La Città Veneta - Architetti Verona · La perdita del distacco tra città e campagna Tutta questa...

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ARCHITETTI VERONA La Città Veneta La Città Veneta ARCHITETTI VERONA - Bimestrale sulla professione di Architetto dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Verona Sped. in A.P. - 70% - DCI VR - In caso di mancato recapito restituire all’Ufficio di Verona CMP detentore del conto per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tariffa

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A R C H I T E T T I V E R O N A

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Filippo Bricolo 11 Paesaggio urbano Editoriale

Filippo Bricolo 12 La Città Veneta

Mario Rigoni Stern 22 Dialogo sulla città e la montagnaEugenio Turri

Franco Purini 24 Nord-Sud, Est-Ovest

Alex Mefalopulos 26 Emozioni da città veneta

Renato Bricolo 28 Dialogo sui caratteri venetiPierpaolo BrugnoliPaolo Pieri

Giorgio Massignan 30 Note di urbanistica a Verona

Anna Braioni 32 Lavori in corsoCronologia di un piano

Maddalena Basso 40 Biblioteca

Fabrizio Quagini 41 Frontiere

Stefano Bocchini 42 CalendarioMorena AlberghiniGiuseppe Monese

Stampa: Grafiche Fabula - Verona

Concessionaria esclusiva per la pubblicità:

Redazione: Via Oberdan, 3-37121 VERONATel. 0458.034.959 (2 linee r.a.) - Fax 0455.923.19Direttore Responsabile: Giorgio Massignan

S o m m a r i o

Gli articoli e le note firmate esprimono l’opinione degli Autori, e non impegnano l’Editore e la Redazione del Periodico. La rivista è apertaa quanti, Architetti e non, intendano offrire la loro collaborazione. La riproduzione di testi e di immagini è consentita citando la fonte.

Questo numero è stato curato da:Filippo Bricolo

Si ringraziano per la collaborazioneFrancesca Falsarella per l’articolo“Dialogo sulla città e la montagnae Nicola Brunelli per l’articolo“Nord-Sud Est-Ovest”.

Via Dietro Pallone, 12 - 37121 VeronaTel. / Fax: 0458.034.290

e-mail: [email protected]

ARCHITETTI VERONA

Rivista bimestrale sulla professione di architettofondata nel 1959Terza Edizione - Anno IX - Maggio/Giugno 2001Aut. del Tribunale di VR n.1056 del 15/06/1992

EditoreORDINE DEGLI ARCHITETTIDELLA PROVINCIA DI VERONA

CONSIGLIO DELL’ORDINE(Comitato di Direzione di Architetti Verona)

Presidente: Giorgio Massignan

Vice-presidente: Arnaldo Toffali

Segretario: Marco Arfellini

Tesoriere: Giancarlo Franchini

Consiglieri: Paola Bonuzzi

Iris Franco

Lorella Polo

Paola Ravanello

Enrico Savoia

COLLEGIO DEI REVISORI DEI CONTI

Presidente: Susanna Grego

Revisori: Marco Angelo Brugnoli

Andrea Cugola

Raffaele Malvaso

Andrea Mantovani

Direttore: Giorgio Massignan

Coordinatori: Paola Ravanello

Redazione: Morena Alberghini • Laura

Allegrini • Renzo Andreoli • Gianluca Anterri

• Maddalena Basso • Stefano Bocchini • Lino

Vittorio Bozzetto • Filippo Bricolo • Marco

Brugnoli • Sara Caloi • Carlo Alberto Cegan

• Roberto Danieli • Andrea Donelli • Nicola

Grandis • Desana Lyskova • Alexandros

Mefalopulos • Amedeo Margotto • Fiorenzo

Meneghelli • Cinzia Righetti • Fabrizio

Quagini • Giuseppe Risegato • Andrea Russo

• Arnaldo Savorelli • Laura Scarsini •

Arnaldo Toffali • Massimiliano Valdinoci •

Roberto Verdolini • Alberto Zanardi

Prima di copertina: Zeno Guarienti - Studio 12

Impaginazione: Zeno GuarientiStudio 12

Fonti delle immagini: Archivio F. Bricolo (pagg.: 11, 14, 17, 18, 19, 20); A.A.V.V., “La Marca Trevigiana” (pagg.: 12, 16);A.A.V.V., “I centri storici del Veneto”, a cura di Franco Mancuso e Alberto Mioni (pagg.: 13, 16, 20, 21, 23, 30, 31); ArchivioA. Mefalopulos (pagg.: 26, 27); National Geographic Giugno-Luglio 2001 (pag.: 18); A.A.V.V., “Veneto” (pagg.: 12, 19, 22);S. Munarin, M. C. Tosi, “Tracce di città” (pagg.: 13, 14, 15, 16); L. Meneghello, “Libera nos a Malo” (pag.: 19); Regione Veneto.Classificazione morfologico-strutturale delle aree urbanizzate - Piano di sviluppo zone rurali Ob. 5B (pagg.: 17; 21)

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filippo bricolo

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Come un vero fortino, sotto l’assedio di un territorio ostile, la vil-letta e il capannone (all’interno della grande lottizzazione veneta),diventano icone dell’urbanistica e dell’architettura contemporanea.Il “lotto”, loro necessario compimento, è il contenitore. Sostituisceil luogo. È lo spazio “bloccato” per eccellenza, contraddistinto dallerecinzioni e dalle alte siepi che lo proteggono dagli sguardi indesi-derati dei vicini, nucleo monofunzionale disperso in un sistemaframmentario, regno della segregazione consapevole, incontrastatoe tirannico protagonista della vittoria finale del dominio privato suquello pubblico, non-luogo, anti-città, eppure, incomprensibilmen-te, strumento attuativo primario dello sviluppo urbano.Nel frattempo, a pochi metri di distanza, la città storica, nonostan-te i continui tentativi di fossilizzazione ed il rischio costante di unamorte per asfissia (sotto il peso fatale del proprio mito), continua afar risuonare l’emozione e la bellezza del dominio pubblico nellacassa armonica dei suoi spazi urbani.Il cittadino veneto vive, così, la sua doppiezza, danzando allegra-mente sul crinale pericoloso del suo ambiguo andamento, sospesotra i poli incongiungibili della sua unitarietà. Come lui, la Città Ve-neta, vorace divoratrice di paesaggio e testimone fedele di un’iden-tità territoriale, contemporaneamente introversa e dialettica, poli-centrica e diffusa, bloccata e aperta, disordinata e bella, colta eignorante, amplifica i suoi opposti, fino a mescolarli e a farli implo-dere nel sincretismo assoluto del “paesaggio urbano”.

Empatia ed autopsia della città veneta

paesaggio urbano

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filippobricolo

la città veneta

Eravamo rinchiusi in una struttura preci-sa, c’era la chiesa con il campanile legger-mente staccato, attorno ad ogni campanilesapevi che c’era era un paese e fra un paesee l’altro la mitica campagna veneta colmavagli spazi e costituiva il tessuto connettivodel paesaggio.

Gli insiemi di campanili, erano costellazio-ni proiettate sul terreno per orientarsi nell’o-rizzontalità della pianura.

Più in su, c’era la fascia pedemontana epoi ancora le montagne da dove erano for-se calate le prime popolazioni venete e dadove scendevano i fiumi in cerca di città daattraversare.

I fiumi, sospinti dalle nebbie, come noi,erano attirati dalle suggestive calamite del-l’oriente, tendevano a levante, era un’attra-zione che si sentiva, verso la laguna, verso ilmare, l’orizzonte piatto.

I fiumi, si potevano anche risalire, contro-corrente, come le trote, verso il luogo precisodi un commercio, di un incontro o più poeti-camente verso un inizio sognato.

E poi c’erano le città, tante, tantissimecittà, ognuna difforme rispetto alle altre main fondo tutte uguali, chiuse dalle mura e di-sperse nel territorio.

Per andare da una città all’altra si dovevauscire da una porta, seguire una precisa stra-da, immergersi nel paesaggio, per poi rie-mergere davanti ad un’altra porta e così via,entrando e uscendo, dalle mura e dalla cam-pagna, si attraversava lo spazio dei nostripredecessori.

Tutto era abbastanza chiaro nel Veneto dipochi anni fa.

La perdita del distacco tra cittàe campagna

Tutta questa pulsione, questo erotismo delpaesaggio, di un dentro e fuori la strutturaurbana, con il ritmo incessante città-campa-gna, campagna- città ora è sfuocato.

La naturale propensione veneta alla diffu-sione ha stemperato i limiti.

Non più città-chiuse, città-nucleo con lemura merlate per proteggere l’interno dal-l’assedio del paesaggio, ma città-molli, città-elastiche tirate in tutte le direzioni dalletraiettorie dei passaggi.

La peculiarità della Città Veneta, si esplici-

ta principalmente nella perdita del distaccofisico tra la città e la campagna. L’amplia-mento a dismisura e degradato delle perife-rie dei vecchi e magnifici centri urbani ha in-vaso il paesaggio, penetrando prepotente-mente nei fondali del Giorgione o del Bellini,minacciando la sintesi perfetta tra natura earchitettura del Mantegna (tanto amata daAlvar Aalto), invadendo Este come ci è testi-moniata da Giovan Battista Tiepolo o il pae-saggio affascinante di Domenico Brusasorci.

La “città diffusa”Aggiungendo e disperdendo si arriva, così,

al fenomeno della “città diffusa”, al paesag-gio totalmente antropizzato, all’unione delleconurbazioni periferiche, in un’unica conur-bazione senza limiti.

Una sequenza di villette, capannoni e cen-tri commerciali, scandiscono, senza soluzionedi continuità, il ritmo della nuova babeleorizzontale. Sono oramai parte dell’immagi-nario collettivo, rappresentano il mito dellacittà a crescita illimitata contro quello dellacittà introversa, romanticamente chiusa, co-me un labirinto a centri concentrici, dallemura medievali, venete, viscontee o romane.

Ogni anno, in Veneto, si costruiscono circatre milioni di mq relativi a superficie resi-denziale. Di questi tre milioni, solo il 10%viene edificato nelle città capoluogo e soloil 14% riguarda ampliamenti piuttosto chenuove costruzioni. In tutto fanno 19.000abitazioni all’anno. (S. Munarin, M.C. Tosi,“Tracce di città”). Se pensiamo poi, che perogni metro cubo di abitazioni, se ne realizzapiù del doppio di edilizia non residenziale,possiamo allora farci un quadro completodella situazione.

Da ogni piccolo paese e da ogni città delterritorio veneto, per effetto di questa massi-va edificazione, si stanno sviluppando am-pliamenti che vanno a riempire gli spazi vuotiuna volta esistenti tra i diversi nuclei urbani.

Un unico, affascinante e minaccioso orga-nismo si estende da Verona fino a Porto-gruaro, dai sette comuni a Comacchio, lungol’A4, il Terraglio, il Brenta. Seguendo le rettedelle strade o le curve sinuose dei torrenti.

Muovendosi nell’immensa area urbana,che va dall’Adige fino al Tagliamento, si per-corre il territorio della nuova Città Veneta,

una città che comprende contemporanea-mente gli opposti della leggerezza e dellagravitas della leggenda e dell’oblio.

La Città Veneta è, tutto ciò, incondizio-natamente.

Schizzofrenie urbaneNon esiste, in realtà, una cosa chiamata

Città Veneta, ma esistono particolari case,gruppi di palazzi, ombre, uomini e storie chela connotano.

La Città Veneta, non è una città tradizio-nale, così come i nostri schemi mentali lapotrebbero disegnare, ma una nuova realtàin perenne evoluzione, che assembla e modi-fica tutti i diversi elementi già presenti delterritorio mescolandoli alle nuove edificazio-ni.

Innestando nuovi frammenti o disperden-do tasselli, come micro-poli funzionali, l’e-spansione degli abitati arriva a costituire unastruttura unitaria e complessa che si confi-gura come un grande sistema urbano e terri-toriale, psicologico e politico che sfugge adogni semplicistica definizione.

Come una somma, approssimabile solo perdifetto, la nuova città si manifesta nella suaincalcolabile naturalezza, diventando imma-gine icastica del nuovo vivere.

Al centro di questa multiforme entità, bensaldo nella sua posizione, incurante dellostravolgimento urbanistico che sconvolge ilsuo territorio, si trova il cittadino veneto,balzato, nell’arco di cinquant’anni, dalla po-vertà e dalla emigrazione, alla ricchezza edalla sicurezza economica.

In questa rivoluzione “dall’aratro ad inter-net”, come è stato detto, o dal bagno ingiardino, alla Mercedes, nel medesimo giar-dino, egli ha acquisito una forte coscienza disé e delle proprie potenzialità.

Eppure, dietro questa spavalda certezza, sicela l’ombra propria di una incoscienzaprofonda. Il cittadino veneto, si trova in que-sto modo a possedere contemporaneamentedue facce opposte: una, illuminata al soledella sua sentita o presunta identità ed una,al negativo, inconsapevolmente incoerentecon la prima, ma congrua alla reale espres-sione di sé e coincidente con la fisionomiadell’attuale panorama urbano.

Manca, quindi, una coscienza esplicita edavvertita, alla città reale che intanto vive esi espande con un ritmo di 25 milioni di me-tri cubi all’anno, auto-organizzandosi in au-tonomia da un governo effettivo del territo-rio, come un vascello fantasma od un giar-dino in abbandono.

La città, congiuntamente al cittadino ve-neto, alterna queste due facce opposte, inuna allegra e operosa schizofrenia, unadanza ossimorica degna della proverbialelucida pazzia.

Veneti e Città VenetaNonostante, l’intero spazio urbano e terri-

toriale, sia stato totalmente rivoluzionato estravolto, manca ancora, da parte della so-cietà, un rilevamento dei cambiamenti, unriconoscimento dei nuovi modelli di vita edegli errori commessi, ma soprattutto, man-ca una ricerca degli antidoti o delle propostecorrettive necessarie, per rispondere alla in-cessante domanda quantitativa di architet-tura, con esempi di qualità che garantiscanouna corretta sostenibilità delle scelte urbane.

Diceva, più di dieci anni or sono, GiovanniMichelucci: “Accettare la periferia come me-tafora della nostra esistenza, significa anchericonoscere la periferia come conseguenzadiretta della nostra cultura” aggiungeva poiche “riconoscersi è già un passo avanti”.

Mi trovo d’accordo con questa afferma-zione, perché penso che l’architettura, comel’arte o la letteratura, può essere assimilataad uno specchio nel quale vengono riflessi lacultura ed il modo di vivere di una società.

Ogni città, è un ritratto della società chel’ha edificata ed il suo destino coincide con ildestino degli uomini che la popolano. Così,quando vogliamo conoscere una popolazio-ne del presente o del passato, spesso ne os-serviamo l’arte, i monumenti oppure le città.

Se ciò vale per l’osservazione degli altri, amaggior ragione, varrà anche per noi. Pos-siamo, allora, parafrasando il titolo di unacelebre rivista, dire che Spazio=Società, osemplificando ulteriormente l’uguaglianzadichiarare che Uomo=Città.

Tramite le forzature di queste due equa-zioni, arriviamo all’accettazione della CittàVeneta come esito ed effetto di un Noi-cau-sa e possiamo provare a riconoscerci in essa:

Siamo effettivamente le nostre periferie?L’infinita rete delle aree metropolitane o la

“città diffusa”, popolata dalle villette mono-familiari, costituisce la mappatura della no-stra identità territoriale?

I cuscini nebbiosi delle zone industriali, suiquali sonnecchiano i vecchi centri storici,rappresentano, effettivamente, i connotatidella nostra fisionomia?

Cosa vogliamo? Chi siamo? Cosa tentiamo di trasmettere con i nostri

nuovi insediamenti? Siamo l’architettura senza qualità che edi-

fichiamo con tanta energia? Perché viviamo approfittando della rendi-

ta estetica del nostro passato? Perché le nostre aree metropolitane non

riescono a fare “città”? Perché siamo schizzofrenicamente oscil-

lanti tra un conservatorismo integralista,dentro le mura, ed un fatalismo distruttorefuori di esse?

Queste domande, non sono un sempliceatto d’accusa, ma constatazioni legittime,sottese implicitamente alle nostre azioni.

La città è un sismografo che registra im-placabilmente le tensioni del nostro volereed il risultato è un tracciato urbano che cidice chi siamo. Che ci piaccia o no, l’uomo

Il Piave nei pressi di Belluno In basso: Treviso, PortaSan Tommaso

Le mura di Monselice.L’accrescimento delle cerchiemurarie

La campagna del “Quartier diPiave” vista dalla chiesetta di SanGallo: il campanile di Falzè diPiave e, sullo sfondo, il Montello

Giambattista Tiepolo, undettaglio della veduta di Este.In basso: Veneto, 2001.Panorama urbano

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“veneto” e la regione “Veneto”, così comesembra suggerire la grammatica, coincido-no veramente.

Il problema, allora, non sta nella perditadi una identità regionale, ma nel fatto chel’identità che emerge dal territorio, non cisoddisfa.

Se, paradossalmente, non ci sentiamo chisiamo, dovremmo almeno cercare di capirechi crediamo di essere, correggere il tiro do-po gli anni della rinascita e del tanto decla-mato miracolo economico, proporre nuovi epiù consapevoli approcci alla pianificazioneurbana che, come ammonisce Richard Ro-gers nel suo “Città per un piccolo pianeta”,mirino ad integrare le responsabilità e ne-cessità sociali. Le città sono cresciute ecambiate diventando strutture così com-plesse e così difficili da gestire che è difficilericordare come esse esistano in primo luogoe soprattutto per soddisfare le necessità so-ciali e umane della comunità. Al contrario,raramente sono viste sotto questo aspetto.

Ipotizzare un viaggio, all’interno della“città diffusa”, è utile per rilevare le differen-ze abissali esistenti tra i poli opposti dei vec-chi centri urbani e le nuove edificazioni pro-gettate come fossero “soggetti a sé stantipiuttosto che elementi in grado di racchiu-dere il dominio pubblico e dargli forma”.

Gita fuori portaOvvero: necrologio dello spaziopubblico

Il pulmino a due piani, zeppo di turisti, ri-bellandosi al suo destino-tram-tram, escedalle strette strade del centro storico e lasciaalle sue spalle la città delle ombre fisiche e

della storia, l’anima scolpita della città roma-na e la mitopoiesi degli scaligeri. La teleca-mera, come un moderno e disperato Polife-mo, riprende implacabile lo scivolone dellacittà dentro l’area metropolitana.

Dal finestrino, retine incredule, guardanosfilare lottizzazioni, semafori e cartellonipubblicitari: gli attori indolenti della com-media urbana.

Su fianchi di capannoni prefabbricatigemmano improbabili abitazioni signorili. Lerecinzioni, non gli edifici, definiscono i vuotidella città, vuoti senza peso, spazi di risulta,microcosmi, un linguaggio urbano contrad-distinto dalla segregazione, fatto siepi e can-cellate. Palazzetti di uffici, dalle pareti aspecchi, riflettono e distorgono la rigida ste-reometria del pullman.

Tutt’attorno: provvisorietà latenti e som-me di spazi bloccati.

Il mondo dell’esposizione contemporaneasi oppone, con la sua superficialità, ed il suospiccato individualismo, alla incredibile eprofonda sedimentazione dell’architetturastorica che, donando i suoi spazi comuni allavita pubblica, determina una città più uma-na, in grado di esaltare il senso civico, incen-tivare gli incontri tra le persone, coinvolgeregli uomini nella bellezza e l’arte dei suoispazi costruiti.

Dentro le mura l’architettura, la città, l’uo-mo, la storia, la letteratura si fondono comemani, occhi, spalle, cervello, orecchie, cuore,

Veneto, 2001. Veduta.Una casa all’interno di unalotizzazione.Spazio bloccato pereccellenza:icona del dominio privato

Venezia. Veduta.Piazza San Marco.Spazio aperto per eccellenza:icona del dominio pubblico

Rete stradale nell’area centraleveneta nella zona a nord-estdi Padova

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gnatela su ci cui si muove. E così, tesse la sua tela, costruisce e costi-

tuisce, a modo proprio, la sua personalecittà, scegliendo i luoghi dispersi ed unen-doli con i fili del suo movimento. Sulla tra-ma già complessa, del territorio metropoli-tano, egli sovrappone i suoi orditi-sposta-menti, viaggia nello spazio diffuso, unendoframmenti eterogenei di città per formare lacittà dei suoi bisogni. La sua composizionediventa una raccolta di tessere, che ricom-pone con insistenza, per disegnare il quadrodelle sue esigenze, affiancando, mescolando(come in un mosaico astratto) pezzi di anti-chi centri urbani, pompe di benzina, lacertidi paesaggi contadini, zone commerciali ezone industriali.

A questa dispersione dei poli attrattori sideve la situazione particolarissima dellamobilità in Veneto che oltre a dover ancorarisolvere i noti problemi di attraversamentoentrata ed uscita per il commercio, deveriuscire ora, a connettere tra loro, un’infi-nità di punti di interesse sparsi quasi a casonel territorio.

La congestione, non è quindi solo nellegrandi arterie di traffico, ma ovunque nellarete, perché ovunque vi è un luogo di inte-resse: casa, ufficio, fabbrica, capannone, mu-seo, supermarket.

Dal flusso città-campagna si è arrivati alflusso ovunque-ovunque.

Di questa modifica, ne sono testimoni lavita e le sequenze di movimenti giornalieridi un cittadino qualunque, il quale, può al-zarsi la mattina nella sua casa posta all’in-terno di un quartiere residenziale del paese(a), andare a lavorare nella zona industrialedella città (b), fare la spesa nel centro com-merciale posto in (c), alla sera andare nelcentro fitness della località (d) e poi finire laserata nel locale che si trova nel vecchiocentro storico (e), o nel multisala all’internodella zona industriale (f).

Inclinazione naturale alla disper-sione

Sprawl (=dispersione) non è, però, un ter-mine nuovo quando si ragiona sull’area ve-neta. Più voci, infatti, parlano di un’inclina-zione naturale alla dispersione che ha dasempre connotato gli insediamenti di questaregione. Disperso, era già il territorio roma-no, come disperso per nuclei era quello me-dioevale. Nella storia, si sono sovrapposte di-spersioni su dispersioni e quello che vediamoè il risultato di tali operazioni.

La particolarità di questa regione è quelladi essere un frutto informe e senza nocciolo,come un grappolo d’uva, con acini-città uni-ti da un grande numero di strade.

Il precedente, dell’attuale “città diffusa”, sitrova nel policentrismo che non è una crea-zione dei tempi moderni, ma un’attitudineconsolidata storicamente. Verona, Vicenza,Padova, sono città di pari importanza ed

ogni tentativo di stabilire un centro più-cen-tro, rispetto agli altri, è sempre fallito. Lascelta di Venezia, oramai città-fantasma,città-museo, come sede giuridica e ammini-strativa, rappresenta meglio di ogni metafo-ra l’inconsistenza di una effettiva centralità.Posta all’estremo oriente, nella laguna (nem-meno sulla terraferma) e senza peso demo-grafico, Venezia, non starà mai al Veneto co-me Milano alla Lombardia, Firenze alla To-scana o Bologna all’Emilia.

In questa regione, si riscontrano altri fat-tori determinanti nella costruzione del pae-saggio urbano attuale, come la mancanzadi mortalità degli organismi urbani o latendenza assoluta alla modificazione di ciòche già c’e, atteggiamento definito, da piùparti, continuismo: Este, Montebelluna,Asolo, Oderzo, Adria, Feltre sono città pre-esistenti assorbite dai romani e ancora oggivive, Padova e Verona furono costruite dairomani su vecchi centri e sono tuttora poliimportantissimi nel territorio, Villafranca,Cittadella, Castelfranco, Monselice, Noale,Portogruaro, Bassano sono insediamentimedioevali che hanno raggiunto discretedimensioni urbane.

In Veneto, ci sono città riciclate, rigenera-te, violentate, salvate ma non ci sono nuovecittà da molto tempo.

La novità, non è quindi la regione policen-trica o la “città diffusa” ma l’aumento di po-licentrismo, l’esagerazione di diffusione, lacaricatura di un vecchio vizio, di un tic urba-no: le città-spugna che a contatto con il li-quido umano aumentano di volume fino atoccarsi ed opprimersi a vicenda eliminandogli spazi vuoti.

La Città Veneta, quindi, è una costruzionespontanea non una città ideale od unacreazione di un illuminista che vuole impri-mere il suo disegno del mondo all’ambienteesterno, e nemmeno è paragonabile allemoderne città di impianto come quelle delprogetto “One city and Nine Towns” cheverranno realizzate nei prossimi dieci anniintorno a Shanghai, ma soprattutto, come

sce una delle sue peculiarità maggiori.Qualcuno, allora, colto da spaesamento,

potrà pensare di trovarsi di fronte ad una diquelle città immaginarie od “invisibili” chegli scrittori o gli architetti (loro emuli), a vol-te inventano, per un astratto disegno o perun innato bisogno di utopie o di metafore.

Ma per quanto potrà sembrarvi strano,tutto quello che vi ho detto è vero e si con-cretizza nella città visibile.

Il viaggiatore moderno, che deve spostarsiin aeroplano da Verona verso oriente o daVenezia a Milano, magari di notte, non puòlasciarsi sfuggire l’occasione di guardare dalfinestrino a più di diciottomila piedi d’altez-za. Tutto ciò che vedrà, sarà la radiografiadella Città Veneta: un enorme continuumluminoso, che si perde a vista d’occhio. Eglinon vedrà una città sola, ma tante città-mo-lecole, non dissimili tra loro, unite da unacomplessa rete di luminose striature-città,sparse ai piedi di una fascia pedemontana echiuse, ad occidente, da un lago ed a levanteda un mare scuro.

La Città Veneta, non è una, ma tutte que-ste città-atomi, città-lineari messe insieme etutto quello che le lega.

Dentro la ragnatelaMa per chi se ne sta, con i piedi per terra o

chiuso nella sua automobile, in movimentosu di una provinciale, non è tutto così chiaro.

La percezione cambia, da sopra la rete adentro la rete.

Brandelli di paesaggio veneto, statali condavanti i platani e dietro le strutture com-merciali e terziarie, antichi centri urbani, vil-lette e ville venete, capannoni, pizzerie, mul-tisala, muretti di giardini-microcosmi e murasecolari sono i punti di una rete complessaed instabile.

Ad unire queste cellule, di paesaggio-pas-saggio, ci sono gli infiniti percorsi diversi cheogni abitante compie giornalmente per uni-re un punto della rete all’altro.

Fuori delle mura dei vecchi centri storici, sitrova il mare orizzontale, l’infinità possibilitàdi scelta come internet.

Ci si muove in un paesaggio-zero dove irapporti si perdono per enfatizzare le cosestesse, come si fosse in una biblioteca senzacatalogo, oppure si camminasse a zig-zag trale righe di un libro senza indici e paragrafi, ocome in una struttura senza gerarchia o for-se in una struttura senza struttura.

Le possibilità di scelta, sono crocicchi sen-za riferimenti geografici, ma zeppi di cartelliche indicano la presenza di vie una ugualeall’altra. Il persuasore occulto, il demiurgo,che ci suggeriva altri sguardi e ci imprigio-nava docilmente nel suo labirinto dorato,non esiste più.

Nasce la città dispersa, democratica e de-magogica, orizzontale e senza orizzonti.

L’abitante veneto, a bordo della sua auto-mobile, stenta a vedere il disegno della ra-

diventano una città-organismo che pulsa esi rigenera secondo regole mutanti, mentregli edifici con le loro facciate continue sot-tolineano il magistero del dominio pubblico.

Il turista per caso osserva, banalmente, co-me le architetture della città storica sianoancora attuali e vive mentre quelle del nuo-vo villaggio giacciono morte, fuori di moda,come un linguaggio semanticamente di-menticato, un esperanto od un nuovo-vec-chio dialetto-fallito che si attarda.

Mentre la stratigrafia antica, per effettodella linfa vitale dello spazio pubblico, appa-re viva, composta di parti ma unita e unicacome un’opera corale, fuori dalle mura, nelmuseo dei frammenti sonori, ognuno alza lavoce per essere sé stesso. I suoni delle imma-gini si moltiplicano e si sovrappongono nelsilenzio irreale dell’area metropolitana, ognivoce reclama un spazio tutto per sé mentrenessuno riesce a provocare il luogo di tutti.

Requiem per l’architetturaNella perdita di valore dello spazio pub-

blico è possibile leggere l’involuzione del-l’architettura, la sua trasformazione da artea merce.

Tanto per giocare con la provocazione diMassimiliano Fuksas io vedo l’attuale pano-rama come “meno etica - meno estetica”.

L’architetto in prima linea è chiamato acostruire siepi, muretti, spazi commercialiisolati come nuclei a sé stanti, concedendosialla realizzazione di tutti i diritti privati eastenendosi dalle pubbliche responsabilità.

Aboliti i dialoghi con gli altri edifici ed ilpaesaggio, cestinato il “Genius Loci” di Cri-stian Norberg Schulz, ripudiato il buon Ca-millo Sitte (che ci ha insegnato a leggerenelle nostre città l’assoluta complementa-rietà dello spazio civico e dell’architettura),cancellati dalla memoria (come per effettodi un letale virus informatico) gli ordiniclassici, la sezione aurea, Le Courbusier, maanche Scarpa, Ridolfi e Gardella, l’architettoitaliano e veneto prosegue leggero, senzazavorra, nell’edificazione del nostro territo-rio, ritagliandosi un ruolo nettamente infe-riore a quello che potrebbe e dovrebbe ave-re nello sviluppo della cultura, della societàe della città.

Ma passiamo ora alla ricerca ed alla de-scrizione della Città Veneta.

La città visibileSe cercherete la Città Veneta, non vi stu-

piate se nessuno saprà dirvi dov’è. Non v’èpianta dove essa appare, non ha inizio e nonha fine, scivola semplicemente dentro altrecittà e queste dentro altre ancora, tanto chequalcuno parla di una “città fatta di città”.Quando avrete la sensazione di trovarvi alsuo interno, nessuno saprà indicarvi il centroperché non ne ha uno solo ma molti, più omeno grandi e senza una gerarchia apparen-te. Questo fatto, dicono gli studiosi, costitui-

In alto: Veneto, Ponte della Priula,XVIII sec.Rotonda di Bidasio.Sintesi tra architettura e paesaggio

Qui sopra: Veneto, non-luogo, 2001.Ponte incompiuto.Sintesi tra architettura e paesaggio

Veneto, mezzo miglio da Vicenza,XVI sec.La Rotonda di Palladio.Sintesi tra natura e paesaggio

Veneto, tracce urbanea nord di Padova

Sotto: dal policentrismoal magma urbano

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ARCHITETTI VERONA - n° 54 19ARCHITETTI VERONA - n° 5418

vedremo, presenta delle importanti diversitàrispetto alle dilaganti metropoli degli StatiUniti Occidentali, come Los Angeles, Phoe-nix o Las Vegas.

La Città Veneta è la conseguenza naturaledi un imprinting che ancora oggi la caratte-rizza, ma elevato all’ennesima potenza, finoquasi al suo limite fisico.

Il territorio veneto, dopo essere stato mo-dellato dalla centuriazione, aver accettatosenza conflitti l’influenza veneta o lombar-da, ha cambiato volto in pochissimi annipassando dal policentrismo al magma urba-no per effetto del suo spirito di docileadattamento.

Il modello individualista di insediamento siè propagato docilmente senza drammi oscossoni ed ora ci troviamo davanti a questocaos, ad un non-logico che ci accorgiamoessere figlio della nostra logica.

La diversità della Città VenetaLa Città Veneta, presenta alcuni degli

elementi negativi delle grandi megalopoli:sacche mono-funzionali di quartieri bloc-cati (zone industriali, commerciali o resi-denziali) con la conseguente perdita deglispazi aperti e l’aumento di introversionedegli spazi urbani, la perdita del senso dicittadinanza, l’aumento del costo urbanodovuto ai percorsi lunghi da fare per spo-starsi da un sistema all’altro e l’assenza diqualità architettonica, dovuta a logiche delmassimo guadagno e al massimo utilizzodel suolo.

Tuttavia, rispetto alle altre megalopoli,presenta delle particolarità molto significati-ve: impianto di base policentrico (e non mo-nocentrico) ampiamente storicizzato conpoli di grande qualità e con presenze di valo-re storico-artistico significative, limiti geo-grafici precisi e non illimitati, presenza diparti di paesaggio ancora vive, tradizioni ar-chitettoniche e culturali che incidono tutto-ra nel territorio.

L’omologazione urbana e architettonicache contraddistingue le grandi megalopoli,in Veneto, è continuamente interrotta daicentri storici, dal paesaggio, da testimonian-ze che possono alimentare l’eterogeneità e ladifferenziazione e suggerire nuovi approcciurbanistici in grado di mandare in contro-circuito il dilagare della “città diffusa”.

Identità territoriale.Dovendo indagare, sulle ragioni che han-

no portato alla costruzione di questo tipodi spazio urbano e proporre nuove soluzio-ni, per correttezza, non è possibile limitarsial rilevamento di una propensione, ma ènecessario ragionare sul grande sviluppoeconomico che ha investito il nord-est del-lo stato italiano, a partire dal dopo guerra,e sulla conseguente mutazione di identitàdel territorio.

“Locomotiva” o “Giappone d’Italia”, “Ve-

neto s.p.a.”, “Miracolo del Nord-est”, sonosolo alcuni degli epiteti che stigmatizzano ilritratto di una regione in crescita, dove igrandi imprenditori sono la punta evidentee positiva dell’iceberg costruito dal popolodella partita Iva, mentre il paesaggio degra-dato costituisce il rovescio negativo dellastessa medaglia.

A livello regionale, convegni, incontri consociologi, politici, psicologi, giornalisti, indu-striali stanno cercando di tracciare e definirei connotati di una nuova e consapevoleidentità veneta. A tale proposito, la regioneha poi istituito un apposito assessorato.

In questo scenario di ricerca e ricostruzio-ne di un’identità legata al territorio, la figuradell’architetto potrebbe rivestire un’impor-tanza primaria, per le enormi possibilitàcreative e comunicative, che la disciplina hadimostrato di possedere nell’arco della suastoria millenaria.

Eppure l’architetto non è un interlocutorerichiesto. La sua figura per diversi motivi ri-sulta screditata all’occhio della società.

Piccola storia recentedella Città Veneta

L’Italia, si sa, è una nazione che nei tempimoderni non ha mai dimostrato un grandeamore per l’architettura, relegandola nelruolo secondario di strumento per il soddi-sfacimento del bisogno di spazi.

Con la fine delle grandi ideologie la so-cietà moderna è andata, se possibile, sem-pre meno ad identificarsi con un’Architet-tura contraddistinta da una non casuale“A” maiuscola. Nel dopoguerra la fretta e lavelocità della crescita economica hannofatto il resto.

Fino al terremoto giudiziario degli anni‘90, la classe politica non ha avuto bisognodegli architetti e non ha sentito la necessitàcomunicativa dell’architettura.

Ma ora non è certo meglio.Come dice Paolo Feltrin, docente di Scien-

ze dell’amministrazione all’Università di Trie-ste, la politica debole nel quarantennio, le-gata all’elettorato da vincoli di rappresenta-tività, non ha saputo agire come organizza-trice dell’industria veneta e del suo territorio.

In virtù di ciò, il Veneto, è come i venetil’hanno voluto, assecondati delle classi diri-genti e dai partiti di consenso.

Gli architetti, dal canto loro (non senza ec-cezioni di qualità), hanno seguito la linea diun pragmatismo edilizio che potesse asse-condare il livello basso richiesto, limitandosiad un funzionalismo spento che balbettava ifonemi dei maestri e li mescolava ad un ver-nacolo senza poesia.

L’ondata di piena dell’evoluzione econo-mica, ha travolto gli operatori nel campodell’edilizia che, senza opporre resistenza, nehanno assecondato il flusso realizzando i bi-sogni funzionali ed individualistici di una so-cietà in crescita, con forte bisogno di capan-

noni e piccole industrie e con il miraggiodella casa in proprietà.

La velocità ha poi sfuocato tutto.Il dominio privato ha prevalso su quello

pubblico.Il cittadino veneto è stato preso nel vorti-

ce del Boom economico, in una guerra cheaveva come nemico la povertà e come ideo-logie la rinascita e la rivincita. Egli ha dimen-ticato così la comunità, la città, il territorio,ognuno ha proseguito in una lotta indivi-dualistica, pensando alla propria fabbrica, aduna propria casa con un giardino e recinzio-ne, cellule, frammenti, storie e scorie di que-sto nuovo paesaggio urbano.

Fratture culturaliAd una strabiliante trasformazione eco-

nomica, che ha portato dall’emigrazione al-l’immigrazione, dalla povertà alla ricchezza,non è seguito un opportuno accrescimentoculturale, tanto che al luogo comune del ve-neto servitore che rispondeva “comandi” co-me indirizzo di saluto, si è sostituito quellodi un popolo veneto “senza cultura e senzavalori, dedito solo al lavoro ed ai più banalipiaceri della vita”. Ma ora a questa rotturaconsapevole tra nazione e regione si è ag-giunta la frattura interna tra la società re-gionale e gli alti esponenti della propria cul-tura, che non sono riconosciuti dalla popo-lazione e non riconoscono più essi stessi laloro regione attuale.

“Siamo arricchiti troppo in fretta” ci hadetto Mario Rigoni Stern che da anni com-pie una serena opposizione narrante, tessen-do con testardaggine i fili delicati del ricor-do, della lentezza e della memoria, aprendouna strada maestra nel groviglio di storia eumanità del nostro più vicino passato. Men-tre nell’area metropolitana imperversa latempesta gli uomini di cultura scelgono divivere al riparo del “paesaggio quadro “ de-cantato da Guido Piovene, tanto che AndreaZanzotto, in un film-documentario di CarloMazzacurati, arriva a disegnare un quadrila-tero poetico-geografico con il centro nellasua Pieve di Soligo ed estensioni ad occiden-te fino ad Asolo “... o anche un po’ più in là”,verso meridione, sotto il Montello, versooriente anche fino a Pordenone. Solo all’in-terno di questa figura egli ammette di saperscrivere, ipotizzando che la magia fecondadei suoi versi, diventi sterile appena superatii vincoli che la legano in maniera indissolu-bile al territorio.

Ma se i poeti e gli scrittori fanno “quadra-to” attorno al capezzale del paesaggio, lasocietà sembra non essere in grado di anco-rare le sue fondamenta su di un passato vi-vo, di trovare nutrimento nella linfa vitaledelle tradizioni e delle potenzialità qualitati-ve del progresso, di riconoscere i proprimaestri ed i propri errori, in modo da af-frontare con un’ottica nuova le sfide e le in-sidie dell’Europa.

Schizzofrenie architettonicheCome la società è scissa dai suoi maestri,

allo stesso modo, è evidente una grande dif-ferenza tra l’architettura che viene prodottae ciò che appare raffigurato nel mondo fia-besco delle pagine patinate.

Stefano Boeri, architetto, docente di Pro-gettazione urbanistica presso le università diMilano e Genova nonché studioso del feno-meno della “città diffusa”, fa notare che“...l’atteggiamento di disprezzo e rimozioneche c’è in gran parte della cultura architet-tonica e urbanistica italiana ha provocatodanni inverosimili. Questo distacco ha impe-dito che il fenomeno venisse osservato, stu-diato e progettato…..l’architettura italianaha perso completamente il rapporto con larealtà….Per questo oggi risulta una praticamarginale, con un’utilità sociale bassissima.”

È necessario, quindi, aprire un dibattitoche permetta agli architetti di schierarsi inprima linea e rilanciare la loro figura. Un di-battito che rompa sia l’ottusa autoreferen-zialità dell’elite che il pragmatismo altret-tanto chiuso dei professionisti, che cerchitutti gli interlocutori possibili per innestarel’ottimismo nei confronti dell’architetturaitaliana e rilanciare una domanda di qualità.

Finché non verranno spezzati questianelli e non si uscirà da questo circolo vi-zioso, l’architetto rimarrà chiuso in un ruolosecondario.

L’ambiente architettonico è scisso, divisonettamente in due parti che nemmeno siparlano, parti che hanno sviluppato una sor-ta di diffidenza reciproca nei confronti del-l’Altro. Un piccolo gruppo, vive nel castellodell’università e da lì disquisisce sul Raum-plan Loosiano, sul Borromini o sulla teoriadella morfogenesi, l’altro vive nel territorio,senza interlocutori che abbiano la cultura dirichiedere la qualità architettonica.

Della enormità di questa frattura, ne è te-stimone lo choc provato dai giovani archi-tetti quando, usciti dall’università, si trovanodirettamente proiettati in un mondo chenon riconoscono e che risulta essere fatal-mente diverso da quanto si aspettavano.

In Italia, rispetto agli altri Stati (nei qualil’architettura moderna ha trovato un terrenofertile all’interno della società e della classepolitica), la figura dell’architetto non incidepositivamente sulla città, vive e opera in as-senza di nemici e sostenitori, limitandosi allasoddisfazione dei bisogni primari ed indivi-dualistici della società, senza cercare un dia-logo con l’esterno, gli altri edifici e più in ge-nerale, con l’ambiente circostante.

L’urbanistica, che nella terra veneta ha la-sciato esempi di incredibile potenzialità e ca-pacità rigenerativa, nella seconda metà del900 non è stata in grado di fare “città”, in-cludendo in questo termine tutti i fattoripsicologici, antropologici, letterari necessariper definirla. Accontentandosi delle lottizza-

Andrea Zanzotto, poeta, Pievedi Soligo (1921).“...Mai MaNcaNte Neve di priMoMaggio”ll profilo delle montagne disegnala “scrittura” del paesaggio

Luigi Meneghello, scrittore,Malo (1922).Veduta di Malo

Verona, scorcio di San Zeno▲

USA, 2001, città diffusa▼

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zioni e delle zone industriali che pur permet-tendo lo sviluppo dell’edilizia ed il soddisfa-cimento delle quantità di spazi richieste nonha fornito una ricchezza stratigrafica tale dacostituire esempi di qualità.

Come è stato detto, il grande boom eco-nomico che ha traghettato il veneto sullasponda della ricchezza, l’incredibile ed affa-scinante proliferare di piccole industrie nonè stato accompagnato da disegni illuminati.

Ora, agli inizi del nuovo secolo, un coro divoci (di provenienza eterogenea ma unitoda un comune intento) chiede una fortepresa di coscienza da parte della società ve-neta ed invoca un autoriconoscimento de-gli errori commessi seguito, necessariamen-te, da una serie di interventi atti a riscattaree correggere le traiettorie confuse dell’at-tuale modello di sviluppo urbano.

Per concretizzare questi intenti, diventanecessario recuperare il “peso” della virtùcivica, riscoprire il valore aggiunto che ogniarchitettura può donare alla struttura urba-na (contribuendo a determinarne positiva-mente i vuoti), rubare i fattori determinantialle esemplificazioni viventi delle nostrecittà storiche, sciogliere l’enigma della lorocomplessità grammaticale per capirne ecarpirne i segreti, eliminare il nefasto frain-tendimento che, come scriveva ErnestoNathan Rogers, porta a confondere la tradi-zione con il tradimento, ascoltare il luogorilevando tutti i suoi accenti per farli risuo-nare con gli strumenti di una nuova archi-tettura ed, infine, interrompere l’involuzio-ne individualistica dello sviluppo urbanoper restaurare il dominio pubblico. Poichéciò che è stato perso, nella corsa freneticadello sviluppo economico veneto, non è,come pensano molti, l’architettura, ma il“vuoto” tra le architetture.

Sto parlando dello spazio urbano di queimiliardi di centimetri cubi d’aria che, avvol-gendo gli edifici, definiscono la scena dellavita quotidiana, dello “spazio aperto”,un’entità astratta, un mistero la cui diffi-coltà di spiegazione è inversamente propor-zionale alla facilità di una sua comprensio-ne intuitiva.

Nei fine settimana i “vuoti” del centro so-no riempiti da un fiume di persone. Quelloche la folla cerca non è una sorta di utopiaregressiva che porta ad un improvviso amo-re per il Sammicheli, Frà Giocondo o PietroLombardo ma è lo “spazio aperto”, come loha definito lo studioso di teoria politica Mi-chael Walzer, opponendolo al suo opposto,lo “spazio bloccato”. Nel suo libro sulle cittàpubblicato in occasione della Biennale diArchitettura del 2000 a Venezia, RichardRogers, parla di questa teoria: ”…la periferiaresidenziale, le lottizzazioni, i quartieri diuffici, le zone industriali, le aree parcheg-gio, i sottopassaggi, gli anelli di circonvalla-zione, i centri commerciali, l’automobilestessa sono spazi “bloccati”. Le piazze affol-

late invece, le strade allegre di passeggio, iparchi, i mercati, i caffè sulla strada sonospazi “aperti”. Negli spazi bloccati transitia-mo frettolosi, in quelli aperti siamo pronti acercare e scambiare sguardi o incontri, cioèad essere partecipi della vita comune”.

Questo vuoto attrattore che richiama lefolle è lo stesso che riempie il vaso profon-do dei poeti e ne fa traboccare le emozionisulle pagine bianche.

Non è solo l’inerte ma l’invisibile e te-nace legante, è il fantasma che da l’ener-gia ai luoghi.

Empatia ed autopsiadella Città Veneta

Aldo Rossi, nel suo brillante testo “I Ca-ratteri delle Città Venete” ha osservato che:“...è indubbio che nell’800 il mito di Vene-zia... abbia dato un volto a Venezia che èanche riflesso di questo mito. Qui non inte-ressa, per il momento, vedere se il mitostesso e il modo con cui esso ha agito sullacittà sia stato buono o cattivo; interessaprenderne atto. ...la Venezia analogica diJohn Ruskin (Le Pietre di Venezia) ha certa-mente avuto un effetto decisivo sull’archi-tettura romantica ed in ultima analisi sullastessa Venezia”.

Come il mito di Venezia ha provocato Ve-nezia, il mito di Verona medioevale ha ridi-segnato Verona, ed il mito di Treviso l’ha re-sa, di fatto, immutabile.

Possiamo allora ipotizzare l’esistenza diun mito della Città Veneta che ha influitotautologicamente sulla sua immagine emorfologia.

Questo mito, se da una parte è positivo,perché ha mantenuto in vita l’idea e l’at-mosfera delle città storiche, dall’altra è le-tale perché le ha uccise relegandole alla fo-tocopia di sé stesse.

Questo equivoco lega l’idea di una cittàal suo passato, le città vengono viste comereperto o documento, analizzate come inuna autopsia, scomponendo ogni manufat-to per inserirlo nei cassetti capienti dellastoria dell’arte.

Ma la città, ovviamente, non è un fossile,perché emana ancora la sua energia vitale,diffonde la musicalità degli spazi pubblici.

Camminando a Treviso sotto i portici nel-le strade attorno a piazza dei Signori, a Ve-rona da Porta Borsari a Piazza Erbe o a Pa-dova nel sistema di piazze collegate e la-sciando da parte, almeno per un attimo i ri-gidi steccati della storia possiamo coglierele costanti degli spazi pubblici, sentire em-paticamente come ogni edificio contribui-sce con la sua forma a sagomare il vuotorendendolo denso di arte e vita.

Questo fantomatico “vuoto”, paradossal-mente colmo di spazio urbano, mai monu-mentale (poiché profondamente legato allamisura dell’uomo) è una delle testimonian-ze maggiori che la civiltà veneta ci ha la-

sciata in eredità. È l’invariante che, senzasoluzione di continuità ha connotato, nellastoria, tutte le strutture urbane. La PiazzaVeneta, dalla veneziana San Marco a Porto-gruaro, da Serravalle a Marostica, è l’iconadello ”spazio aperto”, ma tutta la città è al-trettanto invasa da questa luce. Ogni fac-ciata è un calco “a perdere” in cui far colarelo spazio urbano per ottenere la scultura vi-vente della città. Ogni edificio risponde aregole non scritte, ma tramandate nel tem-po fino agli inizi del secolo scorso quandola drammatica “frattura” del moderno (for-se l’unico grande punto di discontinuitàdella storia dell’arte), accompagnata dalsuo corollario di stravolgimenti economici,politici, storici e sociologici ha determinatola fine dello spazio urbano dedicato allacollettività. Com’è stato osservato, da piùparti, nelle grandi strutture urbane moder-ne si assiste alla morte fisiologica dello spa-zio pubblico, le città diventano somme dioggetti-architetture a sè stanti, mentre vie-ne progressivamente a mancare un siste-ma-vuoto che da senso al pieno.

Nelle nuove lottizzazioni, le case danza-no al ritmo dei 5 metri dal confine e diecidall’edificio limitrofo, le zone industrialifanno da corona ad ogni centro urbanoportando con loro il proprio patrimonio diframmentazione, in entrambe queste si-tuazioni, non c’è spazio pubblico, non c’è ildisegno illuminato dell’uomo, rapporto conil contesto, rapporti tra gli uomini. Tuttequeste tensioni sono rimaste dentro le mu-ra, dove ogni facciata ed ogni edificio faparte del vuoto, fa città, dove vuoto e pie-no sono inscindibili.

Non ne faccio un fatto di linguaggio piùo meno moderno, osservo semplicementeche la perdita di questa mutevole invarian-te spaziale è pericolosa e preoccupante.

La Città Veneta si è costruita sincretica-mente, facendo convivere gli opposti di unacittà storica uccisa dal suo stesso mito (epoi abbandonata a museo, poiché insoste-nibile) e di moderne concrezioni che nonriescono ad essere città, con lo spazio pub-blico che cede il passo alla artificialità delcentro commerciale e dello spazio privato.

Se il centro è “spazio aperto”, l’esterno èframmentazione spaziale, separazione fun-zionale, molecolarizzazione della società edello spazio, individualismo, ovvero gli in-gredienti di qualsiasi “città diffusa”.

Ma, come abbiamo visto, rispetto ad al-cune grandi megalopoli esistenti, la CittàVeneta, presenta la diversità fondamenta-le di non nascere da zero su di un terrenopiatto e senza vincoli, ma di partire dauna struttura policentrica con la fortepresenza di centri storici caratterizzantied un paesaggio ancora vivo (seppure abrandelli). Se questi poli verranno usatiper il loro potenziale positivo e creativo,ed integrati all’interno di una rete quali-tativa, potrebbero contribuire in manieradecisiva alla costruzione di un paesaggiourbano ancora possibile.

Trasformare la diffusione in differenzia-zione, significa trovare il lato debole dellapatologia che minaccia la Città Veneta,sfruttare l’eterogeneità delle caratteristicheesistenti per costruire un città ricca di spazidiversi eliminando l’omologazione.

È necessario agire nella consapevolezzache le trasformazioni del territorio regiona-le, da ambiente rurale e agricolo, a “cittàdiffusa”, ha determinato l’impossibilità diintendere l’attuale approccio normativo co-me soluzione valida al problema urbano ve-neto. Risulta evidente che la soluzione nonpuò essere soltanto dettare regole sullapendenza dei tetti a falda, sulle distanze daiconfini o tra edifici, sui volumi, perché ciònon basta a garantire la qualità. Le nostreperiferie ci testimoniano come a volte leleggi contribuiscano a determinare mostri,appiattendo le grandi possibilità creativedell’architettura. È necessario, invece, piani-ficare in modo diverso, attivare una seria ri-cerca sulle alternative dei modelli di urba-nizzazione, facendo diventare il Venetoun’area di ricerca delle nuove possibilità in-sediative, incentivando la partecipazione ci-vica tramite iniziative stimolanti che favori-scano la sostenibilità urbana e che faccianodiventare la Città Veneta un laboratoriodove testare nuovi rapporti tra urbanistica,architettura, città e società.

Treviso, spazio aperto.Gli spazi urbani attorno a Piazzadei Signori

A lato: Veneto, tracce urbanea nord-ovest di PadovaIn basso: Portogruaro,spazio aperto.la piazza e il Palazzo Comunale

Verona▲

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ARCHITETTI VERONA - n° 5422 ARCHITETTI VERONA - n° 54 23

E. Turri: Salendo verso Asiago, ad uncerto punto, guardando in basso si vededistintamente il processo di urbanizzazio-ne della campagna veneta, un fenomenoinvadente, mostruoso.

Cosa ti suggerisce una simile vista?M.R. Stern: Di notte le luci artificiali mi

impediscono la visione degli astri. Di gior-no, osservo come la campagna sia stata“mangiata” dai capannoni industriali esento pure il brusio dei milioni di macchi-ne che girano ogni giorno nella pianura.Nel Veneto orientale, tra Bassano e Porde-none, il territorio è impraticabile.

Per quanto riguarda la montagna i nostrigrandi guasti sono arrivati con la GrandeGuerra e poi, dagli anni settanta, con la spe-culazione edilizia. Per fortuna più dell’80%del territorio dell’Altipiano è di proprietàcollettiva e, praticamente, non alienabile.

E. Turri: Questo fenomeno di urbanizza-zione, la cosiddetta “città diffusa”, perso-nalmente mi risulta insopportabile perchétoglie la diversità agli spazi trasformandoil paesaggio in un edificato continuo.

Una volta, uscivi dalla città e c’era subi-to la campagna oppure andavi in monta-gna dove potevi trovare l’imprevisto o larudezza dell’ambiente naturale.

Oggi c’è una perdita di valori importanticome lo spazio vergine naturale e si senteanche la mancanza di uno spazio dedicatoall’avventura: da ragazzi si usciva dallacittà per...

M.R. Stern: ...uscivi dalla città per gio-care, per trovare qualcosa di diverso da ciòche c’era dentro. Ora si verifica il fenome-no opposto.

Tutte le città avevano una loro fisiono-mia precisa, avevano le mura e poco oltre.

Quello che una volta diventava il luogoda cui fuggire, la Città, oggi diventa il luo-go dove entrare per non essere assaliti daltraffico e per trovare la pace..

E. Turri: Hai ragione tu, eppure all’internodi questa serie ininterrotta di non luoghi,tutti uguali, ci sono le belle città storichedel Veneto che tutti abbiamo conosciuto eamato: Castelfanco, Treviso, Padova anchetu senti il richiamo di queste città?

M.R. Stern: La mia famiglia è stata mol-to legata a Padova, era la nostra Diocesi ela Diocesi non si poteva sostituire, era un

luogo di potere economico e religioso. Imiei vecchi avevano un certo rapporto conPadova. Ci mettevano una settimana perandare e tornare; entravamo dalla portaSavonarola e poi c’era una strada dove av-veniva il commercio delle greggi.

Ma oggi succede il contrario: si scappadalla pianura disordinata verso la città pertrovare ciò che abbiamo perduto.

E. Turri: Molti disagi dell’uomo d’oggisono dovuti al fatto che gli manca il rifu-gio storico, il rurale, la campagna e il verde.

M.R. Stern: Si, mancano questi ele-menti per cui l’uomo che esce dalla cittàtrova solo autostrade, supermercati e pe-riferie. Quando litigo con mia moglie, ledico: “Guarda che ti mando a vivere aMarghera!”.

E. Turri: La gente fugge dalle periferie cre-sciute negli anni 60/70 perché sono l’aspettopiù deteriore e invivibile della città, ed è an-che da questa fuga, per trovare il verde e lacampagna, che nasce il fenomeno della cittàdiffusa intorno alle città-mercato.

Cosa ne pensi di queste città mercato?M.R. Stern: Sono entrato una volta e ho

detto che non ci sarei entrato più. Sonouscito stordito.

Rimpiango le botteghe ed il “Casolin”dove, come diceva Zanzotto, si andava e sicomprava tutto, dai lacci al lucido da scar-pe, dal pane alla schiuma da barba, e so-prattutto si parlava con i padroni, ci si co-nosceva...

E. Turri: Ti senti totalmente uomo deltuo Altipiano o trovi di avere un certo rap-porto anche con il basso? Del resto, nonsiamo tutti in qualche modo figli dellacittà?

M.R. Stern: Il mio rapporto è della scap-pata e ritorno. Questa è la terra che i mieiavi hanno scelto, conosco la linea deimonti, le colline, il paesaggio, anche sequalcosa è cambiato. Quando salgo sullemontagne riconosco il mondo, riconoscotutto. Se scendo a Sud nelle pianure vedoun ambiente che non accetto.

E. Turri: Stai in montagna ma non ti vie-ne voglia di città; questa voglia io l’ho pro-vata sin da bambino: la città, il meraviglio-so della città, i leoni o ippogrifi del duomodi Verona sono stati i primi animali che hocavalcato (avrò avuto due anni...). E tu?

M.R. Stern: Non frequento molto laCittà, ci andrei di più se non ci fosse que-sto traffico. Mi è bella Verona con il suofiume, fin da piccolo ho amato il Palladio aVicenza e Jacopo da Ponte a Bassano, mala città che amo di più è Venezia nei primigiorni di dicembre, mi piace anche Roma,o Firenze in primavera ( ma ci sono troppituristi, sono impaziente nelle code e nonsopporto il traffico).

E. Turri: E i turisti che ogni anno d’esta-te vengono ad Asiago?

M.R. Stern: Il prossimo anno me ne va-do. C’è gente che viene a trovarmi soloper stringermi la mano perché non sannocosa fare. Preferisco stare sul mio orto,stare tranquillo.

E. Turri: Adesso poi siamo tutti cittadini,urbanizzati: dipendenti dalla città, dai suoimodi di vivere, dai suoi prodotti che servo-no per i cittadini non per i montanari. E tucome ti comporti: hai quindi un orto, unamucca? Io vorrei un asinello e un carretti-no per i piccoli trasporti, per andare incittà, come usano nel Turchestan.

M.R. Stern: Io coltivo l’orto, raccolgo lalegna, vado a piedi fin dove posso, nonguido l’auto, vado ancora a sciare e a cac-cia. Ho un cane, un lucherino, una vitellasui pascoli che a Novembre diventerà otti-ma carne per i miei prossimi. Abborrisco isupermercati, mi faccio la polenta sul fuo-co a legna e mi dolgo che la farina ha per-so molto del suo profumo.

E. Turri: Anni fa, la prima volta che ti hoincontrato, ti invidiavo: dicevo ai mieiamici di Milano: “ecco un uomo che è riu-scito a salvarsi dal diluvio”. Ma oggi nonsono più sicuro: sei l’ultimo e l’unico, co-raggioso e resistente, appassionato e for-s’anche testardo. Non lo so. Non hai anchetu bisogno della città, che riconosce la tuaoriginalità, i tuoi libri?

M.R. Stern: No, e poi non sono l’unico;ho amici che per secolare tradizione fannoi pastori, altri i malghesi, altri i boscaioli etutti con passione e competenza. Le grandicittà non producono più cultura ma indu-stria culturale, il che è diverso.

E. Turri: I libri gli scrivi per i cittadini oper i montanari?

M.R. Stern: Né per cittadini, né per imontanari, né per giovani o i vecchi, néper le donne o gli uomini. Io scrivo per fa-re compagnia alla gente e perché ritengodi avere qualche cosa da dire.

Quello che mi ha stupito è che alcunepersone, dopo aver letto un mio libro all’e-stero, mi hanno scritto per dirmi che han-no riconosciuto certe mie descrizioni epaesaggi, dicono di aver vissuto le coseche io racconto...

E. Turri: Io penso che proprio grazie aituoi libri sia possibile far crescere la no-stalgia per l’ambiente e la natura perduti.

M.R. Stern: Sono preoccupato per il fu-

turo dell’ambiente dove vivo. Non ci sono più i giovani che vogliono

fare i vecchi mestieri. Adesso abbiamo7.000 - 8.0000 vacche. Ma quando finiràquesta generazione non so se ci sarannogiovani in grado di continuare questo la-voro e questo è un bel problema. Lamontagna ha bisogno di un ambienteumano. La natura selvaggia non è uma-na. La natura selvaggia non può essereun bene né per l’uomo né per l’animale.Questo è un problema che bisogna pro-porre e risolvere.

E. Turri: Ieri ero sul monte Baldo e mi hafatto pena vedere tutte le malghe abban-donate tutto in disfacimento.

M.R. Stern: È quello che è successo inPiemonte. L’Alto Adige resiste, in Trentinohanno restaurato le malghe ma non i pa-scoli. Abbiamo i pascoli talmente bruttiche le vacche non vogliono più pascolarvi.

Bisognerebbe adottare la politica svizze-ra o francese con agevolazioni per i giova-ni che vogliono restare (ma saranno capacidi fare ciò che hanno fatto i loro nonni?).Bisogna, comunque, che non si interrompail ciclo, che ci sia una continuità. Ripren-dere ex-novo è molto difficile. So di coo-perative che hanno tentato di fare degliallevamenti in Piemonte, ma hanno cedu-to. Parlando con gli Svizzeri anche lorohanno i nostri problemi.

E. Turri: Un tempo i montanari dicevanomale dei cittadini e i cittadini parlavanomale dei montanari. Un scrittore del Cin-quecento li definiva bestiali. Cinquant’annifa ho visto un montanaro dei Lessini spa-rare contro un cittadino che gli rubava leciliegie. Ma poi i montanari hanno vendu-to i loro prati ai cittadini per farsi secondecase. Chi ha rovinato la montagna: i citta-dini o i montanari?

M.R. Stern: La montagna è grande enon può essere rovinata del tutto; anzi daqualche anno si va rinselvatichendo. D’al-tra parte i guasti ambientali riguardanopiù città e campagne che non la monta-gna: è la malattia del consumismo e dellaciviltà delle “scoasse”.

E poi fa più rumore un albero che cadeche una foresta che cresce: attente ricer-che dimostrano che da più secoli l’Italianon è stata così coperta di boschi (quasi1/3 del territorio nazionale); solo che sonoin generale mal governati. Per quanto ri-guarda montanari e cittadini è solo que-stione di educazione e di ignoranza. Ilproblema è che ci siamo arricchiti troppoin fretta.

E. Turri: In conclusione, tu sei un uomofortunato, ma giù nella pianura l’urbaniz-zazione continuerà a crescere per l’immi-grazione e la gente continuerà a cercarel’evasione in montagna. Cosa si può fareper rendere abitabile la città.?

M.R. Stern: Salvare il possibile.

mario eugeniorigoni stern turri

dialogo sulla città e la montagna

Mario Rigoni Stern (Asiago 1921).Scrittore

Le foreste dell’Altipiano di Asiago▼

Vicenza, veduta del centrostorico e delle conurbazioniche si estendono finoall’Altipiano di Asiago

Padova, gli spazi urbani attornoalla Basilica di Sant’Antonio

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Tra le città venete Verona occupa un postodel tutto particolare. Attratta dal potentemagnete lombardo, il quale agisce anche daforte fattore di differenziazione, invertendo ilsuo richiamo nell’accentuazione dei caratterinativi; legata al mondo nordico dal cordoneombelicale dell’Adige, la cui valle convogliaverso di essa lo spirito severo e insieme esalta-to del mondo germanico; proiettata verso lapianura in un territorio dall’identità interme-dia e sospesa, Verona non sembra coinvolta inquella dissolvenza nella luce e nel colore tipi-ca delle città venete, un trascorrere di atmo-sfere che sfuma contorni e volumi in un im-pasto tonale nel quale linee e masse si fondo-no le une nelle altre. Non c’è a Verona la cor-posità terrestre di Padova, una accesa fisicitàcontraddittoriamente sciolta in sovrapposi-zioni, trasparenze, sfasature di piani prospet-tici; non esiste in essa quel costante trapassa-re di Venezia dalla immaterialità assoluta del-l’immagine complessiva, fragile come un so-gno e cangiante come la spuma del mare, allamaterialità infiammata e preziosa dei suoisingoli edifici; non vi si riscontra l’ispirazioneteatrale che fa di Vicenza la fiabesca sceno-grafia di una rappresentazione urbana ideale,una Disneyland ante litteram nella qualeun’aristocrazia colta e marginale viveva, comese fossero vere, fantasie letterarie suggestivequanto improbabili. Al contrario Verona è unacittà ferma e precisa, scolpita in una dura so-stanza urbana, nello stesso tempo cristallina emetallica. La più romana tra le città venete -una città frontiera - è anche illuminata dauna luce diversa, più nitida e analitica, chia-mata ad illustrare con descrizioni esatte, co-me avviene nelle architetture di Michele San-micheli, edifici dalle sagome slanciate e ta-glienti che vibrano nell’atmosfera colmandoladi nitide risonanze.

Tuttavia c’è una cosa che, nonostante lasua diversità, Verona ha in comune con laquasi totalità delle città venete. È la scelta diisolarsi nel privilegio di una solidità secolare;di appartarsi in modo estetizzante e compia-ciuto nell’autocontemplazione della propriaforma perfetta; di coltivare l’identità come unvalore che va difeso, piuttosto che messo allaprova dei mutamenti che l’attuale dimensio-ne globale richiede a ogni città, nel momentoin cui al declino degli stati corrisponde unasempre crescente competizione tra centri ur-

bani alla ricerca di nuove e più vaste egemo-nie. Non bastano le attività produttive, sep-pure fiorenti, né l’ottima offerta culturale, chea volte tocca punte di eccezionalità, né, anco-ra, la visibilità internazionale assicurata dallaFiera a garantire a Verona una presenza nelcircuito mondiale in scala con le sue poten-zialità, che restano in gran parte inespresse.Tutto ciò configura un’evidente contraddizio-ne: l’appartenenza alla modernità nelle suemanifestazioni economiche più avanzateconvive con un culto di sé come entità chevive nella storia e non nel presente. Da quiuna strategia dissociata: Verona racchiusanell’ansa del suo fiume come un monumentoda sottrarre a qualsiasi cambiamento; Veronamoderna come una sorta di città separata,immersa senza riserve nel flusso energeticodella contemporaneità. Tanto rapido è l’Adigetanto immobile è l’idea che Verona proponedel suo nucleo generatore. Il fiume impetuo-so, segno di un tempo naturale che scorre in-differente agli eventi umani, si oppone allapoesia raggelata della città storica, nella qua-le affiora la ferrea metrica dell’antico traccia-to, il monumento veronese più significativo eduraturo. Estranea e parallela la città moder-na, la cui distanza attenua sensibilmente ilsenso stesso della presenza del passato, ne-gandone di fatto la centralità nel silenzio as-soluto del museo.

Non c’è dubbio che nel prossimo futuro Ve-rona dovrebbe muovere verso una ricomposi-zione delle due città in cui oggi si divide, su-perando una scissione il cui conflitto si risolvein percepibili tensioni e in sensibili squilibri:tale ritrovamento dell’unità potrà avveniresolo individuando un asse nord/sud di eventiurbani chiamati a legare i monti alla pianura,un asse simbolico e insieme reale che interse-cherà la direzione est-ovest, quella linea cheomologa da sempre Verona al Veneto. Questacroce territoriale, dalla esemplare forza inse-diativa e dalla forza di un ideogramma sinte-tico e risolutivo da memorizzare come unoslogan, confermerà le diversità di Verona al-meno quanto le consentirà di proiettare lasua immagine in un ordine più ampio e com-plesso. Quell’ordine globale nel quale l’iden-tità, se messa in discussione all’interno di unprogetto aperto e creativo, può trasformarsinel fattore di una nuova universalità urbana,in un nuovo linguaggio delle città.

francopurini

nord-sud, est-ovest

ARCHITETTI VERONA - n° 5424 ARCHITETTI VERONA - n° 54 25

Michele Sanmicheli, VeronaPorta Nuova

Michele Sanmicheli, VeronaPorta Palio

Verona, veduta zenitaledel centro storico

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ARCHITETTI VERONA - n° 54 27ARCHITETTI VERONA - n° 5426

Il senso dell’esistere e del lavorare lo sipuò trovare nelle emozioni suscitate daquanto la vita ci presenta davanti agli occhi.

In tal senso la città veneta, come tuttele altre, offre immagini che suscitanoemozioni, più che altro belle quando sia-mo nelle sue parti antiche, più che altrobrutte nelle sue parti moderne. Da un latole scenograficità urbane, fatte di volumi,spazi e colori, dall’altro le oscenità dellacasualità, del disordine e del degrado, fat-te da segnaletiche, insegne, cavi, arredi eda intrusioni e fatiscenze.

Meglio, qui, parlare unicamente delleemozioni belle, al fine di esorcizzarequelle brutte causate dal caos generatoda chi ha malgovernato le città di un BelPaese che - come ben dice Gae Aulenti(nel libro di A. Cecchi Paone, Ho parlatocon un saggio, Milano, 1999) - non amal’architettura...!

Per le strade di una città veneta a noigià nota possiamo provare emozioni do-vute non solo al suo aspetto ma anche aciò che può ricordarci del nostro passato.Chi invece la visita per la prima volta inassoluto può provare emozioni molto di-verse e forse più forti.

Descrizioni di queste emozioni nonmancano di certo e fa piacere andarle arivedere leggendo le parole di alcuni tra itantissimi che hanno scritto sulla città ve-neta. A tal fine sembra apparire adatto -pur risalendo a 15 anni fa - un volume in-titolato Le splendide città d’Italia (Milano,1986), in quanto i testi di presentazionedelle città sono opera di validi autori chehanno riportato sia emozioni proprie chedi personaggi famosi.

Iniziando da Venezia, Cesare Marchiscrive che per Voltaire essa era la “delizio-sa assurdità” ed inoltre conferma quantoil nostro amico e collega Filippo Bricoloasseriva proponendo il tema di questonumero della rivista: «su tutto il Veneto,soffia un costante venticello d’ironia, am-miccante e riduttiva. I nomi tendono aldiminutivo» (ndr: portesèla, pontesèl, spo-sèta, poarèto, bicerìn, cortesèla, ecc.).

Marchi riporta molto del poeta venezianoDiego Valeri, tra cui: «Venezia è un’atmo-sfera umana, la vera casa dell’uomo...città che sveglia i sensi della vita e invitaalla gioia... fatta soprattutto di questepiccole cose quotidiane, più ancora chedei monumenti d’oro e dei palazzi a tri-ne». Sempre nel volume considerato, an-che una rubrica (G. Rizzoni, Ritratto a pa-role) contiene, per ciascuna città, pensierie ricordi di celebri personaggi. Su Veneziasono da riprendere: «le nebbie plananosulla laguna deserta e coprono come unsipario i palazzi silenziosi» (A. De Musset,Il figlio di Tiziano); «una città d’oro, lastri-cata di smeraldi... un meraviglioso fram-mento di mondo» (J. Ruskin, Le pietre diVenezia); « l’approdo indescrivibile, l’ab-bagliante insieme di fantastiche costru-zioni... città inverosimile fra tutte» (T.Mann, La morte a Venezia).

Da Venezia si può passare a Padova,con la lettura di uno scritto di GuidoVergani. Egli inizia riportando una de-scrizione di Goethe (Viaggio in Italia)che vide la città dall’alto della torre del-la Specola: «case bianche a non finireche occhieggiano tra il verde». Poi, Ver-gani, parla così di ciò che si era mante-nuto, salvato o salvaguardato a Padova:«Tutto il resto, nel centro storico e nelsuo cuore, che impropriamente i pado-vani chiamano “ghetto”, è di un’assolutagrazia... di una poetica quiete di linee».Vergani trascrive una frase su piazzaPrato della Valle di Giovanni Comisso:«Qui, la città si riempie di cielo». Altredescrizioni (dal predetto Ritratto a paro-le) sono invece queste: «Dov’è città piùbella? Dove più forte?» (Ruzante, Betìa);«quando alzai gli occhi, la prima cosache scorsi fu una massa confusa di frec-ce e cupole dedicate al beato Antonio»(W. Beckford, 1780).

Spostando ora l’attenzione sulla palla-diana Vicenza, lo scritto è ancora di Ver-gani che lo inizia così: «Immaginate il so-gno impossibile di un architetto: quellodi poter costruire solo in nome della bel-

lezza, della fantasia, dello spazio da esal-tare con altri elementi di spazio, da su-blimare con un segno marmoreo traccia-to nell’aria. Il sogno di un’architettura direspiro assoluto, libera e disancorata dal-la realtà pratica, dalle contingenze dispesa, dai confini imposti di solito datutti i committenti». Il testo contiene an-che un pensiero di Guido Piovene, nato aVicenza: «Una piccola Roma, un’inven-zione scenografica, una chimera archi-tettonica sorge dalla cultura svaporantein capriccio e dalla vanità patrizia di ungruppo di signori di media potenza e discarso peso politico». Vale la pena ag-giungere un altro pensiero (dal Ritratto aparole già citato) su Vicenza: «Nel suoscrigno di verde, Vicenza è intatta, e si-mile a un gioiello che non ha perduto al-cuna perla» (J.L. Vaudoyer).

Così, ecco infine Verona, con lo scrittodi Cesare Marchi. Egli la definisce «Marcadi frontiera... la meno veneta delle cittàvenete» e stranamente pare che non proviemozioni da immagini della città, vistoche non scrive nulla in proposito. Questofatto stupisce, considerato che - alla paridelle altre città qui considerate - la Vero-na storica è un ricettacolo di emozioni perchi la percorre: vedi le pavimentazioni,l’edificato e i suoi colori, il cielo e la luce,la gente e i rumori.

Le emozioni provate per una città sonopoesia e quella che segue, intitolata Le

città bianche (di V. A. Koskenniemi, tra-dotta da L. Salvini in Orfeo, Sansoni, Fi-renze) sembra un valido esempio, in con-clusione (anche per ricordarci che l’archi-tettura è poesia):

Spesse volte m’appare la visione

d’una città creata per gli dei.

Non mi fu mai concesso dimorarvi,

ma nel sogno ho potuto rimirarla.

Bianche notti v’incombono, profonde;

splendono strane luci alle finestre;

mai non vi sorge il raggio del mattino

né l’abbagliante fiamma del tramonto.

Là vivono i miei sogni giovanili,

la pace, la schiettezza della vita.

Vi spirano dal largo dolci brezze,

muoiono i flutti lievi alla sua riva.

Forse tu, pace delle città bianche,

fai parte dei miraggi della vita:

ma perché mi risplendi sol nel canto?

Dove sono i miei sogni giovanili?

alexmefalopulos

emozioni da città veneta

Venezia, scorcio urbano▼

In alto: Venezia, il frontesull’acqua di Piazza San MarcoIn basso: Verona, vedutadel centro storico

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Pieri: ipotizzando che il carattere dellecittà venete coincida con la personalità,con l’identità dei loro abitanti, quali sonostati i cambiamenti nell’uomo veneto de-gli ultimi sessant’anni?

R.Bricolo: la mia percezione è che ilprincipale cambiamento si è concretizzatoin una grande frattura avvenuta soprat-tutto con l’introduzione di processi e tec-niche produttive diverse da quelle agrarie.

Nonostante questo, per un certo tempocomunque è proseguito un dialogo chemanteneva una certa serie d’interscambi.Dopo il secondo dopoguerra, è esploso l’a-spetto produttivo, industriale, molto no-stro, piccolo, con le caratteristiche un po’padane di questo, che ha espulso un certotipo di potere economico, fondiario, to-gliendo ogni dialogo ed ogni identità.

Non si è riusciti a immaginarsi sul pianosimbolico un’altra società e quindi un’al-tra città/civiltà: non ne è nata una nuovacultura, e si è interrotta quella che c’era.

Brugnoli: è finita la civiltà contadinama anche la civiltà urbana, interclassista,frutto di una cultura dell’abitare, del pro-durre che non può più essere la nostra. Gliabitanti delle vecchie città, gli artigiani,sono stati spinti nelle informi periferie ela città è diventata delle banche, degli uf-fici e studi professionali.

Pieri: e in questo processo sociologi-co, trasformativo, come s’inserisce l’ar-chitettura?

Brugnoli: per secoli si è costruito nellostesso modo per rispondere ad esigenzesempre uguali, non c’erano le gru, i bolo-gnini, le travi di cemento, c’erano semprequei sassi, sempre quelli e che erano sem-pre stati a disposizione. Vi erano i figli deifigli dei figli di muratori che avevano im-parato a mettere insieme i mattoni, unosopra l’altro; i lapicidi, che scolpivano icontorni di porte e finestre sempre nellostesso modo; i carpentieri che facevano itetti di una certa gittata. Esistevano dun-que tutte le peculiarità per una continuitàe quindi per una salvaguardia almeno diuna facies. Oggi, pur dettandosi manualo-ni per la conservazione delle caratteristi-che edilizie, non c’è più l’impresa, la vec-chia manodopera, i materiali, e allora o sifanno degli abili o meno abili scimmiotta-

menti di cose passate, oppure si sceglie dicostruire modernamente, importando an-che sbagliando, tipologie assolutamenteestranee.

Pieri: è stato osservato come in archi-tettura influiscono su di noi innanzituttole dimensioni dello spazio. Ciò è riscontra-bile e si percepisce nel Veneto, dove latendenza alla miniaturizzazione dell’ar-chitettura si differenzia dal monumentali-smo presente nelle città storiche piemon-tesi e lombarde...

Brugnoli: credo sia abbastanza casuale,almeno per il caso della nostra regione.

Pensiamo al rapporto fra aree costruitee aree verdi ad esempio. A Verona gli Sca-ligeri creano una cinta di mura di più didieci chilometri, all’interno della qualeerano immensi vacui: questo avviene noncerto per una propensione a coltivarequalità della vita. Sono temi che possiamoinventare noi tanti secoli dopo. Pensandoalla recente storia delle città venete, ilcentro di Padova e il centro di Veronahanno una storia diversa a causa dei bom-bardamenti: dal 1945, Padova è stata ri-costruita in un certo modo, Verona, per lapresenza di Piero Gazzola, ha ricostruitoalcune tra le zone più bombardate ripro-ponendo misure ottocentesche, realizzan-do così nel 1950 prospetti di tipo otto-centesco, all’esterno di condomini di lus-so. Questo perché Verona ha trovato ca-sualmente un Sovrintendente che diedequeste disposizioni. Questi fatti non na-scono dalla tradizione, dalla mentalità,tutte queste cose nascono da episodi per-sonalizzabili.

Bricolo: e quindi non da un genius delpopolo. Però, pensando poi alle ville dicampagna della grande aristocrazia lom-barda esse obiettivamente sono molto piùmastodontiche delle nostre ville/case dicampagna, che sono più dialoganti con igiardini, con i broli. Il brolo è ancheun’affermazione di sè, non nella monu-mentalità, ma nello spazio più contiguo;le ville hanno tutte queste specie di gaze-bo ante-litteram.

Pieri: così si ritrova questa dimensionearchitettonica più “umana”...

Brugnoli: osservo però che questo inVeneto è anche frutto della mentalità che

ha spesso preferito investire in bonifiche,in risaie, piuttosto che materializzarla incostruzioni fastose, anche se queste nonmancano. C’è proprio una cultura del bro-lo, e ciò dal medioevo. Ma l’abitante delVeneto, è uno che tiene anche peraltro al-la rappresentazione di sè verso l’esterno,le case affrescate sono un teatrino di va-nità rivolto a chi passa. C’è poi un’urbani-stica del territorio che è fatta, più che dipaesi, per lo più di contrade. Molti Comu-ni solo cent’anni fa facevano capo a pic-coli nuclei abitati e a tante corti dispersesul territorio.

Bricolo: ...e questi piccoli centri hannole loro corti, le colombare.

Brugnoli: ciò dipende proprio dalla fram-mentazione della proprietà. Nel veronese,tranne qualche proprietà signorile nelleBasse, nella zona collinare e pedocollinarela proprietà è sempre stata frazionatissima,per cui anche quei nobili che accorpano iloro beni, sono pochi. Questi cittadini pro-prietari di campagne creano la nuova cortevicino a quella antica che subisce delle tra-sformazioni diventando la villa. Si cominciada un proprietario che in campagna ha lasua casa-torre (che diviene poi colombara,vedi figure a lato), attorno alla quale neisecoli XV, XVI, XVII, nasce la vera e propriavilla, che ingloba le sue preesistenze. Que-ste ville sono tutte ancora previste di co-lombare, ricordo della primigenia casa-tor-re. La villa è proprio la trasformazione,l’ampliamento della casa-torre; raramentenasce ex-novo su un progetto.

Bricolo: da questo punto di vista, insenso più psicologico, si può quasi parlaredi una continuità trasformativa, più che digrandi salti. Su questo continuum che si èinterrotto, si è inserita la ricchezza nuovaed è avvenuta la frattura, sia come urba-nistica, concezione di case, concezione ditutto. Vi è una perdita completa, si perdeil concetto di corte, il concetto diluogo/spazio come riferimento e quindianche l’aspetto identificatorio che questoimplicava: l’aspetto produttivistico nonriesce più a dialogare con quella che èstata la storia, nell’incapacità di produrrenuovi simboli che permettano nuovi pro-cessi identificatori.

Brugnoli: non si era un tempo mai de-molita neanche la più misera delle casu-pole per costruire sia il grande palazzo dicittà sia la villa di campagna.

Pieri: a livello empatico, di sensazioni,di emozioni, nei centri storici delle cittàvenete, ben conservati, sembra prevalere ilsenso del ridente, di un’armonia degli spa-zi costruiti. Colpisce però negativamentela città fuori le mura o fuori dei ponti, chespesso si è concretizzata nel disarmonicosviluppo della città diffusa...

Brugnoli: questo forse però non è volu-to. Qui siamo partiti da stereotipi. Gli sto-

rici dell’architettura, gli psicanalisti, spes-so hanno fatto una pessima scuola, e cosìi professori che insegnano a giovani ar-chitetti, trasmettono loro improbabili in-terpretazioni dell’architettura. Sono co-struzioni mentali, belle, intelligenti, ma, amio parere non hanno una rispondenzacon la storia, con la realtà storica.

Bricolo: pur non avendo la cultura suf-ficiente in merito al discorso architettoni-co, ribadisco che obiettivamente si è persoun concetto di società, si è perso un con-cetto di polis, e quindi poi anche un con-cetto di politica, in grado di reinventarsila città.

Brugnoli: si è perso anche un concettomolto semplice, il concetto di civico deco-ro che dovrebbe valere tanto per la poliscome per la campagna, divenuta in buonaparte città diffusa. Si aggiunga che laconservazione per il cinquanta per cento,quanta essa si dia, è dovuta a ferree leggi,regolamenti. Ma non so fino a che puntoconti l’aspetto normativo, se non incontrala capacità di prescrivere e anche di rea-lizzare attraverso la cultura.

Bricolo: il centro è ben conservato per-ché ci sono leggi, come dice Brugnoli.

Però constatiamo che l’utilizzo dellacittà in quanto tale è modesto, è più unoscenario di teatro per le nostre esibizio-ni/apparizioni: così le città diventano dor-mitori e il centro storico mummificato.C’è una perdita di possibile significatodelle cose, da cui l’incapacità di utilizzo.In realtà restano le quinte, bellissime, diuna città fruibile, giocosa, pulita, ospitale,ma al di fuori di ciò non si trova nulla,non ha un’anima.

Brugnoli: del resto alle Sovrintendenzenon toccava il problema di salvare gli abi-tanti, non gli spetta. È un problema deipolitici, degli amministratori locali.

Pieri: quali proponimenti per il futuro?Bricolo: venuta meno la concezione an-

che estetica della società veneta preindu-striale e non essendosi affermata, per ora,una nuova concezione, non si può che ri-correre ad improvvisazioni frammentate.

Rappresentarsi una città vuol dire im-maginarsela, immaginare un’ars vivendi,fatto questo che prima di tutto è un’ela-borazione simbolica.

Brugnoli: siamo dei consumatori dicittà e di territorio, con un certo scialo. Ènecessaria una maggior cultura, anche so-ciologica, d’interpretazione dei fenomeniurbanistici.

renato pierpaolo paolobricolo brugnoli pieri

dialogo sui caratteri veneti

ARCHITETTI VERONA - n° 54 29ARCHITETTI VERONA - n° 5428

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ARCHITETTI VERONA - n° 54 31ARCHITETTI VERONA - n° 5430

ad adeguarsi ad un piano specifico.Non è condivisibile la scelta di ipo-

tecare aree di espansione edilizia percirca 25000 nuovi abitanti quando ilsaldo demografico è negativo e ci sonodisponibili centinaia di migliaia di me-tri quadri di spazi residenziali da recu-perare nelle aree dismesse e nelle ca-serme, che potrebbero essere acquisitedal demanio militare. Non troviamonulla che incentivi l’uso dei circa 9000appartamenti sfitti ed il recupero fisi-co e sociale dei centri storici.

Sarebbe auspicabile non creare ec-cessive aree edificabili, ma definire illimite dell’edificato ed intervenire sulrecupero e sulla qualità urbana dell’e-sistente.

Sul tema della viabilità si legge tuttoed il contrario di tutto e le scelte prio-ritarie pare non vengano prese sullabase di serie analisi e studi scientifici,ma da pressioni emozionali e forse dainteressi particolari.

La tramvia è una scelta importanteed impegnativa, ma potrà funzionaresolo se tutto l’assetto territoriale saràpianificato per modificare sostanzial-mente il sistema della mobilità urbana,passando dall’attuale basato sul mezzoprivato a motore, ad uno impostatosull’uso del tram elettrico pubblico. Ri-tenere che con la tramvia tutto possarimanere come prima è sbagliato efuorviante. Se si decide di optare per iltrasporto pubblico non inquinante, iprimi interventi devono essere diretti acomplementare questa struttura. Sarànecessario costruire i parcheggi scam-biatori, quelli di servizio al centro sto-rico, quelli pertinenziali e riconsidera-re integralmente il ruolo delle attualicirconvallazioni. Massima attenzioneva posta sull’impatto ambientale chela tramvia causerà; se attentamentestudiato e progettato il suo inserimen-to potrà essere l’occasione per riquali-ficare delle zone sia del centro storicoche della periferia, viceversa potrà ri-sultare devastante.

Sul traforo della collina è giusto fa-re chiarezza, le risposte che può daresono solo a livello extraurbano, collegail casello autostradale di Verona estcon quello di Verona nord, e la Valpan-tena con la Valpolicella e tutta la zonanord della città, ma perché non vadaad aggravare ulteriormente delle arte-rie già collassate, è necessario far pre-cedere all’eventuale traforo tutta unanuova struttura viabilistica che possacollegare l’uscita a nord direttamentecon il casello autostradale e le bretelle.

La lettura dei dati sui flussi di traffi-co sembra comunque evidenziare chele maggiori frequenze siano nei colle-

gamenti tra la zona est e quella suddella città.

Massima attenzione andrebbe postaai rapporti con i comuni contermini: lastruttura viabilistica, la presenza dieventuali caselli autostradali, la loca-lizzazione di aree produttive, terziariee/o direzionali ai confini del territoriocomunale andrebbero analizzate econfrontate con gli strumenti di piani-ficazione a scala sovra comunale e conquelli relativi ai comuni confinanti.

Per il centro storico, che avrebbe do-vuto rappresentare il fulcro di tutta lapianificazione, non si notano proposterelative ad una sua riqualificazione fi-sica e sociale, con il tentativo di inver-tire il processo di abbandono residen-ziale e di invecchiamento della popo-lazione.

Positiva è stata la redazione del Pia-no delle Mura predisposta con la Va-riante Generale, ma si dovrebbe allar-gare a tutto il sistema degli edifici mo-numentali, rapportato al tessuto anticoed all’intera città. Si dovrebbe determi-nare quali risposte possono fornire gliedifici storici e pianificarne il loro usoin un sistema organico alla program-mazione generale del territorio.

È incomprensibile la scelta di deter-minare aree di completamento edilizioin collina, che andrebbe tutelata.

Il parco dell’Adige e quello della col-lina, che avrebbero dovuto far partedel sistema ambientale, che oltre a ga-rantire qualità urbana alla città, pos-sono produrre un certo indotto econo-mico dal turismo non sono previsti osono stati, come è il caso di quello del-l’Adige, estremamente ridotti.

Pianificare non significa mettere deicolori su una pianta e stabilire deglistandards e dei parametri numerici, madecidere cos’è e cosa potrà diventareuna città, quale sarà la sua principalevocazione economica, quali risorsepossono essere utilizzate perché il cor-retto uso del territorio possa preveniree diminuire il disagio sociale, qualiscelte culturali sono le più adatte adesaltarne il patrimonio storico monu-mentale ed infine quali risposte darealla tutela ed alla salvaguardia del-l’ambiente con la formazione di parchinaturali e/o storico monumentali.

La stesura di un Piano RegolatoreGenerale per una città significa analiz-zarne le risorse ed i bisogni e program-marne le risposte territoriali alle esi-genze ed alle necessità economiche,sociali, culturali ed ambientali. Si trat-ta di un processo culturale che si svi-luppa tra l’Amministrazione Comunalee la società civile.

È uno strumento di pianificazioneche per essere garante degli interessicollettivi non può che essere il prodot-to di un processo dialettico di con-fronto democratico tra tutte le cate-gorie cittadine, da definire nella piùtotale trasparenza.

La programmazione, l’uso e la ge-stione del territorio, vanno eseguiti dasoggetti non direttamente interessatiai vantaggi economici e/o elettoraliche ne possono trarre.

Considerando che la legittimità diuno strumento urbanistico come la Va-riante Generale al P.R.G. è sancita so-lamente dal voto consigliare deglieletti, le fasi di elaborazione, prece-denti alla presentazione in ConsiglioComunale, dovranno essere caratteriz-zate dalla partecipazione democraticadei rappresentanti della cosiddetta so-cietà civile.

Diversamente può nascere un tipo dipiano che risponde soprattutto a degliinteressi specifici e che per essere ap-provato ha bisogno di un gruppo dipotere coeso e consolidato, in grado diguidare la maggioranza consigliare, al-trimenti viene bloccato, com’è il casodella Variante Generale di Verona. Va-riante che avrebbe dovuto essere ap-provata già nella passata Amministra-zione, considerando che quella vigenteha quasi trent’anni ed è stata sottopo-sta a circa 190 varianti parziali.

Un eccessivo controllo politico, conl’esigenza da parte di alcune di questeforze di utilizzare la Variante Generalecome argomento politico nei dibattitiinterni, la sciagurata scelta di definirei programmi più sulla base di sondaggiche non di serie analisi scientifiche el’interesse di alcuni a “consumare” le

ultime aree edificabili residue di quellovecchio e quindi a ritardare i tempi,hanno prodotto un piano scoordinato,in cui c’è tutto ed il contrario di tutto,che accontenta i fautori dell’espansio-ne edilizia infinita e che considerano ilterritorio come un fattore di arricchi-mento, aprendo lo scrigno delle areepregiate della collina veronese, condelle semplici variazioni di destinazio-ni d’uso o con il più sofisticato grimal-dello della legge regionale n.24.

La grande occasione di progettarel’assetto urbanistico di Verona utiliz-zando le aree produttive dismesse, lecosiddette ARU sta fallendo misera-mente perché non sono state assoluta-mente messe in relazione tra di loro edin generale con l’intero territorio.

La scelta di approvare il PRUSST sul-l’area degli ex magazzini generali e delmercato ortofrutticolo, senza conside-rare i collegamenti con le altre grandiaree dimesse o in fase di dismissione,come la manifattura tabacchi , il foroboario e lo scalo merci della ferrovia, èstato un clamoroso errore.

Si ha l’impressione che gli uniciobiettivi siano di accedere ai finanzia-menti pubblici e di realizzare migliaiadi mq., con uno spirito più da immobi-liarista che non da pianificatore.

Il disordine della pianificazione e laperdita di una straordinaria occasionedi progettare la città, vengono, o sitenta di mascherarli con gli studi delCensis, che propongono un museo del-le arti e dello spettacolo nelle struttu-re di archeologia industriale dei ma-gazzini generali e che cercano disdrammatizzare la costruzione di quat-tro grosse unità edilizie nella zona delmercato, definendoli vezzosamente“get”. In queste analisi non si riscontraalcun serio tentativo di ricercare unutile collegamento organico con laFiera, o con il Consorzio ZAI .

È significativo il fatto che pur inmancanza di approvazione della Va-riante Generale, il Prusst è stato licen-ziato ugualmente, obbligando ora lostrumento di pianificazione generale

giorgiomassignan

note di urbanistica a verona

Verona, gli assi di impianto dellacittà romana. A destra e sopra la lapromenade dell’antica via Postumia

da Porta Borsari e CorsoSant’Anastasia. In basso a sinistral’asse che congiunge Porta Leoni a

Piazza Erbe.Sullo sfondo la Torre di Cansignorio

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Cronologia di un pianoanna braioni

La Variante generale al P.R.G. non essendo stata portata alvoto del Consiglio Comunale, non ha ancora assunto unaveste conclusiva: possono essere modificati sia gli elabora-ti grafici e le norme, ma anche l’impostazione complessiva(vedi ARU sì o no, Peep in zone appositamente predisposteo all’interno delle ARU, quali e quante gallerie, ecc.).Il dibattito sul tema ha avuto in alcuni momenti toni ac-cesi, in altri più sommessi, per lunghi periodi è rimasto tragli addetti ai lavori per poi espandersi improvvisamentecoinvolgendo tutto e tutti e rientrando immediatamentedopo negli esclusivi luoghi della politica.In questo continuo succedersi di avvenimenti, sono tra-scorsi diversi anni e diverse amministrazioni.Ne ripercorriamo la cronologia.

• 1988 - Giunta Sboarina - Assessore all’urbanistica Za-vetti - Affidamento d’incarico della Variante generale alPRG alla Società Bonifica. Consulente prof. Marcello Vitto-rini.• 1991 - Giunta Sala - Assessore all’urbanistica Adami -Incarico per la stesura del Piano Particolareggiato di Vero-na sud all’arch. Giovanni Barbin.

• 1992 - Giunta Sala - Assessore all’urbanistica Adami e altraffico Zavetti - Progetto urbanistico della mobilità - Re-lazione - Consulente prof. Winkler

• 1993 - Giunta Erminero - Assessore all’urbanistica Conta- Adozione del progetto preliminare di piano, la cosiddettaVariante di salvaguardia.

• 1994 - Il commissario prefettizio adotta la Variante 108riguardante le aree extraurbane, annullata dal Co.re.co inquanto non di competenza del commissario, riadottatasuccessivamente dalla Giunta Sironi e riannullata dalla Re-gione con l’indicazione che le aree extraurbane devonorientrare nella variante generale al P.R.G.

• 1995 - Giunta Sironi - Assessore all’urbanistica Polo -Responsabile dell’Ufficio del piano arch. Marangon. Modi-fica dell’incarico a Bonifica solo per il completamento del-la cartografia, revoca dell’incarico di consulenza al prof.Marcello Vittorini.Incarichi di consulenza per l’analisi del traffico e per leipotesi di PRG sulla grande viabilità architetti Tullio Gallet-ti, Roberto Colantoni, Romualdo Cambruzzi. Incarico di consulenza per il centro storico, Verona sud eZai storica all’arch. Camillo Pluti.

Incarico per le analisi agronomiche per la variante al PRGrelative alle aree extraurbane al dott. Gino Benincà.

• 1996 - Giunta Sironi - Assessore all’urbanistica Polo - LaVariante di salvaguardia viene annullata in quanto sonoscaduti il termine di 3 anni previsto dalla Legge regionaleper passare dal progetto preliminare al progetto definitivodi PRG.Incarico di consulenza per il piano del traffico ing. Michelede Beumont.

• 1997 - Giunta Sironi - Assessore all’urbanistica Polo -Incarico di consulenza per il PRG al prof. Franco Mancuso.Incarico per la presentazione delle proposte conclusive ri-guardanti la grande viabilità per il PRG all’arch. Tullio Gal-letti e all’ing. Domenico Menna. Incarico per la presenta-zione di proposte di pianificazione di alcuni ambiti del ter-ritorio comunale all’arch. Camillo Pluti.

• 1998 - Giunta Sironi - Assessore all’urbanistica Cesari -Incarico di consulenza e collaborazione per l’elaborazionedel PRG all’ing. Polo.Inizio della presentazione del piano agli Enti e alle istitu-zioni cittadine.

• 1999 - Giunta Sironi - Assessore all’urbanistica Cesari -Incarico per l’elaborazione del PRUSST di Verona Sud alprof. Franco Mancuso.

• 2000 - Giunta Sironi - Assessore all’urbanistica Cesari - IlPRUSST viene ammesso al finanziamento.Proroga dell’incarico di consulenza all’ing. Polo.Redazione degli elaborati delle aree esterne al centro sto-rico in adeguamento della L.R. 37/00 e programmazionedell’insediamento delle attività commerciali all’arch. Mari-sa Fantin.

• 2001 - Giunta Sironi - Assessore all’urbanistica Cesari -Studio delle funzioni da insediare nella zona sud di Veronaal Censis Servizi spa. Interventi della Fondazione Carivero-na per l’acquisizione, tra l’altro, di fabbricati nell’area degliex Magazzini Generali.Nel frattempo si arriva alla variante n 216 al PRG vigenteche, si ricorda, è stato approvato nel 1975, dopo un iter diapprovazione di nove anni (adottato nel 1966).

Che i lunghi tempi siano da ricercarsi nel genoma di que-sta nostra città ?

ARCHITETTI VERONA - n° 5432

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ARCHITETTI VERONA - n° 54 41ARCHITETTI VERONA - n° 5440

Frontierea cura di fabrizio quaginia cura di maddalena basso

biblioteca• Andrea Zanzotto, Sovrimpres-sioni, Mondadori, Milano, 2001

Ultimissimo in ordine di tempo della vastaproduzione poetica dell’ottantenne poeta diPieve di Soligo, questo volumetto edito nellastorica e gloriosa collana de “Lo specchio” pre-senta il pensiero sulla distruzione del paesag-gio padano in circa quaranta componimenti.Zanzotto usa la lingua italiana con incursionivenete, inglesi, latine e greche, come fossemateria da modellare, come mattoni con cuicostruire l’edificio della sua poesia; e questiparticolari mattoni vengono plasmati, acco-stati, contrapposti, sovrapposti, incisi, lisciati.Le parole si uniscono e formano catene sonorea tratti suadenti a tratti fastidiose, dure, in-quietanti; alcune parole si staccano dal testo evivono di vita propria: alcune risplendono eacquistano enfasi, altre stanno nella loro peri-colosa quarantena opportunamente allonta-nate come mine inesplose.

Scorrendo le pagine i testi assumono rile-vanza di “poesie visive” sia per la distribuzio-ne dei versi, sia per le immagini che richiama-no visioni di un territorio altre volte cantatoe della cui soppressione efferata ed incuranteegli è testimone doloroso. I palù, presenti an-che nei toponimi veronesi, sono quindi “In-trecci d’acque e desideri | d’arborescenze pu-re, | dòmino di misteri | cadenti consecutiva-mente in se stessi | attirati nel folto del finire| senza fine, senza fine avventure. | Sciogli-lingua per ogni | specie di verdi, sogni | d’ac-

que ben circuite e circuenti | ...”; nella crea-zione di queste sonorità sembra esserciun’immedesimazione panica con questi lascitidi land art medioevale sull’orlo della comple-ta soppressione.

Tremende sono alcune immagini, quasi car-toline di bruttezza: “Stillicidi in colline stradinee giardini...”; implacabili e lucide e commossele parole per il [paesaggio] (sic): “No, tu nonmi hai mai tradito, [paesaggio] | ... | tu restioall’ultima umana | cupidità di disgregazione etorsione | tu forse ormai scheletro con pochibrandelli | ma che un raggio di sole basta a farrinvenire, | continui a darmi famiglia | con letue famiglie di colori | e d’ombre quete ma |pur mosse-da-quiete, | tu dài, distribuisci condolcezza | e con lene distrazioni il bene | dell’i-dentità, dell’”io”,... | ma perché | furiosa-dispo-tica-inane | l’ombra del disamore | della disi-dentificazione | s’imporrebbe qui nei giri, stratie | salti, nelle tue dolci tane?” Come a dire:non siamo forse le case che costruiamo, glisvincoli le bretelle le barriere autostradali, lezone industriali, tutto senza regola e senza eti-ca? Siamo i luoghi dove viviamo. Cosa saremosenza quel territorio che era dolce, verde, ame-no e accogliente,ondulato e sinuoso, fertile egeneroso? E per sapere da dove proveniamo èsufficiente una visita alle sale dedicate allapittura veneta in un qualunque museo delmondo per ricordare che le nostre colline, pri-ma di divenire colate di cemento erano verdi,marroni, blu, intrise di luce calda e spessa.

• Eugenio Turri, La megalopolipadana, Marsilio, Venezia, 2000

L’interpretazione lucida e scientifica di quelche saremo, la fornisce il nostro concittadinoTurri: geografo di fama, acuto osservatore eprofondo conoscitore delle dinamiche del ter-ritorio padano, della Padania come lui stessoscrive. Anch’egli contrappone lo stato attualedel paesaggio “dell’urbanesimo dilatato, diffu-so, dell’industrializzazione leggera, mobile, in-vadente, dell’urbanesimo globale” - “paesag-gio della realtà d’oggi, nervosa, rumorosa, sen-za tregua”, maleducata vien da aggiungere - alpaesaggio “dell’Italia rurale, dell’Italia del pas-sato, dell’Italia bella, delle dolcezze sempre piùrare”, luogo “della nostalgia, del desiderio, del-la distensione appagante” che è noto ed è ap-partenuto soprattutto ai nostri genitori, o aipiù “anziani” di noi.

Il saggio di Turri parte dall’analisi geograficaper farsi nel corso delle pagine, tanto piacevolie scorrevoli da leggere quanto inquietanti peril quadro “nero-su-bianco” che vi viene trat-teggiato, analisi storica, economica, sociologi-ca, ecologica. Lo studio riguarda la megalopoliche occupa la pianura Padana: questa cittàdiffusa e/o “sparpagliata” costeggia le pendicidelle Prealpi ma segue anche la linea degli Ap-

pennini. La serie di infinite piccole polarità haforse come baricentro Milano che, con il suohinterland, è esempio di struttura urbana fa-gocitante che ingloba il suo territorio strap-pandolo al passato, rendendolo altro rispetto aprima e contemporaneamente uguale al sé.

Perfettamente crude e toccanti sono le noteche analizzano il “modello Nord-Est”: gran fu-mo è l’estetica del paesaggio veneto, vetrina diuna classe nobiliare che faceva già vetrina disé nei saloni dei propri palazzi veneziani; l’ar-rosto era costituito della propria origine con-tadina e con l’apparenza si cercava di riscatta-re il passato “polentone”. Oggi seguono la stes-sa traccia la villetta con caminetto sulla colli-netta, con il papiro nel giardinetto, con il pa-store tedesco di pura razza che fa la guardia el’auto da 150 milioni parcheggiata lucida epulita come le ultime scarpe di grido o la giac-ca inglese da motociclista che fa moda. Esila-ranti se non fossero tragicomicamente reali itipi umani tratteggiati: l’operaio Fiat di originimeridionali, la casalinga pavese, la studentessapendolare, l’immigrato della Costa d’Avorio,l’albergatore romagnolo, l’ingegnere milanese,l’industriale della Val Trompia e quello verone-se. Un’arca di Noè padana in cui c’è da chie-dersi se e chi/cosa salvare.

VERONASANMARTINOBUONALBERGOLAVAGNOCALDIEROCOLOGNOLAAICOLLISOAVESANBONIFACIOGAMBELLARALONIGOMONTEBELLOVICENTINOMONTECCHIOMAGGIOREALTAVILLAVICENTINACREAZZOSOVIZZOVICENZATORRIDIQUARTESOLOGRISIGNANODIZOCCOMESTRINORUBANOSELVAZZANODENTROPADOVAVIGONZASTRAFIESSODARTICODOLOMIRAMARGHERAMESTRE

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Townscape grafico(Verona Mestre e ritorno)

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BRESCIA

“Bizantini, Croati, Carolingi”Museo di S.Giulia - Via MuseiFino al 6 gennaio 2002Orari 10/20 - chiuso lunedìtel. 800-762311

FERRARA

“Da Dahl a Munch”Palazzo dei DiamantiCorso Ercole I d’Este, 21Fino al 13 gennaio 2002Tutti i giorni 10-19tel. 0532-209988

FIRENZE

“Nel segno di Masaccio”Galleria degli UffiziPiazzale degli Uffizi, 6Fino al 20 gennaio 2002Orari 8.15-18.50 - chiuso lunedìtel. 055-2654321

GENOVA

“Genova - San Pietroburgo”- Kandinsky, Vrubel, Jawlesky e gliartisti russi a GenovaPalazzo DucalePiazza Matteotti, 9Fino al 17 febbraio 2002Orari 9-21 - chiuso lunedìtel. 010-5574000

MILANO

“Christopher Dresser. Undesigner alla corte della reginaVittoria”Triennale - Via Alemagna, 6Fino al 03 marzo 2002Orari 10-20 - chiuso lunedìtel. 02-72434

“Picasso”Palazzo Reale - Piazza Duomo, 12Fino al 27 gennaio 2002Dom./merc. 9.30-20Gio./sab. 9.30-23tel. 329-525710

“Dalla Scapigliatura alFuturismo”Palazzo Reale - Piazza Duomo, 12Fino al 17 febbraio 2002Orari 9.30-18.30 - chiuso lunedìtel. 02-392261

“Toulouse-Lautrec e le donne”Fondazione MazzottaForo Buonaparte, 50Fino al 27 gennaio 2002Orari 10-19.30 - chiuso lunedìtel. 02-878197

PADOVA

“Il Liberty in Italia”Palazzo ZabarellaVia S.FrancescoFino al 3 marzo 2002Orari 9.30/19.30 - chiuso lunedìtel. 049-8756063

ROMA

“Klimt, Kokoschka, Schiele:dall’Art Nouveauall’Espressionismo”Complesso del VittorianoVia S.Pietro in CarcereFino al 3 febbraio 2002Dom./gio. 9.30-19.30 ven./sab.9.30-23.30tel. 06-6780664

“Rinascimento - Capolavori dei

musei italiani. Tokyo-Roma2001”Scuderie Papali al QuirinaleVia XXIV Maggio, 16Fino al 6 gennaio 2002dom./gio. 10-20 - ven./sab. 10-23tel. 06-39967500

“Enrico Bay”Palazzo delle EsposizioniVia Nazionale, 194Fino al 16 gennaio 2002Orari 10-21 - chiuso martedìtel. 06-489411

TORINO

“L’Espressionismo “- Opere di Kandinsky, Klee, Nolde,Dix, Kirchner, ecc.Palazzo BricherasioVia Lagrange, 20Fino al 27 gennaio 2002dom./mer. 9.30-19.30gio./sab. 9.30-22.30tel. 011-5171660/673

“Joan Fontcuberta”Fondazione Italiana per laFotografia - via Avogadro 4Fino al 13 gennaio 2002mar./ven. 16-20 sab./dom. 10-20 -chiuso lunedìtel. 011-546594

TRENTO

“Joseph Beuys”L’immagine dell’umanitàPalazzo delle AlbereVia R. da SanseverinoFino al 6 gennaio 2002Orari 10-18 - chiuso lunedìtel. 0464-438887

TREVISO

“Monet. I luoghi della pittura”Casa dei Carraresi

Via Palestro, 33/35Fino al 10 febbraio 2002Lun./gio. 9-20ven./dom. 9-22tel. 0438-21306

VENEZIA

“Balthus”Palazzo Grassi - San Samuele,3231Fino al 6 gennaio 2002Tutti i giorni 10-19tel. 199-139139

VERONA

“Edvard Munch - L’Io e gliAltri”“Giulio Paolini”Palazzo FortiVia Forti, 1Fino al 6 gennaio 2002Orari 9.30/20 - chiuso lunedìtel. 045-8001903

“Elvis & Presley”Robert Uber e Stephan VanfleterenScavi ScaligeriFino al 6 gennaio 2002Orari 10-19 - chiuso lunedìtel. 045-8007490

VICENZA

“Toyo Ito architetto”Basilica PalladianaPiazza dei SignoriFino al 2 dicembreOrari 10/19 - chiuso lunedìtel. 0444-323681

a cura di stefano bocchini, morena alberghini, giuseppe monese

NOVEMBRE - DICEMBRE 2001

“STEVEN HOLL: PARALLAX”Nella solare Accademia Americana a Roma, lasciandosi alle spalle il luminoso quadriporti-co centrale, si entra nell’universo secondo Steven-Holl. Uno spazio equilibrato, ed un alle-stimento armonioso, dialogano ed accolgono. I due ambienti sono uniti da una diagonaleascendente ed immateriale, tracciata dalla posizione dei modelli; l’orizzonte posto all’altez-za degli occhi del maestro, è costituito da un nastro di acquerelli su block notes che si dipa-na sull’intero perimetro; e sopra, aggrappati ai muri, i plastici di studio. Un allestimento,dunque, marcato da un’idea, da un concetto, come tutte le opere di Holl. In mostra BellevueArt Museum, Undergraduated Residence, Massachusetts Institute of Technology, Collegeof Art and Art History, University of Iowa, Center for Contemporary Art, Burgos Museumof Human Evolution. La qualità estetica, l’equilibrio, il ruolo dell’arte nella ricerca … tuttigli aspiranti progettisti dovrebbero venire a meditare su questa lezione.

Fino al 13 gennaio 2002

RomaAmerican AcademyVia Angelo Masina, 5Orari: mar./ven. 11/13 -14/19 - sab./dom. 11-18tel. 06-58461

calendario

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A FMostra di Architettura Mostra di Fotografia

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