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Botanica

Il Lomellini fece invano appello agli imprenditori e ai proprietarifondiari per una profonda riforma dell’economia genovese,in particolare le manifatture e l’agricoltura, e per un suo ade-guamento tecnologico e scientifico. La Superba restava ric-ca, ma la prima metà del Settecento aveva proposto dram-matiche emergenze e un aggiornamento strutturale e cultu-rale sembrava allora ineludibile quanto arduo a realizzarsi,dinanzi alle numerose e trasversali resistenze e ai pregiudi-zi verso le innovazioni.Dopo il devastante bombardamento francese del 1684, lacittà-Stato aveva attraversato congiunture travagliate. La ri-bellione di Corsica divenne endemica fin dal 1729 e la Do-minante di allora, secondo Giorgio Spini, «rivela bene la fiac-chezza e l’incoscienza del suo vecchio patriziato, in quel mi-sto di debolezza e di malgoverno di cui è fatto il suo domi-nio sull’isola»; l’insurrezione antiaustriaca del 1746 aveva mo-strato una forte reattività civile, e non soltanto nel tessuto po-polare, ma anche i gravi limiti di una collocazione geopoliti-ca comunque perdente, nell’impossibilità di conservare sen-za rischi un atteggiamento neutrale; alla percezione della fra-

gilità politica si era infine aggiunto, nel 1757, il blocco delcommercio verso l’America spagnola, imposto dal melanconicoFerdinando VI, che bloccava i due terzi del traffico mercan-tile genovesi e rischiava di tagliare trentamila posti di lavo-ro: soltanto l’amicizia personale del Lomellini con il nuovo so-vrano spagnolo, Carlo III, riuscì a far cadere quell’embargo.Proprio in quel 1760, intanto, era sorta a Berna la prima So-cietà economica d’Europa, sulla spinta di Albrecht von Hal-ler, padre della fisiologia moderna e grande botanico; in Fran-cia – dove nel 1758 era uscito il Tableau Economique di Fran-çois Quesnay, manifesto della scuola economica fisiocrati-ca, che propugnava il primato produttivo dell’agricoltura – ilministro delle Finanze Henri-Léonard Bertin dal 1759 die-de potente impulso al risveglio delle campagne e nel 1761e venne fondata l’Accademia reale di agricoltura. In quellostesso decennio il granduca Leopoldo di Toscana, futuro im-peratore d’Austria, rivitalizzava intanto, con atteggiamento nontroppo diverso da quello del Bertin, l’Accademia dei Geor-gofili, sorta a Firenze nel 1753 per lo studio delle scienze na-turali e dell’agricoltura.La Liguria riuscì a darsi soltanto tardivamente istituzioni similia quelle: la Società patria per le arti e le manifatture sorse nel1786 per iniziativa di patrizi e borghesi e il governo la guar-dò con relativo sospetto. La Società economica di Chiavari ven-

La marchesa Clelia Durazzo nacque nel 1760, l’anno

in cui Agostino Lomellini – amico di D’Alambert e di Diderot

e già nel 1753 tempestivo traduttore del manifesto

dell’Encyclopédie – ascendeva al dogato, accendendo

diffuse speranze di un rinnovamento della vecchia Repubblica.

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Clelia Durazzo Grimaldi e l’Orto Botanico di Genovadi Mauro Bocci

A fronte Clelia Durazzo in una scultura di Giovanni Battista Cevasco,artista genovese del XIX secolo.(Collezione privata, world copyright).

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ne creata infine nel 1791. La cacciata dei gesuiti da Genova(1775) – avvenuta ben due anni dopo la bolla pontificia diClemente XIV Dominus ac Redemptor (1773), che sopprimevala Compagnia – aveva nel frattempo favorito la posizione de-gli scolopi, che contrastavano l’ordine ignaziano proponendopiù aggiornati metodi educativi e un maggior rigore nello stu-dio delle scienze naturali. Inoltre, dal 1777 la pubblicazionedel foglio settimanale Avvisi di Genova – pur nella rigida sor-veglianza imposta dal governo al giornalismo, che certo nonamava – proponeva a un’opinione pubblica già in parte sen-sibilizzata i temi civili ed economici cari alla pubblicistica deiLumi, tra i quali la nouvelle agricolture aveva un posto spe-ciale. Ha scritto nel 1991 Salvatore Rotta: «Metà almeno delterritorio ligure era incolto; l’altra metà malissimo valorizzata.La terra ligure era ingrata? Vecchio pregiudizio. Ormai una scien-za nuova – l’agronomia – era nata, che riunendo in un fasciovarie altre nuove scienze (la chimica, la geologia, la botanicasistematica, la zootecnia, la medicina rurale, etc.) aveva pro-mosso l’agricoltura da pratica empirica a razionale disciplina.Alla scuola di questa scienza la fisionomia del paesaggio ru-rale ligure poteva essere radicalmente trasformata».L’interesse per le nuove scienze trovò nel ramo di Gabianodei Durazzo, al quale apparteneva la giovane Clelia, diligen-

ti e raffinati cultori, il cui apporto fu fondamentale per lo svi-luppo a Genova di una cultura e di una sensibilità innova-trici. I primi rappresentanti della grande famiglia – che unasolida mentalità da clan continuava a tenere unita nelle suevarie parti - erano giunti a Genova nel tardo XIV secolo conla fuga della nobiltà albanese dai Balcani conquistati dai Tur-chi; nel corso della traversata, avevano addirittura corso il ri-schio di essere venduti come schiavi. Accolti a braccia aper-te sotto la Lanterna, avevano accumulato una immensa for-tuna con il commercio di seta e di tessuti ed erano stati espo-nenti di punta della noblesse de robe repubblicana: ebberonove dogi e numerosi cardinali, uno dei quali, Stefano, fu an-che arcivescovo di Genova (1636-1643). Nel secondo Set-tecento si trattava sicuramente della dinastia più ricca dellacittà-Stato: «Era allora la famiglia Durazzo – scriveva l’insi-gne botanico Antonio Bertoloni nel 1840 – quella che in Ge-nova sovra l’altre si alzava nella magnificenza di tutte cose.A lei appartenevano i palagi per vastità e per architettura ipiù insigni, le suppellettili più preziose, le dipinture più rare,le biblioteche per edizioni e per codici le più estimabili, rac-colte di stampe prime e singolari per qualità (...), e ville ame-nissime, e giardini botanici, e muse di storia naturale; per loche quanto v’era di bello e di cercato, tutto dalla famiglia Du-razzo pei varii rami passata si possedeva».Il padre di Clelia, Giacomo Filippo III (1729-1812), fu tra l’al-tro mecenate delle arti e delle lettere, fondatore dell’Acca-demia Ligustica e promotore dell’Accademia Durazzo, pro-

Pagine dell’erbario di Clelia Durazzo conservate al Museo di Storia Naturale: “agrimonia eupatoria” con annotazioni autografe della studiosa.

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prietario di una considerevole e ampia biblioteca, fondatoredi un museo privato di scienze naturali, ordinato secondo icriteri del Linneo, e di un gabinetto di filosofia sperimenta-le; spirito eclettico, esteta dalle illuministiche curiosità, spa-ziò dalla mineralogia alla zoologia, che predilesse, alla bota-nica. La sua passione scientifica cominciò a manifestarsi at-torno al 1780 e riguardò, nell’osservazione rivolta al mondovegetale, le piante da frutto collocate nella sua villa di Cor-nigliano e nel castello di Gabiano, nel Monferrato. Proprio al-lora, del resto, andava imponendosi anche a Genova – sulmodello anglosassone al quale gli Avvisi di Genova manife-stavano particolare attenzione – la figura del gentleman far-mer, ben rappresentata dal conte Gerolamo Gnecco, che findal 1770 aveva pubblicato un pamphlet sulle condizioni del-l’agricoltura locale: i suoi frutteti di Nervi furono onorati nel1787 dalla visita di un insigne piantatore-agronomo, ThomasJefferson, padre della Costituzione americana, allora amba-sciatore a Parigi e futuro presidente degli Stati Uniti.Educata inizialmente dalle suore e poi nella vivacissima Mi-lano del tempo, Clelia venne coinvolta dagli slanci paterni (eGiacomo Filippo III era riuscito a suscitare l’interesse per lascienza di molti esponenti dei diversi rami di Casa Durazza)e maggiormente dalla più specialistica attenzione per la bo-tanica dello zio Ippolito (1752-1818), dal quale la separavanoappena otto anni d’età. In senso stretto, Ippolito Durazzo fuil primo botanico genovese e nel 1780 progettò nell’area delbastione di Santa Caterina (mura del XVI secolo) un orto bo-tanico, nel quale importò le collezioni raccolte nei suoi viag-gi in Europa. La novità non era di poco momento e la strut-tura della villa genovese classica si sarebbe profondamentemodificata da quell’incontro con le scienze naturali. Nel 1800la proprietà venne ceduta al Comune di Genova da Ippolito,in difficoltà finanziarie; le piante che vi erano ospitate furo-no trasferite parte nel palazzo di famiglia in strada Balbi eparte nella tenuta durazziana di Voltri, a formare un parcoesotico fuori città. Nel 1804 il terreno di Santa Caterina ven-

Volumi del legato Durazzo Grimaldi conservati alla Civica Biblioteca Berio, Sezione Conservazione.

A fronteIncisioni, in alto, e due tavole disegnate e acquerellate, in basso, con l’Ornithogalum Grimaldiae così chiamato in onore di Clelia Durazzo Grimaldi.

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ne acquistato dal marchese Gian Carlo Di Negro, appassio-nato dilettante di botanica (e di quant’altro), che vi edificòuna villetta neoclassica su disegno di Carlo Barabino: gli eso-tismi vegetali del luogo divennero in certo modo il simbolodell’antico cosmopolitismo genovese rinnovato in prospetti-va tardo-settecentesca. Nella sua villa, che conservava la me-moria di Ippolito Durazzo, Di Negro avrebbe ospitato le mi-gliori intelligenze europee dell’epoca, da Manzoni (che quisvernava con l’intera famiglia per i bagni di mare) a Byron,da madame de Staël a George Sand, da Stendhal a Balzac. Più del fratello maggiore, Ippolito Durazzo venne preso dal-la “agromania” ormai diffusa e con l’amico Giuseppe Grimaldis’ingegnò addirittura d’introdurre nel Genovesato pecore dimigliore razza, come le merinos e le bergamasche. È assaiprobabile che Clelia abbia conosciuto il Grimaldi, che avreb-be sposato, attraverso lo zio, al fianco del quale ella facevaapprendistato scientifico; se non aveva già avuto dimestichezzacon lui fin dall’adolescenza, magari attraverso le stagioni tea-trali allestite in Balbi da nonna Clelietta (1709-1782) – la cuiarte e grazia vennero cantate con sonori versi dal Frugoni –con il contributo, come attori, di tutti i parenti e degli amicidi famiglia (i Lomellini, i Balbi, i Brignole, i Grimaldi). Le nozze non allontanarono Clelia dai suoi studi, ma ne esal-tarono la ricerca, rendendola più autonoma dall’influsso del-lo zio. L’apertura mentale del marito, che condivideva i suoi

interessi, le fu di aiuto e di conforto, ma non meno impor-tante fu per lei della possibilità di disporre di uno spazio nelquale sperimentare la propria scienza. La descrizione delBertoloni è eloquente, a proposito del luogo dove dal 1794Clelia diede avvio al suo orto botanico: «Possedeva il Gri-maldi una villa in Pegli, della quale non so se possa esse-re altra più amena per l’ampia vista del sottoposto mare cheinnanzi vi si allarga, per le svariale colline ridenti di verzu-ra che l’attorniano, per gli eleganti edifizii di campagna chele stanno da lato, per l’aria temperata, e per lunga stagionedell’ anno soavemente olezzante del grato odore, che i fio-ri degli aranci, de’ limoni e de’ cedri vi spargono. Diresti chequesta è l’imagine del beato Elisio, o del giardino incantatodi Armida». Se queste parole possono evocare suggestioniarcadiche o far pensare a una nobildonna “dal pollice ver-de”, che prende svago nel suo giardino, la personalità di Cle-lia Durazzo evidenzia invece una volontà illuministica di sa-pere, che mai venne meno.La tempesta che si abbatté su Genova nel maggio 1797, conla “rivoluzione” contro la Repubblica, fomentata dagli agen-ti di Napoleone, e la caduta dell’antico Stato, investì anche lamagnifica villa di Pegli e la coppia dovette fuggire, rifugian-dosi nel ducato di Parma. Qui la marchesa intensificò i pro-pri studi sotto la guida del professor Diego Pascal, il suo ve-ro maestro, e cominciò a raccogliere un proprio erbario. Ri-

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uscì anche a sfruttare l’esilio forzato percompiere una serie di viaggi in Austria,Boemia e Germania, che le consentironodi visitare numerosi orti botanici e di ot-tenere la stima dei colleghi, uno dei qua-li, il professor Schrank, volle mutare insuo onore il nome di una leguminosa,la cassia nictitans in grimaldia assurgens.Dai viaggi Clelia riportò a Genova, do-ve tornò probabilmente già dopo il“triennio rivoluzionario”, preziosi libridi botanica sui quali completò anco-ra la propria preparazione. La villa diPegli venne abbellita da rare piante ditutto il mondo e nel 1812 la scienzia-ta pubblicò il Catalogo delle piante delsuo “giardino”, dotato ormai di due ser-re riscaldate all’avanguardia, che con-sentivano una maggiore presenza dispecie esotiche rispetto agli altri orti bo-tanici sorti in città, che tutti rimanda-vano in modo più o meno diretto ai Du-razzo: quello di Villetta Di Negro, quel-lo dell’Università (gestito da Domeni-co Viviani, stretto collaboratore di Cle-lia) e quello che Ippolito Durazzo e An-tonio Bertoloni avevano realizzato a Vil-la Durazzo allo Zerbino (ora Gropallodello Zerbino).L’esotismo botanico non era del restoun mero vezzo estetico-ornamentale.Salvatore Rotta segnalava come unavera “esplosione del gusto” la diffu-sione della patata nelle campagne(specie per opera dei parroci del Ti-gullio, dove già era apparso il mais);l’animatore della Società economica diChiavari, il marchese e proprietario ter-riero Stefano Rivarola, si dedicava inquegli stessi anni a tentativi tutt’altroche fallimentari di piantare il tè a Ra-pallo e a Carasco (1807) o di avviarela coltura dell’arachide per ricavarneolio (1816). Analogamente, nel Po-nente, cercarono di applicare le scien-ze naturali all’impresa agricola il na-turalista finalese Giorgio Gallesio(1772-1839), i cui meriti scientifici ven-nero unanimemente riconosciuti, e l’a-gronomo albissolese padre Gio. Maria

Le serre dell’orto botanico di Pegli,creato da Clelia Durazzo agli inizi del XIX sec.

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Piccone (1772-1832), rappresentante di spicco tra gli “agroe-conomisti” scolopi nella Liguria d’allora.Il nome di Clelia Durazzo era ormai celebrato, ma ciò non fusufficiente perché ella ottenesse la cattedra di Botanica, va-cante dal 1787, per la quale le venne preferito il Viviani, suocollaboratore, peraltro valentissimo per eloquenza e dottri-na: il mondo accademico che le rendeva tributo non era for-se abbastanza emancipato per riconoscere fino in fondo ilvalore magistrale dell’attività di una donna. In questo senso,la marchesa pagò probabilmente un prezzo a quella condi-zione femminile che, come sua nonna Clelietta – donna dipolso e a suo modo artista, che aveva saputo governare lafamiglia per quarant’anni –, aveva saputo vivere lontano daquei clichés che nel nome del maggiorasco avevano condottoin monastero, fra il Sei e il Settecento, non meno di una cin-quantina di ragazze della famiglia Durazzo. Donna decisa-mente controcorrente, alla morte del marito (maggio 1820),preceduta di due anni da quella dello zio Ippolito, Clelia siritirò a Pegli nel lutto più stretto, come una donna d’altre età,e in villa morì nel maggio 1837.I dati biografici sulla marchesa sono piuttosto avari e, in de-finitiva, di fonte in fonte, rimandano all’elogio che ne fece ilBertoloni nel 1840. La sua spiccata personalità di studiosae la sua munificenza restano fotografate nel patrimonio chelasciò alla Civica Biblioteca di Genova, alla quale, come ri-cordava Emanuele Celesia nel completamento (1867) dellaStoria dell’Università di Genova di Lorenzo Isnardi, «legò mo-rendo oltre 500 elettissimi volumi e un erbario di oltre 5000specie di piante», un patrimonio in parte disperso con i bom-bardamenti della seconda guerra mondiale. Ma la riserva-tissima Clelia Durazzo partecipò in un ruolo di primo pianoal moto di risorgimento culturale e morale che attraversò l’au-tunno repubblicano. Un filo rosso si sarebbe teso tra quella generazione di scien-ziati e illuministici precursori e l’intelligenza del Quarantottoitaliano. Non a caso, nel settembre 1846, il Palazzo del Se-minario arcivescovile, nel fervido clima patriottico dell’VIII Con-gresso degli scienziati – dal quale forte e libero da condizio-namenti dinastici echeggiò il richiamo a un’Italia unita – ospi-tò in abbinata con quella assise un’esposizione di floricultu-ra, piuttosto che una mostra sui manufatti o sulle macchinedell’epoca, com’era usanza delle manifestazioni a latere deicongressi scientifici nazionali. Una tale scelta, nelle intenzionidegli organizzatori, doveva «tornar utile al commercio, ed al-la proprietà fondiaria, (…) e fors’anco dare spinta al rinno-vellamento delle antiche patrie usanze».In quello stesso 1846 il marchese Ignazio Pallavicini, lontanonipote di Clelia Durazzo (che era figlia di una Pallavicini, Ma-ria Maddalena), inaugurava nella villa Grimaldi-Durazzo, da luiereditata nel 1840, il suo romantico giardino, pensato da Mi-chele Canzio, scenografo del Teatro Carlo Felice, e realizzato(ma allora non ancora del tutto ultimato) da 350 operai in seianni di duro lavoro. Il “giardino incantato di Armida” risorge-va, pittoresco e bizzarro, tra marmi e specchi d’acque, obeli-

schi e statue esoteriche, simbologie massoniche e cineserie;gli scienziati invitati a visitare quello che era stato il regno del-la marchesa Durazzo commentarono secondo le cronache deltempo che «per la ricchezza, l’eleganza, lo sfoggio delle nuo-ve e recentissime decorazioni primeggia su tutti i giardini d’I-talia». Il vicepresidente del Congresso, il grande botanico Giu-seppe De Notaris, si augurò tuttavia di vedere il giardino ripo-polato «di splendidissime piante, e restituito all’antica rinomanza».La villa voluta da Ignazio Pallavicini, con i suoi grandi lavoridi ristrutturazione, non conservò molto dell’originario orto bo-tanico di Clelia Durazzo, ma la raccolta della marchesa nonfu dispersa, ma venne anzi ben disposta nel grande giardi-no e forse integrata con nuove acquisizioni. Le serre resta-rono e furono rimodernate con gli interventi degli eredi.I tempi andavano rapidamente cambiando: la ferrovia Ge-nova-Voltri, progettata nel 1853, facilitando gli spostamenti,favorì lo sviluppo turistico di quella prima riviera oltre le mu-ra e fece del parco delle meraviglie del Canzio il fulcro diquel processo. «Nato dalla volontà di stupire i contempora-nei e dal desiderio di usare e plasmare la natura per raccontarestorie tra mitologia e filosofia, aveva rappresentato per la Pe-gli ottocentesca un motore potente, capace di trasformareuna tranquilla cittadina, organizzata tra pesca e coltivazioneorticola, in florida località balneare, di seminare nel ponen-te ligure il germe del concetto di “turismo”» (Carlo Repet-ti). La belle époque e l’epoca del turismo di massa avreb-bero esaltato il ruolo della villa come punto d’attrazione, delquale già Ignazio Pallavicini, che aveva fiuto per gli affari, ave-va intuito le potenziali ricadute “d’indotto”.Nel 1928 la villa veniva donata al Comune di Genova. Il giar-dino, dove furono realizzate nuove serre, si trasformò per de-cenni un luogo di produzione floricola. Soltanto con gli anniOttanta significativi studi sui botanici genovesi del XVIII se-colo portarono a una più puntuale rilettura dell’opera di Cle-lia Durazzo e a una più precisa considerazione dell’importanzastorica del suo orto botanico, che le capricciose scenografiedel Canzio avevano un poco posto in ombra. In quel periodole collezioni botaniche vennero incentivate e venne realizza-to l’allestimento delle piante carnivore. Restaurato in occasionedelle Colombiane, nel 1992 il giardino botanico venne ripensatoin una prospettiva didattica e divulgativa, e ancora ampliatofra il 1994 e il 1997. Con il nuovo millennio le ultime tra-sformazioni. Si legge sul sito ufficiale della Villa: «Nel 2002 ilgiardino è stato, finalmente, restaurato ed ha assunto un nuo-vo assetto, definito dagli stessi ideatori “a stanze”. Le colle-zioni di piante, tra le quali spiccano gruppi interessanti per laloro rarità e curiosità, si snodano, infatti, lungo un itinerarioche permette un contatto ravvicinato con la natura e con i suoisegreti. Le piccole aiuole contengono specie esemplificative,di cui si possono osservare i meccanismi biologici, i sistemiecologici e la morfologia». Dopo due secoli, nel “giardino in-cantato di Armida” che fu suo, il sogno realizzato di Clelia Du-razzo appare, com’era nell’auspico del De Notaris, «restitui-to all’antica rinomanza».

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In queste pagine e alla seguenteAlcune delle piante custoditeattualmente nelle serre dell’ortobotanico di Pegli.

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Il rapporto tra Genova e la botanica non siè interrotto nel tempo. Se Euroflora costi-tuisce da oltre quarant’anni una spettaco-lare ribalta per il mondo vegetale, la costi-tuzione nel dicembre 2007 dell’associazio-ne di volontariato Amici dell’Orto è manife-stazione non meno significativa di una at-tenzione, di una passione, che sembra ri-portare ai tempi della duchessa Durazzo.L’associazione ha lo scopo di contribuire al-la salvaguardia, sviluppo e valorizzazione del-l’Orto Botanico dell’Università di Genova eha sede all’interno del Polo Botanico Han-bury dell’Università di Genova, in corso Do-gali. “L’interesse per la botanica è diffuso -dice Enzo Parisi, presidente degli Amici del-l’Orto, che cura anche un personale orto bo-tanico a Crocetta d’Orero - e non è difficileincontrare in questo senso competenze in-sospettabili di professionisti o magari di in-gegneri. Questo, e me ne sono reso contonel corso dei miei viaggi, non avviene sol-tanto a Genova, ma anche nel resto d’Ita-lia e all’estero. In Liguria, piuttosto, è la ca-ratteristica di essere incastonata tra mare emonti a far guardare a un entroterra che sicaratterizza per ricchezza di biodiversità”.Anche l’Orto Botanico dell’Università di Ge-nova dovette i suoi primi passi all’ambien-te di Clelia Durazzo: se ne occupò inizial-mente il naturalista Domenico Viviani, uo-mo di vasta scienza e amico-collaboratoredella duchessa. Quando Viviani rilevò la cat-tedra di Botanica nell’anno universitario1802-1803, esisteva a monte del palazzodell’Università di via Balbi, nella zona di Pie-traminuta, un minuscolo orto botanico, delquale si era preso cura l’inglese William Batt,

che era stato chiamato a Genova dal Se-renissimo Senato per istituirvi la prima cat-tedra di chimica e che nell’ateneo tenne an-che corsi di botanica fra il 1779 al 1788.Più tardi, anche in conseguenza della bu-fera napoleonica, il piccolo spazio di Battvenne trascurato e attraversò un periodo didecadenza. Nel 1803 Viviani propose l’al-largamento di quel primo embrione di Or-to Botanico e venne acquisita una mode-sta porzione - duemila metri quadri - del-l’antica tenuta del Collegio di San Gerola-mo in Balbi, posseduto sino alla fine del Set-tecento dalla congregazione dei Gesuiti: visi coltivarono poco più di un migliaio di spe-cie, con particolare attenzione per quellepiante officinali che erano state la “spe-cialità” di Batt. La crescita di quella strut-tura, tanto nello spazio quanto nella qua-lità, fu costante nei lunghi anni in cui la di-resse Viviani e dopo il 1836 con il suo suc-cessore De Notaris. Basta rileggere alcunepagine della Storia dell’Università di Genovadi Emanuele Celesia per verificare quantocostante fosse la crescita di investimenti -culminata nel definitivo acquisto della zo-na di Pietraminuta nel 1865 - legati all’Or-to Botanico.La gestione dell’Orto Botanico ebbe poi unmomento di particolare fulgore, a fine Ot-tocento, sotto la direzione del botanico, geo-grafo e antropologo tedesco Ottone Penzig(1856-1929), che mantenne la cattedra aGenova fino alla morte. Particolarmente si-gnificativo fu in questo periodo l’appoggioall’Orto Botanico fornito da Sir Thomas Han-bury (1832-1907), l’uomo d’affari e filan-tropo inglese che nel 1867 aveva creato a

Capo Mortola (Ventimiglia) lo splendido giar-dino che porta il suo nome.I bombardamenti di guerra avrebbero pro-fondamente segnato anche l’Orto Botanico.Dopo la decennale direzione di Augusto Bé-guinot - le cui ricerche spaziarono dalla si-stematica alla fitogeografia, alla floristica eall’epistemologia, con interessanti sottoli-neature ecologiche - Giuseppina Zanoni (frail 1942 e il 1958) dovette occuparsi so-prattutto dell’opera di restauro di uno spa-zio profondamente danneggiato: il suo la-voro fu premessa di un’opera di piena ri-strutturazione condotta poi fino al 1972 daRodolfo Pichi Sermolli.Oggi - come si legge nel sito ortobotanico-genova - l’Orto Botanico universitario “siestende su una superficie di circa un etta-ro (10.000 mq), distinta in sei differenti pia-ni collegati fra loro da rampe e scale. Sonopresenti sei serre, costruite in epoche dif-ferenti su tre diversi livelli, per una esten-sione di circa 1000 mq. Queste riproduco-no varie situazioni ambientali: la prima ospi-ta felci con molti esemplari arborei e spe-cie rare; la seconda le piante tropicali di al-to fusto in piena terra, tra cui bellissimi esem-plari dei generi Ficus (25 specie differenti)e Sterculia; un’altra raccoglie le piante ac-quatiche tropicali, con diverse specie di nin-fee, e bromeliacee ed orchidee epifite; laquarta ha una ricca collezione di piante suc-culente tra cui molte specie del genere Eu-phorbia (30 specie); una che un tempo ospi-tava Bromeliaceae e Orchidaceae è ora de-dicata alla ricerca; quella che un tempo rap-presentava l’aranciera, infine, ospita una pic-cola collezione di esemplari di Cycadeae”.

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