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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24 MARZO 2013 NUMERO 420 CULT La copertina STEFANO BARTEZZAGHI e GIANCARLO BOSETTI Parlare da soli perché questo è diventato il Paese dei monologhi Il libro CARLO BONINI Scelte diverse stesso destino sbirri e ultrà uniti dalla rabbia All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Luca Ronconi “Mi piacerebbe trovare un senso alla tristezza” L’opera ANGELO FOLETTO Il cane di Bulgakov diventa musica più bella da vedere che da ascoltare L’arte MELANIA MAZZUCCO Il Museo del mondo Lazzaro secondo Giotto Keira Knightley “Siamo tutti finti guardate me...” L’incontro MARIO SERENELLINI DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI FOTO CORBIS Emilia C’era una volta laVia Guy Debord e il crollo del consumismo L’archivio CARLO FRECCERO, FABIO GAMBARO e DANIELA STRUMIA RIMINI - PIACENZA «S cusi dov’è l’antica via Emilia?». Rimini. All’uf- ficio informazioni davanti alla stazione mi mostrano senza esitare il periplo delle mura. La strada millenaria che spacca la città come una mela e taglia dritta dall’arco di Augusto fino a Piacenza, è igno- rata. Diavolo, non c’è niente di così rettilineo in tutto il Nord, la vedi persino dal satellite, ma è come se fosse sparita. Piove, il mare è im- mobile, il divertimentificio in letargo; in un chilometro conto 17 ban- che, nove negozi chiusi, centinaia di immigrati e infinite badanti. Sono i 2200 anni della grande via romana — nel 187 a. C. il conso- le Emilio Lepido la completava per tenere a bada i Galli della pianu- ra — ma la regione ignora il mito fondativo della sua strada maggio- re. Salvo un incontro voluto a giugno dalla soprintendenza e dall’e- ditore Mulino in quel di Rimini, in vista c’è poco o nulla. Così vengo a dare un’occhiata, per dire cosa è diventata la più nobile delle anti- che vie d’Italia. E capire perché gli emiliani la dimenticano. (segue nelle pagine successive) PAOLO RUMIZ L a via Emilia è un paradosso. È strada e frontiera. Unisce e separa. Collega Rimini a Piacenza, e divide i paesi che attraversa, li taglia in due. Per dare un’idea, quando nel ’52 ho cambiato casa a Modena e ho attraversato lo stra- done per passare dal lato appenninico a quello Nord sulla pianura, da quel momento — c’è da non credere — tutte le mie amicizie so- no cambiate. Le persone che hanno segnato la mia storia musicale le ho incontrate sistematicamente oltre la via: Bonvi, quelli dell’E- quipe 84, Dodo l’arrangiatore dei Nomadi, eccetera. Gli altri sono scomparsi. Giuro: mai più visti. Rimasti dall’altra parte. Forse il lato musicale della via Emilia è quello di pianura. Ancora oggi. Tra Parma e Modena c’è tutta la fascia del blues. E poi c’è una quantità di gruppi rock. Una volta ho fatto un giro con Ligabue, che stava facendo un film, e li ho visti, questi “americani”. È un marchio rimasto dal Dopoguerra, dalla presenza degli Alleati. In quegli anni tutto quello che era americano era bello. (segue nelle pagine successive) FRANCESCO GUCCINI È talmente dritta che si vede dal satellite ma percorrerla è impresa quasi impossibile A 2200 anni dalla sua fondazione viaggio alla ricerca della strada che dà il nome alla regione-guida d’Italia Repubblica Nazionale

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 24MARZO 2013

NUMERO 420

CULT

La copertina

STEFANO BARTEZZAGHIe GIANCARLO BOSETTI

Parlare da soliperché questoè diventato il Paesedei monologhi

Il libro

CARLO BONINI

Scelte diversestesso destinosbirri e ultràuniti dalla rabbia

All’interno

Straparlando

ANTONIO GNOLI

Luca Ronconi“Mi piacerebbetrovare un sensoalla tristezza”

L’opera

ANGELO FOLETTO

Il cane di Bulgakovdiventa musicapiù bella da vedereche da ascoltare

L’arte

MELANIA MAZZUCCO

Il Museodel mondoLazzarosecondo Giotto

Keira Knightley“Siamo tutti fintiguardate me...”

L’incontro

MARIO SERENELLINI

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EmiliaC’era una voltalaVia

Guy Deborde il crollo del consumismo

L’archivio

CARLO FRECCERO,FABIO GAMBAROe DANIELA STRUMIA

RIMINI - PIACENZA

«Scusi dov’è l’antica via Emilia?». Rimini. All’uf-ficio informazioni davanti alla stazione mimostrano senza esitare il periplo delle mura.La strada millenaria che spacca la città come

una mela e taglia dritta dall’arco di Augusto fino a Piacenza, è igno-rata. Diavolo, non c’è niente di così rettilineo in tutto il Nord, la vedipersino dal satellite, ma è come se fosse sparita. Piove, il mare è im-mobile, il divertimentificio in letargo; in un chilometro conto 17 ban-che, nove negozi chiusi, centinaia di immigrati e infinite badanti.

Sono i 2200 anni della grande via romana — nel 187 a. C. il conso-le Emilio Lepido la completava per tenere a bada i Galli della pianu-ra — ma la regione ignora il mito fondativo della sua strada maggio-re. Salvo un incontro voluto a giugno dalla soprintendenza e dall’e-ditore Mulino in quel di Rimini, in vista c’è poco o nulla. Così vengoa dare un’occhiata, per dire cosa è diventata la più nobile delle anti-che vie d’Italia. E capire perché gli emiliani la dimenticano.

(segue nelle pagine successive)

PAOLO RUMIZ

La viaEmilia è un paradosso. È strada e frontiera. Uniscee separa. Collega Rimini a Piacenza, e divide i paesi cheattraversa, li taglia in due. Per dare un’idea, quando nel’52 ho cambiato casa a Modena e ho attraversato lo stra-

done per passare dal lato appenninico a quello Nord sulla pianura,da quel momento — c’è da non credere — tutte le mie amicizie so-no cambiate. Le persone che hanno segnato la mia storia musicalele ho incontrate sistematicamente oltre la via: Bonvi, quelli dell’E-quipe 84, Dodo l’arrangiatore dei Nomadi, eccetera. Gli altri sonoscomparsi. Giuro: mai più visti. Rimasti dall’altra parte.

Forse il lato musicale della via Emilia è quello di pianura. Ancoraoggi. Tra Parma e Modena c’è tutta la fascia del blues. E poi c’è unaquantità di gruppi rock. Una volta ho fatto un giro con Ligabue, chestava facendo un film, e li ho visti, questi “americani”. È un marchiorimasto dal Dopoguerra, dalla presenza degli Alleati. In quegli annitutto quello che era americano era bello.

(segue nelle pagine successive)

FRANCESCO GUCCINI

È talmente dritta che si vede dal satellitema percorrerla è impresa quasi impossibileA 2200 anni dalla sua fondazione

viaggio alla ricerca della stradache dà il nome alla regione-guida d’Italia

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 28

DOMENICA 24 MARZO 2013

C’era una volta

(segue dalla copertina)

Le sorprese comincia-no subito. Chiedo unbus per Cesena, manon si può, si arrivasolo a Savignano, atrenta chilometri.

Non c’è un Greyhound come sullaRoute 66 transamericana. Per farela strada più dritta d’Italia devo cu-cire coincidenze impossibili. Horimediato una strisciata di orari damal di testa; me l’ha data un magodelle vie traverse di nome PaoloMerlini. Fino a Piacenza fannoquindici cambi, fra treno e bus. Do-vrò armarmi di pazienza.

Linea 90, autoradio con spotmartellanti, tre badanti rumene,due senegalesi che gridano al cel-lulare. Infiniti svincoli, rotondefatte apposta per perdersi. Poi con-fluisco sulla via, e subito qualcosasi rimette a posto in me, come in unarabo che trova la Mecca. Rotta aNordovest, ferrovia a destra, Ap-pennino a sinistra. C’è anche unacasa cantoniera, rosso pompeianod’ordinanza. Spiragli di bella Italia.

A Santa Giustina con la via Emi-

lia ce l’hanno a morte. È pavesata dilenzuolate ai balconi con scritto“Basta chiacchiere, circonvalla-zione subito”, “Traffico+smog,grazie sindaco”. La via è diventataStatale 9 fino a Milano, ma non ta-glia più i paesi: ci gira attorno. E lad-dove li taglia, diventa un inferno diTir. Fabbriche, centri commercia-li, wellness, un manifesto che invi-ta a una cena con strip maschile.Nessuna strada antica d’Europasomiglia meno di questa a ciò che èstata.

A Savignano merenda alla pia-dineria del ponte, con vista sullecampate romane e il Rubicone. Midicono che il paese pullula di ci-nesi negli scantinati. Il resto è an-ziani, e il solito gineceo romagno-lo: impiegate, postine in bici, vigi-lesse a caccia di divieti. «Scusate,dov’è l’antica via Emilia?» chiedoalle ultime, e loro indicano peren-torie la circonvallazione. Come aRimini.

Linea 95 per Cesena, vetri spor-chi da non veder fuori. Ipermerca-ti, rotonda dedicata all’imperatoredel liscio Secondo Casadei. Nellaturrita Cesena patria di due papi miraccatta Angela Arcozzi, una morache odia le autostrade e mi porta in

auto a Forlì. Piove forte, immenserotonde attorno a Forum Popili,l’attuale Forlimpopoli, patria dicuochi e briganti, Pellegrino Artusie il Passator Cortese svaligiatore diteatri.

Forlì,fascistissimo vialone d’ac-cesso con mega-statua della vitto-ria. Ora la tabella oraria mi consi-glia un pezzo in treno, in fondo an-che la ferrovia segue la via comeun’ombra, mai più distante di due-cento metri. Arriva un regionaleper Imola, surriscaldato e chiac-chierone, in ritardo di quarantaminuti. Edgardo, pensionato staz-za Obelix, brontola che la

Romagna ti infligge un rompiballeal secolo. Ieri Mussolini, oggi il ri-minese Moretti, rottamatore di Fs.

«Scusi dov’è l’antica via Emi-lia?», richiedo nella pulitissimaImola. Un tipo con valigia venti-quattr’ore mi indica la parallela. Aconfonderlo forse c’è il viale dellastazione, che si chiama via Appia.L’incrocio col vero Decumano èuna meraviglia in pietra e mattoni,ma tutto è sigillato in una teca pe-donale con negozi alla moda.

Il bus Tpr 101 per Bolognafa cin-quanta fermate in 33 chilometri,roba da crisi di nervi. Al capolinea

un bambino grasso, una donnacon un sacchetto di pesci rossi, lasolita badante e un africano benvestito; poi si parte verso la capi-tale dei Boi in un balletto di sali-scendi alle portiere. Donne, ditutte le età. La via è massacratadalla sua stessa geniale funzio-nalità trasportistica. Imola cen-tro commerciale, Toscanella,Dozza, Osteria Grande: nessunafermata che ricordi le legioni.Mucchi di neve sporca, fruttetispogli e l’eterna domanda: chis-

sà dove finisce la Romagna e co-mincia l’Emilia? Mah.

Alle porte di Bologna già annot-

ta. Rotaie, negozi, argini, fabbri-che, canali, fari nelle pozzanghere.A bordo si discute di Grillo e delMago Gargamella (Bersani) men-tre la radio gracchia di Balotelli segioca o non gioca e due ragazze inhijab digitano freneticamente sultelefonino. Nemmeno l’Emilia,terra di vie dritte, sa più dove anda-re. Al capolinea, fuggi-fuggi nellapioggia, poi camminata solitarialungo il cardo di via Galliera soloper chiacchierare con la russa albancone di “Kalinka”, posto divodke e caviali.

Afferro brandelli di mito solocon Gianni Brizzi, il prof di storiaromana più annibalico che ci sia.Tra verdure padellate e un lambru-sco, ecco venir fuori che fu il gran-de spavento punico a convincereRoma ad attrezzare quella stradaper tenere buoni i Galli con una fa-scia-cuscinetto che non fosse solomilitare. Una via capace di essereanche spazio di colonizzazione,mercato, e al tempo stesso un con-fine, l’antenato di tutti i Limes. Lacena finisce con una panna cotta eun anatema: «Questa è la primafrontiera dell’Italia romana. E inEmilia non lo capiscono».

Come è vuota Bologna la notte;

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La SS9 non ha conservato nulla

dell’antica strada romana

Da Rimini a Piacenza

tra Tir e centri commerciali

diario di viaggioalla ricercadella storia perduta

CASA GUCCINI

Paolo Rumiz e Francesco Guccinia Pavana, in casa dell’artista

VERSO NORD

“Ferrovia a destra, Appennino a sinistra: almenosu questo non ti puoi sbagliare”. A destra: l’arcodi Augusto a Rimini, chilometro zero della via Emilia

Scusi, dov’è la Via Emilia?PAOLO RUMIZ

La copertina

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 24 MARZO 2013

(segue dalla copertina)

n bicicletta da ragazzini noi si frenava all’americana. Funzionava così: balzavi agile dalsellino e stringevi la ruota posteriore fra le cosce. Io me li ricordo gli Americani quan-do passarono la Linea Gotica. Ricordo il gusto della Coca Cola e la forma di quelle bot-tiglie verdine. Noi ragazzi si stava sempre con loro. E loro sparavano una cannonata

ogni tanto, tranquilli come se an-dassero in ufficio.

La mia via Emilia è stata dun-que soprattutto frontiera. Non erail Far West in sé, ma la linea oltre laquale c’era il Far West, special-mente sul lato appenninico. Lì pernoi c’era la prateria. Si rubava l’u-va, si giocava ai cowboy, si andavaa morosare di nascosto. C’era, miricordo, il campo di un signor Ma-

gnavacca, il quale per tenerci lontani aveva messo un cartello con la scritta “terrenoavvelenato”. Sapevamo benissimo che non era vero, e la proibizione aumentava il go-dimento della scorribanda. Era in quei campi, a primavera, che si svegliava il profumodell’erba, e quel profumo mi accendeva la nostalgia del mulino del nonno, a Pavanasul monte. Una volta, per dire “andiamo a Modena”, bastava abitare a un chilometrodal centro. Io potevo dirlo, perché tra casa mia e il cuore della città c’erano pezzi di cam-pagna. La Millemiglia tagliava un mondo ancora antico: verso Castelfranco c’era un

posto chiamato Cavazzona, e tutti andavano lì a vederli passare, i concorrenti, con laGazzetta dello Sport in mano. Il grido era: “È passato Nuvolari alla Cavazzona”. Oggiper dire “vado a Modena” devi abitare per lo meno a Piacenza, perché tra le città e i pae-si non c’è più campagna. Specialmente tra Bologna e Reggio non hai che case e ca-pannoni, un’infinita metropoli lineare.

Ogni tanto mi piace immaginare com’erano le nostre città al tempo dei Romani. Levedo come dei Fort Apache, con intorno i Celti cattivi come puzzole. E credo che, percollegare tra loro quelle città con la via Emilia, i legionari non abbiano inventato nullae si siano limitati a usare piste già battute dai nostri antenati. Ma hanno lasciato al mon-do un grande nome: “strata”. Che è una delle pochissime parole latine passate alla lin-gua inglese. “Street”, stessa radice di “strada”. L’antico basolato romano l’ho visto, nel-la pancia di Bologna, anni fa. L’avevano trovato scavando un sottopassaggio all’altez-za di via Ugo Bassi e via Rizzoli. Quando aprirono la galleria al pubblico, i resti della viaEmilia furono alla portata di tutti. Divenne un posto frequentatissimo: accanto allevecchie pietre c’era un negozio di dischi, si tenevano riunioni politiche. Poi divennepian piano un ricettacolo di perdigiorno, e il Comune ha finito per tombare il passag-gio. I monumenti, le chiese, i ponti. Erano quelle le nostre pietre miliari. E quando scri-vevo con Lucio Dalla la canzone Aemilia, era a quella misura dello spazio che mi rife-rivo. Lo stesso per Piccola città. Fino agli anni Sessanta, la domenica vedevo passaresciami di ciclisti. Non andavano mica ad allenarsi, come oggi. Andavano a ballare, atrovar la morosa, al cinema. E tornavano di notte perché non c’era pericolo. Io ci sonoandato in bici, una volta, da Modena a Bologna. Madonna, non si arrivava mai.

(Testo raccolto a Pavana da Paolo Rumiz)

GLI ULTIMI FRUTTETI

“Frutteti spogli e l’eterna domanda: dovefinisce la Romagna e comincia l’Emilia?”

IL VIDEO

Su Repubblica.itRumiz e Gucciniraccontanocome è cambiatala via Emilianel videodi Alex Scillitani

FRANCESCO GUCCINI

La nostra frontieraprima del Far West

I

sento l’eco dei miei passi tra le Tor-ri e il Nettuno. Tutto, mi dicono, èrisucchiato dai centri commercia-li. È incredibile: questa è l’unica re-gione al mondo che prende il nomeda una strada, ma a quella stradanon dedica una sola iscrizione tu-ristica visibile. Nulla che proclami:qui sono passate le legioni, qui abi-ta la nostra identità. Ma come fai asapere dove vai, se non sai da dovevieni?

In auto per Modena con l’amicoAlex Scillitani. Insegne trasparenti:Gelateria Delirius, Più compri e piùrisparmi, Affittasi capannoni,Compro oro. Tra Borgo Panigale eCasalecchio densità mai vista diseminude con ombrello, tacchi al-ti e iPod. Il consumo di suolo è ter-rificante, non c’è più spazio per lacampagna. L’antico è disprezzato,lasciato morire. Ogni tanto un se-gnale dal mondo di ieri: un gran-dioso rudere in mattoni, una late-

rale di nome “Via del cantastorie”.Castelfranco è il primo paese

senza tangenziale, la SS9 lo attra-versa tra i portici come ai tempidella Millemiglia. Altrove ti devia-no spietatamente, come a Mode-na, dove appena la strada si fa bel-la ti sparano sulla rotonda Masera-ti. L’unico modo di fare la via ro-mana integrale sarebbe la bici, cheperò negli anni del Sol dell’Avveni-re è stata bollata come retaggio del-la miseria, col risultato che oggisull’Emilia ti arrotano se te la fai sulsellino.

Alla “Bruciata”,oltre lo svincolodi Modena Nord, una volta c’era ilWest; oggi hai le signorine da mar-ciapiede, russe o africane, a prezzipopolari. Puoi fartene una dopouna cena in pizzeria o un giro all’i-permercato. Poco prima, al pontesul Panaro, c’erano i ruderi delladiscoteca Mac2, rugginosa basespaziale dimenticata. Poi fari nellapioggia, luminarie, e qualche var-co di prateria. Ma la regione Emiliaesiste davvero o è solo un’idea?

A Reggio il sindaco, noto per le“panchine parlanti” (fortunata-mente guaste) e una mirabile ro-tonda attorno a una chiesa, ha pen-sato di ritombare un pezzo della via

romana originale, in nome dellamodernità. In città la vivono comestriscio, non come asse di collega-mento. E se ti ostini a usarla cometale, ti dicono che la via è sbarrata.I bus non entrano nel granducatodi Parma. Si va solo fino alla fron-tiera, come ai tempi delle doganepre-unitarie.

La linea 2 verso il granducato èun bus urbano con posti in piedi.Coerente, in una via che è solo cittàlineare. E via, per rotonde megali-tiche, in mezzo a cartelli di Vende-si e Affittasi. A Villa Cella c’è un ve-nerabile cimelio, un cinema aper-to, poi ti taglia la strada un funebresovrappasso pedonale inauguratocon ascensore per disabili, e maientrato in esercizio. Sembra Sici-lia, ma è Emilia. Poi di nuovo cam-pagna, monti innevati in lonta-nanza, pavoni, oche, anatre.

Arrivo a Sant’Ilario inun bus vuoto, in un capo-linea vuoto, in un quar-tiere vuoto. Piove anche

nel chiosco d’attesa e non c’è nes-suna coincidenza. Dopo le otto delmattino più niente collega il Reg-giano al Parmense. Resta solo iltreno, ma per arrivare alla stazionesono due chilometri a piedi. C’è so-lo l’autostop per passare l’Enza,gonfio e marrone, e con il ponteuna nuova parata di adescatriciautomunite, e una rete di sterratiper il mestiere.

Da un capo all’altro di Parma, lavia di Emilio Lepido svela la suastoria ospedaliera. Lazzaretti, rico-veri per pellegrini, vecchi manico-mi, la meraviglia di un ospedale ri-nascimentale. «Tutti segni — midice al bar l’assessore grillino Lau-ra Maria Ferraris — di una riletturanon solo verdiana della città». Ma èdura risalire la china dopo anni disfascio e ruberie. Col disastro Par-malat è scoppiata la crisi, il com-mercio va male anche in centro.Chiara Cabassi, bibliotecaria, miporta sotto il ponte di mezzo, nel-l’antro che contiene le campate delsuo predecessore romano. Oggi ilsottopasso è terra di nessuno, ieri

era pieno di negozi. E via di nuovotra capannoni in disuso come ba-lene spiaggiate.

Ponte sul Taro, grandioso, constatue di donna; poi la bellissimaFidenza disertata dai suoi stessiabitanti. La gente va al “FidenzaVillage”, preferisce l’antico fintoall’antico vero. I Tir non danno re-quie. «Con la crisi, i camionisti ri-sparmiano sulle autostrade. Rovo-leto e Pontenure sono annichilitedai passaggi», lamenta Mauro Ni-coli, ufficio urbanistico di Fioren-zuola. «Ma la catastrofe vera è chela via non è più sentita come tale.Solo dall’aereo la percepisci comesegno del territorio».

Ultimo caffè al bar Mocambo,ex balera sulla ferrovia, poi via intreno fino al paracarro finale: Pia-cenza, 197° miglio romano, pian-tata sull’ultimo guado del Po. Perfare tutta la strada dovrei conti-nuare fino al dazio milanese di Por-ta Romana, ma sono sazio di ba-danti, Tir, belle-di-giorno, serran-de abbassate e centri commerciali.Non ho trovato il mito; non so do-ve vada la regione-guida d’Italia.Piove troppo, Cristo santo, e ho pu-re le scarpe fradice.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LA BRUCIATA

“Una volta qui c’era il West, oggi signorine,russe o africane, a prezzi popolari”

I CUOCHI E I BRIGANTI

“Piove, immense rotondeattorno a Forum Popili,patria di cuochi e briganti”

© RIPRODUZIONE RISERVATA

I NEGOZI CHIUSI

“Rimini è semidesertaIn un chilometro contodiciassette banchee nove negozi chiusi”

LE PRATERIE

“Fari nella pioggia, luminariee qualche varco di prateriaMa la regione Emilia esistedavvero o è solo un’idea?”

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 24 MARZO 2013

L’attualitàLegge e ordine

MOSCA

Per la Fede, per la Patria e per lo Zar.Tutto rigorosamente in quest’ordi-ne. L’antico motto dei cosacchi dicepiù di ogni altra cosa su queste figu-

re leggendarie uscite improvvisamente dai libridi storia e dal folklore delle guide turistiche perattraversare con passo fiero e sguardo cattivo lestrade delle città russe. I colbacchi, le fruste, lecartuccere dorate intarsiate sui lunghi cappottirossi, vengono dopo. Giusto per dare un tocco disolennità e di mistero a un revival studiato a ta-volino con l’ambizioso scopo di «riportare leggee ordine nel Paese».

E fa uno strano effetto, a metà tra il minaccio-so e il patetico, vederli aggirarsi nelle ore nottur-ne, come ronde di quartiere in uniforme storica,pronti a dare una lezione a qualche ubriaco unpo’ troppo sguaiato o a segnalare rabbiosamen-te alla polizia eventuali «comportamenti immo-rali» sui marciapiedi di periferia.

Ma sono solo distorsioni metropolitane. Co-me vedere un cowboy a Manhattan o un samu-rai tra i grattacieli di Tokyo. In altri scenari piùconsoni al mito, lungo le valli meridionali delVolga o sulle sponde del sempre placido Don, icosacchi sono invece tornati davvero. Marziali espavaldi nelle loro nuove accademie, centri diaddestramento, scuole religioso-militari pro-

tette, benedette, e gestite dal Patriarca ortodos-so in persona. Qui le divise colorate, i pantaloniblu dalle bande rosse che un tempo indicavanol’esenzione dalle tasse, le cariche a cavallo lungole steppe sconfinate, evocano senza equivoci legesta di Taras Bulba e degli altri eroi cantati dalfior fiore della grande letteratura russa. Una ri-vincita, dopo anni di depressione e oblio, per unpopolo guerriero e ribelle che ancora ripete di ri-conoscere solo due autorità: “Il cavallo sotto dinoi e il Signore sopra di noi”.

Non è proprio una garanzia di fedeltà assolu-ta allo Stato come constatarono nei secoli moltizar, preoccupati dalla turbolenta e intermitten-te obbedienza dei loro migliori cavalieri. Ma perVladimir Putin, ansioso di “bonificare” le diffi-cili aree del Caucaso islamico e separatista, vabenissimo così. Laggiù, dove la pressione dell’I-slam e il boom demografico delle popolazioniostili al potere di Mosca minacciano l’integritàdell’Impero, una difesa organizzata e anche unpo’ ottusa della Cristianità, come quella offertadai valorosi cosacchi, serve perfettamente alloscopo.

Putin ci conta. Finora li aveva usati solo nellaguerra vera, durante l’invasione del territoriogeorgiano nel 2009, inviando battaglioni cosac-chi in Ossetia e Abkhazia del Sud. Adesso gli ser-vono a incutere timore agli integralisti islamici diCecenia, Daghestan e Kabardino Balkaria e, ma-gari, anche ai giovani piccolo borghesi dellegrandi città che da qualche tempo hanno preso

NICOLA LOMBARDOZZIgne del Cremlino. Troppo prussiano per capireil selvaggio spirito russo dei cosacchi, von Clau-sewitz li bollò come dilettanti anarchici pur do-vendo ammettere che solo loro, con le loro in-cursioni temerarie al limite della follia, erano riu-sciti a fiaccare la potenza delle armate francesi.

Irascibili e imprevedibili. La leggenda vuoleche la presa del Palazzo d’Inverno, che nel 1917segnò la conquista del potere dei bolscevichi, fufacilitata da una loro impuntatura. Si rifiutaro-no sdegnati di cooperare con un corpo volon-tario femminile alla protezione della residenzadegli zar, lasciandola praticamente indifesa. Inogni caso, poco dopo ritornarono dalla partedell’imperatore schierandosi con la GuardiaBianca nella guerra civile che seguì all’avventodel comunismo. A potere stabilizzato la reazio-ne dei nuovi padroni del Cremlino fu spietata: icosacchi furono deportati, sterminati, e in granparte costretti a fuggire all’estero in quella cheStalin battezzò come una “campagna di deco-sacchizzazionedel Paese”. E siccome la fede cri-stiana viene prima di ogni cosa, migliaia diguerrieri cosacchi si arruolarono nelle fila nazi-ste nel 1941 partecipando all’invasione del-l’Urss con il proposito di “restituirla a Dio”. Ca-valcarono in senso contrario le proprie steppeostentando, durante il giorno, una svastica sul-la divisa e, al tramonto, le icone sacre nascostenei loro zaini da combattimento. Il disastro el’ulteriore massacro di uomini donne e bambi-ni che ne seguì sembravano aver messo fine a

l’abitudine di inscenare grandi manifestazionidi piazza contro il potere.

Loro lo fanno con lo stesso impegno con cuigli antenati proteggevano i confini meridionalidel territorio degli zar dalle orde tartare. Con de-vozione totale alla Madonna del Don loro pro-tettrice e con una lista di nemici che mette i bri-vidi: musulmani, ebrei, atei e sobillatori dell’or-dine costituito.

Ed è con questo spirito e con questi motti chesi formano i giovanissimi allievi delle nuovescuole di cadetti, o delle palestre cristiane chesorgono a ritmi impressionanti da Volgograd(già Stalingrado) alle città sul fiume Terek. Dove,come promette ai genitori uno slogan molto dif-fuso, “si forgiano i cosacchi del XXI secolo”. Checercheranno di somigliare il più possibile ai loroprogenitori comparsi intorno al Milleduecento,bellicosi e invincibili, nella steppa dell’Europadell’Est tra Ucraina e Russia del Sud. E che i loronemici tartari definivano kazakche vuol dire “li-bero avventuriero”. Cavallerizzi di abilità tutto-ra ineguagliata, spirito libero e lunghe sciaboleusate su chiunque senza alcuna pietà. Prima al-leati dei prìncipi locali, poi insubordinati servi-tori degli z ar, divennero celebri per il loro demo-cratico sistema interno di potere e per le loro fe-roci rivolte contro ogni prevaricazione. Com-battenti impulsivi e disordinati, durante la cam-pagna napoleonica di Russia fecero impazziregli schemi di un teorico della guerra come il ge-nerale von Clausewitz che militava sotto le inse-

Cantati dalla grande letteratura russa

e ridotti da Stalin ad attrazione circense,

i guerrieri del Don sono stati

rimessi da Putin in prima lineaContro chiunque minacci l’integrità

del suo Impero. Ma anche contro

gli ubriaconi moscoviti

Belli e spietatii cosacchi

sono tornati

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DOMENICA 24 MARZO 2013

ACCADEMIA

Giovani reclute

dell’Accademia cosacca

di Novocherkassk

UNIFORMI

Un giovanissimo cadetto ritira l’uniforme invernale prima di iniziare il corso. Qui sopra, un “Terek” appena eletto dai suoi compagni d’armi

Ma i cosacchi del Jaìk che dovevano salvaguardare

la tranquillità e la sicurezza di quel paese da qualche tempo

erano essi stessi per il governo sudditi irrequieti e pericolosi

Aleksandr Pushkin “La figlia del capitano”

Nella steppa sconfinata / a 40 sotto zero / se ne infischiano del gelo /

i cosacchi dello Zar / Col colbacco e gli stivali / camminando tutti

in fila / con la neve a mezza gamba / vanno verso il fiume Don

“Popov” Zecchino d’oro 1967

ARTI MARZIALI

Alcuni cadetti si addestrano sui monti del Caucaso. A destra, un prete ortodosso benedice un nuovo comandante regionale

BRINDISI

Cosacchi pronti a brindare e (a destra) a ballare per festeggiare l’anniversario della fine della Seconda guerra mondiale

Il cosacco di Baklanov getta indietro la testa, come un buon cavallo

che ode uno squillo di tromba, e battendo il pugno nodoso

sul tavolo, sussurra: “Fuori le baionette! Sguainate le sciabole!”

E su questa striscia fertile viveva da tempo immemorabile

una popolazione di sangue russo, bella ricca e pugnace, che professava

la fede dei vecchi credenti ed era conosciuta col nome di cosacchi

Mikhail Sholokhov “Il placido Don”

un mito durato più di nove secoli. Costretti in vere e proprie riserve indiane nel-

le province più urbanizzate del Caucaso, i su-perstiti dei cosacchi sono stati per anni un ri-chiamo per turisti cui mostravano la loro abilità,nelle celebri danze o nell’ammaestramento deicavalli, in malinconici spettacoli organizzatidalle agenzie di viaggio statali.

Non essendo una etnia vera e propria, ma so-lo la condivisione di un modo di essere, si sonomimetizzati con il resto della popolazione co-minciando lentamente a perdere abitudini e ritidi un tempo.

A rivitalizzarli ci ha pensato il primo presi-dente del periodo post sovietico Boris Eltsin conun decreto che li riabilitava e li considerava “vit-time della repressione sovietica”. Ma chi ha de-ciso di riportarli agli antichi fasti è stato VladimirPutin, vedendo in loro reincarnazione di antichivalori che dovrebbero aiutarlo a difendersi daseparatismi e contestazioni. Un lavoro metodi-co, cominciato con il reintegro nell’esercito, il fi-nanziamento di istituzioni locali, l’interventospirituale ed economico della Chiesa e l’auto-rizzazione all’esercizio delle ronde urbane. E icosacchi sono dunque tornati. Belli, scenogra-fici e sicuri della loro forza. Inquietanti per mol-ti. A seconda di come si vuole leggere l’ambiguadefinizione del grande scrittore Isaak Babel, fu-cilato per ordine di Stalin: «Delle bestie con deiprincìpi».

Lev Tolstoj “I cosacchi”

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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DOMENICA 24 MARZO 2013

“Sono il più famoso degli uomini oscuri” diceva di sé

Ora un’affascinante mostra parigina ricca

di manifesti “situazionisti”, schede, video e appunti

inediti riaccende i riflettori sull’eclettico intellettuale francese

Che prima del ’68 aveva già capito quale fosse il nemico

da combattere. E intuito come sarebbe andata a finire dopo

L’archivioAvanguardie

PARIGI

«Tuttala vita delle società in cui re-gnano le condizioni modernedella produzione s’annunciacome un’immensa accumula-

zione di spettacoli». Inizia così il più celebre dei libri diGuy Debord, La società dello spettacolo, arrivato nelle li-brerie francesi nel novembre del 1967 e poi tradotto in-finite volte in tutto il mondo. Discusso, chiosato, dete-stato o adulato è considerato ancora oggi uno dei testiche meglio interpretano la condizione contempora-nea. Duecentoventuno tesi che si presentano come unateoria critica dell’alienazione dominante, denuncian-do senza mezzi termini lo spettacolo come condizioneonnipresente della società capitalistica. «Lo spettacolonon è un insieme d’immagini, ma un rapporto socialetra le persone mediato dalle immagini», scrive colui cheall’epoca era l’instancabile artefice dell’InternazionaleSituazionista. Lo spettacolo governa le nostre esisten-ze, s’interpone tra noi e gli altri, recuperando oltretuttoogni forma di contestazione che tenti di rimetterlo in di-scussione. Di conseguenza, la sua critica — che per De-bord era la condizione necessaria per provare a imma-ginare una vita emancipata dall’ideologia del consumo— non può che prendere le forme di una guerra fattad’intelligenza, movimento e strategia. Esattamente co-me quel Jeu de la Guerre che l’atipico intellettuale fran-cese inventò nel 1956 e poi continuò a elaborare neglianni successivi con la volontà di «riprodurre la dialetti-ca di tutti i conflitti». Un gioco della guerra che è al con-tempo «sintesi strategica della sua opera e metafora del-la lotta contro lo spettacolo delle merci», spiega Lau-rence Le Bras che, insieme a Emmanuel Guy, ha curatol’ampia e affascinante mostra intitolata “Guy Debord,un art de la guerre” (alla Bibliothèque nationale de Fran-ce dal 27 marzo al 13 luglio).

Proprio quel gioco — che «mira innanzitutto a rom-pere le linee di comunicazione del nemico» — è statoscelto dai curatori come filo conduttore di un percorsoche, oltre a ribadire l’attualità di Debord in tempi in cuilo spettacolo è più che mai un principio strutturantedella realtà, ricostruisce in dettaglio la poliedrica perso-nalità di un autodidatta — nato il 28 dicembre 1931 emorto suicida il 30 novembre 1994 — che fu al contem-po poeta, saggista, cineasta, artista, filosofo, sociologo emilitante politico. Anche se — come ricorda Bruno Ra-cine, il presidente della BnF che per Gallimard firma laprefazione del bel catalogo della mostra — l’autore diCritique de la séparation preferiva considerasi «unostratega, un arrabbiato e un teorico».

La quasi totalità dei documenti esposti provengonodagli archivi privati di Debord, acquisiti dalla Bibliote-ca nazionale nel febbraio del 2011 per 2,7 milioni di eu-ro, e impedendo così che finissero all’università di Yale.Grazie al vastissimo materiale lasciato dal teorico del si-tuazionismo (manoscritti, lettere, appunti, schede, fo-tografie, ritagli, volantini), i due curatori hanno costrui-to un ricco percorso che propone anche diversi quadri

e documenti audiovisivi, al cui centro figurano seicen-to delle oltre millequattrocento schede di lettura verga-te dall’intellettuale francese. Per Laurence Le Bras«questo è il vero e proprio cuore pulsante della riflessio-ne di Debord», che per tutta la vita ha incessantementeannotato pensieri e citazioni in una sorta di dialogo per-manente con gli autori che prima di lui avevano cerca-to di comprendere il mondo. «Per saper scrivere occor-re aver letto. E per saper leggere occorre saper vivere»,scrive Debord, che in una delle schede annota una fra-se di Carl von Clausewitz che pare scritta per lui: «In qua-lunque modo io possa immaginare la relazione tra mee resto del mondo, la mia strada passerà sempre attra-verso un campo di battaglia».

Quando pubblicò il suo libro più famoso, l’autore del-la Società dello spettacolo aveva già una lunga carriera diagitatore alle spalle, dentro e fuori i movimenti dell’a-vanguardia artistico-politica degli anni ’50 e ’60. Avevaper esempio partecipato al movimento lettrista d’Isi-dore Isou e Gabriel Pomerand, realizzando nel 1952 unfilm intitolato Hurlement en faveur de Sade. In seguito,convinto che fosse necessario uscire dal semplice ritua-le dello scandalo artistico, crea Potlatch, un bollettinopolitico-culturale che per molti versi anticipa le temati-che dell’Internazionale Situazionista. Questa nasceràufficialmente nel luglio del 1957 in un paesino dell’en-troterra ligure, Cosio d’Arroscia (tra i fondatori c’eranoanche gli italiani Giuseppe Pinot-Gallizio, Piero Simon-do, Walter Olmo ed Elena Verrone), sulla base di un te-sto intitolato Rapporto sulla costruzione delle situazio-ni. «Noi pensiamo innanzitutto che occorra cambiare ilmondo. Vogliamo il cambiamento per liberare la so-cietà e la vita in cui ci sentiamo imprigionati», si leggevanella prima pagina del documento, che poi precisava:«La nostra idea centrale è la costruzione di situazioni,vale a dire la costruzione concreta di atmosfere mo-mentanee della vita, e la loro trasformazione in una qua-lità passionale superiore».

Negli anni successivi, il percorso di Debord, che tra isuoi autori preferiti menziona Dante, Machiavelli e Pe-trarca, seguirà quello del movimento situazionista, lacui avventura s’intreccia con le lotte politiche di queglianni, specie nel Maggio ’68 cui fornirà, oltre a spiazzan-ti modalità di comunicazione, alcuni delle parole d’or-dine più efficaci e diffuse. Tra una battaglia e l’altra,mentre nelle riunioni dell’Internazionale Situazionistasi succedono scomuniche ed espulsioni (fino alla dis-soluzione ufficiale nel 1972), l’intellettuale militantecontinua a fare film sperimentali come La société duspectaclee In girum imus nocte et consumimur igni. E in-tanto pubblica alcuni testi più autobiografici, tra cuiPanégyrique e Cette mauvaise réputation. Proprio inuno scritto inedito degli ultimi anni, si definisce «il piùfamoso degli uomini oscuri». Una definizione perfetta-mente illustrata dalla mostra parigina, che restituiscetutta la complessità di quel «teatro delle operazioni» im-maginato da Debord. Per il quale «la miglior cosa chepossa capitare a un’avanguardia è di aver fatto il propriotempo, nel pieno senso del termine». E per l’autore del-la Società dello spettacolo è sicuramente vero.

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Debordtutticontro

La spettacolare guerraalla società dello spettacoloFABIO GAMBARO

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DOMENICA 24 MARZO 2013

Nellasua opera più famosa, La società dello spettacolo(di cui curammo la prefazione all’edi-zione italiana nel 1997), Debord descrive il consumismo che ci siamo appena lasciati allespalle. Per Debord lo spettacolo «è il cattivo sogno della società incatenata». Ne consegue

che «svegliarsi da quest’incubo è il primo compito che si assegnano i situazionisti».Oggi che questo evento si è realizzato, che lo spettacolo è andato in frantumi e abbiamo bru-

scamente riacquistato il contatto con la realtà, l’impressione che ne traiamo non è di liberazione,quanto piuttosto di disperazione e rimpianto. Cypher, il traditore di Matrix, non chiede in cambiodel suo tradimento dei benefici economici: vuole solamente regredire allo stato di incoscienza che

caratterizzava la sua vita prima di assumere la fatale pillo-la rossa, che l’ha liberato dalle accoglienti illusioni di Ma-trix per scagliarlo brutalmente nei sotterranei della vita ve-ra, dove si combatte in trincea contro il male, ma a costo dirinunciare a ogni piacere. Conoscere la verità non signifi-ca necessariamente schierarsi dalla parte giusta.

Marx come ispiratore di rivolta ha avuto un compitotutto sommato più facile di Debord. Marx aveva come og-getto di studio la prima rivoluzione industriale, e la suaanalisi era intrisa di sudore, sfruttamento e dolore. Il con-sumismo invece non viene percepito come sofferenza,ma come godimento condiviso, redistribuzione del be-nessere. Se quindi Marx ha buon gioco a connotare di si-gnificati negativi il concetto di alienazione, Debord, che èuna sorta di Marx del consumismo, prova maggiori diffi-coltà a farci odiare la contemplazione, che è l’anello dicongiunzione tra alienazione e spettacolo. Anche la con-templazione è passività, ma una passività che non nascedall’impotenza bensì dall’ammirazione. Si contempla laMadonna, si contempla il sacro, si contempla lo spettaco-lo. Lo spettacolo, inteso come consumismo, ha rappre-sentato nel nostro recente passato una sorta di sacralità.

Se dunque lo spettacolo è morto non è perché l’abbia-mo combattuto, ma perché le leggi economiche hannopreso un’altra strada. Alla fine degli anni Settanta nacqueil capitalismo finanziario. Il valore non scaturisce più dallavoro, dalla produzione e dal consumo. Nasce dal mer-cato, dalla libera contrattazione dei valori azionari. Spaz-zato via il mondo della produzione reale, lavoro e consu-mi diventano superflui. Le luci dello spettacolo si spengo-no ad una ad una e il mondo sembra tornato a uno scena-rio da prima rivoluzione industriale.

Finito il consumismo, cosa può dunque insegnarci og-gi Debord? In realtà sembra che le sue risorse profetiche sirivelino inesauribili. Nel 1988 scrisse I commentari sullasocietà dello spettacolo che descrivono lucidamente nonla società di allora, ma la realtà di oggi. Ne La società dellospettacolo Debord identificava due forme di spettacolo,legate a due diverse forme di regime politico: lo spettaco-lo concentrato, proprio delle società totalitarie e dittato-riali, e lo spettacolo diffuso, proprio delle democrazie oc-cidentali dominate dal consumismo. Nei Commentariin-troduce il concetto di spettacolo integrato, che ha moltecaratteristiche in comune con lo spettacolo concentrato,dove «il centro direttivo è ormai diventato occulto». Qui laMafia non rappresenta più un residuo arcaico del passa-to, ma il modello economico vincente: «nell’epoca dellospettacolo integrato, essa appare di fatto come il modellodi tutte le imprese commerciali avanzate».

Ancora una volta Debord descrive dal passato il nostropresente. Pensiamo al concetto di spettacolo integrato,miscela di stato tollerante e autoritario, come anticipa-zione del capitalismo autoritario contemporaneo. E pen-siamo all’idea di Mafia come modello di tutte le impresefuture. Incomprensibile nel momento in cui viene scritta,quella definizione anticipa in maniera sorprendenteun’opera come Gomorra: la delinquenza non è corruzio-ne, deviazione, ma la matrice stessa della produzione ca-pitalistica.

Il consumismo è mortobenvenuti a Gomorra

CARLO FRECCERO e DANIELA STRUMIA

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DOCUMENTI

Nella pagina di sinistra Guy Debord

a Cannes nel 1950e dall’alto: un numero

dell’Internationale situationniste,scheda dal dossier “Marxismo”

e un fotomontaggio. Qui a destratre manifesti del Maggio ’68, mentre a sinistra

uno dei cinque esemplari del “Gioco della guerra”costruito da Debord nel 1978. Qui sopra “The Naked City” (1957)

Tutti materiali esposti nella mostra parigina “Guy Debord, un art de la guerre”alla Biblioteca nazionale di Francia dal 27 marzo al 13 luglio

IMMAGINI

Qui sopra La società dello spettacolo in un’edizione francese del 1971Dall’alto: 1954, da sinistra a destra Gil Wolman, Mohamed Dahou,Guy Debord e Ivan Chtcheglov davanti alla galleria Double Doute(Doppio Dubbio) a Parigi. Una scheda del dossier Filosofia, sociologia;un manoscritto del ’78 (In girum imus nocte et consumimur igni, uno dei suoi film);tre volantini, di cui quello arancione invita all’apertura del bar La Méthode:“Se stasera dopo le dieci non avete intenzione di rileggere Schopenhauer”F

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DOMENICA 24 MARZO 2013

Spettacoli

GIUSEPPE VIDETTI

VENEZIA

«Quella bassa e gialla è la casadi Elton John», esclama An-drea Bacchetti scrutando laGiudecca dalla Piazzetta

San Marco. Poi, brandendo gli spartiti di Baldas-sarre Galuppi e Benedetto Marcello: «Questi era-no come lui: le pop star del Settecento venezia-no». Il giovane pianista genovese è magro, nervo-so, un furetto al servizio della musica; tanto co-mico nel suo scattante virtuosismo da finire nel-lo show di Chiambretti. Sono cinque anni, dal2007, che il maestro periodicamente si rintananella rivale repubblica marinara in cerca di teso-ri da riproporre nella collana La Tastiera Italiana,che cura con lo storico Mario Marcarini: un pro-getto di recupero, restauro e prima edizione di-scografica di preziosissimi manoscritti in colla-borazione con la Biblioteca nazionale Marcianadi Venezia. I volumi già pubblicati — dedicati aicompositori Cherubini, Galuppi, Marcello eScarlatti — hanno avuto risonanza internaziona-le. Negli spazi monumentali progettati dal San-sovino, Bacchetti si muove come a casa. È questala struttura che custodisce i suoi “vangeli”, ma-noscritti originali di uno dei patrimoni musicalipiù importanti del mondo, riccamente decorati e

rilegati in marocchino rosso. Ce ne sono diperduti, ritrovati e restaurati di fresco chestanno scatenando la curiosità di musici-sti e melomani.

«Erano i tempi in cui ricchezza facevarima con bellezza», sospira Franco Ros-si, vicedirettore del conservatorio Bene-detto Marcello e docente di storia dellamusica. Le vicende della Marciana sonouna favola che oggi non avrebbe lieto fine.È il 1468: il cardinale greco Bessarione fadono dei suoi mille codici latini e grecialla Repubblica di Venezia. Perospitare il prezioso carico, lo Sta-to Veneto affida a Jacopo San-sovino la costruzione da-vanti al Palazzo Ducale diun grandioso edificio distile classico. La sala dilettura viene decoratada Tintoretto e Vero-nese; nell’antisala, or-nata da un dipinto diTiziano, trova posto ilMuseo Statuario del-la Repubblica. Unoscrigno per tutte learti; un’allegoriadel Veronese èdedicata alla

RESTAURATI

Un musicista inciso da Filippo Bonanni

Qui accanto il Libro I (1752)di Domenico Scarlatti

La Biblioteca Marciana conserva spartiti

originali incisi ora per la prima volta

E documenti preziosi anche per ricostruire la vitadissoluta degli artisti di corte

Allegro con brio

Musicae sesso nellaVenezia del ’700

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DOMENICA 24 MARZO 2013

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LA BIBLIOTECA

L’internodella BibliotecaMarcianadi VeneziaIn alto, alcunispartiti originalilì conservati

manzo storico di Giuseppe Rovani (1818-1874),uno scrittore della Scapigliatura milanese, sco-priamo che Galuppi non era esattamente l’artistavirtuoso che voleva sembrare. C’era del torbidonel suo ingaggio fiorentino alla corte di Gian Ga-stone de’ Medici». Ben noto per la sua condotta li-bertina ai limiti dell’hard core, il granduca si bea-va del virtuosismo del Galuppi. Non solo. «Avevasaputo che il suo clavicembalista preferito era su-perdotato, lo volle vicino per motivi palesemen-te sessuali», precisa Rossi. «In un documentoconservato a Firenze — diciamo pure un diario aluci rosse — la sua prestanza fisica è descritta condovizia di particolari. Che l’ultimo rampollo deiMedici fosse un sodomita era risaputo anche fuo-ri dal Granducato di Toscana, tanto che il padre diDomenico Scarlatti si adoperò in ogni modo af-finché la permanenza del figlio a Firenze non du-rasse più di qualche giorno. Anche Caterina II diRussia, rinomata per i suoi appetiti sessuali, eraben informata sulle dotazioni di Galuppi. Il sog-giorno di Baldassarre a San Pietroburgo fu lungoe chiacchierato. Quando il figlio di Caterina ven-ne a Venezia, poco prima della morte del compo-sitore, gli consegnò un dono prezioso: “Da partedi mia madre, che non vi dimentica”, gli disse. Erail frutto della loro relazione? I comportamentisessuali, anche borderline, erano molto tolleratidalla società dell’epoca. Ben oltre le prodezze diCasanova dovette spingersi Lorenzo Da Ponte, illibrettista delle Nozze di Figaro, per essere bandi-to (il 17 dicembre 1779) dalla Repubblica di Ve-nezia per quindici anni».

È purissima e malinconica l’aria per clavicem-balo del Galuppi che il maestro Bacchetti fa ri-suonare sotto le preziose volte della Marciana, trai tesori musicali esposti a una generazione di-stratta. «Qui dentro c’è il fondo più importanteappartenuto ai reali di Spagna e Portogallo dalQuattrocento fino all’Ottocento. Materiali che cimettono in contatto con la Storia», conclude Ros-si. Vuol dire che saremmo dei mostri se facessimoscempio di tanta bellezza. E non s’arrivi a dire cheogni generazione ha la Venier che si merita.

liano, nato nell’isola di Burano nel 1706, Galuppi(morì a 79 anni e fu padre di 15 figli), dal 1762 mae-stro di cappella nella Basilica di San Marco, fu stara livello europeo. I Pisani, una delle famiglie piùfacoltose di Venezia, lo adottarono. Alla Marcia-na è conservata una delle due copie (l’altra è a Pa-rigi) di una cantata, Venere al Tempio, scritta peril matrimonio di un Pisani. «Sappiamo che le ce-lebrazioni si tennero nel salone delle feste dell’at-tuale Conservatorio, gli eredi hanno ceduto il pa-lazzo nei primi del Novecento», precisa Rossi.«Questo per ribadire che anche allora i ricchispendevano in maniera dissennata, ma per le co-se belle. E uno dei lussi che non si facevano man-care era avere per casa degli artisti. L’educazionemusicale dei figli era seguita con attenzione, co-me dimostrano alcune lettere appartenute allapotente famiglia Querini».

Ne sa più il professore su Galuppi di quanto noisu Michael Jackson. Prodezze sessuali che fannoimpallidire Bowie e Jagger. «Intrighi con la Ve-nier? È possibile. Attraverso Cento Anni, il ro-

musica (popolare e colta): donne che cantano esuonano il liuto e la lira da gamba sotto gli occhicompiaciuti del dio Pan. «Uno dei luoghi più bel-li del mondo della cultura dal valore simbolicoenorme, in un secolo che sta perdendo l’uso del-la memoria», ammonisce il professor Rossi. Seoggi un ipotetico Bessarione facesse una dona-zione in libri dal contenuto filosofico metterebbein imbarazzo le istituzioni che non saprebberocome e dove sistemarli. Tesori negletti che nonarriverebbero ai posteri. Sorte anche peggioretoccherebbe a quegli spartiti musicali di tre seco-li fa che il buon governo della Serenissima tenevain altissima considerazione.

La sala di lettura della Marciana, cui si accededalla scala allegorica del Sansovino raramenteaperta al pubblico che simboleggia la musica co-me forma di ascensione collettiva verso il cielo,assomiglia al salone delle feste di un palazzo rea-le con i magnifici affacci su Piazza San Marco. Inmostra anche il primo cahier de musique di cui sisia a conoscenza, codice riccamente miniato inoro zecchino appartenuto alla signora Maria Ve-nier. Contiene le sonate autografe che i musicistiinvitati a palazzo dedicarono alla nobildonna:uno scorcio inedito della Venezia di primo Sette-cento. Quanti anni aveva la Venier? Che rapportiintratteneva con i protagonisti della musica del-l’epoca? Raccoglieva autografi dei suoi idoli co-me oggi le groupie quelli delle rockstar? «Non ab-biamo molte informazioni su di lei», precisa ilprofessor Rossi. «Sappiamo solo che La Fenice,alla fine del Settecento, fu edificata nel giro di unanno su un fondo di proprietà dei Venier. Una leg-ge sul lusso sanciva che la città di Venezia doves-se avere non più di sette teatri. Lo Stato dovette fa-re una deroga ai nobili affinché ce ne fosse un ot-tavo, la Fenice appunto. I ricchi dell’epoca inve-stivano sugli artisti. Esiste copia di un contrattotra il compositore e un nobile veneziano con del-le clausole sorprendenti: 1) il maestro ha diritto alcompenso anche nei giorni di malattia 2) verrà re-tribuito anche quando sarà chiamato a tenereconcerti fuori città o in altri stati».

Personaggio di spicco del teatro musicale ita-

Domenico Scarlatti

1760-1842

La Marciana

custodisce

gli spartiti

delle Sei sonateper cimbalo op.1del compositore

fiorentino

Benedetto Marcello

1706-1785

Le otto sonate

per tastiera

pubblicate

su disco nel 2008

sono solo parte

dei suoi documenti

tenuti alla Marciana

Baldassarre Galuppi

1686-1739

Sono molte le fonti

manoscritte

dell’artista,

cui è dedicato

il Conservatorio,

conservate

in Biblioteca

Antonio Soler

1685-1757

Nella Biblioteca

San Marco vi erano

i manoscritti

di alcune sonate

Resta anche la fitta

corrispondenza

con Farinelli

Luigi Cherubini

1729-1783

Conosciuto anchecome Padre Soler,l’allievo di Scarlattiè ritenuto l’autore

di molti manoscritticonservati

nella Biblioteca

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Quandomi hanno parlato della riscoperta di partiture inedite di autori del Set-tecento, tratte da manoscritti autentici, mi sono entusiasmato. L’emozionedi leggere un testo originale così come scritto dal compositore è impagabile.

È bello andare dentro le note, percepire il pensiero dell’autore, interpretarlo per tro-vare la frase che lui avrebbe voluto scrivere e che rispecchia la sua ispirazione. In po-

che parole: vivere l’autenticità di quanto voleva lasciare ai posteri. È una sorta di rompicapo che ti consente di ascoltare (riscrivendo) la me-

lodia, anche nei dettagli. Devi tornare indietro negli anni, entrare nel mo-mento storico, nello stato emozionale e caratteriale dell’autore, nel suo mo-

do di vivere e di concepire la musica. Una ricerca senza fine che ti pone dubbi, maanche sensazioni incontaminate che sulle partiture stampate non troverai mai. Omeglio: sono già state risolte e interpretate da altri, e ciò toglie il piacere della sco-

perta, perché nell’esecuzione non parti da un pensiero che hai sviluppato tu, origi-nale, ma da una scrittura già tradotta. L’inusuale decifrazione delle chiavi anticheper noi pianisti è pratica ormai dimenticata, avendo sempre le partiture in chiavimoderne. L’immergersi nella “polvere dei secoli” delle biblioteche europee, nellavita e nella storia di istituzioni centenarie che con il loro lavoro paziente e appas-sionato ci permettono ancora oggi di disporre di questo materiale unico al mondo,ci trasmette adesso e per sempre pagine di vita vissuta, di gioia e di dolore di uo-mini che hanno lasciato il segno nella storia dell’umanità. La sintesi di questo la-vorare nel tempo è l’acquisire in te stesso la consapevolezza che per crescere nonbisogna mai smettere di cercare, non c’è un punto di arrivo. Più cerchi, più tro-vi, più cercheresti: un “crescendo in continuo”.

Chiedi alla polvere e ti risponderàANDREA BACCHETTI

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I PROGETTI

IL SITO Per conoscere come saràla classe del futuro si può visitare il sitodell’Indire, l’Istitutodi documentazione,innovazione e ricercaeducativa del Miur(Ministero dell’istruzioneuniversità e ricerca)

LA DOMENICA■ 36

DOMENICA 24 MARZO 2013

ITECInnovative Technologies

for an Engaging Classroom:

progetto europeo di “classe

del futuro” avviato in mille classi

di dodici paesi

Book in progressIl liceo Majorana di Brindisi

è capofila di un progetto

che affianca i libri di testo

a una “sintesi vocale”. I docenti

usano la Lim e le videolezioni

Uno per unoAll’istituto tecnico Pacioli

di Crema c’è un computer

per ogni studente

e si sperimenta anche l’aula 3.0

a geometria variabile

La cattedra è scomparsa e la lavagnapure, anche quella in versione multi-mediale: sono le quattro pareti a far daschermo al proiettore del computer.Quanto all’aula, è diventata “a geo-metria variabile”: i banchi non sono

più rettangoli allineati a due a due, bensì trapeziche si compongono e scompongono a secondadelle esigenze formando delle “isole”. Gli argo-menti vengono affrontati in versione multimedia-le, l’insegnante suggerisce e modera, i ragazzi in-tervengono utilizzando il loro tablet. Il tema non èbanalmente “la lezione”: quella il professore haprovveduto a postarla per tempo, e i ragazzi l’han-no ascoltata attentamente su video, a casa. Quelloche si fa in classe è altro: si approfondisce, si af-frontano i problemi legati a quell’argomento, sifanno collegamenti con esperienze ed esperimen-ti di altre classi, della stessa scuola, ma non neces-sariamente perché potrebbe trattarsi anche discuole che si trovano all’altro capo della terra.

Tutto questo è la scuola 3.0: troppo presto perparlarne, visto che in Italia la 2.0 è ancora in fase disperimentazione e quella tradizionale cade a pez-zi? Può darsi. Però, anche se suona sarcastica fan-tascienza alle orecchie dei tanti genitori che oggidevono provvedere di tasca propria alla carta igie-nica per i bagni, esistono già scuole italiane chestanno avviando la sperimentazione dell’aula ageometria variabile. Mentre le classi 2.0 sono ormaiin una fase matura, e l’esperienza si va allargando.

«Non si tratta solo di introdurre nuove tecnolo-gie nelle scuole — dice Giovanni Biondi, capo di-partimento per la programmazione e la gestionedelle risorse umane, finanziarie e strumentali del

ministero dell’Istruzione e presidente dell’Euro-pean Schoolnet — dobbiamo creare una situa-zione di attrattività della scuola per le nuove ge-nerazioni. Abbiamo una generazione digitale cheapprende a casa attraverso la multimedialità e letecnologie interattive: quando questi ragazzi arri-vano a scuola, trovano un ambiente dove sonosoggetti passivi, sono invitati solo ad ascoltare, aprendere appunti, e gli unici linguaggi che posso-no utilizzare sono quello scritto e quello orale.Mentre la scuola ha l’obiettivo di coinvolgere e farappassionare gli studenti: l’ha sempre avuto, eadesso ancora di più, ora che le nuove tecnologieoffrono l’opportunità di superare lo schema sto-

rico-narrativo tradizionale». La rivoluzione è già cominciata nelle scuole ed è

partita quando i computer sono usciti dal “labora-torio informatico” per entrare in classe, e diventa-re protagonisti delle lezioni. Fino ad allora, certo,professori particolarmente avveduti erano riuscitigià a far apprezzare materie magari meno digeribi-li: «Entrare in un quadro di Tiziano e poterne ap-prezzare i particolari in 3D non è come vedere la fo-to sul vecchio manuale», dice Biondi. L’arrivo delcomputer nelle classi, e meglio ancora della Lim, lalavagna multimediale interattiva, ha dato poi ini-zio alla rivoluzione vera e propria. Una rivoluzioneche adesso sta arrivando a mettere in discussionepersino la tradizionale architettura scolastica, chenon si presta più alle esigenze di quella che sarà lascuola di domani. «Io utilizzo la Lim per la geome-tria ormai da cinque anni — dice Tiziana Napolita-no, insegnante di matematica e scienze alla scuolamedia di via dei Consoli a Roma — perché mi per-mette di spaziare: la lezione diventa aperta, ognu-no interagisce, dà il proprio contributo».

«Gli insegnanti — spiega Daniele Checchi, pro-

Senza cattedra né lavagnesarà così la nuova scuola

I BANCHI DEL FUTURO

Tablet e Lim erano soltanto il primo passo

Per adeguare insegnamento e apprendimento

ai tempi di Internet si comincia dall’architettura

delle vecchie aule. Ecco come. E dove

NextIn fila per 3.0

LE CARATTERISTICHE

In alcuni paesi, e persino in Italia,la scuola 3.0 si sta già sperimentandoRivoluzionerà il sistema attualedi apprendimento a partire dall’aula Ci saranno:1. debate, e non lezioni

2. didattica multidirezionale3. isole, e non più singoli banchi4. pareti vive, al posto delle lavagne5. cooperative learning

ROSARIA AMATO

COOPERATIVE LEARNING

La lezione non è piùfrontale, per questol’insegnante non siedein cattedraOgni studente, dotatodi computer, potràintervenire per arricchirei temi e gli argomentitrattati di volta in volta

PARETI VIVE

Su ciascunadelle quattro paretidell’aula vengonoproiettati con il pcimmagini e testi utilizzatidall’insegnantemediante il suotablet per presentareun argomento (o ancheun quadro)

Montelupo fiorentinoAll’istituto comprensivo Baccio

da Montelupo (Firenze)

gli studenti delle medie

usano regolarmente computer,

tablet, Lim e libri digitali

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Repubblica Nazionale

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LE ISOLE

Via cattedra e banchisingoli o a coppiaGli studenti si siedonoin banchi a formadi trapezio, che unitiformano “isole”smontabili a secondadelle esigenze

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DOMENICA 24 MARZO 2013

fessore di economia politica al-l’Università di Milano, tra i coordina-tori del rapporto “Progetto Cl@ssi 2.0” — diconoche le nuove tecnologie livellano il terreno di par-tenza degli studenti, agendo come un elemento diinnovazione che ridisegna i rapporti all’insegnadella classe, permettendo di superare la tradizio-nale distinzione tra “bravi” e “scarsi”. Molti fannonotare come sia più facile diversificare l’insegna-mento e le richieste, e che la varietà delle risorsepermette di arrivare a tutte le intelligenze. La se-conda osservazione è che l’insegnante perde dicentralità come unica fonte di autorità, diventan-do piuttosto un “facilitatore”, una guida esperta».Ecco perché gli esperimenti che già fanno intrave-dere la scuola dei prossimi anni non prevedono piùaule con la cattedra: «Stiamo progettando l’aula3.0, a geometria variabile — annuncia GiuseppeStrada, preside dell’Itc Pacioli di Crema — con lepareti “vive”, le postazioni mobili per gli studenti,l’insegnante che gira con il suo tablet, sedendosi inqualunque posto ritenga opportuno. Prevediamoche verrà utilizzata a turno da tutti gli insegnanti,

che avranno modo così di sviluppare ladidattica multidirezionale: non è detto

che gli stimoli debbano arrivare necessariamentedal professore, lo studente diventa protagonistadella lezione, ma al tempo stesso viene molto valo-rizzato il lavoro di gruppo. È un sistema che mi-gliora molto i livelli di apprendimento, fino al 25 percento in più, come emerge dagli studi del Mit». Il

Massachusetts Institute of Technology di Bostonsta infatti collaborando con l’Itc Pacioli e con ungruppo di altre scuole italiane per valorizzare nuo-vi modelli di didattica: «Abbiamo mandato unatrentina di nostri studenti in alcune scuole — illu-stra Serenella Sferza, milanese, docente del Mit —per sperimentare corsi di materie scientifiche co-siddetti custom-tailored, tagliati su misura. Si trat-

ta di un metodo applicativo che mira al problemsolving, la ricerca di una soluzione, piuttosto che al-lo sviluppo di un programma attraverso delle le-zioni. Quelle ci sono ancora, ma costituiscono unmomento preliminare: si guardano sul computer,a casa, prima di arrivare a scuola, ogni studente lofa con i tempi che ritiene più appropriati».

Tuttavia le sperimentazioni permetteranno diarrivare a una scuola nuova, innovativa, solo se sa-ranno il più possibile estese, diffuse e condivise: laraccomandazione per l’Italia arriva dall’Ocse. All’i-nizio di marzo due esperti dell’organizzazione,Stéphan Vincent-Lancrin e Francesco Avvisati,hanno presentato al Miur uno studio sul piano na-zionale per la scuola digitale. In sintesi, l’indicazio-ne è una sola: uscire dalle riserve indiane della spe-rimentazione, rendere tutte le scuole 2.0 (dotan-dole di banda larga) eventualmente anche adot-tando strumentazioni più economiche della lava-gna multimediale («basta un computer con unproiettore»), mettere in Rete i risultati e infine con-dividere.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

School of oneA New York, offre programmi

differenti per ogni studente

Alcuni lavorano in gruppi, altri

da soli, altri col tutor. Non esiste

l’aula, solo grandi isole

Modello rovesciatoAlla Clintondale High School

del Michigan i ragazzi a casa

o mentre sono in giro guardano

sullo smartphone i video delle

lezioni; in classe fanno i compiti

Entrare in un quadro

di Tiziano

e poterne apprezzare

i particolari in 3D

non è come

vederne la foto

sul vecchio Argan

‘‘

Giovanni Biondi

capo dipartimento Miur

IL DISEGNO

Ecco come saràl’aula 3.0Aboliti cattedrae banchiPer l’insegnanteun postoal centrodella stanza;gli studentisi sistemanoa gruppi in banchi che creanodelle “isole”Alle pareti sonoproiettati testie immaginicon il computer

DEBATE

Non più interventi disorganici:tutto si svolgerà secondoregole precise appresemediante il “debate”,una sorta di ars oratoriaai tempi del computer,già conosciuta e codificatanel mondo anglosassone

DIDATTICA

Diventamultidirezionale:gli input non vengonosempre e solodagli insegnantiLa classe riceve stimoliesterni, che poi peròciascuno restituisceagli altri rielaboratisotto altre forme

Come sarà la nuova scuola ormai sembra ab-bastanza chiaro, almeno nelle intenzioni,nelle aspettative, nelle speranze: un luogo di-

namico dove lo studente partecipa e interagisce conl’insegnante presente in classe e con le mille solleci-tazione che gli arrivano tramite il tablet, la lavagnamultimediale, l’infinito oceano di Internet. Sta perfinire la vecchia lezione frontale, quella con il prof incattedra che per un’ora spiega Leopardi o l’ablativo,che si volta solo per tracciare con il gessetto parolesghembe sulla lavagna d’ardesia, la lezione che sod-disfa l’insegnante ma a volte deprime gli alunni, chestanno lì, immobili, inerti, spesso distratti. In Euro-pa questo tipo di insegnamento è superato, e chi an-cora si attarda nei suoi comizi culturali viene vistomale, come un rottame vanitoso di un tempo tra-montato. Insomma, la nuova pedagogia detta rego-le precise: bisogna che la scuola sia un luogo di di-battito e partecipazione, non banchi da scaldare. Lenuove tecnologie sono pronteper trasformare una vec-chia aula in un centro di

raccolta ed elaborazione di dati. Ma c’è ancora un problema da superare, almeno

qui in Italia. I nostri ragazzi intendono la Rete comeuno spazio ludico: scaricano giochetti, accoppanozombie, chattano con gli amici, guardano filmettidell’orrore, qualche porno, si fanno matte risate na-vigando tra le follie catalogate su YouTube, ascolta-no e scambiano musica, se la spassano. Internet èuna giostra infinita che allarga il suo cerchio e i suoicavallini virtuali fino agli orizzonti più lontani, do-ve c’è sempre qualcosa che farà divertire. Ora biso-gna cambiare atteggiamento, far capire ai ragazziche la Rete offre occasioni di approfondimento, bi-blioteche e pinacoteche smisurate, un incredibileallargamento della conoscenza: non si tratta di sca-ricare la ricerca premendo un tasto e stampandoquattro fogli da consegnare a quel babbeo del pro-fessore. Ma di trasformare il Paese dei Balocchi inuna scuola diversa, più vicina ai ragazzi ma non perquesto meno complessa. Insomma: si tratta pursempre di studiare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Tra l’ardesia e il webMARCO LODOLI

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 38

DOMENICA 24 MARZO 2013

I saporiDi moda

Il potere della parola. Kamut, peresempio. Odore di spezie e paesilontani, civiltà antiche e saperi ri-trovati, la Mezzaluna Fertile, culladella civiltà agricola, e i primissimisemi trasformati in cibo. Non pote-

vano scegliere nome migliore, i membridella famiglia Quinn, quando nel 1990 de-positarono il marchio di un cereale, il kho-rasan — Triticum Turgidum sottospecieTuranicum, in linguaggio botanico — col-tivato nell’America del nord. Quasi unquarto di secolo più tardi, il vero nome delgrano khorasan è sconosciuto ai più, sosti-tuito dal marchio (registrato con tanto di®), che identifica il cereale più acclamatoe modaiolo di inizio millennio, d’obbligonei menù piegati alle esigenze della remiseen forme primaverile.

La storia dell’alimentazione è una suc-cessione ondivaga di improvvise accelera-zioni e frenate repentine, innamoramentifulminanti e oblii inspiegabili. Nel corsodei secoli, patate e carni arrosto, zuccheroe tartufi, vino e caffè sono passati dalla pol-vere all’altare e viceversa a seconda di luo-ghi, costi, ceti sociali. Il grano khorosannon si è sottratto alla maledizione dei cibimisconosciuti, se è vero che dopo esserearrivato in America nel dopoguerra grazieal regalo di un viaggiatore di ritorno dall’E-gitto, il progetto della sua coltivazione è fal-lito miseramente per ben due volte. Soloalla fine degli anni Ottanta la diffidenza neiconfronti dei chicchi rustici e giganti arri-vati dall’antico Egitto — in realtà il Khora-san è una regione dell’Iran — ha lasciatoposto al primo serio tentativo di produzio-ne. Le rese si sono rivelate buone, la piantarobusta, il gusto — una volta ottenuta la fa-rina e impastati i primi pani — piacevole.Da quel momento, la popolarità del kho-rasan ribattezzato Kamut ha avuto un in-cremento esponenziale, tra qualità accer-tate e leggende metropolitane, dal ritrova-mento all’interno delle piramidi all’assen-za di glutine (che invece è ben presente). Incompenso, l’analisi nutrizionale eviden-zia ricchezza in minerali — magnesio, zin-co e selenio su tutti — e un’eccellente quo-ta di proteine, lipidi e acidi grassi insaturi(buoni). In più, il khorasan Kamut è in tut-to simile a quello di migliaia di anni fa: nes-sun miglioramento genetico, nessunamanipolazione, nessuna coltivazione in-tensiva a indebolirne la tempra.

Uno status di rustico incontaminatoche facilita la coltivazione organica (obbli-gatoria, nel disciplinare di produzione),senza pesticidi né forzature. Alcuni virtuo-si mulini piemontesi lo impreziosisconoulteriormente, macinandolo a pietra. Ilguaio è che il Kamut sembra amare solo icampi di Alberta e Montana. In più soloquello nordamericano può essere chia-mato Kamut, fattori che stridono pesante-mente con il concetto di chilometri zeroipotizzato per il domani dell’agricoltura abasso impatto economico (costo del tra-sporto) ed ecologico. Comunque, se la fa-scinazione del grano dei Faraoni ha colpi-to anche voi, il libro di Antonella Scialdone— Kamut, 60 ricette per conoscerlo e utiliz-zarlo al meglio, Calderini Edizioni — sod-disferà tutti i vostri quesiti cerealicoli. Al-trimenti, comprate un pacco di farina in-tegrale made in Italy macinata a pietra ededicatevi alla panificazione d’antàn. Conbuona pace dei Faraoni.

Il grano dei Faraoni© RIPRODUZIONE RISERVATA

Kamut®

LICIA GRANELLO

Il marchioKamut è un marchio

registrato e non il nome del grano, che si chiama

khorasan e può essere coltivatoovunque (ma non si

può chiamare Kamut, nome utilizzabile solo dai produttori americani)

Sotto, Kamut e verdure saltate in padella

Tra qualitàaccertatee leggende

metropolitaneper la primavera 2013

va molto

l’antico Egitto

Repubblica Nazionale

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Spuntano improvvisamente come dei pop up damangiare e si installano di prepotenza nel nostroimmaginario gastronomico. La moda è così an-

che per i cibi. Capricciosa e mutevole. Fatta di inna-moramenti virali che spesso durano una stagione. Odiventano un tormentone. Come la rucola. Esplosanegli anni Ottanta è finita dappertutto, dalle tagliatealle orecchiette. Anche quella del ciliegino è stataun’ubriacatura collettiva. Piccolo e tondo come unpacman ha cannibalizzato uno a uno gli altri pomo-dori. Impazzando in tutte le salse, quasi sempre a spro-posito. Come i gamberetti con il mais d’ordinanza.Che negli anni dei Duran Duran e degli Spandau nonfacevano prigionieri.

E adesso tocca al Kamut, un cereale pseudo-egizioche sembra inventato da Ken Follet. E non è finita per-ché l’America Precolombiana, dopo averci angustiato

con la profezia Maya, ci infesta anche con la Quinoa. Uncereale gluten free. Che si è già guadagnato la fama disalvavita per i celiaci. E di talismano per quelli che ce-liaci non sono, ma si comportano come se lo fossero. Eil farro che in Italia si era quasi estinto — e qualche ra-gione ci sarà pure stata — oggi diventa il simbolo del-l’abbondanza frugale, di un’idea di cucina che sta tra ilpauperismo francescano e l’agriturismo dello spirito.

Insomma la moda è sempre moda, ma se una volta icibi cult erano indicatori di ricchezza, simboli di ab-bondanza, surplus di golosità (come tartufi, caviale,petto d’oca, fois gras) oggi va alla grande il toccasana ve-getale, il parafarmaco da mangiare. Un po’ esotico, unpo’ choosy. L’ideale per la tavola nutriceutica. Che facortocircuitare etica e dietetica, ascetismo e salutismo.È la conversione savonaroliana di una società che tra-sforma il sovrappeso in una colpa, l’invecchiamento inreato. E lo sfizio in vizio.

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DOMENICA 24 MARZO 2013

LA RICETTA

Ingredienti per 6 persone

100 g. di zucca gialla100 g. di fagioli 100 g. di carote50 g. di sedano50 g. di porri50 g. di scalogni 100 g. di pomodorini tipo pendolino100 g. di funghi100 g. di farina di Kamut200 g. di farina di grano teneropecorino stagionato, rosmarino, erba cipollina, pepe, peperoncino, aglio, qualche foglia di basilico

Mescolare le farine sul tavolo, facendo cadere delle gocciolined’acqua con le dita e setacciare (i piccoli grumi d’acqua

e farina che si formano resteranno sul setaccio)Ripetere l’operazione più volte, per raggiungere la quantitàdi granetti volutaTagliare a dadini le verdure, unire i fagioli ammollati e cuocere un’ora a partire da acqua fredda, schiumando a bollitura

Fare un soffritto con porro e scalogno, aggiungere pomodori,peperoncino, basilico e pepe, poi unire ai fagioli

e continuare la cottura della zuppa almeno venti minutiIn ultimo, far scendere nella pentola i granetti e cucinare per cinque

minuti. Servire con un’abbondante grattugiata di pecorino, erba cipollina tritata e un filo d’extravergine ✃

Mattia Spadone e il gemello Alessio,in sala, sono figli d’arte: i genitoriMarcello e Bruna sono i loro tutori a “La Bandiera” di CivitellaCasanova, Pescara, dove trionfal’impronta del territorio, come nella ricetta per i lettori di Repubblica

Granetti di Kamut con fagioli tondino e finferli

A tavola

In principio fu la rucolaMARINO NIOLA

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ST

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

SpaghettiPastifici artigiani e grandi

marchi propongono

la pasta dal lieve gusto

nocciolato che ben si accorda

con sughi di verdure

e condimenti freschi

CiambellaFragrante e burrosa, la farina

si declina in cento lievitati

differenti — croissant

compresi — regalando

allo stesso tempo

consistenza e sofficità

DrinkAcqua, olio di semi

di girasole e cartamo,

più un pizzico di sale marino

(che esalta la nota dolce)

per la ricetta della bevanda

alternativa al latte

ZuppaChicchi ammollati per tutta

la notte (integrali) o lavorati

per accelerarne i tempi

di cottura (perlati)

Si preparano in brodo

di verdure, o con legumi

FarroTre tipologie — spelta,

dicocco e monococco

(a basso contenuto di glutine)

— per il grano rustico

e dolce, antesignano

del moderno grano tenero

MaisIl giallo re dei cereali

latinoamericani — detto

anche granoturco

o meliga — si usa a 360 gradi,

dai biscotti ai biocarburanti

È privo di glutine

Grano saracenoCrêpes, pizzoccheri — tipica

pasta valtellinese — e polenta

taragna (con formaggi)

per il simil-cereale proteico

e senza glutine,

di colore grigiastro

QuinoaTre colori — giallo, rosso

e nero — per il non-cereale

senza glutine coltivato

sulle Ande, ricco di proteine,

grassi insaturi, vitamine

e oligoelementi

PaneStruttura consistente,

morbidezza, profumo, sapore

caratteristico e lunga durata

sono frutto di impasti

che rendono al meglio

con il lievito naturale

SegaleGusto intenso, poche proteine

e glutine per la farina nera

che ama il freddo

Grazie all’ottima capacità

di assorbire acqua,

i pani riescono umidi e duraturi

Gli indirizzi

DOVE MANGIARE

OSTERIA DA GEMMA

Via Marconi 6

RoddinoTel. 0173-794252

Chiuso lunedì e martedì, menù da 25 euro

L’OSTERIA DEL VIGNAIOLO

Regione Santa Maria 12, La MorraTel. 0173-50335

Chiuso mercoledì e giovedì, menù da 32 euro

LA TORRE

Via dell’Ospedale 2

CherascoTel. 0172-488458

Chiuso lunedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRARE

MULINO MARINO Via Caduti per la Patria 43

Cossano BelboTel. 0141-88129

MULINO SOBRINO (con camere)

Via Roma 108

La MorraTel. 0173-50118

IL FORNO

DEL BUON PANEBorgo Corini 3

RoddinoTel. 0173-794088

DOVE DORMIRE

CORTE GONDINA Via Roma 100

La Morra Tel. 0173-509781

Camera doppia da 110 euro, colazione inclusa

AGRITURISMO IL CORTILEVia S. Croce 17, Diano d’AlbaTel. 0173-69595

camera doppia da 75 euro, colazione inclusa

AMALIA CASCINA IN LANGALocalità Sant’Anna 85

Monforte d’AlbaTel. 0173-789013

Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

I PIATTI

GLI ALTRI CEREALI

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 40

DOMENICA 24 MARZO 2013

Figlia d’arte, a tre anni volevaun agente. Lo ha avuto a sei, e a sediciha smesso di studiare: “La mia scuolaè stata il cinema”. Da “SognandoBeckham” a “Pirati dei Caraibi”,

ora nei panni di AnnaKarenina, la star inglesesi guarda allo specchio:“Noi attori non siamoche ombre, solo finzionee trucco. Per esempio

prendete me: nella realtàsono piatta come un’assee ho anche l’acneDelusione terribile, vero?”

PARIGI

Una risata, per comincia-re. Ridere, spiega, è lasua prima autodifesa,un’arma preventiva

contro le domande insidiose: «Ho im-parato a sorridere quando devo riflette-re e a ridere per salvarmi dal confrontodiretto: funziona altrettanto bene al ci-nema che negli incontri». Via, allora, arisate e sorrisi: su uno dei volti più in-cantevoli del cinema d’oggi, faccia dilanguida scolaretta sempre all’erta,adusa all’affabile ma discreta distanzadel tè delle cinque da brava inglese dibuona famiglia. Keira Knightley, ven-totto anni tra due giorni: si sentirà piùmatura? «Sono cresciuta molto in fret-ta, mi pare d’essere adulta già da tempo:è da tanto che affronto da sola le mie re-sponsabilità e, da sola, decido. La miafortuna è stata di avere genitori formi-dabili, che hanno saputo consigliarmisenza mai impormi nulla. Mio padre,Will Knightley, è un veterano del teatro.Mia madre, Sharman Macdonald, attri-ce, ora scrive commedie. All’inizio han-no fatto di tutto per scoraggiarmi, poihanno capito che ero troppo determi-nata. Mi hanno entrambi aiutata, fin dapiccola, ma hanno sempre aspettatoche fossi io a volere. Il mio primo provi-no, il mio primo spettacolo, il mio pri-mo film, sono io ad averli decisi: fin da

quando avevo dieci anni». Davanti a un kir royal sul BoulevardSaint Germain, nello storico Café Flore,naturalmente il suo preferito a Parigi,rivestita di Chanel (di cui è da sette annil’intrigante testimonial), trucco e pro-fumo inclusi, l’attrice britannica esibi-sce la spumeggiante sicurezza d’unamanager in erba: «Da una quindicinad’anni giro film e da una decina ne assi-curo la promozione. Potrei considerar-mi una vecchia professionista delloshow business». Anche perché ci si èmessa fin da piccina: «Già a tre anni ave-vo deciso di diventare attrice. Una ba-nalità devastante, vero?». Leggendavuole che proprio così piccina avessepreteso un agente: «Mi pareva natura-le, dato che sia mio padre che mia ma-dre ne avevano uno. Sono riusciti a con-vincermi ad aspettare un po’: ho firma-to il primo contratto con un agente a seianni. Ecco che tipo di moccioso si tro-vavano tra i piedi». Come mai questavocazione divorante? «Tutta colpa del-l’ambiente casalingo, che si popolava aciclo continuo di attori, autori, registi:in gran parte politicamente engagés.Non capivo nulla delle loro discussioni,ma bevevo una a una le loro parole. So-no cresciuta con l’idea che l’arte puòcambiare il mondo. Quegli ospiti sonostati i miei eroi d’infanzia, Superman eBatman che razzolavano per casa. Hoscelto la loro professione perché, sem-plicemente, volevo emularli». Con filmcome Sognando Beckham, che l’ha lan-ciata, o i primi tre Pirati dei Caraibi?«Sono stata presa in giro dagli amici pri-ma delle riprese di Beckham («che ci faiin un film sul calcio?») e prima e dopo itre Pirati («sei diventata una nuova at-trazione di Disneyland?»). Ma mi sonodivertita un mondo. Con I pirati dei Ca-raibiho cominciato a diciassette anni eho smesso a ventuno, non avevo mai vi-sto tante persone e tanta effervescenzasu un set. E poi girare scene d’azione co-sì fisiche è stato un regalo per me che so-no un maschiaccio mancato». Ma-schiaccio? «Anche nel modo di vestire,à la garçonne, d’accordo, magari un po’chic. Fino ai quattordici anni non ho in-dossato gonne: le odiavo. Al contrariodelle camicie da uomo. Insopportabil-mente snob, vero? In più, sono moltoanalitica. I film più recenti, da Seta diFrançois Girard (dal vostro Baricco) aNon lasciarmi di Mark Romanek, ad

Anna Karenina di Joe Wright o, adesso,Jack Ryan, spy-story di Kenneth Brana-gh, li ho presi come una sfida al mio in-telletto: non è troppo arduo sfidarmi in-tellettualmente... Se fossi più femmini-le, lavorerei di più con il cuore. Ma la ri-cerca mi ha sempre incantata. Prima diA Dangerous Method di David Cronen-berg ho trascorso sei mesi a leggermil’impossibile su psicoanalisi e SabinaSpielrein. Certo, non dico di aver capitotutto. Sa, ho lasciato la scuola a sedicianni e non ho goduto d’altra formazio-ne didattica che dell’approfondimen-to, dovuto a questo o quel film, dellematerie più diverse. Questa è stata lamia scuola».

Mai una ricreazione? Matrimonio, fi-gli? «Io sposata, mamma? Neanche persogno. Mia madre m’ha fatto promet-tere di rifletterci su: niente colpi di testa.

Alla mia età voglio prima di tutto ap-profittare delle opportunità del lavoro.Non mi vedo attrice tutta la vita. Forseancora una decina d’anni, e stop. Verràil momento della famiglia». Da un po’ èperò assediata da un certo James Righ-ton, musicista dei Klaxons e suo tenacefidanzato: «Ma come suona romanticaquesta insinuazione, espressa in un in-glese con accento italiano», scoppia aridere. «Ci sentiamo più che appagaticome semplici fidanzati: al punto chepotremmo rimanerlo per sempre — al-tra risata — chi lo sa?».Le sfugge che og-gi è l’agognata fidanzata d’infiniti spa-simanti in coda, dai diciotto ai sessan-totto anni? «L’arte della seduzione nonè mai stata il mio forte: potrei farmi cor-teggiare per un’ora senza rendermeneconto. Un disastro. Mi attraggono gli in-contri, gli scambi d’idee. Mi annoianosolo i tipi pesanti, ma li liquido alla svel-ta con una sonora risata. Voi uomini visentite disarmati se una ragazza vi ridein faccia quando vi prendete sul serio».La seduzione per finzione è per lei ungiochetto più semplice? Come in TheHole, con il nudo integrale a quindicianni o nello spot Chanel, ora censurato,perché — questo il goffo verdetto —«sotto il vestito fa intuire la nudità»? «Lescene erotiche sono sempre le più faci-li per me. Sono europea e non ho pro-blemi con la nudità, se è funzionale o semi fa ridere. Trovo anzi che sia liberato-rio spogliarsi. Una donna può usare ilcorpo come arma per accrescere il suopotere davanti a un uomo». Può basta-re il décolleté, uno di quelli abissali diAnna Karenina: «Merce contraffatta:sono piatta come un’asse! E così di-struggo di colpo il fantasma di molti ra-gazzi», ride di cuore. «È per me una de-lizia guardarmi su grande schermo conun seno rigoglioso, e senza nemmenolo sforzo d’un intervento di chirurgiaestetica: solo un paio di sfumature.Ogni mattina, un’amica truccatrice di-segnava ombre tra i miei seni per darel’illusione d’un petto generoso. Provi aimmaginare: una mezz’ora al giornointenta a farmi disegnare i seni da unadonna... Un bell’incentivo ai fantasmierotici maschili, no?». E truccarsi, lepiace? «Oggi ho quintali di trucco in fac-cia, per via dell’acne… ormai so comeneutralizzare i foruncoli. Ma le proibi-sco di guardarmi troppo da vicino».

Il successo la stuzzica? «Sì e no. Avere

un’intera équipe sul set ogni giorno agliordini del tuo look è quasi un sogno diragazzina: come essere una perenneprincipessa, con tutti quei boccoli fintid’eroina ottocentesca appiccicati in te-sta. Ma il mio mestiere non è di farmi ri-conoscere dall’immagine o dal cogno-me. Desidero essere un’attrice e spero,un giorno, d’arrivare al livello di JudiDench, la mia partner in Orgoglio e pre-giudizio. Il solo osservarla durante le ri-prese è stato per me un corso di recita-zione». Come vive gli obblighi dello starsystem? «Ho raggiunto la celebrità gio-vanissima. A lungo mi ha creato confu-sione e anche un bel po’ di spavento.Non mi sentivo all’altezza. Ne traevoconferma dalle cattiverie che periodi-camente ho subìto dai cosiddetti fan,accaniti sul “difetto” d’una suppostaanoressia: il che faceva imbestialire miamadre, mentre a me, ogni volta che sen-tivo la parola dieta, veniva una gran vo-glia di cioccolata. La gente diventa cru-dele se ti vede occupare un posto doveè convinta che tu non debba stare: qua-si fossi una pubblicità e non una perso-na. Shakespeare lo diceva del genereumano: per me gli attori sono ombre.Non esistono. Interpretano personag-gi immaginari. Il trucco è la loro iden-tità, gli abiti sono di qualcun altro. Fin-zioni, talora immortali, ma finzioni.Perciò quando la gente ci vede comesiamo, nella realtà, rimane terribil-mente delusa».

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L’incontroSmascherate

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Keira Knightley

MARIO SERENELLINI

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