, rispetto alle complesse funzionidalle stesse esercitate?

Un minore, sia esso bambino o adolescente, che deve essere allontanatodalla propria famiglia può avere bisogni vari e diversificati, riassumibili nel-le seguenti tipologie:

❖ assistenza, cioè accudimento e custodia. È il caso dei minori che de-vono essere d’urgenza allontanati dalla famiglia, per trascuratezzagrave, o perché le loro famiglie li hanno di fatto abbandonati;

❖ educazione, come aiuto e sostegno allo sviluppo affettivo, cognitivo,emotivo e relazionale;

❖ tutela. Questa funzione non si limita ad una protezione immediata econtingente, di tipo «assistenziale», ma cura la prospettiva del futuro,in una visione progettuale che assume il passato ed agisce nel «qui edora» del presente;

❖ riparazione, qualora il danno e le «ferite» siano profonde, come nelcaso di abusi e maltrattamenti.

Spesso, tutti questi bisogni coesistono, anche se con livelli ed intensitàdiversi per ogni singolo bambino o adolescente, e in relazione a periodo efase dello sviluppo. Possiamo pensare, all’opposto, che sempre e comunquele famiglie affidatarie siano in grado di rispondere adeguatamente a tuttequeste funzioni? La critica ad approcci astrattamente ideologici, di tipo «fa-milistico», a fronte di problemi estremamente complessi, non significa im-maginare la comunità come alternativa alla famiglia, né non considerarne ilimiti. Per usare una metafora medica, potremmo dire che la comunità è co-

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me un «antibiotico», da usare per periodi limitati e in modo mirato. A que-ste condizioni può far bene, mentre in caso di uso prolungato abbatte «le di-fese naturali» e può bloccare lo sviluppo.1

7.2 Una storia plurale

La nascita delle comunità alloggio per minori è strettamente connessacon il profondo cambiamento nelle politiche e nel sistema dei servizi, ini-ziato in Italia dagli anni Settanta. In particolare queste strutture si connota-no come alternativa agli istituti tradizionali, coinvolti nella critica radicaledelle istituzioni totali, uno dei bersagli del «Sessantotto». Com’è noto, anchein conseguenza dei movimenti di contestazione, in quel periodo vengonoavviati processi di riforma nell’area dei servizi sociali in generale e di quelliassistenziali e sanitari nello specifico. Si affermano principi quali:

❖ il superamento dell’istituzionalizzazione, e la priorità per interventiche permettano il mantenimento, l’inserimento o il reinserimento diindividui e gruppi in situazione di emarginazione, nella vita familia-re, sociale, scolastica e lavorativa;

❖ la messa a disposizione dei servizi primari, l’integrazione tra gli stes-si, e con il volontariato e il privato sociale;

❖ la titolarità della gestione dei servizi socio-sanitari in capo agli Entiterritoriali (in particolare i Comuni);

❖ la partecipazione dei cittadini e delle forze sociali alla determinazio-ne di obiettivi, piani, programmi dei servizi e loro controllo.

La traduzione di tali principi in concrete realizzazioni operative ha por-tato, pur con difficoltà e contraddizioni, in particolare su iniziativa degli Entilocali, allo sviluppo di una rete di servizi di prevenzione secondaria, all’in-terno della quale le comunità alloggio assumono un ruolo rilevante.

Le strutture residenziali per minori, nello specifico le comunità, si sonoconnotate negli ultimi trent’anni in modo piuttosto differenziato tra loro,sulla base dei bisogni, dei valori, delle opzioni teoriche ed operative, e dellerisorse delle varie organizzazioni che, negli anni, le hanno attivate e gestite.Tali organizzazioni sono state, e sono, molto diverse, per origine, cultura esviluppo. Si pensi al passaggio dal volontariato al mondo della cooperazio-ne sociale: le prime comunità, attualmente gestite da cooperative, nasconocome iniziative di «volontariato» di persone appartenenti ad enti pubblici ocongregazioni religiose, come, per esempio, i Focolari promossi dal Mini-stero di Grazia e Giustizia e dall’Associazione nazionale focolari. Si conside-ri anche un certo ritorno attuale a esperienze di «quasi-volontariato o qua-si-servizio», quali le Case famiglia. E ancora, al «valore aggiunto» in terminidi qualità, che il volontariato offre alle comunità gestite da imprese socialicome attività integrative (es. offerta di possibilità lavorative, famiglie affida-tarie ecc.).

Si pensi alla trasformazione degli Istituti, gestiti da IPAB o Enti religiosi, in246

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strutture residenziali molto simili alle comunità, con standard strutturali egestionali più adeguati; ma anche alla tendenza ad «appaltare», da parte diIPAB, al privato sociale strutture residenziali storicamente gestite dalle stes-se. E ancora, all’interno della cooperazione sociale, la differenza tra comu-nità intesa come organizzazione di impresa, che gestisce professionalmenteun servizio garantendone trasparenza e qualità, e comunità come organizza-zione sociale, in cui è compresente un significativo livello, accanto a quelloprofessionale, di azione volontaria e promozione del community care.

Tali differenziazioni derivano dalla legittima esigenza di sperimentazio-ne, ma anche dalle caratteristiche dei bisogni e delle situazioni sempre mu-tevoli. Spesso le caratteristiche delle risorse disponibili ad attivare una co-munità ne hanno fortemente condizionato la tipologia e il modello. Oggiperciò si definiscono come comunità per minori strutture tra loro molto di-verse. Per esempio:

❖ istituti ristrutturati e riorganizzati in gruppi alloggio;❖ coppie che ospitano nella propria abitazione, in affidamento, quattro

minori;❖ coppie che gestiscono, con l’aiuto di volontari e attraverso un’asso-

ciazione, case-famiglia, in cui possono essere ospitati da sei a ottominori;

❖ alloggi in cui abitano minori ultrasedicenni, seguiti da uno o due vo-lontari, con organizzazione a elevato livello di autogestione;

❖ strutture pubbliche o del privato sociale con educatori professionali«turnanti».2

In una realtà in cui, a nomi diversi corrispondono realtà simili, e a nomisimili realtà diverse (non solo nell’uso quotidiano, ma anche nelle leggi na-zionali e regionali) è necessario fare chiarezza, non per cercare uniformitàfittizie, ma per facilitare confronti e comprensione. Non si tratta di sceglieremodelli, contrapponendoli in termini di migliore o peggiore, ma di conte-stualizzare ciascun modello, collegandone le caratteristiche a specifiche ne-cessità e bisogni dei minori. Si ritiene inoltre opportuna la circolazione del-le esperienze, per un loro scambio a scopi non solo conoscitivi, ma ancheoperativi. Infine, perché la diversità sia ricchezza e non caos o arbitrio, è ne-cessario individuare alcuni «paletti» e «regole del gioco», entro le quali agirepeculiarità e creatività di ciascuno. I paletti e le regole del gioco risultano or-mai improcrastinabili, sia perché le strutture residenziali per minori e inparticolare le comunità costituiscono una parte legittima (e spesso anche lapiù costosa) nella rete dei servizi, sia perché un sistema di strutture «plura-li» richiede un governo dei processi.

Questi processi debbono consistere nell’affermazione di un pluralismodi servizi residenziali, che permetta una reale risposta ai bisogni, in condi-zioni sempre più differenziate di minori, che hanno necessità temporaneadi protezione e tutela in un ambiente esterno alla famiglia.

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7.3 La normativa

Le comunità per minori sono ormai ampiamente legittimate a livellonormativo, sia in ambito nazionale che regionale. La legge nazionale n.184/83 Disciplina dell’adozione e dell’affidamento familiare e successivemodificazioni, recita all’art. 2: «Il minore che sia temporaneamente privo diun ambiente familiare idoneo può essere affidato ad un’altra famiglia… o auna comunità di tipo familiare… Ove non sia possibile un conveniente affi-damento familiare è consentito il ricovero del minore in un istituto di assi-stenza…». La legge esclude la possibilità di inserimento in istituto di bam-bini inferiori a sei anni e prevede la chiusura degli istituti entro il 2006.Tuttavia, non chiarisce cosa si intenda per comunità di tipo familiare e perquali caratteristiche la si distingua dall’istituto di assistenza.

La legge n. 216/91, relativa alla prevenzione e al recupero dei minoricoinvolti in attività criminose, prevede comunità di accoglienza per i mino-ri per i quali si sia reso necessario l’allontanamento temporaneo dall’ambi-to familiare (art.1). L’ indeterminatezza permane nel provvedimento del 13luglio 1995: «Documento di linee guida per la realizzazione di interventi ur-genti a favore della popolazione minorile» a cura della Conferenza perma-nente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome. Vi siesprime l’esigenza di definire standard di funzionamento delle «istituzionidi accoglienza» e di promuovere le comunità di tipo familiare. Manca peròogni riferimento a tipologie, relativamente alle quali costruire questi stan-dard, che permettano di individuare cosa si intende con i termini adottati.

La legge 285/97 prevede, all’art. 4, interventi mirati al superamento del ri-covero dei minori negli istituti educativo-assistenziali, anche attraverso l’in-serimento in, non meglio definite, «comunità di accoglienza temporanea.»La bozza di linee guida nazionali per la Qualità dei Servizi residenziali socio-educativi per minori, fornisce invece, pur nel rispetto della potestà normati-va regionale, alcuni indirizzi generali e di orientamento. In particolare:

❖ definisce le tipologie consolidate di strutture (Comunità educativa;Comunità di pronta accoglienza; Comunità di tipo familiare; Gruppoappartamento);

❖ prevede la sperimentazione di altri modelli;❖ indica criteri relativi agli standard strutturali, alla capacità ricettiva,

al personale e ai requisiti professionali dello stesso;❖ prevede il progressivo superamento degli istituti;❖ individua aspetti strategici di qualità, quali il progetto del servizio, il

piano educativo individualizzato, la partecipazione dell’accolto edella sua famiglia ai progetti ecc.

Il progetto obiettivo materno infantile, relativo al Piano sanitario nazio-nale per il triennio 1998-2000, prevede strutture semiresidenziali e residen-ziali ad alta valenza terapeutica per preadolescenti e adolescenti con gravidisturbi e patologie relazionali e della personalità, indicando anche alcunirequisiti e standard gestionali. L’atto di indirizzo e coordinamento relativoall’integrazione socio-sanitaria (Decreto Legislativo 502/92 e successivemodificazioni), prevede strutture residenziali terapeutiche, per minori affet-248

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ti da disturbi comportamentali o patologie di interesse neuropsichiatrico.Le linee di indirizzo (D.P.C.M. 308/2001 ex L. 328/2000) relative ai requisitiminimi strutturali e organizzativi per le strutture residenziali prevedono,per i minori, strutture a carattere comunitario con massimo 10 posti letto,più eventuali due di pronto intervento, oppure gruppi appartamento o co-munità di tipo familiare con non più di sei posti.

Dato il quadro sopra indicato, nonché i poteri conferiti dalla recentenormativa alle Regioni, spetta alle stesse individuare con più precisione (an-che in presenza di eventuali linee guida e indirizzi nazionali) tipologie, stan-dard e norme di funzionamento delle strutture residenziali per minori. Allostato attuale risulta una certa differenziazione, anche terminologica, da re-gione e regione, con rischi di confusione ulteriormente aggravati dalla re-cente normativa a livello nazionale. Infatti la legge 149/2001 parla di comu-nità di tipo familiare e istituti, il D.P.C.M. di comunità di tipo familiare estrutture a carattere comunitario, che comunque non possono, per le carat-teristiche descritte, essere equiparate agli istituti.

Per quanto riguarda il Piemonte, con deliberazione di Giunta del 29 giu-gno 1992 n. 38-16335 vengono previste per i minori, quali presidi di acco-glienza residenziale, le comunità alloggio socio-assistenziali (CASA) e lestrutture comunitarie a carattere educativo; riconducibili, queste ultime, aitradizionali istituti, opportunamente adeguati a nuovi standard. Sono inve-ce denominate comunità familiari quelle iniziative caratterizzate dalla pre-senza stabile in un alloggio di una coppia, che accoglie un massimo di quat-tro minori soggetti a provvedimento di affidamento familiare, secondoquanto previsto dalla legge 184/83. Riconoscendo la complessità e variabi-lità dei bisogni, ma anche la ricchezza delle risorse presenti sul territorio,con deliberazione n. 24-23032 del 22 febbraio 1993 la Giunta regionale haprevisto la possibilità che siano attivate strutture sperimentali, quali le case-famiglia, con tipologie non riconducibili a quelle precedenti.

Ad integrazione degli atti regionali di cui sopra, il Comune di Torino haattuato, con sue specifiche deliberazioni, un processo di accreditamentodelle strutture residenziali in cui inserisce minori di propria competenza.Da quanto sopra descritto, emerge dunque il chiaro riconoscimento dellecomunità come strutture fondamentali di accoglienza residenziale per i mi-nori; ma anche l’indeterminatezza normativa a livello nazionale (se pur«mitigata» dalle linee guida, peraltro aventi potere di semplice indirizzo,senza alcuna cogenza per le regioni), e la differenziazione tra le regioni stes-se, relativamente a tipologie, organizzazione, funzionamento e standard.

7.4 Definizione e tipologie

La molteplicità delle esperienze e della normativa non esclude la possi-bilità di definire alcuni aspetti delle strutture residenziali per minori, relati-vamente a obiettivi, caratteristiche e tipologie.

Le strutture residenziali per minori offrono accoglienza, sia per soddi- 249

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sfare i bisogni materiali che per aiutare ad affrontare i compiti evolutivi e disviluppo, acquisire competenze (cognitive, relazionali, di abilità sociale, digestione delle incombenze quotidiane), ed elaborare progetti per il futuro.Risulta dunque centrale in esse la presenza di figure adulte, con funzionieducative, in grado di:

❖ sviluppare relazioni interpersonali significative a livello educativo eaffettivo, con approcci integrati di ascolto e di normatività;

❖ attivare le risorse dell’ambiente, formali ed informali, per favorirel’autonomia e i processi di socializzazione/inserimento;

❖ promuovere la crescita individuale, all’interno dello sviluppo delgruppo degli ospiti.

Gli obiettivi e le funzioni di cui sopra devono essere attuati con stru-menti e metodologie fondate sulla progettualità, e individualizzati per ognisingolo minore. Fondamentale, date le caratteristiche e gli obiettivi di que-ste strutture, è la dimensione tempo, che deve costituire parte integrantedella progettualità. In caso contrario, si rischia di non adempiere a quellache è la principale condizione della permanenza in comunità, e cioè la tem-poraneità. Per quanto riguarda i requisiti generali delle strutture, gli stessipossono articolarsi in strutturali e gestionali: i primi riguardano l’ubicazio-ne, l’accessibilità, i locali, mentre i secondi attengono a variabili connessealle risorse umane e ai processi di lavoro.

Vediamo ora i principali tipi di comunità presenti nella normativa e nel-l’esperienza regionale.3

Comunità educativa

Con questo termine si intende una struttura residenziale per minori, incui operano educatori professionali, laici o religiosi, che esercitano la loroopera in forma di attività lavorativa. Le funzioni proprie delle comunità so-no svolte attraverso una organizzazione fondata sul lavoro di équipe. Taleservizio può essere gestito da tutti gli operatori presenti a turno, e quindi inmodo non continuativo nella struttura; oppure caratterizzarsi come comu-nità «con operatori residenti» e cioè uno o più educatori che abitano nellastruttura. In ogni caso, tutti fanno équipe educativa, non costituendo la re-sidenzialità, in questo tipo di organizzazione, un fattore determinante perconfigurare una posizione di maggiore rilevanza; la residenzialità non com-porta, in queste comunità, la presenza continuativa in servizio. Oltre aglieducatori professionali, è previsto personale ausiliario, e possono operarecon funzioni integrative volontari e obiettori di coscienza.

Queste comunità inseriscono minori per i quali si prevede una perma-nenza per tempi medio-lunghi. In tal caso gli inserimenti avvengono in mo-do programmato nei tempi e nelle procedure. Le comunità educative pos-sono inserire minori anche con interventi urgenti: si tratta, in questo caso,di minori conosciuti o seguiti dai servizi, che, per motivi contingenti, neces-sitano di un inserimento non programmato e per i quali si prevede una per-manenza in tempi medio-lunghi.

Le comunità educative possono prevedere due posti al massimo di pron-250

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to intervento. Si tratta, in questo caso, di minori non conosciuti e seguiti daiservizi, per i quali non è possibile, al momento dell’inserimento stesso, pre-vedere soluzioni successive. Possono essere ospiti anche persone maggio-renni, purché già presenti durante la minore età, per i quali sia necessariauna permanenza al fine di completare il percorso di autonomia.

Le comunità educative disponibili ad accogliere alcuni minori con han-dicap medio-grave e/o con problematiche/disturbi/patologie relazionali,hanno progettualità specifiche e standard più elevati di personale, e sonodefinibili come «comunità educative integrate».

Comunità terapeutiche.

Sono strutture residenziali per minori preadolescenti e adolescenti, af-fetti da gravi disturbi comportamentali, derivanti da patologie psichiatrichedell’età evolutiva e in fase acuta e post-acuta. In tali strutture gli interventiterapeutico-riabilitativi e rieducativi devono essere intensi e di periodo me-dio-breve. Le dimissioni comportano il rientro in famiglia, con i necessariaiuti territoriali e domiciliari, oppure l’inserimento nelle comunità educati-ve comprese quelle integrate. Queste strutture, assenti in Piemonte in quan-to non ancora previste e normate, sono attivate in altre Regioni, con criteri,organizzazione, modalità di funzionamento e standard molto differenziati.

Comunità di pronto intervento

Sono comunità educative che accolgono minori in situazioni di emer-genza, anche accompagnati dalle Autorità di pubblica sicurezza, che hannobisogni urgenti di tutela e protezione, e sono in attesa di un’altra collocazio-ne o del rientro in famiglia. Obiettivo di queste comunità è, inoltre, offrireun sostegno ed una fase di osservazione educativa, al fine di individuare conla rete dei servizi nel minor tempo possibile la soluzione più idonea. Di nor-ma il tempo massimo di accoglienza è di trenta giorni, prorogabili, per casiparticolari, di altri trenta.

Per quanto riguarda i bambini da 0 a 6 anni, occorre che l’inserimentoavvenga solo se non è possibile altra soluzione; comunque deve essere con-tenuto per un tempo breve, in quanto è ritenuto assolutamente da privile-giare il rientro in famiglia e, se questo non è possibile, l’affidamento. Ne de-riva che, per i minori di sei anni, l’inserimento in struttura residenziale nonpuò che essere di pronto intervento, e che per questa fascia di età debbanoessere attivate comunità specifiche. Per bambini molto piccoli, e nel caso diattesa dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile, è possibile ilprolungamento fino a sei mesi.

Comunità di tipo familiare

Con questo termine si intende una struttura educativa residenziale chesi caratterizza per la convivenza continuativa e stabile di due adulti (di nor- 251

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ma coppia sposata con o senza figli) che risiede presso la struttura. Mentrenelle comunità educative, i compiti e le responsabilità di crescita dei mino-ri fanno capo ad un gruppo organizzato di operatori che deve lavorare inéquipe, in queste strutture i minori sono affidati a persone che assumonoun ruolo di condivisione totale di vita (spazi/casa; tempo/esperienza; cop-pia/riferimento genitoriale). Possono essere previste ulteriori figure di sup-porto, con funzioni anche educative, sia professionali e a rapporto di lavoroche volontarie, ferma restando la «centralità» della coppia residente.

Gli obiettivi e le funzioni delle comunità di tipo familiare sono simili aquelle educative, ma in esse assume valenza peculiare e determinante lapresenza residenziale e la condivisione continuativa della vita con i minoriospiti. Il personale residente pertanto si caratterizza non soltanto per unascelta professionale, ma anche per un orientamento valoriale di vita.

Una specifica articolazione della comunità familiare, che si riconduceprevalentemente all’esperienza dell’Associazione Papa Giovanni XXIII diRimini, è la Casa famiglia, presente anche in Piemonte.

Struttura residenziale a carattere educativo.

Mentre le tipologie di cui sopra sono previste da tutte le Regioni, questatipologia è indicata nella normativa delle Regioni: Piemonte (Struttura co-munitaria a carattere educativo), Lombardia (Istituto educativo-assisten-ziale per minori), Toscana (Comunità educativa). Si tratta, in sostanza, deitradizionali istituti, trasformati con standard strutturali e gestionali piùadeguati.

Tali strutture possono ospitare di norma preadolescenti e adolescenti, ecomunque minori di età non inferiore ai sei anni. Il numero di ospiti nondeve essere superiore alle 30 unità. La vita nella struttura deve essere artico-lata sulla base del piccolo gruppo, cui è garantita un’ampia autonomia nel-la gestione quotidiana (studio, riposo).

Altre tipologie

Oltre alle tipologie standard si possono individuare tipologie non anco-ra diffuse e/o consolidate, relativamente a modelli e standard gestionali.

Le strutture di autonomia si configurano come opportunità per favori-re e promuovere una graduale autonomia sia di persone già ospiti di altriservizi residenziali, e prossimi alla maggiore età, sia di adolescenti per iquali, pur essendo necessaria una collocazione eterofamiliare, non è op-portuno l’inserimento in comunità. Tali strutture sono connotate con de-nominazioni diverse quali: pensionati giovanili, gruppi appartamento, co-munità di risocializzazione/reinserimento. In alcuni casi, come per esem-pio nella realtà torinese, si sono sperimentati interventi e servizi «a bassasoglia di accesso» rivolti in prevalenza a adolescenti e giovani extracomu-nitari anche irregolari.

Le comunità per bambini con un genitore includono:❖ comunità per gestanti e madre con figlio, ove è necessario supporta-

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re il percorso di inserimento sociale e osservare, verificare, sostenerela competenza genitoriale;

❖ centri di accoglienza, con caratteristiche di ospitalità prettamente ditipo abitativo e/o di pronto intervento;

❖ comunità per bambini con genitori tossicodipendenti.

7.5 Strutture residenziali e politiche comunali

Il percorso storico

Con deliberazione del Consiglio Comunale del 14/9/76: «Affidamenti einserimenti attuati tramite volontari e comunità alloggio comunali.Deliberazione istitutiva», la Città di Torino individuava le priorità relativa-mente agli interventi socio-assistenziali a favore di minori, anziani, handi-cappati. Nello specifico: messa a disposizione dei servizi primari (asili ni-do, scuole materne e dell’obbligo, casa, trasporti); assistenza domiciliare diaiuto domestico ed educativa; assistenza economica; affidamenti educati-vi di minori; comunità alloggio. Per queste ultime, con riferimento a quelleper minori a gestione diretta, vennero indicati alcuni criteri e standard difunzionamento, quale il rapporto uno a due educatori/ospiti, il numerominimo di quattro educatori, il numero degli ospiti non superiore a 10, lapresenza di almeno un educatore in turno e la compresenza in specifici pe-riodi della giornata ecc.

Il 3/10/78 venne approvata dalla Giunta Comunale la deliberazione:«Programma per l’istituzione di nuove Comunità alloggio per minori, an-ziani ed handicappati». Tale provvedimento prevede l’istituzione sul terri-torio torinese di 7 comunità alloggio di pronto intervento per minori di etàcompresa tra 0-10 anni e quattro tra gli 11 e i 18. Vengono definite le pro-cedure di ammissione e dimissione e, per ciascuna tipologia, indicate lecaratteristiche del personale, gli orari di servizio, il numero degli ospitiecc. L’adozione di tali atti favorì lo sviluppo di comunità alloggio, sia a ge-stione diretta (6 servizi) che attraverso affidamento a terzi, prima con trat-tativa privata e successivamente, dal ’94, tramite appalto concorso (15 ser-vizi). Accanto alla gestione diretta e a quella in appalto permane, e si svi-luppa, l’acquisto di «posti» presso strutture con il sistema della «presad’atto». In altri termini, la Città inserisce minori in servizi residenziali conautorizzazione al funzionamento, «prendendo atto» delle condizioni daglistessi proposte, relativamente alle prestazioni, all’organizzazione e allerette praticate.

Sebbene gli inserimenti di minori dovessero prioritariamente avvenireprima presso le strutture a gestione diretta, poi in quelle convenzionate esolo residualmente in quelle a presa d’atto, nella realtà queste ultime hannoospitato, rispetto alle altre, più minori in carico al Comune di Torino. Talefatto è stato determinato essenzialmente da:

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❖ scarso numero delle strutture a gestione diretta (6) ed in appalto (15),rispetto alle esigenze (nel ’99 n 690 inserimenti);

❖ presenza di bisogni e condizioni differenziate, che richiedono unapluralità di strutture qualitativamente diverse tra loro.

Il passaggio dal semplice sistema di «presa d’atto» a quello dell’accredi-tamento si avvia con l’approvazione della deliberazione quadro del Con-siglio Comunale del 9 dicembre 1998, relativa all’affidamento a terzi dellagestione di servizi socio-assistenziali e socio-sanitari. Tale atto individual’accreditamento tra le forme di gestione dei servizi affidati a terzi da partedel Comune di Torino nel settore socio-assistenziale. Questa pratica risultaparticolarmente adatta nell’ambito delle strutture residenziali per minori,sia in conseguenza dell’elevata presenza di fornitori privati, sia per la ne-cessità di forte individualizzazione degli interventi, difficilmente prevedibi-li a priori nella loro entità e soprattutto nelle loro caratteristiche qualitative.

Il percorso di accreditamento si è svolto, ed è tuttora in fase di sviluppocoordinato dagli Uffici del Settore Minori della Divisione Centrale, con am-pio coinvolgimento dei Servizi socio-assistenziali delle Circoscrizioni.

Le dimensioni dell’accreditamento

a) Tipologie. Sono state definite 4 tipologie con standard diversi per cia-scun indicatore: Comunità alloggio; Comunità alloggio con operatori re-sidenti; Struttura comunitaria a carattere educativo; Casa famiglia.Oltre alle tipologie di cui sopra ne sono individuate altre, relativamentealle quali non si ritiene opportuno predefinire standard in quanto ne-cessitano ancora di spazi di sperimentazione: Servizi residenziali per mi-nori 0-5 anni; Accoglienze residenziali per madre con bambino;Comunità alloggio di pronto intervento per minori 6-17 anni; Strutturedi autonomia; Case famiglia ad utenza mista; Altre strutture sperimenta-li. Per queste tipologie l’accreditamento avviene su approvazione deisingoli progetti.La deliberazione è stata preceduta da un’ampia consultazione con forzesociali (associazioni di utenti, organizzazioni sindacali), istituzionali (IVCommissione consiliare), fornitori (Cooperazione, IPAB, Enti religiosi).

b) Definizione di norme di qualità. È stata approvata una bozza di accordo,sia per regolamentare i rapporti tra Comune di Torino e singolo Ente ge-store, sia per definire le principali norme di qualità alle quali il servizioresidenziale si impegna di dare attuazione. Di particolare rilievo risulta-no i processi educativi proposti.

c) Elenco di fornitori. Con deliberazione della Giunta Comunale del 12Dicembre ’99 è stato approvato il primo elenco di fornitori accreditati, ericonosciute per ciascuna struttura le relative rette.

d) Scelta del fornitore per ogni singolo inserimento. Ogni inserimento è de-ciso, tra i fornitori accreditati, sulla base delle tipologie, delle caratteri-

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stiche di ciascuna struttura, della condizione del singolo minore.I criteri generali per la scelta, definiti nella deliberazione di dicembre ’99

sopra citata, sono i seguenti:❖ specificità della struttura rispetto a condizione e bisogni del minore;❖ necessità di vicinanza o lontananza dal nucleo familiare e dall’am-

biente precedente di vita;❖ urgenza in relazione ai posti disponibili.

Con la fine del ’99 si sono attuate tutte le fasi di cui sopra, ed è attivatol’«Accreditamento istituzionale» inteso come creazione e gestione di un al-bo fornitori sulla base di requisiti e standard sia strutturali che gestionali.

A partire dal 2000 sono state avviate le successive seguenti fasi:

e) Aggiornamento degli standard e delle relative classificazioni. L’accre-ditamento è, per definizione, un percorso di miglioramento continuo enon una situazione statica e definita. Ne deriva la necessità di un moni-toraggio continuo dell’esperienza, finalizzato alla verifica delle tipolo-gie, degli standard, nonché alla valutazione ed eventuale consolida-mento delle tipologie sperimentali attualmente accreditate su specificoprogetto.

f ) Costruzione, definizione, valutazione della qualità. L’accreditamentonon può limitarsi ai soli elementi strutturali e gestionali, traducibili instandard quantificabili ed oggettivabili, ma richiede l’applicazione dinorme di qualità relative ad aspetti strategici, che impongono processidi definizione, valutazione, miglioramento continuo, ma soprattuttoconfronto tra tutti gli attori (Comune, Gestori, Organizzazioni di tutela,Ospiti e loro famiglie). Allo scopo il Comune ha predisposto un«Documento sulla qualità» a livello sperimentale in due comunità allog-gio a gestione diretta e sta elaborando, di concerto con rappresentanzedei fornitori accreditati, uno «Schema di processi della Qualità», sullabase del quale ciascuna struttura dovrà elaborare le «procedure per laqualità del singolo servizio» (v. par. 7.8.2)4.

7.6 Aspetti di complessità

Le considerazioni fin qui svolte richiamano aspetti di complessità relati-vi sia a tipologia, strutture e standard gestionali che a bisogni e problemati-che delle persone accolte. Ne individuiamo alcuni.

Due tipologie di comunità.

Le tipologie sopra richiamate (comunità educative e di tipo familiare)presentano caratteristiche strutturali e gestionali molto diverse. Infatti le 255

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prime sono assimilabili ai servizi professionali e formali di cura, mentre leseconde sembrano più vicine alle iniziative di sviluppo di comunità. Le pri-me sono necessarie perché l’esigibilità di diritti di protezione e tutela deveessere garantita da uno «zoccolo» di servizi, che le azioni volontarie nonpossono assicurare sempre e nella stessa misura, proprio perché volontariee non soggette a imposizioni istituzionali. Le seconde sono importanti per-ché testimoniano la presenza di solidarietà sociale, mondi vitali, scelte valo-riali e di vita molto significative nella relazione educativa.

Occorre rilevare che le comunità di tipo familiare non costituiscono unaforma di volontariato e solidarietà sociale «pura», ma sono piuttosto dei«quasi servizi». Si tratta di servizi perché offrono prestazioni in gran parte si-mili a quelli delle comunità educative, e vengono per gli stessi remunerati.«Quasi» perché la remunerazione è inferiore all’impegno, e quindi una si-gnificativa parte di attività risulta volontaria. Inoltre, date le caratteristichedegli operatori, esse non sono riproducibili con un semplice atto decisiona-le di un ente o organizzazione. Infine, dato il fondamento di scelta motiva-zionale e volontaristica, legittimamente esigono autonomia progettuale bensuperiore a quella prevista per servizi a gestione diretta dell’Ente pubblico oaffidata a terzi.

Da qui le seguenti questioni:❖ la differenza strutturale e motivazionale tra le due tipologie implica

sostanziali diversità nella gestione, organizzazione, stili educativi?Queste differenze comportano che le une siano più valide per certibisogni e condizioni e le altre per altri? Si può, per esempio, afferma-re che la comunità di tipo familiare si rivolge a minori che necessita-no della presenza di figure stabili e in numero limitato, per struttura-re e consolidare il proprio «sé» attraverso processi «forti» di identifi-cazione. Che la Casa famiglia ad utenza mista, e quindi con la pre-senza di adulti, risulta particolarmente adatta per situazioni (es. han-dicap grave e abbandono da parte della famiglia di origine) per lequali non è prevedibile né l’inserimento in altro nucleo né progetti diautonomia. Che la comunità educativa è adatta per preadolescenti eadolescenti con rilevanti problematiche familiari, che nel contempohanno interiorizzato stabilmente i modelli genitoriali. Sono afferma-zioni desunte dal buonsenso e dall’esperienza. Manca invece una si-stematica riflessione sulla «qualità diversa» delle varie tipologie:«quali tipi di comunità per quali bisogni e condizioni dei minori».Peraltro, come tesi di diploma per educatore professionale hanno fat-to rilevare l’educatore residente, sempre presente nella comunità‚ ènecessario punto di riferimento organizzativo ma non necessaria-mente educativo-relazionale per i minori, che spesso «preferiscono»altri componenti l’équipe (educatori turnanti, o addirittura assisten-ti domiciliari).

❖ La scelta motivazionale e di vita legittima da sola l’apertura di unacomunità di tipo familiare e la relativa autorizzazione? Quali le ga-ranzie di professionalità, e di formazione iniziale e permanente?Quali gli standard minimi di funzionamento? Il Comune di Torino, alfine dell’accreditamento, riconoscendo la base motivazionale della

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scelta, richiede alcune garanzie: l’educatore residente deve almenoavere il diploma di scuola media superiore, e due anni di esperienzaeducativa in strutture residenziali per minori. Per la Casa famiglia oc-corre almeno il possesso del diploma di scuola media superiore, edue anni di esperienza educativa in strutture per minori oppure l’i-doneità all’affidamento familiare.

Problemi di utenza e inserimento

❖ Pur prevedendo, tra le tipologie, la comunità di pronto intervento,non è ancora stata avviata una approfondita analisi su queste strut-ture da un lato e sull’inserimento in pronto intervento di minori nel-le comunità educative.

❖ Spesso la decisione di passaggio da una comunità ad un’altra non av-viene sulla base di un progetto individualizzato, ma per fattori ester-ni anche di tipo burocratico-amministrativo, quali per esempio laconclusione di un ciclo scolastico. Ferma restando la necessità di co-munità specifiche di pronto intervento per la fascia da zero a sei an-ni, occorre riflettere circa l’opportunità di utilizzare quale criterionon quello dell’età, ma del progetto individualizzato e della compa-tibilità tra gli ospiti, rispetto a problemi, bisogni, possibilità di comu-nicare, socializzare, aiutarsi.

Nelle case famiglia, e anche in altre strutture quali le comunità per ma-dre e bambino (comprese quelle terapeutiche per pazienti psichiatrici e tos-sicodipendenti), è prevista la presenza di adulti, con problemi anche gravi,insieme ai minori. Per quanto riguarda le case famiglia, tale scelta deriva dauna opzione valoriale di solidarietà ed accoglienza che, attuata nella strut-tura, può diventare anche un esempio educativo per gli ospiti. È legittimoperò chiedersi quali debbano essere le condizioni e le garanzie perché lapresenza di adulti con gravi problemi non sia di ostacolo allo sviluppo delminore ospite. Nelle comunità terapeutiche per adulti, il bambino segue ilgenitore che lì si reca per curarsi. Anche qui occorre chiedersi, caso per ca-so, se ciò sia importante al fine di non spezzare legami significativi, o se ilbambino vada semplicemente perché è «terapeutico» per il genitore. Infattinon si può derogare al principio che il bambino è soggetto di diritti, e nonpuò essere strumento per nessuno, neanche per i propri genitori. Pertanto,anche in queste comunità, il minore deve avere le sue attenzioni e i suoispazi e non semplicemente vivere in funzione dell’adulto.

La condizione dei minori accolti.

Sebbene non ci siano ricerche sistematiche sull’utenza delle comunità,è impressione diffusa che gli inserimenti siano sempre più attivati con la lo-gica dell’ultima spiaggia. Si tratta di emergenze che costringono all’inseri-mento residenziale come soluzione inevitabile, o di un ultimo tentativo do-po anni di lavoro e di interventi non riusciti. Oppure di scelte residuali, per-ché non si sa cosa altro fare, pur riconoscendo che la comunità non potrà

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essere significativa per un’evoluzione della situazione. Tale logica risulta so-stanzialmente mutata rispetto ad alcuni anni fa, quando la comunità erapercepita come condizione transitoria, per prevenire quelle situazioni cheoggi portano agli inserimenti urgenti e alla necessità degli interventi resi-denziali. Si ritiene, dunque, che la presenza nelle comunità di un’utenzasempre più problematica sia dovuta ad un aggravarsi delle situazioni di dif-ficoltà ed emarginazione.

L’elemento fondamentale che caratterizza la richiesta e l’inserimento re-sidenziale è dato dal cambiamento del ruolo della comunità, da parte deiservizi socio-sanitari, della scuola, delle autorità di pubblica sicurezza, del-l’autorità giudiziaria minorile. Tale cambiamento deriva dalla maggiore pre-senza di servizi di sostegno al nucleo familiare e al minore in particolare, edalla nuova teoria e pratica del lavoro sociale. Risultano così in aumento gliinserimenti di adolescenti border-line, senza diagnosi precisa, che hannogià ricevuto moltissimi servizi, ma anche fallimenti assistenziali, compresinumerosi soggiorni in comunità. Aumenta la richiesta di inserimento per si-tuazioni molto difficili, per le quali non c’è possibilità di rientro in famigliao di autonomia personale dopo il compimento della maggiore età (adesempio minori con gravi disabilità, abbandonati e non adottabili). Sempremaggiori sono gli inserimenti di minori abusati, mentre non si trovanostrutture disponibili ad accogliere adolescenti con patologie relazionali or-mai strutturate, o dipendenti da sostanze stupefacenti. Molte comunitàospitano minori extracomunitari, inseriti in ottemperanza ai compiti di pro-tezione e tutela, ma i cui bisogni potrebbero essere soddisfatti con servizi ediniziative diverse.

Occorre forse accettare la sfida di trasformare anche l’ultima spiaggia inprogettualità innovative. Ma ciò comporta ulteriori aspetti di complessità,di cui alcuni vengono accennati qui di seguito.

Le diversificazioni dei bisogni

I bisogni, sempre più differenziati, richiedono risposte diversificate. Nelcontempo il collegamento con la comunità locale e la presa in carico deiproblemi da parte della stessa risultano strategici per l’esito degli interven-ti. Pertanto, le comunità devono sempre più considerare la variabile relativaagli ambiti di intervento,che si connotano relativamente all’accoglienza:

❖ dei minori di una determinata zona, indipendentemente dai bisognie condizioni che hanno portato alla necessità dell’inserimento (terri-torialità);

❖ di minori con problematiche specifiche e comportamenti patologicigià strutturati (terapeuticità);

❖ di minori con problematiche specifiche e/o comportamenti deviantie patologici non ancora strutturati (specializzazione).

Relativamente agli ambiti di intervento si possono così prevedere diver-si tipi di comunità:

❖ territoriali. Strutture che accolgono minori della loro zona, con unelevato livello di apertura con la rete e le risorse locali. Il cambia-258

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mento dei bisogni e dell’utenza impone una riflessione sull’utilità ditale servizio;

❖ terapeutiche. Un significativo numero di minori presenta comporta-menti e patologie relazionali, o di rapporto con la sostanza già strut-turate. In questo caso, un «normale» progetto educativo non innestacambiamenti significativi, in quanto gli stessi sono molto difficili eprofondi; è necessario un ambiente più specificatamente «terapeuti-co». Se questa analisi è condivisibile, occorre allora prevedere comu-nità «terapeutiche» per specifiche problematiche. Ciò pone alcunequestioni, come per esempio: quali le problematiche di competenzadi queste strutture? Quali gli standard e i requisiti? Chi è titolare del-la competenza? Chi decide gli inserimenti, con quali procedure e conquali garanzie, per evitare accoglienze improprie e negative per losviluppo del minore? Le comunità terapeutiche devono essere utiliz-zate per situazioni molto particolari, a condizioni e con proceduredefinite e per un tempo limitato. In caso contrario si favorirebbero ri-sposte scorrette e processi di ulteriore «stigmatizzazione», con le re-lative deleterie conseguenze a livello evolutivo;

❖ per specifiche situazioni e condizioni. La complessità e la diversifica-zione delle situazioni e dei bisogni (si pensi per esempio agli abusi)richiede strutture preparate e competenti su determinati aspetti. Ci sichiede quali sono gli aspetti che necessitano di competenze specifi-che e su cui si potrebbero «specializzare» le varie comunità.

Il problema delle dimissioni

La permanenza in comunità deve essere limitata nel tempo per le moti-vazioni più volte esposte. Pertanto obiettivo dei progetti quadro e indivi-dualizzati deve essere quello di preparare le condizioni per le dimissioni:rientro in famiglia, affidamento oppure, se si tratta di adolescenti, eventual-mente l’autonomia.

Il Comune di Torino dal 1999 ha attivato un percorso di monitoraggio suitempi di permanenza nelle comunità. Sono stati definiti quali tempi massi-mi di permanenza sei mesi per i minori di anni 6, un anno per quelli di etàinferiore ai 10 e due anni per gli altri. Nel caso di «sforamento» da tali tempivengono attivate analisi e valutazioni, caso per caso, sulle cause, nonchésollecitate ai servizi territoriali e supportate progettualità di dimissione. Laprima rilevazione sul fenomeno degli eccessivi tempi di permanenza nellestrutture residenziali è del luglio 1999. Su un totale di 318 minori presenti in-seriti dal Comune di Torino, ben 214 e cioè il 67% superava il limite massi-mo di permanenza predeterminato. Per 129 di questi era stato definito unprogetto. Per 29 era quello di rimanere nella struttura fino alla maggiore età(si trattava di adolescenti tra i 15 e 17 anni).

La mancanza di ipotesi di dimissioni è addebitabile a problemi sanitarigravi, non valutazione al momento delle capacità genitoriali, attesa di prov-vedimento dell’Autorità giudiziaria minorile, attesa risultanze C.T.U., assen-za dell’assistente sociale, difficoltà di presa in carico della neuropsichiatriainfantile. La mancanza di progettualità futura aumenta con l’aumentare del-

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la fascia di età. È bassa nei bambini piccoli (0-5), mentre per la fascia 6-14 an-ni raggiunge il 50%. Per i bambini piccoli prevalgono le ipotesi di collocazio-ne in altra famiglia (temporanea o a lungo termine, se non definitiva) mentreper gli adolescenti quelle di vita autonoma e rientro in famiglia. Per l’età in-termedia (6-14 anni) si punta molto sull’affidamento, mentre c’è poca consi-derazione per il rientro a casa. La valutazione sulle competenze genitoriali èmolto severa, in quanto ben il 50% dei genitori sono considerati assenti o «ir-recuperabili» e per il 34% si è in fase di valutazione. Questi dati sembrano in-dicare una scarsa fiducia nella famiglia e nel suo recupero. Ciò non certo peruna posizione «ideologica», ma forse a causa delle situazioni sempre più gra-vi, rispetto alle quali, come già detto, si ricorre alle comunità.

Significativa, e preoccupante, è la mancanza di progettualità o l’indica-zione di collocazione in affidamento (non troppo convinta) per la fascia dietà intermedia. Infatti, mentre per i piccoli è chiara la prospettiva dell’affi-damento e per gli adolescenti la vita autonoma o il rientro in famiglia, perquesti bambini sembra mancare una «cultura» delle dimissioni. Pare quasiche la permanenza segua il percorso scolastico, e che ci sia una difficoltàculturale, professionale e operativa a progettare il rientro e il supporto allafamiglia. L’attività di monitoraggio e supporto ha comunque portato ad unmiglioramento della situazione. Nella rilevazione del marzo 2001 gli «sfora-menti» sono scesi al 40%, pur confermando, nei dati disaggregati, le infor-mazioni e considerazioni dell’indagine precedente.

7.7 Autonomia e lavoro di rete

L’autonomia come obiettivo

Pur essendo l’obiettivo fondamentale del lavoro sociale e quindi anchedelle comunità, occorre rilevare come l’autonomia sia raggiunta con sempremaggiore difficoltà. Un indicatore significativo è individuabile nell’aumen-to del periodo di permanenza in struttura, procrastinato, a volte, oltre i di-ciotto anni. Tale fenomeno, generalizzato in tutta la fascia giovanile, è certoda attribuire alla difficoltà di reperire un’occupazione, e un’abitazione, daparte di ragazzi che non possono appoggiarsi alla famiglia di origine.Peraltro le difficoltà sono aggravate dalla condizione dei minori in comu-nità, che sempre più presentano problematiche sociali e relazionali com-plesse e gravi e hanno famiglie compromesse.

Questo pone alcune riflessioni relative a necessità che si presentano or-mai come impellenti, soprattutto a riguardo di preadolescenti e adolescenti:

❖ attivazione di nuove strutture, con elevati livelli di autogestione. Intali «convivenze guidate», il gruppo degli ospiti deve essere in gradodi cooperare per gestire tutte le incombenze domestiche. L’educatoreè presente in modo molto limitato e costituisce un riferimento pereventuali problemi e un sostegno per gli aspetti relazionali e organiz-

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zativi. Accanto a strutture per l’autonomia è necessario attivare, a cu-ra delle comunità stesse, veri e propri progetti di autonomia al di fuo-ri della struttura, attraverso il reperimento di soluzioni abitative e la-vorative;

❖ attivazione di forme diverse di residenzialità per ultrasedicenni. Permolti adolescenti la tradizionale struttura comunitaria, articolatacon educatori sempre presenti, che turnano e hanno di fatto la re-sponsabilità degli interventi dell’organizzazione e delle attività, fini-sce non solo per «stare troppo stretta», ma anche per deresponsabi-lizzare, mortificando le potenzialità di autonomia. In particolare,questo fenomeno è stato osservato con i minori extracomunitari;

❖ analisi dei percorsi educativi all’autonomia. Se l’autonomia è con-nessa a risorse ed opportunità esterne al ragazzo e alla comunità,troppo carente è ancora la riflessione e il monitoraggio dei percorsieducativi all’autonomia. Va verificato se questi vengano realmente econsapevolmente perseguiti per tutte le strutture, con quali stru-menti e metodologie. Quali siano i fattori che favoriscono processi diassistenzialismo e autoreferenzialità. Quanto sopra deriva dalla con-statazione di come alcune comunità abbiano ultradiciottenni al lorointerno, mentre per altre tale fenomeno sia pressoché irrilevante.

Il sostegno alla famiglia

Il sostegno alla famiglia, finalizzato alla valorizzazione e al recupero del-le competenze genitoriali, è esercitato in modo ancora insoddisfacente daiservizi, per una serie di motivi che potrebbero essere così sintetizzati:

❖ carenza di personale dei servizi socio-sanitari territoriali che, dati icarichi di lavoro, finiscono per «parcheggiare» i minori in comunità,delegando tutte le competenze agli educatori che in esse operano;

❖ carenza culturale, derivata da un’idea della famiglia più come pro-blema che come risorsa, e da politiche sociali tradizionalmente mira-te ad intervenire su singoli membri, e non a favore del nucleo nel suocomplesso;

❖ insufficienza, in gran parte conseguente a quanto sopra, di strumen-ti teorici e operativi e relativa formazione degli operatori, per il recu-pero della genitorialità, delle sue risorse e competenze.

Questi fattori favoriscono la tendenza, sempre presente nelle organizza-zioni e quindi anche nelle comunità, all’autoreferenzialità, al sentirsi indi-spensabili e a «tenersi» i minori, perché se rientrano in famiglia peggioranoe quindi «si perde tutto il lavoro fatto».

Peraltro occorre interrogarsi se il rapporto con la famiglia, nel senso delrecupero delle funzioni genitoriali, sia competenza esclusiva dei servizi ter-ritoriali, mentre la comunità deve occuparsi del minore. Certo non è sem-plice lavorare con la famiglia, quando i minori arrivano in comunità conprovvedimenti per abusi, maltrattamenti ecc.; ma dove gli educatori hannoposto come obiettivo questo impegno, i risultati spesso sono stati positivi.Occorre fare in modo che la famiglia non senta la comunità come antagoni-

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sta. Gli educatori non sono «genitori buoni», e così non devono essere per-cepiti, ma dei professionisti che aiutano nelle competenze genitoriali.Spesso gli educatori in questo percorso sono soli, perché gli altri attori han-no posizioni e progetti diversi, non si interessano, non hanno tempo. Allorala comunità diventa il solo luogo, anche per i genitori, in cui puoi essereascoltato per i tuoi problemi. Ma se la comunità si accolla da sola un com-pito non suo, corre evidenti rischi di invasività, che la distolgono dai compi-ti cui deve assolvere.

L’apporto della comunità locale

Se le strutture residenziali non possono risolvere tutti i problemi, ancheil ricorso alla comunità locale e ad altre istanze e organizzazioni del socia-le risulta alquanto problematico per gli operatori. Riconoscere la comunitàlocale come competente ad affrontare i problemi significa riconoscere cheessa può avere rappresentazioni della realtà, obiettivi, idee di soluzioni eintervento anche diverse dalle proprie. Significa fare un lavoro di rete chenon sia strumentale, e non credere di essere i detentori del sapere sociale,pretendere di imporre il proprio punto di vista, voler ottenere ciò che si de-sidera. Implica una grande disponibilità, tutt’altro che scontata, a mettersiin gioco.

In secondo luogo, spostare le competenze sulla comunità locale, da par-te delle pubbliche amministrazioni, significa attuare azioni e volontà di va-lorizzazione reale e non strumentale (ad esempio, utilizzo del volontariato edelle solidarietà sociali, per un ritiro, almeno parziale, dalle responsabilitàe/o per diminuire i costi dei servizi). In terzo luogo significa avere strumen-ti amministrativi e finanziari molto flessibili e «spostabili» in relazione ai bi-sogni e ai progetti. Come promuovere cultura e occasioni di accoglienza esolidarietà nella società, come funzione attinente alle responsabilità politi-che, amministrative e tecniche delle pubbliche amministrazioni?

Di fronte alle difficoltà di presa in carico da parte della comunità socia-le, le organizzazioni che gestiscono comunità cercano di rispondere ai pro-blemi dei minori ospiti attraverso soluzioni tutte interne all’organizzazionestessa. Tale impegno, necessario e positivo, deve però evitare il rischio di in-durre dipendenza della persona dall’organizzazione. In caso contrario, si fi-nirebbe per ricreare lo spirito dell’istituto anche se in forme diverse, ossia diun’organizzazione «mamma», che al suo interno tutto offre.

7.8 La qualità delle strutture residenziali

Il rapporto pubblico-privato

Nel sistema di welfare mix che caratterizza le attuali politiche sociali, an-che per le strutture residenziali risulta strategica la definizione del rapporto262

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tra pubblico e privato. Attualmente i rapporti contrattuali si attuano attra-verso le procedure dell’appalto o dell’acquisto di parte del servizio, con unprocesso, denominato accreditamento, da rivedere alla luce della recentenormativa(Dlgs 229/99 e Legge 328/2000). Nella prima accezione, tale ter-mine indica la possibilità di acquisto da parte di un Ente pubblico di partedi un servizio fornito da privati iscritti ad un albo fornitori. L’iscrizione a ta-le albo comporta la presenza di specifici requisiti strutturali, gestionali e diqualità. Nell’accezione più recente, per accreditamento si intende l’attesta-zione rilasciata da un Ente pubblico a un gestore privato di servizi sociali,sia esso commerciale che non lucrativo; tale attestazione indica che il pro-duttore segue le norme, gli standard e i livelli di qualità prestabiliti, per po-ter accedere a rapporti contrattuali con l’Ente pubblico al fine di esercitare,su delega, pubblici servizi. È quindi condizione per la partecipazione ad ap-palti o per l’acquisto, da parte degli Enti pubblici, di parte del servizio.

Il rapporto pubblico-privato nella gestione dei servizi, e delle struttureresidenziali per minori in specifico, pone vari nodi di complessità, tra i qua-li si possono accennare i seguenti.

a) Autorizzazione al funzionamento, accreditamento e livelli di competen-za. La normativa attuale nell’ambito sanitario e sociale distingue l’auto-rizzazione al funzionamento, quale requisito della struttura per poteresercitare una attività sul mercato privato, dall’accreditamento che pre-suppone l’autorizzazione, ma richiede ulteriori requisiti, per poter acce-dere a contratti pubblici. La stessa normativa definisce competenza del-lo Stato la determinazione dei livelli e standard minimi per l’autorizza-zione al funzionamento. Spetta alle Regioni la definizione di requisiti ul-teriori per l’autorizzazione al funzionamento, nonché la competenzacirca i criteri per l’accreditamento (Legge 328/2000 sui servizi sociali).Spetta ai Comuni l’autorizzazione al funzionamento delle strutture el’accreditamento delle stesse.Al momento attuale, per quanto riguarda le strutture residenziali per mi-nori, gli standard nazionali sono poco definiti e, come già detto, si limi-tano ad indicare il numero massimo di minori ospiti consentito o il nu-mero di persone per camera. Nel contempo per la Regione Piemonte èancora in vigore una deliberazione (38/92) che definisce i requisiti strut-turali e gestionali della strutture residenziali per minori, ormai assoluta-mente inadeguata per la realtà attuale. Non esiste inoltre alcuna indica-zione di criteri per l’accreditamento da parte dei Comuni. Le stesse ca-renze sono da riscontrarsi nel comparto sanitario, che non prevede enorma le comunità terapeutiche per minori, previste invece dalla nor-mativa nazionale.

b) Accreditamento e requisiti ulteriori. La normativa nazionale, con quelleregionali e in specifico della Regione Piemonte, non chiarisce cosa si in-tenda per requisiti ulteriori. Si potrebbero intendere semplicementestandard superiori di tipo strutturale, tecnologico e gestionale (es. am-piezza locali, numero del personale, strumenti utilizzati ecc.), oppureaspetti di qualità, quali l’applicazione di norme strategiche di qualità edefinizione delle procedure, documentazione e controlli ecc. 263

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c) Controllo e valutazione. Con il termine controllo si intende il processo diverifica degli standard e degli adempimenti previsti. È evidente come ilcontrollo non sia sufficiente, soprattutto in servizi alla persona caratte-rizzati dalla fornitura di prodotti che sono strumenti per il miglior be-nessere possibile del cliente. Nel lavoro educativo la qualità non puòsemplicemente essere ricondotta a procedure predisposte da qualcheEnte certificatore, che applica norme ISO standardizzate.5 La vera edu-cazione, che per definizione è cambiamento nella relazione tra persone,mal si adatta a standardizzazioni, ma richiede riflessioni ed azioni, checonsiderino e sappiano convivere con la sua straordinaria complessità.

Livelli della qualità

Dal punto di vista del concetto di qualità, l’accreditamento per le strut-ture residenziali per minori può essere analizzato a più livelli.

Requisiti per il funzionamentoSulla base di criteri a livello nazionale, le Regioni indicano quali servizi

sociali devono possedere specifici requisiti, ambientali e gestionali, per ilfunzionamento. La definizione si può articolare in tipologie di servizi, e perciascuna in indicatori e relativi standard. La funzione pubblica è di verifica-re la presenza di tali requisiti in sede di prima autorizzazione, e il controllodi tipo ispettivo circa il permanere degli stessi. Con questa autorizzazione ilservizio può funzionare sul mercato privato (inserimento e pagamento daparte di privati), non ancora su quello pubblico, che invece richiede l’accre-ditamento. L’autorizzazione al funzionamento pertanto non si identificacon l’accreditamento, ma ne è un prerequisito.

Nello specifico delle strutture residenziali, abbiamo già visto come i pre-requisiti siano ancora poco definiti a livello nazionale, e molto diversificatida Regione a Regione. La determinazione e la presenza di condizioni ogget-tivamente definibili, e verificabili anche attraverso standard di tipo quanti-tativo, non garantisce la qualità, ma ne è prerequisito. Per esempio, in unacomunità alloggio per adolescenti, qualora il personale sia turnante, il nu-mero di educatori non si ritiene possa essere inferiore a cinque, ma neanchesuperiore a sette. Nel primo caso non sarebbe possibile garantire nessun ti-po di serio lavoro educativo, nel secondo l’eccessivo numero di operatoriavrebbe lo stesso effetto, per l’impossibilità di instaurare rapporti interper-sonali significativi.

Nel contempo la presenza di standard troppo rigidi può essere di vinco-lo all’esercizio della qualità: si pensi ad un requisito quale il titolo di educa-tore professionale per poter lavorare in una comunità alloggio, in una situa-zione di mercato in cui l’offerta di educatori diplomati è inferiore alla do-manda. In presenza di una progettualità che prevede anche operatori resi-denti, e quindi una «mission» della struttura che considera fondamentale lacondivisione totale di vita con gli ospiti, ancorché temporanea. In una pro-fessione educativa, quanto il titolo di studio può, di per sé, essere conside-rato requisito esclusivo ed escludente chi non lo possiede, ma ha indubbiecapacità ed esperienze educative e relazionali? 264

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Requisiti applicativi Per quanto riguarda lo specifico delle strutture residenziali, si ritengono

aspetti strategici di qualità i seguenti:

a) Progetto educativo generale: documento con il quale l’Ente gestore defi-nisce il servizio che intende svolgere, in relazione alle esigenze dei frui-tori reali e potenziali della struttura, alla normativa vigente, alle indica-zioni degli Enti committenti e preposti alla vigilanza e valutazione.

b) Progetto quadro: riguarda il progetto generale per il minore e coinvol-ge quindi tutte le professionalità e i servizi che hanno in carico il casosingolo. Tale progetto deve contenere:❖ obiettivi specifici educativi per il minore in comunità, da attuare tra-

mite il progetto educativo individualizzato;❖ obiettivi del lavoro con la famiglia di origine, e/o con la famiglia affi-

dataria e/o adottiva e/o per soluzioni di autonomia;❖ definizione di modalità, strumenti, procedure, attività, servizi com-

petenti, con relative fasi e tempi per l’attuazione degli obiettivi;❖ modalità e relative fasi e tempi di verifica.

c) Progetto educativo individuale: riguarda il progetto specifico per il sin-golo minore, da attuarsi a cura della struttura residenziale; deve conte-nere:❖ modalità, strumenti e procedure di osservazione;❖ obiettivi generali e strumentali, e relative attività ed interventi per il

minore e il suo sviluppo evolutivo;❖ attività ed interventi nel contesto e per la sua modifica; di particola-

re rilevanza risulta l’ambiente familiare qualora il progetto preveda ilrientro a casa;

❖ indicazioni delle fasi e dei tempi del progetto, con particolare atten-zione alle prospettive e al piano per le dimissioni (rientro a casa, affi-damento familiare, adozione, vita autonoma);

❖ modalità e procedure di autovalutazione e di valutazione, con glioperatori dei servizi che hanno in carico il singolo minore.

Requisiti specificiA parità di requisiti per il funzionamento e applicativi di norme di qua-

lità, ogni servizio può possedere specificità, che lo rendono qualitativamen-te non migliore o peggiore, ma diverso dagli altri. Così una comunità può ri-sultare più adatta per minori stranieri, un’altra per adolescenti abusate,un’altra per preadolescenti «border» ecc. La «qualità diversa» può essere de-finita sia a livello delle varie tipologie che all’interno di ciascuna tipologia.

Le diverse tipologie comportano modelli gestionali ed organizzativimolto differenziati, tali da renderle più o meno adatte, relativamente a spe-cifiche condizioni, bisogni e caratteristiche dei minori. In altri termini, qua-le è la «qualità diversa» di una comunità di tipo familiare rispetto ad una co-munità educativa o ad una comunità con educatori residenti? 265

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La qualità può risultare diversa anche tra servizi della stessa tipologia.Ciò peraltro non deve essere considerato un limite, bensì una ricchezza,data dalla differenziazione di condizioni e bisogni dei minori. Si pensi avariabili quali: difficoltà psicologico-relazionali rilevanti (border-line);condizioni di dipendenza da sostanze; eventi traumatici (abuso e maltrat-tamento); condizioni socio-culturali (nomade/straniero); fase evolutiva(bambino, preadolescente, adolescente); genere ; condizione familiare(presenza di genitori e progetto di rientro o necessità di inserimento in al-tra famiglia o di autonomia). La presenza di queste variabili implica che l’«essere particolarmente adatti per...» non sia un presupposto, o una meraaffermazione contenuta nello statuto dell’Ente gestore,ma un compitoperseguito con metodologie e strumenti specifici, nonché valutato dallastruttura e dal committente. In relazione alla condizione e ai bisogni delminore, la «qualità diversa», legata alla tipologia o «all’essere particolar-mente adatto per», varrà a definire la scelta di inserimento tra le diversestrutture accreditate.

Dilemmi della qualità

Come risultatoIn un processo di produzione di beni materiali, spesso il risultato si iden-

tifica con il prodotto, mentre per quelli relazionali ciò non è quasi mai pos-sibile. Infatti nella produzione di beni relazionali ciascun prodotto è unapossibile (non sicura) precondizione per il raggiungimento di un risultato.Per esempio, in una comunità alloggio gli educatori hanno previsto ed agitoattraverso il piano educativo individualizzato, procedure per l’acquisizionedi abilità sociali da parte dell’adolescente. Il raggiungimento di tale obietti-vo è uno dei prerequisiti per il risultato dell’autonomia personale, ma puòessere vanificato dal non perseguimento di altri, non dipendenti dagli edu-catori stessi, quali il reperimento di un’abitazione e di un lavoro.Nel lavorosociale, scambiare il prodotto per il risultato può essere utile per operazionidi immagine o di marketing, ma non riguarda l’efficacia degli interventi.

Come cooperazione o concorrenzaNel sistema di welfare mix che si sta sempre più consolidando nei servi-

zi sociali, il modello prevalentemente perseguito sembra essere quello del«mercato amministrato», fondato sulla competizione (si auspica in base al-la qualità) tra fornitori di servizi e sulla scelta da parte dell’Ente pubblico diquello più «conveniente». L’aspetto di complessità consiste nel fatto chespesso nei servizi alla persona, per l’efficacia degli interventi è necessaria lasolidarietà e la collaborazione tra i produttori, mentre i meccanismi di com-petizione possono invece ridurla.

Come attuare il miglioramento della qualità in un sistema di mercato so-ciale che richiede nel contempo concorrenza, solidarietà e cooperazione? Nel-l’esperienza torinese, per esempio, si sta avviando un percorso di confronto econcertazione sugli aspetti di qualità tra l’ente pubblico e tutti i fornitori.Nell’ambito delle strutture per mamma-bambino, è già attivo a questo scopoun coordinamento tra Comune di Torino, imprese sociali, volontariato.266

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Come valore aggiunto.I processi di esternalizzazione, in un sistema di mercato amministrato,

comportano contratti di scambio, e cioè corresponsioni in denaro a frontedella fornitura di prodotti. É possibile in questa realtà pensare ad una qua-lità intesa come valore aggiunto, che trascende lo scambio? Una qualità chepromuova risultati in termini di cambiamento a livello simbolico/valoria-le/culturale/ cognitivo, e non si limiti alla semplice erogazione di prestazio-ni «materiali» e produzioni di «cose»? Per esempio, relativamente ad una co-munità alloggio, una qualità non monetizzata/monetizzabile potrebbe es-sere la capacità del servizio di realizzare una vita autonoma per un adole-scente ospite o il suo inserimento in una famiglia affidataria.

Come soddisfazione Ultima nell’elenco, ma prima per importanza, la soddisfazione del clien-

te rimane troppo spesso, nei servizi sociali, la «cenerentola» delle dimensio-ni della qualità. Peraltro essa risulta molto difficile da perseguire, non soloper il fatto che i clienti sono diversi, e con interessi spesso diversificati e dif-ficilmente conciliabili (es. minore, genitori, operatori, assessore, funzionari,giudici del tribunale, avvocati di parte ecc.). Qualità, nei servizi socio-edu-cativi, è saper convivere con i paradossi, perseguire il massimo possibile enon quello desiderato, saper curare, non negare la sofferenza.

Queste affermazioni sono da ribadire con forza, perché a volte si ha l’im-pressione che dentro molti discorsi sulla qualità si insinui un tecnicismopervasivo (se non anche un business), che fa dimenticare gli aspetti valoria-li ed esistenziali, di sapienza e non solo di sapere, che sono centrali nell’agi-re educativo.

7.9 Dalle strutture ai servizi

Premessa

In una comunità alloggio di preadolescenti, durante una «riunione» coni ragazzi viene fatto un gioco: si chiede a ciascuno come vorrebbe la comu-nità. Il primo afferma che vorrebbe, al mattino, un educatore in livrea, chegli porti un’abbondante colazione con diverse varietà di cibi. Un altro con-corda, però aggiunge che vorrebbe all’esterno una piscina con parco, perprendere il sole e un campo di calcetto. E così via. Alla fine, un ragazzo af-ferma che vorrebbe ci fosse un incendio, bruciasse tutto, per convincere ilgiudice a farlo ritornare a casa.

Questa «storia» ci riporta alla questione fondamentale: tornare a casa op-pure rimanerci. Gli interventi descritti, di sostituzione temporanea della fa-miglia, non possono prescindere né essere scollegati con quelli che mirano aprevenire l’allontanamento e favorire il rientro. Accanto alla rete di serviziper tutti e alla loro messa a disposizione per i minori e famiglie in difficoltà,occorre la presenza di interventi specifici per il sostegno, l’aiuto e l’inseri- 267

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mento sociale. Accenniamo, di seguito, ad alcuni interventi «consolidati», ead altri di tipo sperimentale, evidenziando i relativi aspetti di complessità.

Servizi consolidati e progetti sperimentali

Educativa territorialeÉ un’attività rivolta a minori con difficoltà familiari e di inserimento so-

ciale che necessitano di un sostegno educativo. Si attua all’esterno dellespecifiche strutture socio-assistenziali, e privilegia la collaborazione con lascuola, la famiglia, i laboratori artigianali, i luoghi di tempo libero, attraver-so la presenza dell’educatore negli ambiti di vita della persona seguita. È at-tività prevista dalla Regione Piemonte tra gli interventi socio-assistenziali.6

Centri diurniQuesti servizi rispondono ad esigenze e bisogni di minori, di norma

preadolescenti e adolescenti, che si trovano in situazione di grave difficoltàrispetto al proprio ambiente di vita, ma per i quali non è opportuno un al-lontanamento dal nucleo familiare. Le attività si svolgono, prevalentementeil pomeriggio, in una sede specifica, con personale educativo.7

Affidamenti familiari diurni.Questo tipo di affido è una forma volontaria di sostegno al minore e alla

famiglia, da parte di singoli o famiglie, e differisce dall’affidamento residen-ziale, in quanto non prevede la permanenza continuativa del minore conl’affidatario. L’intervento deve avvenire su progetto specifico del servizio so-ciale e con verifica periodica. I criteri di idoneità dell’affidatario diurno so-no simili a quelli del residenziale. Gli affidi diurni sono attivati per:

❖ minori che necessitano di essere seguiti in attività educativo-scola-stiche e di inserimento sociale;

❖ situazioni in cui, per il minore, è necessario sostenere anche la fami-glia;

❖ minori adolescenti a rischio grave, che rifiutano l’affido residenziale.

L’affidamento diurno può avvenire a casa del nucleo affidatario, di quel-lo affidante e sul territorio per l’inserimento sociale. Non è previsto affida-mento diurno a parenti.8

Iniziative di tipo innovativo sono attivate in Piemonte, anche a seguitodell’applicazione della legge 285/97, con funzioni integrative o di sperimen-tazione. Alcune di queste iniziative dedicano particolare attenzione all’in-tervento per la valorizzazione, sostegno, recupero ma anche valutazionedella genitorialità. Altre sono rivolte a chi non ha problemi (o meglio è ingrado di affrontarli), ma esprime potenzialità di aiuto. Infatti i servizi di so-stegno assumono maggiore efficacia in un contesto di comunità locale at-tenta ai problemi; troppo spesso ci si dimentica della solidarietà diffusa, del-le risorse latenti presenti in molti «che stanno bene» e della conseguente ne-cessità di curare i «curatori naturali». Il catalogo delle iniziative sperimenta-li è fornito nella scheda A.268

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a) Servizio sociale presso il Tribunale ordinario sezione separazione e divorzi.Questo Servizio, gestito in convenzione con la Provincia di Torino e il Ministerodi Grazia e Giustizia svolge compiti di raccordo e coordinamento tra Servizi so-ciali territoriali e Autorità giudiziaria (Tribunale Ordinario) e supporto ai Servizistessi, in materia di decisioni da assumersi nei provvedimenti di affidamentodei figli nel corso delle procedure di separazione o divorzio dei genitori.

b) E.T. 0-10 anni.Tradizionalmente l’educativa territoriale si rivolge a preadolescenti ed adole-scenti con lo scopo di favorirne l’inserimento sociale. Dal ’99, attraverso unospecifico progetto collegato alla legge 285/97, è stata avviata una sperimenta-zione di intervento a sostegno del nucleo familiare con bambini. Ciò ha impli-cato non solo una implementazione ma anche una innovazione nelle normaliattività dell’E.T.

c) Assistenza domiciliare.Il progetto intende sperimentare il servizio relativamente ai nuclei con mino-ri. Ha lo scopo di supportare e accompagnare nella quotidianità i genitori in si-tuazione di particolare deprivazione socio-culturale e ambientale, ad esercita-re le proprie funzioni anche di tipo pratico e materiale nei confronti dei figli. Siè pertanto provveduto dal ’99 ad estensione di contratto in quattro lotti già ap-paltati di servizio domiciliare, con lo specifico obiettivo di interventi a favoredi nuclei con minori

d) Formazione assistenti domiciliari per i minori.Al fine di sostenere la sperimentazione di cui sopra, sono stati organizzati duecorsi di formazione permanente, specifici per assistenti domiciliari dipenden-ti dell’Amministrazione comunale e in convenzione, che seguono o si prevedeseguiranno nuclei con minori, per un totale di circa sessanta operatori.

e) Promozione gruppi di auto-mutuo aiuto.Il progetto prevede la formazione di «facilitatori» per la gestione di gruppi diauto-mutuo aiuto formati da genitori e/o adolescenti e la successiva attivazio-ne degli stessi. Nel 2000 si sono attivati, a cura di altrettante organizzazioni delprivato-sociale, 3 corsi.

f) Formazione alle problematiche dei minori.È un progetto che mira alla sensibilizzazione e alla formazione del volontaria-to relativamente alle problematiche dei minori con particolare attenzione aquelli in difficoltà socio-culturali e familiari. Tra il ’99 e il 2000 si sono attivati14 corsi presso altrettante organizzazioni del privato sociale.

g) Luoghi neutri.È uno spazio protetto opportunamente attrezzato in cui i minori, allontanatidal nucleo di origine o affidati ad un solo genitore in sede di separazione, pos-sono incontrare gli adulti significativi della propria famiglia. In questa sedepuò anche aver luogo l’incontro fra figli e genitori, quando questi ultimi nondispongono di domicilio stabile o adeguato. È inoltre possibile condurre osservazioni su minori che necessitano di tratta-menti terapeutici. Sono stati attivati 5 luoghi neutri, in collaborazione con leASL, gestiti da personale comunale di tipo educativo. Si prevede che seguanopiù di 300 nuclei l’anno.

segue

Scheda A – Iniziative sperimentali a Torino

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I limiti dell’efficacia

I servizi e le iniziative domiciliari e territoriali hanno negli anni agito inmodo sostanzialmente soddisfacente, pur scontando, in particolare quelliconsolidati, due limiti particolarmente significativi che ne hanno diminui-

h) Provaci ancora SAM.Da diversi anni la Città, in collaborazione con le Scuole, il Provveditorato, al-cune associazioni e la Compagnia di San Paolo è impegnata sul tema del recu-pero della dispersione scolastica e della prevenzione della stessa. Tale iniziati-va ha coinvolto un numero crescente di scuole e di ragazzi (126 nel 1999/2000)con problematiche di inserimento sociale. Si articola in: conseguimento dellalicenza media da parte di minori che hanno superato l’età dell’obbligo attra-verso i Centri territoriali per l’educazione permanente degli adulti (ex 150 ore- attualmente 5); recupero della licenza media per quelli nella fascia dell’ob-bligo; sperimentazione di un intervento preventivo nelle classi prime e secon-de di una scuola media.

i) Sostegno e accompagnamento solidale.Si tratta di un progetto mirante a promuovere una rete di persone (prevalente-mente giovani) facenti parti di associazioni, disponibili alle funzioni di «tutor»nei confronti di minori con difficoltà non gravi e temporanee di inserimentosociale. Questo progetto, avviato nel ’99, ha visto la partecipazione di oltre 20organizzazioni, coinvolgendo più di trecento ragazzi. Nella seconda fase disperimentazione si è deciso di prestare particolare attenzione a quelle propo-ste che prevedano sostegno e coinvolgimento della famiglia.

l) Progetti in collaborazione con le ASL.Dal 2000, tramite specifiche convenzioni, sono avviati i seguenti progetti ed at-tività:

ASL 1:• Attività di valutazione della relazione genitori-bambini soggetti a provve-

dimenti dell’Autorità giudiziaria minorile.• Sensibilizzazione e informazione in materia di maltrattamenti e abuso a

danno dei minori, rivolto a personale della scuola dell’obbligo.• Supervisione, per il Servizi sociali e sanitari, relativamente ai minori coin-

volti in situazioni di abuso e maltrattamento.ASL 2:• Consulenza e mediazione familiare. È un servizio gestito dalle ASL 2 e 3,

con psicologi, sulla base di un rapporto convenzionale con l’Ammini-strazione comunale. Consiste nell’aiuto a coppie con figli che si trovino indifficoltà nella relazione di coppia e/o che intendono separarsi. Ha loscopo di sostenere ed orientare la coppia nella rielaborazione delle pro-prie problematiche di relazione, con l’aiuto di una persona esterna edesperta, e favorire scelte il più possibile condivise, anche al fine di potermeglio gestire la relazione con i figli.

• Sostegno a gravidanza e primi anni di vita per fasce a rischio.ASL 3:• Consulenza e mediazione familiare.• Prevenzione dei danni psichici del maltrattamento e abuso al minore.ASL 4:• Sostegno alla gravidanza e alla prima infanzia nella popolazione extraco-

munitaria.• Presa in carico di minori soggetti a maltrattamenti ed abusi.

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to l’efficacia. Il primo è quello del rischio di delega da parte della famigliaai servizi. I problemi relativi a uno o più figli tendono ad essere spostati eassunti dai servizi che ne diventano quindi «titolari e responsabili», piutto-sto che «aiutatori, sostenitori e facilitatori» per la soluzione. Il secondo,causa ed effetto nel contempo del primo, è quello di una eccessiva «centra-tura» sulla persona problematica, piuttosto che sulla famiglia nella sua glo-balità e complessità. Molte energie sono «spese» per togliere il bambi-no/ragazzo da casa, inserendolo nelle più svariate attività di socializzazio-ne e del tempo libero. Occorre osservare che, per i bambini, casa non signi-fica soltanto abitazione, ma famiglia, e in particolare genitori. Quasi sempreun bambino sta bene, nella misura in cui i genitori sono in grado di offrirerelazioni positive e significative. Relazioni che instaurino sentimenti e rap-presentazioni di sicurezza, autonomia, appartenenza, stima, ascolto, affet-to. A sua volta il genitore può offrire ciò che ha ricevuto e sperimentato co-me figlio nella relazione con i propri genitori e familiari in genere. Se questoè vero, che senso ha chiedere ad un padre e ad una madre di dare acco-glienza, sicurezza ecc., se non l’ha avuta o sperimentata da bambino? Chesenso ha chiedere di aiutare i figli a chi sta male e ha bisogno di essere ascol-tato e aiutato? Ciò non significa affatto che non c’è più speranza, ma piutto-sto che questi genitori devono poter sperimentare nella relazione con chi liaiuta adesso (operatori, ma anche volontari) questi «sentimenti e rappre-sentazioni», per poterli poi dare anche ai propri figli.

Casa, quindi, non significa semplicemente abitazione. E la casa, di per sé,può essere un inferno e una prigione, e ben lo sanno i bambini vittime diabuso e violenza. Significa, per i servizi e gli operatori, soprattutto aiuto e cu-ra di chi deve aiutare ed avere cura. Sostegno alle persone in quanto tali, conle loro difficoltà. Per questo motivo, è strategico non tanto creare nuovi ser-vizi, ma promuovere una riconversione, culturale e tecnico professionale, diquelli già esistenti. Riconversione culturale, perché i concetti sopra accenna-ti non sono nella realtà così scontati ed evidenti; riconversione tecnico pro-fessionale, perché «aiutatori familiari» non ci si improvvisa, ed è certo piùagevole aiutare la famiglia accompagnando ed inserendo il bambino in am-biti esterni alla stessa, che non aiutare i genitori ad esercitare le loro compe-tenze e valorizzarne le risorse. Troppo spesso, le famiglie in difficoltà sono«utenti» dei servizi senza possibilità di scelta, e l’operatore può essere per lo-ro «incompatibile»; basti pensare a variabili quali quella dell’età e del genere.Ricordo un signore che, dopo avermi chiesto un appuntamento, mi disse:«l’assistente sociale potrebbe essere mia figlia. Certe cose a lei non mi sentoproprio di dirle». O quella mamma, che accettò a casa sua la presenza di unaassistente domiciliare quarantacinquenne, ma non dell’educatrice poco piùche ventenne, dalla stessa invece ritenuta adatta per far fare i compiti e por-tare all’oratorio i figli. La riconversione infine richiede non solo di «reperirerisorse», oltre al fare direttamente, ma anche e soprattutto di «averne cura».

Tanti servizi ed interventi (forse troppi)

Antonio è stato inserito in una comunità, come misura alternativa allacustodia cautelare in carcere, a seguito di un presunto grave reato. Ha appe- 271

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na compiuto i 14 anni (età minima per essere imputabile) ed è conosciuto eseguito da tempo dai Servizi. Presenta una lieve insufficienza mentale, eproblematiche relazionali, con episodi di aggressività in famiglia. Dal puntodi vista della storia con i servizi, i genitori ed Antonio hanno conosciutomolte, troppe persone, in questi quattro anni.

Si potrebbe quasi dire, che più i suoi problemi aumentavano, più au-mentavano e cambiavano gli operatori. Prima una assistente sociale, poiun’altra, che, a seguito del trasferimento, è stata seguita da una terza. Nelcontempo, l’intervento terapeutico è stato condotto da uno psicologo e suc-cessivamente, a seguito del suo trasferimento, c’è stata una significativa in-terruzione. È stato poi «preso in carico» da una psicologa. Nel frattempo an-dava a scuola, regolarmente seguito da insegnante di appoggio con «nor-male» turnover. Nell’ambito del territorio era seguito da un sacerdote, e poida un volontario in affidamento diurno. Aumentando i problemi, è stato af-fiancato da una educatrice di territorio, e in famiglia è stata inserita una as-sistente domiciliare, sostituita poi da un’altra, per trasferimento della primae poi da una terza. All’inizio il terapeuta aveva «lavorato» con Antonio e lafamiglia per «convincerli» ad un inserimento in comunità. La terapeuta suc-cessiva aveva tentato di supportare la mamma, nella prospettiva di una per-manenza di Antonio in famiglia. Adesso, non per scelta ma per legge, è incomunità.

La gravità dei problemi porta a progetti così «altalenanti», con effettispesso drammatici. Dobbiamo perciò interrogarci su quanto incidano pro-cessi di «iatrogenesi», prodotti da servizi che presentano:

❖ ampia articolazione degli interventi e difficoltà di coordinamento de-gli stessi;

❖ mancanza di figure unitarie e «forti», che rappresentino un riferi-mento principale per la famiglia e il minore in difficoltà, all’internodella pluralità di interventi e servizi messi in atto;

❖ mancata individuazione di una regia, e di responsabilità di coordina-mento e decisione.

A fronte di tali complessità, anche nei servizi socio-assistenziali e sani-tari emerge la necessità di un approccio di «case management»,con una ge-stione delle singole situazioni problematiche fondata sulla connessione edottimizzazione delle risorse-prestazioni provenienti da svariate fonti ester-ne (pubbliche e private, professionali e volontarie). Una metodologia di la-voro sul caso, attraverso la costruzione di «pacchetti di interventi e percorsipersonalizzati», che connettono più attori e risorse, in una rete di opportu-nità plurali per bisogni individualizzati.

Il case manager diventa quindi l’operatore perno, responsabile/titolaredel singolo caso, con funzioni di regia delle risorse, ma anche di decisione.Se l’approccio di rete fa ormai parte della cultura dei servizi, si è invece of-fuscata, in nome del lavoro di équipe e della condivisione, la cultura delladecisione, posta in capo ad un professionista individuato come «titolare delcaso». E ciò anche per la presenza di operatori che, le responsabilità, talorapreferiscono distribuirle, perché non siano in carico di fatto a nessuno, e diorganizzazioni che sembrano ancora troppo orientate al compito piuttostoche agli obiettivi. 272

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7.10 Conclusioni

In questo capitolo sono state analizzate le strutture residenziali per mi-nori e in particolare le comunità nei loro vari aspetti. È stata evidenziata laloro pluralità organizzativa, gestionale, strutturale e di modelli educativi;pluralità positiva, perché permette di rispondere a bisogni differenziati, chenon può scaturire dallo spontaneismo senza alcuna regolamentazione, marichiede una definizione di modelli, tipologie, indicatori e standard, gestio-nali, strutturali e di qualità. In tale direzione molto occorre ancora fare, perapplicare la recente normativa, che prevede competenze nel merito da par-te delle regioni e dei comuni, all’interno di linee guida nazionali. Le com-plessità relative a tali strutture afferiscono a diversi livelli, così come moltesono le sperimentazioni e iniziative locali volte a superarle. Basti ricordare:

❖ il raccordo tra standardizzazione di modalità gestionali-organizzati-ve e bisogni sempre più complessi e differenziati;

❖ il rapporto tecnico-amministrativo tra enti titolari delle competenzee privati che gestiscono le strutture, in particolare gli aspetti relativiall’autorizzazione al funzionamento e all’accreditamento. Relati-vamente a quest’ultimo, è di particolare rilievo la questione dellaqualità, intesa sia come prerequisiti che come applicazione di normestrategiche e «mission» specifica;

❖ la sempre maggiore gravità della situazione dei minori inseriti, e ledifficoltà di dimissioni degli stessi, sia relativamente al ritorno in fa-miglia che per altre soluzioni quali l’affido o l’autonomia;

❖ la necessità di inserimenti di pronto intervento, e la difficoltà di ge-stione degli stessi, in un ambito educativo progettuale a medio-lun-go termine per gli altri ospiti.

Gli interventi, sia consolidati che sperimentali, per dare «un’altra casa»al bambino che non può stare nella propria, non possono essere scollegatida quelli miranti specificatamente a prevenire l’allontanamento e favorire ilrientro. I principali interventi di questo tipo, con particolare riferimento al-la realtà ed esperienza torinese, presentano aspetti di complessità, quali: laancora scarsa attenzione alla famiglia in quanto tale, piuttosto che al singo-lo soggetto con problemi; l’articolazione, spesso eccessiva, degli interventi edegli operatori e lo scarso coordinamento; il rapporto tra servizi essenziali eazioni di volontariato, e la definizione dei rispettivi ruoli e competenze; ilrapporto tra servizi a gestione pubblica diretta e servizi privati che assumo-no funzioni di rilevanza pubblica.

La rete di sostegno alla famiglia e al minore sul territorio, la sua articola-zione e capillarità, ma soprattutto l’efficacia e l’efficienza che si ottiene af-frontando gli aspetti di complessità sopra richiamati, sono condizioni asso-lutamente necessarie, se si vuole che la maggior parte dei bambini e degliadolescenti che hanno detto «se posso sto a casa mia ma…» ci stiano nel mi-glior modo. E anche se si vuole che quelli per i quali il «ma..» è così forte, darendere necessario l’allontanamento, possano nel minor tempo possibile enella maggiore quantità possibile dire «adesso torno a casa». 273

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7.11 Riferimenti

StatisticiStrutture residenziali educativo-assistenziali in Italia e in Piemonte e minori ospiti(al 30/6/1998)

Minori inseriti dal comune di Torino in strutture residenziali

Strutture residenziali nella città di Torino (al 31/12/2000)

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StruttureMinori Minori Minori per ospiti per strutture 1000 abitanti

in Italia 1.802 14.945 8,3 1,5

in Piemonte 1491.011

(1.123 al 31/12/99) 6,8 1,6

Anni Interventi Minori

1993 682 662

1994 679 657

1995 667 633

1996 728 687

1997 685 665

1998 730 655

1999 838 713

2000 847 706

2001 898 751

Comunità alloggio a gestione diretta 5

Comunità alloggio gestite per conto della Provincia di Torino 5

Comunità alloggio in appalto 1

Strutture residenziali in accreditamento 87

Servizi a bassa soglia 12 (per un totale di 113 posti)

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Tesi di diploma per educatore professionale

Bruno F., Tripodi C., Ancora assistenza?, rel. Manuela Olia, Scuola Firas.Cerniglia M, Comitini M., Comunità con operatori turnanti e comunità con operatori re-

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Scuola Firas.Giordano P., Ingrosso L., Funzioni e professione educativa in diversi modelli di acco-

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Vigliani, Scuola Firas.Leardini I., Lombardi G., Il Piano educativo individuale, la verifica e le dimissioni nella

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Scuola Firas.Segalin C., «Il Ponte» Una Comunità alloggio, relatore Tosco Luciano, Scuola Firas.

Note

1. Una ricerca condotta nel 1998 dal Dipartimento di Psicologia dell’Università diTorino su bambini 0-14 mesi, in due comunità alloggio della Provincia che ospitanobambini 0-3 anni, ha valutato con vari indicatori di sviluppo (motorio, cognitivo, co-municativo, affettivo) la situazione degli ospiti, raffrontandola con quella di un «grup-po campione» che vive nella propria famiglia.Ne è emerso come, per i bimbi in co-munità, lo sviluppo motorio sia inferiore; lo «stile comunicativo» diverso, e cioè piùattento a influenzare il comportamento dell’adulto per i propri scopi, ma meno nelmantenere l’interazione sociale. Il temperamento risulta più passivo, insofferente, po-co partecipativo in situazioni in cui è richiesta una prestazione specifica. Rispetto al-l’attaccamento, i comportamenti di «discriminazione» sono meno forti: i bimbi sorri-dono di più all’estraneo, ne hanno meno paura, cercano meno la persona conosciu-ta. Tali deficit possono essere attribuibili non semplicemente alla permanenza in co-munità, ma alla situazione familiare pregressa di grave deprivazione socio-culturalee relazionale e alla condizione del gruppo di controllo, che fa parte di livelli socio-culturali più alti. In ogni caso è risultato evidente, anche sulla base delle osservazio-ni/rilevazioni degli educatori, come, dopo una prima fase di sviluppo a seguito del-l’inserimento nella struttura (per un indubbio miglioramento della situazione), si ri-

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scontri un periodo di «blocco», e successivamente, in genere dopo gli otto mesi dipermanenza, di regressione.

2. Ad oggi è ancora difficile conoscere con esattezza le dimensioni e le segmentazionidi tale realtà. Non ci sono infatti dati precisi, e il Rapporto ministeriale del 1997 noncostituisce che una stima, relativamente ad un campione di 700 comunità. Un primoelemento che emerge è che la maggioranza (più del 60%) si rivolge a preadolescen-ti ed adolescenti, forse perché è la fascia con più richiesta in quanto i problemi, in-tesi come comportamenti difficili, «scoppiano» spesso in tali periodi e meno sono lerisorse alternative disponibili. L’altro elemento che emerge è la notevole difformitàterritoriale. Infine pare si stia affermando una gestione privata (spesso di cooperativesociali) con motivazioni imprenditoriali/professionali e con un significativo livello diconcorrenza. Il tutto in un contesto di regole ancora poco definite, relativamente arequisiti, standard e rapporti con gli Enti pubblici titolari delle competenze in mate-ria di protezione e tutela dei minori. Altri dati sono forniti dal Centro nazionale diDocumentazione ed Analisi dell’Infanzia e dell’Adolescenza: delle 1802 residenze,censite al giugno 1998, 514 sono le residenze che hanno una disponibilità di postisuperiore a 15, e 217 quelle che ospitano effettivamente più di 15 persone.

3. È stata presa in particolare considerazione la normativa delle Regioni: • Emilia Romagna: D.G.R. n.1980 del 28 giugno 1977 relativa a direttive sulla vigi-lanza e controllo su istituti e servizi per minori e Deliberazioni del Consiglio regio-nale n.777 e n. 779 del 10 dicembre 1997, relative ad indirizzi per la definizione del-le tipologie di intervento sociale a favore di minori nell’ambito socio-assistenziale edirettive sui requisiti strutturali e funzionali dei presidi socio-assistenziali per minori;• Lombardia: Legge del 7 gennaio 1986 relativa alla riorganizzazione dei servizi so-cio-assistenziali; Deliberazione del Consiglio regionale del 23 dicembre 1987 diPiano regionale socio assistenziale; • Piemonte: D.G.R. 38-16335 del 29 giugno 1992 e 24 del 1993 sui presidi socio-assistenziali e su quelli sperimentali; • Toscana: Consiglio regionale 20 marzo 1990: «Schema di regolamento per la de-terminazione dei requisiti di idoneità delle comunità per minori»;e i documenti delle Associazioni:• Coordinamento nazionale delle Comunità per minori (C.N.C.M.): Linee guida;• Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (C.N.C.A.): Carta della qualitàper i minori.

4. Prime valutazioni sulla realizzazione del processo di accreditamento nell’ambito delComune di Torino sono forniti dall’indagine Le strutture socio-assistenziali nel Co-mune di Torino: il processo di accreditamento nelle valutazioni dei soggetti coinvol-ti, in Progetto Agopolis, Energie e spazi per rigenerare la città, Città di Torino, ForumTerzo settore, Torino, 2001, pagg. 53-60.

5. Con le norme attuali, il produttore certificato ISO non riesce ad attestare la qualità so-ciale a cui tende il sistema qui indicato. Per questo è importante che l’Ente naziona-le di normazione UNI stia emanando norme di settore, nel quadro delle ISO 9001,specifiche per i diversi servizi del comparto sociale. In tale direzione l’UNI ha re-centemente elaborato le norme specifiche per le strutture residenziali per minori. Inquesto scenario, «qualora le regioni riconoscano la certificazione volontaria come unrequisito per l’accreditamento, alcuni compiti di controllo saranno affidati al sistemaprivato di certificazione e l’attestato per l’accreditamento verrà rilasciato con la solaverifica dei requisiti aggiuntivi eventualmente richiesti dalle norme regionali e na-zionali». In questo caso i controlli in carico all’ente pubblico diminuiscono, permet-tendo allo stesso di «concentrarsi» sugli aspetti di valutazione e di qualità.

6. Per quanto riguarda la Città di Torino, l’Educativa territoriale è normata da una spe-cifica deliberazione quadro del Consiglio comunale. Il servizio è gestito direttamen-te e tramite appalto concorso.Dal ’96 ad oggi, il servizio in appalto (13 lotti) è statopotenziato, passando da un monte ore mensile pari a 8900 alle attuali 11.600, conun incremento di educatori da 56 a 72. Tale incremento è stato possibile anche gra-zie al finanziamento della legge 285/97. Anche l’educativa territoriale a gestione di-retta ha segnato un aumento di personale tramite un recente concorso.Contestualmente è prevista una riorganizzazione del servizio, attraverso l’individua-zione di compiti specifici e differenziati rispetto all’educativa in convenzione. Perquanto riguarda gli interventi, dal ’96 ad oggi si è registrato un incremento della pre-sa in carico dei minori di circa trecento unità (da cinquecento a ottocento circa).

7. A Torino, fino al ’98 i centri diurni erano 11, in appalto o «a presa d’atto». Dal ’99,accanto ai tradizionali centri diurni educativi, sono stati attivati centri diurni aggre-gativi (attraverso specifico progetto e finanziamento ex lege 285/97) caratterizzati

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dall’inserimento presso realtà esistenti che perseguono finalità ed obiettivi generali disocialità e aggregazione (polisportive, oratori ecc.).Tutti questi servizi sono privati, eil rapporto con il Comune di Torino è regolato dal sistema dell’accreditamento in vi-gore dal 2000. Attualmente i Centri diurni accreditati (educativi e aggregativi) sono21 e coprono i bisogni dell’intera Città. Il numero dei minori inseriti risulta in costanteaumento (196 nel ’99).

8. Da una analisi condotta nel 2000 gli affidamenti diurni attivati dal Comune di Torinorisultano essere 236 al giugno dello stesso anno. Possiamo distinguere quelli di tipoeducativo, mirati principalmente al sostegno del minore in prevalenza all’esterno del-la famiglia, e quelli che prevedono il supporto al nucleo. I primi si caratterizzano peruna prevalenza di riferimento al singolo minore, con un rapporto di tipo individua-lizzato. Danno la priorità all’inserimento sociale e al recupero scolastico, si svolgo-no in prevalenza all’esterno dell’abitazione sia dell’affidante che dell’affidatario.Sono gestiti da volontari singoli, appartenenti a gruppi e associazioni del territorio,nonché da studenti, in particolare delle scuole per educatori e del corso di laurea inscienze della formazione. I secondi si caratterizzano per un intervento di sostegno al nucleo di origine e av-vengono in prevalenza presso lo stesso, oppure presso il nucleo dell’affidatario, conil compito di sostenere il minore affettivamente e nella gestione delle incombenzequotidiane personali, in un clima familiare, qualora non sia opportuno né possibilela presenza presso la casa del minore stesso. Nel 38% dei casi l’intervento avviene nella casa dell’affidatario, nel 27 % in quelladella famiglia di origine e nel 35% dei casi all’esterno. Gli affidamenti diurni sono asingoli nel 64% dei casi, a famiglie nel 36%. Per il 61% gli affidati sono maschi dietà compresa tra i sei e i quattordici anni. La durata, al momento della rilevazione, è,nel 40% dei casi tra sei mesi e un anno, nel 29% di più di due anni, per il 19% traun anno e due anni, per il 12% meno di sei mesi.

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IMMIGRAZIONE E MARGINALITÀ

Per minori stranieri si intendono sia i minori nati fuori d’Italia, che pro-vengono da un’area da emigrazione esterna all’Unione Europea (Est Eu-ropa, America, Africa e Asia) talora in condizioni di clandestinità e sfrutta-mento,o per ricongiungimento famigliare; sia i bambini che, essendo nati inItalia da famiglie con almeno un genitore immigrato, vivono e crescono aTorino.1 Nella tendenza generalizzata all’incremento della presenza stranie-ra, il Rapporto della Commissione per l’Immigrazione evidenzia come l’au-mento del numero delle famiglie complete e regolari determina l’incremen-to dei minori «di seconda generazione», che sono nati in Italia e vengono so-cializzati ai modelli culturali della società italiana.

8.1 Minori stranieri in Piemonte e a Torino: alcuni dati2

Per il citato Rapporto, gli stranieri soggiornanti regolarmente in Italia so-no 1.490.000, di cui l’88% proveniente da paesi non comunitari. Ciò ponel’Italia al quarto posto fra i paesi dell’Unione Europea per incidenza di citta-dini stranieri sul proprio territorio. Al primo gennaio 2000, su 1.270.553 stra-nieri residenti in Italia (pari al 2,2% del totale della popolazione residente),i minorenni ammontavano a 229.849 unità (pari al 18,1% del totale della po-polazione straniera residente). Il Piemonte è al sesto posto tra le regioni ita-liane, con 92.768 cittadini stranieri residenti, di cui 46.708 in provincia diTorino, il 35% concentrato nel capoluogo(dati ISTAT). I minori sono la com-ponente di popolazione che registra l’incremento più marcato: solo dal 1999al 2000 il numero dei minori stranieri è aumentato di circa 43 mila unità, dicui 21.175 nati e quasi 22 mila nuovi immigrati, giunti in Italia attraverso ilricongiungimento familiare. Per il Piemonte, i nuovi nati incidono per oltreil 2% sui residenti stranieri.3

Considerando l’incidenza di stranieri per province italiane, si osservache in Piemonte solo la provincia di Torino figura fra le prime dieci provin-ce italiane per il numero di minori stranieri. Le prime province per numerodi minori sono Milano e Roma, ciascuna con più di 20.000 presenze; seguo-no Brescia e Torino con oltre 8.000, Vicenza, Firenze, Verona e Bologna con6.000 e Treviso e Vicenza con 5.000 presenze. Risalta, in questa graduatoria,la predominanza del Nord Est, con ben cinque province.

Per quanto riguarda la provincia di Torino, disponiamo dei dati relativi aicomuni con oltre 10 mila abitanti (Tabella 8.1).

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Tabella 8.1 – Minori stranieri nella popolazione dei Comuni della provincia di Torino (Torino città esclusa)

Fonte: Provincia di Torino, Concerto 2

La popolazione minorile straniera in tutti i comuni conta 1.531 unità, dicui 111 sono dell’Unione Europea e 1420 extracomunitari. Rispetto al 1998,la popolazione straniera è cresciuta indistintamente in tutti i grandi comu-ni della provincia di Torino (eccetto Moncalieri e San Mauro), con un incre-

Pop. Di cui Stran Min

Min/str. Min str./totale Minori (%) Min.res.(%)

Alpignano 17.214 2.809 120 20 16,67 0,71

Avigliana 10.977 1.764 172 27 15,70 1,53

Beinasco 18.337 2952 165 30 18,18 1,02

Borgaro.Tse 12.660 2514 98 12 12,24 0,48

Carmagnola 24.845 4326 270 43 15,93 0,99

Caselle 15.404 2773 118 28 23,73 1,01

Chieri 32.954 5255 464 93 20,04 1,77

Chivasso 23.992 3790 294 59 20,07 1,56

Ciriè 18.412 2954 158 24 15,19 0,81

Collegno 47.702 7232 588 186 31,63 2,57

Cuorgnè 10.012 1593 164 45 27,44 2,82

Giaveno 14.473 2198 241 45 18,67 2,05

Grugliasco 39.890 6311 251 40 15,94 0,63

Ivrea 24.409 3252 415 82 19,76 2,52

Leini 12.113 2156 69 11 15,94 0,51

Moncalieri 57.024 8249 1220 264 21,64 3,20

Nichelino 47.077 7796 430 83 19,30 1,06

Orbassano 21.702 3697 149 43 28,86 1,16

Pianezza 11.387 1.832 95 9 9,47 0,49

Pinerolo 34.081 4.766 443 86 19,41 1,80

Piossasco 15.852 2356 98 12 12,24 0,51

Rivalta T. 17.776 3139 189 42 22,22 1,34

Rivarolo C.se 12.187 1939 169 45 26,63 2,32

Rivoli 51.996 8721 355 60 16,90 0,69

Santena 17.610 2865 171 18 10.53 0,63

Sanmauro T.se 10.237 1867 104 23 22,12 1,23

Settimo T.se 47.267 7764 305 46 15,08 0,59

Venaria Reale 36.038 6688 216 29 13,43 0,43

Vinovo 13.659 2304 90 15 16,67 0,65

Volpiano 13.068 2499 76 11 14,47 0,44

Totale dei 30 comuni 730.655 118.361 7697 1.531 19,89 1,29

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mento medio del 15%. In alcuni comuni (Moncalieri, Cuorgnè, Collegno,Ivrea, Rivarolo) la percentuale dei minori stranieri rispetto ai minori resi-denti supera decisamente la media. Nel complesso, la popolazione stranie-ra è decisamente più giovane rispetto a quella residente: mentre nella po-polazione totale la percentuale di minori si attesta sul 16%, per quella stra-niera sfiora il 20%.

Rispetto a Torino, dove il fenomeno dell’immigrazione straniera minori-le risale più addietro nel tempo ed è relativamente pìù conosciuto, nelle al-tre province piemontesi l’incremento registrato nella quota di minori immi-grati è più recente, e alla sua emersione può avere contribuito la legge 40/98sulla immigrazione.

Famiglie e scuola

La presenza dei minori nelle strutture familiari dipende anche dalla mo-dalità di costruzione e gestione del percorso migratorio. Le famiglie che im-migrano «come tali» sono meno frequenti rispetto alle famiglie ricongiunte,dove l’uomo, che di norma parte per primo, organizza il ricongiungimentodei propri famigliari; anche se ultimamente vi sono più numerose donneche intraprendono «l’avventura migratoria», vedendo nell’Italia uno sboccoconsistente per il lavoro domestico. La tipologia più diffusa tra gli immigra-ti è «la famiglia nucleare di tipo tradizionale»(male bread winner), seguitadalla famiglia nella quale entrambi i coniugi lavorano e collaborano al bud-get economico. In alcune comunità (ad esempio la cinese) è piuttosto fre-quente la famiglia comunitaria, costituita da un numero di coppie coabi-tanti. Il nucleo familiare composto da un solo genitore (per lo più la madre)e da uno o più figli è la situazione più disagevole: se manca di una rete di so-stegni allargati nella cerchia parentale ed etnica, espone i minori ad una pe-culiare fragilità.

L’inserimento dei bambini stranieri nelle scuole italiane è un indicatoredella relativa stabilità raggiunta dal progetto migratorio. Gli allievi stranieriiscritti nelle scuole piemontesi sono stati nell’anno 96/97 5349, pari all’1 percento della popolazione scolastica totale. Il 49,4% era concentrato nella pro-vincia di Torino (Tabella 8.2).

Tabella 8.2 – Allievi stranieri nelle scuole piemontesi

ProvinciaScuole Scuole Scuole Scuolematerne elementari medie inf. medie sup. Totale

Torino 538 1.212 579 314 2.643

Vercelli 67 110 62 17 256

Novara 61 198 80 36 375

Cuneo 177 459 224 57 917

Asti 30 132 57 10 229

Alessandria 112 255 84 39 490

Biella 72 142 67 22 303

segue

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Fonte: Regione Piemonte

La tendenza negli ultimi cinque anni è in costante incremento: una pre-visione per l’anno scolastico 2001-2002 è riportata in Tabella 8.34

Tabella 8.3 – Previsione di allievi stranieri per l’a.s.2001-2

Fonte: CIDISS

Questi dati, scorporati degli adulti (circa 3000), che sono attesi a fre-quentare i Centri territoriali per l’educazione degli adulti, indicano come ilnumero degli stranieri frequentanti dalle materne alle superiori sia in cin-que anni pressoché raddoppiato. A Torino si stima, con l’anno scolastico2001-2, un totale di 8000 allievi stranieri, ed una loro distribuzione dal cen-tro storico (dove vi sono fino al 50% di allievi stranieri in alcune prime clas-si elementari) nelle due direttrici verso le periferie sud e nord della città.

La scuola e le etnie

Le etnie nelle scuole della provincia di Torino sono diversamente pre-senti. La marocchina occupa il primo posto (pari al 25,5% sul totale deglistranieri iscritti), con un peso particolarmente forte nella scuola dell’infan-zia (32,5%). Il secondo posto viene occupato dalla Cina, con il 9% del totaledegli allievi stranieri della provincia di Torino: la presenza di alunni cinesi èparticolarmente consistente nelle scuola elementare(10,4%) e nella scuolamedia (11,5%). L’Albania rappresenta l’8,9% del totale; la distribuzione deglistudenti albanesi nei diversi ordini di scuola è abbastanza omogenea (9,4%della scuola dell’infanzia, 7,3 % delle superiori). La Romania ha una percen-tuale media del 7,9%, variabile a seconda dell’ordine scolastico (9,8% delle

Verbania 21 69 33 13 136

Piemonte 1.078 2.577 1.236 508 5.349

Tot. iscritti 96.503 169.142 110.510 162.256 538.411

% stranieri sul totale 1.1 1.5 1.1 0.3 1.0

Provincia N° allievi stranieri previsti

Alessandria 1.811

Asti 847

Biella 701

Cuneo 2.625

Novara 1.088

Torino 6.993

Verbano Cusio Ossola 289

Vercelli 600

Tot. Piemonte 14.954

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elementari, 5,4% delle superiori). Il Perù ha una incidenza complessiva del7,4 %,con una presenza nella scuola dell’infanzia piuttosto contenuta(4,3%).

Si possono sottolineare questi ulteriori tratti differenziali tra le diverseetnie.

❖ Cinesi. La percentuale di cinesi nella scuola dell’infanzia è piuttostocontenuta, e il 77,6% dei bambini cinesi che la frequentano è nato inItalia. La difficoltà dell’apprendimento della lingua italiana viene re-gistrata in tutti gli ordini di scuola, con qualche miglioramento solonella scuola superiore.

❖ Albanesi. Gli studenti albanesi sono presenti nella città di Torino inmisura minore rispetto ai distretti scolastici della provincia. Solo il38,8% dei bambini di origine albanese che frequentano la scuola del-l’infanzia è nato in Italia; negli ordini scolastici successivi la presenzadi albanesi nati in Italia è praticamente nulla. Rispetto all’apprendi-mento della lingua italiana non hanno grossi problemi.

❖ Rumeni. È la comunità che comincia ad espandere i suoi iscritti allescuole materne, ma ancora l’87,5% dei bambini rumeni che vi sonoiscritti sono nati all’estero. Praticamente tutti gli studenti degli ordiniscolastici successivi hanno frequentato le scuole in Romania.

❖ Peruviani. La comunità peruviana appare concentrata sul territoriotorinese, i bambini sono meno presenti nelle scuole dell’infanzia, ri-spetto ai connazionali più grandi inseriti nelle scuole superiori..Nonhanno grandi problemi d’inserimento.

❖ Marocchini. La percentuale di presenza nelle scuola dell’infanzia(32,5%) segnala che la comunità si sta stabilizzando sul territorio, connuclei familiari e figli nati in Italia. Nei gradi scolastici successivi in-contrano problemi gli allievi venuti con il ricongiungimento familia-re, dopo aver frequentato le scuole del paese d’origine con un siste-ma scolastico completamento diverso.La conoscenza dell’italianodetermina grande difficoltà.

Non è dato conoscere con esattezza il livello della evasione scolastica,corrispondente alla differenza fra minori obbligati iscritti in anagrafe eiscritti alla scuola dell’obbligo. Lo scarto attesta sia una distanza dalla istitu-zione scolastica (come nel caso dei Rom), sia un ingresso precoce nel mer-cato del lavoro; o un ritiro (più probabile per le ragazze) in una condizionedi semi-invisibilità famigliare.

Bambini stranieri nella scuola materna

In riferimento alla provincia di Torino, disponiamo di dati complessivie aggiornati fino al 1999 sui bambini stranieri nella scuola dell’infanzia.Erano 1094 (+53% rispetto al 1997), per il 29% compresi fra i 3 e 4 anni, glialtri di età superiore (5-6 anni), con la distribuzione per etnie riportata inTabella 8.4.282

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Tabella 8.4 – Iscritti alle scuole materne in provincia di Torino 1997-1999

Vanno aggiunti 31 nomadi, iscritti sempre nel 1999. La distribuzione de-gli iscritti alle scuole materne sul territorio indica come il 69% è all’internodella città di Torino, con punte massime nei quartieri di Barriera di Milano,San Salvario e San Paolo. All’esterno della città, si registra una incidenza re-lativamente maggiore nelle zone di Piossasco -Orbassano e Moncalieri.

8.2 L’area critica: non accompagnati, male accompagnati

I «non accompagnati»

Una situazione problematica emergente e preoccupante è quella dei mi-nori stranieri cosiddetti «non accompagnati». Il fenomeno appare in cresci-ta, anche se in parte si tratta dell’emersione di una realtà per lungo temporimasta più o meno nascosta.

Secondo i dati italiani, relativi al 31 dicembre 2000 e ai primi 5 mesi del

Provenienza 1997 % 1998 % 1999 %

Maghreb 210 29,4 336 37,9 397 36,3

Egitto, Libia 37 5,2 40 4,5 35 3,2

Libano 4 0,6 9 1,0 8 0,7

Israele 2 0,3 3 0,3 3 0,3

Iran, Iraq 15 2,1 10 1,1 13 1,2

Somalia 12 1,7 13 1,5 12 1,1

Nigeria, Niger 16 2,3 17 1,9 25 2,3

Altri Africa 44 6,2 67 7,6 69 6,3

Cina 50 6,9 37 4,2 58 5,3

Filippine 22 3,0 34 3,8 34 3,1

Giappone 6 0,9 5 0,6 4 0,4

Altri Asia 22 3,0 17 1,9 19 1,7

ex Yugoslavia 50 6,9 41 4,6 56 5,1

Albania 31 4,4 51 5,8 103 9,4

Romania 19 2,7 51 5,8 72 6,6

altri est Europa 8 1,1 4 0,5 14 1,3

UE- Svizzera 93 13 55 6,2 59 5,4

nord Am.Austr 17 2,4 2 0,2 8 0,7

centro/sud Am 57 7,9 75 8,5 104 9,5

Turchia 0 0 19 2,1 1 0,1

totale 715 100 886 100 1094 100

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2001 forniti dal Comitato per i minori stranieri5, la provenienza dei minorinon accompagnati ricalca quella della popolazione immigrata. La graduato-ria delle regioni vede nell’ordine la Lombardia (571 minori non accompagna-ti), la Toscana (501), il Piemonte (448), l’Emilia Romagna (424). Per prove-nienza geografica, per due terzi si tratta di albanesi, seguiti da marocchini, ru-meni, ex-jugoslavi. A Torino «non accompagnati», in genere dai 12-13 in su,sono albanesi, rumeni, marocchini. L’arrivo da «non accompagnati» (gene-ralmente maschi) ricopre una diversità nei processi migratori e nei relativiprogetti individuali e famigliari. Gli albanesi, più simili agli italiani per cultu-ra e socializzazione anticipatoria, sono mandati dai genitori a Torino con ilprogramma di arrangiarsi a sopravvivere senza mettersi nei guai. Provengonoda montagne poverissime, la loro famiglia si è indebitata per pagare il viaggio;utilizzano catene migratorie pregresse nella ricerca di un lavoro.

I marocchini non accompagnati sono: ragazzi di strada cattivissimi giàin Marocco, ossia abituati a traffici illeciti, che difficilmente si recuperano ovengono deliberatamente per delinquere; ragazzi (quando non bambini di10-12 anni) provenienti da zone di campagna (Kourigba), ignorano tuttodella situazione che troveranno, hanno una fortissima volontà di aiutare lafamiglia rimasta al paese di origine. Le famiglie sono quasi sempre consa-pevoli di tale stato di cose, quando non hanno sollecitato esse stesse l’emi-grazione dei propri figli.6 A volte, questi precoci immigrati compiono il viag-gio per arrivare in Italia assieme ad un parente,ma una volta arrivati, riman-gono da soli, o per propria scelta o perché i parenti vengono espulsi o si spo-stano in altre regioni per cercare lavoro. Non fanno amicizie con i bambiniitaliani, si tengono a distanza della cultura italiana. Accettano vita allo sban-do, precaria, carica di precoci responsabilità.

Il non accompagnamento, anche se non equivale ad uno stato di vero eproprio abbandono7, è indice di una condizione precaria, che raccoglie ecombina molteplici elementi di vulnerabilità e rischio: quali l’obbligo delguadagno immediato, il dovere di mandare soldi alla famiglia d’origine, lanecessità di pensare alla sopravvivenza quotidiana, l’incertezza abitativa, laviolenza fisica. I minori non accompagnati incontrano una serie di difficoltàpratiche così forti –come la ricerca di un alloggio e l’estinzione del debitocontratto per il viaggio – che li pongono nella necessità di procurarsi in tem-pi molto rapidi un buon guadagno, finendo per alimentare l’area del lavorominorile irregolare e delinquenziale8.

Quale integrazione sociale può avere chi dorme per uno o due anni in ca-se abbandonate, chi si espone ad una scuola continua di violenza entro ban-de criminali?

Piccoli marocchini

Fra le componenti della condizione minorile straniera a Torino, un postodi rilievo, sia per la loro quantità e visibilità, sia per i problemi sociali che de-termina, è costituita dai marocchini9. Diamo alcuni «ritratti» di adolescentie ragazzi di età inferiore ai 14 anni, non accompagnati o «male accompa-gnati, in situazioni di precarietà e disagio, che è possibile riconoscere, e ta-lora incontrare, nella realtà dell’area torinese.284

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Bambini segnati Alcuni minori portano sul corpo i segni lasciati da pratiche e rituali tra-

dizionali subite al paese d’origine. Sono stati accompagnati dalle loro mam-me presso i santoni di alcuni villaggi. Rimangono per sette giorni in unastanza buia, senza contatto con l’esterno. La mamma o uno dei servitori delsantuario deve offrire il cibo ai momenti previsti, ed osservare se un bambi-no è in grado di affrontare la vita con coraggio o meno. I bambini tatuati por-tano per tutta la vita un segno sulla nuca.

Piccoli ambulantiAppartengono a famiglie numerose, nati nei villaggi devastati dalla sic-

cità che sta colpendo il Marocco da decenni. Molti di loro emigrano verso legrandi città, dove si concentrano nelle bidonvilles e lavorano come ambu-lanti nelle stazioni dei treni e dei pullman. I più fortunati trovano acco-glienza presso piccoli artigiani, che oltre ad insegnare loro un mestiere dan-no un posto letto nello stesso laboratorio. Altri sono stati accompagnati dazii,cugini o parenti, dalla città di Khouribga, nelle regioni del Nord Italia, do-ve iniziano il lavoro come piccoli ambulanti o lavavetri. Partono all’alba conil treno da Torino per varie destinazioni del Piemonte. Tornano al tramontoa Torino, dove hanno un posto letto affittato in un garage o in una soffitta.Partecipano alla spesa quotidiana come gli adulti. Il loro interesse primarioè quello di aiutare la famiglia rimasta al paese d’origine. L’italiano di questiragazzi è limitato al bisogno della vendita ma, quando si esprimono nella lo-ro lingua, emerge una maturità superiore alla loro età. Parlano il linguaggiodi persone adulte piene di responsabilità. Tuttavia, sono emarginati, sia dailoro connazionali, che dalla maggioranza degli Italiani. Vanno in ospedalesolo se si ammalano gravemente.

Gli orfaniRagazzi cresciuti negli istituti di orfani in Marocco. Alcuni di loro sono

scappati dalle regole rigide di questi luoghi. Altri si sono trovati in mezzo al-la strada, quando le strutture di accoglienza state chiuse per problemi eco-nomici, senza trovare nessuna alternativa, mentre bastava forse un poco diaffetto e considerazione per rientrare nelle regole della vita quotidiana.

Con la sola mammaSono ragazzi molto voluti dagli sfruttatori, perché hanno un permesso di

soggiorno e non corrono il rischio di un eventuale rimpatrio. La mamma èconsiderata di poco conto, perché non può sostituire il potere del padre.Con grossi problemi di personalità, sono rimasti fermi all’età in cui la mam-ma è immigrata per preparare un ricongiungimento familiare. Il problemadel minore non è separabile dal destino della madre.

Obbligati ad emigrareRagazzi che sono stati strappati all’affetto della famiglia con un proget-

to di immigrazione deciso dal «padre padrone.» Vengono accompagnati daadulti e venduti alle organizzazione criminali in Italia. Rimangono nellemani del racket, che gestisce il giro dello spaccio e della prostituzione mi-norile. 285

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Ragazze soleSono ragazze che condividono il «giro» dei minori maghrebini. Il loro lin-

guaggio è connotato di espressioni molto forti e aggressive. Oltre a spaccia-re, devono fare i corrieri della droga e anche le prostitute. Molte di loro so-no diventate tossicodipendenti.

Soli e con esperienza di tossicodipendenzaDiversi dai Marocchini di Khouribga o dei quartieri popolari di Casa-

blanca: sono di Tangeri, hanno fatto l’esperienza delle comunità per due an-ni o tre in Spagna. Sovente orfani, scappati dal Marocco nascondendosi nel-le navi mercantili. Molti di loro hanno tentato più volte di nascondersi neicontainers per emigrare; scoperti dalla polizia, vengono rispediti a terra.Alcuni di loro portano ricordi incredibili, come l’utilizzo di una miscela disostanze per affrontare la paura, e per saltare dalla nave. Alcuni loro amicisono stati macinati dalle eliche della nave, altri morti annegati.

Una volta arrivati in Piemonte, trovano un mercato ben organizzato nelgiro della droga e dello sfruttamento minorile. Sono dipendenti dall’hashi-sh, consumano sia droghe pesanti che ecstasy, diventano alcolisti.

La devianza e il controllo

Nella criminalità minorile ricorre la presenza straniera: nomadi che ru-bano, maghrebini che spacciano. Lo indicano inoltre le statistiche sugli in-gressi e le permanenze al carcere minorile, dove la quota degli extracomu-nitari è ormai maggioritaria. Nel caso dei nomadi, mandare bambini di 9-10anni a rubare è un segno di deterioramento della cultura rom e del suo tra-dizionale senso dell’onore. Sorpresi a rubare, i piccoli nomadi scappano, sepresi non si difendono; sono bugiardi ma non violenti. Nei marocchini, ilpassaggio più rilevante dal non accompagnamento al crimine è bene esem-plificato dall’intreccio fra percorsi migratori e percorsi di devianza.10

❖ Minorenni che approdano all’illegalità, perché cadono in balia di per-sone che approfittano di loro. I ragazzi sono vincolati ai loro sfruttato-ri da un aspetto di riconoscenza debitoria, per l’ospitalità ottenuta, ilcibo che si è mangiato insieme, «il sale che è stato scambiato».

❖ Minorenni che passano da attività legali a attività illegali per scelta.Dopo una prima esperienza di vendita ambulante, si inseriscono nelcircuito illecito, per la prospettiva di un guadagno facile e immedia-to che consente di avere beni di consumo e inviare somme elevatealla famiglia. Alla quale, forse, non interessa granché che la fontedelle rimesse derivi esclusivamente da una attività lecita. I redditimensili degli spacciatori sono elevati, il principale problema è nonfarsi prendere.

❖ Minorenni che giungono in Italia consapevoli dell’attività delinquen-ziale a cui si avvieranno. Si tratta di adolescenti che, a Casablanca oin altre grandi città, sono stati avvicinati da personaggi già inseritinell’attività delinquenziale, che li avviano ad una consapevole carrie-ra criminale.

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Va notato che sulla tendenza a delinquere agisce la propensione acqui-sitiva molto forte, per adolescenti che non hanno vere prospettive di inseri-mento lavorativo e di integrazione sociale. Il crimine è visto come un mezzo«per avere» e poi come uno stile di vita paradossalmente interculturale.Quando le etnie si contendono il predominio sull’illegalità, si imparano lelingue…

Dal punto di vista del controllo, il fenomeno dei minori stranieri non ac-compagnati è complesso e in continua evoluzione, sia per la casistica che locontraddistingue che per la normativa, anche contraddittoria, cui fa riferi-mento: Convenzione di New York recepita dalla legge italiana (176/91) sui di-ritti di protezione e tutela dei minori, indipendentemente dalla loro etnia eposizione giuridica, ma anche diritto alla propria famiglia e al ricongiungi-mento con la stessa; Codice Civile, che impone protezione e tutela del mino-re in caso di abbandono da parte dei genitori; legge 184/83 e successive mo-dificazioni sull’affidamento e adozione; disposizioni sul rimpatrio dei mino-ri, circolari ministeriali che dispongono per i minori irregolari il permesso disoggiorno fino a 18 anni non rinnovabile. L’insieme di disposizioni di tutelafino ai 18 anni senza possibilità di prosecuzione del permesso di soggiorno,e nel contempo di rimpatrio (sulla carta) portano a lunghe permanenze inItalia senza alcuna prospettiva per il futuro, se non quella dell’espulsioneteorica al compimento del diciottesimo anno o della permanenza nella clan-destinità e nel mondo dell’illegalità e della devianza. (Scheda A).Nei confronti del non accompagnamento e connessi problemi di devianza,l’Autorità giudiziaria torinese ha delineato una strategia di controllo, artico-lata su diversi piani di intervento:

❖ valutare se la persona adulta accompagnante (diversa dal genitore)sia in grado di assumersi la responsabilità del minore;

❖ promuovere l’eventuale procedura dell’affidamento a persone ostrutture educative, indispensabile per «bambini di età inferiore ai 12anni bisognosi ancora d’un ambiente famigliare»;

❖ evitare il rimpatrio di ragazzi e adolescenti, di età superiore ai 12 an-ni, che aderiscono ai programmi di reinserimento sociale;

❖ estendere le «tutele civili» per gli adolescenti(15 -18anni) non accom-pagnati, che non delinquono

❖ provvedere al rimpatrio assistito.

In deroga al rimpatrio, questi minori possono ottenere un permesso fino alcompimento del 18° anno di età, a condizione di essere affidati a una fami-glia o a un istituto (decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri535/1999). Un lavoro educativo può quindi essere compiuto sul minore finoal raggiungimento della maggior età, nonostante le prospettive di una futu-ra espulsione. Una diversa situazione si prospetta, a seguito di recenti circo-lari del Ministero degli Interni, che impongono la consegna dei minori irre-golari all’autorità del luogo in funzione del rimpatrio. Potrebbe di conse-guenza accrescersi la propensione dei minori irregolari a entrare in una re-lativa invisibilità sociale, che li espone maggiormente al comportamentodeviante, mentre li sottrae ad eventuali opportunità educative che potreb-bero essere loro offerte. 287

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Scheda A – Alcune storie di vita

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MARIETA È irregolare, vive in un modesto appartamento con il figlio di sette an-ni e si mantiene con la prostituzione, che esercita solo durante il giorno e quan-do il figlio è a scuola. Edmond ormai è «italiano», ma Marieta non potrà mai re-golarizzare sé e il figlio perché per un piccolo reato commesso durante il pro-gramma di protezione (che la legge prevede per chi esce dalla prostituzione) nonpotrà più usufruire dei beneficio dello stesso (permesso di soggiorno anche peril lavoro). Può ritornare col figlio nel suo paese d’origine oppure abbandonare ilfiglio, che verrà protetto dai Servizi sociali, e forse poi potrà essere adottato dauna famiglia italiana; oppure ancora aspettare, da clandestina, un’espulsione(«foglio di via» o accompagnamento alla frontiera).Questa storia illustra la condizione di molti bambini che sono presenti irregolar-mente in Italia con la propria madre. Madre spesso adeguata ma non in grado ditenerli e seguirli per le condizioni di vita in cui vive, o di garantire loro un futu-ro, data la situazione di clandestinità. Bambini che finiscono per anni in comu-nità o in affidamento familiare. Una condizione che perdura perché l’irregolaritàdella madre permane, ma nello stesso tempo non si attua il rientro nel paese d’o-rigine né in modo volontario né coatto. Nel frattempo mamma e bambino sonosempre più «italiani»….

LEONARD è uno dei tanti «minori stranieri non accompagnati» che entrano e sog-giornano in Italia senza essere accompagnati da persona adulta, per loro re-sponsabile in base alle leggi o alle consuetudini, e senza aver ottenuto le auto-rizzazioni necessarie a tal fine. Leonard diceva di avere 12 anni e di essere arri-vato da solo in Italia quando le forze dell’ordine lo avevano fermato con degliadulti. Al contrario di altri portati in comunità non scappa ma accetta di andarea scuola e poi fare un tirocinio lavorativo e un corso professionale. Quanto staràancora in comunità? Intanto anche lui è diventato sempre più «italiano».LILIANA Arriva nella prima comunità che l’ha accolta a 13 anni, per salutare glieducatori. Chi non la conosce può pensare che sia una ragazza che abita in qual-che alloggio del condominio. Eppure, quando la polizia l’aveva portata a seguitodella segnalazione di un «cliente» pentito o impietosito per la condizione di quel-la bambina, nessuno avrebbe scommesso un tale cambiamento. Adesso va ascuola, ed è nel programma previsto dalla legge che prevede il permesso di sog-giorno anche per lavoro. Il contesto sociale e familiare dei paesi d’origine contribuisce a creare le condi-zioni per portare la minorenne nella prostituzione. Dai racconti delle ragazze ni-geriane la figura del «fidanzato» che inganna è sconosciuta. La famiglia è per lamaggioranza dei casi consenziente, e spesso consapevole dell’attività che la figliafarà in Italia, ma tutto viene vissuto e trasmesso alla ragazza come un compito cuideve assolvere per il benessere della famiglia. Per le ragazze provenienti dai pae-si dell’est, il contesto sociale è di grave povertà materiale e culturale. Problemi le-gati all’alcoolismo, assenza e inconsistenza della figura paterna, non in grado diprovvedere ai bisogni del nucleo, maltrattamenti e violenze che le ragazze a voltesubiscono, anche all’interno della famiglia stessa. La possibilità di prostituirsi èimplicitamente accettata anche se non esplicitata, perché già nel paese di origineil loro corpo è stato usato per ottenere favori e regali o già violato all’interno del-la famiglia. Per le ragazze albanesi il fenomeno è parzialmente cambiato. All’i-nizio, le ragazze erano rapite o ingannate dai loro presunti «fidanzati» che le por-tavano in Italia per sfruttarle o venderle ad altri. Ora non c’è più, o meglio è resi-duale, la fanciulla innocente irretita ed ingannata, ma giovani donne cresciutetroppo in fretta. Ma le ragazze, anche se consenzienti, non sono veramente con-sapevoli di cosa significa davvero lavorare nella strada, essere considerate mercie come tali essere trattate, vendute, sottoposte ad ogni forma di violenza fisica epsicologica. Spesso immaginano di dover «lavorare» poco, con due o tre clienti, eguadagnare ciò che basta per vivere bene in Italia ed aiutare la famiglia.

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8.3. Accesso ai servizi e integrazione

Passiamo ora ad una analisi più ravvicinata di come, rispetto ai proble-mi che i minori stranieri incontrano nella realtà torinese, il sistema delleistituzioni e dei servizi è stato fin qui in grado di apprestare degli elementidi risposta. Ovviamente, le differenze fra gli immigrati diretti ricongiunti edi bambini di seconda generazione sono rilevanti, come ancor più lo sonoquelle tra «regolari» e «non regolari».

Nascita e prima infanzia

L’8,5% delle nascite registrate a Torino in un ospedale specializzato(Sant’Anna) sono di bambini extracomunitari: ciò significa che quasi uno sudieci di questi nuovi nati torinesi è straniero. Oltre al dato quantitativo, il pro-cesso di gravidanza e parto espone dinamiche culturali, che mostrano la di-stanza intercorrente fra i temi della cultura etnica e la nostra cultura dell’as-sistenza. La diffusione dell’assistenza ospedaliera e l’azione dei mediatoriculturali nella struttura riducono l’impatto dei problemi di distanza. Per que-sti parti, è fondamentale il mediatore culturale e la partecipazione ai corsi dipreparazione dove le mamme straniere si confrontano con quelle italiane.

La nascita è senz’altro uno degli aspetti che caratterizza con maggiorepreoccupazione il corso di vita dei minori stranieri e delle loro famiglie.Molte di esse vivono in abitazioni malsane, e non hanno piena conoscenzadei diritti di accesso alle strutture sanitarie. La differente fruizione dei rela-tivi servizi si riflette nella diseguale incidenza dei fenomeni di rischio e dimortalità perinatale fra le diverse etnie.11 E ci sono anche molte mammestraniere troppo giovani, che invece di portare avanti la loro maternità, pre-feriscono il ricorso all’interruzione di gravidanza.

Più forte risulta la distanza culturale, a base etnica, nei confronti delbambino malato ed esposto a pericoli di vita. La morte del bambino picco-lo viene «accettata» dalla rete famigliare etnica secondo un approccio che larende più simile alle nostre culture tradizionali ad elevata mortalità infanti-le. La morte fa parte della vita, il bambino non ha lo stesso valore di un uo-mo compiuto.

Bambini piccoli di madri irregolari

All’Ufficio Minori stranieri del Comune di Torino perviene una ampiavarietà di situazioni, regolari e sovente irregolari. Queste ultime richiedonosoluzioni ad hoc, consentite dalla normativa, orientate a rispondere ai piùurgenti bisogni di protezione e tutela. È questa la situazione di bambini, an-che molto piccoli, che sono soggetti a provvedimenti giudiziari, perché sitrovano in situazioni di grave disagio;ad esempio bambini tra 0 e 3 anni figlidi prostitute e di ignoti padri italiani.

In taluni casi, questi bambini sono inseriti con le loro mamme in comu-nità di accoglienza.Il periodo di permanenza è utile anche per verificare la

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capacità genitoriale, benché il provvedimento, piuttosto che da incapacitàgenitoriale, sia sovente determinato dalla mancanza di risorse economicheo abitative, e dalla condizione irregolare della madre. In altri casi, per don-ne senza permesso di soggiorno, il bambino viene loro allontanato e inseri-to in centri di accoglienza a bassa soglia, come comunità alloggio, o resi-denze temporanee in strutture protette.

In generale l’irregolarità dei genitori, con i suoi vari problemi, si riflettedirettamente sulla condizione dei bambini. Per gli attori dell’intervento,raggiungere persone in condizione irregolare, senza casa e lavoro apparen-te, non è cosa già di per sé agevole. Una via di recupero si apre se le donnevengono inserite in programmi di protezione sociale (secondo quanto pre-vede l’art.18 della L.40/98) e iniziano di conseguenza un percorso famiglia-re. Oppure se bambini molto piccoli sono dichiarati adottabili. È anche pos-sibile che il Tribunale dei Minorenni conceda (ex art.31 della L.40/98) unpermesso temporaneo di soggiorno ad uno dei genitori per «sostenere losviluppo psicofisico del bambino».

L’accesso ai servizi della salute

Per quanto concerne l’accesso ai servizi sanitari, l’articolo 32 della legge40/98 prevede l’obbligo dell’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale pertutti gli immigrati in regola con il permesso di soggiorno; l’iscrizione è ga-rantita anche ai loro familiari e a tutti gli stranieri regolarmente soggiornan-ti, che abbiano fatto richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno, per la-voro, motivi familiari e altro. Per i cittadini stranieri non in regola con la nor-me relative all’ingresso ed al soggiorno, l’articolo 33 della stessa legge pre-vede la garanzia delle cure essenziali, nelle strutture sanitarie pubbliche edaccreditate. L’accesso a tali strutture non comporta denuncia alle autorità,salvo nei casi in cui la legge lo preveda «a parità di condizioni con i cittadi-ni italiani».

I dati relativi alle presenze di immigrati maghrebini negli ospedali tori-nesi, nel periodo compreso fra il 1995 ed 1997,12 indicano come le più fre-quenti, per i minori maschi fra 0 e 14 anni, fossero le patologie perinatali(14,3%), le patologie croniche delle basse vie respiratorie (7,7%), le patolo-gie acute delle vie aeree superiori (7,2%), ipertrofia prepuziale/fimosi(6,6%), malattie ed infezioni intestinali (3,9%). Per le minorenni maghrebi-ne di età compresa fra 0 e 14 anni, le patologie perinatali e le patologie del-le basse vie respiratorie. Fra le donne di età superiore, risulta al primo postoil parto, la seconda causa è la complicanza nella gravidanza, la terza l’inter-ruzione di gravidanza. Agli irregolari resta l’alternativa tra l’ospedale – per leurgenze – ed i servizi gestiti dal volontariato cattolico e laico, rispettivamen-te Sermig, nel compendio di Borgo Dora dietro il Cottolengo e ISI(Informazione Sanità Immigrati), situato in via Bertola all’interno di unastruttura USL.

Nelle cartelle cliniche dell’ambulatorio del Sermig, sorto alla fine del1988, il 90% degli utenti iniziali era costituito da Maghrebini: utenza total-mente maschile, in un secondo tempo anche femminile e pediatrica, a se-guito dei ricongiungimenti famigliari.13 Il numero delle visite pediatriche ef-290

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fettuate fra il 1989 ed il 1995 nell’ambulatorio per il 43,7% concernevanobambini provenienti dall’area maghrebina, le cui patologie riguardavanoper lo più malattie delle vie respiratorie (il 60%), malattie cutanee, gastroen-teriche ed ortopediche.

Negli ambulatori gestiti dal volontariato si registrano elevate incidenzedi alcolismo: ragazzi giunti a Torino in piena salute, forti e pieni di vita, so-no ridotti quasi peggio dei vecchi barboni torinesi perché non riescono a re-golarsi con l’alcool. Fra gli immigrati maghrebini, le patologie psichiche dadisagio sono conseguenti al brusco passaggio fra la vita condotta in patria(specie per chi proviene dalle zone montane) e la situazione «ultraprecaria»in cui molti si vengono a trovare a Torino.

Per quanto riguarda l’utilizzo dei servizi ospedalieri, la collaborazionedegli operatori sanitari con i mediatori culturali dovrebbe facilitare l’utiliz-zo corretto delle strutture, che esclude di accedere a richieste incompatibilicon la nostra cultura e norma giuridica (infibulazione ecc.). Un rischio di-verso è dato dall’utilizzo delle strutture sanitarie in base a comportamentiopportunistici: d’inverno, quando i bambini nomadi sono malati, le famiglievorrebbero lasciarli in ospedale tutto l’inverno e venirseli a riprendere in pri-mavera. Ma in generale, come s’è detto, l’accesso all’ospedale è governatoda esigenze di assoluta necessità.

Servizi e territorio

Per quanto riguarda i servizi sociali di territorio, a cui le famiglie regola-ri hanno titolo di fare riferimento ed utilizzo, si osserva come bambini stra-nieri fino ai sei anni sono ancora scarsamente presenti, in servizi quali asilinido e scuole materne. Anche se le loro famiglie avrebbero convenienza a ri-corrervi, preferiscono tenerli in casa, e mostrano una certa resistenza ad uti-lizzare servizi che non rientrano nei loro modelli tradizionali di riproduzio-ne sociale. E ciò nonostante una condizione di isolamento e assenza di le-gami sociali, che accresce a Torino la difficoltà di integrarsi soprattutto perle donne e le bambine: le bambine straniere è sempre difficile capire dove so-no e cosa fanno. Nelle comunità locali di provincia l’integrazione dei bam-bini stranieri è in apparenza più agevole, ma solo per i residenti, mentre ibambini stranieri che non sono residenti anagrafici restano ai margini deiprocessi di inclusione.

Fino all’ingresso nella scuola dell’obbligo, la condizione del bambino se-duto su due sedie, con la sofferenza psichica che potrebbe associarsi alla du-plicità/ambivalenza culturale, non viene esplicitamente avvertita. Tuttaviail conflitto dei modelli culturali è latente, e con l’ingresso a scuola tende amanifestarsi. Ad esempio, molti bambini, che hanno entrambi i genitori, sisentono fortunati rispetto ad altri ragazzi, che sanno in stato di abbandono,o sentono oppressi dalla grande responsabilità di mantenere la famiglia nelpaese di origine. Si sentono fieri di un padre che ce l’ha fatta, con un lavorosicuro ed una casa dignitosa. Hanno vicini di casa e genitori di compagni discuola, che portano alla loro famiglia vestiti e alimenti gratuiti. Crescono inun ambiente del «tutto a disposizione». Ma talvolta «se lo prendono», conpiccoli furti e prepotenze. 291

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Informare la famiglia dei piccoli furti commessi ai danni di altri bambi-ni richiede attenzione, poiché la tradizione maghrebina usa punire i furticommessi dai figli, riscaldando un cucchiaio sul fuoco e bruciando la mano.Questo comportamento, che oltre ad essere un freno verso il minore, è unmessaggio di autodifesa verso la comunità, in Italia obbliga il giudice a pro-teggere il figlio e punire i genitori per maltrattamento. Le violenze dei geni-tori verso i piccoli immigrati si scontrano con il problema di spiegare ai geni-tori dove comincia la sofferenza, secondo gli standard dei diritti che il giudi-ce è tenuto a fare rispettare. Talvolta la giustizia non interviene, nell’interes-se stesso del bambino, anche quando le risposte degli adulti sono giudicate,secondo i nostri standard, poco accettabili. Un allontanamento imposto sa-rebbe infatti considerato dagli adulti, e indirettamente dai figli, come un se-gno di definitivo fallimento nell’integrazione al nuovo ambiente sociale.

L’inserimento scolastico

L’accoglienza dei bambini stranieri nella scuola presenta alcune diffi-coltà generalizzate di inserimento. Per quanto concerne la necessaria cono-scenza dell’italiano, i dati raccolti dal Cidiss indicano che l’11,5% dei bam-bini iscritti alla scuola materna a Torino e provincia non conoscono l’italia-no in misura sufficiente, contro un 60% circa che ne ha una conoscenzabuona-ottima. I tassi più alti di conoscenza insufficiente si hanno fra i bam-bini cinesi, albanesi, maghrebini e sudamericani; la conoscenza è più eleva-ta fra gli iscritti alla materna privata e comunale, rispetto alla materna sta-tale. Il 60 % dei bambini che non conoscono l’italiano sono nati all’estero, il61% di chi ha una buona conoscenza è nato in Italia(la quota sale all’82%per chi ha una ottima conoscenza dell’italiano).

All’ingresso in un sistema scolastico culturalmente distante, si associanofenomeni di dispersione e di esclusione, quali l’irregolarità di frequenza e laselezione esplicita (bocciature, ripetenze, più rilevanti nella scuola media ri-spetto all’elementare). Un caso particolare è dato dai ragazzi nomadi, ai qua-li l’inprinting culturale della famiglia trasmette un certo disprezzo dei gagé(gli italiani), nonché il rifiuto di ogni struttura di contenimento, con un con-seguente difficile rapporto con gli orari e le regole istituzionali della scuola.

L’ingresso nella scuola elementare segna un momento critico per diver-se ragioni. Bisogna distinguere, se il bambino straniero entra a scuola aven-do già compiuto un primo percorso di socializzazione entro la cultura ita-liana, oppure si vi approda dopo essere giunto in Italia grazie al ricongiun-gimento famigliare. Questa seconda variante contiene rischi, innanzi tutto,di ritardo: quando arrivano in Italia per ricongiungimento, perdono un an-no nell’inserimento, che non avviene prima dei sette anni. Una crisi dell’im-magine paterna: arrivano pensando ad un padre ricco, mentre lo trovano, inconfronto agli italiani, più povero di quanto non fosse nel paese d’origine inconfronto ai suoi connazionali. Vedono un padre degradato. La ridotta pos-sibilità di disporre degli oggetti di consumo tipici della cultura locale aggra-va la percezione di inadeguatezza dei genitori. Una componente importan-te delle difficoltà di integrazione sociale è la precarietà dell’abitazione(vivo-no in case di cui ci si vergogna, dove non possono portare amici).292

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Con l’ingresso nella scuola, la tensione fra le due culture (famigliare escolastica) si fa più intensa. Se il problema della comunicazione fra le dueculture non viene tematizzato dalla struttura scolastica accogliente, i costipsichici della mancata comunicazione diventano sofferenze sommerse delbambino. Ma vi sono anche costi espliciti, quando i figli, che hanno interio-rizzato per via scolastica e ambientale i valori della cultura italiana, comin-ciano a porre in discussione la cultura dei loro genitori. È noto, del resto, chela seconda generazione14 si trova maggiormente esposta ad una situazione divulnerabilità sociale e psichica, in quanto vive la tensione fra il modello cul-turale della propria famiglia e quello del paese di accoglienza. Il disagio vis-suto dai figli degli immigrati, e seppure in modo meno intenso dai figli dicoppie miste, dipende dal dover costruire una identità, oscillando tra i rife-rimenti che la famiglia trasmette e quelli offerti dalla nuova società. Con lafrequenza alla scuola dell’obbligo, la distanza dai genitori si fa più netta, e ifigli si ritrovano talvolta a svolgere il ruolo di «mediatori» tra la loro stessa fa-miglia e la scuola. La necessità di ridefinire un equilibrio culturale nella fa-miglia di origine si aggiunge allora alle difficoltà intrinseca della socializza-zione e dell’apprendimento scolastico.

8.4. Tipi di risposte

Forme di affidamento

Affidamento giudiziario e tutele civiliCon l’affidamento, la giustizia minorile consegna il minore straniero al-

la responsabilità di una comunità o di una famiglia. L’affidamento di bam-bini con età superiore ai 10 anni ad una famiglia residente della loro stessaetnia, aiuta i non accompagnati che seguono programmi di inserimento so-ciale e lavorativo.Si stima comunque che l’affidamento in alternativa al rim-patrio non coinvolga più del 10% dei minori oggetto di provvedimento. Lacosiddetta tutela civile comporta una responsabilità meno intensa: personeo associazioni sono incaricate dal giudice tutelare o dalla amministrazionecomunale di seguire degli adolescenti ultraquindicenni. Finora a Torino nonha dato grandi risultati.

Affidamento a poca distanza.L’adozione è praticata in qualche limitato caso di abbandono o di mal-

trattamento, la legge araba vieta di affidare un minore a famiglie non mu-sulmane. Si è visto, peraltro, come il tradizionale affidamento alla rete so-ciale allargata abbia assunto nel circuito migratorio una funzione di scam-bio economico fra la famiglia d’origine e i reclutatori di mano d’opera, daimpiegare nel lavoro commerciale ed eventualmente criminale.

Una modalità alternativa di intervento è stata definita dalla AssociazioneDiafa(Ospitalità) come «affidamento a poca distanza». Diafa si occupa diminori marocchini(dispone di una comunità di accoglienza a Romano 293

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Canavese) e interviene presso i minori «vaganti», di cui riceve segnalazio-ne(perlopiù da italiani che notano la presenza di questi ragazzi). Li contat-ta, li informa sulle risorse dei servizi (sanità, assistenza, Ufficio stranieri).Cerca notizie sui parenti e si adopera se il minore vuole tornare. Se vuole re-stare in Italia, lo affida ad una famiglia maghrebina disponibile(una dozzinaoffrono questo servizio alla associazione). L’intervento a poca distanza haraggiunto finora 200 casi di minori stranieri in varie aree del Piemonte (dicui oltre il 50% a Torino), tra 8 e 14 anni (Tabella 8.5)

Tabella 8.5. – Casi di ragazzi marocchini raggiunti dall’«affidamento a poca distanza»

Fonte:Istituto Hassan, 2001

Recupero da traumi e violenze.Un progetto(sempre di Diafa), verso minori che hanno subito traumi e

violenze, ha elaborato l’uso dell’espressione artistica a scopo terapeutico,con la collaborazioni di artisti (presentato nell’ambito della manifestazioneBig). Tra i bambini oggetto di violenza è particolarmente duro il caso dei«piccoli assaggiatori di droga» : bambini fra i 9 ed i 12 anni, che vengono co-stretti a testare la purezza delle sostanze, diventando rapidamente tossico-dipendenti. Occuparsi del loro rimpatrio, o dell’affidamento a famiglie,comporta anche qualche pericolo per coloro che ne occupano.

La rete dei servizi

I servizi sociali territoriali A Torino i servizi sono attrezzati ad accogliere chi si presenta loro, ma

non vanno a cercare in giro i minori stranieri, che hanno bisogno di una ri-sposta alle loro grida (anche mute) di aiuto. Si tratta di prevedere progettidi tutela e assistenza adeguata per chi non può contare su reti sociali di ri-ferimento, e soprattutto di proporre figure di adulti sani verso cui i ragazziallo sbando possono trovare elementi di fiducia. Il principio della solida-rietà intenzionale riguarda anche il rapporto fra generazioni all’internodell’immigrazione: l’immigrato che ha fatto grandi sacrifici per far venire isuoi genitori non può essere lasciato ad assisterli da solo, con il rischio diperdere occasioni già precarie di lavoro e di reddito. Ma neppure può affi-294

Città Femmine Maschi Totale

Torino 11 103 114

Ivrea 3 20 23

Vercelli 7 15 22

Carmagnola 2 17 19

Alessandria 5 10 15

Pinerolo 1 7 8

Settimo 0 3 3

Totale 29 175 204

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darli esclusivamente ai servizi socio-assistenziali, perché ciò sarebbe consi-derato dalle comunità come violazione di un dovere familiare assoluto.

Educativa di stradaLa condizione di bambini e ragazzi precocemente resi adulti dal lavoro

irregolare e dalla clandestinità, e il tentativo di contrasto all’abbandonoeducativo e famigliare, hanno aperto la via a interventi sociali – detti «distrada» – i cui operatori sono chiamati ad entrare in contatto con minori «in-termittenti». Devono guadagnarsene la fiducia, e dispongono di una sorta di«salvacondotto», che li porta a non essere identificati con figure di polizia. Illoro compito, nei confronti dei ragazzi stranieri, non è diverso da quello cheviene assegnato alla attività educativa territoriale per tutti i ragazzi e gli ado-lescenti «a rischio» della città. Ma, si osserva, l’educativa territoriale è anco-ra troppo formale, dipendente dai servizi, troppo poco di strada. L’attivitàeducativa di strada è sostanzialmente una attività di educazione alla lega-lità. (A Torino c’erano quattro vigili urbani che si occupavano dei bambini distrada…).

Il coordinamento degli interventiTorino dispone, nei confronti delle «grandi politiche» verso i minori stra-

nieri, di una rete di intese e collaborazioni, che stringe istituzioni pubbliche,autorità giudiziaria, aziende sanitarie, scuole, e si allarga ad abbracciare di-verse forme di associazionismo e volontariato. Torino ha molte attività e in-terventi, ma bisognerebbe ridefinire meglio i compiti fra uffici e associazio-ni… Allargare la gamma delle associazioni che fruiscono degli aiuti offertidalle istituzioni locali attraverso i vari bandi.15 Una certa tendenza allo spe-cialismo negli interventi e la separatezza nell’approccio ai problemi, se daun lato consentono di sviluppare in modo controllato tutta una serie di at-tività significative, di per sè non bastano ad incidere nei confronti della cul-tura sociale diffusa.

Interventi educativi ed interculturali

Le dimensioni di una azione educativa «mirata» ai soggetti straniericomportano:

❖ una azione informativa sulle leggi italiane, coniugata ai valori e alletradizioni dei paesi di origine dell’immigrazione;

❖ una pedagogia della convivenza civile, che aiuti a rispettare le regoledella società ospitante;

❖ un ricupero della memoria e della storia, all’interno di ogni comunitàimmigrata;

❖ iniziative nelle scuole per avvicinare i bambini stranieri e gli italiani ecoinvolgere soprattutto le mamme dei minori stranieri (più sensibilirispetto ai padri)

Fra le nuove figure, di cui appare sollecitata la formazione e l’attività, ilmediatore culturale ha il compito di favorire l’accesso ai servizi sanitari e so-ciali di territorio; facilitare la soluzione dei conflitti educativi e culturali nel- 295

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le scuole; gestire i microconflitti a base territoriale. Un ruolo più ricco attri-buito al mediatore culturale potrebbe farne una figura di cerniera fra le isti-tuzioni e il campo dei bisogni. Dovrebbe seguire il ciclo di vita dei bambini estare vicino ai minori che vengono rimpatriati, perché anche l’impatto «diritorno» può avere effetti distruttivi.

Quanto all’impatto educativo esercitato dalla scuola e dalle altre istitu-zioni culturali della città, non è sufficiente formare i figli alla cultura e all’in-tercultura, ma dovrebbero convincere i padri a cambiare. Si tratta di un’im-presa tutt’altro che facile, quando la resistenza deriva non soltanto dalla di-stanza dei rispettivi modelli culturali, ma anche dalla struttura interna digruppi etnici fortemente autocentrati e legati da rigidi vincoli di lavoro e ob-bligazioni debitorie. In altri casi, vi è interesse a mantenere tratti di culturatradizionale, che danno argomenti per rapporti di dominio e diseguaglian-za: è la situazione di uomini immigrati, che proiettano su donne e bambinidella loro famiglia, attraverso le rigidità di una tradizione sacralizzata, anchele frustrazioni della mobilità sociale delusa e della mancata affermazionepersonale.

Se il maggior impatto culturale che può conseguire all’immigrazione ènella voglia di libertà e di futuro, per le donne ciò significa contare di più co-me persone indipendenti. Per i bambini di culture diverse, la formazione tra0 a 3 anni è l’investimento più promettente per il futuro.16

Note

1. Si rimanda ai dati riportati al capitolo 1.2.2 I bambini stranieri e le tendenze demo-grafiche.

2. Il materiale di questo cap. è stato tratto dalle seguenti fonti:Dossier ImmigrazioneCaritas,2001; I minori stranieri in Piemonte,Ires;Osservatorio sul mondogiovanile,Assessorato alla Gioventù del Comune di Torino,1999;Osservatorio sui mi-nori,Istituto Hassan II,2001; CIDISS, Allievi stranieri a scuola con noi anno 2000, acura di Riccardo Barbero;I minori stranieri non accompagnati, ConferenzaInternazionale sui minori,Marocco,luglio 2001. Ulteriori elementi sono stati ricavatidalle interviste a: L.Marzin(Comune di Torino), G.Calcagno(già procuratore presso ilTribunale per i minorenni di Torino), F.Olivero(ufficio pastorale per i migranti dellaDiocesi di Torino), nell’ambito delle interviste commentate al capitolo 9.Le parole in corsivo sono tratte dai protocolli delle interviste.

3. L’incidenza delle nascite è indicativa del diverso grado di inserimento della popola-zione immigrata, nel confronto fra regioni ed anche all’interno della stessa regione.Ad esempio, nel Trentino Alto Adige (media regionale 1,9%) la provincia di Bolzano,dove lavorano numerosi lavoratori e lavoratrici stagionali senza famiglia, è all’1,3%,contro il 2,6% della provincia autonoma di Trento, dove la popolazione straniera èmaggiormente integrata per lavoro, abitazione e completezza della composizione fa-migliare.

4. Le previsioni derivano dalle rilevazioni compiute presso tutte le istituzioni scolasti-che con il sistema informatizzato, dalle ricognizioni relative alla chiusura dell’annoscolastico 2001 e dai coefficienti di incremento definiti dall’osservatorio del CIDISS.(V. Rapporto CIDISS citato,in http///t02000.it/provvto/files/cidiss.htm). Le previsioniincludono anche gli adulti, che frequentano i centri territoriali di educazione per gliadulti.

5. Il Comitato per i minori stranieri è competente a occuparsi di tutti i minori non ac-compagnati (ai fini del rimpatrio o della permanenza in Italia). Reso operativo con de-

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creto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 9 dicembre 1999, in applicazionedell’art.35 del Testo unico sull’immigrazione.

6. Si segnala qui un uso «innovativo» e «perverso» del tradizionale istituto arabo dallaqaffalah. In esso la famiglia di origine collocava un figlio presso una famiglia della re-te parentale per svolgere lavoro domestico, ricevendo nel contempo mantenimentoed educazione, prima di fare ritorno alla famiglia d’origine. Nel contesto migratorio,il figlio viene praticamente «ceduto» a compatrioti che ne acquistano la prestazioniin cambio di denaro versato ai genitori. Somma che il minore si impegnerà a resti-tuire con il suo lavoro nel paese di immigrazione…

7. La definizione di minore non accompagnato non coincide con quella di «minore instato di abbandono». Il regolamento del Comitato italiano per i minori stranieri sta-bilisce(riprendendo sostanzialmente la risoluzione del consiglio dell’Unione Europeadel 26.6.97) che per minore straniero non accompagnato si intende «il minorennenon avente cittadinanza italiana o di altri stati dell’Unione europea, che, non aven-do presentato domanda di asilo, si trova per qualsiasi causa nel territorio dello Statoprivo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui le-galmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano».

8. Una ricerca del Censis del 1999 afferma che il minore immigrato ha 72 probabilitàin più del minore italiano di entrare in prigione. La maggior parte dei minori denun-ciati proviene dall’area della Iugoslavia (per lo più rom), dall’Albania e, in misura mi-nore, dal Marocco. Il reato, unitamente alla mancanza della famiglia che funga dasupporto per la concessione di misure alternative alla detenzione, spiega il numeroabbastanza elevato di minori non accompagnati presenti nelle carceri italiane.

9. Nella scansione tradizionale delle età, per i marocchini il passaggio all’età adulta sipone intorno ai 14 anni,quando i padri cominciano sostanzialmente ad interessarsidel destino dei loro figli. La maggiore età legale adesso è per i maschi a 16 anni(da18)e per le femmine a 18(prima era a 21).

10. Questa tipologia è ricavata da materiali di studio congiunto fra Comune di Torino eTribunale dei Minorenni sui problemi dei non accompagnati.

11. La mortalità dei bambini stranieri nel primo anno di vita può risultare quasi doppiarispetto ai nati da famiglie italiane, come indica una ricerca epidemiologica nella re-gione Lazio, che ha comparato i tassi di mortalità neonatale e perinatale fra diversigruppi di donne immigrate. Nel periodo 1982-1995 il tasso di mortalità per 1.000 na-ti vivi è stato pari a 21,9 per mille per i figli delle immigrate dell’Africa centrale, 20,8per i neonati di madre nomade 19,7 per il Nord africa e Medio Oriente, 8,3 per i re-sidenti italiani.

12. Dati ricavati dalla tesi di laurea Aspetti dell’immigrazione maghrebina a Torino, diDaniela Cardaci, discussa nell’aa.2000-1 presso la Facoltà di Scienze Politichedell’Università di Torino.

13. Il centro è dotato di un ambulatorio in funzione per cinque giorni la settimana e conorari serali; svolge il servizio infermieristico e terapeutico.Non ha contatti con strut-ture pubbliche, mentre intrattiene rapporti con l’ospedale Cottolengo ed altri servizidi volontariato.

14. Per la definizione datane dal Consiglio d’Europa, la seconda generazione sono «i fi-gli di immigrati nel paese d’accoglimento, quelli che hanno seguito o raggiunto i ge-nitori, e i figli di coppie miste».

15. La «cultura dei bandi» viene criticata quando sposta l’impegno delle associazioni so-prattutto sulla fase progettuale rispetto alla fase operativa: «si tratta di premiare anchechi segue i bambini e non solo i progetti».

16. «Il soddisfacimento di bisogni immediati di tipo assistenziale ha coinvolto una parteminoritaria dei ragazzini immigrati. Adesso è il momento dell’investimento sui pro-cessi di inserimento sociale e culturale».Cosi’Marinella Belluati, autrice di un recen-te studio Vivere tra due culture.Percorsi di integrazione dei minori stranieri a Torino,suppl. al n.1 di «Informa Giovani», I° semestre 2002.

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ANALISI E COMMENTI DEGLI OPERATORI

9.1 Premessa

Dal 5 febbraio al 5 marzo 2002 sono state condotte 22 interviste, con per-sone dell’area torinese che hanno a che fare, a vario titolo: professionale,scientifico e politico-organizzativo, con i problemi dei bambini. L’obiettivodi questa serie di interviste è stato di delineare i criteri di possibili interven-ti, relativi a ciò che manca e a ciò che servirebbe, per migliorare la condizio-ne dei bambini in questa area. Premessa alla definizione degli interventi èstata una rappresentazione dei problemi dei bambini di cui il singolo inter-vistato si occupa, e di quelli che rileva presenti o emergenti nel contesto.(Scheda A)

Nel seguito del capitolo, si dà conto in modo ragionato dei principali ele-menti emersi dalle interviste.1 Il testo intende aderire con la massima obiet-tività a quanto è stato presentato dagli esperti, sia separatamente, sia come«gruppo virtuale» che si trova a dialogare, a distanza, su problemi ricorren-ti. Si ripercorre il territorio dell’opinione complessiva del gruppo di compe-tenti, ponendo attenzione soprattutto sugli elementi in cui il consenso del-l’opinione è apparso evidente, non però senza rimarcare polarizzazioni neigiudizi che esprimono posizioni differenti. Le frasi riportate in corsivo,estratte dai protocolli delle interviste, arricchiscono il quadro delle rappre-sentazioni e delle proposte.

Scheda A – Traccia per le interviste

• Quale definizione di «bambino».

• Problemi dei bambini di cui si occupa.

• Problemi presenti nella società locale:Gravi e allarmanti.Di salute fisica e psichica.Di educazione e istruzione.

• Problemi specifici nel territorio.

• Quali interventi per la famiglia.

• Quali interventi per i servizi:I servizi da potenziare.I servizi da introdurre.

• Quali interventi per gli operatori.

• Priorità:Le urgenze.I programmi significativi di medio periodo.

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9. 2 La condizione dei bambini

I confini

La prima considerazione emergente dalle interviste riguarda i confini,biografici e cronologici, della condizione dei bambini. Chi sono i bambini,fino a quando si è bambini? I confini e le scansioni risultano diversamentearticolati, a seconda delle competenze disciplinari e dei riferimenti profes-sionali ed operativi degli intervistati.

Un accenno preliminare va fatto alle distinzioni che derivano dal discor-so legale e si riferiscono alla condizione giuridica dei minori (minorenni): fi-no a 13 anni i minori non possono essere sentiti nei processi civili. La sogliadei 14 anni consente di richiedere il loro assenso nelle cause civili, e intro-duce alla imputabilità penale. I 15 anni sono la barriera giuridica per l’in-gresso regolare nel mercato del lavoro. La distinzione-relazione fra minori,bambini, adolescenti appare un problema rilevante per quanto riguarda so-prattutto i minori stranieri non accompagnati, e le relative politiche di con-trollo.

Lasciando da parte le condizioni più peculiari, che «stirano» i bordi del-le distinzioni consuete, nelle interviste ricorrono due modalità tipiche discansione del ciclo della vita. a) Scansioni riferite allo sviluppo psicofisico dell’individuo:

❖ Il medico riporta la seguente suddivisione come universalmenteadottata: • Neonati: 0 - 1 mese• Lattanti: 1 - 12 mesi• Prima infanzia: 1 - 4 anni• Seconda infanzia: 4 - 8 anni• Terza infanzia: 8 - 14 anni• Adolescenti: 14 - 16 anni

❖ Il neonatologo aggiunge, integrando, che il bambino comincia novemesi prima della nascita.

❖ Per lo psicologo, le fasi di evoluzione e di crescita del bambino, vistesecondo il nesso pensiero-emozioni, portano alla scansione seguen-te: 0 - 3 anni; 3 - 6 anni; 6 - 10/11 anni. La fase che comincia verso i13 anni con lo sviluppo della capacità d’astrazione, è la fase del «pen-sar pensieri», ossia l’ingresso nell’intelligenza adulta.

❖ La pedagogista sottolinea come i ritmi dello sviluppo cognitivo ed af-fettivo sono accelerati dalla parte delle ragazze.

Queste diverse scansioni riconoscono come una fascia 0-5 anni sia fintroppo lunga. Vi è necessità di separare, nell’infanzia, la fase 0-3 dalla suc-cessiva 3-5, e viene sottolineata la crucialità della primissima fase: impor-tantissimo è il periodo 0 - 3 anni. Il bambino deve trascorrerlo a stretto con-tatto con la madre, la quale dovrebbe essere posta in una situazione idillica,non dovrebbe occuparsi d’altro, ma esclusivamente della crescita del figlio. Inquesta fase, occorre aiutare le mamme ad occuparsi dei loro figli con tutta 299

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l’intensità necessaria, e fare lavorare bene i professionisti (pediatri ecc.) chehanno a che fare con loro e con i bambini.

C’è chi sottolinea la crucialità in chiave preventiva del primissimo annodi vita, se non addirittura dei primi 6-7 mesi; ciò, soprattutto quando il bam-bino viene a trovarsi in situazioni estreme, che richiedono l’allontanamen-to dalla famiglia originaria: in una fase di vita dove le cure parentali sono de-cisive, una istituzionalizzazione anche breve(inclusa la comunità) presentadei rischi, che andrebbero evitati e contenuti. In generale, occorre sostene-re il bambino fin dai primi giorni di vita, di fronte a pericoli seri per la suaintegrità fisica e psichica, ed è sempre presente il rischio di intervenire trop-po tardi o con troppa lentezza nel decidere l’intervento.

La fase tra i sei ed i dieci-undici anni («la fanciullezza») avvia ad una fa-se autonoma, compresa fra gli undici ed i tredici-quattordici anni, che ten-de ormai a separarsi dall’infanzia vera e propria, e a definirsi come preado-lescenza. I cambiamenti sociali e culturali rendono oggi particolarmentecritica tale fase, in quanto essa viene considerata come il momento conclu-sivo della condizione infantile, senza per altro coincidere con l’ingresso nel-la adolescenza vera e propria, che prepara il passaggio verso un’età più adul-ta. In tal modo, è stato notato, «la durata dell’infanzia si appiattisce, e i bam-bini sono costretti ad entrare troppo presto, intorno agli undici-dodici anni,in una preadolescenza difficile e turbolenta» (citazione da Giovanni Bollea).A sua volta l’adolescenza segnala l’impatto di fattori socioculturali che van-no oltre alle dinamiche dello sviluppo psicofisico, in quanto corrisponde alrito di passaggio definitivo dall’età infantile all’età adulta.

b) Una diversa modalità di scansione utilizza i cicli della istruzione forma-le. L’uso della sequenza scolastica per articolare la condizione infantile èricorrente fra gli operatori dei servizi, gli insegnanti e le associazioni digenitori. La scansione distingue: ❖ l’educazione famigliare e dell’asilo nido (fino a tre anni)❖ l’educazione pre-scolare, o della scuola materna (tre-cinque)❖ la scuola elementare (sei-undici anni, suddivisa in un primo ciclo,

sei-sette e un secondo ciclo, otto-undici) ❖ la scuola media (undici-quattordici anni).

La scansione scolastica regola sia le attività della istruzione formale, siala tipologia dei progetti di educazione extrascolastica, compensativa e terri-toriale. È chiara la distinzione di una fascia 0-3 anni, per quanto riguarda iservizi residenziali ed i progetti relativi agli asili nido, tradizionali e innova-tivi, avviati dalla legge 285. Fino ai 5 anni non possono essere offerti che spa-zi ludici e centri di aggregazione spontanea. I 6 anni segnano la prima realediscontinuità, con l’ingresso nelle attività di apprendimento scolastico for-malizzato. Circa le proposte di anticipazione dell’ingresso nella scuola for-male ad una età inferiore ai 6 anni, si registra negli intervistati contrarietà, ol’esigenza di un ingresso flessibile adattato allo sviluppo del bambino.

I 10 anni sono, nell’educativa territoriale a Torino, la soglia minima diaccesso al servizio. L’attuazione della L. 285/97 ha portato a distinguere me-glio fra «infanzia» e «adolescenza» come bersagli di progetti educativi sepa-300

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rati: si segnala, nei progetti e nei servizi della 285, una minore attenzione ominore capacità di intercettare i problemi della fascia adolescenziale. Il pas-saggio dalla preadolescenza alla adolescenza «piena», visto nella prospetti-va della scansione scolastica, può comportare una delocalizzazione di sede,il cambiamento radicale delle abitudini quotidiane (orari, trasporti, ritmi divita), l’ingresso in problemi personali e prestazionali nuovi, di diverso segnoe spessore rispetto alla scuola dell’obbligo.

Questioni emergenti

❖ L’età media al primo parto, si attesta ormai ai 32/35 anni, con un au-mento di dieci anni rispetto al passato. Questo ritardo include anchecalcoli riproduttivi razionali e ricorsi alla IVG, aumenta alcuni rischi,e comprime la possibilità di avere un elevato numero di figli. Se latendenza al calo della natalità pare indicare un minore investimentonel futuro da parte della società adulta, ultimamente si registrano al-cuni segni di arresto, che non possono tuttavia far parlare di una in-versione di tendenza.

❖ Il lavoro esterno della donna è un cambiamento di portata storica,che si riflette nell’impegno all’accudimento e all’educazione dei figli.Donne che svolgono più mestieri contemporaneamente hanno me-no tempo disponibile per i figli. Ma più che la quantità di tempo, èl’intensità dell’impegno, la qualità del tempo trascorso insieme ciò checonta… Alla lunga la madre che lavora alleva meglio i figli: sicura-mente più stressata, ma più aperta alla realtà del mondo attuale. Ladisponibilità di tempo libero da parte dei genitori, e soprattutto i mo-di della sua gestione nei confronti dei figli, sono una variabile signifi-cativa delle relazioni famigliari e del processo educativo.

❖ Le famiglie separate, ricostituite, miste, pongono, a sé e ai figli, pro-blemi in parte nuovi, su cui manca ancora una riflessione adeguata:la presenza-assenza e la rilevanza delle figure adulte di riferimento,specie paterne; l’interferenza fra modelli culturali ed educativi com-presenti nel nucleo famigliare, e nei rapporti con le istituzioni socia-li esterne(scuola, comunità locale).

❖ Una relazione non biunivoca collega il ciclo dello sviluppo dell’indi-viduo e la scansione scolastica, e lascia scoperte delle esigenze che sievidenziano soprattutto nei momenti di passaggio e di transizione. Ilpassaggio da un grado all’altro della scuola va accompagnato in for-me adeguate, che evitino discontinuità eccessive: avere la preoccupa-zione pedagogica di non scandire troppo, tenere aperti e flessibili i pas-saggi. Oggi è inoltre più arduo avere quella compresenza fra le diver-se età infantili, che un tempo era favorita dalla presenza di più fratel-li nella stessa famiglia, o dalle pluriclassi della scuola elementare pre-senti nelle zone marginali del territorio.

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9.3 I bambini disabili

Le tipologie dell’handicap

L’area problematica dell’handicap infantile si sta allargando, sotto l’a-zione congiunta di diversi fattori:

❖ l’incremento della sensibilità sociale al fenomeno (ce ne accorgiamodi più);

❖ la maggiore sopravvivenza alla nascita (la scienza ha fatto passi gran-dissimi per fare sopravvivere bambini disabili alla nascita);

❖ l’alleggerimento degli handicap alla nascita, attraverso la diagnosiprenatale e una assidua assistenza ostetrica e neonatologica;

❖ la maggiore sopravvivenza nel corso della vita, con l’allungamentocostante dell’età media delle persone down fino ai 60-70 anni, e laconseguente diversità fra generazioni di disabili(non più soltantobambini disabili vs. «altri bambini», ma «disabili bambini» vs. disabi-li «di altre età»);

❖ i fattori traumatici sopravvenuti nel corso della vita (il caso del bam-bino con lesioni craniche prodotte dal trattore che l’ha schiacciato);

❖ malattie degenerative che hanno inizi precoci (es. distrofia, alzhei-mer in età giovanile)

Non è agevole scomporre l’effetto cumulativo e l’impatto dei diversi fat-tori. Una conclusione è che, con handicap, si nasce, si cresce, si diventa.

L’handicap e la famiglia.

Il verificarsi dell’handicap come «ospite imprevisto» può produrre im-patti squilibranti sulla compagine famigliare. Alla nascita, l’impatto si river-sa sulla famiglia con esiti talvolta distruttivi:

❖ rifiuto da parte dei genitori, con invio quasi immediato del neonatoin una struttura di accoglienza;

❖ rottura della coppia: la madre assume un ruolo diverso da quello dimoglie, il padre abbandona.

L’adattamento delle famiglie all’handicap alla nascita, e la loro capacitàdi gestione, appare più elevata quando si tratta di famiglie giovani, più infor-mate, che conoscono le risorse pubbliche e private a cui rivolgersi. In ognicaso, per i bambini piccoli con grave handicap mancano presidi adeguati: inospedale possono stare solo per un breve periodo; tornati a casa in famiglia,questa ha bisogno di aiuto. Le normali difficoltà di gestione del primo pe-riodo di vita risultano talvolta così esasperate, al punto da trovare genitoriche ritornano in ospedale per «riconsegnare» il bambino.

Nel prosieguo della vita, la situazione di handicap mette a prova l’unitàdelle coppia, la tenuta della rete famigliare allargata(ruolo supportivo deinonni ecc.) e l’impegno assiduo nella cura. È un dato di esperienza che le fa-302

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miglie con bambini disabili hanno una maggior attenzione di accudimentoverso questi bambini. Eventuali fratelli non disabili sono esposti alla «tenta-zione» di ritenere che i loro genitori(la madre in particolare) «eccedano» inattenzioni verso il bambino disabile, riservando loro di conseguenza mino-re attenzione.

Se ne conclude che l’intervento appropriato varia a seconda del tipo dihandicap e del tipo di famiglia. Se il bambino «nasce» disabile, è necessariosostenere la famiglia, se il bambino «diventa» disabile, oltre a sostenere la fa-miglia, occorre aiutare il bambino ad accettare la sua nuova condizione.Sempre, la famiglia che si trova con un bambino disabile è chiamata a ripro-gettare la sua vita.

I servizi di territorio

I servizi formali – sanitari e socio-assistenziali – disponibili sul territoriosono limitati per quantità, e talvolta per attenzione, verso il problema costi-tuito dal bambino disabile.

❖ Il pediatra di base va considerato fra i primi canali di informazione ecomunicazione verso la famiglia e verso la rete dei servizi; ma la suaattività verso le problematiche specifiche dell’handicap è ritenutapoco incisiva.

❖ In servizi specialistici, come la logopedia e la psicomotricità, nonsempre avviene che il «caso» sia gestito per la durata e con l’intensitàoccorrenti. I cicli di sedute hanno effetti di riduzione delle sintoma-tologie, ma non esiti risolutivi rispetto a patologie non sempre benanalizzate.

❖ Un servizio importante sono gli interventi di recupero del sordomu-tismo, attraverso scuole speciali che adottano tecniche calibrate sul-lo sviluppo psichico e del linguaggio. Una esperienza della scuolaLorenzo il Magnifico di Torino mostra che il linguaggio dei segni puòessere insegnato anche ai bambini udenti, e fornisce loro una base dicomunicazione «attraverso la differenza».

La connessione fra presidio ospedaliero(come nel caso Regina Mar-gherita)e attività di controllo a domicilio e a distanza, rafforza l’ipotesi che idisabili restino in qualche forma «a carico» della struttura che li ha visti na-scere. Ciò manterrebbe all’ospedale il carattere di un luogo protetto, checontiene l’ansia e rende più gestibile il distacco. In questo senso, il presidioospedaliero andrebbe rafforzato con servizi di orientamento, consulenza eassistenza psicologica.

In generale, tra eccesso di specializzazione di carattere sanitario e clini-co da un lato, ed eccesso di precarietà negli aiuti di affiancamento (educati-va territoriale, insegnanti di appoggio dall’altro), vi è spazio per realizzareiniziative sperimentali, che hanno un effetto dimostrativo circa la possibilitàdi interconnettere meglio tra loro servizi, prestazioni ed operatori.

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La scuola e l’inserimento

A giudizio abbastanza condiviso dagli intervistati, le pratiche di inseri-mento nella scuola funzionano, con successi e con limiti. Nella scuola ma-terna e nella elementare, l’integrazione di bambini disabili è buona, con in-segnanti di supporto abbastanza preparati. Negli ordini di scuola successivi(dalla media inferiore e oltre) molto dipende dall’insegnante di appoggio.L’intervento di sostegno è comunque limitato, per numero di insegnanti (inrapporto ai disabili) e di ore svolte. La funzione di insegnante di sostegnoviene conferita attraverso meccanismi di ripiego (coloro che «perdono il po-sto» negli altri insegnamenti), e la loro competenza è il risultato pratico diuna preparazione acquisita sul campo, senza supporti tecnici specializzatialle spalle. Lavorare con gli insegnanti, per sviluppare competenze scolasti-che verso i disabili, richiede una formazione attenta soprattutto ad accom-pagnare i passaggi (già il passaggio dalle elementari alla media costituisceuna soglia, e più elevata ancora è la soglia del passaggio alla scuola secon-daria). I comportamenti degli altri soggetti presenti nell’ambiente scolasti-co mostrano come, per gli altri bambini, il grado e le forme dell’accettazio-ne variano a seconda dei livelli scolastici. Lo stesso vale per i genitori deglialtri bambini non disabili, che possono manifestare resistenze, esplicite otacite, all’atto di formazione delle classi e nel corso dell’ordinaria praticascolastica.

Una osservazione più generale circa l’inserimento scolastico riguarda laprevalenza degli scopi di socializzazione su quelli di apprendimento. Vi è ilrischio di promuovere una socializzazione anche gratificante, che tuttavianon prepara a reali livelli di integrazione sociale futura. Questo rischio è ne-gativo soprattutto per il disabile adolescente, che dovrebbe imparare qual-cosa per il suo futuro, usando al meglio il tempo dell’apprendimento nellascuola. Occorre al riguardo costruire una didattica con progetti, che riduco-no la componente libresca e astratta, e impiegano strumenti più vicini ai di-sabili(espressione corporea, teatro, ceramica ecc.). Senza che ciò precluda lapossibilità di sviluppare, in modo induttivo ed operativo, anche nozioni teo-riche di carattere logico linguistico matematico, con l’ausilio di tecnologieinformatiche, che oggi sono ancora poco usate nella scuola e a maggior ra-gione per i disabili.

L’ascolto delle famiglie

Gli aiuti richiesti dalle famiglie sono di vari tipi:❖ un sostegno precoce, che intercetti il primo impatto; ❖ aiuti materiali, quali indennità economiche, congedi e permessi sul

lavoro, ausili tecnologici;❖ accesso ai servizi; ❖ sostegno reciproco e aiuto automutuo.

In realtà non esiste una richiesta standard. È una constatazione ricorren-te che, alla famiglia del disabile, quello che viene fornito(da servizi pubblicie associazioni private) non basta mai. D’altra parte, lo «stile rivendicativo»304

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con cui molte domande vengono poste, richiede a sua volta di essere com-preso e interpretato: spesso la richiesta di accesso ai servizi è una occasioneper contestualizzare un problema più generale. La domanda economica (larichiesta più frequente) rinvia a dimensioni non economiche del servizio edell’aiuto, che possono essere non trasparenti agli stessi genitori che avan-zano tale richiesta.

Già offrire alle famiglie ascolto e attenzione richiede impegno non lieve,a cui dovrebbe seguire orientamento e risposta. Al riguardo, è ritenuta im-portante la funzione del gruppo di auto e mutuo aiuto dove le persone coin-volte solidarizzano. Essendo frequente la tendenza delle famiglie a isolarsi etrattenere su di sé il problema, occorrerebbe «obbligarle» a far parte di grup-pi di auto e mutuo aiuto, gestiti da persone competenti e preparate nellaelaborazione delle emozioni.

Si pone a questo riguardo l’offerta delle associazioni, che consentono aigenitori di socializzare i loro problemi attraverso forme di mutuo aiuto e diconsulenza individualizzata. L’esistenza di una pluralità di associazioni, chehanno sedi nell’area torinese e raccordi a livello interregionale e nazionale,ha determinato in passato tratti di concorrenzialità, che oggi sono in via disuperamento. Viene osservato che molte famiglie non si associano, non per-ché ignorino l’esistenza e l’attività delle associazioni, ma perché preferisco-no «trattenere» il problema, e si rifiutano di esporlo. Emerge quindi per leassociazioni il problema di farsi conoscere dalle famiglie, e di essere da que-ste riconosciute come portatrici di sostegni effettivi.

Orientamento e intervento domiciliare

L’esistenza e la dispersione dei servizi esistenti sul territorio produce di-sinformazione e disorientamento nei potenziali utenti. Una via per ovviarealla frammentazione degli interventi e dei servizi esistenti comporta la dif-fusione della informazione pertinente alle famiglie, con servizi di facile ac-cesso e bassa soglia di complessità. Dovrebbe seguire un servizio di orien-tamento, con l’appoggio di consulenti specializzati, che consenta alle fa-miglie di compiere una azione più efficace e produttiva di scelta del caremanagement.

Quanto ai servizi di appoggio a domicilio, risultano esistenti soprattuttoa Torino, ma in quantità insufficiente, pressoché assenti fuori città (con laconseguenza di sovraccaricare le associazioni di compiti di appoggio). Per losgravio del carico assistenziale, e la tregua rispetto a bisogni di care conti-nuativa, la soluzione possibile è quella di persone preparate, che aiutano lamamma nel badare al bambino e alla casa(una «tata famigliare» per il bam-bino disabile).

Rispetto ai problemi assai difficoltosi del primo impatto, si potrebbe spe-rimentare un progetto Ritorno a casa dall’ospedale del bambino disabile, con:

❖ forme di aiuto concreto (economico, assistenziale) alla madre ed allafamiglia;

❖ sostegni aggiuntivi di badanza, che lasciano la madre più libera, emeno contratta in modo esclusivo sulle attività di care; 305

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❖ inserimento di entrambi i genitori in gruppi di autoaiuto, che con-sentono loro di gestire ed assorbire traumi psicologici e relazionaliassociati all’evento.

Un’area critica, per molte famiglie fonte di preoccupazioni e sofferenze,è «non sapere che cosa faranno da grandi i loro bambini disabili». Ne derivaanche un rifiuto di socializzare con le generazioni di disabili più adulti: sipreferisce non guardare i più grandi, quasi a non vedere in loro rispecchiatoun destino che è meglio non prevedere. Ma il problema dell’incertezza con-tinua a riproporsi.

Allargare e socializzare la cultura dell’handicap

L’esposizione della cultura sociale diffusa ai problemi delle disabilità in-fantili è in parte connessa alla visibilità immediata delle situazioni: il bam-bino down porta in faccia la sua patologia. Il che non sempre favorisce unapresa di consapevolezza matura, ma talvolta l’approccio compiacente che siriserva a diversità graziose. La patologia «che non si vede» crea maggioriproblemi di conoscenza e relazione.

Si rilevano anche bisogni di più approfondita conoscenza, circa dimen-sioni, problemi e risposte sui temi dell’handicap infantile. Non si conosco-no ancora con precisione i numeri esatti di certe disabilità(ad esempio ibambini down dell’area torinese).Andrebbero studiati i percorsi longitudi-nali del gruppo famigliare con handicap, per comprendere come il modo difronteggiare l’evento disabilità condiziona, nel tempo, stabilità, impoveri-mento, ricupero della compagine famigliare.

In complesso, la scarsa esposizione alla cultura sociale esterna finisceper circoscrivere i problemi dei bambini disabili entro il gruppo di coloroche ne sono portatori, come se si trattasse di una loro questione del tutto«privata». Ciò non manca di avere conseguenze rilevanti sul piano delle tu-tela e della legislazione. Ad esempio, se optare per scelte di assistenza pro-lungata e garantita, come vorrebbe la proposta di ottenere l’interdizione giu-diziaria del disabile prima della maggiore età. Se, al contrario, favorire l’in-serimento sociale e lavorativo verso l’autonomia possibile. Il processo di in-serimento risulta per il disabile fisico assai meno difficoltoso rispetto al di-sabile psichico, e richiede una progettualità di formazione professionale piùmirata, che andrebbe preparata fin dalle fasi di scolarità obbligatoria.

9.4 La dimensione territoriale

La percezione dei problemi

Fermo restando che ci sono mille situazioni una diversa dall’altra, lamorfologia sociale del territorio piemontese ha una certa incidenza per

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quanto riguarda sia la percezione dei problemi dei bambini, sia la dotazio-ne e la qualità delle risposte.

Il giudizio prevalente è che le situazioni territoriali si stiano avvicinando,se non omogeneizzando. I problemi si livellano, i modelli culturali vengonorimescolati, a partire dalla cultura urbana che «colonizza» e assorbe culturelocali più tradizionaliste. Chi ha avuto successive esperienze professionalicon bambini in aree diverse – come Torino, Asti, Cuneo o il Canavese – con-stata come siano rimaste differenze limitate. Certo, vivere fuori città vuol di-re vivere in una dimensione diversa, ma negli stili di vita ormai ci sono pochedifferenze. In negativo, la droga è diffusa ovunque.

Nel distretto giudiziario Piemonte Valle d’Aosta, ancora fino alla metàdegli anni Ottanta i fenomeni di devianza che interessavano la procura mi-norile presentavano una diversità di tratti, che nel tempo si è andata re-stringendo. Oggi, in termini quantitativi, i casi riguardano per il 30% mino-ri italiani di Torino città, per il 20% minori italiani di fuori Torino, per il 50%minori stranieri.

Nel contempo, emergono alcune variazioni significative, che portano a di-stinguere fra la città, l’area metropolitana ed il resto del territorio regionale.

❖ La città (Torino) presenta situazioni più problematiche, e maggioririchieste di intervento mirato, invio in comunità, allontanamentotemporaneo in contesti protetti (case famiglie, comunità di tipo fa-migliare ecc.) ecc.

❖ La cintura metropolitana amplifica e dilata problemi di marginalità enomadismo. Per i ragazzi che vivono nei comuni della cintura, la mo-bilità in uscita dal borgo comincia a 12 anni, le fermate del bus sonole porte di accesso al nomadismo verso la città. Nel contesto rurale, iproblemi sono per quantità minori; la piccola dimensione socialetende ad assorbirli entro modalità informali di relazione, permango-no, almeno nella situazione extrascolastica, abitudini e frequentazio-ni fra bambini di diverse età, in cui si esprime un tratto di società lo-cale tradizionale. La microsocietà locale tuttavia incoraggia un certo«fai da te», che esprime distanza dai servizi e scarsa propensione a ri-corrervi. La conoscenza personale e diretta fra operatori e famiglie, incontesti di piccole dimensioni, paradossalmente rende più difficileesplicitare i problemi del bambino, renderli «pubblici».

❖ Vi sono zone particolarmente depresse, con maggiore ignoranza etrascuratezza, dove i bambini, non per questo abusati o maltrattati,non vengono accuditi da genitori che non sono in grado di fare i geni-tori. È stato fatto l’esempio di bambini che sono stati lasciati vivereabitualmente in mezzo ai maiali. Per quanto riguarda problemi gravidi salute, un più basso livello di scolarità e una minore consuetudineai servizi sanitari favoriscono una fiducia poco razionale verso tera-pie a base magico-tradizionale (il caso del «mago di Luserna»).

❖ La seconda cintura è meta di una recente «emigrazione» da parte diceti medi urbani e professionali, che cercano di usare in modo favo-revole la distanza dalla città: giovani coppie che fuggono dalla città evanno nel piccolo centro, per potere avere un migliore controllo sullasituazione dei propri figli e per educarli meglio. 307

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La morfologia delle risposte

Alla diversità dei problemi e delle loro rappresentazioni, corrisponde ladiversa capacità delle comunità sociali di organizzare sistemi di risposte. Ilquadro degli interventi e dei programmi presenta in Piemonte una eteroge-neità di profili e situazioni, che non si riconducono ad un sistema omoge-neo e convergente di politiche e di servizi.

La zona urbana è senza dubbio quella più ricca di risposte organizzate.A Torino l’offerta pubblica, in particolare del Comune, è elevata per quantitàe varietà. L’area torinese ha sviluppato una rete di servizi con forme innova-tive di intervento e coordinamento: comunità alloggio, centri diurni, centridi aggregazioni per minori, affidamento, servizi per disabili. Attiva è la pre-senza di organizzazioni del civile(associazioni ecc.); elevata l’offerta di ini-ziative culturali e sociali per il tempo libero, anche se spesso non sono benconosciute dalle famiglie. Per contro, servizi basilari per la prima infan-zia(quali i nidi per 0-3 anni) sono carenti. Nelle aree suburbane, una diso-mogenea dotazione territoriale genera difficoltà di accesso a servizi ed op-portunità che pure esistono (ad es. per chi sta in Valle di Susa la necessità dispostarsi su Avigliana). Il disagio dei trasporti, che ancor più incide nellearee montane, rende difficile la scolarità a livello di scuola media, ed ha ef-fetti negativi sulla dispersione scolastica e gli abbandoni, soprattutto neiprimi anni dopo la scuola media.

Fuori Torino si stanno attivando, da parte delle amministrazioni locali,dei servizi innovativi, che finora non erano stati richiesti e promossi. Nonsolo per carenza di risorse ma per ritardi culturali,che si vanno colmando,mentre permane la scarsità di risorse finanziarie e umane adeguate, inquanto la promozione di nuovi servizi a partire dalla città sviluppa spinteemulative nelle stesse amministrazioni periferiche. La conseguente sceltafra servizi alternativi (ad esempio, se fare i centri di incontro oppure l’edu-cativa territoriale) discende da specifiche modalità locali nel guardare i pro-blemi e rapportarsi alla popolazione residente, giovanile e adulta.

Si nota tuttavia come nei contesti piccoli scarseggia l’offerta formale diservizi rivolti verso le problematiche gravi. Ai servizi NPI dell’ospedale arriva-no tutte le situazioni più gravi di fuori Torino. Le risorse sociali insediate ge-nerano una maggiore capacità di gestione informale di singoli casi proble-matici: ad esempio è più facile rendere autonomo un ragazzino disabile in unpiccolo contesto, se ha supporti e facili punti di riferimento. In un ambientepiù povero c’è, curiosamente, una rete più larga dal punto di vista sociale, unamaggior capacità di assorbire problemi. Ma, all’inverso, la piccola dimensio-ne produce rifiuti sociali più diretti e crudeli: il trattamento della diversità av-vicina per certi aspetti il disabile al malato mentale, la patologia viene rifiu-tata, sulla diversità si imprime uno stigma arduo da cancellare.

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9. 5 Forme emergenti del disagio

L’abuso e il maltrattamento

Il problema più grave è quello dell’abuso e del maltrattamento. Sul pro-blema dell’abuso è cresciuta l’attenzione e la preoccupazione sociale, ancheal di là dell’aumento oggettivo del numero dei casi. Appare più allertata l’at-tenzione per condotte che, in passato, erano spesso assorbite, e coperte en-tro contesti sociali e famigliari all’esterno poco trasparenti. Oggi le condot-te di abuso e maltrattamento non sono direttamente collegate alla povertàeconomica e alla mancanza di mezzi di sussistenza, ma ad una certa bana-lizzazione dei criteri di scelta morale: si fa del male, ma «lo fanno tutti».

L’abuso ha gravi conseguenze, in quanto stabilisce una forma di relazio-ni all’interno della famiglia su cui è molto difficile agire. Produce vittimeprofonde entro relazioni chiuse, dominate dalla patologia dell’adulto. Tuttoquesto, nei casi di bambini molto piccoli, rende assai difficile intervenire esoprattutto individuare la patologia dell’adulto abusante.

Sul piano delle risposte, con l’aumentata attenzione verso il fenomenogli operatori hanno acquistato maggiore preparazione al tema. Oggi, a diffe-renza del passato, se ne parla; gli operatori sono più disponibili a vedere eosservare determinate situazioni, a individuare i primi segnali. Ma siamoancora piuttosto lontani dallo scoprire tutto ciò che è ancora nascosto. Molterealtà di abuso vengono a conoscenza dei servizi quando i bambini non so-no più tali, ad esempio per quanto riguarda l’abuso di ragazze disabili. È dif-ficile, in complesso, per l’operatore trovare un punto di equilibrio fra il «nonsaper vedere» ed il «minimizzare». Non manca neppure un certo uso stru-mentale delle sindromi di abuso nei conflitti fra gli adulti. L’attenzione so-ciale procede in modo intermittente: destata da episodi di clamore, ma an-che sensibile alle determinanti sociali del fenomeno. Sembra invero più fa-cile prestare attenzione al problema, quando si verifica nei quartieri diffici-li, dove si è già maggiormente predisposti ad affrontare problemi sociali.Dove l’ambiente sociale è più elevato, è più forte il timore di affrontare ilproblema: i segnali di disagio sono razionalizzati; la sensibilità non diventasegnalazione o intervento esplicito. Tuttavia la congiura del silenzio non ser-ve. Talvolta a sette-otto anni è già tardi. Bisogna prepararsi ad avvertire la si-tuazione e attivare tempestivamente i circuiti di segnalazione e di recupero.

La distinzione tra abuso e maltrattamento è corretta e necessaria: l’abu-so ha sulla vittima ripercussioni molto più profonde di quelle provocate dagenerici maltrattamenti; il maltrattamento inoltre non impedisce compor-tamenti di recupero, che riguardano sia il bambino sia l’adulto. La violenzadell’adulto sul bambino può essere contrastata e riassorbita, modificando lesituazioni reali. Una percossa pesante mostra una situazione di difficoltà del-l’adulto, ma è un comportamento modificabile.

Per contro, un bambino che sia messo a rischio della sua integrità dallapermanenza nella famiglia di origine ha diritto a ritrovare il più rapidamen-te possibile una famiglia accogliente (la sua stessa, oppure quella affidatariao adottiva): l’allontanamento del bambino dalla sua famiglia deve avveniresolamente quando la famiglia, dopo essere stata aiutata, non risulta affida- 309

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bile e non è in grado di cavarsela da sola. Nella necessità dell’allontanamen-to, ciò che conta è salvare i bambini, e prima di tutto interrompere la catenadegli abusi e dei maltrattamenti.

Famiglie multi problematiche, famiglie divise

Di chi sono i bambini allontanati e affidati alle strutture di accoglienza?Negli anni Sessanta le prime iniziative di aiuto sorte su base volontaristicaerano rivolte alle «ragazze madri», per evitare a loro ed ai loro figli l’istituto;negli anni 80, per collocare bambini in via di de-istituzionalizzazione(casodell’ex Ipim). Oggi il problema riguarda le famiglie multiproblematiche, conbambini che nascono in crisi di astinenza; allontanati da genitori con pro-blemi psichiatrici, per maltrattamenti e abusi o, come talora accade, rifiuta-ti alla nascita in quanto portatori di patologie fisiche o psichiche.L’accoglienza nella struttura è ritenuta dagli operatori un momento transi-torio di passaggio, verso un esito più stabile, se non definitivo(adozione, af-fidamento, rientro nella famiglia di origine). Esito peraltro previsto, ma nonimmediato o certo.

Si situa qui il problema, da più parti segnalato, dalla genitorialità assen-te dei tossicodipendenti. Il tossicodipendente non può aderire al bambino,ma mette avanti tutto le proprie esigenze. Nelle famiglie allargate del tossico-dipendente, non esistono risorse di genitorialità su cui fare affidamento an-che per breve tempo. Perciò, quando entrambi i genitori sono tossicodipen-denti, soprattutto con mamme tossicodipendenti e bambini molto piccoli,l’allontanamento risulta pressoché inevitabile. Nell’intervista svolta all’in-terno di una comunità dove vengono accolti bambini molto piccoli nati incrisi di astinenza da genitori tossicodipendenti, si nota però: «i figli dei tos-sicodipendenti sono i casi più semplici. I bambini si recuperano benissimo. Igenitori, se vengono, possono anche essere aiutati». Come dire che si valuta larecuperabilità non solo del bambino, ma anche della famiglia.

Fra le situazioni di gravità, per dir così ordinaria, la più frequente è lacollocazione divisa del bambino fra genitori che lo impiegano come postanella loro contese di separazione. La mancanza di ascolto del bambino neiprocessi di rottura famigliare finisce per riflettere una violenza dei rappor-ti fra gli adulti, che si scarica sul bambino. Nella separazione dei genitori, ilbambino diventa l’oggetto che viene sballottato; tutti lo vogliono ma nessu-no se ne cura.

Per altro, il rapporto fra famiglia divisa e sofferenza del bambino è og-getto di valutazioni non del tutto collimanti:

❖ Nella prassi ordinaria, e nella esperienza in incremento delle famigliedivise e di quelle ricostituite, si dà per scontato che la separazione nonproduca per il minore effetti lesivi, che siano meritevoli di apposita tu-tela (così nelle separazioni decise dal Tribunale ordinario).

❖ In sede ospedaliera: al momento dell’accettazione, immediatamentesi distingue il bambino maltrattato o il bambino con genitori separati.

❖ La separazione introduce difficoltà, soprattutto per le donne, che siaggiungono alla «normali fatiche» necessarie a garantire una educa-

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zione dignitosa ai loro figli. Se il lavoro di allevare figli è reso partico-larmente oneroso dai costi non riconosciuti e dalla scarsità di servizidi appoggio, nel caso delle separazioni questo carico risulta aggrava-to: un terzo dei ragazzi oggi presenti nei in presidi socioassistenziali inPiemonte sono figli di separati.

Come dice Bollea «la separazione è una storia d’amore che finisce, eduna storia di soldi che comincia: i bambini si trovano spesso in questo in-crocio». Un terreno di conflittualità, rilevante in sede giudiziaria, è la gestio-ne regolare dell’assegno di mantenimento nella fase successiva alla separa-zione.

Il disagio sommerso

Altre forme di disagio hanno aspetti meno evidenti, più nascosti. I cam-biamenti nella nostra cultura sociale riducono gli spazi della attenzioneeducativa verso le nuove esigenze del bambino, e diffondono situazioni dimaltrattamento psicologico, anche in assenza di maltrattamento fisico e dinon accudimento materiale. Oggi il disadattamento è soprattutto psicologi-co: stanno peggio ora di venti anni fa. Stanno male, ma senza comportarsimale o meno ancora commettere reati. L’aumento del disagio psicologico de-termina non comportamenti eclatanti, ma un enorme difficoltà di adatta-mento al contesto di vita quotidiano; alimenta una sofferenza implosiva, icui segnali sono più difficili da cogliere: ad esempio, nella scuola è assai piùprobabile l’aiuto verso bambini che presentano esplicite difficoltà, di carat-tere fisico, rispetto a forme di disagio sommerso.

Le situazioni del «nuovo disagio» sono state ricondotte ad alcune situa-zioni tipiche, famigliari e sociali.

Depressione e disturbi relazionali Sono tanti i bambini depressi che hanno alle spalle una famiglia nella

quale non c’è la capacità di avere delle relazioni significative… Nella fascia 6-13 anni aumenta l’osservazione clinica di situazioni di disagio; sovente die-tro psicosi che emergono in età giovanile, vi sono situazioni che si generanoe si trascinano da età assai più precoci. Tra i comportamenti segnalatori deidisturbi relazionali, i disordini alimentari precoci e il bisogno estremo dimovimento: più lo fanno, più si montano, non sembra che l’attività fisica liscarichi… si muovono dovunque, in casa, a scuola, nei ristoranti, nei treni.Comincia ad essere usata anche da noi la diagnosi di iperattività, che favo-risce la somministrazione di appositi psicofarmaci.

Disagio nella scuolaNella scuola, il disagio sommerso3 si esprime in comportamenti quali: ❖ il bullismo, praticato anche in età ed in sedi «insospettabili» (come le

scuole materne): interessa bambini di varie classi sociali, mostrandocosì di non essere l’esito di deprivazione economica;

❖ problemi di balbuzie, assoluta mancanza di attenzione. Di fronte a

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una modalità tradizionale di insegnamento, un bambino che non rie-sce a stare attento per più di 10 minuti mostra come «la curva dell’at-tenzione si è contratta molto».

La famiglia noncurante Nel processo di maturazione personale è determinante la relazione con

figure adulte di riferimento, e la dimissione dal ruolo da parte dell’adultopuò avere conseguenze alquanto negative. Figli unici senza genitori: sembraquasi che gli adulti non vogliano vivere con i loro bambini! Che il bambino sipresenti loro come un intruso. Adulti che non condividono il piacere di sta-re con i loro bambini, la voglia di divertirli e, al tempo stesso, educarli. Noncogliere e non curare i passaggi della crescita è un segnale serio di trascura-tezza: i passaggi della crescita sfuggono ai genitori, che se ne accorgono sol-tanto quando successo qualcosa di importante, se non di grave…

Anche il tema cura-trascuratezza appare trasversale alle fasce sociali.Tuttavia, per quanto riguarda le classi agiate, la cura dei figli è spesso dele-gata ad altre figure di supporto, scelte dalla famiglia stessa; le classi più po-vere lasciano i bambini più soli. Alla scuola si finisce allora per delegare qua-si tutto.

Anaffettività e mancanza di ascolto La competenza affettiva è il proprium che non può essere negato alla fa-

miglia, senza negare la sua stessa realtà. Se gli aspetti educativi legati agliapprendimenti possono essere compensati da altri soggetti e istituzioni, lacanalizzazione delle competenze affettive nella famiglia resta insostituibile.Al tempo stesso, la disattenzione nell’ascolto è il punto di massima criticitàattuale. È diventato un problema del minore il fatto che gli adulti non loascoltino.

Dietro l’assenza di ascolto si cela un conflitto relazionale: l’adulto nonascolta, perché ha paura della sue stesse emozioni, e se ne vergogna.Insegna così al bambino a tenere nascoste nel silenzio le sue emozioni, omanifestarle soltanto attraverso l’aggressività.

L’assenza e la difficoltà dell’ascolto si associa con la riluttanza degli adul-ti di identificare il proprio ruolo come datori di regole, che fissano regole esanno farle rispettare. I modelli di perfezione virtuale, diffusi dai media, ac-crescono il senso di insignificanza delle norme gestite nel quotidiano. Unafamiglia intrappolata nel circolo vizioso della superficialità costruisce unpercorso defatigante con le istituzioni educative: a casa si demolisce l’edifi-cio che altrove si cerca di costruire. D’altra parte la velocità del cambiamen-to culturale aumenta il senso delle sfide – anche per i bambini – e con essoil senso di inadeguatezza e la vulnerabilità al fallimento. Così nella scuolal’insegnante «ha paura» del genitore e il genitore «ha paura» del bambino.Alla fine «comanda» l’unico che non è in grado di farlo.

L’eccedenza di opportunitàAnche se la diffusione dei media non modifica la sostanza degli appren-

dimenti che hanno luogo nella scuola, la distanza e diffidenza reciproca fra idue mondi rende arduo ai bambini rielaborare i contenuti appresi nei due

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contesti. Apre questioni di credibilità e di interferenze cognitive, che non sipossono risolvere per via di autorità.

Il caso del bambino che cambia spesso gioco, di quello fissato su uno, osvagato su troppi, allude alla eventualità che lo zapping diventi la modalitàordinaria di apprendimento, senza che tale apprendimento «metabolizzi»nozioni capaci di formare. La risposta non può darla l’assorbimento ecces-sivo di troppe nozioni, in tempi contratti, destinate a successiva e rapida ri-mozione. Il fatto è che le nozioni non sono accompagnate da correlati ap-prendimenti emotivi, a forte carica di esperienza sensoriale: la scheda del-l’albero sostituisce l’esperienza dell’albero, ma come può farlo?

Anche nelle elementari, che sono per giudizio condiviso l’area dellascuola più sintonica con i processi di sviluppo cognitivo, non è del tutto giu-stificabile in termini evolutivi il salto fra i primi due anni di «apprendimen-to sciolto» e l’esposizione (dalla terza classe in poi) al «dovere di sapere», chepassa attraverso l’apprendimento mnemonico di nozioni obbligate. Si trat-ta di ridurre lo spazio delle attività obbligate, per allargare quello delle atti-vità libere, che avvicinano la scuola a misura di bambino.

Nel quotidiano, aumenta molto l’offerta di servizi di consumo, non al-trettanto le occasioni per la socializzazione. La famiglia appare impegnata acercare delle opportunità per i figli, molto meno a intessere delle relazionisociali non finalizzate. Specialmente se entrambi i genitori lavorano, la fa-miglia richiede maggiore capacità organizzativa, per star dietro alle esigen-ze dei figli e gestire i loro tempi, ma non sempre dispone di competenze suf-ficienti o esperienze con cui confrontarsi.

Una variante di questa condizione di assenza è la situazione, solo in ap-parenza opposta, del bambino pressato dai troppi impegni nel tempo liberodopo la scuola. Talvolta, è la stessa scuola che chiede troppo(anche se non èdetto che «offra» troppo). Più spesso, è il bambino che i genitori «costringono»a moltiplicarsi nelle attività(sport, danza, lingue, ecc.); forse in tal modo gliadulti rispondono a propri bisogni di rassicurazione ed impiego razionale deltempo, quando non a pulsioni narcisistiche(sport agonistico precoce, ecc.).

Si osserva infine come i luoghi formali di aggregazione (oratori, associa-zioni ecc.) sono in ribasso, mentre l’offerta proveniente dal mercato propo-ne opportunità di consumo e di prestazione, prevalenti rispetto alle do-mande di socializzazione. Conclusione: Bambini abbandonati a se stessi …figli unici, senza animali domestici, l’unico strumento disponibile è la televi-sione… non hanno spazi fisici per il gioco libero, «non ci sono più i cortili diuna volta». Una scena da film dell’orrore urbano?4

9.6 Quali risposte

I servizi sanitari ospedalieri

Passiamo ora ad analizzare le risposte fornite dagli intervistati, in rela-zione ai dati di organizzazione, funzionamento e cultura nei servizi dell’area 313

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torinese che si occupano di bambini, nonché le innovazioni che propongo-no come desiderabili.

Nei servizi di tutela della salute, una buona collaborazione fra il sistemaospedaliero e i servizi territoriali è ritenuta fondamentale per «medicalizza-re» bene i problemi della nascita e della crescita. Occorre la volontà degliospedali di consentire l’evento nascita dal punto di vista il più possibile uma-nizzante, e medicalizzato solo nella misura del necessario.

In particolare, nel processo del parto: ❖ è importantissima la preparazione e la sicurezza (autoconfidenza),

che solo l’ospedale può dare; ❖ va favorita una prassi di rapide dimissioni, adeguatamente seguite a

domicilio (dimissioni dopo 24 ore con home care: progetto pilota delSant’Anna);

❖ la visita ai neonati da parte dell’assistenza sanitaria a domicilio con-sentirebbe la segnalazione di casi a rischio, e un intervento a ridossodella nascita che evita traumi successivi.

Costruire una buona assistenza di base per gli eventi fisiologici della na-scita e della crescita, darebbe anche modo all’ospedale di mantenere edadeguare la sua funzione di specializzazione. A tale proposito, sono ritenutirilevanti:

❖ più assidui rapporti con il pediatra di base; ❖ maggiori attività di prevenzione, da parte dei consultori e dei servizi

di igiene; ❖ la formazione delle figure di infermieri pediatrici e di «nuove» vigila-

trici d’infanzia, che consentono di realizzare un intervento compe-tente anche a domicilio.

Per quanto riguarda l’intervento su situazioni gravi, in contesto ospeda-liero ne emergono principalmente due:

❖ l’intervento su malattie rare, che richiede la collaborazione fra asso-ciazioni di famigliari e le organizzazione ospedaliere e della ricerca;

❖ le patologie gravi: 120-130 diagnosi annue dell’Ospedale ReginaMargherita per leucemie ed altri tumori, a cui seguono trattamenti,che hanno un tasso di guarigioni fino all’80%.

La presenza della malattia grave del bambino è un evento per più versicritico. Mette alla prova la solidità della coppia genitoriale (i genitori fatica-no ad accettare la situazione e spesso ritardano l’inizio delle cure quando in-vece la tempestività è tutto). Espone a rischi di stabilità la coppia, che è chia-mata a condividere la sofferenza ed il dolore del bambino per il non breveperiodo – da 15 a 100 giorni – in cui deve stare in ospedale (tempo di grandeverifica per i genitori). Mette a rischio l’identità stessa del bambino, che ap-pare tuttavia disposto a qualsiasi tipo di cura e di «tortura» che sa necessa-ria per guarire (a differenza degli adulti, il bambino accetta tutto fuorché lebugie).

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Le risorse per una risposta più adeguata ai problemi dei bambini congravi patologie riguardano soprattutto:

❖ l’efficienza della rete ospedaliera specializzata (rete oncologica regio-nale);

❖ la collaborazione con il pediatra di famiglia; ❖ la disponibilità (decisiva) di personale infermieristico pediatrico spe-

cializzato; ❖ macchine, medicine, personale e risorse finanziarie, per realizzare

l’ospedalizzazione a domicilio, ove possibile e non controindicata.L’ospedale a domicilio è una soluzione utile, perché mantiene il bam-bino nel suo habitat e risparmia viaggi e disagi, se la casa è in gradodi ospitare il bambino e gli strumenti necessari alla cura, e se la suapresenza non urta contro la presenza di altri famigliari e fratelli (aiquali i genitori preferiscono sottrarre la vista del malato);

❖ la formazione e preparazione, psicologica e relazionale, al rituale del-la malattia: esordio, accoglienza, comunicazione al bambino, ai geni-tori, alla rete famigliare;

❖ la gestione dei conflitti, che possono derivare, per esempio, da un con-testo etnico che ha proprie regole per l’ospedalizzazione della donnae del bambino, ed un diverso (più rassegnato-fatalistico) approccioculturale alla malattia, ed alla eventuale morte, del bambino.

Problemi dell’affidamento

Il nostro lavoro è di richiamare l’attenzione sulla situazione dei bambiniche, a causa di motivi famigliari gravi, vivono fuori della famiglia, e sul lorodiritto a vivere in una famiglia, a crescere possibilmente in quella in cui na-sce, e se questo non è possibile in una famiglia affidataria, quando i proble-mi sono temporanei, o adottiva, quando si verifica lo stato di abbandono.

In relazione alla destinazione «naturalmente famigliare» dei bambini,come ridefinire i rapporti fra famiglia originaria, famiglia vicaria e servizi diaccoglienza (comunità, istituti)?

❖ L’accudimento famigliare è ritenuto fondamentale soprattutto neiprimi anni di vita, quando è importante costruire un rapporto affet-tivo individualizzato. Perciò il permanere in comunità di bambinipiccolissimi, anche solo per alcuni mesi, non è promettente per il lo-ro sviluppo. Ciò vale, a maggior ragione, per una permanenza pro-lungata di bambini di età più elevata, essendo la maggior contraddi-zione nella pluralità di persone che nel servizio si muove intorno albambino, e il tipo di organizzazione e di vita che da ciò discendono.

❖ Varie ulteriori difficoltà sono indicate, rispetto all’obiettivo di creare lecondizioni per un affidamento precoce e tempestivo. In particolare:• eccessiva lentezza delle decisioni della magistratura (dopo uno o

due anni, mentre i bambini in comunità non hanno delle figure diriferimento)

• incerto status delle famiglie affidatarie: alla disponibilità a offrire 315

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non corrispondono servizi adeguati di sostegno durante il percor-so dell’affidamento;

• sconnessione delle famiglie dai servizi e dei servizi dalla magistra-tura(i servizi si vengono trovare in una posizione oscillante e insta-bile fra famiglie e istituzione giudiziaria);

• difficoltà del rientro in famiglia dopo l’affidamento e gestione del-le dimissioni (un problema analogo riguarda le comunità, perquanto concerne gli adolescenti);

• divaricazione crescente fra affidamento come servizio e adozionecome risposta centrata soprattutto sulle esigenze degli adulti (lanuova legge 149 del 2001, che ha elevato la differenza d’età perchéanche il cinquantenne ha diritto ad un figlio).

Quanto alle risposte possibili, appare importante fare crescere la dispo-nibilità ed il sostegno all’affidamento famigliare attraverso campagne mira-te al pubblico ed agli stessi operatori (come è stato fatto per abuso e mal-trattamento). Campagne rivolte a promuovere il servizio nella sua impor-tante funzione sociale (far capire che cosa vuol dire essere famiglia affidata-ria, la difficoltà estrema di questo compito, la sua «missione»).

Una via di minore impatto (che non significa di gestione più facile) èquella di avere una famiglia affidataria di appoggio che mantenga i legamicon la famiglia di origine. Per esempio nella forma degli affidi diurni, con ilbambino consegnato al mattino, seguito durante il giorno e riconsegnato lasera. Questa formula, se la coppia dei genitori d’origine «tiene ancora», e-spone a minori tensioni rispetto all’affido permanente. Con l’affidamentofamigliare diurno, il bambino non si allontana a fondo dalla propria famigliad’origine, fa esperienza di un nuovo modello famigliare e la famiglia affida-taria funziona come una famiglia d’appoggio diurna. Per riuscire, questi af-fidi vanno seguiti da personale specializzato(lo psicologo, i servizi) che svol-gono i necessari compiti di mediazione e convergenza fra le due famiglie.

Non andrebbe esclusa la via di aumentare i contributi alle famiglie affi-datarie. A Torino questo importo, più elevato di quanto non sia in altre cittàd’Italia, può ulteriormente crescere a copertura delle spese reali, purchénon sia alterato l’aspetto di volontariato altruistico che l’affidamento devemantenere: mamme che si prendono a cuore anche altri figli oltre ai propri.Rispetto ai servizi, di cui viene sovente lamentata una certa distanza dallapratica concreta degli affidamenti in corso, si tratta di rendere la loro orga-nizzazione funzionale al sostegno delle famiglie affidatarie, specialmentedelle famiglie che si prendono cura dei bambini piccolissimi nel primo an-no di vita, e costruire degli espliciti patti di assistenza con le famiglie affi-datarie.

I servizi restano tenuti a preparare le famiglie affidatarie, e quelle chefanno richiesta di adozione soprattutto internazionale. Forme di affidamen-to intra ed inter-etnico, e sviluppo della mediazione culturale, allarghereb-bero la portata dell’affidamento famigliare verso l’obiettivo del recupero einserimento degli immigrati di più giovane età.

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Ripensare i servizi di accoglienza e tutela

L’accoglienza presso strutture specializzate (comunità e istituti) abbrac-cia fasce d’età assai diverse: da bambini piccolissimi (caso della ComunitàLa Coccinella), fino ad adolescenti che hanno attraversato precedenti espe-rienze di comunità, affidamenti e adozioni problematiche. La struttura diaccoglienza deve consentire, al bambino e all’adolescente, di recuperareuna esperienza positiva delle relazioni interpersonali e fiducia, rispetto adesperienze di sofferenza e trauma che possa avere incontrato in precedenzanella sua vita.

Alla luce della legge 328 sul nuovo sistema di interventi e servizi sociali,le strutture di accoglienza nei confronti dei bambini e dei minori sono og-getto di un possibile ripensamento, che gli intervistati suggeriscono nelleseguenti direzioni.

Si sottolinea la necessità di allargare il ventaglio delle attuali definizionitipologiche, includendovi anche le piccole comunità di tipo famigliare, chehanno un numero limitato di figure di riferimento. Ad esempio: il piccologruppo professionale che ha fatto «una scelta di vita» nell’attivare e gestirela struttura; la coppia genitoriale con propri figli ed altre persone, accolte inuna sorta di famiglia allargata senza schematismo di organizzazione.L’esigenza di dare alla struttura di accoglienza una impronta famigliare ma-nifesta l’impatto di un modello (casa-famiglia) che si diversifica dal model-lo prevalente nell’area torinese (comunità alloggio come servizio).

Una maggior flessibilità di funzionamento consente l’utilizzo di volonta-ri, che vengono a ricevere opportunità di formazione, e danno un contribu-to non professionale all’attività della struttura. Una struttura accoglienteverso coppie problematiche, che vengono a imparare a fare i genitori, con-sente loro di vivere in spazi più positivi, ed evita di ricorrere alla rete fami-gliare allargata, che molte volte è causa essa stessa di problemi e tensioni.

Un punto ben noto, ma non risolto e tuttora critico nell’attività dellestrutture di accoglienza, è dato dai problemi di uscita del bambino(e del mi-nore in genere). Le difficoltà della dimissione, su cui è in corso una ricercamonitoraggio promossa dalla regione Piemonte sui circa 1000 attuali ospitidi strutture residenziali, rimandano a due fattori: resistenze «interne» allastruttura, scarsità di efficaci «tecniche di uscita». Si tratta di delineare dellereti di sostegno alle famiglie a cui il minore viene riconsegnato; nel caso diadolescenti in transizione alla maggior età, di rispondere alle carenze di ri-sorse per l’inserimento sociale, abitativo, lavorativo.

Tra sanità e assistenza

Il rarefarsi dei servizi di primo impatto sul territorio produce sconnes-sioni e malfunzionamenti che rendono più complicato l’accesso agli inter-venti socioassistenziali, togliendo loro la tempestività in taluni casi neces-saria, mentre si allungano le liste di attesa per servizi sociosanitari impor-tanti, come la NPI e i sostegni all’handicap.

Si ricorda che l’attuale organizzazione dei dipartimenti materno-infan-tili raccoglie neonatologia, ginecologia, pediatria e neuropsichiatria infanti- 317

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le. Le attività di quest’ultima si svolgono in servizi sia territoriali che ospe-dalieri e di day-hospital, con riferimento a problemi neurologici (epilessia,cefalee, handicap da malformazioni), gravi disturbi del comportamento(autismo), disordini specifici dell’apprendimento, nonché interventi in casidi abusi e maltrattamento.

Il funzionamento dei dipartimenti materno-infantili nel quadro delleaziende sanitarie viene indicato come una buona modalità di integrazionefra servizi sanitari, premessa alla utile collaborazione con i servizi socioas-sistenziali. Per la riorganizzazione dei servizi in un ambito di welfare locale,i principali obiettivi indicati dalle interviste sono:

❖ rafforzamento dei protocolli di intesa fra enti gestori del socioassi-stenziale e aziende sanitarie;

❖ potenziamento di servizi sanitari domiciliari e territoriali, che con-tengono la necessità del ricorso all’ospedale (rilanciare i consultoripediatrici);

❖ istituzione di comunità di salute mentale specifiche per adolescenti(una sola esistente a Torino);

❖ la precocità dell’intervento nella fascia 0-3 anni in funzione della pre-venzione;

❖ l’integrazione fra l’intervento ambulatoriale e l’assistenza famigliare(anche con volontari particolarmente competenti e motivati);

❖ potenziamento degli interventi di assistenza domiciliare educativaper famiglie problematiche;

❖ diffusione di servizi educativi mirati come i centri diurni, i centri diaggregazione, dandone una organizzazione molto più puntuale, finoa costruire intorno ad essi delle vere e proprie microcomunità locali interritorio urbano.

Si osserva, tuttavia, come la disponibilità alla collaborazione appare piùalta dal versante degli operatori tecnici, che non nella pratica «politica» ge-nerale delle organizzazioni e dei servizi. Anche il posto delle organizzazionidi terzo settore è oggetto di valutazioni contrastanti. Se la cooperazione so-ciale osserva: «gli operatori del terzo settore sono portati ad adottare delle vi-suali più allargate rispetto agli operatori di aziende sanitarie, perché hannoil problema di inserirsi nel territorio per operare al meglio», da parte pubbli-ca persistono diffidenze e pregiudizi. Reti di collaborazione fiduciaria sonoinscritte nella cultura di interventi su situazioni estreme (ad esempio il cita-to progetto Coccinella per i neonati figli di tossicodipendenti), che collega-no ASL, pediatria ospedaliera, cooperativa sociale, comunità di accoglienza.Fragile tuttavia appare ancora la costruzione di partnership stabili e legitti-mate, fra organizzazioni ed operatori diversamente collocati (settore pub-blico, terzo settore, libera professione, mondo non-profit ecc.).

Potenziare i servizi socioeducativi

Fra ricoveri di tutela assistenziale (da contenere e al limite da abolire) edespansione degli interventi di aiuto declinati in senso riparativo e medica-318

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lizzante, si apre quella sorta di no child’s land, che si ritiene suscettibile di ri-cevere un più ampio intervento socioeducativo: non è possibile lavorare conefficacia sui bisogni conclamati, se manca un intervento diffuso sul terreno incui tali bisogni vengono a generarsi…

L’innovazione nei servizi che presentano una più forte qualità socioedu-cativa a sostegno della vita ordinaria include, innanzi tutto, i servizi per laprima infanzia(0-3 anni), in particolare gli asili nido. Gli asili nido attuali so-no carenti per posti, orari e costi; hanno liste di attesa troppo lunghe, costitroppo elevati, orari troppo rigidi. Quanto all’alternativa dei servizi promos-si dalla legge 285 (micronidi, asili di condominio, asili aziendali ecc.), il ri-chiamo alla attivazione spontanea dei privati associati non autorizza a de-rogare da esigenze di qualità e controlli, che compete all’amministrazionepubblica realizzare, per calmierare i costi, accreditare le strutture e regolare ilsistema complessivo dell’offerta.

L’area in assoluto meno presidiata riguarda i servizi per il gioco. Il venirmeno, non solo nelle città ma anche nelle realtà periferiche, degli spazispontanei e tradizionali per il gioco giustifica la costruzione di centri di ag-gregazione, ludoteche, parchi gioco, che aumentano le opportunità di tem-po libero organizzato. Gli spazi per il gioco devono essere di accesso agevole egratuito… Sarebbe utile poter accedere facilmente alle attività di gioco in po-sti piacevoli… e con offerte che abbiano non solo la finalità del divertimento,ma siano concepite per aiutare la crescita. Una differenza rilevante è che peri bambini fino ai 5 anni sono sufficienti spazi ludici poco strutturati, perquelli dai 6 ai 13 anni occorre pensare a laboratori, scolastici ed extrascola-stici, attrezzati per varie attività (musica, sport, arte ecc.).

L’eventuale contrazione del tempo pieno scolastico apre una grossa do-manda di servizi per il tempo libero, la ricreazione e la formazione extrasco-lastica; possono essere collocati in centri di facile accesso, con una educa-zione concreta, fatta di piccoli progetti, esperienze di manualità, scambi li-beri; non ancorati ai modelli di una associazione, a cui si accede quando sene condividono i presupposti educativi.

Già esistono a Torino sette-otto punti gioco, dove i bambini possono re-carsi con i genitori e con i nonni, dando agli adulti l’opportunità di «condi-videre in modo conversante» problemi ed esperienze educative. Per il terri-torio non urbano, sono da proporre iniziative che, realizzando il censimen-to delle risorse e degli spazi attrezzati, facilitano ai bambini e ai ragazzi l’ac-cesso universale al «capitale ricreativo locale», in modo da superare rivalitàe frammentazioni, che separano amministrazioni, associazioni, gruppi,parrocchie ecc.

Nei confronti degli adolescenti, l’accesso facilitato alle risorse sociali ri-creative si colloca all’interno di una peculiare contraddizione tipica dell’età:«l’adolescente sente il bisogno di avere spazi liberi non controllati o stretta-mente gestiti da adulti, il genitore dell’adolescente vuole soprattutto esseretranquillo e sicuro». Da qui l’esigenza che le attività siano offerte agli adole-scenti – da parte di organizzazioni pubbliche, mercantili o sociali – in mododa recepire stimoli positivi, di formazione e ricreazione, in ambienti con-trollati.

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Il ruolo degli operatori

Gli operatori per l’infanzia sono figure molto diverse fra loro, tutte coin-volte nel quadro di politiche sociali e di esigenze metodologiche che le av-vicinano, senza confonderle: la scuola, le ASL, i servizi sociali, la psichiatriainfantile devono collaborare e dialogare fra loro, senza sostituirsi l’uno al-l’altro…

Per quanto riguarda le risorse dell’intervento, vengono richiamati so-prattutto i seguenti criteri.

❖ La formazione di base deve essere prolungata e arricchita, ed avereelementi comuni di riferimento(quali la conoscenza dello sviluppocognitivo, i problemi della crescita, la visione della famiglia ecc.);

❖ l’operatore deve imparare a vedere la complessità delle situazioni edei problemi e renderne conto in adeguati modelli epistemologici (iproblemi della famiglia, non solo l’abuso o il maltrattamento…);

❖ serve un potenziamento della formazione continua (come nel pro-getto del Comune di Torino di una Agenzia formativa delle professio-ni sociali); accanto alla qualificazione professionale, è necessario col-tivare l’interesse a fare della propria attività professionale una sceltavocazionale, ed un lavoro sulla propria stessa maturazione;

❖ l’attenzione alle tematiche del conflitto e della mediazione deve col-locare l’operatore come solutore di conflitti (soprattutto nell’interes-se del bambino), non come «broker» delle tensioni fra adulti;

❖ in alcuni contesti (ad esempio nelle strutture di accoglienza) è inevi-tabile una organizzazione del lavoro di équipe, e il confronto fra mo-delli di intervento diversamente impostati (si impara con il dare e ilricevere, bisogna mantenere il dialogo costante sulla pratica);

❖ l’utilizzo dei volontari richiede, da parte loro, di accettare scelte e im-postazioni della struttura a cui partecipano. A sua volta la struttura,sia nel suo funzionamento ordinario sia con momenti formali, è te-nuta a dare la formazione permanente di cui i volontari necessitano.Accade infatti che i volontari siano esposti a situazioni «disastrate»,che richiedono loro di possedere e sviluppare una adeguata capacitàdi fronteggiamento;

❖ prezioso è il ruolo delle associazioni di tutela, dei genitori ecc. Si ri-chiede loro di lavorare con spirito di servizio e discrezione, evitandoogni concorrenzialità, poco producente per la causa che intendonosostenere.

Guardando in dettaglio a singole figure di operatori, i tratti rilevati sonoi seguenti.

❖ L’assistente sociale da un lato collabora con segnalazioni e relazionitecniche alle attività istituzionali di tutela, dall’altro opera per mi-gliorare la condizione di bambini e adulti, attraverso piani di inter-vento che configurano (o dovrebbero dare) sostegno alla vita di sin-gole persone: è una duplicità da gestire;

❖ altra alternativa rilevante, per l’assistente sociale e l’educatore pro-

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fessionale, è fra l’orientamento verso una utenza specifica con i suoibisogni sempre più identificati (non solo i «bambini», ma i «bambinistranieri», i «bambini disabili» ecc.); oppure verso un microsistemasociale localizzato («questo territorio con i suoi bambini, bambinistranieri, bambini disabili, gli adulti ecc.»);

❖ gli educatori-animatori desiderabili non sono intrattenitori dei gio-chi o delle pratiche sportive, ma operatori tenuti a rapportarsi conuna prospettiva educativa. L’educatore «di strada» inserisce bambinie ragazzi in progetti educativi nei quali mette tempo e capacità; è unafigura preparata metà adest e metà educatore, che affianca i genitorinel loro compito. Ogni parrocchia dovrebbe avere un educatore retri-buito, che si occupa dei ragazzi che si sentono abbandonati e si ritro-vano a girovagare per le strade;

❖ vi è carenza di figure professionali con competenze psicopedagogi-che, da impiegare nelle scuole ed in servizi territoriali a bassa soglia.Invece di ricorrere al solo servizio di NPI esterno, bisognerebbe aprirenelle scuole degli sportelli di consulenza psicologica, ad accesso agevo-le, sia ai ragazzi che agli adulti. Lo sportello psicopedagogico di pre-venzione, per allievi ed insegnanti, consentirebbe di immettere lopsicologo come figura ordinaria della organizzazione scolastica;

❖ gli insegnanti e gli altri operatori scolastici appaiono in obiettiva dif-ficoltà nel «leggere» e segnalare problemi gravi, che richiedono inter-venti onerosi di recupero e controllo. Si osserva che in città comeTorino c’è una buona collaborazione fra scuola e NPI, mentre, perfronteggiare il «normale» disagio scolastico, sarebbe necessaria unamaggiore presenza e collaborazione con i servizi specialistici. Unaimportante eccezione è data dalla collaborazione per l’inserimentoscolastico dell’handicap fra insegnante di sostegno, NPI, educatoreprofessionale esterno alla scuola. Tutto ciò non esonera gli insegnan-ti dal migliorare la loro formazione carente nelle metodologie didat-tiche, soprattutto per quanto concerne le tecniche relazionali e di co-municazione interpersonale;

❖ infine, sarebbe desiderabile la valorizzazione della figura del «pedia-tra di buon senso», che segnala agli altri servizi le situazioni (bambi-ni, famiglie ecc.) che richiedono intervento e sostegno.

Oltre ad una cornice istituzionale che la favorisca e la solleciti, la colla-borazione intersettoriale ed interprofessionale comporta un atteggiamentodi disponibilità alla interdipendenza: si tratta di abbassare i ponti levatoi fraistituzioni i cui operatori interni hanno gradi differenti di autostima.

Più strategica sarebbe una architettura della comunicazione fra servizi,che consenta la definizione razionale dei programmi e degli interventi.Attivare delle «comunità di progetto», che generano cambiamenti organiz-zativi capaci di autosostenersi, entro una tecnologia sociale più adeguata:anche i servizi alla persona devono fare un salto qualitativo, per razionalitàdi scelte e appropriatezza degli interventi all’utenza.

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9.7 Scenari

La risorsa tempo

L’insieme degli intervistati converge nell’attribuire alla famiglia una po-sizione cruciale, e nel richiedere una attività di supporto, che consenta allafamiglia di svolgere «al meglio» le sue funzioni.

L’aiuto di cui la famiglia abbisogna non è da intendersi esclusivamentecome consulenza psicologica e relazionale, allo scopo di rafforzarla (em-powerment) nello svolgimento delle sue competenze educative e genitoria-li. Fra i punti di priorità, indicati dagli intervistati, infatti figura «il sostegnoalle famiglie con bambini a rischio di marginalità sociale, e con gravi pro-blemi di povertà». Mantengono importanza rilevante gli apporti che forni-scono quei beni e risorse materiali – in primis casa e lavoro – che si sup-pongono tacitamente inseparabili dalla vita famigliare, mentre proprio laloro assenza o precarietà si riflette sulla patologia delle relazioni (maltratta-menti, abusi, abbandoni). Una estensione di questo ordine di priorità incontesto giudiziario è l’esigenza del sostegno per il patrocinio dei clienti po-veri (donne soprattutto) nei casi di separazione e successivi conflitti.

Tra le risorse strutturali da rendere disponibili per la famiglia, primeggiail tempo: ridurre il tempo obbligato e liberare tempo per i genitori, per sé e perle loro relazioni con i bambini. Aumentare la quantità di tempo a disposi-zione della famiglia vuol dire darle più opportunità di riconoscersi e di or-ganizzarsi.

❖ Nel caso delle famiglie con bambini ospedalizzati per gravi malattie,e con decorsi che durano anni, la scarsità di tempo si riflette nella dif-ficoltà di avere congedi per poter seguire il bambino, e nel rischio diperdere il lavoro o subire licenziamenti, a causa delle assenze impo-ste dalla malattia.

❖ Il tempo irrompe nella vita ospedaliera del bambino anche nella do-manda di attività ludica e attività scolastica a distanza. L’attesa di unfuturo rientro a scuola è anche un forte stimolo per la terapia e la gua-rigione.

❖ Il tempo come durata, prima e subito dopo la nascita. Importan-tissimo è il periodo della formazione pre-nascita, inteso come percor-so consapevole che coinvolge entrambi i genitori. I corsi organizzatidalla struttura ospedaliera forniscono non solo una preparazione me-dica al parto, ma una preparazione psicologica e culturale.

❖ Nel tempo dei primi anni (fino a due e mezzo-tre),occorre evitarel’allontanamento precoce del bambino dalla mamma per impegniextrafamiliari. Sostenere i giovani genitori nei primi mesi è fonda-mentale.

Il gruppo dei pari e l’affiancamento asimmetrico

Sul piano dell’aiuto relazionale, la prima modalità suggerita, che ha bas-so impatto intrusivo ed elevata valenza formativa, è il gruppo dei pari con fi-322

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nalità di autoaiuto. Queste esperienze possono essere promosse dalle stesseorganizzazioni formali dei servizi, in una varietà di casi e situazioni:

❖ il gruppo delle partorienti, che seguono il corso di preparazione escambiano tra loro confidenze e sostegni fisici e psicologici;

❖ il gruppo dei genitori che hanno problemi di sussistenza economi-ca(disoccupati in cerca di lavoro) e di gestione dei figli (madri e padrisoli, separati ecc.);

❖ genitori di famiglie adottive, affidatarie, gruppi che comprendono siafamiglie affidatarie che originarie, per gestire meglio il momento cri-tico del dopo-affidamento;

❖ genitori dei bambini in comunità di accoglienza: il gruppo sostiene lesituazioni problematiche che hanno portato al provvedimento di al-lontanamento, predispone verso gli eventuali ulteriori provvedimen-ti di rientro o di separazione;

❖ gruppi di genitori interessati ai problemi educativi (il «Tam TamMamma», operante nella prima cintura): lo scambio informativo ri-guarda aspetti della crescita, quali vaccinazione, cure pediatriche,alimentazione ecc.

Una diversa modalità relazionale è l’affiancamento: si fornisce un sup-porto di «pari» a famiglie che riconoscono la loro insufficienza nella gestio-ne della vita ordinaria e nella relazione educativa. Esempi sono:

❖ la «nonna volontaria», applicata dai servizi di NPI a sostegno di ge-nitori in difficoltà;

❖ l’aide maman o aide familial, fornito su base di vicinato o parrocchia:la «madre esperta» affianca altri genitori nella gestione della casa edei figli, entro un patto mutuo che promuove anche una delicataopera di formazione verso gli adulti «inadeguati»;

❖ l’assistenza domiciliare dei servizi pubblici; ❖ il servizio di mediazione famigliare, quando promuove una cultura

della conciliazione nelle relazioni interpersonali.

Le competenze genitoriali

Le famiglie hanno perso competenza, si sentono più inadeguate… È un pa-radosso storico che l’incremento complessivo della scolarità si sia accompa-gnato alla tendenziale riduzione della competenza educativa. Vengono me-no modelli genitoriali trasmessi per via culturale, cresce un atteggiamentosimmetrico (concorrenziale) fra i due generi, un più largo scarto culturale fragenitori e figli produce una percezione di inadeguatezza, che genera sensi dicolpa in genitori sensibili. In breve, ai neogenitori di oggi (per aiutare a fare igenitori è inevitabile partire dalla nuove generazioni) dobbiamo offrire piùintelligenza emotiva ed una più adeguata educazione sentimentale.

La gamma degli interventi, consigliati ed in parte già sperimentati, in-clude:

❖ messa a disposizione di servizi di consulenza psicologica, con consu-lenti che vanno direttamente nelle famiglie; 323

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❖ servizi di consulenza e mediazione nella scuola; ❖ centri di ascolto, che raccolgono il disagio delle famiglie, con partico-

lare riferimento alle difficoltà relazionali e di gestione del quotidiano.I pochi centri di ascolto con psicologi educatori o insegnanti hannomolto successo, vengono utilizzati dai genitori per capire meglio qualisono le esigenze dei bambini;

❖ centri di ascolto parrocchiali, a contatto con famiglie di ceto popolareche preferiscono non rivolgersi ai servizi sociali di base e non hannointeresse a sollevare conflitti in sede giudiziaria. Una rete di dieci cen-tri siffatti esiste nella città di Torino; una esperienza analoga, condot-ta negli anni scorsi a Borgaro Torinese, ha coinvolto 80 famiglie e 130genitori;

❖ servizi per la mediazione famigliare, sperimentati a Torino da circatre anni. Questi servizi sono rivolti all’«incivilimento» del contenzio-so fra adulti in contesti di separazione per via giudiziaria; favorisco-no la graduale ripresa di contatti fra le parti nell’interesse dei figli mi-nori. Si sottolinea, al riguardo, anche l’esigenza di migliorare i cosid-detti luoghi neutri di incontro regolato fra adulti e minori, rendendole relative sedi di servizi giudiziari meno scostanti ed asettiche, piùaccoglienti e umane.

Sviluppo di questo approccio è la possibile costituzione di appositiCentri per la famiglia, già presenti in alcune regioni; il Piemonte potrebbeelaborare un suo modello. Diversi da consultori e da servizi di mediazione,questi centri dovrebbero essere ad accesso facile, aperti ai genitori «quandonon sono già in crisi», capaci di dare consigli e risorse per la genitorialità, lavita quotidiana, i bilanci famigliari, la scelta dei servizi sanitari e sociali ecc.

Centri che non presentano carattere assistenziale o precettorale, e non«lavorano» sui sensi di colpa per l’impreparazione a grandi rischi(come nel-le iniziative che «allertano» sui rischi di abuso o maltrattamento): case aper-te a cui i genitori «normali» si possano rivolgere senza sentirsi per forza ina-deguati, per esplorare i possibili aspetti del loro rapporto con i bambini. Nonluoghi per ricevere una assistenza psicologica, ma dove portare e ricevereesperienze di rapporti. Tali Centri per le Famiglie – istituiti dal settore pub-blico, oppure da istituzioni a vocazione privato-sociale – sono adatti a pro-muovere spazi e gruppi di discussione, fuori di un contesto di aiuto diretto,per esplorare questioni generali partendo da esperienze concrete. Anche lascuola potrebbe mettere a disposizione, dei genitori che lo desiderano, sedie facilitatori di discussione. Serve dunque una risposta a quella scarsità dispazi pubblici, dove sia semplice discutere di un problema (l’educazione) acui nessuno può dirsi estraneo.

La cultura sociale

Guardiamo infine ai modi per sviluppare interessi culturali verso i pro-blemi dei bambini, nell’ambito della cultura sociale in senso ampio. Comevi è una esigenza di ascolto a livello micro relazionale, così nella cultura so-ciale occorre comprendere meglio il mutamento avvenuto nella condizione

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infantile, e darne una rappresentazione adeguata, anche per investire inprogetti dotati di senso e di efficacia.

La stessa sequenza delle interviste realizzate ha comportato una attivitàdi ascolto orientata in questa direzione, ed ha consentito di raccogliere uncatalogo di criteri di azione, che si possono disporre nella seguente sequen-za di priorità.

❖ Continuare negli interventi mirati a gruppi e condizioni altamenteproblematici: in particolare, dare sostegno alle famiglie che hannoproblemi gravi (povertà, salute, disabilità); limitare il ricovero in isti-tuti e strutture protette; incrementare l’adozione e l’affidamento;contrastare l’esclusione scolastica precoce.

❖ Incrementare per quantità e qualità i servizi per la prima infanzia (0-3 anni); aumentare l’offerta di figure di supporto famigliare ad acces-so semplice; realizzare interventi di educazione e consulenza «a do-micilio».

❖ Aumentare l’interesse e la discussione pubblica sui processi educativi:attività in comune fra genitori (neomamme), fra genitori e insegnan-ti, centri di consulenza psicologica e relazionale, servizi di mediazio-ne e di ascolto, a sostegno di ruoli e modelli genitoriali, centri per lefamiglie.

Accanto ad azioni che hanno un contenuto definito(ancorché non sem-pre puntualmente prevedibile), le interviste sollecitano di attrezzare la cul-tura sociale diffusa ad un miglior orientamento complessivo verso le pro-blematiche dell’infanzia e dell’adolescenza:

❖ Sensibilizzare sulla persistenza delle tradizioni custodialistiche tuttoraincidenti in Italia (almeno diecimila minori ricoverati in istituto) e sulcarattere alternativo di affidamenti, adozioni, strutture di accoglienza;

❖ Promuovere un senso più positivo della genitorialità oltre i confinidella famiglia «puerocentrica»; l’attenzione al bambino interpella lacondizione adulta in termini di responsabilità e di voglia di crescereinsieme con loro.

È interessante osservare, nelle più giovani generazioni di studenti uni-versitari e di operatori sociali, la ripresa di interesse teorico e professionaleper l’azione verso i bambini. Ciò avviene in un momento storico in cui ibambini sono sempre di meno, e le risorse della politica sociale sembranoprivilegiare altri gruppi (come gli anziani) e altri obiettivi(come la mobilitàdegli adulti sul mercato del lavoro).

9.8 Questioni di diritti

Da ultimo e sullo sfondo si pone una insorgente questione di diritti. Laqualificazione generica di «minori» appare sempre meno adeguata, quandoci si pone fuori di un definito contesto giuridico di tutela, a coprire un ven- 325

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taglio di condizioni, distinte per età, problemi e situazioni di vita quotidia-na, che appaiono portatrici di specifici e differenziati diritti. Diritti la cui de-finizione si è fatta negli ultimi tempi più esplicita e puntuale.

Basti ricordare che nel testo della Costituzione italiana (1948) figurano:«cittadini», «famiglie» (art. 29), «famiglie numerose» (art. 31); «figli» (art.30)», «minori che lavorano» (art. 37). Non «bambini», ancorché l’art. 31/2faccia riferimento alla «protezione della maternità, infanzia e gioventù». Ilbambino viene citato al solo art. 37, ma in riferimento alla «madre lavoratri-ce», ed alle condizioni di lavoro che «devono consentire l’adempimento del-la sua essenziale funzione familiare». Il principio della conciliazione fra in-teressi familiari e di lavoro sarà ripreso nel 1957 dal Trattato di Roma.

La Carta ONU dell’89 ha dato una nuova apertura verso un senso più ge-nerale dei diritti del bambino e dell’adolescente. Su un aspetto specifico (idiritti del bambino ricoverato in ospedale), la sensibilità emerge in prece-denza, visto che è del 1976 la proposta italiana di una Carta dei diritti delbambino ricoverato in ospedale, del 1986 la Carta europea dei bambini de-genti in ospedale. Un aspetto ulteriore – la partecipazione alla vita pubblica– è oggetto della Carta Europea della partecipazione dei giovani alla vita co-munale e regionale, elaborata dal Consiglio d’Europa nel 1990.

La Carta dei diritti dell’Unione Europea approvata a Nizza nel dicembre2000 ha compiuto un ulteriore passo in direzione dei «diritti del bambino».Con un articolo (il 24) che prevede:

❖ diritto alla protezione ed alle cure necessarie per il loro (dei bambini)benessere;

❖ libertà di esprimere la propria opinione; questa «viene presa in con-siderazione sulle questioni che li (bambini) riguardano, in funzionedella loro età e della loro maturità»;

❖ preminenza dell’«interesse superiore del bambino» negli atti com-piuti da autorità pubbliche o da istituzioni private;

❖ diritto di intrattenere relazioni personali e contatti diretti con i duegenitori «qualora ciò non sia contrario al suo interesse».

La rigidità di ogni formulazione normativa appare, su questo terreno,particolarmente evidente. Se si pensa come il «superiore interesse del bam-bino» sia oggetto di difformi interpretazioni in sede giudiziaria e politico-amministrativa, e soprattutto se si considera l’ovvia differenza che separa ildiritto a esprimersi e la capacità effettiva di «essere ascoltati».

Comunque, un più saldo e condiviso riferimento ai diritti potrebbe «co-lorare» quella pedagogia positiva, che oggi, in una situazione complicata ditransizione e difficoltà sia per bambini sia per gli adulti, avverte della neces-sità di percorsi di effettiva inclusione. Di una «pedagogia nera» parla AliceMiller nella sua analisi sulla persecuzione del bambino alle radici della vio-lenza (Miller, 1987, ed.or.1980).Le sofferenze e le umiliazioni, subite nell’in-fanzia, diventano la «ragione» per infliggere ad altri sofferenza ed umiliazio-ne, poiché «ogni comportamento assurdo trova le sue radici nella storia del-la prima infanzia». Nel contempo vi è una evidenza insormontabile nel fat-to che nessuno può cambiare (dopo) il destino della propria infanzia.

Di questo impatto, decisivo per l’intera vita, si ricordano tanto i classicidella letteratura infantile come alcuni scrittori contemporanei: dal «piccolo326

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in coma» di Raymond Carver al bambino «che non ha paura» di NicolòAmmaniti, e perfino quei «Certi bambini» di Diego da Silva, che sono co-stretti a prendere i malavitosi del loro ambiente a modelli di comportamen-to e sopravvivenza. Là dove l’infanzia viene scempiata senza rispetto, pren-de più forza il monito che «nell’interesse dell’umanità intera non si potràgiustificare in alcun modo la mancanza di diritti del bambino» (Miller,op.cit. p. 195). Un monito che è anche un dovere, perché nessuno può dirsi,o chiamarsi, fuori da questo interesse.

Note

1. Gli intervistati nell’ordine sono stati: Sergio LA TERRA MAGGIORE (settore programmazione dell’Assessorato ai servizi so-

ciali della Regione Piemonte).Anna Maria COLELLA (funzionaria Regione Piemonte e docente diritto della famiglia)Silvia TOSCO(responsabile per i programmi legge 285 presso la Provincia di Torino)Frida TONIZZO(assistente sociale presso ANFAA).Giuseppina GANIO MEGO (responsabile dei Centri di Incontro Caritas Torino).Laura MARZIN(responsabile ufficio minori stranieri del Comune di Toron).Graziana CALCAGNO (già procuratore presso il Tribunale dei Minorenni di Torino e

docente di diritto della famiglia).Guido GENINATTI (responsabile cooperativa sociale Esserci e comunità di acco-

glienza La Coccinella).Ivana CONTERNO(dell’Associazione Papa Giovanni XXIII di Fossano).Marilena DELLAVALLE(docente di metodi del servizio sociale. giudice onorario pres-

so il Tribunale dei Minorenni di Torino).Fredo OLIVERO(responsabile pastorale dei migranti Diocesi di Torino).Rita TURINO(dirigente ufficio programmazione assessorato ai servizi sociali del

Comune di Torino).Claudio FABRIS(primario di neonatologia dell’Ospedale Sant’Anna di Torino).Enrico MADON(primario oncologia pediatrica dell’Ospedale Regina Margherita di

Torino).Rosalba GIUGNI(responsabile della struttura di accoglienza Casa dei Bimbi Giovanni

XXIII di Torino).Chiara MUTTINI(docente di pedagogia speciale Università di Torino).Gianna RECCHI(responsabile associazione AREA).Paola ALPHANDERY (psicologa consulente scolastica).Antonina SCOLARO(avvocato civilista. segretaria della sezione piemontese Associa-

zione Italiana Avvocati di Famiglia).Fede CHICCO(psicologa presso Associazione Down).Mirella FLECCHIA (vicepresidente Associazione CePiM).Paola STRADONI (primario di NPI Azienda sanitaria locale 4 di Torino).

2. Le informazioni riguardanti i bambini stranieri sono state commentate nel preceden-te capitolo 8

3. Da non confondere con il disadattamento ambientale o culturale (per provenienza et-nica: bambini marocchini. rom). Tipico il caso del bambino rom che non conosceorario. Il disadattamento ambientale comporta una reazione istituzionale, attraversoprocessi di esclusione o evasione, che non riguardano la sfera dei disturbi di perso-nalità.

4. Viene a proposito quanto osserva Elisabetta Forni autrice del recente La città diBatman, Torino, 2001: «mancano studi ampi sul rapporto fra qualità della vita urba-na e scelta di fare o non fare dei figli, ma è chiaro che le nostre città si identificanosempre di più come luoghi più adatti a singoli o coppie che non hanno figli, o han-no rinviato la decisione di averli».

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PROSPETTIVE

10.1 Il disagio dell’infanzia: osservazioni e pianid’azione nazionali

Solo da alcuni anni, l’infanzia è oggetto di adeguate attenzioni da partedelle istituzioni nazionali e locali. A livello istituzionale, infatti, solo nel 1997si arriva ad avere il primo Piano nazionale sull’infanzia e l’adolescenza,1 co-struito dal Ministero per gli Affari sociali, a cui è seguito nel 2000 il secondoPiano nazionale.2

Il primo Piano indicava le priorità su cui intervenire a breve e medio ter-mine. Una parte significativa del documento è occupata dalle politiche pre-ventive, intese sia in una prospettiva generale (prevenzione del disagio neiminori e promozione dell’agio) sia in una prospettiva specifica (ad es. pre-venzione degli abusi, ecc.). Il primo «Piano d’azione» nasceva sulla scia del-la cultura e delle strategie messe a punto dal «Rapporto sulla condizione deiminori in Italia»3, curato dal Centro Nazionale di documentazione per l’in-fanzia del Dipartimento per gli Affari Sociali. Tre le questioni fondamentali,sulle quali si articolava il Rapporto:

❖ cosa è la qualità della vita dell’infanzia e dell’adolescenza?❖ come devono collocarsi le relative politiche, nel contesto più ampio

delle politiche sociali?❖ che ruolo ha il territorio, nei processi di sviluppo dei soggetti in età

evolutiva?

A livello nazionale è da sottolineare come sia il Piano Sanitario 1998-2000, sia lo Schema di Piano Sanitario 2002-2004 rivestono elevato interes-se; in entrambi i Piani sanitari, infatti, una sezione è dedicata all’età evolu-tiva, ed in particolare ai primi anni di vita.

Nel Piano Sanitario nazionale 1998-2000 si indicano quali obiettivi prio-ritari:

❖ ridurre la mortalità perinatale e infantile almeno all’8 per mille in tut-te le regioni;

❖ prevenire i comportamenti a rischio in età pre-adolescenziale e ado-lescenziale, con riferimento alle lesioni accidentali gravi, alle autole-sioni e alla dipendenza;

❖ prevenire le cause di disabilità mentale, sensoriale e plurima;❖ prevenire i casi di disagio psichico e sociale, dovuto a problematiche

scolastiche, familiari e relazionali, anche in riferimento ad abusi emaltrattamenti;

❖ promuovere la procreazione cosciente e responsabile, tutelando le

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gravidanze a rischio e fornendo un adeguato sostegno alle famiglie;❖ favorire programmi di prevenzione e controllo delle malattie geneti-

che; ❖ monitorare lo stato di salute dell’infanzia, della pre-adolescenza e

dell’adolescenza nella dimensione fisica, psichica e sociale, ancheavvalendosi dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia.

Tra le azioni ipotizzate per raggiungere gli obiettivi vi sono:❖ assicurare interventi preventivi e diagnostici di provata efficacia in

epoca pre e perinatale;❖ attuare interventi per la promozione della salute in età pre-adole-

scenziale e adolescenziale;❖ razionalizzare l’ospedalizzazione in età pediatrica, tenendo conto

delle particolari esigenze della fascia di età cui si rivolge, coordinan-do e integrando l’assistenza con l’offerta di servizi distrettuali, e valo-rizzando il pediatra di famiglia;

❖ potenziare i servizi extraospedalieri, specie quelli a ciclo diurno, pre-posti al recupero dei disturbi neuropsicopatologici e delle limitazio-ni funzionali;

❖ migliorare la qualità umana dei servizi rivolti all’infanzia anche me-diante l’utilizzo appropriato di tecnologie biomediche;

❖ predisporre Linee guida per la gravidanza, il parto, le cure ospedalie-re pediatriche, la pediatria di famiglia e di comunità;

❖ integrare i servizi materno-infantili con quelli socio-assistenziali ededucativi, anche tenendo conto di quanto previsto nel Piano nazio-nale per l’infanzia e l’adolescenza.

Nel Piano 2002-2004 si indicano, invece, quali obiettivi prioritari: ❖ pianificare l’assistenza perinatale attraverso la centralizzazione delle

gravidanze a rischio in Ospedali dotati di Terapia Intensiva Neo-natale;

❖ attivare il Servizio di trasporto di emergenza neonatale in ogniRegione;

❖ ridurre il tasso di ospedalizzazione con l’obiettivo di ridurlo del 10‰per anno;

❖ incrementare l’adozione di strutture socio-sanitarie alternative, qua-li l’ospedalità a domicilio ed in strutture residenziali funzionalmentecollegate con gli Ospedali;

❖ articolare gli interventi di Guardia Pediatrica e di Pronto Soccorso, se-condo un modello interdisciplinare, che sia in grado di differenziare illuogo della accoglienza e della assistenza all’utenza da quello di rico-vero, mediante la creazione, in ogni unità operativa pediatrica, di un’a-rea di osservazione temporanea, opportunamente regolamentata;

❖ diminuire la frequenza dei parti per taglio cesareo, e ridurre le fortidifferenze regionali attualmente esistenti, arrivando entro il triennioad un valore nazionale pari al 20%, in linea con valori medi degli altriPaesi europei, anche tramite una revisione del DRG relativi;

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❖ rendere disponibile in almeno parte delle strutture il cosiddetto par-to indolore;

❖ ottimizzare il numero di punti nascita, riducendone il numero ed in-crementandone la qualità.

10.2 La 285/97: prima e dopo

Nel 1997 è stata approvata la legge 285/97 «Disposizioni per la promo-zione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza»: una risposta,non l’unica e neanche la principale, a questi interrogativi. È una risposta,che, pur considerata la ridotta dotazione economica, ha creato movimento,entusiasmi e speranze nuove, in contesti caratterizzati da stagnazione o re-sidualità delle azioni a sostegno dell’infanzia; e nuove prospettive di speri-mentazione e sviluppo, laddove da anni si è lavorato a favore di bambini efamiglie, nell’ambito dei servizi educativi, sociali e culturali.

Per quanto riguarda la regione Piemonte, occorre rilevare come la Leggen. 285/97 ha completato un quadro di riferimento di politiche a favore del-l’infanzia, che già si caratterizzava per ampiezza e sviluppo.

Di rilievo è stata, nel corso degli anni Novanta, l’attività del Consiglio re-gionale dei minori, istituito con la Legge regionale 31 agosto 1989, n. 55«Istituzione del Consiglio regionale sui problemi dei minori e sostegno di ini-ziative per la tutela dei minori», allo scopo di realizzare e promuovere atti-vità di conoscenza ed indagine; elaborare e promuovere progetti sperimen-tali ed innovativi; favorire il collegamento tra i vari enti ed organismi impe-gnati nel settore della tutela dei minori; fornire documentazione e supportiinformativi ai soggetti pubblici e privati che operano con finalità rivolte aiproblemi dei minori.

Il CRM ha dato vita, per diversi anni, ad un’intensa attività promoziona-le, basata sugli stessi presupposti della legge 285: sviluppo di servizi, inizia-tive e progetti a favore dell’infanzia, in una prospettiva di integrazione del-l’azione degli enti locali, delle istituzioni sanitarie e scolastiche, delle realtàsociali organizzate e delle famiglie.

L’attività del CRM si è concentrata, per i primi anni, sulla predisposizio-ne di un concorso per progetti che ha permesso di premiare alcune delle piùinteressanti ed originali iniziative a livello regionale, molte delle quali nelterritorio dell’area metropolitana torinese.5 Di notevole rilievo, più recente-mente, sono:

❖ la stipula del Protocollo di intesa, nel febbraio 1999, per la diffusionea livello regionale delle azioni di mediazione e riparazione nel setto-re penale minorile, su proposta del Settore Minori della Commis-sione regionale tecnico-consultiva Disadattamento, devianza e cri-minalità;

❖ la produzione – prima regione in Italia – di Linee guida per la segnala-

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zione e la presa in carico dei casi di abuso sessuale e maltrattamento aidanni di minori da parte dei servizi-socio assistenziali e sanitari6;

❖ la promozione, nel 1999, sul territorio piemontese di attività di infor-mazione e sostegno alla maternità e di prevenzione dell’abbandonodi neonati, alla luce dei risultati ottenuti dal Servizio «SOS Donna»,realizzato dalla provincia di Torino;

❖ diverse campagne promozionali ed informative sull’affido familiare.

A livello di area metropolitana torinese è doveroso segnalare la costru-zione ed approvazione da parte della Provincia – Settore ProgrammazioneSolidarietà sociale – dei due Piani triennali attuativi della legge 285/97, en-trambi denominati «Concerto», in quanto sono stati costruiti nella prospet-tiva di attivazione di tutte le realtà territoriali a livello provinciale, promuo-vendo, in modo particolare, la concertazione sia a livello micro-locale (nel-l’ottica della sovra-comunalità), sia a livello provinciale tra i diversi progettilocali.7

Ritornando a livello nazionale, con riferimento al versante della cono-scenza, nel 1997 è approvata anche la legge n. 451 del 23.12.1997 «Istituzionedella Commissione Parlamentare per l’infanzia e dell’Osservatorio nazionaleper l’infanzia», con la quale il legislatore ha ritenuto opportuno dotare ilpaese di strumenti per monitorare la situazione dell’infanzia e dell’adole-scenza, comprendere in itinere i problemi, i bisogni, le esigenze, e delinea-re linee e priorità di indirizzo operativo.

Il secondo Piano di azione è stato costruito, infatti, dall’Osservatorio na-zionale, che ha curato altresì la predisposizione sia del Rapporto 2000 sul-l’infanzia8 sia del Rapporto all’ONU sullo stato dell’infanzia in Italia.9 A dif-ferenza di quanto avvenuto per la legge 285/97, l’attuazione di questa leggeè stata più difficile, non tanto per la parte di attività previste a livello nazio-nale (sia la Commissione Parlamentare sia l’Osservatorio sono stati regolar-mente istituiti ed attivati nella legislatura precedente ed in quella in corso),quanto per la parte di competenza delle regioni, che hanno operato in tem-pi e forme alquanto differenti. Ad oggi solo alcune regioni hanno attivato illoro Osservatorio sull’infanzia (con la produzione dei primi rapporti10 sullostato dell’infanzia); alcune lo hanno in corso di attivazione, in altre la situa-zione è al momento di stasi. In Piemonte l’Osservatorio sull’infanzia è an-cora in fase di attivazione, in coordinamento con l’attività delle province(anche in base alle nuove competenze loro assegnate).

Da parte di soggetti non istituzionali vi sono diverse iniziative di rilievoda segnalare:

❖ l’Associazione Telefono Azzurro in collaborazione con l’Eurispes, haprodotto due Rapporti sulla condizione dell’infanzia in Italia11;

❖ l’UNICEF ha prodotto diversi Rapporti sullo stato dell’infanzia, sen-za, però, un particolare approfondimento della realtà italiana;

❖ il Gruppo di lavoro per la convenzione sui diritti del fanciullo, cheriunisce una serie di organizzazioni del Terzo Settore, ha prodotto un

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Rapporto integrativo alle Nazioni Unite sullo stato dei diritti dell’in-fanzia in Italia12;

❖ la Caritas Nazionale insieme alla Fondazione Zancan di Padova han-no prodotto sinora tre Rapporti sull’emarginazione e l’esclusione so-ciale, dei quali il terzo è interamente dedicato al disagio connesso aicontesti familiari13.

Il quadro dell’analisi delle condizioni di vita dell’infanzia si presenta,quindi, ricco di soggetti e di punti di vista differenti, dai quali si osservanol’infanzia e le sue problematiche. Ovviamente ciascuno dei soggetti ha po-sto l’accento su alcune tematiche in particolare, o su alcune fasce d’età. Tuttiquesti Rapporti propongono analisi riferite generalmente al quadro nazio-nale, con rari approfondimenti a livelli territoriali più limitati.14

10.3 Disagi tradizionali e risposte innovative

Insieme ai molti aspetti positivi e di sviluppo sociale ed economico cheil Paese evidenzia crescono e si modificano i problemi sociali: a quelli tradi-zionali (povertà, disoccupazione, mancanza di case, malattie, tossicodipen-denza, alcoolismo, criminalità), si aggiungono nuove problematiche, chepresentano, sovente, una dimensione di ambivalenza.

Alcuni esempi: l’aumento di separazioni tra coniugi o conviventi, so-vente conflittuali; l’aumento di popolazione straniera con la difficoltà di in-tegrazione culturale e sociale; il diffondersi di nuove malattie (l’AIDS); l’in-vecchiamento e la denatalità; lo spostamento delle famiglie alla ricerca dicontesti di vita più adeguati e il conseguente aumento del traffico da e perla città.

Sono problematiche che, sempre più, accomunano le città, di là dellaposizione geografica, della grandezza, delle specifiche condizioni economi-co-sociali. Non sorprende che in un periodo di globalizzazione, economicae culturale, anche le problematiche sociali tendano a diventare comuni econdivise. Sempre più, infatti, i piccoli centri vivono problematiche similaria quelle delle grandi città e sempre più le realtà territoriali si assomigliano: iconfini, sotto questo profilo, riescono poco a separare, e preservare, am-bienti e culture.

Tutti i mutamenti e le problematiche, cui si è accennato, riguardano gliadulti, ma quando essi vivono in una famiglia, e con loro vivono dei bambi-ni, questi ultimi sono i soggetti su cui i mutamenti sociali producono im-mediati effetti, sovente senza possibilità di adeguate «difese». Pur senza vo-lerlo, una famiglia povera, con adulti che vivono il problema delle dipen-denze, o costantemente alla ricerca di lavoro, o nella quale uno o più deisuoi componenti sono malati da curare, incide in modo forte sulla qualitàdella vita dei propri bambini: diminuzione delle attenzioni e cure, aumentodei conflitti, calo della serenità, diminuzione della capacità di far fronte adeventi critici, aumento dei maltrattamenti, ecc. Il disagio dei bambini – a

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sua volta - provoca ulteriori fatiche alla famiglia, che già vive una situazionedi disagio, rende critici i rapporti con il mondo esterno e modifica le dina-miche intra-familiari.

A fianco dei disagi tradizionali, connessi alle deboli e fragili condizionisociali ed economiche del nucleo familiare od alla multiproblematicità del-le famiglie, oggi vanno emergendo nuovi disagi nei bambini: stress da situa-zioni familiari sempre più complesse, stress da sostituzione delle figure ge-nitoriali assenti, da sovraccarico di impegni, solitudine per il tanto tempotrascorso in casa da soli, esagerate forme di consumismo, ecc.

I contesti che maggiormente sono investiti dei disagi, vecchi e nuovi deibambini, sono la scuola ed i servizi sociali.

La scuola si confronta per prima (sin dall’asilo nido) con bambini in cuiil disagio determina maggiori difficoltà di apprendimento, socializzazione,relazione, con la scuola, gli insegnanti, le regole. Il disagio dei bambini com-porta sovente anche maggiori difficoltà nelle relazioni tra genitori e inse-gnanti: incomprensioni, conflitti, scarsa comunicazione, accuse, sono al-l’ordine del giorno.

Anche sui Servizi sociali ricadono gli effetti dei mutamenti, nella formadi problemi a cui essi debbono dare risposta (o, perlomeno, dai quali le fa-miglie si attendono una risposta, spesso risolutiva): sussidi economici persopravvivere, operatori e servizi presso cui appoggiarsi, cure adeguate per ipropri figli, ecc. Il sistema dei servizi sociali ed educativi, in altri termini, do-vrebbe essere in grado di rispondere ad una gamma estremamente variega-ta di situazioni problematiche vissute dai bambini, in tempi sempre più bre-vi e nelle forme più diverse. Al sistema dei servizi sociali sono richieste fles-sibilità, intuizione, creatività, capacità di adattamento, innovazione, qualità,ecc. Inoltre la capacità di lavorare in rete in modo integrato, al fine di svi-luppare nel migliore dei modi la funzione di osservazione e diagnosi preco-ce dei disagi nell’infanzia, valorizzare le competenze e le risorse di ciascunaistituzione e organizzazione sociale operante nel contesto.

Una risposta alle difficoltà crescenti del vivere di famiglie e bambini è ri-chiesta anche a soggetti non istituzionali, quali le associazioni, le coopera-tive, le fondazioni, ecc. Per quanto riguarda le cooperative sociali il riferi-mento è quasi sempre a politiche pubbliche, con servizi gestiti in regime diesternalizzazione. Diversa è la situazione delle associazioni, che si rappor-tano a problemi e bisogni sociali nuovi, con interventi rapidi e flessibili. Lagamma di esperienze associative è andata progressivamente ampliandosi,al punto che molto spesso esse anticipano le risposte delle istituzioni, piùlente a muoversi e a diversificare il proprio agire.

Anche per quanto riguarda le problematiche dell’infanzia, l’associazio-nismo volontario è uno dei modi più diffusi di risposta: si pensi alle molteassociazioni che si costituiscono dall’emergere e diffondersi di una malattiainfantile, più o meno rara, piuttosto che dall’emergere di bisogni di cura, olegati al tempo libero. Al mondo delle associazioni oggi si guarda come aduna grande opportunità di sviluppo delle politiche sociali, soprattuttoquando ad entrare in campo sono le stesse famiglie. Alle associazioni sichiede di saper intervenire in modo rapido ed innovativo, ma anche di for-nire quei servizi e prestazioni che il sistema dei servizi pubblici non riescepienamente a garantire. 333

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10.4 La realtà torinese

Nel panorama italiano e piemontese il lavoro di ricerca promosso dallaFondazione Paideia di Torino costituisce, quindi, un’esperienza originale,sia per il contenuto sia per le modalità di ricerca utilizzate:

❖ lo studio riguarda non tanto la condizione dell’infanzia e dell’adole-scenza nel suo complesso, ma le tematiche del disagio che emergonoper la fascia infantile e adolescenziale, con riferimento alla realtà del-la città di Torino e dell’area metropolitana torinese;

❖ sul piano metodologico, il lavoro di ricerca è stato condotto essen-zialmente dal punto di vista degli operatori dei servizi, chiamati araccogliere e ordinare dati, e ad esprimere il proprio punto di vista,analitico e progettuale.

È difficile rispondere all’interrogativo di quanto la situazione dell’infan-zia torinese sia simile o meno a quella di altre città di grandi dimensioni edaree metropolitane: ricerche comparabili non esistono. Vi sono alcuni lavo-ri, a Roma, Milano, Napoli o Genova, che prendono in esame il tema del di-sagio, soprattutto in riferimento alla fascia adolescenziale o giovanile, o suaspetti specifici, quali l’abuso, il maltrattamento, le dipendenze, ecc.

Una possibilità di procedere nella direzione di uno sguardo complessivocome quello adottato nella ricerca Paideia dovrebbe, nei prossimi anni, es-sere assicurata nelle grandi città (le quattordici città riservatarie previstenella legge n. 285/97) dall’attivazione di Osservatori sull’infanzia, come è giàavvenuto nella città di Roma.15 Le Province piemontesi hanno raccolto datiin vista della costruzione del secondo Piano triennale l. 285/97, con atten-zione alla condizione di tutta la fascia minorile 0-17 anni.16 Tra questi lavo-ri emerge lo studio realizzato dalla Provincia di Torino17, che riguarda esclu-sivamente la situazione dei minori in provincia, e non considera la situazio-ne della città di Torino.

Il Rapporto di Paideia sull’area torinese mette in luce un «volto» nasco-sto dell’infanzia, usualmente non preso in grande considerazione, se nonnei casi eclatanti su cui i mass media concentrano le loro attenzioni: il vol-to dei bambini malati, poveri, abusati, maltrattati, violenti, abbandonati. Èil volto di una sofferenza, che matura, come viene sottolineato, sovente percause del tutto indipendenti dalla volontà dei bambini stessi. La gamma dimodalità con cui il disagio si esprime è ampia, e le problematiche si presen-tano con livelli diversi di gravità; ogni forma del disagio contiene elementidi specificità ma, come la rilevazione ha permesso di cogliere, vi sono anchetrasversalità e connessioni fra i diversi ambiti di vita (la famiglia, la scuola,la salute, il territorio, l’immigrazione).

Il Rapporto, inoltre, offre dati ed analisi anche sul sistema dei servizi, de-scritto con puntigliosa precisione, soprattutto per quanto riguarda la diffe-renziata tipologia degli interventi. Anche sotto questo profilo, emerge un’e-strema varietà di soggetti in gioco, istituzionali e non, che operano nel terri-torio torinese, per prevenire, curare, riabilitare, sostenere i bambini che sof-frono esperienze di disagio e le loro famiglie. Questi dati confermano dueaspetti di fondo del «Laboratorio aperto torinese».334

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❖ La città e l’area metropolitana hanno vissuto un’evoluzione di tipoeconomico-sociale e culturale, che ha sempre avuto conseguenze sul-la genesi e sviluppo di situazioni di disagio. La città e l’area metropo-litana sono attraversate da profonde tensioni, che portano ad imma-ginare una città molto diversa da quella storicamente conosciuta, ma,al contempo, fanno emergere nuovi problemi e bisogni, mentre alcu-ni problemi e bisogni vecchi si modificano e trovano nuove espressio-ni. Ovviamente, nell’area minorile sono evidenti – anche per quanto ilRapporto mette in luce – le ricadute sull’infanzia dei problemi con-nessi alle nuove povertà economiche e sociali. L’attenzione deve esse-re concentrata, ad esempio: a) sulle famiglie multiproblematiche e suiminori stranieri, sui problemi connessi allo sfaldamento dei nuclei fa-miliari (notevole il dato di un terzo dei minori a carico dei presidi so-cio-assistenziali, che sono figli di genitori separati); b) sui problemiconnessi al diffondersi delle dipendenze tra gli adulti, e tra i giovani inspecifico (tendenza condivisa sostanzialmente a livello europeo18),con le ricadute sull’infanzia in fase neonatale (nascite in Sindrome diastinenza, provvedimenti di apertura dello stato di adottabilità, allon-tanamento e affidamento); c) sui problemi connessi all’abuso ed almaltrattamento intra ed extrafamiliare; d) sul problema della pedofi-lia (anche con le connessioni relative alle nuove tecnologie); e) sulproblema dell’uso sempre più frequente della violenza, come «stru-mento» per risolvere conflitti e affermarsi.

❖ La città e l’area metropolitana hanno svolto in Italia un costante rife-rimento per le politiche sociali a favore dell’infanzia. Sono molte, in-fatti, le modalità di risposta oggi diffuse in molte città italiane, che aTorino hanno visto la loro nascita e consolidamento, così come mol-te sono le intuizioni in ordine a nuovi bisogni sociali, rispetto ai qua-li la città ha cercato di intervenire. Il Rapporto permette di cogliere laconsistente dimensione del sistema dei servizi e interventi a favoredell’infanzia in situazione di disagio, che denotano una capacità diinvestimento a favore dell’infanzia di notevole portata, sia in riferi-mento all’impegno diretto delle amministrazioni sia in riferimentoall’impegno delle reti di solidarietà sociale. Rare risultano, infatti, lesituazioni infantili «problematiche», che appaiono «scoperte», cioèsenza servizi od iniziative, pubbliche e private, che provano a dare ri-sposte a bambini e famiglie.

10.5 Scenari in evoluzione

La famiglia, l’infanzia ed il sistema dei servizi sociali e scolastici sono in-teressati, dalla fine degli anni novanta, da profonde modificazioni del siste-ma normativo tuttora in corso.

Oltre alle leggi, già menzionate, occorre ricordare:

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❖ la Legge quadro sull’handicap n. 104/1992, e le successive modifiche,con la Legge 162/98 e 17/99;

❖ la Legge n. 269, del 3.8.1998 «Norme contro lo sfruttamento della pro-stituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno dei mino-ri, quali nuove forme di riduzione in schiavitù»;

❖ la riforma dell’adozione internazionale, con la Legge 31 dicembre1998, n. 476;

❖ la Legge 9/99 di elevamento dell’obbligo scolastico;❖ la Legge 53/00 Disposizioni per il sostegno alla maternità ed alla pa-

ternità;❖ la riforma dei servizi sociali, con la Legge 8 novembre 2000, n. 328

«Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi eservizi sociali», che deve ancora trovare piena realizzazione in tutte leregioni con le leggi di recepimento e programmazione;

❖ la riforma dell’adozione e dell’affidamento, con la Legge n. 149/2001;❖ la sperimentazione del reddito minimo di inserimento previsto dal

D.Lgs. n. 237/9819;❖ la riforma della scuola con il passaggio ad un regime di autonomia.

Per sottolineare l’attivismo legislativo del periodo, occorre anche consi-derare altre riforme in cantiere, attualmente in fase di discussione parla-mentare, che investono il settore delle politiche sociali, educative, scolasti-che e socio-economiche:

❖ la riforma dei nidi;❖ la riforma scolastica, per quanto riguarda l’età di ingresso a scuola, la

costituzione dei cicli scolastici, i passaggi tra cicli; ❖ la nuova Legge sull’immigrazione;❖ la nuova Legge sulle separazioni, per quanto riguarda l’affidamento

dei figli (che dovrebbe essere congiunto, salvo casi particolari); ❖ la riforma della giustizia minorile, con l’ipotesi di passaggio di tutte le

competenze dell’attuale Tribunale per i minorenni a sezioni specia-lizzate del Tribunale Ordinario.

Inevitabili conseguenze sui minori avranno anche, per tutte le famiglie esoprattutto per quelle caratterizzate da povertà (ad esempio con uno o piùadulti in situazione di disoccupazione cronica o improvvisa), la riforma delmercato del lavoro, per quanto riguarda il sistema degli ammortizzatori so-ciali, e la riforma fiscale, con la rideterminazione delle aliquote.

Le enunciazioni recenti del Ministero del Welfare confermano il fatto chela dimensione famigliare è posta al centro delle politiche sociali: sono stateannunciate, infatti, le ipotesi di costituire un network nazionale, per la crea-zione di una rete di rilevamento dei bisogni delle famiglie; di ripartire fondiper la creazione di asili nido; di predisporre un Piano di sostegno alla fami-glia, soprattutto alle giovani coppie sposate, con incentivi per favorire l’ac-quisto della prima casa, ma anche la natalità.

Nella sostanza, il quadro complessivo delle politiche sociali è in profon-

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do mutamento, e nell’arco dei prossimi anni dovrebbe completarsi soprat-tutto a livello delle singole regioni, le quali si trovano oggi di fronte alla pos-sibilità – conseguente alle modifiche al Capo V della Costituzione che han-no ridefinito i poteri tra gli organi ed i livelli dello Stato, riconoscendo ilprincipio di sussidiarietà come principio base – di proporsi seriamente conuna politica sociale frutto delle proprie analisi, scelte, e risorse.

Due sono le preoccupazioni che attualmente si segnalano.In primo luogo, che lo sviluppo di un assetto più federale determini

maggiori squilibri sul territorio nazionale, negli assetti delle politiche socia-li e dei servizi a favore delle famiglie e dei bambini. In altri termini, si temedi arrivare a situazioni regionali caratterizzate da forti investimenti nei set-tori sociali, educativi e culturali, e altre regioni caratterizzate da scarsi inve-stimenti. In questo modo, verrebbero meno le possibilità di tutelare i dirittidi tutti i bambini su una base di cittadinanza sociale nazionale.

In secondo luogo, cresce la preoccupazione per uno sviluppo disorgani-co nel campo delle politiche a favore delle famiglie e dell’infanzia. I provve-dimenti assunti nella precedente legislatura, che hanno caratterizzato per laprima volta nel nostro paese una reale attenzione alle problematiche fami-liari, andrebbero completati da altri provvedimenti coerenti con i primi. Ilrischio, invece, è di scelte legislative, che in parte garantiscono continuità,ed in parte introducono elementi di discontinuità e rottura in un orienta-mento appena avviato.

10.6 Dall’analisi alla progettazione: esigenze di sviluppo

Nelle singole aree tematiche del Rapporto, nell’analisi delle interviste atestimoni significativi e nel contributo conclusivo, sono evidenziate le esi-genze di sviluppo, sul piano quantitativo e qualitativo, dell’offerta del siste-ma dei servizi.

In questa parte le idee e le suggestioni raccolte sono ripresentate da unadiversa prospettiva: l’attenzione è posta alle diverse fasce d’età dei soggettied ai diversi contesti. In particolare le proposte sono articolate in riferimen-to alla prima infanzia, alla fase prescolare e scolare, alla famiglia, e al conte-sto territoriale nel suo complesso, con riferimento ad obiettivi di migliora-mento del sistema.

Area prima infanziaLa dimensione principale, che emerge in tutti i contributi, è la necessità,

che, alla luce delle tendenze demografiche ormai ampiamente note apparesempre più rilevante e consapevole, di dover sostenere le famiglie nel primoperiodo di vita dei figli (o del figlio).

L’innalzamento culturale delle più giovani generazioni, unitamente alfatto che il primo figlio è generato ad un’età non più giovanissima dei geni-tori (più vicina ai trenta che ai venti), dovrebbero permettere di immagina- 337

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re un maggior grado di maturità ed equilibrio dei genitori, ed una maggiorcapacità di reggere le criticità della cura e della crescita. In realtà, se è veroche questi elementi sono ormai abbastanza consolidati, è vero anche cheper molte famiglie si è progressivamente ridotto l’apporto della rete familia-re naturale (a causa, ad esempio, della separazione dai propri nuclei d’origi-ne e delle distanze rilevanti dall’abitazione dei propri genitori o di altri fa-miliari). Inoltre, in molti contesti territoriali, è sempre più forte la tendenzaa fare a meno dell’apporto della propria famiglia d’origine.

Nella sostanza, salvo quelle situazioni nelle quali rimane stretto il rap-porto con la/le propria/e famiglia/e d’origine (che, spesso, è anche genera-trice di problemi, quali la dipendenza dai nonni, il conflitto educativo geni-tori/nonni, l’intromissione nella propria vita di coppia...), molte giovanicoppie vivono senza supporti l’esperienza della genitorialità.

In una situazione di questo tipo ogni problema diventa grande, ogni dif-ficoltà s’ingigantisce e, quanto più mancano i supporti, tanto più si tende aricorrere alle poche opportunità esistenti nel territorio. È il caso ad esempio,evidenziato nel Rapporto, dell’uso improprio del Pronto soccorso nel primoanno di vita dei bambini.

Le difficoltà, tendenzialmente, aumentano laddove s’incontrano alcunetipologie di famiglia:

❖ la situazione di famiglia monogenitoriale (quasi sempre la situazioneè madre-figlio/i), indubbiamente determina, per l’unico genitore,l’impossibilità di condividere un carico di responsabilità e preoccu-pazioni a cui si deve far fronte da soli;

❖ la situazione di famiglia «normalmente» costituita, nella quale, perscelta o per necessità, entrambi i genitori lavorano, pone l’inevitabi-le esigenza di sostegno alle cure primarie, principalmente l’esigenzadi accudimento del/i figlio/i nell’orario di lavoro dei genitori, chenon sempre è soddisfatta da servizi pubblici, vista la cronica man-canza di nidi ed i costi elevati degli stessi;

❖ la situazione di famiglie variamente costituite a seguito di separazio-ni dei nuclei primari, determina presenze diverse dei genitori, con ri-cadute sulla cura dei figli, che hanno le stesse caratteristiche eviden-ziate per le prime due tipologie. Ad esempio la famiglia ricostituita,nella quale la coppia adulta non convive, ma ciascuno dei due man-tiene la propria abitazione ed i propri ritmi di vita; oppure la famigliaricostituita, con ciascuno dei due adulti che porta figli della/e prece-dente/i esperienze familiari, sovente di età diverse, ecc.

Sono queste ragioni che possono spiegare le forti richieste, contenute indiversi passaggi del Rapporto, di aumentare le attività di sostegno alla fami-glia che genera figli, soprattutto nei loro primi anni di vita. In particolare, leesigenze emerse sono di:

❖ accrescere la disponibilità e l’accessibilità di interventi educativi nel-la prima infanzia, sia nella forma dei nidi sia di strutture alternativeai nidi tradizionali (baby parking, nidi condominiali, nidi nei posti dilavoro, ecc.);338

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❖ accrescere la competenza dei genitori rispetto alla cura dei figli pic-coli, investendo sull’educazione sanitaria, per ridurre la quantità dirichieste improprie al servizio sanitario, soprattutto nel primo annodi vita dei bambini;

❖ accrescere la dotazione di punti di riferimento e sostegno, anche informe nuove (ad es. gruppi di genitori, sostegni individualizzati trafamiglie, linee telefoniche, siti internet, ecc.), al fine di permettere aigenitori di condividere preoccupazioni, dubbi e incertezze legate al-la cura dei figli;

❖ accrescere gli interventi di sostegno e cura a domicilio, nei primi an-ni di vita, sia sul versante sociale sia sanitario. In una prospettiva diaiuto concreto specialistico, laddove malattie od handicap determi-nano già un disagio del bambino e della famiglia. In una prospettivapreventiva: per garantire diagnosi precoci di disturbi o disagi, soste-nere i genitori nel loro compito e creare un rapporto di fiducia in ope-ratori e servizi, che potranno essere riconosciuti come riferimentoanche in anni successivi, qualora emergano ulteriori criticità o ne-cessità, relative alla salute e all’educazione dei figli;

❖ accrescere e qualificare la funzione dei pediatri e dei consultori, inuna prospettiva di rete con gli altri servizi, al fine di incentivare lo svi-luppo di una funzione diagnostica e preventiva (rispetto ad abusi,maltrattamenti o disagi in generale dei bambini).

Area prescolare e di scolarizzazione di basePer quanto riguarda la fascia d’età dai quattro ai dieci anni, gli elementi

raccolti indicano una forte presenza della scuola (sia essa materna o ele-mentare) nella vita dei bambini e delle famiglie. Centralità che non attienesolamente agli aspetti didattici: nella scuola infatti le famiglie trovano un in-terlocutore che sovente è in grado di dialogare, in ordine alle esigenze di cre-scita dei bambini, e in ordine alle problematiche che essi vivono.

La scuola rappresenta, anche, uno dei principali luoghi di prevenzione:può svolgere in modo adeguato una funzione di osservazione dei segnalidi disagio, e può svolgere una funzione di sostegno educativo al ruolo del-la famiglia.

Un secondo ambito relazionale, che comincia a crescere d’importanzain questa fascia d’età, è quello del tempo libero, rispetto al quale sovente èsegnalata l’assenza di proposte adeguate e serie di tipo pubblico. La conse-guenza è che le famiglie sono lasciate a scegliere fra innumerevoli propostedel privato, non profit o di mercato. L’assenza, in molti paesi, di bibliotechespecializzate per bambini, di ludoteche, di spazi di gioco libero, o semplice-mente per fare festa, riducono notevolmente gli spazi di crescita e socializ-zazione dei bambini. In ordine a ciò, un’alleanza tra scuole e territorio èsempre più auspicata, al fine di garantire un pieno utilizzo delle strutturescolastiche anche nel tempo di extrascuola, e garantire opportunità di so-cializzazione e educazione, utili ad integrare il tempo scuola.

Nell’ambito dei servizi socio-sanitari, le indicazioni raccolte evidenzia-no tre necessità in modo rilevante:

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❖ attivare opportunità di sostegno psicologico, continuative nel tempo,per genitori di bambini con malattie croniche, sia in ospedale sia fuo-ri dall’ospedale;

❖ attivare opportunità di integrazione nel tempo libero per i bambinidisabili, in modo da evitare che l’integrazione avvenga solo nelle au-le di scuola;

❖ migliorare la capacità della scuola di diagnosticare situazioni di possi-bile disagio nei bambini sino a dieci anni, e migliorare la qualità del-l’integrazione tra scuola, servizio sociale di base e servizi specialistici(NPI). Così da poter considerare attentamente i segnali raccolti e co-struire azioni efficaci di supporto al minore ed alla sua famiglia, coninterventi a domicilio, e con interventi specialistici presso servizi ter-ritoriali, nonché per valutare le situazioni da segnalare alla Procuradella Repubblica presso il Tribunale per i minorenni (quelle in cui il li-vello di disagio richiede interventi espliciti a tutela del minore).

FamigliaLa famiglia è al centro delle analisi compiute nel Rapporto, sia quando è

intesa come contesto in cui cresce e si sviluppa il disagio del bambino, siaquando è intesa come soggetto che si fa carico in modo rilevante del disagioo del malessere fisico del proprio figlio.

In entrambe le situazioni, la famiglia resta sovente sola, di fronte alle dif-ficoltà, e alle crisi che si trova a vivere. Va detto che sovente la famiglia nonè preparata a comprendere ed accettare il disagio nei propri figli e questoporta, a volte, a comportamenti di rifiuto ed opposizione, verso i servizi, eanche verso la scuola, quando gli insegnanti «si permettono» di segnalaredifficoltà od esigenze particolari del bambino.

Nel complesso, tutto il Rapporto evidenzia la necessità di considerare lafamiglia come il principale destinatario delle politiche di prevenzione deldisagio minorile, e di sostegno laddove il disagio già si è espresso in qualcheforma. Contestualmente all’intervento psicologico, educativo o sanitarioverso il bambino malato, sempre più si evidenzia la necessità di un lavorocon i genitori, per renderli, in ogni caso, parte integrante dell’intervento.

Da ultimo si evidenzia la necessità che la famiglia non sia solo soggettodestinatario degli interventi, ma sempre più protagonista. In questa direzio-ne può essere utile sollecitare, promuovere e valorizzare le forme di associa-zionismo familiare, così come in diverse regioni sta avvenendo, anche conl’adozione di provvedimenti normativi specifici.20

Più in dettaglio, le esigenze emerse sono le seguenti:

❖ promuovere e sviluppare la domiciliarità, come strategia centraledell’intervento sociale in età infantile;

❖ promuovere ed attivare la costruzione di gruppi di auto-aiuto tra ge-nitori (ad esempio di genitori con figli in affido), per incentivare il so-stegno tra pari;

❖ promuovere lo sviluppo di centri per le famiglie, in grado di interagi-re con le famiglie;

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❖ promuovere forme di reciprocità di vicinato, in modo da ridurre la di-mensione di solitudine vissuta da molte famiglie, soprattutto con fi-gli piccoli;

❖ promuovere lo sviluppo di interventi di sollievo nei confronti di fa-miglie con figli disabili o con malattie croniche, che permettano lorodi «riprendere il fiato» e allentare la tensione della cura costante chedeve essere assicurata ai figli;

❖ promuovere opportunità di formazione all’educazione sin dalla gra-vidanza, in modo da accrescere il livello di consapevolezza sul ruoloe le funzioni educative, e rendere possibile il confronto tra famigliesui piccoli problemi della vita quotidiana;

❖ promuovere ed incentivare l’attivazione di luoghi e spazi di media-zione familiare, sia quando è in corso una separazione e anche quan-do non è in corso.

Territorio e comunità: istituzioni, terzo settore e famiglie Molti sono gli aspetti problematici su cui istituzioni e soggetti del terri-

torio sono chiamati ad esercitare attenzione, al fine di attuare le indicazioniprecedentemente espresse.

Un punto centrale, come già evidenziato, è costituito dalla nuova pro-grammazione regionale e locale. Nelle legislazioni regionali, attuative dellalegge n. 328, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di inter-venti e servizi sociali, ogni regione indica i propri principi guida ed i criteriregolativi delle proprie politiche sociali, nonché dell’integrazione tra socia-le e sanitario.

La costruzione dei Piani di zona, in questa prospettiva, diventa momen-to centrale di sviluppo di tutta la politica sociale, per quanto riguarda l’indi-viduazione delle esigenze della popolazione e la scelta delle priorità su cuioperare; per quanto riguarda lo sviluppo dell’integrazione tra istituzioni, eper il reale coinvolgimento di soggetti della società civile (volontariato, as-sociazionismo sociale, associazionismo familiare, associazionismo di uten-ti, ecc.).

Le proposte che seguono si collocano nello scenario di costruzione deiPiani di zona, e avanzano ipotesi di confronto e scambio, tra amministra-zioni locali, istituzioni pubbliche e soggetti della società civile, che possonoaffiancare il momento specifico della programmazione sociale triennale.Con una annotazione necessaria: i dati raccolti nel Rapporto Paideia sul di-sagio dei bambini spaziano dal comparto sanitario a quello sociale a quelloscolastico-formativo. Ugualmente, le proposte si muovono in tutte questetre direzioni, evidenziando la necessità, ancora una volta, di promuovereuna stretta interrelazione tra le programmazioni in questi tre ambiti.

In specifico le raccomandazioni circa possibili strategie di intervento eorientamento operativo sono le seguenti:

❖ attivare un osservatorio sul disagio infantile a livello metropolitano,valorizzando e costruendo reti tra le esperienze di «osservatori» giàoperanti nel territorio;

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❖ attivare iniziative di carattere informativo e sensibilizzativo sulla di-sabilità, in modo da rendere meno difficile l’integrazione;

❖ promuovere campagne tra i pediatri, e negli ospedali, per ridurre il ri-corso incongruo al pronto soccorso, e per incentivare l’utilizzo di dia-gnostica a livello di servizi territoriali, invece che tramite ricoveroospedaliero;

❖ migliorare l’integrazione tra aziende sanitarie ed amministrazionicomunali, in modo da rendere coerente l’azione a favore delle fami-glie e dei minori;

❖ promuovere campagne di informazione e sensibilizzazione, per favo-rire la nascita dei primi figli all’interno di famiglie mediamente piùgiovani;

❖ ripensare, con il coinvolgimento dei servizi territoriali, delle ASL, delTribunale per i minorenni e delle organizzazioni sociali e familiari, iservizi di tutela; per come essi oggi possono svilupparsi, e soprattut-to per come possono garantire il diritto del minore a vivere nella pro-pria famiglia, o a ritornarvi a vivere, dopo un eventuale periodo di al-lontanamento;

❖ ripensare i rapporti tra servizi e Autorità giudiziaria minorile in mo-do da rendere la giustizia minorile vicina alle famiglie, sia territorial-mente, sia nei tempi delle decisioni;

❖ sviluppare, a livello metropolitano, una riflessione sugli strumentiper fronteggiare la povertà, e verificare la possibilità di costruire unpatto territoriale di lotta alla povertà, con l’intento di rendere piùcoerenti gli strumenti adottati, per ridurre in estensione e in gravitàlo stato di povertà delle famiglie e dei minori;

❖ coinvolgere nella costruzione dei piani di zona soggetti economici enon profit, non solo per accrescere le risorse a disposizione, ma percostruire alleanze e sinergie tra soggetti diversi intorno all’obiettivocomune: il benessere, la salute e la sicurezza dei bambini e delle fa-miglie.

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Note

1. Presidenza del Consiglio Dipartimento affari sociali (1997), Piano d’azione per l’in-fanzia e l’adolescenza 1997-1998, Roma.

2. Presidenza del Consiglio Dipartimento affari sociali – Osservatorio nazionale per l’in-fanzia e l’adolescenza (2000), Piano nazionale d’azione e di interventi per la tuteladei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva 2000-2001, Roma.

3. Presidenza del Consiglio dei Ministeri, Dipartimento per gli affari sociali (1997), Unvolto o una maschera? I percorsi di costruzione dell’identità. Rapporto 1997 sullacondizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, Firenze.

4. Informazioni sullo stato di attuazione della legge sono reperibili nei seguenti testi: -ASTER-X (1999), Primo Rapporto sullo stato della progettualità della legge 285.

Analisi dei Piani territoriali di intervento per la realizzazione dei diritti dell’in-fanzia, Bologna.

– ASTER-X (2000), Secondo Rapporto ASTER-X. La pianificazione territoriale integra-ta: nodi critici e soluzioni individuate nella fase di avvio della legge, Bologna.

– Centro nazionale di documentazione e analisi sull’infanzia e l’adolescenza (2000),Quindici città in gioco, Istituto degli Innocenti, Firenze.

– Centro nazionale di documentazione e analisi sull’infanzia e l’adolescenza (2001),I progetti nel 2000. Lo stato di attuazione della legge 285/97, Istituto degliInnocenti, Firenze.

– Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per gli Affari Sociali (1999),Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge n. 285/97 – Anno1999, Roma.

5. Cfr. AA.VV., Prevenzione e promozione in Piemonte. Due volumi, Regione Piemonte,Torino 2002. Su una esperienza pilota, v. Giulio Ameglio, Claudio Caffarena, IConsigli comunali dei ragazzi. Come stimolare la partecipazione dei giovani,Erickson, Trento, 2002.

6. Deliberazione della Giunta regionale 2 maggio 2000, n. 42 - 299977. Cfr. Provincia di Torino, Concerto Primo Piano territoriale per l’infanzia e l’adole-

scenza e Secondo Piano territoriale per l’infanzia e l’adolescenza. Materiali di questiPiani sono disponibili nel sito www.provincia.torino.it

8. Centro nazionale di documentazione e analisi sull’infanzia e l’adolescenza (2001),Non solo sfruttati o violenti. Rapporto sulla condizione dell’infanzia in Italia, Istitutodegli Innocenti, Firenze.

9. Cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministeri, Dipartimento per gli affari socialiOsservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, Centro nazionale di documen-tazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza (1999), I diritti attuati. Rapporto alleNazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, Roma.

10. A questo proposito si possono consultare i primi rapporti delle Regioni Umbria(Infanzia in Umbria 2002), Friuli Venezia Giulia (Rapporto sulla condizione dell’in-fanzia e adolescenza 2000), Veneto (Il minore tutelato 2000), Toscana (La condizio-ne dei minori in Toscana 2001), Marche (L’infanzia e adolescenza nelle Marche2001), Lazio (Rapporto su infanzia e adolescenza 2001) ed Abruzzo (I servizi per l’in-fanzia e l’adolescenza 2001; Un sistema che cresce 2002).

11. Eurispes Telefono azzurro, 1° Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia edella preadolescenza, Roma 1999; Eurispes Telefono azzurro, 2° Rapporto sulla con-dizione dell’infanzia, della preadolescenza e dell’adolescenza, Roma 2001.

12. Gruppo di lavoro per la convenzione sui diritti del fanciullo, I diritti dell’infanzia edell’adolescenza in Italia. La prospettiva del terzo settore. Rapporto supplementarealle Nazioni Unite, Roma 2001

13. Caritas Italiana e Fondazione Zancan, La rete spezzata. Rapporto su emarginazione edisagio nei contesti familiari, Feltrinelli, Milano 2000.

14. In questa sede non sono prese in esame iniziative di analisi e ricerca sulla condizio-ne di vita dell’infanzia e dell’adolescenza a livello locale, di singoli comuni o distrettisociali, che in questi ultimi anni, anche grazie alla legge 285/97, hanno visto un no-tevole sviluppo. Informazioni su questo tipo di documentazione è possibile reperirlenella Banca dati del Centro nazionale di documentazione per l’infanzia e l’adole-scenza, con possibilità di consultazione online, al sito www.minori.it. Due sole se-gnalazioni di ricerche condotte in aree del Piemonte per l’ampiezza dei dati (quanti-tativi e qualitativi) che mettono a disposizione: B. Guglielminotti (2001), In salita dasubito. Rischi di disagio nella prima infanzia. Due ricerche tra le insegnanti delle

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scuole per l’infanzia e tra genitori dei bambini in età prescolare, Provincia di BiellaServizio solidarietà sociale; R. Maurizio (2002), Ti ho cercato per mari e per monti.Un percorso di ricerca-intervento su infanzia e adolescenza, Consorzio intercomu-nale per i servizi, Cirié.

15. Comune di Roma, InfanziaRoma 2000, Osservatorio comunale sull’infanzia. Rappor-to 1999-2000 disponibile nel sito www.comune.roma.it

16. Questi studi sono contenuti nei Piani provinciali di attuazione della legge 285 per iltriennio 2001-2003.

17. Provincia di Torino, Primi elementi relativi all’analisi della situazione dei minori chesarà presentata unitamente al Piano territoriale di Intervento 2000-2002, 2001.

18. Ministero della Salute, Relazione di attività nel settore delle tossicodipendenze. Anno2000, Roma 2001; Eurispes, 2000; Osservatorio permanente sui giovani e l’alcool,2001; Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Relazione an-nuale sull’evoluzione del fenomeno della droga nell’Unione Europea, 2001.

19. Decreto Legislativo 18 giugno 1998, n. 237 «Disciplina dell’introduzione in via spe-rimentale, in talune aree, dell’istituto del reddito minimo di inserimento, a norma del-l’articolo 59, commi 47 e 48, della legge 27 dicembre 1997, n. 449».

20. L’esperienza più interessante è, sicuramente, quella della legge n. 23/2001 dellaRegione Lombardia, per la promozione di forme di associazionismo familiare, e diprogetti di intervento sociale, promossi dalle stesse forme aggregate di famiglie.

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INDICE

Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

1. IL QUADRO DI RIFERIMENTO

1.1 Bambini e problemi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91.2 Bambini in Piemonte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131.3 La protezione della vita e il sistema delle tutele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161.4 I servizi sanitari e sociali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 181.5 I servizi socioassistenziali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 201.6 Innovazioni e progetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 231.7 Nuove domande e prospettive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27

2. BAMBINI E POVERTÀ

2.1 Dimensioni e problemi della povertà economica dei minori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 322.2 I minori nel sistema di assistenza sociale in Piemonte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 382.3 La complessità delle risposte possibili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47

3. L’ESPERIENZA DELLA MALATTIA

3.1 Non c’è fatalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 593.2 ASO e ASL: la rete dei servizi sanitari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 643.3 L’informazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 703.4 L’uso dell’ospedalizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 713.5 Due casi esemplari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 753.6 Struttura ospedaliera e umanizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 783.7 La scuola in Ospedale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 803.8 Il Terzo Settore e l’offerta di sostegno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 823.9 La comunicazione tra diversi soggetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 84

4. IL DISAGIO NELLA SCUOLA

4.1 Di cosa stiamo parlando? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 874.2 Di chi stiamo parlando? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 954.3 Ciò che preoccupa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 994.4 La scuola del disagio «normale» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1104.5 Linee di risposta istituzionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1144.6 Lavori in corso, strategie possibili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123

5. BAMBINI DISABILI

5.1 Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1345.2 Problemi di classificazione e definizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1355.3 Le competenze e gli interventi del settore pubblico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1415.4 I servizi socio assistenziali locali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1515.5 L’apporto del terzo settore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1635.6 Nodi e problemi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1845.7 Riferimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 198

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6. VIVERE IN UN’ALTRA FAMIGLIA

6.1 Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2016.2 Aspetti di contesto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2016.3 L’allontanamento della famiglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2036.4 Abusi e violenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2076.5 I genitori tossicodipendenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2176.6 Una risposta istituzionale: l’affidamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2236.7 L’adozione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2356.8 Valutazioni conclusive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2416.9 Riferimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 243

7. COMUNITÀ, TERRITORIO

7.1 Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2457.2 Una storia plurale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2467.3 La normativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2487.4 Definizione e tipologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2497.5 Strutture residenziali e politiche comunali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2537.6 Aspetti di complessità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2557.7 Autonomia e lavoro di rete . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2607.8 La qualità delle strutture residenziali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2627.9 Dalle strutture ai servizi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2677.10 Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2737.11 Riferimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 274

8. IMMIGRAZIONE E MARGINALITÀ

8.1 Minori stranieri in Piemonte e a Torino: alcuni dati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2788.2 L’area critica: non accompagnati, male accompagnati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2838.3 Accesso ai servizi e integrazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2898.4 Tipi di risposte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 293

9. ANALISI E COMMENTI DEGLI OPERATORI

9.1 Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2989.2 La condizione dei bambini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2999.3 I bambini disabili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3029.4 La dimensione territoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3069.5 Forme emergenti del disagio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3099.6 Quali risposte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3139.7 Scenari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3229.8 Questione di diritti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 325

10. PROSPETTIVE

10.1 Il disagio dell’infanzia: osservazioni e piani d’azione nazionale . . . . . . . . . . . . . 32810.2 La 285/97: prima e dopo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33010.3 Disagi tradizionali e risposte innovative . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33210.4 La realtà torinese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33410.5 Scenari in evoluzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33510.6 Dall’analisi alla progettazione: esigenze di sviluppo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 337

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