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JULIA NAVARRO LA BIBBIA D'ARGILLA (La Biblia De Barro, 2005) A Fermín e Alex, sempre, e ai miei amici, i migliori che si possano sognare 1 Pioveva a Roma quando il taxi si fermò in piazza San Pietro. Erano le dieci del mattino. L'uomo pagò la corsa e senza attendere il resto, stringendo un quotidiano sotto il braccio, si avvicinò con passo svelto all'ingresso della basilica, do- ve si controllava che l'abbigliamento dei visitatori fosse consono alla sa- cralità del luogo. Niente pantaloncini, minigonne, top o bermuda. All'interno della cattedrale, non si fermò nemmeno davanti alla Pietà di Michelangelo, l'unica opera d'arte tra le molte conservate in Vaticano che riuscisse a commuoverlo. Esitò qualche secondo per orientarsi e poi si di- resse verso i confessionali, dove a quell'ora sacerdoti di diverse nazionalità ascoltavano, divisi in base alla loro lingua madre, i fedeli giunti da ogni parte del mondo. In piedi, appoggiato a una colonna, l'uomo attese impaziente che la per- sona prima di lui terminasse. Quando la vide alzarsi, si diresse verso il confessionale. Un cartello informava che quel sacerdote esercitava il pro- prio ministero in italiano. Il religioso abbozzò un sorriso osservando la figura asciutta dell'uomo vestito con un abito di buon taglio; i capelli bianchi erano pettinati con cu- ra all'indietro e l'espressione rivelava l'insofferenza di chi è abituato a co- mandare. «Sia lodato Gesù Cristo.» «Sempre sia lodato... Padre, sto per uccidere un uomo. Che Dio mi per- doni!» Dopo avere pronunciato quelle parole, l'uomo si alzò e, davanti agli oc- chi attoniti del sacerdote, scomparve in un lampo nella fiumana di turisti che affollavano la basilica. Accanto al confessionale, per terra, aveva la- sciato un giornale spiegazzato. Il religioso impiegò qualche istante per ri- prendersi. Un altro fedele si era inginocchiato e gli domandava con insistenza:

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JULIA NAVARRO LA BIBBIA D'ARGILLA (La Biblia De Barro, 2005)

A Fermín e Alex, sempre, e ai miei amici, i migliori che si possano sognare

1 Pioveva a Roma quando il taxi si fermò in piazza San Pietro. Erano le

dieci del mattino. L'uomo pagò la corsa e senza attendere il resto, stringendo un quotidiano

sotto il braccio, si avvicinò con passo svelto all'ingresso della basilica, do-ve si controllava che l'abbigliamento dei visitatori fosse consono alla sa-cralità del luogo. Niente pantaloncini, minigonne, top o bermuda.

All'interno della cattedrale, non si fermò nemmeno davanti alla Pietà di Michelangelo, l'unica opera d'arte tra le molte conservate in Vaticano che riuscisse a commuoverlo. Esitò qualche secondo per orientarsi e poi si di-resse verso i confessionali, dove a quell'ora sacerdoti di diverse nazionalità ascoltavano, divisi in base alla loro lingua madre, i fedeli giunti da ogni parte del mondo.

In piedi, appoggiato a una colonna, l'uomo attese impaziente che la per-sona prima di lui terminasse. Quando la vide alzarsi, si diresse verso il confessionale. Un cartello informava che quel sacerdote esercitava il pro-prio ministero in italiano.

Il religioso abbozzò un sorriso osservando la figura asciutta dell'uomo vestito con un abito di buon taglio; i capelli bianchi erano pettinati con cu-ra all'indietro e l'espressione rivelava l'insofferenza di chi è abituato a co-mandare.

«Sia lodato Gesù Cristo.» «Sempre sia lodato... Padre, sto per uccidere un uomo. Che Dio mi per-

doni!» Dopo avere pronunciato quelle parole, l'uomo si alzò e, davanti agli oc-

chi attoniti del sacerdote, scomparve in un lampo nella fiumana di turisti che affollavano la basilica. Accanto al confessionale, per terra, aveva la-sciato un giornale spiegazzato. Il religioso impiegò qualche istante per ri-prendersi.

Un altro fedele si era inginocchiato e gli domandava con insistenza:

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«Padre, padre... si sente bene?». «Sì, sì... no... mi scusi...» Il sacerdote uscì dal confessionale e raccolse il giornale. Scorse con lo

sguardo gli articoli della pagina su cui era aperto: concerto di Rostropovič a Milano; grande successo ai botteghini di un film sui dinosauri; convegno di archeologia a Roma con la partecipazione di esimi professori e archeo-logi, fra i quali Clonay, Miller, Smidt, Arzaga, Polonoski, Tannenberg. L'ultimo nome era cerchiato di rosso...

Piegò il giornale e, con lo sguardo smarrito, si allontanò, lasciando a bocca aperta il fedele inginocchiato in attesa di confessare le sue pene e i suoi peccati.

«Vorrei parlare con la signora Barreda.» «Chi la desidera?» «Sono il dottor Cipriani.» «Un momento, dottore.» L'uomo anziano si passò una mano tra i capelli e avvertì una sensazione

di claustrofobia. Respirò profondamente per tranquillizzarsi, mentre la-sciava vagare lo sguardo su quegli oggetti che lo avevano accompagnato nel corso degli ultimi quarant'anni.

Il suo studio odorava di cuoio e di tabacco da pipa. Sulla scrivania era poggiata una cornice con due fotografie, una dei suoi genitori e l'altra dei suoi tre figli. Quella dei nipoti stava sulla mensola del camino. Sul fondo, un divano e un paio di bergère, una lampada a stelo con un paralume color crema, tappeti persiani; scaffali di mogano ricoprivano le pareti e custodi-vano migliaia di libri... Quello era il suo studio, il suo rifugio, lì poteva sta-re tranquillo.

«Carlo!» «Mercedes, l'abbiamo trovato!» «Carlo, cosa dici...?» La voce della donna tradiva una forte tensione. Pa-

reva desiderare e temere, con uguale intensità, la spiegazione che stava per ascoltare.

«Vai in Internet, cerca sulla stampa italiana, su qualsiasi quotidiano, nel-le pagine della cultura, è lì.»

«Sei sicuro?» «Sì, Mercedes, sono sicuro.» «Perché nelle pagine della cultura?» «Non ricordi ciò che si diceva al campo?»

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«Sì, certo... Allora lui... Ci siamo. Dimmi che non ti tirerai indietro.» «No, non lo farò. Nemmeno tu, e neanche loro. Adesso li chiamo. Dob-

biamo vederci.» «Volete venire a Barcellona? Posso ospitarvi tutti.» «Non ha importanza dove. Poi ti richiamo, ora devo parlare con Hans e

Bruno.» «Carlo, è davvero lui? Ne sei sicuro? Dobbiamo esserne certi. Fallo pe-

dinare, non possiamo perderlo di nuovo, non importa quanto verrà a costa-re. Se vuoi ti faccio subito un bonifico, ma contatta gli uomini migliori, in modo che non sparisca...»

«L'ho già fatto. Non lo perderemo di vista, stai tranquilla. Ti chiamerò.» «Carlo, vado all'aeroporto e prendo il primo aereo per Roma, non riesco

a rimanere qui...» «Mercedes, non ti muovere finché non ti avrò chiamato, non possiamo

commettere errori. Non ci sfuggirà, fidati di me.» Cipriani riagganciò con lo stesso senso di angoscia che anche la donna

provava. Conoscendola, non scartava l'ipotesi che di lì a un paio d'ore gli avrebbe telefonato da Fiumicino. Mercedes era incapace di rimanere tran-quilla ad aspettare, e in quel momento meno che mai.

Cipriani compose un numero di telefono di Bonn e attese impaziente che qualcuno rispondesse.

«Sì?» «Il professor Hausser, per favore.» «Chi lo desidera?» «Carlo Cipriani.» «Sono Berta! Come sta?» «Oh, cara Berta! Che bello sentirti! Come sta tuo marito? E i tuoi figli?» «Benissimo, grazie, hanno voglia di vederla, non hanno mai dimenticato

le vacanze di tre anni fa nella sua casa in Toscana. Non la ringrazierò mai abbastanza, ci ha invitati proprio nel periodo in cui Rudolf era sull'orlo di un esaurimento e...»

«Su, su, non ringraziarmi. Anch'io ho voglia di rivedervi, siete sempre i benvenuti. Berta, c'è Hans?»

La donna percepì un'urgenza nella voce dell'amico di suo padre e inter-ruppe la conversazione non senza una certa apprensione. «Sì, glielo passo subito. Lei sta bene? È successo qualcosa?»

«No, cara, nulla. Volevo solo chiacchierare un po' con lui.» «Glielo passo. A presto, dottore.»

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«Ciao, mia cara.» Trascorsero solo pochi istanti prima che la voce forte e sonora del pro-

fessor Hausser gli giungesse attraverso il ricevitore. «Carlo...» «Hans, è vivo!» I due uomini rimasero in silenzio, ognuno ascoltando il respiro carico di

tensione dell'altro. «Dov'è?» «Qui, a Roma. L'ho visto per caso, sfogliando un giornale. So che non ti

piace usare Internet, ma cerca in rete un qualsiasi quotidiano italiano, lo troverai nelle pagine della cultura. Ho contattato un'agenzia d'investigazio-ni perché venga pedinato ventiquattr'ore su ventiquattro e lo seguano o-vunque, se dovesse lasciare Roma. Dobbiamo vederci. Ho già parlato con Mercedes, adesso telefono a Bruno.»

«Vengo a Roma.» «Non so se è una buona idea che ci si veda qui.» «Perché no? Lui è lì e dobbiamo farlo.» «Sì. Nulla al mondo potrà impedircelo.» «Lo facciamo noi?» «Se non troviamo nessuno, sì. Lo farò io stesso. Ho pensato per tutta la

vita a come sarebbe stato, a che cosa avrei provato... sono in pace con la mia coscienza.»

«Questo, amico mio, lo sapremo quando sarà tutto finito. Che Dio ci perdoni, o che almeno ci comprenda.»

«Aspetta, mi cercano sul cellulare... è Bruno. Attacca, ti richiamo.» «Carlo!» «Bruno, stavo per telefonarti.» «Mi ha chiamato Mercedes... È vero?» «Sì.» «Parto immediatamente da Vienna e ti raggiungo a Roma. Dove ci ve-

diamo?» «Bruno, aspetta...» «No. Ho aspettato per più di cinquant'anni e se lui è ricomparso non a-

spetterò nemmeno un minuto di più. Voglio esserci anch'io, Carlo, voglio farlo...»

«Lo faremo. D'accordo, venite a Roma. Adesso richiamo Mercedes e Hans.»

«Mercedes è già andata all'aeroporto, e il mio aereo parte da Vienna tra un'ora. Avvisa Hans.»

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«Vi aspetto a casa.» Era mezzogiorno. Cipriani pensò che aveva ancora il tempo di passare in

clinica e chiedere alla segretaria di annullare tutti gli appuntamenti dei giorni successivi. Buona parte dei pazienti veniva visitata dal figlio mag-giore, Antonino, ma alcuni vecchi amici insistevano che fosse lui ad avere l'ultima parola sul loro stato di salute. Lui non si lamentava, perché questo lo manteneva attivo e lo obbligava a continuare a studiare, giorno dopo giorno, il misterioso meccanismo del corpo umano. Benché lui sapesse che ciò che davvero lo teneva in vita era il doloroso desiderio di saldare un conto aperto. Aveva detto a se stesso che non sarebbe potuto morire senza averlo fatto, e quella mattina in Vaticano, mentre si dirigeva al confessio-nale, aveva ringraziato Dio per avergli concesso di vivere fino a quel gior-no.

Sentì un dolore acuto al petto. No, non erano le avvisaglie di un infarto: era angoscia, solo angoscia e rabbia contro quel Dio in cui non credeva ma che pregava e contro cui inveiva, certo che non lo sentisse. Ritrovarsi a pensare di nuovo a Dio gli peggiorò l'umore. Cosa c'entrava Dio con lui? Non gli era mai stato vicino. Mai. L'aveva abbandonato quando più ne a-veva avuto bisogno, quando ancora credeva innocentemente che per la sal-vezza, per sfuggire all'orrore, bastasse la fede. Che stupido era stato! Sicu-ramente adesso pensava a Dio perché a settantacinque anni ci si sente più vicini alla morte che alla vita e nel centro dell'anima, davanti all'inevitabile viaggio verso l'eternità, si accendono i campanelli d'allarme.

Pagò il taxi, e questa volta attese il resto. La clinica, situata ai Parioli, era un edificio di quattro piani in cui lavoravano una ventina di specialisti, oltre a dieci medici generici. Era tutta opera sua, frutto della volontà e del-l'impegno. Suo padre sarebbe stato orgoglioso di lui, e sua madre... Si ac-corse che gli si inumidivano gli occhi. Sua madre l'avrebbe abbracciato con calore, sussurrandogli che non c'era nulla a cui non avrebbe potuto a-spirare, che la volontà può tutto, che...

«Buongiorno, dottore.» La voce del portiere della clinica lo riportò alla realtà. Entrò con passo

sicuro e si diresse verso il suo studio, al primo piano. Salutò alcuni medici e strinse la mano a qualche paziente che, riconoscendolo, lo fermava. In fondo al corridoio si stagliava la figura snella di sua figlia. Quando la vide, sorrise. Lara ascoltava pazientemente una donna tremante che stringeva con forza la mano a un'adolescente. Lei rivolse un gesto affettuoso alla ra-

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gazzina e salutò la donna. Non l'aveva visto e Carlo non fece nulla per far-si notare; più tardi sarebbe passato da lei.

Entrò nell'anticamera dello studio. Maria, la segretaria, alzò gli occhi dal computer. «Dottore, è in ritardo!

Ha un sacco di telefonate da fare, e poi sta per arrivare il signor Bersini. Gli hanno già fatto tutte le analisi e, anche se gli hanno detto che ha una salute di ferro, lui insiste per farsi visitare da lei e...»

«Maria, faccia passare il signor Bersini, ma poi annulli tutti gli appun-tamenti. È possibile che non venga in ambulatorio per qualche giorno; ar-rivano dei vecchi amici da fuori e dovrò stare con loro.»

«Benissimo, dottore. Fino a quando non vuole appuntamenti?» «Non so, le farò sapere; forse una settimana, al massimo due... Mio fi-

glio c'è?» «Sì, e c'è anche sua figlia.» «L'ho vista. Maria, sto aspettando una telefonata dal responsabile dell'a-

genzia Investigazioni e Sicurezza. Passamela anche se sono con il signor Bersini, capito?»

«Certo, dottore, sarà fatto. Vuole che rintracci suo figlio?» «No, no, lo lasci stare, credo che sia in sala operatoria; lo chiameremo

dopo.» Trovò i quotidiani perfettamente ordinati sulla scrivania. Ne prese uno e

lo aprì alle ultime pagine. Il titolo diceva: ROMA CAPITALE DELL'AR-CHEOLOGIA MONDIALE. L'articolo riportava la notizia di un convegno sulle origini dell'umanità organizzato dall'UNESCO. E lì, nella lista dei partecipanti, c'era il cognome dell'uomo che cercavano da più di mezzo se-colo.

Com'era possibile che all'improvviso fosse lì, a Roma? Dove si era na-scosto fino allora? E perché nessuno lo sapeva? Faceva fatica a credere che quell'uomo potesse partecipare a un convegno mondiale promosso dall'U-NESCO.

Ricevette il vecchio paziente Sandro Bersini e fece uno sforzo indicibile per ascoltare i suoi acciacchi. Gli assicurò che godeva di una salute di fer-ro, cosa tra l'altro vera, ma per la prima volta in vita sua non riuscì a mo-strarsi sollecito e lo invitò gentilmente ad andarsene con la scusa che altri pazienti lo stavano aspettando.

Lo squillo del telefono lo fece trasalire. Istintivamente sapeva che si trat-tava della Investigazioni e Sicurezza.

Il responsabile dell'agenzia gli espose senza preamboli il risultato di

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quelle prime ore di indagini. C'erano sei dei suoi uomini migliori nella se-de del convegno.

L'informazione che gli trasmise sorprese Carlo Cipriani. Doveva esserci un errore, a meno che...

Certo! L'uomo che cercavano era più vecchio di loro e doveva avere a-vuto figli, nipoti...

Cipriani provò una fitta di delusione e di rabbia; si sentiva preso in giro. Aveva creduto che quel mostro fosse riapparso e ora veniva a sapere che non era lui. Ma qualcosa dentro di sé gli diceva che erano vicini, più di quanto lo fossero mai stati. Chiese quindi al responsabile della Investiga-zioni e Sicurezza di non abbandonare le ricerche, non importava dove a-vrebbero portato né quanto sarebbero costate.

«Papà...» Antonino era entrato nello studio senza che lui se ne accorgesse. Fece

uno sforzo per cambiare espressione, perché sapeva che il figlio lo osser-vava preoccupato.

«Come va, ragazzo mio?» «Bene, come sempre. A cosa stavi pensando? Non ti sei accorto di me.» «Conservi ancora la pessima abitudine che avevi da bambino: non bussi

mai.» «Dài, papà, non farmelo pesare!» «Non farti pesare cosa?» «Il motivo per cui sei di cattivo umore... Ti conosco e so che oggi le co-

se non sono andate come dovevano. Che cos'è successo?» «Ti sbagli. Va tutto bene. Ah! Probabilmente per qualche giorno non

verrò in clinica; so che non c'è bisogno di me, ma volevo che lo sapessi.» «Come, non c'è bisogno di te? Caspita, ma cos'hai, oggi? Si può sapere

perché non verrai? Vai da qualche parte?» «Sto aspettando Mercedes, Hans e Bruno.» Antonino storse il naso. Sapeva quanto fossero importanti quegli amici

per suo padre, ma lo inquietavano. Sembravano vecchietti inoffensivi, tut-tavia non lo erano. A lui, per lo meno, avevano sempre infuso un certo ti-more. «Dovresti sposare Mercedes» scherzò.

«Non dire sciocchezze!» «Mamma è morta quindici anni fa e con Mercedes sembri stare bene, e

poi anche lei è sola.» «Basta, Antonino. Devo andare...» «Hai visto Lara?»

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«Passerò a salutarla prima di uscire.» A sessantacinque anni, Mercedes Barreda conservava ancora molto della

bellezza di un tempo. Alta, magra, bruna, il portamento elegante e un mo-do di fare sicuro, incuteva soggezione agli uomini. Forse per questo non si era mai sposata. Diceva a se stessa di non avere incontrato un uomo che fosse alla sua altezza.

Era proprietaria di un'impresa di costruzioni. Aveva fatto fortuna lavo-rando senza sosta e senza lamentarsi mai. I suoi impiegati la consideravano una persona dura ma giusta. Non aveva mai trascurato le esigenze dei pro-pri dipendenti: pagava quanto doveva, erano tutti assicurati, si preoccupa-va di rispettare scrupolosamente diritti e doveri di ciascuno. La fama di du-ra veniva di certo dal fatto che nessuno l'aveva mai vista ridere, nemmeno sorridere, ma non l'avevano mai potuta accusare di atteggiamenti autoritari o di avere detto una parola di troppo. Tuttavia, lei sapeva imporsi sugli al-tri.

Vestita con un tailleur beige, e con un paio di orecchini di perle come unico gioiello, Mercedes Barreda percorreva con passo svelto gli intermi-nabili corridoi di Fiumicino. Una voce annunciò l'atterraggio del volo da Vienna su cui viaggiava Bruno, così sarebbero potuti andare insieme a ca-sa di Carlo. Hans era arrivato un'ora prima.

Mercedes e Bruno si abbracciarono. Non si vedevano da più di un anno,

benché si telefonassero spesso e si scrivessero per posta elettronica. «E i tuoi figli?» domandò Mercedes. «Sara è già nonna. Mia nipote Elena ha avuto un bambino.» «Dunque, sei bisnonno. Be', non male per un vecchio rimbambito. E tuo

figlio David?» «Uno scapolo impenitente, come te.» «E tua moglie?» «Ho lasciato Deborah arrabbiata. Sono cinquant'anni che litighiamo per

la stessa cosa. Lei vuole che dimentichi; non capisce che non ci riusciremo mai. Non voleva che venissi. Sai, anche se non vuole ammetterlo ha paura, tanta paura.»

Mercedes annuì. Non incolpava Deborah per i suoi timori, nemmeno per il fatto che cercasse di trattenere suo marito. Provava simpatia per la mo-glie di Bruno. Era una brava donna, gentile e silenziosa, sempre disposta ad aiutare gli altri. Deborah invece non le ricambiava lo stesso affetto.

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Quando in alcune occasioni era andata a trovare Bruno a Vienna, Deborah l'aveva ricevuta come una perfetta padrona di casa ma non era riuscita a nascondere il timore che le infondeva "la Catalana", come sapeva che la chiamavano.

In realtà Mercedes era francese. Suo padre era fuggito da Barcellona quando stava per finire la guerra civile. Era anarchico, un uomo buono e affettuoso. In Francia, come tanti altri spagnoli, quando i nazisti erano en-trati a Parigi aveva preso parte alla Resistenza; lì aveva conosciuto la ma-dre di Mercedes, che faceva la staffetta, e si erano innamorati; la loro bam-bina era nata nel momento e nel luogo peggiori.

Bruno Müller aveva appena compiuto settant'anni. Aveva i capelli bian-chi come la neve e gli occhi azzurri. Zoppicava, perciò si aiutava con un bastone dall'impugnatura d'argento. Era nato a Vienna. Era musicista, un pianista straordinario, come lo era stato suo padre. La sua era una famiglia che viveva per la musica. Quando chiudeva gli occhi, vedeva sua madre sorridente suonare il piano a quattro mani con la sorella maggiore. Da tre anni si era ritirato; fino allora Bruno Müller era considerato uno dei mi-gliori pianisti del mondo. Anche suo figlio David si era consegnato anima e corpo alla musica; la sua vita era il violino, quel prezioso Guarneri da cui non si separava mai.

Mezz'ora prima Hans Hausser era arrivato a casa di Carlo Cipriani. A

sessantasette anni il professor Hausser ancora si imponeva per la sua altez-za. Era alto più di un metro e novanta, e la sua estrema magrezza lo faceva apparire un uomo fragile. Non lo era. Negli ultimi quarant'anni aveva inse-gnato fisica all'università di Bonn, teorizzando sui misteri della materia, indagando i segreti dell'universo.

Come Carlo, anche lui era vedovo ed era la sua unica figlia, Berta, a prendersi cura di lui.

I due amici sorseggiavano un caffè quando la governante fece accomo-dare Mercedes e Bruno nello studio del dottore. Non persero tempo in formalità. Si trovavano lì per uccidere un uomo.

«Bene, vi dirò come stanno le cose» iniziò Carlo Cipriani. «Questa mat-tina ho visto sul giornale il nome di Tannenberg. Prima di chiamarvi, per non perdere tempo, ho telefonato alla Investigazioni e Sicurezza. In passa-to li avevo già incaricati di mettersi sulle tracce di Tannenberg, non so se vi ricordate... Insomma, il responsabile dell'agenzia, che è stato mio pa-ziente, mi ha chiamato qualche ora fa per dirmi che effettivamente c'è un

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Tannenberg al convegno di archeologia che si sta svolgendo a Roma, a Pa-lazzo Brancaccio. Ma non è il nostro uomo, si tratta di una donna che si chiama Clara Tannenberg, di nazionalità irachena. Ha trentacinque anni ed è sposata con un iracheno, un uomo ben inserito nel regime di Saddam Hussein. È archeologa. Ha studiato al Cairo e negli Stati Uniti e, malgrado la giovane età, sicuramente grazie all'influenza del marito, pure lui archeo-logo, dirige uno dei pochi scavi che ancora esistono in Iraq. Il marito ha studiato in Francia e si è specializzato in America, dove ha vissuto a lungo. È lì che si sono conosciuti e sposati prima che gli americani decidessero di trasformare Saddam nel demonio. Questo è il suo primo viaggio in Euro-pa.»

«Ha qualcosa a che vedere con lui?» domandò Mercedes. «Con Tannenberg?» rispose Carlo. «È possibile, potrebbe essere sua fi-

glia. E se così fosse, spero che grazie a lei si possa arrivare al padre. An-ch'io, come voi, non credo che sia morto, benché al cimitero ci sia una la-pide con il suo nome e quello dei suoi genitori.»

«No, non è morto» affermò Mercedes. «Io so che non è morto. In tutti questi anni ho avuto sempre la sensazione che il mostro fosse vivo. Come dice Carlo, potrebbe essere sua figlia.»

«O sua nipote» suggerì Hans. «Lui deve avere quasi novant'anni.» «Carlo, che facciamo?» domandò Bruno. «La seguiremo, ovunque vada. L'agenzia d'investigazioni può mandare

qualcuno in Iraq, anche se ci costerà una piccola fortuna. Ma ricordiamoci bene che se a quel pazzo di George Bush salta in testa di invadere l'Iraq, dovremo cercare un'altra soluzione.»

«Perché?» Il tono di Mercedes tradiva l'impazienza. «Perché per andare in un paese in guerra sono necessari uomini che non

siano dei semplici investigatori privati.» «Hai ragione» convenne Hans. «E poi dobbiamo prendere una decisione.

Che cosa accadrà se lo trovano, se davvero quella Clara Tannenberg ha qualcosa a che vedere con lui? Ve lo dico io: abbiamo bisogno di un pro-fessionista... qualcuno che non si faccia scrupoli a uccidere. Se lui è ancora vivo, deve morire, altrimenti...»

«Altrimenti che muoiano i suoi figli, i suoi nipoti, chiunque porti in sé il suo sangue.» La voce di Mercedes tuonò carica di rabbia. Non era disposta a cedere al minimo sentimento di pietà.

«Sono d'accordo» disse Hans annuendo. «E tu, Bruno?» Il pianista più ammirato degli ultimi decenni non esitò a rispondere af-

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fermativamente. «Bene. Qualcuno conosce una di quelle organizzazioni in cui si assolda-

no mercenari per questo tipo d'incarichi?» domandò Mercedes, rivolta a Carlo.

«Mi daranno domani due o tre nominativi. Il mio amico, il responsabile dell'agenzia d'investigazioni, mi ha assicurato che un paio di società inglesi contattano ex membri dei servizi segreti e altri uomini delle forze speciali degli eserciti di mezzo mondo. Poi c'è una sorta di multinazionale per la sicurezza, anche se il termine "sicurezza" è un eufemismo. Dispongono di mercenari da mandare ovunque a lottare per qualsiasi causa, basta che sia-no ben remunerati. Credo che si chiami Global Group. Domani decidere-mo.»

«Bene, ma è chiaro a tutti che i Tannenberg devono morire, non importa se si tratta di donne, o addirittura di bambini...?» tornò a domandare Hans.

«Non insistere» intervenne Mercedes. «Da tutta la vita aspettiamo que-sto momento. Non avrei problemi a ucciderlo con le mie stesse mani.»

Le credevano. Anch'essi provavano il medesimo odio. Un odio che era cresciuto con una violenza irrefrenabile quando i quattro vivevano all'in-ferno.

«La parola alla dottoressa Tannenberg.» Il moderatore del convegno "Cultura in Mesopotamia" lasciò il podio al-

la donna snella e decisa che, stringendo dei fogli al petto, era pronta a ini-ziare la sua relazione.

Clara Tannenberg era nervosa. Sapeva che cosa c'era in gioco in quel momento. Con gli occhi cercò tra il pubblico suo marito, che le sorrideva per farle coraggio.

Per qualche istante si deconcentrò pensando a quanto fosse bello A-hmed. Alto, magro, i capelli neri come la notte e gli occhi di un nero anco-ra più intenso. Aveva quindici anni più di lei, ma condividevano la stessa passione: l'archeologia.

«Signore e signori, oggi è un giorno molto speciale per me. Sono venuta a Roma a chiedervi aiuto, a supplicarvi di levare la vostra voce per evitare la catastrofe che sta per abbattersi sull'Iraq.»

Un brusio si diffuse in sala. I presenti non erano disposti ad ascoltare il comizio di un'archeologa sconosciuta il cui unico merito era di essere spo-sata con un membro del clan di Saddam Hussein, che casualmente era il direttore del dipartimento di Scavi archeologici. Sul volto di Ralph Barry,

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organizzatore della conferenza sulla Mesopotamia, si disegnò una smorfia di fastidio. I suoi timori parevano avere trovato conferma: sapeva che la presenza di Clara Tannenberg e del marito Ahmed Husseini avrebbe solle-vato problemi. Aveva cercato di impedirlo con ogni mezzo a sua disposi-zione, e non era poco, tenuto conto che lavorava per un uomo potente, il presidente esecutivo della fondazione Mondo Antico, che sovvenzionava buona parte del convegno. Negli Stati Uniti nessuno che si dedicasse al-l'archeologia osava contraddire il suo capo, Robert Brown. Ma si trovava-no a Roma, dove la sua influenza era più limitata.

Robert Brown era un guru nell'ambiente dell'arte. Aveva rifornito di og-getti unici i musei del mondo intero. La collezione di tavolette mesopota-miche che esponeva in varie sale della fondazione era considerata la più importante del mondo.

Brown aveva fatto dell'arte lo scopo e l'affare della sua vita. Una sera, alla fine degli anni Cinquanta, quando aveva solo trent'anni e cercava di farsi strada come mercante a New York, aveva conosciuto un uomo a una festa a casa di un pittore d'avanguardia in cui c'era gente di ogni tipo. La mattina dopo, quell'uomo gli aveva fatto una proposta che gli aveva cam-biato l'esistenza, perché aveva dato un nuovo orientamento alla sua profes-sione e l'aveva aiutato ad avviare un commercio più lucroso: convincere importanti società multinazionali a sovvenzionare una fondazione privata per finanziare scavi e ricerche in tutto il mondo. In questo modo le multi-nazionali raggiungevano un doppio obiettivo: pagavano meno tasse e ac-quisivano una certa rispettabilità di fronte ai sempre diffidenti cittadini. Guidato dal suo mentore, un uomo tanto ricco quanto potente e influente a Washington, aveva creato la fondazione Mondo Antico. Si era costituito un consiglio d'amministrazione di cui facevano parte banchieri e uomini d'affari, che alla fine erano quelli che sborsavano il denaro; si riunivano un paio di volte all'anno, per l'approvazione del bilancio consuntivo. Proprio alla fine di quel mese di settembre era fissata una riunione. Robert Brown aveva fatto di Ralph Barry, professore di fama nel mondo accademico, il suo braccio destro. Per quanto riguardava il suo mentore, George Wagner, l'uomo che l'aveva portato sulla vetta, Brown custodiva gelosamente il se-greto del suo nome e gli era fedele come un cane: in tutti quegli anni aveva eseguito i suoi ordini senza riserve e aveva fatto ciò che non avrebbe mai pensato di poter fare. Era una marionetta nelle sue mani, ma era felice di esserlo.

Tutto ciò che era diventato, tutto quel che possedeva, lo doveva a lui.

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Brown aveva dato precise istruzioni a Ralph Barry, direttore del dipar-timento della Mesopotamia della fondazione Mondo Antico ed ex profes-sore a Harvard: doveva impedire che Clara Tannenberg e suo marito parte-cipassero al convegno e, se non fosse stato possibile, almeno evitare che parlassero.

Barry si era stupito delle istruzioni di Brown, perché sapeva che il suo capo conosceva la coppia, ma nemmeno per un istante gli era passato per la testa di contravvenire ai suoi ordini.

Clara percepì l'ostilità dell'uditorio. Arrossì di rabbia. Lo "zio" Robert

pagava quel convegno, e lei rientrava nel pacchetto. Deglutì prima di con-tinuare.

«Signori, sono qui per parlare non di politica ma di arte. Sono qui per chiedere di salvare il patrimonio artistico della Mesopotamia, dove è ini-ziata la storia dell'umanità. Se scoppierà una guerra, tale patrimonio rischia di essere distrutto. Tuttavia, sono qui per chiedere anche un altro tipo di aiuto. E non si tratta di soldi.»

Nessuno rise alla battuta e Clara si sentì ancora peggio, però era decisa a continuare, per quanto avvertisse a pelle la profonda irritazione del pubbli-co.

«Molti anni fa, è passato più di mezzo secolo, mio nonno, che faceva parte di una spedizione archeologica vicino all'antica Carran, trovò un pozzo rivestito di frammenti di tavolette. Voi sapete che era una prassi dif-fusa. Ancora oggi recuperiamo tavolette che erano state utilizzate dai con-tadini per costruire le loro case. Quelle con cui era stato ricoperto il pozzo contenevano la registrazione della superficie di determinati campi e del vo-lume di cereali dell'ultimo raccolto. Ce n'erano a centinaia, ma due di esse parevano non appartenere allo stesso gruppo delle altre, non solo per il contenuto, ma anche per il modo in cui erano state scritte, come se il com-pilatore, facendo le incisioni sull'argilla, non avesse maneggiato lo stilo con sufficiente destrezza.»

La voce di Clara si tinse di emozione. Stava per svelare la ragione della sua vita, ciò che non aveva smesso di sognare da quando aveva l'uso della ragione, ciò per cui era diventata archeologa, ciò che per lei era più impor-tante di tutto e di tutti, compreso Ahmed.

«Per più di cinquant'anni» proseguì «mio nonno ha conservato queste due tavolette su cui qualcuno, probabilmente un apprendista scriba, narra che un suo parente, Abramo, gli avrebbe raccontato come si era formato il

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mondo e altre storie fantastiche su un Dio che tutto può e che tutto vede, e che in un'occasione, arrabbiato con gli uomini, inondò la Terra. Vi rendete conto di ciò che questo significa?

«Tutti conosciamo l'importanza, per l'archeologia e la storia, ma anche per la religione, della scoperta del poema accadico sulla Creazione, l'Enu-ma elish, e del racconto di Enki e Ninhursag o del Diluvio nell'epopea di Gilgamesh. Dunque, secondo le tavolette ritrovate da mio nonno, il pa-triarca Abramo formulò la propria visione della genesi del mondo, influen-zata di certo dai poemi accadici e babilonesi sul paradiso e la Creazione.

«Oggi sappiamo anche, perché l'archeologia l'ha dimostrato, che la Bib-bia fu scritta nel VII secolo avanti Cristo, in un momento in cui i patriarchi e i sacerdoti avevano bisogno di fondare l'unità del popolo d'Israele, per il quale dovevano creare una storia comune, un'epopea nazionale, un docu-mento che servisse ai loro fini politici e religiosi.

«Nel tentativo di appurare ciò che si dice nella Bibbia, l'archeologia ha scoperto verità e menzogne. Ancora oggi è difficile separare la leggenda dalla storia, perché sono intrecciate. Ma ciò che appare chiaro è che i rac-conti sono ricordi di un passato, storie antiche che quei pastori, emigrati da Ur a Carran, portarono in seguito fino a Canaan.»

Clara tacque aspettando la reazione dei colleghi, che l'ascoltavano in si-lenzio, alcuni con insofferenza, altri con un certo interesse.

«Carran... Abramo... Nella Bibbia troviamo una genealogia minuziosa dei "primi uomini", a partire da Adamo; questo percorso arriva fino ai pa-triarchi postdiluviani, i figli di Sem, un discendente dei quali, Terach, ge-nerò Nacor, Aran e Abram, il cui nome Dio trasformò più tardi in Abramo, padre di una moltitudine.

«A parte il racconto minuzioso della Bibbia nel quale Dio ordina ad A-bramo di lasciare la sua terra e la sua casa per dirigersi a Canaan, non si è potuto dimostrare che ci sia stata una migrazione di semiti da Ur a Carran prima di arrivare alla destinazione voluta da Dio, nella terra di Canaan. E l'incontro fra Dio e Abramo dovrebbe aver avuto luogo a Carran, dove se-condo alcuni biblisti il primo patriarca sarebbe vissuto fino alla morte di suo padre, Terach.

«Quando Terach si trasferì a Carran, non fu accompagnato solo dai figli Abramo con la moglie Sara (che allora si chiamava ancora Sarai), e Nacor con la moglie Milca. Lo seguì anche Lot, il figlio di suo figlio Aran, morto giovane. Sappiamo che allora le famiglie formavano tribù che si spostava-no da un posto all'altro con le greggi e gli utensili, e che si insediavano pe-

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riodicamente in luoghi dove coltivavano un pezzo di terra per la loro sussi-stenza. Terach, quindi, lasciando Ur per insediarsi a Carran, lo fece ac-compagnato da altri familiari, parenti di grado più o meno prossimo. Noi crediamo... mio nonno, mio padre, mio marito Ahmed Husseini e io cre-diamo che un membro della famiglia di Terach, probabilmente un ap-prendista scriba, possa aver avuto una stretta relazione con Abramo e che questi gli abbia spiegato le proprie idee sulla creazione del mondo, il suo concetto di quell'unico Dio e chissà quant'altro. Per anni abbiamo cercato nella regione di Carran altre tavolette dello stesso autore, senza risultati. Mio nonno ha dedicato la vita a fare ricerche in un raggio di cento chilo-metri da Carran e non ha trovato niente. Bene, il lavoro non è stato però sterile: nel museo di Baghdad, in quello di Carran, in quello di Ur e in tanti altri ci sono centinaia di tavolette e di oggetti che la mia famiglia ha dissot-terrato, ma non abbiamo rinvenuto quelle tavolette con i racconti di Abra-mo che...»

Con fare brusco, un uomo alzò la mano e l'agitò, cosa che sconcertò Cla-ra Tannenberg.

«Sì...? Vuole dire qualcosa?» «Signora, lei sta affermando che Abramo, il patriarca Abramo, l'Abramo

della Bibbia, il padre della nostra civiltà, ha raccontato a chissà chi la sua idea di Dio e del mondo, e che questo chissà chi l'ha scritta, come un gior-nalista qualunque, e che suo nonno, che di certo nessuno di noi ha l'onore di conoscere, ha trovato quella prova e l'ha conservata per più di mezzo se-colo?»

«Sì, è proprio ciò che sto dicendo.» «Ah, e allora mi spieghi perché non ne siamo stati informati fino adesso.

A proposito, sarebbe così gentile da dirci chi erano suo nonno e suo padre? Di suo marito qualcosa sappiamo. Qui ci conosciamo tutti e mi dispiace confessarle che per noi lei è un'illustre sconosciuta che, per il suo interven-to, definirei infantile e fantasiosa. Dove sono queste tavolette di cui parla? A quali prove scientifiche le ha sottoposte per garantirne l'autenticità e per datare l'epoca a cui appartengono? Signora, ai congressi si viene con studi comprovati, non con storie di famiglia, di una famiglia appassionata di ar-cheologia.»

Un mormorio percorse la sala mentre Clara Tannenberg, rossa dall'ira, non sapeva che fare: se uscire di corsa o insultare quell'uomo che la stava rendendo ridicola e offendeva la sua famiglia. Fece un profondo respiro per prendere tempo e vide Ahmed alzarsi in piedi e guardarla furioso.

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«Egregio professor Guilles, so che ha avuto migliaia di studenti nella sua lunga carriera di docente alla Sorbona. Io sono stato uno di loro; a proposi-to, mi ha sempre dato la lode. In realtà, ho preso la lode in tutte le materie, non solo nella sua, e credo di ricordare che alla Sorbona si sia fatta una menzione speciale del "mio caso", perché, insisto, in quei cinque anni ho preso in tutti gli esami il massimo dei voti con lode e mi sono laureato con la votazione massima e la menzione d'onore. Poi, professore, ho avuto il privilegio di accompagnarla durante gli scavi in Siria, e anche in Iraq. Ri-corda i leoni alati che rinvenimmo vicino a Nippur in un tempio dedicato a Nabu? Peccato che le statue non fossero intatte, ma almeno abbiamo avuto la fortuna di trovare una collezione di sigilli cilindrici di Assurbanipal... So di non avere né le sue conoscenze né la sua reputazione, ma da anni dirigo il dipartimento di Scavi archeologici dell'Iraq, benché oggi sia un diparti-mento morto; siamo in guerra, una guerra non dichiarata, ma pur sempre tale. Da dieci anni subiamo un embargo crudele e il programma "Petrolio in cambio di cibo" ci fa appena sopravvivere. I bambini iracheni muoiono perché negli ospedali non ci sono medicinali e perché le loro madri non possono comprare loro da mangiare, per cui è ovvio che abbiamo poco de-naro da dedicare alla ricerca del nostro passato, che in realtà è il passato della civiltà. Tutte le spedizioni archeologiche sono state sospese in attesa di tempi migliori. Quanto a mia moglie, Clara Tannenberg, è mia assisten-te da anni, scaviamo insieme. Suo nonno e suo padre sono stati uomini ap-passionati di antichità, che ai loro tempi aiutarono a finanziare alcune mis-sioni archeologiche...»

«Ladri di tombe!» urlò qualcuno dal pubblico. Quella voce e il fragore della risata nervosa di alcuni dei presenti s'infi-

larono come coltelli nel petto di Clara Tannenberg. Ma Ahmed Husseini non si scompose e continuò a parlare come se non avesse udito il commen-to offensivo.

«Dunque, siamo sicuri che l'autore di quelle due tavolette conservate dal nonno di Clara riportò su di esse, come lo stesso scriba afferma, le parole di Abramo. Effettivamente, possiamo parlare di una scoperta unica nella storia dell'archeologia, ma anche della religione e della tradizione biblica. Credo che dovreste permettere alla dottoressa Tannenberg di continuare. Clara, per favore...»

Clara guardò con gratitudine suo marito, respirò profondamente e, titu-bante, si apprestò a continuare. Se qualcun altro l'avesse interrotta o avesse cercato di umiliarla, lei avrebbe gridato e l'avrebbe insultato, non si sareb-

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be lasciata certo calpestare. Suo nonno si sarebbe vergognato se avesse as-sistito a quella scena. Lui era contrario a chiedere aiuto alla comunità in-ternazionale. "Sono degli arroganti figli di puttana che credono di sapere tutto." Nemmeno suo padre le avrebbe permesso di andare a Roma, ma suo padre era morto e suo nonno...

«Per anni ci siamo concentrati su Carran per cercare resti di altre tavolet-te, della cui esistenza siamo sicuri. Niente da fare. Sulla parte superiore di quelle trovate da mio nonno appariva il nome di Shamas. In alcuni casi, gli scribi mettevano il proprio nome sulle tavolette che incidevano, insieme a quello del supervisore delle stesse. Nel caso di queste due tavolette ap-pariva solo quello di Shamas. Chi è Shamas, vi domanderete?

«Da quando gli Stati Uniti considerano l'Iraq il loro peggior nemico, so-no state frequenti le incursioni aeree. Ricorderete che un paio di mesi fa alcuni aerei americani che sorvolavano l'Iraq dissero di essere stati attacca-ti da missili terra-aria, ai quali avevano risposto con un bombardamento. Nella zona colpita, tra Bassora e l'antica Ur, in un villaggio chiamato Sa-fran, rimasero allo scoperto i resti di un edificio e di una muraglia, il cui perimetro è di oltre cinquecento metri. Data la situazione in Iraq, non è sta-to possibile prestare l'attenzione adeguata a quella costruzione, per quanto mio marito e io, insieme a una piccola squadra di operai, avessimo iniziato a scavare con più volontà che mezzi. Crediamo che quel complesso potes-se essere il magazzino in cui venivano custodite le tavolette o parte di un tempio. Non lo sappiamo con certezza, però abbiamo trovato resti di tavo-lette e la sorpresa è stata che tra quei resti ce n'era uno con inciso il nome di Shamas. È lo stesso Shamas legato ad Abramo?

«Non si sa, però potrebbe essere. Abramo intraprese il viaggio per Cana-an con la tribù di suo padre. Esiste la credenza secondo la quale il patriarca rimase a Carran fino alla morte del genitore, e che solo allora iniziò il viaggio verso la Terra Promessa. Shamas faceva parte della tribù di Abra-mo? L'accompagnò a Canaan?

«Vorrei chiedervi di aiutarci, il nostro sogno sarebbe di organizzare una spedizione archeologica internazionale. Se trovassimo quelle tavolette... Per anni mi sono domandata in quale momento Abramo smise di essere politeista, come i suoi contemporanei, e passò a credere in un solo Dio.»

Il professor Guilles alzò di nuovo la mano. Il vecchio docente della Sor-bona, uno dei più stimati esperti mondiali di cultura mesopotamica, pareva intenzionato a rovinare la giornata a Clara Tannenberg. «Signora, insisto perché ci mostri le tavolette di cui parla. Se non è disposta a farlo, lasci il

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posto a quanti sono qui per dare un contributo concreto al convegno.» Clara Tannenberg non ci vide più. Un lampo di collera attraversò i suoi

occhi azzurri. «Ma che le prende, professore? Non sopporta che qualcuno possa saperne più di lei sulla Mesopotamia, e addirittura fare una scoperta? Ne soffre così tanto il suo ego...?»

Guilles si alzò lentamente e si rivolse all'uditorio. «Parteciperò di nuovo ai lavori quando si ricomincerà a parlare di cose serie.»

Ralph Barry si vide obbligato a intervenire. Si schiarì la voce e parlò alla ventina di archeologi che assisteva a disagio alla scena che aveva per pro-tagonista quella collega sconosciuta. «Mi dispiace per quel che sta succe-dendo. Non capisco perché non si possa essere un po' più umili e ascoltare quello che ha da dirci la dottoressa Tannenberg. È archeologa come noi, perché tanti pregiudizi? Sta esponendo una teoria; ascoltiamola e poi commentiamola, ma screditarla a priori non mi pare un atteggiamento mol-to scientifico.»

La professoressa Renh, dell'università di Oxford, una donna di mezza età dal volto abbronzato, alzò la mano per chiedere la parola. «Ralph, qui ci conosciamo tutti... La signora Tannenberg è intervenuta per raccontarci di tavolette che non ci ha mostrato, neppure in fotografia. Ha fatto un comi-zio, come pure suo marito, sulla situazione politica in Iraq, per la quale so-no personalmente molto dispiaciuta, e ha esposto una teoria su Abramo che, detto con sincerità, pare frutto più della fantasia che di un lavoro scientifico. Ma siamo a un convegno e, mentre in altre sale i nostri colleghi di altre specialità presentano ricerche e conclusioni, noi... ho l'impressione che stiamo perdendo tempo. Mi dispiace, ma la penso come il professor Guilles. Vorrei che ci mettessimo a lavorare sul serio.»

«È quello che stiamo facendo!» gridò indignata Clara. Ahmed si alzò e, aggiustandosi la cravatta, si rivolse ai presenti senza

guardare nessuno in particolare. «Vi ricordo che le grandi scoperte archeo-logiche sono state fatte da uomini che hanno saputo ascoltare e cercare tra le ceneri delle leggende. Ma voi non volete neppure prendere in considera-zione ciò che stiamo esponendo. Aspettate. Sì, aspettate e vedrete cosa ac-cadrà nel momento in cui Bush attaccherà l'Iraq. Voi siete illustri professo-ri e archeologi di paesi cosiddetti "civili", e visto che provate più o meno simpatia per Bush non vi giocherete la pelle difendendo un progetto arche-ologico che voglia favorire l'Iraq. Posso capirlo, ma ciò che non compren-do è il motivo di quest'atteggiamento chiuso che vi impedisce addirittura di ascoltare e di valutare se quello che vi stiamo dicendo possa essere vero.»

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La professoressa Renh alzò di nuovo la mano. «Professor Husseini, insi-sto affinché ci presenti qualche prova di ciò di cui parla. Smetta di giudi-carci e soprattutto la smetta di fare propaganda. Siamo adulti e ci troviamo qui per discutere di archeologia, non di politica. Non ci inganni presentan-dosi come una vittima. Ci fornisca qualche elemento concreto che supporti le sue supposizioni.»

Clara Tannenberg si alzò e iniziò a parlare senza dare il tempo ad A-hmed di rispondere alla donna. «Non abbiamo qui le tavolette. Sapete bene che, data la situazione irachena, non ce le lascerebbero portare via. Dispo-niamo di qualche foto, non sono di buona qualità ma almeno possono pro-vare che le tavolette esistono. Vi stiamo chiedendo un aiuto, un aiuto per gli scavi. Non abbiamo mezzi sufficienti per farli. In Iraq, oggi, l'archeolo-gia è l'ultima delle preoccupazioni, c'è da pensare alla sopravvivenza.»

Un silenzio grave accompagnò stavolta le sue parole. Poi il pubblico si alzò e abbandonò la sala.

Ralph Barry si avvicinò ad Ahmed e a Clara con un'espressione apparen-temente compunta. «Mi dispiace, ho fatto quanto potevo, ma ve l'avevo detto che questo non era il momento migliore per farvi intervenire al con-vegno.»

«Lei ha fatto di tutto per non farci partecipare» replicò Clara in tono di sfida.

«Signora Tannenberg, la congiuntura internazionale riguarda tutti. Lei sa che nel mondo dell'archeologia cerchiamo sempre di mantenerci distanti dalla politica, altrimenti sarebbe impensabile organizzare spedizioni ar-cheologiche in determinati paesi. Ahmed, sa bene che è impossibile trova-re un aiuto ora. Data la situazione politica, per la fondazione non è fattibile finanziare degli scavi in Iraq. Il presidente verrebbe criticato e il consiglio di amministrazione della fondazione non lo permetterebbe. Vi ho spiegato che, date le circostanze, la cosa migliore sarebbe stata che la vostra pre-senza al convegno fosse discreta, ma avete voluto fare diversamente. In-somma, speriamo che ciò che è accaduto oggi non sollevi uno scandalo.»

«Solo perché non abbiamo le vostre idee politiche, ci trattate come appe-stati» sibilò Clara furiosa.

«Per favore! Vi ho esposto con sincerità la situazione, che voi conoscete quanto me. Comunque, non perdete le speranze. Ho notato che il professor Yves Picot vi ascoltava attentamente. Lui è un uomo originale, ma è anche un'autorità in materia.»

Ralph Barry si pentì di aver parlato di Picot. Però era vero. L'eccentrico

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professore aveva ascoltato Clara con interesse. Anche se, considerati i suoi precedenti, l'interesse di Picot poteva essere non solo accademico.

Giunsero all'hotel esausti. Arrabbiati con se stessi, e l'uno con l'altra.

Clara sapeva che si stava avvicinando una tempesta. Ahmed l'aveva difesa, sì, ma lei era sicura di averlo contrariato con il suo modo di presentare i fatti. Il marito le aveva chiesto esplicitamente di non menzionare né il nonno né il padre, di circoscrivere la scoperta all'attualità; data la situazio-ne in Iraq, nessuno avrebbe potuto verificare le sue parole. Ma lei aveva voluto rendere omaggio al nonno e al padre, che adorava e dai quali aveva imparato tutto ciò che sapeva. Tacere il fatto che era stato suo nonno a scoprire le tavolette sarebbe stato come mancargli di rispetto.

Entrarono in camera proprio mentre la cameriera aveva appena finito di rassettarla. Rimasero in silenzio, in attesa che la ragazza uscisse.

Ahmed cercò un bicchiere nel frigobar e si servì un whisky con ghiaccio. Non le offrì nulla, cosicché lei si versò da sola un Campari. Si sedette in attesa che scoppiasse la tempesta.

«Ti sei resa ridicola» affermò con durezza Ahmed. «Sei risultata patetica a parlare di tuo padre, di tuo nonno e di me. Per Dio, Clara, siamo archeo-logi, non stiamo giocando agli archeologi, e questa non era la cerimonia di fine corso all'università, dove bisogna ringraziare papà per quanto è stato buono! Ti ho detto di non menzionare tuo nonno, te l'ho ripetuto, ma tu hai fatto di testa tua, senza considerare le conseguenze, senza renderti conto di ciò che avresti scatenato. Ralph Barry ci aveva chiesto discrezione, ci ave-va spiegato chiaramente che il suo "capo", Robert Brown, vuole che si ef-fettuino gli scavi, ma che non possono esporsi in prima persona perché si giocherebbero la pelle. Non può dire agli amici del consiglio d'ammini-strazione che è interessato a un'archeologa sconosciuta, nipote di un vec-chio amico e sposata con un iracheno ben visto dal regime, e che li aiuterà. Ralph Barry l'ha detto chiaro e tondo: Robert Brown in questo modo si sa-rebbe scavato la fossa da solo. Che cosa pretendevi, Clara?»

«Non voglio mancare di rispetto a mio nonno! Perché non posso parlare di lui e di mio padre, o di te? Non ho nulla di cui vergognarmi. Loro erano collezionisti d'arte e hanno speso una fortuna per gli scavi in Iraq, in Siria, in Egitto, in...»

«Svegliati, Clara, apri gli occhi! Tuo padre e tuo nonno sono semplici commercianti, non dei mecenati! Cresci, diventa donna, smetti di stare sul-le ginocchia di tuo nonno!» Ahmed tacque di colpo. Si sentiva stanco.

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«La "Bibbia d'argilla", così la chiamava mio nonno. La Genesi racconta-ta da Abramo...» mormorò Clara sottovoce.

«Sì, una Bibbia scritta sull'argilla mille anni prima che su papiro.» «Una scoperta trascendentale per l'umanità, una prova in più dell'esi-

stenza di Abramo. Non vorrai dire che ci stiamo sbagliando?» «Anch'io voglio trovare la Bibbia d'argilla, ma oggi, Clara, hai sprecato

la migliore opportunità che avevamo per farlo. Quella gente fa parte dell'é-lite dell'archeologia mondiale. E noi dobbiamo farci perdonare di essere quelli che siamo.»

«E chi siamo, Ahmed?» «Un'archeologa sconosciuta sposata con il direttore del dipartimento di

Scavi archeologici di un paese con un regime dittatoriale, il cui presidente è stato condannato perché non serve più agli interessi dei potenti. Anni fa, quando vivevo negli Stati Uniti, essere iracheno non era un handicap, anzi. Saddam combatteva contro l'Iran perché tornava utile agli interessi di Wa-shington. Sterminava i curdi con le armi che gli vendevano gli Stati Uniti, armi chimiche proibite dalla Convenzione di Ginevra, le stesse armi che stanno cercando ora. È tutta una menzogna, Clara, e pertanto bisogna stare alle regole. Ma a te non importa nulla di ciò che ti succede intorno; Sad-dam, Bush, e chi può morire per colpa loro, per te fa lo stesso. Il tuo mon-do si circoscrive a tuo nonno, e basta.»

«Da che parte stai?» «Come?» «Attacchi il regime di Saddam, sembri comprendere gli americani, e in-

vece altre volte dimostri di odiarli... Da che parte stai?» «Da nessuna parte. Sto da solo.» La risposta sorprese Clara. La impressionò la sincerità di Ahmed, e al

tempo stesso le dispiacque scoprire in suo marito quel senso di distacco. Ahmed era un iracheno troppo occidentalizzato. Aveva perso le sue ra-

dici in giro per il mondo. Suo padre era stato un diplomatico, un uomo le-gato al regime di Saddam, premiato con diverse ambasciate: Parigi, Bru-xelles, Londra, Città di Messico, il consolato di Washington... La famiglia Husseini aveva vissuto bene, molto bene, e i figli dell'ambasciatore erano diventati perfetti cosmopoliti: avevano studiato nei migliori collegi euro-pei, avevano imparato diverse lingue e frequentato le più prestigiose uni-versità americane. Le tre sorelle di Ahmed si erano sposate con uomini oc-cidentali e non sarebbero riuscite a tornare a vivere in Iraq. Erano cresciute libere in paesi democratici. E lui, Ahmed, si era nutrito di democrazia du-

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rante tutte le missioni del padre, dunque l'Iraq gli stava stretto, anche se quando vi faceva ritorno godeva dei privilegi riservati ai figli del regime.

Sarebbe rimasto a vivere negli Stati Uniti, ma aveva conosciuto Clara e il nonno e il padre la reclamavano con loro in Iraq. Così aveva deciso di tornare.

«E adesso cosa facciamo?» domandò lei. «Niente. Ormai non possiamo più fare niente. Domani chiamerò Ralph

per farmi spiegare le dimensioni del disastro che hai combinato.» «Torniamo a Baghdad?» «Ti è venuta in mente un'altra trovata?» «Non essere caustico! Comunque, ciò che sono lo devo a mio nonno.

D'accordo, lui è stato un uomo d'affari, ma ama la Mesopotamia più di chiunque altro, e quest'amore l'ha inculcato a mio padre e a me. Avrebbe potuto essere un grande archeologo, ma non ha avuto la fortuna di potersi dedicare alla sua passione. Fu lui e lui solo a scoprire quelle tavolette, a conservarle per più di cinquant'anni, a spendere i propri soldi per pagare gli scavi alla ricerca di una traccia di Shamas. Ti ricordo che i musei ira-cheni sono pieni di reperti e tavolette recuperati durante gli scavi finanziati da mio nonno.»

Una smorfia di disprezzo si disegnò sul volto di Ahmed. Lei sussultò. D'improvviso suo marito le pareva un estraneo.

«Tuo nonno è sempre stato un uomo discreto, Clara, anche tuo padre lo fu. Non hanno mai fatto dell'esibizionismo gratuito. Il tuo comportamento di oggi li avrebbe delusi. Non è questo che ti hanno insegnato.»

«Mi hanno trasmesso l'amore per l'archeologia.» «Ti hanno ossessionato con la Bibbia d'argilla, questo hanno fatto.» Tornò il silenzio. Ahmed bevve il whisky in un sorso e chiuse gli occhi.

Nessuno dei due voleva continuare a parlare. Clara s'infilò nel letto pensando a Shamas e lo immaginò con uno stilo

sottile in mano mentre disegnava sull'argilla...

2 «Chi creò la prima capra?» «Lui.» «E perché una capra?» «Per la stessa ragione per cui fece tutti gli esseri che vivono sulla Terra.» Il bambino conosceva le risposte, ma gli piaceva provocare lo zio A-

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bram. Costui era molto cambiato. Da tempo si era trasformato in un uomo strano, che ricercava sempre la solitudine e si allontanava da tutti dicendo di dover pensare.

«Be', non capisco per quale motivo. Perché ama le capre? Per affidarle a noi? E perché ama noi? Per farci lavorare?»

«Tu perché impari.» Shamas tacque. Suo zio gli ricordava che a quell'ora avrebbe dovuto es-

sere nella casa delle tavolette a fare i suoi compiti. L'altro suo zio, l'um-mi-a, si sarebbe di nuovo lamentato di lui con suo padre e questi l'avrebbe rimproverato.

Quella mattina, mentre andava alla casa delle tavolette, aveva visto lo zio Abram camminare tra le capre in cerca di pascoli verdi e l'aveva segui-to, anche se sapeva che suo zio avrebbe preferito restare da solo e non par-lare con nessuno. Ma si mostrava sempre paziente con lui. In realtà non era suo zio diretto, ma un lontano parente di sua madre. Però appartenevano alla stessa tribù, tutti riconoscevano l'autorità di Terach, il padre di Abram, anche se il prestigio del figlio correva parallelo a quello del genitore e mol-ti uomini della tribù si rivolgevano ad Abram in cerca di consiglio e di una guida. Terach non si offendeva, perché era ormai diventato anziano e dor-micchiava per la maggior parte del giorno. Alla sua morte sarebbe stato Abram a occuparsi di tutto.

«Mi annoio» spiegò il bambino, a mo' di scusa. «Ah, sì? E perché ti annoi?» «Il dub-sar che ci insegna non è molto amabile, forse perché ancora non

domino lo stilo come piacerebbe al ses-gal o all'um-mi-a Ur-Nisaba. Al dub-sar Ili non piacciono i bambini, non ha pazienza, e ci fa ripetere le stesse frasi fino a che, a suo giudizio, non sono perfette. Poi, quando a mezzogiorno pretende che diciamo la lezione a voce alta, si arrabbia se esi-tiamo e non ha pietà a riempirci di esercizi di scrittura e matematica.»

Abram sorrise. Non voleva che il piccolo Shamas si inorgoglisse ancora di più se lui gli avesse manifestato comprensione davanti al rigore del ma-estro. Shamas era il bambino più intelligente della tribù e la sua missione era studiare e diventare uno scriba o un sacerdote. C'era bisogno di uomini saggi che sapessero realizzare i calcoli per la costruzione di canali che por-tassero acqua alla terra secca. Uomini che sapessero mettere ordine nei granai, controllare la distribuzione del grano, conferire prestiti; uomini che avessero conoscenze di piante e animali, di matematica, che sapessero leg-gere le stelle, che fossero capaci di pensare a qualcosa di più che a dare da

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mangiare alla prole. Il padre di Shamas era stato un grande scriba, un maestro, e il piccolo,

come molti altri uomini della famiglia, aveva avuto il privilegio di ricevere l'intelligenza. Non poteva sprecarla, perché l'intelligenza era un dono che Lui consegnava ad alcuni uomini per rendere più facile l'esistenza degli al-tri, e per combattere quanti, essendo ugualmente intelligenti, si lasciavano ispirare dal Male.

«Devi andartene prima che inizino a cercarti e tua madre si preoccupi.» «Mia madre ha visto che ti seguivo. È tranquilla, sa che con te non può

succedermi niente.» «Ma questo non le eviterà un dispiacere, perché è cosciente del fatto che

non stai sfruttando l'opportunità di apprendere.» «Zio, il dub-sar Ili ci fa invocare Nidaba, la dea dei cereali, e assicura

che è lei ad averci ispirato la conoscenza dei segni.» «Devi imparare ciò che ti insegna il dub-sar.» «Sì, ma tu credi che a ispirarci sia Nidaba?» Abram tacque. Non voleva confondere la mente del piccolo, ma nem-

meno rifiutarsi di dire ciò che pensava e di cui aveva la certezza, ossia che gli dèi che loro adoravano non erano ispirati da nessuno spirito, erano semplicemente argilla. Lui lo sapeva bene perché suo padre Terach model-lava l'argilla e decorava templi e palazzi con quegli dèi usciti dalle sue mani.

Ricordava ancora il dolore che aveva causato a suo padre il giorno in cui l'aveva trovato nel suo laboratorio circondato dai cocci delle figure che stavano ancora asciugando prima di trasformarsi definitivamente in dèi.

Non sapeva perché avesse agito così, ma quando era entrato nel labora-torio di Terach aveva sentito l'impulso irrefrenabile di distruggere quei pezzi di argilla davanti ai quali gli uomini piegavano stupidamente il capo, convinti che le disgrazie e i doni giungessero da quelle statue create dalle mani di suo padre.

Li aveva buttati a terra e calpestati, poi si era seduto ad aspettare le con-seguenze della sua azione. Non c'era nulla in quelle effigi: se fossero state dèi, avrebbero scatenato la propria furia contro di lui, l'avrebbero castigato. Invece non era successo niente, e lui aveva conosciuto solo l'ira del padre nel vedere in frantumi il frutto del proprio lavoro.

Terach l'aveva rimproverato per quel comportamento sacrilego, ma A-bram aveva ribattuto ironico che il padre avrebbe dovuto sapere meglio di tutti, visto che le costruiva, che in quelle statue non c'era altro che argilla, e

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lo aveva invitato a rifletterci. Più tardi gli aveva chiesto perdono per avere distrutto il frutto del suo

lavoro, aveva pulito i frantumi di argilla e si era messo addirittura a impa-starla affinché Terach potesse modellare altri dèi da vendere.

«Shamas, devi imparare quello che ti insegna Ili, poiché ciò ti aiuterà a discernere. Verrà un tempo in cui tu, da solo, separerai il grano dalla pula, ma fino allora non disprezzare alcuna conoscenza.»

«L'altro giorno parlai con loro di Lui e Ili si arrabbiò. Mi disse che non dovevo offendere Ishtar, Isin, Innama...»

«E perché parlasti di Lui?» «Perché non riesco a non pensare a ciò che mi dici. Sai, io non credo che

ci sia uno spirito dentro la statua di Ishtar. Lui, non lo posso vedere, dun-que sicuramente esiste.»

Abram rimase sorpreso dal ragionamento del piccolo: credeva in ciò che non vedeva proprio perché non lo vedeva. Ma conosceva anche l'ammira-zione che Shamas provava nei suoi confronti perché, a causa dell'anzianità di Terach, era di fatto il capo della tribù e la sua parola era legge. «Impara, Shamas, impara. Va' a scuola e lasciami pensare.»

«Lui ti parla?» «Io lo sento, sì.» «Ma si rivolge a te con le parole, come facciamo tu e io...?» «No, non così, ma lo ascolto con tanta chiarezza come se ascoltassi te.

Non lo dire a nessuno.» «Manterrò il segreto.» «Non è un segreto, ma nella vita bisogna imparare a essere discreti. Su,

va' a scuola e non far più arrabbiare Ili.» Il bambino si alzò dal sasso su cui era seduto e accarezzò la gola di una

capra bianca che, indifferente a ciò che accadeva intorno a lei, brucava l'erba con evidente piacere. Si morse il labbro e, abbozzando un sorriso, fece una richiesta ad Abram. «Mi piacerebbe che mi raccontassi come Lui ci ha creati e perché. Se lo facessi, io lo scriverei, utilizzerei lo stilo d'osso che mi ha regalato mio padre. Lo uso solo quando il maestro mi chiede qualcosa di molto importante. Mi servirebbe a fare pratica...»

Abram fissò lo sguardo su Shamas senza rispondere alla richiesta del bambino. Aveva dieci anni. Sarebbe stato in grado di comprendere la complessità di quel Dio che gli si rivelava? Prese una decisione. «Ti rac-conterò quello che mi chiedi, lo scriverai sulle tue tavolette e le conserve-rai con cura. Le mostrerai solo quando te lo dirò io. Tuo padre deve saper-

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lo, tua madre pure, ma nessun altro. Parlerò con loro. Ma a condizione che tu non salti la scuola. Non discutere con il tuo maestro, ascolta e impara.»

Il piccolo annuì soddisfatto e uscì correndo. Ili si sarebbe arrabbiato con lui per il ritardo, ma non gli importava. Abram gli avrebbe raccontato i se-greti del suo Dio, un Dio che non era di argilla.

Ili cambiò espressione quando vide entrare Shamas sudato e ancora an-

sante per la corsa. «Ne parlerò con tuo padre» lo minacciò. Lo scriba continuò la lezione. Voleva che i bambini familiarizzassero

con le tavole dei calcoli e, soprattutto, che capissero la magia dei numeri e le abbreviazioni con cui si disegnavano le decine.

Shamas faceva scorrere lo stilo sull'argilla scrivendo quanto Ili spiegava per poi leggerlo a suo padre e meravigliare sua madre.

«Padre, potresti darmi qualche tavoletta?» domandò Shamas. Suo padre alzò il viso da quella che aveva tra le mani, stupito della ri-

chiesta del figlio. Stava annotando, come faceva da anni, le osservazioni che leggeva nel cielo. Degli otto che aveva, Shamas era il suo figlio predi-letto, ma anche colui che lo preoccupava di più per la sua estrema intelli-genza. Anche il cugino Abram la pensava così. «Ili ti ha dato dei compiti da fare a casa?»

«No, non è questo. Lo zio Abram mi vuole raccontare perché Lui ha fat-to il mondo.»

«Ah!» «Mi ha detto che avrebbe parlato con te...» «Ancora non l'ha fatto.» «Me lo permetterai, padre?» L'uomo sospirò. Sapeva che sarebbe stato del tutto inutile vietare a Sha-

mas di ascoltare le storie di Abram. Suo figlio provava devozione per lo zio. E poi Abram era un uomo dal cuore limpido, troppo intelligente per credere che un pezzo di argilla fosse un dio. Nemmeno lui ci credeva, ma taceva. L'importante era continuare a studiare il giorno e la notte, le cor-renti dell'acqua, lo spessore della terra... Abram credeva in un Dio princi-pio e fine di tutte le cose e lui preferiva che Shamas conoscesse quel Dio piuttosto che modellassero la sua mente inculcandogli l'idea che un pezzo di argilla fosse dotato di potere.

«L'hai detto a Ili?» «No. Perché dovrei farlo? Me lo permetterai, padre?» «Sì. Scrivi ciò che ti racconterà Abram.»

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«Conserverò io stesso le tavolette.» «Non le vuoi portare alla casa delle tavolette?» «No, padre, Ili non capirebbe ciò che mi racconterà Abram.» «Ne sei sicuro?» gli domandò scherzoso suo padre. «Ili è intelligente,

anche se è un insegnante poco paziente. Non dimenticarlo, Shamas, e por-tagli rispetto.»

«Certo che gliene porto, padre. Però Abram mi ha detto che sarà lui a decidere a chi e in che modo parlare di Dio.»

«Fa' ciò che ti ha detto Abram.» «Grazie, padre. Chiederò a mia madre di aver cura delle mie tavolette e

di non permettere a nessuno di avvicinarsi.» Saltellando, il bambino uscì di casa in cerca della madre. Dopo avrebbe

preso l'argilla nel piccolo deposito dove suo padre lavorava le tavolette. Era ansioso di cominciare. Il giorno seguente si sarebbe incontrato con A-bram. Lui usciva con le capre prima del sorgere del sole poiché, gli aveva spiegato, era l'ora migliore per pensare.

Shamas faceva fatica a svegliarsi presto, ma non gli importava se era per ascoltare Abram.

Il bambino era impaziente di cominciare, certo che lo zio stesse per sve-largli grandi segreti. Alcune notti non riusciva a prendere sonno doman-dandosi da dove fossero giunti il primo uomo e la prima donna, la prima gallina, il primo toro, chi aveva svelato il segreto del pane, e come gli scri-bi avessero scoperto la magia dei numeri. Si disperava cercando le risposte finché si addormentava esausto, ma agitato per non essere riuscito a trovar-le.

Gli uomini attendevano trepidanti seduti davanti alla porta di Terach.

L'anziano li aveva convocati. In realtà era Abram che si voleva rivolgere ai capifamiglia, ma il capo della tribù era suo padre Terach e Abram gli ave-va chiesto di riunire gli uomini.

«Dobbiamo lasciare Ur» disse loro Terach. «Mio figlio Abram vi spie-gherà il motivo. Vieni, Nacor, siediti accanto a me mentre tuo fratello par-la.»

Tutti tacquero mentre Abram, in piedi, li guardava a uno a uno. Poi, con una voce non priva di emozione, annunciò loro che Terach li avrebbe con-dotti a Canaan, terra benedetta dal Signore, dove si sarebbero fermati e do-ve sarebbero nati i loro figli e i figli dei loro figli. Li esortò a essere pronti a partire quanto prima.

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Terach rispose ai dubbi degli uomini e suo figlio Nacor si mostrò contra-riato più di tutti gli altri. Abbandonare la terra di Ur non sarebbe stato faci-le. Lì erano nati i loro padri e i padri dei loro padri. Lì pascolavano le loro greggi e lì lavoravano. Canaan pareva loro molto lontana ma, ciò nono-stante, tutti furono convinti dalla speranza di una vita migliore e di una ter-ra piena di frutti, con i pascoli rigogliosi e i fiumi copiosi che avrebbero placato la loro sete. A Ur lottavano contro il deserto scavando canali per deviare le acque dell'Eufrate e irrigare la terra affinché desse loro il grano per fare il pane. L'esistenza che conducevano non era comoda, per quanto nella tribù di Terach alcuni uomini fossero scribi e potessero contare sulla protezione del Tempio e del Palazzo. Tra loro vi erano anche dei validi ar-tigiani e avevano pascoli in abbondanza. Le capre e le pecore fornivano latte e carne, tuttavia gli uomini passavano buona parte della propria vita scrutando il cielo, nella speranza che gli dèi regalassero loro la pioggia che bagnasse i campi e riempisse i pozzi.

Decisero quindi che avrebbero raccolto tutti i loro averi e, conducendo le greggi, avrebbero iniziato il viaggio seguendo il corso dell'Eufrate verso nord. Persero giorni nei preparativi e per congedarsi dai familiari e dagli amici. Infatti, non tutti potevano viaggiare: i malati e i vecchi che cammi-navano a stento sarebbero stati affidati alle cure dei membri più giovani della famiglia, che un giorno avrebbero raggiunto gli altri a Canaan ma che, per il momento, sarebbero rimasti a Ur. Ogni famiglia avrebbe dovuto decidere chi sarebbe partito e chi no.

Yadin, il padre di Shamas, chiamò la moglie, i figli e le mogli dei figli, gli zii, i fratelli e i figli di questi, che accorsero con i propri figli; tutti i membri della sua stirpe si ritrovarono all'alba in casa sua, dove si protesse-ro dal freddo entro le mura di mattoni.

«Accompagneremo Terach fino alla terra di Canaan. Ma alcuni di voi rimarranno qui, a badare a quanto lasciamo; anche i malati saranno sotto la vostra protezione. Tu, Josen, sarai il capofamiglia in mia assenza.»

Josen, il fratello minore di Yadin, annuì sollevato. Non aveva voglia di partire: viveva nel Tempio, dove era incaricato della stesura di lettere e contratti commerciali, e non ambiva ad altro che a carpire il mistero rin-chiuso nei numeri e negli astri.

«Nostro padre» continuò Yadin «è troppo vecchio per accompagnarci. Le sue gambe a malapena lo sorreggono, e ci sono giorni in cui il suo sguardo si perde all'orizzonte e lui non proferisce parola. Tu, Josen, farai in modo che non gli manchi nulla; delle nostre sorelle resterà Jamisal, che

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essendo vedova e non avendo figli potrà badare a nostro padre.» Shamas ascoltava attento le disposizioni del padre. Provava una stretta

allo stomaco, frutto dell'impazienza. Se fosse stato per lui, si sarebbe già messo in marcia in cerca di quella terra di cui parlava Abram. D'un tratto sentì una fitta di angoscia: se fossero partiti non avrebbe potuto scrivere la storia del mondo che lo zio aveva promesso di raccontargli. «Quanto ci metteremo per arrivare?»

La domanda del piccolo sorprese Yadin, poiché era impensabile che un ragazzo osasse interrompere i grandi. L'occhiata severa del padre fece ar-rossire Shamas, che abbassò lo sguardo al suolo mormorando una scusa. Ciò nonostante, Yadin rispose al figlio.

«Non so quanto ci vorrà per arrivare a Canaan, e neppure se saremo ob-bligati a fermarci per un po' in qualche altro posto. Chi mai può sapere co-sa succederà durante un viaggio? Teniamoci pronti per quando Terach darà il segnale della partenza.» Shamas vide apparire all'orizzonte la massiccia figura di Abram e corse verso di lui. Da due giorni cercava di parlare con suo zio e ora ne aveva l'opportunità.

Abram sorrise vedendo Shamas che correva, con il volto arrossato per il caldo e lo sforzo. Conficcò nel terreno il bastone su cui si appoggiava e at-tese che il piccolo lo raggiungesse mentre con lo sguardo cercava un albe-ro sotto cui proteggersi dagli ultimi raggi del sole. «Riposati» disse a Sha-mas. «Vieni, sediamoci vicino a quel fico, accanto al pozzo.»

«Quando comincerai a raccontarmi la storia del mondo?» «Ah, è questo che ti preoccupa!» «Se ce ne andiamo non potremo cuocere l'argilla per fare le tavolette...

Mio padre non mi lascerà portare via altro che lo stretto necessario.» «Shamas, scriverai la storia della Creazione perché sei gradito al Signo-

re, per cui non ti devi preoccupare. Deciderà Lui come e quando.» Il bambino non poté nascondere una smorfia di delusione. Non voleva

aspettare, sentiva il bisogno di scrivere quella storia, di capire perché Lui avesse deciso di creare il mondo, poiché, per quanto si arrovellasse, non ne capiva il motivo: perché l'aveva fatto, se non per noia o per la voglia di giocare con gli uomini così come le sue sorelle giocavano con le favole e le bambole? Ma nonostante quell'intenso desiderio doveva fare una con-fessione ad Abram. «Ili verrà?»

«No.» «Mi mancherà, a volte penso che abbia ragione ad arrabbiarsi con me

perché non mi attengo ai suoi insegnamenti e...»

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Il bambino esitò, non sapendo se continuare a parlare. Abram non fece domande, e attese che il piccolo si decidesse.

«Sono quello che a scuola scrive peggio, le mie tavolette sono piene di errori... Oggi ho sbagliato un esercizio di calcolo. Ho promesso a mio pa-dre e a Ili che migliorerò, che non mi distrarrò più, ma tu devi saperlo per-ché magari vorresti che fosse un altro a scrivere la storia del mondo, qual-cuno che non faccia errori con lo stilo...»

Shamas tacque aspettando la risposta di Abram. Il bambino si mordeva nervosamente il labbro, dispiaciuto di non essere uno studente migliore. Ili gli rimproverava di perdere tempo facendo supposizioni e domande assur-de. Si era lamentato con suo padre, che l'aveva sgridato, ma il peggio era che gli aveva detto di sentirsi deluso di lui, e adesso temeva la stessa rea-zione da parte di Abram e che questi mettesse fine al suo sogno di scrivere la storia del mondo.

«Non ti impegni a sufficienza a scuola?» «No» rispose timoroso il bambino. «E nonostante ciò credi che se ti racconterò la storia della Creazione la

scriverai senza errori?» «Sì, sì, certo, almeno ci proverò. Ho pensato che sarebbe meglio che tu

me la raccontassi a poco a poco, e poi dopo, a casa, con calma, io la scri-vessi maneggiando lo stilo con cura. Ogni giorno ti farò vedere quello che ho scritto e, se l'ho fatto bene, continuerai a raccontarmi la storia...»

Abram lo guardò fisso. Poco gli importava che a causa dell'impazienza il bambino commettesse degli errori sulle tavolette o che la sua mente fervi-da lo portasse a porre domande cui il maestro Ili non sapeva rispondere, o che l'ansia di libertà di Shamas lo inducesse a non prestare attenzione alle indicazioni dello scriba.

Shamas aveva altre virtù, e la principale era la sua capacità di pensare. Quando faceva una domanda si aspettava una risposta logica, non gli ba-stavano le spiegazioni che di solito vengono date alle curiosità dei bambi-ni. Gli occhi di Shamas brillavano intensamente e Abram pensò che quel ragazzo, da quando faceva parte della sua tribù, era colui il quale meglio comprendeva i disegni di Dio.

«Ti racconterò la storia della Creazione. Comincerò dal giorno in cui Lui decise di separare la luce dalle tenebre. Ma ora torna a casa tua. Ti dirò io quando sarà il momento.»

3

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Fuori faceva un caldo infernale; a quell'ora, a Siviglia, il termometro se-

gnava quaranta gradi. L'uomo si passò la mano sulla testa, su cui non era rimasto un solo capello. I suoi occhi azzurri, un po' infossati ma con la brillantezza dura dell'acciaio, erano fissi sullo schermo del computer. Mal-grado i suoi ottant'anni, era un appassionato di Internet.

Lo squillo del telefono lo fece sussultare. «Pronto.» «Enrique, mi ha appena telefonato Robert Brown. È accaduto ciò che

temevamo: la ragazza ha parlato al convegno di Roma.» «E ha detto...?» «Sì...» «Hai sentito Frankie?» «Un minuto fa.» «George, che facciamo?» «Quello che avevamo previsto. Alfred era stato avvertito.» «Ed è partito il piano?» «Sì.» «Robert ce la farà?» «Robert? È in gamba, lo sai, ed è capace di obbedire. Esegue gli ordini e

non fa domande.» «Da piccolo era quello che muoveva meglio i fili delle marionette che ci

regalavano a Natale.» «È un po' più complicato muovere i fili degli uomini.» «Non per te. In ogni caso, è arrivato il momento di mettere la parola fi-

ne. E Alfred? Non ti ha contattato?» «No, non l'ha fatto.» «Dovremmo parlare con lui.» «Lo faremo, ma sarà inutile; vuole continuare con il suo gioco, e questo

non glielo possiamo permettere. Adesso l'unica cosa da fare è stare alle calcagna di sua nipote. Non gli consentiremo di appropriarsi di ciò che è nostro.»

«Hai ragione, ma non mi piace che ci scontriamo con Alfred; troveremo il modo di fargli cambiare idea.»

«Dopo tanti anni ha deciso di giocare da solo. Quello che si propone di fare è un tradimento.»

«Dobbiamo parlare con lui. Proviamoci.» Aveva appena riagganciato quando il rumore di passi frettolosi lo mise

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in allarme. Come un uragano entrò nella stanza un giovane alto, magro e di bell'aspetto, vestito da cavallerizzo.

«Ciao, nonno, sono tutto sudato.» «Lo vedo, non mi pare molto intelligente uscire a cavallo con questo

caldo.» «Alvaro mi ha fatto vedere i vitelli che ha comprato.» «Non ti sarai mica messo a toreare, vero?» «No, nonno, ti ho promesso che non l'avrei fatto.» «Come se tu mantenessi le promesse... Dov'è tuo padre?» «In ufficio.» «Vuoi lasciarmi lavorare?» «Ma, nonno, non hai più l'età per lavorare. Lascia perdere e andiamo a

mangiare al club.» «Sai che non sopporto l'ambiente del club.» «In realtà, non sopporti Siviglia. Non vai da nessuna parte, la nonna ha

ragione: sei proprio una noia.» «La nonna ha sempre ragione; sono una noia, ma tutta quella gente mi

dà la nausea.» «Questo lo devi alla tua educazione inglese.» «Sarà, ma ora lasciami in pace, devo pensare. Dov'è tua sorella?» «E andata a Marbella, invitata a casa dei Kholl.» «E non mi ha nemmeno salutato... Diventate ogni giorno più maleduca-

ti.» «Ma, nonno, non essere antiquato! E poi Estrella non ama stare qui in

campagna. Solo a te, a papà e a me piace la fattoria, ma non alla nonna, al-la mamma e a mia sorella. Si sentono soffocare tra tutti quei tori e quei ca-valli. Allora, vieni o no al club?»

«No, sto qui. Non ho voglia di uscire con il caldo che fa.» Quando l'anziano rimase solo, sorrise tra sé. Suo nipote era un bravo ra-

gazzo, meno svagato di sua sorella; l'unica cosa che rimproverava a en-trambi era che a tutti e due piaceva molto fare vita mondana. Lui aveva sempre evitato troppi contatti. Sua moglie, Rocío, aveva rappresentato per lui una benedizione. Si erano conosciuti, si erano innamorati, e lei aveva deciso di sposarlo. Il padre di lei all'inizio si era opposto, ma presto si era reso conto di non poterlo impedire, e poi, in fondo, lui aveva una buona posizione. Per cui si era sposato con la figlia di un delegato provinciale del regime di Franco, che si era arricchito dopo la guerra grazie al mercato ne-ro. Suo suocero l'aveva coinvolto nei propri affari, anche se più tardi era

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passato all'import-export ed era diventato un uomo molto ricco. Ma Enri-que Gómez Thomson aveva sempre cercato di essere una persona discreta e di non richiamare mai l'attenzione su di sé, se non era strettamente neces-sario. La sua era una stimata famiglia sivigliana, con buone conoscenze, ri-spettata, e non aveva mai dato adito a chiacchiere o a scandali.

Sarebbe sempre stato grato a sua moglie. Senza di lei non sarebbe potuto andare avanti.

Pensò a Frankie e a George. Anche loro avevano avuto fortuna, benché in realtà nessuno avesse loro regalato nulla. Semplicemente, erano stati più furbi degli altri.

Robert Brown assestò un pugno sul tavolo e provò un forte dolore alla

mano. Era stato più di un'ora al telefono. Prima l'aveva chiamato Ralph per raccontargli dell'intervento di Clara, cosa che gli aveva provocato un gran mal di stomaco. Poi aveva dovuto informare il suo mentore, George Wa-gner, che l'aveva rimproverato di non essere stato capace d'impedire a quella donna di parlare.

Clara era capricciosa, lo era sempre stata. Com'era possibile che Alfred avesse una nipote simile? Helmut era diverso. Lui non aveva mai dato un dispiacere al padre. Peccato che fosse morto così giovane.

Era stato un ragazzo intelligente, sempre discreto; suo padre gli aveva insegnato a rendersi invisibile e lui aveva imparato la lezione, ma Clara... Clara si comportava come una ragazzina viziata. Alfred le aveva concesso quel che non aveva permesso a Helmut. Sbavava letteralmente per quella nipote meticcia.

Helmut si era sposato con un'irachena con i capelli neri e la pelle d'avo-rio. Alfred aveva approvato quelle nozze, che a lui parevano vantaggiose in quanto, diceva, suo figlio era entrato a far parte di un'antica famiglia dell'Iraq. Una famiglia influente e ricca, molto ricca, con amicizie potenti a Baghdad, al Cairo, ad Amman, per cui erano rispettati e temuti in qualsiasi posto andassero. Inoltre, Ibrahim, il padre di Nur, la moglie di Helmut, era un uomo colto e raffinato.

Ripensò a Nur. Non si faceva notare se non per la sua bellezza, e Helmut ne pareva incantato. In fondo, però, quella donna era forse più intelligente di quanto apparisse. Le donne musulmane sono sempre un po' misteriose.

Alfred aveva perso il figlio e la nuora quando Clara era adolescente e aveva allevato male la nipote.

A Robert Brown, Clara non era mai piaciuta. Lo innervosiva che lo

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chiamasse zio Robert, lo infastidiva la sua sicurezza, che rasentava l'inso-lenza, e poi lo annoiavano le stupide chiacchiere con cui lo martoriava o-gni volta che si vedevano.

Quando Alfred l'aveva mandata negli Stati Uniti, chiedendogli di averne cura, non poteva immaginare quanto sarebbe stato faticoso quell'incarico, e per questo aveva cercato di tenerla il più lontano possibile da Washington. Ma non poteva contrariare Alfred; in fondo era il suo socio ed era un gran-de amico del suo mentore, George Wagner. Così l'aveva iscritta a un'uni-versità della California. Fortunatamente si era innamorata di quell'Ahmed, un uomo intelligente con cui si poteva trattare. Darla in sposa ad Ahmed Husseini era stato un colpo di fortuna. Con Husseini si potevano fare affa-ri. Alfred e lui si erano sempre intesi perfettamente con Ahmed; il proble-ma era Clara.

La conversazione appena avuta con Ralph Barry gli aveva rovinato la giornata; gli era venuto un forte mal di testa proprio quando doveva andare a pranzo con il vicepresidente e un gruppo di amici, tutti uomini d'affari in-teressati a conoscere la data in cui sarebbe stato bombardato l'Iraq. La conversazione avuta con il suo mentore aveva avuto un esito peggiore. L'uomo aveva insistito perché prendesse in mano la situazione e, se non c'era altro rimedio, aiutasse la coppia nelle ricerche. Giacché era stata sve-lata l'esistenza della Bibbia d'argilla, non potevano permettere che Alfred e sua nipote la tenessero per sé. Gli ordini erano stati tassativi: riuscire a procurarsi la Bibbia d'argilla, sempre che, naturalmente, fosse stata ritrova-ta.

«Smith, mettimi di nuovo in contatto con Ralph Barry.» «Sì, signor Brown. A proposito, ha appena telefonato l'assistente del se-

natore Miller per avere conferma della sua presenza al picnic organizzato dalla moglie del senatore per questo fine settimana.»

"Un'altra donna stupida" pensò Brown. "Tutti gli anni organizza la stessa farsa: una festa campestre nella sua casa nel Vermont dove ci obbliga a be-re limonata e a mangiare tramezzini su coperte di cachemire distese sul-l'erba." Ma Brown sapeva che ci sarebbe dovuto andare, perché Frank Mil-ler era più di un senatore: era un texano con forti interessi nel settore petro-lifero. Al maledetto picnic avrebbero preso parte i segretari della Difesa e della Giustizia, il segretario di Stato, il consigliere per la Sicurezza nazio-nale, il capo della CIA... e anche il suo mentore. Era l'occasione ideale per parlare da soli senza che nessuno li notasse, proprio perché lo facevano davanti a centinaia di occhi. La cosa peggiore era la farsa di starsene

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sdraiati per terra mangiando panini e facendo finta di spassarsela. Ogni set-tembre il famoso picnic era per lui un incubo.

Lo squillo del telefono e la voce di Ralph Barry lo riscossero dai suoi pensieri.

«Dimmi, Robert...» «Ralph, qualcuno potrebbe collegare la signora Tannenberg a noi?» «No, assolutamente. Ti ho già detto di non preoccuparti. Malgrado le

proteste di alcuni professori, era difficile impedire loro di partecipare. Per anni Ahmed Husseini ha lavorato con molti archeologi. Non si può scavare in Iraq senza il suo benestare.»

«D'accordo, però avresti dovuto impedirglielo.» «Robert, non era possibile. Nessuno poteva evitare che si iscrivessero al

convegno sulla Mesopotamia e tanto meno che lei pretendesse di interveni-re. Non c'è stato modo di dissuaderla. Mi aveva assicurato che aveva l'ap-provazione di suo nonno e che questo ti sarebbe dovuto bastare.»

«Alfred dà i numeri.» «Può darsi; comunque, sua nipote è ossessionata dalla Bibbia d'argilla...

Davvero credi che esista?» «Sì. Ma lei non avrebbe dovuto svelarne l'esistenza, non adesso. Co-

munque, la troveremo e sarà nostra.» «Ma come?» «Non abbiamo alternative: dovremo aiutarli a trovarla, e quando ci riu-

sciranno... Pensando a quel che è successo, dobbiamo solo cambiare il pia-no. Saranno in grado di riunire un gruppo di archeologi per organizzare gli scavi? Bisognerà studiare il modo di fargli ottenere un finanziamento. C'inventeremo qualcosa.»

«Robert, la situazione in Iraq non è ideale per iniziare degli scavi. Tutti i governi europei, oltre al nostro, consigliano di non recarsi in quella zona. Sarebbe un suicidio andarci adesso. Dovremo aspettare.»

«Ho capito bene, Ralph? Guarda che è adesso il momento migliore per andare in Iraq. Ci andremo, ma lo faremo a modo mio. L'Iraq è diventato la terra delle grandi opportunità, solo un cretino non lo vedrebbe.»

«Il professor Yves Picot è l'unico a sembrare interessato al racconto di Clara. Mi ha detto che gli piacerebbe parlare con Ahmed. Cosa devo fa-re?»

«Che si parlino. Mi fido di Ahmed. Lui sa il fatto suo, ma prima digli di mandare sua moglie a Baghdad o all'inferno, basta che se ne vada al più presto.»

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Ralph rise a denti stretti. La misoginia di Robert Brown era quasi pato-logica. Odiava le donne. Si sentiva a disagio con loro. Era uno scapolo im-penitente cui non erano mai state attribuite relazioni sentimentali di alcun tipo. Anche con le mogli dei suoi amici faceva fatica a essere gentile. Non aveva nemmeno la segretaria, come tutti, e infatti Smith era un altezzoso sessantenne poliglotta che aveva passato la vita accanto a Robert Brown.

«D'accordo, Robert, vedrò quel che posso fare perché Clara torni a Ba-ghdad. Parlerò con Ahmed. Ma non è una donna facile, è orgogliosa e te-starda.»

"Come suo padre e suo nonno" pensò Brown "ma senza la loro intelli-genza."

Robert Brown aveva invitato a pranzo il vicepresidente, cui piaceva la

cucina spagnola, con i suoi uomini in un buon ristorante vicino al Campi-doglio.

Fu lui a giungere per primo. Era sempre estremamente puntuale. Non sopportava aspettare né che lo facessero aspettare. Sperò che non ci fosse-ro imprevisti dell'ultima ora.

A poco a poco arrivarono tutti i commensali: Dick Garby, John Nelly e Edward Fox. L'uomo della Casa Bianca giunse per ultimo e di pessimo umore.

Spiegò loro che si stavano complicando i negoziati con gli alleati euro-pei per far sì che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite avallasse l'azione militare contro l'Iraq.

«Gli stupidi sono dappertutto. I francesi fanno gli affari loro, come sem-pre; credono ancora di essere qualcuno e non sono che dei poveri stronzi. Quello dei tedeschi è un tradimento; la Germania ha l'obbligo morale di appoggiarci, ma con la coalizione rosso-verde di governo che si ritrova è preoccupata più di raccogliere il plauso della stampa liberale che di rispet-tare i suoi obblighi.»

«Contiamo sempre sulla Gran Bretagna» fece notare Dick Garby. «Sì, però non basta» rispose con espressione grave il segretario di Bush.

«Ci sono anche gli italiani, gli spagnoli, i portoghesi, i polacchi, e chissà quanti altri Stati, ma non contano, fanno numero ma non contano. Anche i messicani stanno complottando contro di noi, e i russi e i cinesi si fregano le mani davanti alle nostre difficoltà.»

«E quando attacchiamo?» domandò direttamente Robert Brown. «I preparativi sono già avviati. Appena i ragazzi del Pentagono ci daran-

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no il via, bombarderemo l'Iraq sul serio. Tra cinque o sei mesi al massimo. Siamo a settembre, diciamo entro la primavera. Vi farò sapere.»

«Bisognerebbe iniziare a mettere in piedi il Comitato per la ricostruzione dell'Iraq» disse Edward Fox.

«Sì, ci abbiamo già pensato. Fra tre o quattro giorni vi chiameranno. La torta è grande, ma bisogna arrivare per primi per avere la fetta migliore» rispose il vicepresidente. «Ditemi cosa volete e accorceremo i tempi.»

Mentre degustavano del baccalà al pil-pil, un piatto tìpico del Nord della

Spagna, i quattro uomini discutevano col vicepresidente per mettere le basi dei futuri affari che avrebbero fatto in Iraq. Erano tutti interessati a imprese di costruzioni, petrolio, beni strumentali; era tanto quello che sarebbe stato distrutto e tanto quello che poi si sarebbe dovuto ricostruire...

Il pranzo fu proficuo per tutti. Si sarebbero rivisti durante il fine setti-mana al picnic dai Miller. Lì avrebbero continuato a parlare, sempre che le loro mogli gliel'avessero permesso.

Robert Brown tornò alla fondazione, situata in un edificio di acciaio e

cristallo non lontano dalla Casa Bianca. La vista era gradevole, ma Wa-shington non gli era mai piaciuta. Preferiva New York, dove la fondazione disponeva di una piccola filiale nel Village. Era un palazzo della fine del XVIII secolo costruito da un emigrante tedesco arricchitosi vendendo stof-fe importate dall'Europa. Era stata la prima sede della fondazione e non l'aveva mai voluta abbandonare, nonostante non avesse più alcuna utilità. Quando risiedeva a New York, infatti, Brown organizzava i suoi appunta-menti importanti nello studio di casa sua, uno splendido attico di fronte a Central Park. Aveva arredato il piano inferiore come ufficio e nel piano superiore aveva sistemato un salone e la camera da letto.

Anche a Ralph Barry piaceva il palazzo al Village; lui sì che ci lavorava quando doveva stare a New York. E questa per Brown era una scusa per non doversi disfare dell'edificio. In fin dei conti, Barry era il suo braccio destro, il motore della fondazione.

«Smith, voglio parlare con Paul Dukais. Adesso.» Non era passato un minuto quando sentì la voce roca di Dukais al telefono.

«Paul, amico mio, mi piacerebbe cenare insieme a te.» «Certo, Robert, quando ti andrebbe bene?» «Stasera.» «È impossibile. Mia moglie vuole andare all'opera. Dovremo combinare

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per domani.» «Non rimane molto tempo, Paul. Sta per scoppiare una guerra, rimanda

la serata a teatro.» «Guerra o non guerra, all'opera ci devo andare. Per fare la guerra ho bi-

sogno di avere il fronte domestico in pace, e Doris si lamenta che non l'ac-compagno mai a quegli appuntamenti mondani che, lei dice, ci danno ri-spettabilità. L'ho promesso, Robert, a lei e a nostra figlia, per cui, anche se dichiareremo la Terza guerra mondiale, stasera devo andare all'opera. Pos-siamo cenare insieme domani.»

«No, lasciamo perdere la cena, ci vedremo prima. Ti invito a colazione a casa mia. È meglio che andare nel tuo ufficio o nel mio. Ti va bene per le sette?»

«Robert, non esagerare, sarò a casa tua alle otto.» Brown si rinchiuse nel suo studio. Alle sette e mezzo Smith bussò leg-

germente alla porta. «Ha bisogno di me, signor Brown?» «No, Smith, vai pure. Ci vediamo domani.» Lavorò ancora per un po'. Aveva elaborato un piano minuzioso di ciò

che avrebbe fatto nei mesi successivi. La guerra stava per iniziare e lui vo-leva avere tutto sotto controllo.

Ralph Barry incrociò all'entrata del Palazzo dei Congressi un uomo gio-

vane dai capelli castani, magro e nervoso, che discuteva con un addetto al-la sicurezza affinché lo lasciasse entrare.

Barry fu incuriosito dall'insistenza del giovane. Non sembrava un arche-ologo, né un giornalista, né uno storico: rifiutava categoricamente di dire chi fosse, ma cercava di entrare. In quel momento arrivò il taxi che Barry aveva chiamato, per cui lui non poté sapere come sarebbe terminato lo scontro dialettico tra la guardia e il giovane.

Il sole illuminava l'obelisco di piazza del Popolo. Ralph Barry e Ahmed Husseini pranzavano insieme dal Bolognese. Come sempre, il ristorante era pieno di turisti. Anche loro lo erano.

«Mi spieghi l'ubicazione esatta del luogo dove si trovano i resti dell'edi-ficio. Il signor Brown insiste perché lei mi dia queste coordinate. Voglio anche sapere di quali mezzi avranno bisogno per lavorare da soli. Non possiamo intervenire. Sarebbe uno scandalo che una fondazione americana investisse anche solo un dollaro per degli scavi in Iraq. Un'altra cosa... sua moglie, Clara. Può controllarla? È... mi perdoni l'aggettivo... troppo indi-

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screta.» Ahmed si sentì a disagio per l'allusione a Clara. In quello sì che era ira-

cheno. Delle donne non si parlava, e meno ancora delle proprie. «Clara si sente orgogliosa di suo nonno.»

«Davvero lodevole, ma il miglior servizio che potrebbe offrire a suo nonno è di non fargli troppa pubblicità. Alfred Tannenberg ha basato il successo dei suoi affari sulla discrezione, e lei sa bene quanto è sempre stato puntiglioso al riguardo. Perciò non capiamo il motivo di annunciare, in un momento come questo, l'esistenza della Bibbia d'argilla. Tra qualche mese, una volta che gli Stati Uniti avranno sistemato la questione dell'Iraq, potremo organizzare una missione per gli scavi. Forse se lei chiedesse ad Alfred di parlare con Clara, di spiegarle alcune cose...»

«Alfred è malato. Non voglio annoiarla con l'elenco dei suoi acciacchi; ha ottantacinque anni e gli hanno diagnosticato un tumore al fegato. Non sappiamo per quanto ne avrà; fortunatamente la testa gli funziona alla per-fezione. Continua ad avere un carattere di ferro e pretende di avere il con-trollo di tutto, non vuole mollare le redini dei suoi affari. In quanto a Clara, è la sua bambina, e nulla di ciò che lei faccia o dica gli pare sbagliato. È stato lui a decidere che era arrivato il momento di portare alla luce la Bib-bia d'argilla, so che è la prima volta che George Wagner e Robert Brown non sono d'accordo con lui, ma sa com'è fatto Tannenberg, è difficile pie-gare la sua volontà. A proposito, Ralph, non creda che la presenza ameri-cana in Iraq sarà una semplice passeggiata. Non servirà a niente.»

«Non sia pessimista. Vedrà come cambieranno le cose. Saddam è un problema per tutti. E a voi non succederà nulla; il signor Brown si incari-cherà di farvi avere un visto per gli Stati Uniti. Parli con Alfred.»

«Sarebbe inutile. Perché non lo fanno il signor Wagner o il signor Brown? È più facile che Tannenberg dia retta a loro.»

«Il signor Brown non può avere contatti con l'Iraq. Lei sa che le comuni-cazioni sono controllate, che ogni telefonata in Iraq viene registrata. Quan-to a George Wagner... è Dio, e io non faccio parte della sua corte celestia-le. Sono solo un impiegato della fondazione.»

«Allora non si preoccupi di Clara, lei non rappresenta un problema in I-raq. Le dirò di cosa abbiamo bisogno, ma mi domando se sarà possibile i-niziare gli scavi mentre il mio paese è soggetto a un embargo; l'ultima del-le preoccupazioni di Saddam è cercare altre tavolette cuneiformi. Sarà dif-ficile trovare manodopera sufficiente e le persone che accetteranno di lavo-rare vorranno essere pagate a giornata.»

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«Mi dica quanto le serve; farò in modo di procurarglielo.» «Lei sa che il nostro problema non sono i soldi, ma i mezzi. Abbiamo

bisogno di più archeologi. Alfred può comprare gli attrezzi e i materiali, ma gli esperti stanno in Europa, in America. Il mio paese è a pezzi, a fatica riusciamo a conservare il patrimonio dei nostri musei.»

«Alfred non deve finanziare la missione, almeno non direttamente. Da-rebbe subito nell'occhio. Ci sono migliaia di sguardi puntati sull'Iraq, dun-que sarebbe molto più conveniente trovare finanziamenti esterni, qualche università europea. Il professor Yves Picot è interessato a parlare con lei. È alsaziano, un uomo speciale. Ha insegnato a Oxford e...»

«So chi è Picot; ovviamente, non è il mio archeologo preferito: è un po' eterodosso e le malelingue dicono sia stato invitato a lasciare Oxford per una relazione con una studentessa, cosa assolutamente proibita in quell'isti-tuzione. È un uomo che non rispetta le regole.»

«Non vorrà dirmi che, data la situazione, lei si preoccupa delle regole. Picot può contare su un gruppo di vecchi studenti che lo adorano. Inoltre, è ricco: suo padre possiede una banca sulle isole del Canale; in realtà era della famiglia della madre di Picot, e lì lavorano tutti tranne lui. È insop-portabile, pedante, dispotico. Io direi che è un archeologo fortunato, per aver avuto alle spalle una famiglia danarosa. Sì, mi rendo conto che non è il massimo, ma è l'unico interessato a quelle due tavolette trovate da Al-fred. Decida lei se gli vuole parlare. Picot è il solo sufficientemente matto da andare a scavare in Iraq.»

«Parlerò con lui, ma è una soluzione che non mi piace.» «Ahmed, lei non ha alternative. Mi rincresce doverglielo dire. A propo-

sito, Robert vuole che lei consegni ad Alfred una lettera da parte sua. Arri-verà domani direttamente da Washington; un suo uomo me la farà avere e io la darò a lei. Sa bene che entrambi hanno sempre preferito comunicare attraverso lettere personali. La risposta di Alfred questa volta verrà reca-pitata ad Amman invece che al Cairo.»

«Sa una cosa? Anch'io mi domando perché, proprio adesso, Alfred abbia deciso di rendere pubblica l'esistenza di quelle tavolette e perché il signor Brown, dopo essersi arrabbiato, abbia deciso di aiutarci.»

«Vede, Ahmed, non lo so nemmeno io, ma loro non sbagliano mai.»

4 «Mangia, Mercedes.»

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«Non ho fame, Carlo.» «Allora fai uno sforzo. Mangia» insistette lui. «Sono stufa di aspettare, dovremmo fare qualcosa!» esclamò Mercedes

contrariata. «Non smetterai mai di essere impaziente» sentenziò Hans Hausser. «Ti sbagli, con il tempo ho imparato a controllarmi. La gente che lavora

con me ti potrebbe confermare che sono impassibile» replicò Mercedes. «Si vede che non ti conoscono!» disse ridendo Bruno Müller. I quattro amici cenavano a casa di Carlo Cipriani. Aspettavano che il re-

sponsabile della Investigazioni e Sicurezza mandasse loro un dossier con le ultime novità. Da un momento all'altro avrebbero sentito suonare alla porta e, qualche secondo più tardi, la governante di Carlo sarebbe entrata in sala da pranzo per consegnare una busta color tabacco, come quella che era arrivata la mattina.

Quella busta avrebbe dovuto essere lì da un'ora, e Mercedes non si sen-tiva tranquilla. «Carlo, telefona, forse è successo qualcosa.»

«Mercedes, non è successo niente, semplicemente devono trascrivere tutto il lavoro di oggi; questo richiede il suo tempo, e poi il mio amico vor-rà dare ancora un'occhiata alla relazione prima di spedircela.»

Finalmente udirono il suono lontano del campanello e dei passi che si avvicinavano alla sala da pranzo.

«Sta arrivando qualcuno con la domestica!» affermò con sicurezza Mer-cedes.

Due secondi dopo la governante aprì la porta della sala da pranzo e fece accomodare un uomo con una busta in mano.

«Carlo, scusa il ritardo, immagino che sarete impazienti.» «Sì» rispose Mercedes «lo siamo. Piacere di conoscerla.» Mercedes Barreda tese la mano a Luca Marini, il responsabile dell'agen-

zia Investigazioni e Sicurezza, un sessantenne vestito elegantemente che portava bene i suoi anni; aveva un tatuaggio sul polso, discretamente na-scosto da un orologio di acciaio e oro.

"Il vestito gli sta un po' stretto" pensò Mercedes. "È uno di quelli che credono di apparire meno grassi se indossano un abito di una taglia in me-no. Ma ha la pancia."

«Luca, siediti. Hai cenato?» domandò sollecito Carlo Cipriani. «No, vengo direttamente dall'ufficio. Accetterei volentieri qualcosa da

mangiare, ma soprattutto gradirei un bicchiere di vino.» «Benissimo, rimarrai a cena con noi. Ti presento i miei amici, il profes-

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sor Hans Hausser e il maestro Bruno Müller. Mercedes si è già presentata da sola.»

«Signor Müller, suppongo che sia abituato a sentirselo dire, ma io sono un suo grande ammiratore» disse Marini.

«Grazie» sussurrò Bruno imbarazzato. La governante mise un piatto e le posate sul tavolo e offrì a Luca Marini

una teglia di cannelloni. Lui si servì generosamente senza notare l'impa-zienza di Mercedes, che lo guardava meravigliata perché si era seduto a cenare invece di informarli riguardo al contenuto della busta color tabacco.

Mercedes decise che Marini non le piaceva. In realtà non aveva simpatia per la gente compassata, e il responsabile della Investigazioni e Sicurezza lo era. Le pareva il colmo dell'insensibilità il fatto che stesse commentando i cannelloni mentre loro erano ansiosi di sapere le novità.

Carlo Cipriani fece sfoggio di una pazienza squisita. Attese che l'amico finisse di cenare conversando del più e del meno: la situazione in Medio Oriente, le battaglie in Parlamento tra Berlusconi e la sinistra, il tempo.

Quando Luca Marini ebbe terminato di mangiare il dolce, Carlo propose di bere qualcosa nel suo studio, dove avrebbero potuto parlare con tran-quillità.

«Ti ascoltiamo» lo incalzò quando si furono accomodati. «Bene, la ragazza oggi non è andata al convegno.» «Quale ragazza?» domandò Mercedes, irritata dal tono tra il maschilista

e il paternalista di Marini. «Clara Tannenberg» rispose lui, a sua volta irritato. «Ah, la signora Tannenberg!» esclamò Mercedes ironica. «Sì, la signora Tannenberg oggi ha preferito dedicarsi allo shopping. Ha

speso più di quattromila euro tra via Condotti e via della Croce, è una che acquista in modo compulsivo. Ha pranzato da sola al Caffè Greco: un tra-mezzino, un dolce e un cappuccino. Poi è andata al Vaticano ed è rimasta nei musei fino all'ora di chiusura. Mentre venivo qui mi hanno avvisato che era appena entrata all'Excelsior. Se non mi hanno telefonato, è perché non è ancora uscita.»

«E suo marito?» domandò il professor Hausser. «Suo marito è uscito tardi dall'hotel e ha passeggiato senza meta per

Roma fino alle due, ora in cui si è incontrato per pranzare dal Bolognese con Ralph Barry, il direttore della fondazione Mondo Antico, un uomo in-fluente in campo archeologico. Barry è stato professore a Harvard ed è ri-spettato in tutti i circoli accademici. Anche se questo convegno è stato pa-

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trocinato dall'UNESCO, la fondazione Mondo Antico, insieme ad altri enti e organizzazioni, ha contribuito alle spese.»

«E perché hanno pranzato insieme il signor Barry e il signor Husseini?» volle sapere Bruno Müller.

«Due dei miei uomini sono riusciti a sedersi vicino a loro, e hanno cap-tato qualche sprazzo della conversazione. Il signor Barry pareva dispiaciu-to per il comportamento di Clara Tannenberg e il marito era furioso. Han-no parlato di un certo Yves Picot, uno dei professori che hanno preso parte al convegno, che potrebbe essere interessato alle due tavolette menzionate nella conferenza di ieri mattina. Però Ahmed Husseini non sembra fidarsi troppo di Picot. Troverete nella busta un curriculum del professore e in-formazioni sulle sue abitudini. È un donnaiolo piuttosto impenitente. A-hmed Husseini ha assicurato al signor Barry che non hanno problemi di denaro ma che mancano archeologi, gente preparata per quel lavoro. Inol-tre, Ralph Barry ha annunciato a Husseini che domani o dopodomani gli darà una lettera di Robert Brown, il presidente della fondazione Mondo Antico, perché la consegni a un uomo, un certo Alfred, a quanto pare il nonno della ragazza, e...»

«È lui!» gridò Mercedes. «L'abbiamo in pugno!» «Calmati, Mercedes, e lascia finire il signor Marini, poi ne parleremo.» Il tono di voce di Carlo Cipriani non ammetteva repliche e Mercedes ri-

mase in silenzio. Il suo amico aveva ragione. Avrebbero commentato quando Marini fosse andato via.

«Nel dossier c'è tutto, ma ai miei uomini è parso di capire che quell'Al-fred e il signor Brown comunicano da anni attraverso lettere che si manda-no tramite intermediari, e che la risposta di Alfred arriverà ad Amman. Husseini domani sarà a colazione con Picot; poi, se non ci sono cambia-menti di programma, lui e la moglie andranno ad Amman. Hanno preno-tato un volo delle linee aeree giordane per le tre del pomeriggio. Voi dove-te decidere se volete che mandi i miei uomini su quell'aereo o se chiudia-mo qui il caso.»

«Falli seguire, ovunque vadano» ordinò Cipriani. «Manda una buona squadra, non importa quanti uomini dovrai impiegare, ma voglio sapere tutto su quell'Alfred: se è il nonno di Clara Tannenberg, dove vive, con chi, cosa fa. Abbiamo bisogno di foto, è importante avere delle immagini e, se ci riesci, un video in cui lo si veda il più chiaramente possibile. Luca, vogliamo sapere tutto.»

«Vi costerà una fortuna» fece notare Luca Marini.

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«Di questo non si deve preoccupare» replicò Mercedes. «Veda di non perdere di vista Clara Tannenberg e suo marito.»

«Pagheremo il necessario, Luca, ma non devi lasciarteli scappare.» Il tono grave di Carlo Cipriani impressionò il responsabile della Investi-

gazioni e Sicurezza. «Forse dovrò ingaggiare gente del posto» insistette Marini. «Fai quello che devi, te l'abbiamo già detto. E adesso, amico mio, se non

ti dispiace a noi piacerebbe leggere la tua relazione...» «D'accordo, Carlo, me ne vado. Se avete bisogno di chiarimenti, non a-

vete che da chiamarmi, mi troverete a casa.» Carlo Cipriani accompagnò Marini alla porta mentre Mercedes, impa-

ziente, strappava la busta e si metteva a leggere senza nemmeno salutare l'investigatore.

«Il vestito e l'orologio non nascondono certo la sua vera natura» mormo-rò la Catalana.

«Mercedes, non avere pregiudizi» la rimproverò Hans. «Pregiudizi? È un arricchito con un vestito firmato, nient'altro. A propo-

sito, l'abito gli sta stretto.» «È un uomo in gamba» replicò Carlo, che in quel momento tornava nel-

lo studio. «È stato un buon poliziotto e ha passato parecchi anni in Sicilia a combattere la mafia. Ha visto morire assassinati molti dei suoi uomini e dei suoi amici, fino a che sua moglie gli ha dato un ultimatum: o lasciava la polizia o lei lasciava lui; per questo è andato in pensione anticipata e ha messo in piedi quest'agenzia, che l'ha reso ricco.»

«L'abito non fa il monaco...» insistette Mercedes. «Cosa vuoi dire?» le domandò Bruno che non capiva che cosa intendes-

se la sua amica. «Niente, è un proverbio, vuol dire che anche se uno si mette un bel vesti-

to e vuol farsi passare per un signore, si noterà sempre da dove viene.» «Mercedes!» Il tono di Hans era di rimprovero. «Va bene, non parliamo più di Luca» intervenne Carlo. «Sa fare il suo

mestiere ed è questo che importa. Vediamo cosa dice la relazione.» Luca Marini ne aveva preparato quattro copie, cosicché ciascuno dispo-

neva della propria. In silenzio iniziarono a leggere e rileggere tutti i detta-gli relativi a Clara Tannenberg e al marito Ahmed Husseini.

Mercedes ruppe il silenzio che era calato durante la lettura. La sua voce risuonò grave e non priva di emozione. «È lui. L'abbiamo trovato.»

«Sì» confermò Carlo annuendo «lo credo anch'io. Mi domando perché

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sia rispuntato dopo tanti anni.» «Non sarà stato per sua volontà» intervenne Bruno Müller. «Io penso di sì» lo contraddisse Carlo. «Per quale motivo sua nipote ha

partecipato a questo convegno e ha chiesto sovvenzioni internazionali per gli scavi? Ha voluto che lei si facesse notare, e lei si chiama Tannenberg.»

«Suppongo che non fosse quella la sua intenzione» ribatté il professor Hausser.

«Perché?» domandò Mercedes. «Come facciamo a sapere cosa vuole e-sponendo sua nipote?»

«Secondo questo dossier, Ahmed Husseini ha assicurato che Alfred Tannenberg adora la nipote» rispose Müller. «Dunque, deve avere avuto un'ottima ragione per mandarla allo sbaraglio. È rimasto nell'ombra negli ultimi cinquant'anni.»

«Sì, deve avere avuto uno scopo per fare quello che ha fatto» convenne Carlo «ma a me incuriosisce soprattutto il suo rapporto con quel Robert Brown, all'apparenza un rispettabilissimo americano appartenente all'élite, amico personale di quasi tutti i membri dell'amministrazione Bush, presi-dente di una fondazione dal prestigio internazionale. Non so, ma qualcosa non quadra.»

«E non sappiamo nemmeno di che cosa si occupi Tannenberg» disse Müller.

«Di antichità, da quello che si evince dalla relazione» spiegò Hausser. «Mi pare così ambiguo... Ma come è potuto restare nell'ombra per tutti

questi anni con delle amicizie simili?» si domandò Mercedes a voce alta. «Dovremmo saperne di più riguardo a questo Robert Brown. Suppongo

che Luca ci darà una mano. Ma adesso bisogna decidere cosa fare, non vi sembra?»

Furono tutti d'accordo con Carlo. Era il momento di programmare le mosse successive. Decisero che Mercedes, Hans e Bruno sarebbero rimasti ancora due o tre giorni a Roma in attesa di avere notizie da Amman. A-vrebbero anche chiesto a Marini un dossier dettagliato riguardo a Robert Brown.

«Bene, supponiamo che Alfred Tannenberg sia la persona che stiamo cercando. Come lo uccideremo, e quando?» domandò Mercedes.

«Luca mi ha parlato di certe società che fanno qualsiasi tipo di lavoro, ve l'ho già detto» intervenne Carlo.

«Allora cerchiamone una e assoldiamo uno specialista» insistette Mer-cedes. «Dobbiamo essere pronti quando ci confermeranno l'identità di

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Tannenberg. Prima chiuderemo la faccenda, meglio sarà. È tutta la vita che aspettiamo questo momento. Solo il giorno in cui il mostro sarà morto io dormirò tranquilla.»

«Lo uccideremo, Mercedes, su questo non c'è alcun dubbio» affermò ca-tegorico Bruno Müller «ma dobbiamo fare le cose per bene. Suppongo che non ci si possa presentare a una di quelle società dicendo semplicemente che si ha bisogno di un assassino. Mi pare chiaro, Carlo, che dovresti ap-profittare della tua amicizia con Luca Marini, perché sia lui a consigliarci cosa fare.»

Rimasero a parlare fino all'alba. Non volevano trascurare nessun detta-glio. Si sentivano prossimi alla meta; finalmente avrebbero ottemperato al giuramento di tanti anni prima. Nessuno dei quattro pensava che la vendet-ta fosse arrivata troppo tardi. A loro bastava eseguirla.

Si suddivisero i compiti e decisero di raccogliere un fondo comune per pagare Luca Marini e l'uomo che avesse accettato di assassinare Tannen-berg.

Al caffè Greco di via Condotti c'era poca gente. Carlo Cipriani e Luca

Marini stavano sorseggiando un cappuccino. Faceva caldo per essere set-tembre. I turisti non avevano ancora affollato piazza di Spagna e gli ele-ganti negozi di via Condotti avevano le saracinesche abbassate. A quell'ora Roma sonnecchiava.

«Carlo, anni fa mi salvasti la vita. Quel tumore... Non voglio rimprove-rarti per ciò che stai per fare, ma dimmi, cosa c'è dietro tutto questo?»

«Amico mio, ci sono questioni che non si possono spiegare. Voglio solo il nome di una di quelle società che hanno uomini disposti a tutto.»

«Quando dici "a tutto", che cosa intendi?» «Vogliamo qualcuno che sappia difendersi, perché potrebbe finire in

guai seri. Viaggiare in Medio Oriente di questi tempi non è come andare a Disneyland. A seconda delle informazioni che raccoglierai, la destinazione potrebbe essere l'Iraq. Quanto credi che valga la vita oggi in Iraq?»

«Non me la racconti giusta. Non ho ancora perduto il mio fiuto da poli-ziotto, sai?»

«Luca, ti chiedo solo di mettermi in contatto con una di quelle società. E voglio poter contare sulla tua discrezione, sul segreto professionale. Tu stesso mi dicesti che se ci fosse stata la guerra non avresti mandato là i tuoi uomini; fosti tu a suggerirmi di mettermi in contatto con una di quelle so-cietà.»

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«Ce ne sono un paio formate da ex membri del SAS, le forze speciali britanniche. Gli inglesi sono veri professionisti, io li preferisco agli ameri-cani. Secondo me, la migliore è la Global Group.» Gli porse un biglietto. «Qui ci sono l'indirizzo e i numeri di telefono. La sede centrale si trova a Londra. Chiedi di Tom Martin, ci siamo conosciuti tempo fa. È un tipo in gamba, un duro, molto cinico ma a posto. Lo chiamerò per dirgli che ti tratti da amico. Ti chiederà uno sproposito.»

«Grazie, Luca.» «Non ringraziarmi, sono preoccupato; non riesco a capire cosa vogliate

fare, tu e i tuoi amici. Quella che mi fa più paura è la donna, Mercedes Barreda. Nei suoi occhi non c'è un briciolo di pietà.»

«Ti sbagli. È una donna straordinaria.» «Sento che stai per metterti nei pasticci. Se è così, io ti aiuterò fin dove

posso, ho ancora buoni contatti nella polizia. Cerca di essere prudente e non ti fidare di nessuno.»

«Nemmeno del tuo amico Tom Martin?» «Di nessuno, Carlo, di nessuno.» «Bene, terrò conto del consiglio. Adesso vorrei chiederti una relazione

dettagliata su Robert Brown. Vogliamo sapere tutto su quel mecenate.» «D'accordo, non c'è problema. Per quando la vuoi?» «Subito.» «Me l'immaginavo. Facciamo tre o quattro giorni, ti va bene?» «Se non si può prima...» «È il minimo.» Alla stessa ora, nel bar dell'Hotel Excelsior, Ahmed Husseini e Yves Pi-

cot erano a colazione. Avevano circa la stessa età, erano archeologi, cosmopoliti, ma il destino

li aveva trasformati in due paria. «È stato molto interessante l'intervento di sua moglie, e anche il suo.» «Sono contento che lei la pensi così.» «Signor Husseini, a me non piace perdere tempo e, immagino, nemmeno

a lei, dunque andrò subito al sodo. Mi faccia vedere, se le ha, le fotografie di quelle due straordinarie tavolette di cui lei e sua moglie avete parlato.»

Ahmed estrasse le foto da una vecchia cartella di cuoio e le diede a Pi-cot, il quale le esaminò attentamente per qualche istante senza dire una pa-rola.

«Allora, che ne pensa?» gli domandò con una certa impazienza Ahmed.

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«Interessanti, però dovrei vederle con i miei occhi per formulare un giu-dizio esatto. Che cosa volete?»

«Che una spedizione archeologica internazionale ci aiuti a riportare alla luce i resti di quell'edificio. Abbiamo l'impressione che si possa trattare di un deposito di tavolette annesso a un tempio, o forse di un'ala del tempio stesso. Abbiamo bisogno di attrezzature all'avanguardia e di archeologi e-sperti.»

«E di soldi.» «Sì, certo, sa bene anche lei che non si può scavare senza denaro.» «E in cambio?» «In cambio di cosa?» «Di una squadra di uomini, attrezzature e fondi.» «La gloria.» «Sta scherzando?» replicò Yves Picot seccato. «No, affatto. Se troviamo le tavolette sulle quali si racconta la Genesi

dettata da Abramo, le scoperte di Troia e di Cnosso saranno inezie al con-fronto.»

«Non esageriamo.» «Lei sa bene quanto me cosa significhi una scoperta di tale portata. A-

vrebbe un'incredibile importanza storica, oltre che religiosa e politica.» «E voi cosa ci guadagnate? È curioso il suo impegno, se teniamo conto

della situazione del suo paese. È strano pensare agli scavi quando tra poco ci saranno i bombardamenti. E poi Saddam sarà disposto a permettere che una missione archeologica straniera organizzi le ricerche o magari ci arre-sterà tutti accusandoci di spionaggio?»

«Non mi faccia ripetere cose che sa meglio di me: sarebbe la scoperta archeologica più importante degli ultimi cent'anni. Quanto a Saddam, non impedirà ad archeologi europei di recarsi in Iraq, gli servirà come propa-ganda. Non ci saranno problemi.»

«Salvo essere bombardati dagli americani, perché non credo che loro siano molto interessati all'archeologia. Di sicuro non sanno nemmeno dove si trova Ur.»

«Sta a lei decidere.» «Ci penserò. Mi dica come contattarla.» Ahmed Husseini gli diede il proprio biglietto da visita, poi si congedaro-

no con una stretta di mano. Un tipo seduto al tavolo accanto, che leggeva distrattamente il giornale, aveva ascoltato tutta la conversazione.

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5 Robert Brown viveva solo. In effetti, non era esattamente così, giacché

anche Ramón González abitava nello stesso attico a due piani alla periferia di Washington.

La casa era grande: cinque stanze, tre saloni, una sala da pranzo e uno studio, oltre alla zona della servitù, dove Ramón aveva il suo appartamento privato.

Il maggiordomo era al servizio di Brown da più di trent'anni. Lo aiuta-vano nelle faccende di casa una donna ispanica come lui, che si occupava dei lavori pesanti, e il giardiniere, un italoamericano chiacchierone.

Ramón González era dominicano. Insieme a sua sorella era emigrato a New York quarant'anni prima. Entrambi avevano trovato lavoro nella casa di un broker che viveva nella Quinta Strada. Lì Ramón aveva imparato il mestiere del maggiordomo. Dopo aver lavorato presso un paio di famiglie, aveva conosciuto Robert Brown e da allora non l'aveva più lasciato.

Brown era un datore di lavoro esigente, ma passava molto tempo fuori casa. Parlava poco, chiedeva la massima discrezione, pagava generosa-mente e gli lasciava molte ore libere. González gli era assolutamente fede-le e sfruttava la comodità di non doversi occupare d'altri che di quel vec-chio scapolo.

Aveva preparato la colazione nella sala più piccola, in cui a quell'ora le vetrate lasciavano filtrare pallidi raggi di sole. Suonarono alla porta e Ra-món González si affrettò a ricevere l'ospite del signor Brown.

«Buongiorno, signor Dukais.» «Buongiorno, Ramón, anche se fa freddino. Ho bisogno di un caffè for-

te, ristretto, e poi muoio di fame; per arrivare in tempo sono uscito di casa senza toccare cibo.»

Ramón non fece commenti; abbozzò un sorriso a mo' di risposta e con-dusse Paul Dukais in sala, dove lo aspettava il padrone di casa. Ramón servì la colazione e uscì chiudendo la porta affinché i due uomini potessero parlare indisturbati.

Brown era uno che non perdeva tempo, tanto meno con tipi come Du-kais. In fondo, aveva un importante pacchetto di azioni della Planet Secu-rity, come d'altronde di tante altre società. Aveva conosciuto Dukais quan-do era un doganiere corrotto ai moli di New York. «Devi mandare degli uomini in Iraq.»

«Ne ho già pronto qualche migliaio. Appena inizia la guerra, laggiù sarà

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essenziale la massima sicurezza. Ieri mi ha chiamato il mio contatto al di-partimento di Stato; vogliono che i miei uomini coprano determinati punti una volta che le nostre truppe saranno a Baghdad. Da mesi sto assoldando persone da ogni parte.»

«So come funziona la faccenda, non starmelo a raccontare, Paul, e ascol-ta. Voglio che mandi diverse squadre, che entreranno nel paese dalla Gior-dania, dal Kuwait, dall'Arabia Saudita e dalla Turchia. Parte degli uomini rimarrà su alcune postazioni di frontiera, dove aspetterà fino a nuovo ordi-ne.»

«Quale ordine?» «Non fare domande stupide.» «Suppongo che gli iracheni stiano chiudendo le frontiere e, se non lo

fanno loro, lo faranno i turchi, o i kuwaitiani o che so io. Tu vuoi uomini sia sulle frontiere sia all'interno dell'Iraq. Non puoi aspettare, come tutti?»

«Non ti sto dicendo che li voglio domani, ti sto chiedendo di organizzare i vari gruppi e di tenerli pronti per quando ti darò il segnale. Cerca della gente che non dia assolutamente nell'occhio

«È pericoloso fare entrare uomini prima del tempo. I nostri amici della Difesa stanno organizzando un plotone che sarà pronto fra un paio di mesi, mi hanno detto in primavera; cerchiamo di non commettere errori perché questo pregiudicherebbe l'operazione.»

«Ti ripeto che non c'è bisogno che arrivino troppo in anticipo: ti comu-nicherò la data esatta in cui dovranno entrare in azione. Poi se ne andranno con la stessa velocità con cui sono arrivati; non rimarranno più di tre o quattro giorni dall'inizio dei bombardamenti.»

«E cosa dobbiamo portare via?» «La storia dell'umanità.» «Che sciocchezze stai dicendo?» «I tuoi uomini si metteranno agli ordini di altre persone che li staranno

aspettando. Adesso non mi seccare con le tue domande.» Lo sguardo di Robert Brown spaventò Paul Dukais. Sapeva che con

quell'uomo non c'era da scherzare. Ci aveva messo tempo per arrivare a conoscerlo, per sapere che cosa c'era dietro i suoi modi eleganti, e ciò che aveva scoperto gli faceva paura, molta paura. Decise dunque di non conti-nuare a provocarlo. A lui non importava un bel niente di ciò che voleva fa-re in Iraq.

«Adesso voglio che porti una lettera a Roma, da consegnare a Ralph Barry. Tra quindici giorni mi farete avere la risposta da Amman.»

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«Bene.» «Paul, non possiamo permetterci errori, è l'operazione più delicata che

abbiamo mai fatto. È un'opportunità unica, non fartela scappare.» «Ho mai fallito finora?» «No, mai. Per questo sei ricco.» "E vivo" pensò Dukais. Non si sbagliava riguardo ai suoi rapporti con

Robert Brown: quell'uomo discreto e dai modi squisiti sarebbe stato capace di qualsiasi cosa. Lui lo sapeva bene, erano soci da troppi anni.

«Quando il piano sarà pronto e avrai scelto gli uomini mi farai un rap-porto dettagliato.»

«Non ti preoccupare, non mancherò.» «Paul, non c'è bisogno che ti dica che questa conversazione non è mai

avvenuta, che nessuno deve venire a conoscenza di tale incarico. Io ri-spondo davanti al consiglio d'amministrazione dell'attività della fondazio-ne, e loro non devono sapere nulla di tutto ciò. Ti avverto perché potresti imbatterti in qualche membro del consiglio e farti scappare qualcosa.»

«Ti ho detto di non preoccuparti.» L'uomo considerò concluso l'incontro con il consiglio d'ammi-

nistrazione. Era già ora di pranzo, e lui ne avrebbe approfittato per schiac-ciare un pisolino nella tranquillità del suo studio. Il rumore della strada non giungeva fino al ventesimo piano dell'edificio newyorkese da cui diri-geva il proprio impero.

Gli anni avevano lasciato il segno e lui si sentiva stanco. Si alzava molto presto perché non dormiva bene durante la notte, e passava le ore leggendo o ascoltando Wagner. Il momento in cui riposava meglio era mezzogiorno, quando si allentava il nodo della cravatta, appendeva la giacca e si sdraiava sul divano.

La sua segretaria aveva l'ordine tassativo di non passargli alcuna chia-mata e di non disturbarlo per nessun motivo.

Solo un telefono poteva strapparlo al sonno ristoratore. Un piccolo cellu-lare che portava sempre con sé, da cui non si separava nemmeno quando, come in quei momenti, si preparava per dormire.

Si era appena sdraiato, quando il suono quasi impercettibile del telefoni-no lo fece sussultare.

«Pronto.» «George, sono Frankie. Dormivi?» «Quasi, che succede?»

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«Ho parlato con Enrique. Potremmo andare a Siviglia a trascorrere qual-che giorno con lui o trovarci sulla costa, a Marbella, per esempio, che è piena di vecchi come noi. In Spagna, a settembre, fa ancora caldo.»

«In Spagna? No, non mi pare necessario. Abbiamo già lanciato troppe esche, rischiamo di rimanere impigliati nella rete anche noi.»

«E Alfred...?» «È diventato un vecchio rimbambito, non riesce più a controllare nulla.» «Non essere ingiusto. Alfred sa quello che ha fra le mani.» «No, non lo sa più. Ricordi cosa combinò tempo fa? Aveva voluto im-

mischiarsi in affari che non lo riguardavano e ora sta facendo lo stesso.» «Era suo figlio, tu avresti agito nello stesso modo.» «Io non ho figli, dunque non lo so.» «lo invece ne ho e capisco che non ci si rassegni.» «Dovrebbe farlo, dovrebbe accettare le cose come sono. Non può resti-

tuire la vita a Helmut. Il ragazzo aveva fatto troppo il furbo. Alfred cono-sce le regole, sapeva ciò che poteva accadere. E adesso si sta di nuovo sbagliando riguardo a quella nipote capricciosa.»

«Io non credo che lui sia un pericolo. Sa cosa c'è in gioco e sua nipote è una donna intelligente.»

«Che gli ha succhiato il cervello e l'ha portato a commettere un errore dietro l'altro. Lo avevamo avvertito di dirle la verità. Non ha voluto, prefe-risce continuare la sua pantomima davanti a lei. Non siamo arrivati fino a questo punto perché un vecchio sentimentale rovini tutto.»

«Anche noi siamo vecchi.» «E io voglio continuare a esserlo. Ho appena terminato una riunione del

consiglio d'amministrazione; dobbiamo prepararci per la guerra. Guada-gneremo un sacco di soldi, Frankie.»

«Né a te né a me importa un bel niente dei soldi, George.» «No, hai ragione, non è per i soldi. È il potere, è sapere che stiamo tra

coloro che muovono i fili. Adesso, se non ti spiace, vorrei dormire.» «Dimenticavo. La prossima settimana andrò a New York.» «Allora, amico mio, troveremo il modo d'incontrarci.» «Forse potremmo chiedere a Enrique di venire a New York.» «Preferisco vederlo a New York che a Siviglia. Non mi piace andare

laggiù, non mi sento tranquillo.» «Sei sempre stato un po' paranoico, George.» «Sono solo prudente, per questo siamo arrivati fino qui. Ti ricordo che

altri non ce l'hanno fatta perché hanno commesso degli errori. Anch'io ho

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voglia di vedere Enrique, ma preferisco rinunciare se questo ci espone a dei pericoli.»

«Ormai siamo vecchi, nessuno sa...» «Zitto! Ti ripeto che voglio essere vecchio ancora per un po'. Ti farò sa-

pere se sarà possibile incontrarci a New York.» Frank finì il suo whisky mentre riagganciava. George, il prudente e dif-

fidente George, aveva sempre dimostrato di avere ragione. Suonò un cam-panello d'argento che stava sulla scrivania dello studio e un secondo dopo entrò un uomo in uniforme bianca.

«Ha bisogno di qualcosa, signore?» «José, sono arrivate le persone che aspettavo?» «Ancora no, signore. La torre di controllo ci avviserà non appena l'aereo

si sarà avvicinato.» «Bene, mi faccia sapere.» «Sì, signore.» «Mia moglie?» «La signora sta riposando; aveva mal di testa.» «E mia figlia?» «La signora Alma se n'è andata questa mattina presto con suo marito.» «Ah, già... Mi porti un altro whisky e qualcosa da mangiare.» «Sì, signore.» Il maggiordomo uscì in silenzio. A Frank piaceva José. Era discreto, ef-

ficiente e parlava poco. Si prendeva cura di lui molto meglio di quanto a-vesse mai fatto la sua capricciosa moglie.

Emma era troppo ricca. Questo era stato il suo principale difetto, benché per lui rappresentasse un vantaggio. Be', anche la scarsa avvenenza era un problema. Tendeva a ingrassare, era bassa di statura e molto scura. Il colo-re della pelle di Emma era quasi marrone, una tinta spenta, priva di sfuma-ture. Non assomigliava ad Alicia.

Alicia era nera. Totalmente nera e bella, scandalosamente bella. Stavano insieme da quindici anni, lui l'aveva conosciuta nel bar di quell'hotel di Rio mentre aspettava uno dei suoi soci. La ragazza era andata subito al sodo, offrendosi senza tanti complimenti. E lui se l'era tenuta per sempre. Era sua, gli apparteneva, e lei conosceva la sorte che le sarebbe toccata se a-vesse osato tradirlo con qualcun altro.

Luì era un vecchio, sì, per questo la pagava profumatamente. Quando fosse morto, Alicia avrebbe potuto godersi la fortuna che lui le avrebbe la-

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sciato in eredità, oltre allo splendido attico di Ipanema e ai gioielli che le aveva regalato.

Quando l'aveva conosciuta, Alicia aveva appena compiuto vent'anni; era quasi una bambina con le gambe lunghe e il collo sinuoso; lui era un set-tantenne che non voleva considerarsi vecchio. Poteva permettersi una ra-gazza così: aveva denaro sufficiente affinché le donne facessero finta di considerarlo ancora un uomo attraente.

Avrebbe telefonato ad Alicia e sarebbe andato a trovarla a Rio. Che lei si preparasse per il suo arrivo.

In realtà, non gli piaceva allontanarsi troppo dall'immensità della sua vil-la, situata ai margini del bosco. Lì si sentiva al sicuro, con i suoi uomini che percorrevano giorno e notte i molti chilometri del perimetro, protetto anche da un sofisticato sistema di sensori e da altri congegni che rendeva-no impossibile l'irruzione di intrusi.

Ma il pensiero di Alicia gli aveva trasmesso una scossa di vitalità e alla sua età questo era impagabile. E poi doveva andare a New York, per cui sarebbe comunque dovuto passare da Rio.

6

Clara Tannenberg e Ahmed Husseini aspettavano impazienti un taxi da-

vanti all'Excelsior. Nessuno dei due prestò attenzione all'uomo magro, con i capelli castani che, nervoso, scendeva da un altro taxi ed entrava come un fulmine nell'hotel.

La loro vettura arrivò un minuto più tardi, dunque non poterono vedere quello stesso uomo uscire di corsa dall'Excelsior gridando in direzione del taxi su cui si stavano allontanando.

L'uomo rientrò nell'hotel e si diresse alla reception. «Se ne sono andati, sa se erano diretti all'aeroporto? Se hanno intenzione di lasciare Roma?»

Il portiere lo guardò con diffidenza, benché l'aspetto dell'uomo fosse as-solutamente normale: aspetto distinto, capelli a spazzola, portamento ele-gante malgrado il vestito sportivo... «Signore, non le posso dare quest'in-formazione.»

«È importantissimo che mi metta in contatto con loro.» «Cerchi di capire, signore, noi non possiamo sapere dove vanno i nostri

clienti quando lasciano l'hotel.» «Ma quando hanno chiesto un taxi avranno detto dov'erano diretti. Per

favore, la prego, è davvero importante...»

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«Non so come esserle utile, attenda un attimo.» «Se fosse così gentile da dirmi solo se erano diretti all'aeroporto...» Qualcosa nella voce e nello sguardo dell'uomo convinse l'esperto portie-

re a infrangere il proprio codice professionale. «D'accordo, andavano all'a-eroporto. Questa mattina hanno cambiato la data del volo per Amman, il loro aereo parte tra un'ora. Sono usciti in ritardo, la signora ha perso tempo e...»

L'uomo uscì di corsa dall'hotel e s'infilò nel primo taxi disponibile. «Al-l'aeroporto, presto!»

L'autista, un vecchio romano, guardò nello specchietto retrovisore. Sicu-ramente non era l'unico tassista di Roma a non farsi contagiare dalla fretta dei clienti, cosicché guidò in tutta tranquillità fino a Fiumicino, malgrado la disperazione che vedeva riflessa sul viso del passeggero.

Una volta all'aeroporto, l'uomo cercò il gate del volo per Amman e si di-resse rapido al cancello d'imbarco dei passeggeri diretti in Giordania.

Troppo tardi. Tutti avevano già passato la dogana e il poliziotto si rifiutò di farlo entrare.

«Sono amici, non ho potuto salutarli, è questione di un minuto. Per favo-re, mi faccia passare!»

Il poliziotto si mostrò irremovibile e gli intimò di andarsene. L'uomo iniziò a vagare per l'aeroporto senza meta, senza sapere che fare,

su chi contare. Sapeva solo che avrebbe dovuto parlare con quella donna ovunque fosse, a qualsiasi costo, anche se avesse significato seguirla in capo al mondo.

Appena posarono i piedi sulla scaletta dell'aereo furono investiti da una

folata di aria calda profumata di spezie. Tornavano a casa, tornavano in Oriente.

Ahmed precedette Clara nella discesa, reggendo un borsone Vuitton. Dietro di lei, un uomo non la perdeva di vista, anche se cercava di passare inosservato.

Non ebbero alcun problema a superare la dogana. I passaporti diplomati-ci aprivano tutte le porte e la Giordania, per quanto giurasse lealtà a Wa-shington, aveva la propria politica e non si sarebbe mai schierata contro Saddam, nonostante la scarsa simpatia nei confronti del dittatore iracheno. Ma l'Oriente è l'Oriente e, per quanto occidentalizzata, la famiglia reale giordana era assai esperta in fatto di diplomazia.

Un'auto che attendeva Clara e Ahmed all'uscita dell'aeroporto li condus-

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se al Marriot. Era tardi, sicché cenarono in camera. C'era ancora tensione fra loro.

«Chiamo il nonno.» «Non è una buona idea.» «Perché? Siamo ad Amman.» «Gli americani controllano tutto. Domani oltrepasseremo la frontiera.

Non puoi aspettare?» «Veramente no, ho voglia di parlare con lui.» «Sai una cosa? Sono stanco del tuo comportamento capriccioso.» «Ti sembra un capriccio il fatto che io voglia parlare con mio nonno?» «Dovresti essere più prudente, Clara.» «Perché? È tutta la vita che mi sento dire di essere prudente e discreta,

perché?» «Domandalo a tuo nonno» rispose Ahmed di malumore. «Lo sto domandando a te.» «Sei intelligente, Clara, capricciosa ma intelligente, e suppongo che ne-

gli anni avrai tratto le tue conclusioni, anche se tuo nonno continua a con-siderarti una bambina.»

Clara rimase in silenzio. In realtà, non sapeva se avrebbe desiderato che le dicessero ciò che intuiva. Ma c'erano tante matasse da districare...

Era nata a Baghdad, come sua madre, e aveva trascorso l'infanzia e l'a-dolescenza tra Il Cairo e la capitale irachena. Amava entrambe le città allo stesso modo. Le era costato parecchio convincere il nonno a lasciarle ter-minare gli studi negli Stati Uniti. Alla fine ci era riuscita, sapendo di cau-sargli molta apprensione.

Stava bene in California, San Francisco era la città in cui era diventata adulta, ma aveva sempre saputo che non sarebbe rimasta a vivere lì. Le mancavano l'Oriente, quegli odori, quei sapori, il senso del tempo... e par-lare arabo. Per questo si era innamorata di Ahmed. I ragazzi americani le parevano insulsi, anche se le avevano fatto scoprire tutto ciò che in Oriente era vietato a una donna.

«Comunque, gli telefono.» Chiese alla centralinista di metterla in comunicazione con Baghdad. Do-

po qualche minuto udì la voce di Fatima. «Fatima, sono Clara!» «Bambina mia, che bello sentirti! Avviso subito il signore.» «Non sta dormendo?» «No, no, sta leggendo nel suo studio, sarà contento di parlare con te.»

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Attraverso il telefono le giunse la voce di Fatima che chiamava Alì, il maggiordomo di suo nonno, perché lo avvisasse.

«Clara, tesoro...» «Nonno...» «Siete ad Amman?» «Siamo appena arrivati. Ho voglia di vederti, di tornare a casa.» «Cosa ti è successo?» «Perché me lo domandi? Ti stupisce che abbia voglia di vederti?» «No, ma ti conosco. Da piccola correvi sempre a rifugiarti da me quando

ti accadeva qualcosa, anche se non volevi spiegarmene il perché.» «A Roma non è andata bene.» «Lo so.» «Lo sai?» «Sì, Clara, lo so.» «E come fai a saperlo?» «Vuoi metterti a farmi domande adesso?» «No, ma...» L'uomo sospirò, stanco. «E Ahmed?» «È qui.» «Bene, ho disposto tutto perché facciate un buon ritorno a casa. Passami

tuo marito.» Clara tese la cornetta ad Ahmed e lui conversò brevemente con il nonno

di sua moglie. Lui voleva che rientrassero quanto prima a Baghdad. Nelle prime ore del mattino successivo, Clara e Ahmed si trovavano nel-

la hall dell'albergo in attesa dell'auto che li avrebbe portati in Iraq. Nessu-no dei due si accorse di quattro uomini, apparentemente estranei fra loro, che li sorvegliavano. La sera prima avevano mandato il loro rapporto a Marini. Fino a quel momento non era accaduto nulla di nuovo.

Attraversare la frontiera non aveva rappresentato un problema per A-hmed e Clara, ma per gli uomini di Marini era stato più complicato. Si era-no divisi e avevano pagato perché autisti esperti li portassero oltreconfine. Non era stato facile trovarne: quelli che avevano una famiglia in Iraq o che si dedicavano al contrabbando non avevano interesse a varcare la frontiera.

Avevano dovuto sborsare laute somme di denaro agli autisti, che erano stati raccomandati loro dall'hotel di Amman, affinché non perdessero di vi-sta una Toyota verde a trazione integrale che procedeva davanti a loro.

Non c'era molto traffico sulla strada per Baghdad, ma abbastanza per rendersi conto che da lì entrava e usciva qualsiasi cosa.

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Giunsero nella capitale di notte. Una delle auto seguì la Toyota in un quartiere della città, l'altra si diresse all'Hotel Palestine. Sapevano che lì al-loggiava gran parte degli occidentali, e loro si presentarono come uomini d'affari, sebbene risultasse quantomeno sospetto affermare che in una simi-le congiuntura politica si potessero fare affari a Baghdad.

La Toyota frenò davanti a un cancello in attesa che si aprisse. Gli uomini di Marini non si fermarono. Ormai sapevano dove viveva Clara Tannen-berg. Il giorno dopo sarebbero tornati a dare un'occhiata.

La casa a due piani, protetta da invisibili uomini armati, era circondata da un giardino molto curato. La Casa Gialla, com'era conosciuta per il co-lore dorato con cui veniva sempre accuratamente dipinta, si trovava in un quartiere residenziale. Precedentemente era stata la dimora di un commer-ciante britannico.

Fatima aspettava nell'ingresso, dormicchiando seduta su una sedia. Il rumore della porta la svegliò. Clara l'abbracciò con affetto. La donna era sciita e si era presa cura di Clara fin da piccola. All'inizio alla ragazza fa-cevano paura le sottane nere di Fatima, poi si era abituata e in seguito a-vrebbe trovato in lei la dolcezza che mancava a sua madre.

Fatima era rimasta vedova molto giovane. Aveva vissuto a casa della suocera, dove non veniva considerata né trattata bene, ma aveva accettato il proprio destino senza dire una parola, mentre cresceva il suo unico fi-glio.

Un giorno la suocera l'aveva mandata in quella casa dove viveva uno straniero con la sua giovane moglie, un'egiziana, la signora Alia. E lì lei era rimasta per sempre. Aveva servito Alfred Tannenberg e sua moglie, li aveva accompagnati durante i loro spostamenti al Cairo, dove la coppia aveva un'altra residenza, e soprattutto si era fatta carico prima del loro fi-glio, Helmut, e poi della nipote, Clara.

Adesso era solo un'anziana che aveva perso il figlio nella maledetta guerra contro l'Iran. Non le rimaneva null'altro che Clara.

«Tesoro, hai un brutto aspetto.» «Sono stanca.» «Dovresti smettere di viaggiare e iniziare ad avere figli, prima di diven-

tare troppo vecchia.» «Hai ragione; quando troverò la Bibbia d'argilla lo farò» rispose Clara

ridendo. «Ah, tesoro, spera che non ti capiti come a me! Un unico figlio, e da

quando l'ho perso sono sola.»

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«Hai sempre me.» «Sì, è vero, ho te; se così non fosse, non so che senso avrebbe la vita.» «Su, Fatima, non essere tragica, sono appena arrivata. E il nonno?» «Sta riposando. Oggi è stato fuori tutto il giorno ed è tornato stanco e

preoccupato.» «Ha detto qualcosa?» «Solo che non voleva cenare; si è chiuso in camera sua e ci ha ordinato

di non disturbarlo.» «Allora lo vedrò domani.» Ahmed si diresse in camera sua mentre le due donne continuavano a par-

lare. Era sfinito. Il giorno dopo sarebbe dovuto andare a lavorare al mini-stero della Cultura, dove avrebbe dovuto presentare una relazione sul con-vegno di Roma. Che fallimento! Lui, però, era un privilegiato. Non lo di-menticava, per quanto esserlo gli desse la nausea. Da anni, da quando ave-va scoperto che la sua era una famiglia appartenente alla ristretta élite di un regime dittatoriale, non si sentiva bene con se stesso. Ma non aveva avuto il coraggio di rinunciare a tanti privilegi e aveva preferito ingannarsi di-cendo che era fedele alla sua famiglia, non a Saddam. Poi aveva conosciu-to Clara e i Tannenberg e la sua vita era sprofondata per sempre nell'a-bisso. Si era lasciato corrompere come mai avrebbe pensato. Non poteva dare la colpa ad Alfred. Era stato lui ad accettare di integrarsi nella sua or-ganizzazione e poi a ereditarla, ben sapendo ciò che avrebbe comportato. Se la sua posizione rispetto a Saddam era solida per via dei legami familia-ri, con Alfred era diventata intoccabile, poiché questi aveva amici molto influenti tra gli uomini del dittatore.

Ma ad Ahmed costava ogni giorno di più convivere con se stesso e so-prattutto con una donna come Clara, che rifiutava di vedere ciò che acca-deva intorno a lei, che preferiva vivere nell'ignoranza per non provare or-rore e poter continuare a voler bene a coloro che rappresentavano la sua famiglia.

Ormai lui non l'amava più, e forse, in realtà, non l'aveva mai amata. Quando si erano conosciuti a San Francisco aveva pensato che fosse la ra-gazza adatta per un'avventura. Parlavano in arabo, avevano amici comuni a Baghdad, entrambi conoscevano le rispettive famiglie, anche se tra esse non c'erano rapporti.

Essere espatriati li aveva uniti. Clara era un'emigrante di lusso, con soldi in abbondanza sul proprio conto corrente. Lui disponeva di fondi sufficien-ti per alloggiare in un comodo attico dal quale vedeva spuntare il sole sulla

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baia di San Francisco. Erano andati a vivere insieme, persuasi dal fatto di avere diverse cose in

comune: entrambi erano iracheni, archeologi, la loro lingua materna era l'arabo e provavano la stessa sensazione di libertà negli Stati Uniti, anche se sentivano la mancanza del loro paese e della loro gente.

Quando suo padre era andato a trovarlo a San Francisco, l'aveva convin-to a sposarsi con Clara. Era un matrimonio pieno di vantaggi, e lui sentiva che la situazione politica sarebbe cambiata. Tra i diplomatici le informa-zioni circolavano, ed era evidente che Saddam non era più un burattino uti-le al governo degli Stati Uniti. Bisognava quindi pensare al futuro: Ahmed aveva acconsentito a sposare quella ragazza graziosa, ricchissima ed ec-cessivamente protetta e viziata.

Clara entrò in camera e Ahmed sussultò. «Alì, sei già qui!» lo accolse la moglie. «Mi secca che non saluti Fatima.

Le sei passato davanti senza nemmeno degnarla di uno sguardo.» «Le ho detto "buonasera". Non ho altro da dirle.» «Sai cosa significa Fatima per me.» «Sì, lo so.» Il tono di Ahmed la sorprese, anche se in realtà negli ultimi tempi suo

marito si comportava come se fosse perennemente infastidito e lei fosse un peso difficile da sopportare.

«Che ti succede, Ahmed?» «A me? Niente, sono solo stanco.» «Ti conosco e so che c'è qualcosa che non va.» Ahmed la guardò fisso. Aveva voglia di gridarle in faccia che lei non lo

conosceva affatto, che non l'aveva mai conosciuto davvero e che era stufo di lei e di suo nonno, ma che ormai era tardi per scappare. Invece, si limitò a dirle: «Andiamo a dormire, Clara. Domani dobbiamo lavorare. Io mi re-cherò al ministero, e poi dovremo iniziare i preparativi per gli scavi. Da quanto mi hanno detto a Roma, scoppierà la guerra, anche se nessuno qui ci vuole credere».

«Mio nonno sì.» «Sì, tuo nonno sì. Dài, andiamo a letto. Disferemo le valigie domani.» Alfred Tannenberg si trovava nello stadio con uno dei suoi soci, Mustafà

Nasir. Discutevano vivacemente quando entrò Clara. «Nonno...» «Ah, sei qui! Accomodati, piccola.» Tannenberg fissò il suo sguardo

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d'acciaio su Nasir e questi abbozzò un largo sorriso. «Cara bambina, da quanto tempo non ci vediamo! Ormai non mi fai più

l'onore di venirmi a trovare al Cairo... Le mie figlie chiedono sempre di te.»

«Ciao, Mustafà.» Il tono di Clara non era amichevole, poiché aveva sen-tito il nonno discutere con l'egiziano.

«Clara, stiamo lavorando; appena avremo finito, ti farò chiamare.» «D'accordo, nonno, vado a fare delle compere.» «Fatti accompagnare.» «Sì, sì; viene anche Fatima.» Clara uscì accompagnata dalla governante e da un uomo che aveva la

funzione di autista e di guardia del corpo. Si diressero verso il centro di Baghdad con la Toyota verde.

La città era solo il pallido riflesso di ciò che era stata. L'embargo a cui gli Stati Uniti sottoponevano il regime di Saddam aveva impoverito gli i-racheni, che dovevano aguzzare l'ingegno per sopravvivere. Gli ospedali funzionavano ancora grazie ad alcune organizzazioni non governative, ma era sempre più pressante l'esigenza di medicinali e di alimenti.

Clara provava un odio profondo verso Bush per ciò che stava causando al suo paese. A lei Saddam non piaceva, ma le piacevano ancora meno gli americani che li assediavano, soffocandoli. Passeggiarono per il bazar, fin-ché Clara trovò un regalo per Fatima, poiché era il suo compleanno. Nes-suna delle due donne si rese conto della presenza di quegli stranieri che pa-revano seguirle per le stradine strette del bazar. Ma il guardaspalle in-dividuò la presenza di un paio di uomini che, con l'aspetto di turisti diso-rientati, incrociavano a ogni angolo. Non disse nulla alle donne per non metterle in allarme.

Quando tornarono alla Casa Gialla l'uomo si recò da Alfred Tannenberg, precedendo Clara. Mustafà Nasir se n'era andato.

«Erano quattro uomini, si muovevano in coppia» spiegò il guardaspalle. «Era evidente che ci seguivano. E poi il loro aspetto li smascherava. Il loro modo di vestire, i tratti del volto... sono sicuro che non erano iracheni e nemmeno egiziani, né giordani... e non parlavano inglese, mi è sembrato che parlassero italiano.»

«Cosa credi che volessero fare?» «Stavano pedinando la signora. Non penso che avessero intenzione di

farle del male, anche se...» «Non si sa mai. Fa' in modo che Clara non vada in giro da sola e che al-

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tri due uomini armati vi accompagnino sempre. Se succede qualcosa a mia nipote nessuno vivrà abbastanza per raccontarlo.»

Non c'era bisogno di proferire quella minaccia. Yasir sapeva perfetta-mente che avrebbe pagato con la vita qualsiasi cosa fosse successa a Clara, e non sarebbe stato né il primo né l'ultimo uomo a morire per espresso de-siderio di Tannenberg.

«Certo.» «Rinforza la sicurezza della casa. Voglio controlli accurati su chiunque

entri o esca: che non ci siano giardinieri sconosciuti a sostituire un cugino malato, che nessun venditore ambulante si aggiri qui intorno. Non voglio vedere facce nuove a meno che non lo autorizzi io personalmente. E ades-so cerchiamo di catturare questi misteriosi pedinatori. Voglio sapere chi sono, chi li manda e perché.»

«Sarà difficile prenderli tutti.» «Ne basterà uno.» «Sì, ma Clara dovrà uscire di nuovo.» «È vero. Mia nipote farà da esca, ma fa' in modo che non se ne accorga

e, soprattutto, che non le succeda nulla. Ne risponderai con la vita, Yasir.» «Lo so. Non le succederà nulla. Fidati di me.» «Io mi fido solo di me stesso, Yasir, ma vedi di non fare passi falsi.» «Non succederà.» Tannenberg chiamò la nipote. Rimase ad ascoltare per un'ora le sue la-

mentele su ciò che era accaduto a Roma. Lui sapeva già che le cose non sarebbero andate per il verso giusto. I suoi amici volevano che aspettasse la caduta di Saddam per organizzare una spedizione archeologica che svi-scerasse i resti di quell'edificio trovato tra le antiche Ur e Babilonia. Una spedizione che, oltre alla Bibbia d'argilla, senz'altro avrebbe strappato alla terra altre tavolette e qualche statua. Una delle tante missioni che avevano finanziato. Ma lui non avrebbe aspettato. Non poteva, sapeva che stava consumando gli ultimi giorni della sua vita. Forse gli rimanevano tre o quattro mesi, sei al massimo. Aveva obbligato il medico a dirgli la verità: era giunto alla fine dei suoi giorni. Aveva ottantacinque anni e il fegato pieno di piccoli tumori. Non erano passati nemmeno due anni da quando l'avevano operato a quell'organo vitale, asportandone una parte.

A Clara ci avrebbe pensato Ahmed, ma lei avrebbe comunque avuto de-naro sufficiente per mantenersi per il resto della vita; Alfred, però, voleva farle un regalo, quello che lei gli chiedeva da quando era un'adolescente: essere l'archeologa che avrebbe scoperto la Bibbia d'argilla. Per questo l'a-

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veva mandata a Roma: perché rendesse pubblica l'esistenza di quelle due tavolette che lui aveva trovato quando era più giovane di Clara.

La comunità archeologica poteva anche prendersi gioco della storia delle tavolette di Abramo, ma ormai, pur considerandola una fantasia, non ne ignorava più l'esistenza. Nessuno avrebbe potuto strappare la gloria a sua nipote. Nessuno, nemmeno loro, i suoi più cari amici.

Aveva già pronta la lettera che uno dei suoi avrebbe consegnato ad Amman al corriere fidato che a sua volta l'avrebbe portata a Washington nell'ufficio di Robert Brown; quest'ultimo l'avrebbe fatta avere a George Wagner. Prima di spedirla, però, Alfred Tannenberg doveva occuparsi di quegli stranieri che pedinavano sua nipote; e forse avrebbe dovuto aggiun-gere un altro messaggio. Aspettava di parlare con Ahmed. Quella mattina, quando il marito di Clara gli aveva consegnato la lettera di Brown, l'aveva trovato molto teso.

Si fidava di Ahmed perché conosceva la sua ambizione e la sua impa-zienza di scappare per sempre dall'Iraq, cosa che avrebbe potuto fare solo con il suo denaro, il denaro che Clara avrebbe ereditato e di cui Ahmed a-vrebbe usufruito fino a che fosse rimasto insieme a sua nipote.

Gli uomini di Marini erano pronti sin dalle prime luci dell'alba. Avevano

trovato la postazione ideale per controllare chi entrava e usciva dalla Casa Gialla: un caffè situato all'angolo opposto della strada. Il padrone era gen-tile, e benché non smettesse di fare domande riguardo alla loro permanen-za a Baghdad, quel luogo serviva loro per non essere esposti alla vista de-gli uomini che stavano di guardia all'abitazione di Tannenberg.

Alle otto videro uscire Ahmed Husseini sulla Toyota verde. Guidava lui, ma accanto c'era un uomo che controllava tutt'intorno. Clara lasciò la casa alle dieci del mattino, accompagnata da quella donna vestita di nero dalla testa ai piedi. Erano di nuovo scortate da una guardia del corpo, questa volta su una Mercedes a quattro ruote motrici.

La squadra di Marini era ancora divisa in due coppie, e comunicava con ricetrasmittenti. Quelli seduti al caffè avvisarono i compagni, che si trova-vano a due strade dalla casa su un'auto presa a noleggio, pronti a pedinare la donna.

La Mercedes si diresse verso la periferia di Baghdad. Gli uomini di Ma-rini, su due auto, la seguirono fiduciosi.

Viaggiavano da più di mezz'ora quando la Mercedes deviò su una strada sterrata, fiancheggiata da palme. I pedinatori della Investigazioni e Sicu-

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rezza esitarono, ma alla fine decisero di proseguire. La Mercedes accelerò e la prima auto degli inseguitori si mantenne a una prudente distanza. I suoi occupanti non erano disposti a perdere di vista la donna che li avrebbe condotti dal vecchio che dovevano fotografare.

D'un tratto la Mercedes accelerò ancora, sollevando una nuvola di polve-re; un secondo più tardi comparvero da due sentieri adiacenti diversi fuori-strada che parevano voler investire l'auto su cui si trovavano gli uomini di Marini. Costoro si resero conto troppo tardi di essere circondati e furono obbligati a frenare. La seconda auto degli investigatori italiani, rimasta a una certa distanza, si arrestò di colpo. Non avevano armi, nulla con cui fa-re fronte ai tizi armati che si avvicinavano ai loro compagni. Videro che li tiravano fuori dal veicolo e iniziavano a colpirli. Non sapevano cosa fare: se fossero accorsi in loro soccorso, sarebbero caduti a propria volta nella trappola, ma non potevano certo assistere impotenti a quell'aggressione brutale. Decisero di tornare sulla strada principale in cerca di aiuto e inne-starono la retromarcia. Non fuggivano, si dissero, benché dentro di sé sa-pessero che era proprio quello che stavano facendo.

Non videro che uno dei loro compagni veniva obbligato a inginocchiarsi e che veniva ucciso con un colpo alla nuca, mentre l'altro non poteva trat-tenere un conato di vomito. Due minuti più tardi entrambi giacevano morti sul ciglio della strada.

Carlo Cipriani si nascose il volto fra le mani. Mercedes era rimasta sedu-

ta, pallida ma impassibile, mentre sulle facce di Hans Hausser e Bruno Müller si riflettevano l'orrore e l'angoscia provocati dal resoconto di Mari-ni.

Si erano recati nell'ufficio del responsabile della Investigazioni e Sicu-rezza. Era stato Marini a convocarli. L'agenzia era in lutto. Il silenzio degli impiegati non lasciava adito a dubbi.

Il giorno dopo sarebbe atterrato l'aereo con a bordo le salme degli uomi-ni dell'agenzia.

Erano stati assassinati dopo una violenta aggressione. I loro compagni non erano al corrente di che cosa avessero detto né a chi. Sapevano solo che dieci fuoristrada, cinque per parte, li avevano obbligati a fermarsi. E-rano riusciti a vedere che venivano picchiati; quando più tardi erano tornati con una pattuglia di militari che avevano incontrato sulla strada, i loro compagni erano morti. Avevano preteso che si aprisse un'inchiesta ed era-no stati sul punto di essere arrestati come principali sospetti. Nessuno ave-

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va visto niente, nessuno sapeva niente. La polizia li aveva interrogati con metodi sbrigativi, il cui ricordo era

supportato da alcune contusioni e tagli sul viso, sul petto e sul torace. Do-po varie ore di interrogatori, erano stati rilasciati con la raccomandazione di andarsene al più presto dall'Iraq.

L'ambasciata italiana aveva sollevato una protesta formale, e l'ambascia-tore aveva chiesto un colloquio urgente con il ministro degli Esteri irache-no. Gli avevano risposto che si trovava in visita ufficiale nello Yemen. Na-turalmente, la polizia avrebbe investigato su quella strana aggressione, che pareva opera di qualche banda di delinquenti, a scopo di rapina.

Nelle tasche delle vittime non era stato rinvenuto nulla: né documenti, né denaro, nemmeno un pacchetto di sigarette. Niente. Gli assassini si era-no portati via tutto.

Luca Marini aveva rivissuto i suoi peggiori giorni come capo della poli-zia antimafia in Sicilia, quando doveva telefonare alle mogli dei suoi com-pagni per annunciare che i loro mariti erano morti sotto i colpi dei malvi-venti.

Ma almeno in quelle circostanze c'erano stati funerali di Stato alla pre-senza del ministro, avevano conferito alle vittime una medaglia al valore e le vedove avevano ricevuto una generosa pensione. In questo caso, invece, la sepoltura sarebbe stata fatta privatamente, non ci sarebbero state meda-glie; anzi, avrebbero dovuto fare in modo che la stampa non ficcasse il na-so.

«Mi spiace, ma quanto è accaduto va oltre ciò che potevamo immagina-

re. Il nostro contratto è rescisso. Vi siete messi in un grosso guaio: ci sono di mezzo degli assassini. Hanno ammazzato i miei uomini per avvisarvi di lasciare in pace chiunque stiate cercando.»

«Vorremmo aiutare le famiglie di questi due uomini» disse Mercedes. «Ci dica qual è la somma adeguata in questi casi. So che non siamo in gra-do di restituire loro la vita, ma almeno possiamo essere utili alle persone che hanno lasciato.»

Marini guardò Mercedes meravigliato. Lei non faceva tanti giri di paro-le. Aveva il senso pratico che hanno tutte le donne e non perdeva tempo a spargere lacrime. «Questo dipende da voi» rispose. «Francesco Amatore lascia una moglie e una bambina di due anni. Paolo Silvestre era scapolo, ma ai suoi genitori farebbe comodo un aiuto, perché hanno altri figli da crescere.»

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«Le pare sufficiente un milione di euro, mezzo milione per famiglia?» «Direi che è una cifra generosa» fu la risposta di Luca Marini. «Ma ci

sono altre questioni da considerare. La polizia vuole sapere perché due dei miei uomini fossero in Iraq, chi li ha pagati e a che scopo. Finora me la so-no cavata come potevo, ma domani mi aspetta il prefetto. Vuole risposte, perché il ministro le chiederà a lui. Anche se siamo vecchi amici e mi aiu-terà, dovrò comunque fornirgli delle spiegazioni. Dunque, cosa volete che gli dica e cosa preferite che io taccia?»

I quattro amici si guardarono in silenzio, consapevoli della delicatezza della situazione. Era davvero arduo spiegare i motivi per cui un medico in pensione, un professore di fisica, un pianista e un'imprenditrice edile aves-sero contattato un'agenzia d'investigazioni privata e spedito quattro uomini in Iraq.

«Ci dica lei quale sarebbe la versione più plausibile» suggerì Bruno Müller.

«In realtà, non mi avete mai spiegato perché volevate informazioni sulla donna né chi cercate in Iraq.»

«Questo è un argomento che non la riguarda» ribatté gelida Mercedes. «Signora, due uomini sono morti e la polizia crede che le dobbiamo del-

le spiegazioni.» «Luca, ci permetti di parlare un minuto da soli?» gli chiese Carlo Ci-

priani. «Sì, naturalmente, potete usare la sala riunioni. Quando avrete deciso

qualcosa, avvisatemi.» Il responsabile della Investigazioni e Sicurezza li accompagnò in una sa-

la adiacente al suo ufficio e uscì, chiudendo silenziosamente la porta. Carlo Cipriani fu il primo a parlare. «Abbiamo due possibilità: o dire la

verità o cercare una scusa plausibile.» «Non ci sono scuse plausibili con due cadaveri» gli fece notare Hans «e

meno che mai con due cadaveri di innocenti. Se almeno fossero stati dei loro...»

«Se diciamo la verità, va tutto a monte. Ve ne rendete conto?» Il tono di voce di Bruno rivelava una sfumatura di angoscia.

«Non sono disposta ad arrendermi ora, dunque pensiamo al modo di af-frontare la situazione. In fondo, nella vita ci è successo di peggio, questo è solo un contrattempo in più, spiacevole e inaspettato, ma nient'altro che un contrattempo.»

«Dio, quanto sei dura, Mercedes!» A Carlo l'espressione uscì dal pro-

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fondo dell'anima. «Dura? Davvero sono dura, secondo te? Carlo, ci stiamo preparando da

anni, convincendoci che saremmo stati capaci di affrontare qualsiasi diffi-coltà. Bene, eccole. Adesso, invece di lamentarci, escogitiamo qualcosa.»

«Non ci riesco» disse sottovoce Hans Hausser. «Non mi viene in mente nulla.»

Mercedes li guardò contrariata. Poi, alzandosi, prese in mano la situa-zione. «Bene, Carlo, tu e io siamo vecchi amici, io sono a Roma di passag-gio e ti ho parlato della mia idea, ossia che, essendo la guerra praticamente inevitabile, vorrei che la mia impresa edile fosse tra quelle che si sparti-ranno la torta della ricostruzione. Così, malgrado la mia età, ho pensato di trasferirmi a Baghdad per controllare la situazione da vicino e sapere di che cosa gli iracheni avranno bisogno in futuro. Tu mi hai detto che sono una vecchia pazza, che per questo ci sono le agenzie d'investigazione pri-vate, gente preparata, capace di muoversi in una zona a rischio di conflitto. Mi hai presentato un tuo vecchio amico, Luca Marini. Io ho esitato, avrei preferito contattare un'agenzia spagnola, ma alla fine mi sono decisa per la Investigazioni e Sicurezza. Accettiamo la versione degli iracheni, ossia che gli uomini di Marini siano stati uccisi a scopo di rapina. Niente di strano, data la situazione in Iraq. Naturalmente, sono desolata e voglio aiutare le famiglie con un piccolo indennizzo.»

I tre uomini la guardarono ammirati. Era incredibile che in un secondo fosse riuscita a inventare una scusa come quella. Anche se la polizia non le avesse creduto, era plausibile.

«Siete d'accordo o vi è venuto in mente qualcos'altro?» Non era venuto loro in mente nulla, dunque accettarono la versione ela-

borata da Mercedes. Quando la riferirono a Luca Marini, lui ci pensò su. Non era male, sem-

pre che non si venisse a sapere che i suoi uomini stavano pedinando Clara Tannenberg a Roma.

«Sì, ha ragione» convenne Mercedes. «Non dovremmo mescolare le due cose. Ma lei non deve rivelare che due giorni fa i suoi uomini avevano pe-dinato qualcuno a Roma. Non è questo il "caso", visto che a Roma non è successo nulla. Il problema è nato in Iraq.»

«Già» insistette Marini «ma il "caso", come lo chiama lei, è iniziato a Roma e ha a che vedere con quella donna. E poi, non sappiamo cosa ab-biano detto i miei uomini prima di morire. È molto probabile che abbiano confessato di lavorare per la Investigazioni e Sicurezza e di essere stati in-

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caricati di seguire Clara Tannenberg.» «Ha ragione» intervenne Hans Hausser «ma la polizia irachena non ha

detto niente riguardo agli altri due uomini e, per quanto ne sappiamo, nemmeno l'ambasciatore. Non solo, gli iracheni hanno chiuso il caso. Dunque non vedo la ragione perché non si debba chiudere anche qui.»

«Signor Marini» disse Mercedes molto seria «con l'assassinio dei suoi uomini ci hanno voluto dare un avvertimento. Un macabro avvertimento. È il suo modo per farci capire di che cosa è capace se proviamo ad avvici-narci a lui e alla sua famiglia.»

«Di cosa sta parlando, Mercedes? A chi si riferisce?» Luca Marini non poteva nascondere la curiosità. Era stanco dei misteri di quei quattro an-ziani.

«Luca, non ci viene in mente niente di meglio di ciò che ti abbiamo det-to. Aiutaci tu, se credi che questa versione non sarà soddisfacente per la polizia italiana.»

Il tono grave di Carlo Cipriani convinse il responsabile della Investiga-zioni e Sicurezza. Cipriani era il suo medico, un vecchio amico che gli a-veva salvato la vita quando altri specialisti credevano non valesse la pena di operarlo, dandolo per spacciato. Dunque, l'avrebbe aiutato, malgrado il fastidio che suscitava in lui quella donna, Mercedes Barreda.

«Dovresti fidarti di me, raccontarmi chi state pedinando e perché. Così potrei capire meglio ciò che è successo.»

«No, Luca, non possiamo rivelarti altro» replicò Carlo. «Mi dispiace, non è per mancanza di fiducia.»

«D'accordo, vada per la spiegazione della signora Barreda. Spero che gli amici poliziotti siano comprensivi e non mi mettano sotto torchio più del necessario. Le famiglie dei miei uomini sono disperate, ma credono che siano morti per la situazione caotica che c'è in Iraq. Bush ha già reclutato le due famiglie italiane per la sua causa contro "l'impero del male". Ho parlato con la moglie di Francesco e con i genitori di Paolo. Nessuno sape-va per quale motivo fossero andati in Iraq, loro non parlavano mai di lavo-ro in casa. Dunque, i familiari non dovrebbero creare problemi, e se inoltre siete disposti a versare un indennizzo... Bene. Vi chiamerò e vi dirò com'è andata con i miei amici della polizia.»

«Scusa se te lo chiedo di nuovo, ma sei sicuro di non aver detto ai tuoi uomini chi li aveva ingaggiati?»

«No, Carlo, non l'ho fatto. Desideravi che nessuno sapesse di voi, e io mantengo la parola data.»

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«Grazie, sei un amico» disse Carlo con voce tranquilla. Si salutarono senza aggiungere altro. «Andiamo a bere qualcosa» suggerì Mercedes «sono psicologicamente

sfinita.» Entrarono in un vecchio caffè. Il sole splendeva su Roma, ma i quattro si

sentivano gelare dentro. «Ci ha scoperti» affermò Bruno. «No, non è così» ribatté Mercedes. «Gli uomini di Marini non gli hanno

detto nulla perché non sapevano nulla.» «Non perdiamo il senso della realtà» intervenne Hans Hausser. «Siamo

troppo vecchi per diventare paranoici.» «Aspettiamo che Luca ci chiami per dirci com'è andata con la polizia»

propose Carlo. «E adesso, amici miei, vi lascio per andare in clinica, altri-menti i miei figli inizieranno a preoccuparsi. Se siete d'accordo, ci vedia-mo all'ora di cena.»

«Carlo, credo che a nessuno di noi dispiacerebbe riposare» replicò Mer-cedes. «Ci vediamo domani.»

«Sì, Mercedes ha ragione. Meglio separarci qualche ora per poter pensa-re con calma e non rimuginare sulle stesse cose» aggiunse Bruno.

«Come volete.» I quattro si lasciarono sulla porta del caffè. Avevano bisogno di qualche

ora di solitudine, per ritrovare se stessi. Cipriani aveva appena finito di parlare con la segretaria, quando Lara

entrò nel suo studio. «Finalmente ti vedo, papà! Dove ti sei cacciato con i tuoi amichetti?» «Su, Lara, che modo di parlare di tre vecchietti...» «È che non ti si vede più, papà, eravamo anche preoccupati, vero, Ma-

ria?» «Sì, dottoressa.» «Grazie, Maria, ci vediamo domani» le disse il medico. Maria uscì dallo studio del dottor Cipriani e lo lasciò solo con la figlia. «Spero che tu non faccia tardi anche stasera» continuò Lara. «Stasera?» «Ma, papà, non dirmi che ti sei dimenticato del compleanno della mo-

glie di Antonino e che andiamo tutti a cena da lui.» «Ah, il compleanno! No, non me ne sono scordato, pensavo che ti rife-

rissi ad altro.»

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«Non sai proprio dire le bugie... Cosa le hai comprato? Sai che la moglie di Antonino è un tipo speciale.»

«Pensavo di andare adesso da Gucci.» «Le vuoi regalare un altro foulard?» «Può sempre servire.» «Meglio una borsa. Vuoi che ti accompagni?» Carlo guardò sua figlia e sorrise. Sì, gli avrebbe fatto bene una passeg-

giata con lei e parlare di quel che era accaduto alla clinica in quei giorni. Alfred Tannenberg ascoltava impassibile il Colonnello. Si conoscevano

da parecchi anni, e il Colonnello gli aveva sempre reso buoni servigi. Co-stava caro, molto caro, ma era davvero in gamba. Il Colonnello appartene-va al clan di Saddam, erano entrambi di Tikrit, ed era tra i suoi confidenti nel dipartimento di Sicurezza dello Stato, per questo Tannenberg era sem-pre informato su ciò che accadeva a palazzo.

«Su, dimmi chi ha mandato quegli uomini» insistette il Colonnello. «Ti giuro che non lo so. Erano italiani, di un'agenzia, la Investigazioni e

Sicurezza, li avevano assoldati per seguire Clara, ma non hanno detto di più, perché non sapevano altro. Se avessero saputo qualcosa, ti assicuro che avrebbero parlato.»

«Mi pare strano che qualcuno sia interessato a tua nipote.» «L'ho pensato anch'io, ma chiunque le voglia fare del male è intenziona-

to a punire me.» «E tu, amico mio, hai molti nemici.» «Sì, ma anche molti amici. Conto su di te.» «Sai che puoi farlo, però dovresti dirmi qualcosa in più. Tu hai amici po-

tenti. Li avrai mica offesi?» Alfred non si mosse dal suo posto né cambiò espressione. «Anche tu hai

amici potenti. Nientemeno che George Bush, pronto a mandare i marine per buttarci a mare.»

Il Colonnello scoppiò in una risata mentre accendeva un sigaro egiziano. Gli piaceva perché era aromatico. «Dovresti dirmi qualcosa di più, altri-menti non potrò proteggere Clara.»

«Ti assicuro che non so chi abbia mandato quei due uomini. Ciò che ti chiedo è di rinforzare la sicurezza della Casa Gialla e di stare attento a qualsiasi informazione. Sei tu che devi aiutarmi a scoprire il mandante di quei due disgraziati.»

«Lo farò, amico, contaci. Sai? Da qualche tempo sono un po' preoccupa-

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to. Credo che scoppierà la guerra, anche se a palazzo pensano che Bush ci minacci ma che all'ultimo momento farà marcia indietro. La mia impres-sione è che cercherà di portare a termine ciò che ha lasciato in sospeso suo padre.»

«Lo credo anch'io.» «Mi piacerebbe portare in salvo mia moglie e le mie figlie. I miei due

ragazzi sono nell'esercito, dunque per loro posso fare ben poco, per ora, ma le donne... mi preoccupa quanto mi verrà a costare.»

«Ci penserò io.» «Sei un buon amico.» «Anche tu.» Alfred Tannenberg non sapeva chi avesse fatto pedinare Clara né perché.

Gli investigatori erano italiani, dunque qualcuno li aveva assoldati a Roma e aveva seguito la pista di sua nipote fino in Iraq. Oppure cercava lui. Ma chi era? O magari voleva solo spaventarlo, avvertirlo che non poteva in-frangere le regole, che non gli avrebbe consentito di consegnare a sua ni-pote la Bibbia d'argilla.

Sì, pensò, questo "qualcuno" dovevano essere "loro", i suoi vecchi ami-ci. Però questa volta non ce l'avrebbero fatta. Sua nipote avrebbe trovato la Bibbia d'argilla e la gloria sarebbe stata sua. Non avrebbe permesso a nes-suno di immischiarsi nella vita di Clara.

Si sentiva debole, ma con uno sforzo sovrumano riuscì a dirigersi verso l'auto. I suoi uomini non dovevano notare in lui alcun segno di fragilità. Avrebbe dovuto annullare il viaggio al Cairo. Lo specialista lo aspettava per sottoporlo a nuovi esami e per operarlo, se fosse stato necessario. Ma lui non sarebbe tornato in una sala operatoria, ora meno che mai. Avrebbe-ro potuto addormentarlo per sempre. Quelli erano capaci di tutto, e non perché non gli volessero bene; ma nessuno poteva infrangere le regole. E poi, pensò, malgrado i tentativi dei medici era inutile pretendere che gli al-lungassero la vita. L'unica cosa che gli restava da fare era accelerare ancor di più i suoi piani affinché Clara iniziasse gli scavi. Chiese di andare al ministero della Cultura. Aveva bisogno di parlare con Ahmed.

Lui era al telefono quando Tannenberg entrò nel suo studio. Attese im-paziente che terminasse la conversazione.

«Buone notizie: era il professor Picot» disse Ahmed dopo avere riaggan-ciato. «Non vuole ancora impegnarsi, ma dice che verrà a dare un'occhiata. Se il sopralluogo riuscirà a convincerlo, tornerà con una squadra per inizia-

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re gli scavi. Telefono a Clara, dobbiamo organizzare tutto.» «Quando arriverà questo Picot?» «Domani. Viene da Parigi. Vuole che si vada immediatamente a Safran;

desidera anche vedere le due tavolette... Dovrai mostrargliele.» «No, io non voglio incontrarlo, quel Picot. Sai che non vedo mai nessu-

no, a meno che non sia indispensabile.» «Non riesco a capire con quale criterio ricevi certe persone e altre no.» «Questo non ti riguarda. Ti incaricherai tu di tutto; desidero che quell'ar-

cheologo vi aiuti. Offrigli quello che vuole.» «Alfred, Picot è ricco, non c'è nulla che possiamo offrirgli. Se si convin-

ce che le rovine di Safran sono interessanti, verrà, altrimenti nessuno potrà obbligarlo.»

«Dove sono gli archeologi iracheni? Che ne è stato di loro?» «Sai che non abbiamo mai avuto grandi archeologi; siamo pochi, e chi

ha potuto se n'è andato da tempo. Due dei migliori insegnano nelle univer-sità degli Stati Uniti e ormai sono più americani della Statua della Libertà; non tornerebbero mai. E poi ti ricordo che da mesi noi funzionari prendia-mo metà stipendio, e che qui non siamo in America, dove ci sono fonda-zioni, banche, imprese che finanziano spedizioni archeologiche. Questo è l'Iraq, Alfred. Dunque, non troverai archeologi a eccezione di me e pochi altri, che molto difficilmente ci daranno una mano.»

«Li pagheremo bene. Parlerò con il ministro, abbiamo bisogno di un ae-reo che vi porti a Safran, o magari di un elicottero.»

«Potremmo andare a Bassora e da lì...» «Non perdiamo tempo, Ahmed. Ne parlerò con il ministro. A che ora ar-

riverà Picot?» «Nel pomeriggio.» «Lo accompagnerai all'Hotel Palestine.» «Non potremmo ospitarlo a casa? L'hotel ha conosciuto giorni migliori.» «Anche l'Iraq ha conosciuto giorni migliori. Siamo cresciuti all'europea,

là nessuno ti porterebbe in casa sua senza conoscerti, e noi non conoscia-mo Picot. E poi, non voglio nessuno in giro per la Casa Gialla. Finiremmo per incontrarci, e ti ho già detto che io per Picot non esisto.»

Ahmed annuì alle indicazioni del nonno di Clara. Avrebbe fatto quello che voleva lui, come sempre. Nessuno poteva contraddire Alfred Tannen-berg. «Il Colonnello ti ha detto qualcosa riguardo ai due uomini che segui-vano Clara?»

«No, ne sa meno di noi.»

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«Era necessario ucciderli?» Alfred aggrottò le sopracciglia. Non gli piaceva quella domanda. Lo

stesso Ahmed si sorprese di avere espresso manifestamente il proprio pen-siero.

«Sì, era necessario. Chi li ha mandati adesso sa a che gioco giochiamo.» «Cercano te, vero?» «Sì.» «Per la Bibbia d'argilla?» «È quello che devo ancora capire.» «Non te l'ho mai chiesto, in realtà nessuno osa parlarne, ma tuo figlio è

stato ucciso?» «Fu coinvolto in un incidente in cui morirono lui e Nur.» «È stato ucciso, Alfred?» Ahmed fissò il vecchio con durezza, ma questi

sostenne lo sguardo. Non batteva ciglio nemmeno quando gli riaprivano la ferita per la morte di Helmut e di sua moglie.

«Helmut e Nur sono morti. Non occorre che tu sappia altro.» I due uomini si sfidarono in silenzio per qualche secondo, ma fu Ahmed

ad abbassare lo sguardo, incapace di sopportare il gelo degli occhi d'ac-ciaio del vecchio, che ogni giorno gli si rivelava sempre più terribile.

«Problemi, Ahmed?» «No.» «Meglio così. Sono stato il più possibile sincero con te. Conosci la natu-

ra dei miei affari. Un giorno li gestirai tu, probabilmente prima di quanto pensi e di quanto io voglia. Ma non mi giudicare, Ahmed; non lo permetto a nessuno, nemmeno a te, e non ti servirebbe a nulla farti scudo con Cla-ra.»

«Lo so, Alfred, so che tipo di uomo sei.» Non c'era disprezzo nella voce di Ahmed, solo la consapevolezza che

stava lavorando per il demonio in persona.

7 Alle quattro del pomeriggio non c'era anima viva nella zona di Santa

Cruz, il quartiere di stradine strette e piazzette raccolte che meglio di ogni altro riassume l'essenza di Siviglia. Le persiane dei balconi della casa a due piani abitata dalla famiglia Gómez erano chiuse. Pur essendo settem-bre, la temperatura si aggirava intorno ai quaranta gradi e, malgrado l'aria condizionata che alleviava la canicola, nessuna persona sana di mente a

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Siviglia avrebbe tenuto le persiane aperte, e nemmeno socchiuse. Solo l'oscurità concedeva un po' di fresco; e poi quella era l'ora della sie-

sta. Il fattorino suonò il campanello per la terza volta, seccato. La donna che

gli aprì pareva di cattivo umore. Si capì che era assonnata e che era stata strappata al sopore pomeridiano.

«C'è una busta per don Enrique Gómez. Mi hanno detto di consegnar-gliela personalmente.»

«Don Enrique sta riposando. La lasci a me, gliela darò io.» «No, non posso, devo essere sicuro che sia don Enrique a ricevere la bu-

sta.» «Senta, le ho detto che ci penso io.» «E io le ripeto che o la consegno personalmente al signore o me la porto

via. Sono un fattorino e devo obbedire agli ordini.» «Mi faccia il favore di darla a me!» «Ho detto di no!» La donna alzò il tono e lo stesso fece il fattorino. Si udì un brusio di vo-

ci, poi dei passi frettolosi. «Che succede, Pepa?» «Niente, signora, quest'uomo insiste nel voler consegnare personalmente

una busta al signore e io sto cercando di spiegargli che non è possibile.» «La dia a me» disse la donna al ragazzo. «No, signora, non la do nemmeno a lei. O la consegno al signor Gómez

o me ne vado.» Rocío Álvarez guardò il fattorino dall'alto in basso con la tentazione di

sbattergli la porta sul naso. Ma un sesto senso la convinse a non farlo. Sa-peva che doveva essere prudente quando si trattava di suo marito. Cosic-ché, mordendosi il labbro inferiore, e a malincuore, mandò Pepa al piano di sopra ad avvisarlo.

Enrique Gómez scese subito, soppesò il ragazzo con uno sguardo e giun-se alla conclusione che era un semplice fattorino. «Rocío, Pepa, non pre-occupatevi, stavo aspettando questo signore.»

Sottolineò la parola "signore" per mettere in imbarazzo il fattorino, il quale, sudato e con uno stecchino tra i denti, lo guardava con aria imperti-nente.

«Senta, capo, non volevo rovinarle la siesta, io faccio ciò che mi ordina-no e mi hanno detto di recapitare questa busta nelle sue mani.»

«Chi la manda?»

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«Ah, questo non lo so! Io mi occupo solo delle consegne. Se vuole sa-perne di più chiami in ditta.»

Gómez non si prese la briga di rispondere. Firmò la ricevuta, prese la busta e chiuse la porta. Voltandosi vide che Rocío, in fondo alle scale, lo guardava preoccupata.

«Che succede, Enrique?» «Cosa deve succedere?» «Non so, ma mi è venuta un po' d'ansia, come se in quella busta ci fosse-

ro brutte notizie.» «Ma cosa dici, Rocío! Il fattorino era solo un poveraccio che faceva il

suo lavoro. Dai, torna a riposare che con questo caldo non si può fare altro. Adesso salgo.»

«Ma se è qualcosa...?» «Cosa vuoi che sia? Su, piantala.» Andò a sedersi alla scrivania del suo

studio e, preoccupato, aprì la busta gonfia, formato protocollo. Non riuscì a trattenere una smorfia di pena e disgusto davanti alle foto che tirò fuori dal plico. Controllò se ci fosse dell'altro e non lo sorprese vedere su un fo-glio la scrittura fitta di Alfred Tannenberg.

Ma chi erano quegli uomini che aveva ucciso? Tornò a dare un'occhiata alle foto. Ritraevano due uomini massacrati di

botte, con i volti irriconoscibili. In un'altra serie apparivano con il foro di un proiettile sulla nuca.

Sul foglio, solo tre parole: "Questa volta, no". Stracciò la lettera in minuscoli pezzetti e li ripose nella tasca della giacca

riproponendosi di buttarli nel gabinetto. Quanto alle foto, non sapeva cosa farne; pensò dunque di conservarle in cassaforte.

Quando salì in camera, sua moglie lo aspettava inquieta. «Cos'è successo, Enrique?» «Una sciocchezza, Rocío, non ti preoccupare. Forza, riposiamo, che non

sono ancora le cinque.» Il facchino dell'hotel si avvicinò a due uomini che parlavano animata-

mente mentre facevano colazione in quell'angolo del bar dell'albergo da cui s'intravedeva la spiaggia di Copacabana. Rivolgendosi al più anziano, gli consegnò una busta gonfia, formato protocollo.

«Scusi, signore, l'hanno appena portata alla reception; mi hanno avvisato che lei si trovava qui.»

«Grazie, Tony.»

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«Di nulla, signore.» Frank Dos Santos infilò la busta in una valigetta e continuò a parlare

tranquillamente con il suo socio. A mezzogiorno sarebbe arrivata Alicia e avrebbero pranzato insieme; insieme avrebbero trascorso anche il pome-riggio e la notte. Da parecchio non si recava a Rio, pensò. Vivere ai margi-ni del bosco gli faceva perdere la nozione del tempo.

Poco prima delle dodici salì nella suite che aveva riservato in hotel. Si guardò allo specchio dell'ingresso e constatò che per avere ottantacinque anni conservava ancora una certa presenza. Anche se in fondo poco impor-tava: Alicia si sarebbe comportata con lui come se fosse stato Robert Re-dford. Era pagata per quello.

Stava per imbarcarsi sul suo aereo privato, quando vide uno dei suoi se-

gretari correre sulla pista. «Signor Wagner, aspetti!» «Che succede?» «Tenga, signore, è arrivata questa busta per lei. Viene da Amman e sem-

bra urgente. Hanno insistito perché gliela consegnassi immediatamente.» George Wagner prese la busta senza neppure ringraziare e continuò a sa-

lire sulla scaletta che l'avrebbe condotto sull'aereo. Si sedette in una comoda poltrona e mentre la sua hostess personale gli

preparava un whisky aprì la busta. Osservò le foto con un moto di disprez-zo e accartocciò con foga il foglio di carta con le tre parole di Alfred: "Questa volta, no".

Si alzò dal proprio posto e fece un cenno alla hostess. Lei si affrettò a ri-cevere i suoi ordini.

«Dica al comandante che il volo è rimandato. Devo tornare in ufficio.» «Sì, signore.» Nel suo sguardo si notava un lampo di rabbia. Mentre attraversava la pi-

sta diretto al terminal degli aerei privati prese il cellulare e fece una telefo-nata a molti chilometri di distanza.

"Maledetta signora Miller!" Robert Brown imprecava dentro di sé contro

la moglie del senatore. Aveva male alla schiena per essere rimasto seduto a lungo, senza potersi appoggiare, su una coperta distesa sull'erba della villa dei Miller. E, tra l'altro, non aveva ancora visto il Mentore. Gli aveva detto che si sarebbero incontrati al picnic, ma lui non si era fatto vivo.

Si sentì sollevato scorgendo Ralph Barry che si avvicinava. L'avrebbe

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liberato dalla morsa della moglie del senatore, che cercava di convincerlo a donare una generosa somma di denaro per i futuri orfani dell'Iraq.

«Saprà, caro signor Brown, che la guerra lascerà il segno. Sfortunata-mente i bambini sono le vittime più indifese, per questo le mie amiche e io abbiamo formato un comitato per aiutare gli orfani.»

«Certo che può contare sul mio contributo, signora Miller. Appena lo crederà opportuno, mi dica dove inviare la somma che le sembrerà adegua-ta.»

«Oh, che generosità! Non sono io a doverle dire in quale misura contri-buire. Lo lascio al suo buon cuore.»

«Che ne dice di diecimila dollari?» «Stupendo! Diecimila dollari ci sarebbero di grande aiuto.» Ralph Barry si avvicinò a Brown. Aveva in mano una grossa busta, che

gli porse. «È appena arrivata da Amman. Il fattorino dice che è urgente.» Robert Brown si alzò, scusandosi con la moglie del senatore, e si diresse

verso casa per cercare un posto tranquillo. Barry lo accompagnò, sorriden-te e rilassato. Per un ex professore come lui, mescolarsi alla crema della società di Washington voleva dire essere arrivati in cima.

In una saletta trovarono un angolo dove sedersi. Brown aprì la busta ed estrasse le foto. La sua espressione si trasformò in una smorfia. «Che ba-stardo!» esclamò. «Che figlio di puttana!»

Poi lesse la nota con le tre parole manoscritte: "Questa volta, no". Ralph Barry notò la tensione del suo capo, ma attese che costui gli fa-

cesse vedere le foto. Invece Brown le rimise nella busta senza nascondere un gesto di rabbia. «Cercami Paul Dukais.»

«Che cosa succede?» «Nulla che ti riguardi, anche se a pensarci bene... te lo dirò: abbiamo dei

problemi con Alfred. Non rimarrò molto a questa stupida festa. Appena avrò parlato con Paul, me ne andrò.»

Ralph Barry non fece commenti e si mise alla ricerca del presidente del-la Planet Security.

L'elicottero sorvolò Tell Mughayir, l'antica Ur, prima di arrivare in vista

di Safran; atterrando sollevò un polverone giallo che faceva onore al nome del villaggio, "zafferano".

La Safran moderna era formata da appena tre dozzine di case costruite con mattoni crudi in uno stile fuori dal tempo, anche se su qualche tetto l'antenna del televisore ne rivelava l'epoca. A meno di un chilometro, l'an-

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tica Safran appariva circondata da pali e recinti che ne delimitavano il pe-rimetro con cartelli su cui era scritto DIVIETO D'ACCESSO e PROPRIE-TÀ DELLO STATO.

Ai contadini di Safran poco importava come avessero vissuto i loro an-tenati; dovevano preoccuparsi di sopravvivere al presente. Li stupiva, que-sto sì, che da quando era caduta quella maledetta bomba alcuni soldati si fossero dovuti accampare accanto alla cavità dove dicevano si trovassero i resti di un antico villaggio o forse di un palazzo. Magari era rimasto qual-che tesoro, ma la presenza dei soldati era poco rassicurante.

Il Colonnello non aveva potuto fare altro che mandare quattro uomini in quello sperduto villaggio tra Ur e Bassora, ma erano sufficienti a tenere a bada i contadini, che scrutavano il cielo meravigliati e timorosi per il ru-more infernale dell'elicottero.

Yves Picot osservava di sottecchi Clara Tannenberg. Gli pareva che a-vesse un aspetto strano, con quegli occhi color azzurro acciaio su un volto bruno, incorniciato da lunghi capelli castani. La sua non era una bellezza che colpiva a prima vista; bisognava guardarla con calma per rendersi con-to dell'armonia dei suoi lineamenti e del suo sguardo intelligente e inquie-to.

L'aveva reputata un'isterica capricciosa, ma forse il suo era stato un giu-dizio affrettato. La conversazione avuta la sera prima, cenando in hotel, e i discorsi che stavano facendo quasi gridando in elicottero gli facevano in-tuire che Clara, più che capricciosa, era caparbia; non solo, pareva un'ar-cheologa in gamba, anche se l'avrebbe potuto verificare solo sul posto.

Ahmed Husseini doveva essere un buon archeologo, quello sì era evi-dente. E poi quell'uomo non diceva mai una parola di troppo, e le poche che pronunciava erano cariche di senso e rivelavano una profonda cono-scenza della realtà mesopotamica.

L'elicottero atterrò presso la tenda in cui si riparavano i quattro soldati del Colonnello.

Gli occupanti saltarono a terra cercando di coprirsi il volto. In un secon-do si ritrovarono a mangiare la polvere fine e giallastra di quel luogo sper-duto, mentre alcuni abitanti curiosi si avvicinavano per vedere chi fosse ar-rivato.

Il capo del villaggio riconobbe Ahmed Husseini e si diresse verso di lui; poi salutò Clara con un cenno della testa.

Accompagnati dal capo del villaggio e dai soldati giunsero al sito arche-ologico. Picot e Ahmed scivolarono nella cavità da cui si intravedevano i

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resti di un edificio che per mancanza di mezzi non era stato ripulito se non per un perimetro di duecento metri.

Yves Picot ascoltava attentamente le spiegazioni di Ahmed, il quale ri-spondeva a tutte le domande che l'archeologo francese gli rivolgeva.

Nella cavità si poteva scorgere una stanza quadrata con numerose scaffa-lature dove erano ammucchiati i restì di alcune tavolette frantumate.

Clara non sopportava di stare a guardare dall'alto i due uomini e di a-scoltare Ahmed mentre spiegava che le poche tavolette trovate intatte era-no state inviate a Baghdad. Impaziente, chiese ai soldati che la aiutassero a scendere per raggiungere gli altri.

Rimasero a studiare il sito per più di tre ore, raschiando, misurando, pu-lendo resti di tavolette il cui contenuto era a malapena leggibile, tanto i frammenti erano piccoli.

Quando uscirono dalla cavità erano coperti da una fine pellicola di pol-vere gialla.

Ahmed e Picot parlavano animatamente, senza badare troppo a Clara. I due uomini parevano trovarsi a loro agio insieme, nonostante tutto, ricono-scendo ciascuno la competenza dell'altro nella materia di cui si occupava-no.

«L'accampamento si potrebbe montare accanto al villaggio. Sarebbe op-portuno ingaggiare alcuni uomini di qui per farci aiutare nei lavori più pe-santi. Ma abbiamo bisogno di esperti, di gente che non danneggi la costru-zione. E poi, come si è reso conto lei stesso, non è escluso che troviamo al-tri edifici, addirittura l'antica Safran. Potremmo richiedere tende dell'eser-cito, anche se non sono comode, e magari qualche soldato per garantire la sicurezza.»

«Non mi piacciono i soldati» affermò categoricamente Picot. «In questa parte del mondo sono necessari» replicò Husseini. «Ahmed, i satelliti spia passano al setaccio l'Iraq; se individuano un ac-

campamento militare, il giorno in cui gli americani decideranno di bom-bardare raderanno al suolo questo posto. Credo che dovremmo agire diver-samente. Nessuna tenda militare, nessun soldato. Per lo meno non più di questi quattro, che possono servire da elemento dissuasivo se qualche abi-tante del posto volesse fare il furbo. Se accetto di scavare sarà con squadre di civili e materiale civile.»

«Si unirà a noi?» domandò Clara con una certa ansia. «Ancora non lo so. Voglio prima vedere quelle due tavolette di cui mi

avete parlato, più le altre che dite di avere trovato qui, incise da quel tale

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Shamas. Finché non le avrò analizzate, non potrò farmi un'opinione fonda-ta. Al momento, quello che ho esaminato mi pare interessante. Concordo con suo marito che questo sia un antico tempio-palazzo e che oltre alle ta-volette potremo trovare altri reperti. Anche se non oserei affermarlo con assoluta certezza. Devo ancora valutare se vale la pena di trasferire qui venti o trenta persone con i mezzi che richiede uno scavo di questo tipo, e i costi che comporterà, in circostanze che non sono le più propizie. Uno di questi giorni compariranno in cielo gli F-18 dello Zio Sam e distruggeran-no tutto. Raderanno al suolo l'Iraq, e non vedo perché dovrebbero rispar-miare noi, se siamo qui. Dubito che a loro importi che stiamo cercando di riportare alla luce le rovine di un tempio-palazzo di chissà quanti secoli prima di Cristo. Venire qui adesso significa correre un rischio inutile. For-se dopo la guerra...»

«Ma non possiamo abbandonare questo sito! Verrà distrutto!» La voce di Clara tradiva angoscia.

«Sì, signora, lei ha senz'altro ragione. Gli F-18 non lasceranno niente, tranne polvere gialla; la questione è se ho voglia di giocarmi la pelle, oltre al denaro, in un'avventura simile. Non sono Indiana Jones e devo stimare, con il rischio di sbagliarmi, quando all'incirca gli americani inizieranno a bombardare, quanto ci vorrà per formare una squadra e portarla qui e il tempo che dovremo investire prima di ottenere qualche risultato... La guer-ra dovrebbe scoppiare al massimo tra sei, otto mesi. Leggete i giornali, no? Ho scoperto che i mezzi d'informazione dicono tutto ma, forse proprio per la quantità e l'accavallarsi delle notizie, alla fine ci inducono a perdere di vista le cose più evidenti. Allora, in sei mesi riusciremo a ottenere qualche risultato? Secondo me, no. Voi sapete bene che scavi di questo tipo richie-dono anni.»

«Dunque, ha già deciso. È solo venuto a curiosare» affermò Clara. «Ha ragione, sono venuto per curiosità; quanto alla decisione, non l'ho

ancora presa. Sto facendo l'avvocato del diavolo.» «Le tavolette si trovano a Baghdad, dove potrà esaminarle. Prima vole-

vamo che si facesse un'idea del sito» intervenne Ahmed. Il capo del villaggio li invitò a rinfrescarsi, a bere una tazza di tè e a

mangiare qualcosa. Accettarono, contribuendo con le provviste che aveva-no portato con sé. Per Ahmed e Clara fu una sorpresa sentire Picot parlare arabo.

«Se la cava abbastanza bene con la lingua. Dove l'ha imparata?» gli chiese Ahmed.

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«Ho iniziato a studiarla il giorno in cui decisi che la mia vocazione era l'archeologia. Se volevo scavare, avrei dovuto farlo per buona parte in pae-si di lingua araba, e siccome non mi sono mai piaciuti gli intermediari ho iniziato a impararlo. Non lo parlo molto bene, ma abbastanza per capire e per farmi capire.»

«Sa anche leggerlo e scriverlo?» volle sapere Clara. «Sì, lo leggo e lo scrivo.» Il capo del villaggio era un uomo sagace, felice di avere lì dei visitatori

che, se avessero iniziato a scavare, avrebbero portato ricchezza alla gente del posto.

Conosceva Clara e Ahmed perché avevano già iniziato gli scavi, prima di doverli interrompere per mancanza di mezzi. Gli uomini del villaggio non erano abbastanza preparati professionalmente per aiutarli senza rovi-nare ciò che avrebbero trovato.

«Il capo del villaggio ci ha invitato a trascorrere la notte a casa sua. Al-trimenti possiamo montare le tende militari che ci sono sull'elicottero. Domani potremmo visitare la zona perché lei si faccia un'idea di questi luoghi e arrivare fino all'antica Ur. L'alternativa è tornare a Baghdad ades-so. Decida lei.»

Yves Picot non impiegò molto a prendere una decisione. Accettò di pas-sare la notte a Safran e il giorno dopo visitare i dintorni. Quel viaggio gli avrebbe offerto un'opportunità unica. Il volo in elicottero da Baghdad, la solitudine immensa della terra gialla che si estendeva sotto i suoi occhi, la scomodità come elemento di avventura. Pensò che forse non sarebbe mai tornato in quel luogo e, se l'avesse fatto, si sarebbe portato dietro almeno una ventina di persone, e non avrebbe più goduto della quiete che avvol-geva tutto.

Ahmed aveva previsto la possibilità di fermarsi per la notte, per cui il Colonnello aveva dato ordine ai soldati della scorta di procurarsi tende e viveri, e lui aveva chiesto a Fatima di preparare personalmente borse di ci-bo e bevande. La donna aveva fatto del suo meglio, sistemando in diversi contenitori insalate, hummus, pollo fritto, panini e diverse varietà di frutta.

Clara aveva protestato per l'esagerata quantità di cibo, ma Fatima non li avrebbe lasciati partire senza quello che aveva preparato, dunque erano ben provvisti.

I soldati montarono le tende accanto a quelle dei quattro compagni che vigilavano le rovine. Picot avrebbe potuto dormire con loro, e in un'altra tenda Ahmed e Clara. Tuttavia, il capo del villaggio insistette perché i co-

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niugi Husseini trascorressero la notte da lui, e così Picot, con sua grande soddisfazione, poté avere la tenda tutta per sé.

Bevvero tè e mangiarono pistacchi insieme ad altri uomini che si erano avvicinati al capo del villaggio. Si offrivano di collaborare agli scavi e vo-levano sapere quanto avrebbero guadagnato per ogni giornata di lavoro. Ahmed, assecondato da Picot, iniziò un lungo mercanteggiare.

Alle dieci di sera nel villaggio regnava il silenzio. I contadini si alzavano all'alba e si coricavano presto.

Clara e Ahmed accompagnarono Picot alla sua tenda. Anche loro avreb-bero iniziato la giornata con il sorgere del sole. Poi, in silenzio, si diressero verso i resti di quell'edificio che li aveva stregati. Si sedettero sulla sabbia, appoggiati ai muri di mattoni del palazzo millenario. Ahmed accese una sigaretta per Clara e un'altra per sé. Fumavano entrambi, ma giuravano o-gni giorno che avrebbero smesso, sapendo che non sarebbero stati capaci di mantenere la promessa. I fumatori, in Iraq, non erano considerati fuori-legge come in America o in Europa. Le donne fumavano in casa o in luo-ghi chiusi, mai per la strada; Clara di solito era piuttosto ligia alle regole.

Il manto di stelle pareva intiepidire la notte. Clara cercava di immagina-re come poteva essere stato quel luogo duemila anni prima. Nel silenzio ascoltava centinaia di voci di donne, bambini, uomini. Contadini, scribi, re, tutti passavano davanti ai suoi occhi chiusi, ed erano reali quanto la notte.

"Shamas... come sarà stato Shamas?" Abramo, padre di una moltitudine, Clara lo immaginava come un pastore seminomade che viveva nelle tende, costeggiando il deserto con le greggi di capre e di pecore, dormendo a cie-lo aperto in notti stellate come quella.

Abramo doveva avere la barba lunga e grigia e i capelli folti e aggrovi-gliati. Era alto, sì, lo immaginava alto, il portamento altero che ispirava ri-spetto ovunque andasse.

La Bibbia lo presentava anche come uomo astuto e duro, come un pasto-re di uomini, oltre che di greggi.

Ma perché Shamas aveva accompagnato il clan di Abramo fino a Carran e poi era tornato indietro? Era ciò che si poteva dedurre dai resti delle ta-volette trovate lì, a Safran.

«Clara, svegliati. Andiamo.» «Non stavo dormendo.» «Sì, invece; dài, andiamo.» «Va' tu, Ahmed, lasciami stare qui ancora un po'.» «È tardi.»

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«Sono appena le undici e i soldati sono qui vicino, non mi succederà nulla.»

«Clara, per favore, non restare qui da sola.» «E allora rimani con me, in silenzio, come prima. Hai sonno?» «No. Fumerò un'altra sigaretta e poi andremo a dormire. D'accordo?» Clara non rispose. Non voleva allontanarsi da quel luogo, almeno per un

po'. Le piaceva sentire il freddo dei mattoni sulla schiena.

8 Ili abbracciò Shamas. Il bambino se ne andava con il suo clan e lo scriba

sentiva una fitta di dispiacere e di sollievo al tempo stesso. Era un ragazzi-no impossibile da disciplinare. Intelligente, sì, ma incapace di concentrarsi su ciò che non lo interessava. Probabilmente non l'avrebbe più rivisto, an-che se non era la prima volta che il clan di Terach partiva verso nord in cerca di pascoli, carico di mercanzie.

Aveva sentito dire da alcuni uomini che forse in quell'occasione avreb-bero attraversato la sponda del Tigri per raggiungere Asur e da lì Carran.

Ovunque andassero, di fatto sarebbe passato parecchio tempo prima di rivederli, sempre che fossero tornati tutti.

«Ricorderò quanto mi hai insegnato» promise Shamas. Ili non gli credette. Sapeva che buona parte di quanto gli aveva spiegato

si era persa nel vento, perché molte lezioni Shamas non le ascoltava nem-meno. In ogni caso, gli diede una pacca sulla schiena e gli consegnò alcuni stili di canna e osso. Erano un regalo per un alunno che non avrebbe mai scordato, per i tanti momenti belli e meno belli che gli aveva fatto passare.

Stava sorgendo il sole e il clan di Terach era pronto a iniziare il lungo cammino verso la terra di Canaan. Più di cinquanta persone si misero in marcia, insieme alle loro mercanzie e agli animali.

Shamas cercò Abram, che stava alla testa del gruppo insieme a Yadin, suo padre, e ad altri uomini del clan. Il bambino non riuscì a catturare la loro attenzione. Gli uomini non si mettevano d'accordo riguardo al percor-so da seguire e Terach, stanco, concluse la discussione dicendo che, senza allontanarsi dall'Eufrate, si sarebbero avvicinati a Babilonia, sarebbero passati da Mari, e da lì si sarebbero diretti verso Carran prima di continua-re per Canaan.

Il bambino comprese che avrebbe dovuto lasciar passare qualche giorno prima di chiedere ad Abram di iniziare il racconto della Creazione. Innan-

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zitutto avrebbero dovuto abituarsi ai tempi di marcia, per quanto quel viaggio l'avessero già fatto in altre occasioni. Ma durante i primi giorni na-scevano sempre contrasti, finché tutti non si abituavano a camminare al passo delle pecore e delle capre e a vivere con il cielo per tetto.

Una sera, all'imbrunire, mentre le donne attingevano acqua dall'Eufrate e gli uomini contavano le greggi, Shamas vide Abram allontanarsi lungo un sentiero che costeggiava il fiume e lo seguì.

Il patriarca camminò a lungo, poi si sedette su una pietra piatta sulla sponda e si mise a buttare distrattamente nell'acqua i ciottoli che trovava lì vicino, sulla riva.

Shamas si rese conto che Abram meditava, dunque non si fece avanti per non disturbarlo. Avrebbe atteso che tornasse all'accampamento per parlare con lui.

Dopo un po' sentì che Abram lo chiamava. «Vieni, siediti qui» disse al bambino indicandogli un sasso lì accanto. «Sapevi che ero qui?» «Sì, mi hai seguito dall'accampamento, ma ero certo che non mi avresti

disturbato durante la meditazione.» «Hai parlato con Lui?» «No, oggi non ha voluto parlare con me. L'ho cercato, ma non ho sentito

la Sua presenza.» «Forse perché c'ero io» replicò il bambino, mortificato. «Forse. O forse non aveva niente da dirmi.» Shamas si tranquillizzò con quella risposta; trovò naturale che Dio non

parlasse tanto per parlare. «Ho portato gli stili, me li ha regalati Ili.» «Alla fine vi siete riconciliati?» «Ho cercato di essere un alunno migliore, ma so di non avere compiuto

il mio dovere come tutti si aspettavano. Non è che non ho voglia di impa-rare, ma...»

«Preferisci accompagnare il clan?» «Per sempre?» «Sì, per sempre.» «Potrò imparare tutto ciò che sa Ili anche andando da un posto all'altro?» «Ci sono altri luoghi dove potrai imparare. Ormai ti sei lasciato Ili alle

spalle, guarda avanti.» «Sì, per questo ti ho seguito, volevo chiederti di cominciare a raccon-

tarmi come Lui creò il mondo e perché.» «Lo farò.»

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«Ma quando?» «Possiamo iniziare domani.» «E perché non adesso?» «Perché si sta facendo buio e tua madre si preoccuperà, non sapendo do-

ve sei.» «Hai ragione, ma domani quando?» «Te lo dirò io. Adesso andiamo, non attardiamoci oltre.» Ma non iniziarono il giorno dopo, né quello successivo, né quello dopo

ancora. Le lunghe camminate, la cura del gregge, qualche incidente con la gente dei luoghi dove si accampavano impedirono ad Abram di trovare la calma necessaria per spiegare a Shamas perché Lui aveva creato il mondo. Però il bambino non rinunciava a domandargli di quel Dio più potente di Enlil, di Ninurta e anche di Marduk; perciò, durante il lungo cammino ver-so Carran, Shamas sentì raccontare da Abram che non c'era altro Dio al di fuori di Lui, che gli altri dèi erano solo figure di argilla.

«Allora, Marduk non ha lottato contro Tiamat?» «Tiamat, la dea del caos...» rispondeva sorridente Abram. «Tu credi che

ci sia un dio incaricato del caos, un altro dell'acqua, un altro dei cereali, un altro delle pecore, un altro delle capre?»

«È quello che mi ha insegnato Ili. Vedi, Marduk lottò contro Tiamat, e la divise in due pezzi, con uno fece il Cielo, e con l'altro la Terra. E dai suoi occhi sgorgarono il Tigri e l'Eufrate, e con il sangue del marito della dea, il dio Kingu, modellò l'uomo. Marduk disse a Ea: "Impasterò il sangue e for-merò le ossa. Voglio dare vita a una creatura, il cui nome sarà 'uomo'. Vo-glio creare l'essere umano, l'uomo che si incarichi del culto degli dèi affin-ché possano essere adorati".» Shamas ripeté le parole ascoltate tante volte da Ili, che esortava i suoi alunni a imparare l'Enuma elish, il poema sulla creazione dell'uomo.

«Be', vedo che ti è rimasto qualcosa di ciò che ti ha insegnato Ili.» «Sì, ma dimmi la verità: Marduk esiste?» «No, non esiste.» «Esiste solo il tuo Dio?» «Esiste solo Dio.» «Allora, tutti gli uomini si sbagliano, tranne te?» «Gli uomini cercano di spiegarsi ciò che accade e guardano al cielo pen-

sando che lì ci sia un dio per ogni cosa. Se guardassero dentro il proprio cuore, troverebbero la risposta.»

«Sai, io cerco di guardare nel mio cuore, come mi hai detto tu, ma non

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trovo nulla.» «Sì, invece, hai trovato la strada per giungere a Dio, dato che chiedi di

Lui e vuoi incontrarlo.» «È vero che hai distrutto il laboratorio dove Terach modellava le figure

degli dèi?» «Non l'ho distrutto, ho solo voluto dimostrare che erano di fango, e che

dentro quel fango non c'era nulla. Mio padre faceva gli dèi. Forse Terach è un dio?»

Il bambino rise di gusto. No, Terach proprio non era un dio. Il vecchio padre di Abram, dalla barba folta, non assomigliava a un dio. Gridava fu-ribondo quando i bambini non gli permettevano di riposare nelle ore in cui il sole ardeva o quando all'alba mungeva le capre. Gli dèi non mungono le capre, si disse Shamas.

A mano a mano che si dirigevano a nord, il tempo cambiava impercetti-bilmente. Una sera il cielo si colorò di grigio e poi scaricò milioni di gocce d'acqua sull'accampamento di Terach.

Riparati sotto le tende, gli uomini parlavano mentre le donne preparava-no il cibo per la cena e i bambini giocavano a rincorrersi nelle tende di pel-le e fuori, sotto la pioggia. Un vecchio annunciò che si trovavano vicino ai pascoli di Carran, e Terach annuì dicendo che lì avrebbero riposato per un certo periodo, dato che in quella terra avevano dei parenti, e lui stesso ve-niva da lì.

Shamas ne fu contento. Aveva voglia di fermarsi in un posto. Decisa-mente, quello spostarsi da un luogo all'altro non gli andava a genio. Gli mancavano addirittura le tavolette con gli insegnamenti di Ili. A parte le sue conversazioni con Abram, nel clan nessuno pareva particolarmente in-teressato a parlare d'altro che non fosse la salute del bestiame o gli avve-nimenti della giornata.

Quella sera, sotto la coltre di pioggia, mentre Terach spiegava che si sa-rebbero fermati a Carran, Shamas domandò a suo padre se là avrebbe tro-vato un'altra casa delle tavolette dove continuare il suo apprendistato.

Yadin fu sorpreso di ascoltare dal figlio una simile richiesta. «Credevo che la scuola fosse un castigo per te.»

«Mi sbagliavo, padre, preferisco imparare che camminare.» «Noi viviamo così, Shamas. Non disprezzare quello che siamo.» «No, padre, non lo disprezzo. Mi piace dormire sotto le stelle e giocare

fin dall'alba. Ho dato un nome a tutte le nostre pecore e capre e ho impara-to a mungere. Ma mi manca il sapere.»

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Il padre di Shamas rimase a pensare. Già sapeva dell'intelligenza di suo figlio, ma quel viaggio al Nord l'aveva cambiato completamente: d'un trat-to gli mancava lo studio. Avrebbe parlato con Terach e Abram per decide-re del futuro del bambino.

Il clan si insediò fuori dalle mura di Carran. Terach avrebbe ripreso a la-vorare l'argilla con l'aiuto dei suoi figli Abram e Nacor. Le sue mani erano capaci di dare forma a un dio, ma sapevano anche modellare mattoni e va-sellame elaborato. Non avrebbe avuto problemi di sostentamento, dunque, considerando che possedeva anche greggi di pecore e capre e un buon nu-mero di asini da soma.

Yadin chiese a Terach di trovare il modo affinché Shamas potesse ri-prendere il suo apprendistato.

Una sera, al calar del sole, Abram cercò il bambino. Lo trovò che gioca-va con alni coetanei, ma sul volto del piccolo c'era un velo di tristezza. «Shamas» lo chiamò.

Il bambino accorse velocemente. «Ho pensato che forse, ora che siamo arrivati, potrei raccontarti la storia

del mondo. Cuoceremo l'argilla per fare le tavolette e, dato che conservi gli stili, scriverai perché Dio ci ha creati. Sai, di tutto ciò che possiamo vedere sopravvivrà solo ciò che rimarrà scritto.»

«Te l'ha detto Lui?» «L'ho sentito dentro di me. I figli dei nostri figli potranno apprendere la

storia degli dèi perché gli uomini l'hanno trascritta per sempre sulla terra-cotta. Dunque, affinché conoscano Lui e sappiano ciò che fece, noi, Sha-mas, lo racconteremo.»

«Noi?» «Sì, io racconterò e tu scriverai; tu stesso l'avevi proposto prima che la-

sciassimo Ur.» «D'accordo, sono pronto» rispose il bambino entusiasta e cosciente della

sua nuova responsabilità. «Quando iniziamo?» «Domani, al calar del sole, dovrai aver preparato delle tavolette. Allora

ci incontreremo sotto le palme vicino al nostro accampamento e lì comin-cerò a raccontarti la storia del mondo.»

Shamas corse alla sua tenda, preoccupato. Da molto tempo non passava uno stilo sull'argilla, ne sarebbe stato ancora capace? Così chiese ai suoi genitori che gli permettessero di preparare delle tavolette sulle quali fare pratica. Non voleva deludere Abram, ma soprattutto non voleva deludere se stesso.

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Quando le ebbe preparate scrisse, come gli aveva insegnato Ili, il proprio nome sulla parte superiore: "Shamas".

"Sto per scrivere la storia del mondo. Abram me la racconterà. Così gli uomini sapranno perché Lui li ha creati."

Il bambino osservò la tavoletta e non si sentì soddisfatto del risultato. Aveva perso dimestichezza con lo stilo e i segni apparivano contorti. Deci-se di continuare a fare pratica finché la scrittura fosse stata accettabile.

"Marduk è solo una figura di argilla. Gli dèi di argilla sono solo argilla. Il Dio di Abram non si vede, per questo è Dio. Non si può modellare, non si può rompere." Tornò a fissare la tavoletta con occhio critico.

Suo padre lanciò uno sguardo dietro le spalle. «Shamas, cosa stai scri-vendo?»

«Mi sto allenando, padre.» «Non ti affannare così» disse Yagin con affetto. «Non posso scrivere la storia del mondo con questi segni contorti che

non riesco a decifrare nemmeno io» si lamentò il bambino. «Abbi pazienza, ci riuscirai.» "C'è solo un Dio che regna sul Cielo e sulla Terra e non condivide il suo

potere con nessuno" continuò a scrivere Shamas, fino a che la luce del sole scomparve all'orizzonte e non poté fare altro che mettersi a dormire.

La mattina, all'alba, Shamas chiese a suo padre che gli preparasse altre tavolette su cui continuare a perfezionare la scrittura. Voleva che Abram non si vergognasse di lui quando avrebbe letto ciò che gli aveva racconta-to.

Yadin aiutò il bambino a cuocere diverse tavolette prima di andare a vi-gilare il gregge. Poi si sarebbe recato a Carran a parlare con i sacerdoti af-finché si incaricassero di completare la formazione di Shamas. Terach si era impegnato ad accompagnarlo, essendo un uomo conosciuto in città.

"Per parlare con Dio dobbiamo leggere nel nostro cuore. Abram dice che Lui non si esprime attraverso le parole, ma fa capire agli uomini cosa vuo-le che facciano. Io cerco dentro di me, ma ancora non sono degno di ascol-tarLo. Credo che tra noi Lui abbia scelto solo Abram." Così Shamas conti-nuò a scrivere per tutto il giorno, fino a che il sole iniziò a calare all'oriz-zonte. Allora si affrettò verso il palmeto dove già lo aspettava il patriarca.

Gli mostrò le tavolette e costui non fece alcun cenno né di assenso né di rimprovero.

«Ti sei sforzato e questo è sufficiente, Shamas.» «Cercherò di fare meglio.»

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«Lo so.» Il bambino si sedette appoggiando la schiena contro una palma, con la

tavoletta sulle gambe e lo stilo nella mano sinistra, poiché era mancino. Abram cominciò a parlare, e le sue parole parevano dettate dall'alto dei

cieli: «In principio Dio creò il Cielo e la Terra. La terra era informe e de-serta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle ac-que.

«Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.

«Dio disse: "Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque". Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno.

«Dio disse: "Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un solo luogo e appaia l'asciutto". E così avvenne. Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona. E Dio disse: "La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie". E così avvenne: la terra produsse germogli, erbe che producono seme, cia-scuna secondo la propria specie, e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: terzo giorno.

«Dio disse: "Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del Cielo per illuminare la Terra". E così avvenne: Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. Dio le pose nel fir-mamento del Cielo per illuminare la Terra e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: quarto giorno.

«Dio disse: "Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo". Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati, secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. Dio li benedisse: "Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra". E fu sera e fu mat-tina: quinto giorno.

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«Dio disse: "La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: be-stiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie". E così avvenne: Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la sua specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. E Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a no-stra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra".

«Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplica-tevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra".

«E Dio disse: "Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli es-seri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde". E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno.

«Così furono portati a compimento il Cielo e la Terra e tutte le loro schiere. Allora Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il setti-mo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto. Queste le origini del Cielo e della Terra, quando vennero creati».

Abram rimase in silenzio mentre Shamas finiva di scrivere ciò che gli aveva raccontato. Il bambino non aveva alzato gli occhi dalla tavoletta e Abram si era reso conto dello sforzo per collocare ogni linea in colonne verticali senza commettere errori.

Shamas porse le tavolette ad Abram. C'erano alcuni segni difficili da ca-pire, ma in generale il bambino aveva realizzato con cura la trascrizione delle origini del mondo.

«Si capisce abbastanza bene. Adesso conserva queste tavolette in un luogo sicuro, dove i tuoi fratelli non le possano rompere, né siano d'impic-cio a tua madre. Chiedi a tuo padre, lui ti dirà dove. Ebbene, cosa pensi di ciò che ti ho raccontato?»

«Penso che...» «Dillo, di cosa hai paura?» «Non voglio farti arrabbiare, Abram, ma la creazione del mondo fatta da

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Dio assomiglia alla creazione del mondo fatta dagli dèi.» «Sì, ma ci sono parecchie differenze.» «Quali?» «Per esempio, nel poema Enuma elish che Ili ti insegnò a recitare, Mar-

duk crea l'uomo uccidendo la dea Tiamat e il suo sposo Kingu. Marduk, però, è stato a sua volta creato. Gli dèi non creano nulla, fanno l'uomo a partire da quello che esiste, ma chi crea quello che esiste? Dio crea perché così decide, e crea dal nulla, perché non ha bisogno di nulla per creare.»

«Però in alcune cose il tuo racconto assomiglia a ciò che mi raccontava Ili.»

«In qualcosa, sì. Ci sono uomini che hanno intuito un principio creatore e immaginato storie di dèi per spiegarlo.»

«Perché non hanno saputo ascoltare Lui?» «Perché non è facile ascoltarLo. Siamo troppo occupati a pensare a noi

stessi. Dio ci castigò, castigò tutti gli uomini, i primi e quelli che verranno dopo di noi, obbligandoci a lavorare per il nostro sostentamento, a patire dolori e malattie, a vagare sulla terra, di modo che l'uomo ha poco tempo per pensare a Dio.»

«E perché ci castigò? Perché tutti gli uomini? Io non ho ancora fatto niente, o almeno niente di grave.»

«Hai ragione, ma il primo uomo e la prima donna peccarono e condan-narono tutti noi.»

«Non mi sembra giusto.» «Chi sei tu per giudicare Dio?» «Ma perché devo accettare una colpa che non ho commesso?» «Domani te lo racconterò. Porta le tavolette e lo stilo.» C'era ormai poca luce, e Abram e Shamas si incamminarono verso l'ac-

campamento dove il clan si preparava a riposare dopo una lunga giornata. Yadin fece un segno ad Abram. Voleva parlare da solo con lui. «Mio fi-

glio non è felice.» «Lo so.» «Gli manca Ur, e anche Ili. Vuole imparare. Sono stato al tempio con

Terach; lo ammetteranno, ma temo che riveli ciò che gli hai raccontato e che scateni un pandemonio. Chiedigli di non dire che c'è un solo Dio o giungerà alle orecchie del re e ne pagheremo le conseguenze.»

«Yadin, tu credi...?» «Sì, Abram, ma dobbiamo essere prudenti. Anche tuo padre ti parlerà.»

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Il clan si sarebbe insediato a Carran per un po' di tempo prima di conti-nuare il viaggio verso la terra di Canaan. Gli uomini costruirono case di paglia e mattoni dove vivere fino a che fosse arrivato il momento di ripar-tire. Yadin offrì a Shamas una nicchia dove conservare le tavolette che pa-zientemente aveva scritto sotto la dettatura di Abram.

Ogni giorno Shamas ardeva di impazienza, in attesa di sedersi con A-bram nel palmeto.

Ormai sapeva perché Dio aveva castigato gli uomini. Era imperdonabile quanto fosse stato stupido Adamo, pensava il bambino. Dio aveva creato il paradiso per lui, un luogo con ogni tipo di albero da frutta, e in mezzo al giardino aveva collocato l'albero della conoscenza del Bene e del Male, l'unico al quale Adamo non si doveva avvicinare, perché se ne avesse mangiato i frutti sarebbe morto.

«Non capisco perché hanno disobbedito» chiedeva Shamas. «Perché Dio ci ha fatti liberi di scegliere. Dimmi, Shamas, ricordi quan-

do Ili vi proibì di saltare dalla finestra della scuola perché vi sareste potuti far male?»

«Sì.» «E in quanti avete saltato?» «Be', io ho saltato.» «Tu e altri tuoi compagni, e qualcuno, se non ricordo male, si ruppe

qualche osso. Hai degli amici che non hanno più camminato bene come prima. È vero che sapevate cosa vi sarebbe potuto accadere?»

«Sì.» «Ma lo faceste ugualmente.» «Ma non è lo stesso rompersi un osso e morire» insisteva Shamas. «No, non è lo stesso. Ma Adamo ed Eva credevano che mangiare da

quell'albero li avrebbe trasformati in dèi e non riuscirono a resistere alla tentazione. Quando saltaste giù dalla finestra non pensaste al danno che vi sareste potuti fare; nemmeno Adamo ed Eva ci pensarono.»

«Ieri mi sono reso conto che la creazione di Eva assomiglia alla storia di Enki e Ninhursag.»

«E perché?» domandò Abram, meravigliato dalla memoria prodigiosa di Shamas, che aveva ascoltato quand'era molto piccolo quei racconti dalle labbra del suo maestro nella casa delle tavolette.

«Anche Enki viveva in paradiso, dove» rispose Shamas recitando «"il corvo non gracchia, l'uccello ittidu non proferisce il verso dell'uccello itti-du, il leone non uccide, il lupo non ruba...". Be', tu lo sai meglio di me.

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Nemmeno in quel paradiso c'era il dolore, e Ninhursag, senza dolore nel corpo, portò nel mondo altre dee. Ninhursag creò otto piante ed Enki man-giò i frutti di tali piante, per cui Ninhursag si arrabbiò e lo condannò a morte. Poi, quando lo vide soffrire, creò altre divinità per curare le sue ma-lattie. Ricordi il poema? Ninhursag disse a Enki: "Fratello, mio, dove ti duole?/Il mio dente mi duole./La dea Ninsutu ho dato alla luce per te". Poi creò Ninti, la "dea della costola", per curargli il dolore in quella parte del corpo. Enki si ammalò perché aveva mangiato le piante che non doveva assaggiare e venne castigato; Adamo ed Eva mangiarono dall'albero della conoscenza del Bene e del Male e a partire da quel momento furono con-dannati a morire. Loro e noi.»

«Sarai un uomo saggio, Shamas. Desidero solo che tu sappia utilizzare la sapienza per giungere a Lui e che la ragione non ti offuschi il cammi-no.»

«Come può la ragione allontanarmi da Dio?» «Perché puoi cadere nella tentazione di credere di capire tutto, di imma-

ginare di sapere tutto. E questo ti può succedere perché siamo un riflesso di Dio.»

«Perché Dio ha collocato all'entrata del giardino dell'Eden cherubini con la spada fiammeggiante?»

«Te l'ho già detto: per impedire che l'uomo mangiasse dall'albero della vita e recuperasse l'immortalità.»

«Come facciamo a sapere cos'è l'immortalità?» «Ne abbiamo il ricordo scritto nel cuore.»

9 Un sacerdote dai capelli castani, alto, magro e nervoso, percorreva la ba-

silica di San Pietro senza trovare un angolo dove inginocchiarsi a pregare in intimità e raccoglimento. La cattedrale gli pareva estranea, un monu-mento al potere e alla superbia degli uomini invece che la Casa di Dio. Era passato due volte davanti alla Pietà di Michelangelo, e solo nelle linee pu-re del marmo gli era parso d'intravedere un accenno di spiritualità.

In realtà da parecchi giorni non importava quanto a lungo pregasse, né quanto profonda fosse la sua disperazione: Dio non c'era e l'aveva lasciato solo con la sua coscienza a vagare senza meta.

Uscì di nuovo in piazza San Pietro e neppure il sole di settembre parve in grado di scaldargli l'anima.

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Aveva fallito nella sua ricerca di Tannenberg. Non era arrivato in tempo per parlare con quella donna che, prima, si era persa su un taxi nel traffico infernale di Roma e poi, quando lui aveva raggiunto l'aeroporto, si era già imbarcata per Amman.

Era stato tentato di fare il biglietto per il volo successivo diretto alla ca-pitale giordana, ma una volta lì sarebbe stato capace di trovarla?

Gli sembrava di impazzire per la sua impotenza. Continuava a vagare da un posto all'altro, senza riuscire a combinare nulla. Suo padre aveva tele-fonato quella mattina, ma lui aveva fatto dire che non c'era. Non aveva vo-glia di parlare con nessuno e tanto meno con lui.

«Gian Maria...» Il giovane si voltò sussultando. La voce sonora di padre Francesco l'ave-

va spaventato. «Padre...» «Ti osservo da un po'; ti muovi come un'anima in pena, che ti succede?» Padre Francesco confessava in Vaticano da più di trent'anni. Aveva a-

scoltato e perdonato tutte le miserie che gli uomini andavano a riversare lì, cercando il perdono. Apprezzava il giovane sacerdote che da mesi aveva iniziato a esercitare come confessore nella basilica. Gian Maria emanava fiducia e bontà, e gli pareva confortante la fede salda del giovane.

Padre Francesco era preoccupato per non averlo visto negli ultimi giorni, e quando aveva chiesto di lui gli avevano spiegato che non stava bene; ve-dendolo adesso, si rese conto che probabilmente il male che sentiva stava da qualche parte in fondo all'anima.

«Padre Francesco, io... io non glielo posso dire.» «Perché? Forse sono in grado di aiutarti.» «Non posso violare il segreto della confessione.» L'anziano sacerdote rimase in silenzio. Poi, prendendolo sottobraccio e

infilandosi tra i turisti, si allontanò con lui dalla piazza. «Ti offro un caf-fè.»

Gian Maria cercò di rifiutare, ma padre Francesco non gli diede scelta. «Il segreto della confessione è sacro, dunque per nulla al mondo ti chie-

derei di infrangerlo, ma forse posso aiutarti a trovare conforto al grande dolore che vedo riflesso sul tuo viso.»

Entrarono in un caffè fuori dal Vaticano, dove a quell'ora non c'era mol-ta gente.

Padre Francesco guidò abilmente la conversazione su terreni che gli permettessero, senza che Gian Maria violasse il segreto, di farsi carico del-la tragedia che si era abbattuta sul giovane sacerdote.

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Dopo aver parlato per quasi un'ora, Gian Maria gli fece una domanda di-retta. «Padre Francesco, se lei sapesse che qualcuno sta per fare qualcosa di terribile, cercherebbe di fermarlo?»

«Naturalmente. Noi sacerdoti abbiamo l'obbligo di evitare il male.» «Ma dovrei allontanarmi da Roma e anche così non so se ci riuscirei...» «Però ci devi provare.» «Non so da dove cominciare...» «Sei intelligente, Gian Maria, sai che devi prendere una decisione e ave-

re ben chiaro in mente come affrontare quel male che vuoi impedire.» «Crede che i miei superiori mi lasceranno partire? Non so nemmeno

quanto tempo dovrò stare via...» «Parlerò io con padre Pio. È un vecchio amico, abbiamo studiato insie-

me in seminario. Gli chiederò di darti una dispensa perché te ne possa an-dare.»

«Grazie, padre. Davvero lo farà? Parlando con lei tutto sembra più faci-le.»

«Senz'altro ciò che ti tormenta non è facile da affrontare, ma almeno de-vi tentare. Prima di tutto ti devi tranquillizzare, poi riflettere...»

Mezz'ora più tardi padre Francesco tornava al suo confessionale in Vati-cano e Gian Maria camminava senza meta, in cerca di una soluzione.

Il convegno di archeologia era terminato e lui aveva ottenuto poche in-formazioni riguardo a quella donna. Nessuno pareva sapere nulla di lei: "È una sconosciuta" gli avevano detto alcuni; "Non è nessuno" avevano insi-stito altri. Era lì per suo marito, un certo Ahmed Husseini. D'un tratto si re-se conto che sapeva come rintracciarla. Era stato così ottenebrato pensando a lei da non accorgersi di avere sempre saputo dove si trovava.

Si sentì immensamente stupido e al tempo stesso felice. Sì, malgrado tutto, era felice. Come aveva potuto non capirlo prima?

Si appoggiò a una delle gigantesche colonne di piazza San Pietro. Era consapevole di dover prendere una decisione, non poteva rinunciare né tanto meno fare finta che non fosse successo niente.

Il marito, gli avevano detto, era il direttore del dipartimento di Scavi ar-cheologici dell'Iraq. Dunque, per trovarla, sarebbe bastato andare a Ba-ghdad. Il viaggio gli parve una vera penitenza, ma lui era obbligato a farlo, era un suo dovere.

Si diresse in un'agenzia di viaggi vicino al Vaticano e lì, timidamente, chiese un biglietto aereo per Baghdad.

Gli risposero che non c'erano biglietti per Baghdad; raggiungere l'Iraq

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non era facile. E poi, perché voleva andare proprio lì? Gian Maria non seppe cosa rispondere e improvvisò una bugia al riguardo: aveva amici che lavoravano in un'organizzazione non governativa e partiva per dare loro una mano. Gli impiegati lo guardarono meno diffidenti e gli promisero che avrebbero fatto quel che potevano.

Due ore più tardi uscì dall'agenzia con un biglietto aereo per Amman. Avrebbe viaggiato fino alla capitale giordana, dormito lì e poi proseguito per Baghdad. Una volta arrivato... si sarebbe affidato alle mani di Dio.

Tornò verso casa ed entrò senza fare rumore. Non voleva intrattenersi con nessuno né dare spiegazioni. Avrebbe atteso che padre Francesco par-lasse con padre Pio, il suo superiore. Quanto alla sua famiglia, sua sorella si sarebbe angosciata per la sua improvvisa partenza, ne era sicuro, ma non voleva congedarsi da lei perché gli avrebbe fatto troppe domande, a cui lui non avrebbe potuto rispondere. Non l'avrebbe fatto per nessun motivo.

Dunque, si chiuse in camera sua e, quando lo chiamarono per la cena, si scusò dicendo che non aveva fame ed era stanco. Non insistettero. Nella quiete della stanza scrisse una lettera per i suoi familiari in cui spiegava che si sarebbe preso una breve vacanza per riposare e riflettere. Sapeva di dar loro un dispiacere, ma non poteva fare altro. Avrebbe telefonato quan-do fosse giunto a destinazione, per dire che stava bene.

Lo svegliò il chiarore dell'alba. Non aveva tirato le tende. Quando aprì gli occhi ricordò ciò che aveva deciso di fare e iniziò a piangere in silen-zio. Il giorno prima tutto era parso più facile... ma alla luce della nuova giornata fu assalito da una montagna di dubbi. Guardò il cielo attraverso la finestra e per la prima volta si domandò dove fosse Dio.

Imbruniva quando l'elicottero atterrò in una base aerea prossima a Ba-

ghdad. «È stanco o vuole che ceniamo insieme?» domandò Ahmed. «Sono stanco, ma non ho nulla in contrario a cenare insieme. Mi farete

vedere le tavolette questa sera?» «Credo sia meglio domani, nel mio studio. Lì potrà esaminarle quanto

vorrà.» «D'accordo, verrò domani nel suo studio. Dove ceniamo?» «Se le va bene, passerò a prenderla tra un'ora. Malgrado l'embargo, c'è

ancora qualche ristorante dove si può mangiare, a Baghdad.» L'indomani, Clara non andò nello studio del marito. Il suo intuito le di-

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ceva che tra Ahmed e Picot si era stabilita una corrente di simpatia e di stima e che lei avrebbe potuto essere un fattore di disturbo. Decise dunque di passare la mattina a far compere con Fatima per le stradine del bazar. Le due donne erano protette da quattro uomini armati che non le perdevano di vista.

Fatima rimproverava Clara per la sua cocciutaggine a non volere figli. «Tuo marito un giorno ti lascerà, o porterà a casa un'altra donna affinché gli dia dei figli.»

«Il mondo è cambiato, Fatima. Gli uomini non vogliono solo quello da una moglie, e io sto per toccare il cielo con un dito. Ora non posso rimane-re incinta, non potrei partecipare agli scavi.»

«Sono anni che dici le stesse cose, non trovi mai il momento giusto per diventare madre. Tesoro, gli uomini sono uomini: non pensare che alcuni siano diversi solo perché hanno studiato o perché vivono in paesi con abi-tudini differenti. Il sangue chiede sangue, sia per dare la vita, sia per cerca-re vendetta o morte; in ogni caso, il richiamo del sangue qui lo sentiamo tutti.» Fatima indicò il proprio ventre davanti allo sguardo divertito di Cla-ra. «Sì, so che pensi che sono una povera vecchia ignorante, che non cono-sce le altre realtà, quei posti dove sei stata tu, ma non credere che lì le cose vadano tanto diversamente. E poi tuo marito è iracheno.»

«Ahmed è diverso, lui non è stato educato qui.» «Però è iracheno, e pure tu lo sei. Sei nata qui, anche se tua madre e tua

nonna sono egiziane.» Verso mezzogiorno Clara si diresse al ministero della Cultura mentre

Fatima, carica di borse della spesa, tornava alla Casa Gialla. Quando Clara giunse nello studio del marito, Ahmed e Picot stavano per

uscire. «Ehi, ve ne stavate andando senza aspettarmi!» «No, ti avremmo telefonato per darti un appuntamento direttamente al

ristorante» le spiegò Ahmed. Clara non osava domandare al professor Picot che cosa avesse deciso.

Non riusciva a intuire le intenzioni del francese ascoltando la conversazio-ne dei due, cosicché aspettò pazientemente che iniziassero a servire da mangiare.

«Questo è il miglior hummus d'Oriente» dichiarò Ahmed rivolgendosi a Picot.

«Sì, è buono» disse questi annuendo. I due uomini continuarono a parlare della bontà dell'hummus, senza fare

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mai riferimento né alle tavolette né alla decisione di Picot. «Che ne pensa delle tavolette, professore?» La domanda di Clara, diretta e senza preamboli, non colse alla sprovvi-

sta Picot; in realtà, se l'aspettava. «Straordinarie. Forse non è un azzardo stabilire una relazione tra l'A-

bramo della Bibbia e quello scriba di nome Shamas. Rappresenterebbe una scoperta di altissimo livello in campo scientifico e religioso. Vale davvero la pena di rischiare.»

«Allora, lei parteciperà agli scavi?» domandò timidamente Clara. «Diciamo che ho dei buoni argomenti per farlo. Ho già detto a suo mari-

to che gli darò una risposta tra una settimana al massimo. Domani parto, ma vi chiamerò. Questa sera faremo delle foto alle tavolette. Voglio stu-diarle con attenzione. Mi dispiace andarmene senza poter conoscere suo nonno.»

«È malato, non è in condizioni di vedere nessuno. O sta all'ospedale, o a casa, a letto. Mi dispiace, perché anche lui avrebbe voluto conoscerla.»

«Sarebbe interessante sapere in quali circostanze ha rinvenuto le prime tavolette.»

«Gliel'abbiamo già raccontato noi» rispose Clara, prudente. «Sì, ma non è lo stesso. Scusi se insisto, ma se le sue condizioni doves-

sero migliorare, mi piacerebbe incontrarlo.» «Glielo faremo sapere» rispose Ahmed. «Lo diremo a lui e ai suoi medi-

ci, dato che sono loro a decidere.» Yves Picot era ansioso di conoscere il nonno di Clara. Aveva l'impres-

sione che Ahmed e la moglie inventassero delle scuse per impedirgli d'in-contrare il vecchio e ciò stimolava ancora di più la sua curiosità. Nel caso in cui avesse deciso di tornare avrebbe insistito; al momento, non poteva fare altro che accettare le spiegazioni che gli venivano date.

Ahmed avvolse con cura le tavolette. Sapeva che Tannenberg le avrebbe

volute indietro non appena lui fosse tornato alla Casa Gialla. Il nonno di Clara non se ne separava mai, aveva addirittura fatto installare una cassa-forte in camera sua per conservarle accanto a sé. Solo Fatima poteva entra-re nella stanza di Tannenberg, solo di lei si fidava. Anni prima, un servo che lavorava alla Casa Gialla era stato bastonato per essersi introdotto nel-la camera da letto di Tannenberg. L'uomo non aveva fatto nulla, dunque, malgrado i colpi ricevuti, non aveva potuto confessare alcuna colpa, ma era stato licenziato senza tanti complimenti.

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Le tavolette erano per Tannenberg una specie di talismano. Erano diven-tate un'ossessione, e quest'ossessione era stata trasmessa a Clara.

Dopo avere avvolto le tavolette, Ahmed le depositò in una cassetta me-tallica adatta al trasporto.

«Perché Picot non avrà voluto cenare con noi stasera?» domandò Clara più a se stessa che al marito.

«Domattina partirà molto presto. Forse è stanco.» «Credi che tornerà?» «Non lo so; se fossi in lui, non lo farei.» Sul volto di Clara si disegnò una smorfia, come se qualcuno l'avesse

schiaffeggiata. «Ma che dici? Come puoi parlare così?» «È la verità. Credi che valga la pena di venire in un paese assediato a

cercare delle tavolette?» «Non si tratta di semplici tavolette, ma della Genesi secondo Abramo. È

come se qualcuno avesse detto a Schliemann che non valeva la pena di cercare Troia o a Evans che doveva rinunciare a trovare Cnosso. Che ti prende, Ahmed?»

«Ma non capisci, Clara? Non ti accorgi di cosa sta accadendo a questo paese? Non vedi la fame degli altri perché non ti riguarda. Non vedi l'an-goscia delle madri che sanno di avere i figli o i mariti spacciati per man-canza di medicine, perché a tuo nonno non mancano. Nella Casa Gialla il tempo si è fermato.»

«Che ti sta succedendo, Ahmed? Di cosa mi rimproveri? Hai iniziato a comportarti così a Roma, e da quando siamo tornati ho notato che sei sem-pre più a disagio e polemico con me. Perché?»

«Ne riparliamo più tardi. Questo non mi sembra il momento migliore.» «Sì, hai ragione, andiamo.» Uscirono dallo studio di Ahmed al ministero. Nell'ingresso c'erano quat-

tro uomini armati, gli stessi che accompagnavano Clara ovunque andasse. Quando giunsero alla Casa Gialla, fecero accuratamente in modo di evi-

tarsi. Clara andò in cucina a cercare Fatima, Ahmed si chiuse nel sito stu-dio. Infilò nello stereo il CD dell'Eroica di Beethoven, si servì un whisky con ghiaccio e, seduto in poltrona con gli occhi chiusi, cercò di fare un po' d'ordine dentro di sé. Aveva solo due possibilità: lasciare per sempre la Casa Gialla e andare in esilio, oppure continuare a morire dentro a poco a poco. Se fosse rimasto, avrebbe dovuto fare uno sforzo con Clara; lei non accettava compromessi, soprattutto nei sentimenti. Ma avrebbe potuto vi-vere con lei come se niente fosse, come se a lui non stesse succedendo nul-

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la? Aprì gli occhi e vide Alfred Tannenberg che lo stava scrutando. Lo

sguardo del vecchio era spietato e brutale. «Dimmi, Alfred.» «Che succede?» «Che cosa intendi dire? Di che parli?» «Dove sono le tavolette?» «Ah, le tavolette! Scusa se non te le ho portate subito, ma sono venuto

direttamente nel mio studio. Ho mal di testa e sono stanco.» «Problemi al ministero?» «È il paese ad avere problemi, Alfred. Ciò che accadrà al ministero è ir-

rilevante. Il fatto è che non ho più un lavoro. Non c'è niente da fare, per quanto continuiamo a fingere che tutto sia come prima.»

«Adesso ti sei messo a criticare Saddam?» «Non cambierebbe nulla, anche se lo facessi. Al massimo verrei denun-

ciato e sbattuto in galera.» «Non ci conviene che uccidano Saddam. Per i nostri affari è meglio che

le cose rimangano come sono.» «Questo è impossibile, Alfred, nemmeno tu potrai cambiare il corso del-

la storia. Gli Stati Uniti stanno per invadere l'Iraq e occuperanno il paese; gli americani ragionano come te: conviene ai loro affari.»

«No, non lo faranno, Bush è un imbecille che spende tutte le sue energie a fare minacce. Avrebbero potuto chiudere la partita con Saddam durante la guerra del Golfo e non ne hanno approfittato.»

«O non ci riuscirono o non vollero. Ma non importa quello che avrebbe-ro potuto fare allora; adesso attaccheranno.»

«Ti ho detto che non succederà» ribadì furioso Tannenberg. «Invece sì. E raderanno al suolo il paese. Noi combatteremo, prima con-

tro di loro, poi tra noi; sunniti contro sciiti, sciiti contro curdi, curdi contro qualche altra fazione, è uguale. Siamo condannati.»

«Ma come osi dire simili sciocchezze?» gridò Tannenberg. «Adesso ti è venuto il dono della profezia e ti metti a condannare tutti!»

«Lo sai meglio di me, altrimenti non staresti cercando di accelerare l'ini-zio degli scavi a Safran. Non commetteresti gli errori che sai di commette-re, non ti saresti esposto come hai fatto. Ho sempre ammirato la tua intelli-genza e il tuo sangue freddo; non deludermi dicendo che non accadrà nul-la, che questa non è altro che l'ennesima crisi politica.»

«Taci!»

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«No, è meglio che parliamo, che diciamo ad alta voce quello che non o-siamo neppure pensare, perché solo così potremo evitare di commettere più errori del necessario. Dobbiamo essere onesti l'uno con l'altro.»

«Come osi parlarmi così? Tu non sei nessuno, sei quello che io ho volu-to che fossi.»

«Sì, in parte hai ragione. Sono quello che tu hai voluto che fossi, non quello che vorrei essere. Ma siamo sulla stessa barca. Ti assicuro che non mi piace navigare con te in questo frangente, ma non ho altra scelta, e cer-co di evitare di naufragare.»

«Di' quello che devi dire. Può darsi siano le ultime parole che pronunci in questa casa.»

«Voglio sapere quali sono i tuoi piani. Tu hai sempre una via d'uscita, ma questa volta non capisco quale sia. Anche nel caso che Picot venga a scavare, potremo contare sulla sua presenza al massimo per sei mesi, e in questo lasso di tempo è impossibile ottenere dei risultati. Lo sai tanto quanto me.»

«Sto proteggendo Clara, le sto salvando la vita e le sto assicurando un futuro. E faccio bene, perché vedo che tu non sei in grado di occuparti di lei.»

«Clara non ha bisogno della protezione di nessuno. Tua nipote vale più di quanto tu sia disposto a riconoscere. Non ha bisogno di me né di nessun altro; l'unica cosa di cui ha bisogno è liberarsi di te, di me, di tutti noi, di uscire da questo tunnel.»

«Tu stai diventando matto.» La voce di Tannenberg era tornata dura co-me il ghiaccio.

«Non sono mai stato meglio. Immagino tu stia forzando le cose perché sai quanto me che all'Iraq restano pochi mesi di vita, poi non sarà più il pa-ese che abbiamo conosciuto e il futuro sarà quantomeno incerto, per usare un eufemismo. Per questo ti stai preparando a tornare al Cairo. Non rimar-rai qui quando inizieranno i bombardamenti, quando gli americani "faran-no l'appello" degli amici di Saddam. Ma, intanto, hai reso pubblico che e-siste una Bibbia d'argilla.»

«È l'eredità di Clara. Se trova la Bibbia d'argilla non dovrà più preoccu-parsi di nulla per il resto della sua vita. Avrà riconoscimenti internazionali, sarà l'archeologa che ha sempre voluto essere.»

«E tu che ruolo hai in questa storia?» «Io sto morendo, lo sai. Ho un tumore che mi sta divorando il fegato.

Non ho più niente da guadagnare, niente da perdere. Ho voluto sapere la

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verità dai medici; dunque, la verità è che presto me ne andrò. Morirò al Cairo, forse tra sei mesi, forse prima. Non è una grande novità visto che sto per compiere ottantasei anni. Ma non me ne andrò prima di avere tro-vato la Bibbia d'argilla. Anche se il paese è in guerra, sono disposto a cor-rompere chicchessia pur di avere uomini che lavorino notte e giorno a Sa-fran. Non li lascerò riposare fino a che non avranno trovato le tavolette che stiamo cercando.»

«E se non esistono?» «Esistono, ne sono sicuro.» «Magari sono in frantumi. Allora, che farai?» Tannenberg rimase in silenzio senza nascondere l'odio profondo che ini-

ziava a provare nei confronti di Ahmed. «Ecco cosa farò: inizierò a pro-teggere Clara. Non mi fido di te.»

Il vecchio si voltò e uscì dalla stanza. Ahmed si passò una mano sulla fronte. Sudava. La discussione con il nonno di Clara l'aveva sfinito.

Si servì un altro whisky e lo buttò giù d'un fiato. Se ne versò un terzo, ma questo decise di berlo lentamente, riflettendo.

10

Enrique Gómez passeggiava lungo il Parque Maria Luisa cercando l'om-

bra di quegli alberi centenari. Aveva un nodo allo stomaco da cui non era riuscito a liberarsi da quando aveva ricevuto le fotografie dell'esecuzione di quei due disgraziati.

Frankie aveva insistito perché si vedessero e George aveva finito per ac-cettare controvoglia.

Da quando si erano separati, più di cinquant'anni prima, si erano rivisti in poche occasioni. Forse questa sarebbe stata l'ultima, tenuto conto della loro età. La cosa sorprendente era che George aveva finito per accettare di incontrarli a Siviglia. Inizialmente si era opposto con tutta l'energia di cui era capace, ma Frankie aveva convinto George che a Siviglia sarebbero passati inosservati.

George si trovava a Marbella da un paio di giorni, a giocare a golf. Frankie era a Barcellona. Di lì a un'ora i tre amici si sarebbero incontrati nella penombra del bar dell'Hotel Alfonso XIII.

Emma, la moglie di Frankie, aveva insistito per alloggiare nell'hotel più prestigioso di Siviglia, frequentato da chi era qualcuno nel gotha o sulle pagine patinate delle riviste di moda.

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Rocío era inquieta. Da parecchi giorni non dava tregua a Enrique con domande che non ottenevano risposta. Fortunatamente quella sera era an-data a casa di sua sorella per assistere alle prove dell'abito da sposa della nipote. Enrique non le aveva detto che, all'imbrunire, aveva un appunta-mento all'Alfonso XIII.

George sarebbe arrivato in auto e poi avrebbe fatto ritorno a Marbella. Frankie sarebbe rimasto un paio di giorni come un qualunque turista mi-lionario di passaggio a Siviglia. Il loro incontro si sarebbe protratto solo il tempo necessario. Un'ora, due al massimo.

Enrique era uscito presto di casa perché aveva bisogno di prendere una boccata d'aria. Sentiva quel maledetto nodo allo stomaco. Aveva pranzato con Rodo e con suo figlio José; i nipoti Borja ed Estrella erano rimasti a Marbella a godersi le ultime giornate estive, che in Andalusia si trascinano fino a settembre. Il figlio gli aveva detto che lo vedeva preoccupato, e ciò aveva confermato i timori di Rocío.

Quando l'avevano lasciato solo all'ora della siesta, aveva cercato di dor-mire ma non ne era stato capace, quindi si era alzato e, appena aveva udito Rocío chiudere la porta di casa, era uscito pure lui. Aveva percorso le stra-dine strette e le piazzette raccolte del quartiere di Santa Cruz per cammina-re senza meta nel parco, in attesa dell'appuntamento con i suoi vecchi ami-ci.

George era seduto a un tavolo in un angolo appartato del bar. Enrique si

diresse verso di lui. A entrambi brillavano gli occhi. Erano emozionati di ritrovarsi dopo tanto tempo, ma non si abbracciarono, si strinsero solo la mano. Sapevano che non dovevano richiamare l'attenzione.

«Ti trovo in forma» gli disse George. «Anch'io.» «Ormai siamo vecchi; anche se tu meno di me.» «Di un anno, solo di un anno.» «E Frankie?» «Dovrebbe comparire da un momento all'altro; immagino sia alloggiato

qui.» «Sì, è ciò che mi ha detto, Emma ha insistito tanto.» «Va bene. Comunque da qualche parte ci dovevamo vedere. Cos'hai

pensato?» «Alfred è malato e sa che deve morire, è questione di mesi. Non gli im-

porta più di nulla, a parte sua nipote. Dunque sta agendo come un pazzo,

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senza considerare le conseguenze.» «Lo credo anch'io. Cosa pensi che voglia?» «Che sua nipote trovi la Bibbia d'argilla. Così la scoperta sarà sua e di

nessun altro.» «E quel tale che vuole assoldare? Picot?» «Non è concepibile eseguire scavi di quella portata senza dei professio-

nisti. Alfred può assoldare tutti gli operai necessari, ma ha bisogno di veri archeologi e in Iraq non ce ne sono.»

Frank Dos Santos entrò nel bar cercandoli con lo sguardo. Si diresse verso di loro senza scomporsi. Non porse nemmeno la mano, si sedette e fece un segno al cameriere per ordinare. «Sono contento di vedervi. Be', non credo che siamo tanto cambiati, abbiamo solo cinquant'anni in più» esordì sogghignando.

«Bene, possiamo consolarci dicendoci che ci troviamo in forma come cinquant'anni fa, ma abbiamo l'età che abbiamo, siamo sulla linea d'arrivo» replicò George Wagner. «Allora, che te ne pare del comportamento di Al-fred?»

«Ah, Alfred! Sta facendo quello che farebbe un uomo disperato. I tuoi amici del Pentagono tireranno il collo a Saddam. Non sappiamo nemmeno se tra qualche mese l'Iraq esisterà ancora, dunque non ha scelta: o trova la Bibbia d'argilla ora o non sarà mai sua» rispose Frank.

«Avremmo potuto cercarla dopo la guerra» borbottò George. «Le guerre si sa quando iniziano, ma non quando finiscono.» L'afferma-

zione di Enrique Gómez fu tagliente e i suoi due amici annuirono. «Quan-do cominceranno a bombardare?»

«A marzo, al più tardi» rispose George. «Siamo a settembre» intervenne Frank «restano al massimo sei mesi, per

trovare la Bibbia d'argilla.» «Se due mesi fa gli americani non avessero bombardato fra Tell Mugha-

yir e Bassora, l'edificio non sarebbe stato scoperto; il destino ha voluto che accadesse ora» disse Gómez. «Bene, che facciamo?»

«Se Alfred riesce a trovare delle tavolette intatte, o almeno che si possa-no ricostruire, passerà agli annali delle scoperte archeologiche. Non c'è bi-sogno di ricordare il valore di quei reperti sul mercato. Senza contare le pressioni che farà il Vaticano per impossessarsene, se consideriamo che sono la prova dell'ispirazione divina del patriarca Abramo. La Genesi rac-contata da Abramo è una scoperta straordinaria. Quell'idiota di Bush sa-rebbe capace di regalarle al Vaticano come gesto di amicizia, dato che il

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papa è contrario alla guerra.» La riflessione di George lasciò pensierosi i due amici. «Se Alfred le trova» intervenne Frank «non sarà per lasciarle a Bush,

quindi...» «Quindi farà l'impossibile per sfruttare il poco tempo a disposizione» lo

interruppe George. «Ma perché ha mandato allo sbaraglio la nipote?» Fu Enrique Gómez a rispondere. «Perché nessuno possa soffiargli le ta-

volette. Adesso tutti gli archeologi del mondo sanno che in Iraq un gruppo locale capitanato da Ahmed Husseini e dalla sua stravagante moglie ha trovato i resti di un tempio o di un palazzo dove potrebbero essere conser-vate delle tavolette dettate da Abramo in persona. Qualsiasi cosa succeda, ormai nessuno potrà più rivendicarne la scoperta. Per questo ha ideato la sceneggiata di Roma.»

«Rischia parecchio» osservò Frank. «Sì, ma sta morendo, dunque non gli restano molte alternative» insistette

Gómez. «Bene, George, i tuoi sanno chi ha contattato gli italiani?» George scosse il capo. «No, non siamo riusciti a scoprirlo. Sappiamo che

erano uomini di un'agenzia che si chiama Investigazioni e Sicurezza. Qualcuno li ha ingaggiati per pedinare Clara Tannenberg, ma i miei uomi-ni non hanno trovato nulla nei loro archivi, non un documento, non un rife-rimento. Nulla. Il contratto dev'essere stato stipulato attraverso il presiden-te, o qualche dirigente, qualcuno che non dovesse dare spiegazioni, solo ordini. Per adesso non possiamo più ficcare il naso. Il responsabile della Investigazioni e Sicurezza è un vecchio poliziotto dell'antimafia, pluride-corato e con amici in tutti i settori della polizia. Se commettiamo un errore, avremo la polizia italiana alle calcagna.»

«Però abbiamo bisogno di sapere chi ha assoldato quegli uomini e per-ché, altrimenti lasciamo un fianco scoperto» insistette Frank.

«Sì, è vero; per questo vi ho detto che occorre rinforzare le misure di si-curezza e non commettere errori. O ci sono degli infiltrati, oppure Alfred ha ingannato più del dovuto qualche socio locale che ora si vuole vendica-re» spiegò George.

«C'è un buco nero che non siamo capaci di sondare.» Enrique Gómez non poteva nascondere l'angoscia, che si traduceva in un perenne nodo alla bocca dello stomaco.

«Hai ragione» assentì George. «C'è un buco nero e dobbiamo far luce. Per la prima volta è successo qualcosa che non riusciamo a controllare. Con Alfred è diverso: siamo in grado di tenerlo d'occhio, ed è ciò che fa-

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remo. A proposito, credete che potremo contare sul marito della nipote, Ahmed Husseini? Quel tipo mi pare una pedina fondamentale. I nostri uo-mini sanno che Husseini è stanco di sua moglie e di Alfred, che non porta più rispetto al nostro vecchio amico e pare che qualche giorno fa l'abbiano sentito urlare. Il marito di Clara è un uomo coraggioso e intelligente.»

«Temo che la sua coscienza si stia risvegliando» sottolineò Frank. «Al-meno è ciò che si deduce dal dossier che abbiamo letto tutti sugli ultimi giorni alla Casa Gialla. Non c'è nessuno di più pericoloso di chi decide di ribellarsi all'ultimo momento. Farà qualsiasi cosa per scrollarsi di dosso il passato.»

«Allora non c'è da fare affidamento su di lui; potremo solo usarlo» af-fermò George senza riserve. «Adesso voglio che ascoltiate che cosa ho pensato di fare. Amici miei, questa è quasi sicuramente l'ultima volta che ci vedremo ed è importante trovarsi d'accordo su ogni passo che stiamo per compiere. C'è parecchio in ballo.»

«Per esempio, il fatto di poter morire tranquillamente ciascuno a casa propria il giorno che ci toccherà» disse Frank.

Enrique Gómez sentì un'altra fitta allo stomaco. I tre uomini continuarono a parlare. George consegnò agli amici una car-

tellina gonfia di fogli. Erano passate le dieci e mezzo di sera quando diedero per conclusa la

conversazione. Avevano bevuto parecchi whisky accompagnati da assaggi di formaggio e prosciutto. Enrique aveva risposto a due telefonate impa-zienti di Rocío che gli domandava come stava e se sarebbe tornato per ce-na. Frank avvisò Emma di avviarsi senza di lui nel locale dove avevano ri-servato un tavolo insieme ad altri turisti che facevano parte dello stesso gruppo in viaggio in Spagna.

"Io non devo dare spiegazioni a nessuno" pensò George. Si sentiva sod-disfatto della sua scelta di rimanere da solo, e non aveva mai provato il bi-sogno di avere qualcuno accanto. I capelli bianchi gli conferivano la rispet-tabilità che tutti si aspettavano da un uomo della sua posizione. Gli era co-stato molto difendere la propria solitudine, soprattutto dagli attacchi degli amici che insistevano perché si trovasse una compagna. Ma lui era stato ir-removibile e non aveva ceduto. Viveva con una corte di domestici e mag-giordomi che si prendevano cura di lui con discrezione, senza mai scon-volgere le sue abitudini. Non gli serviva altro.

George fu il primo ad andarsene. Si diresse verso l'auto che aveva no-leggiato a Marbella; data l'età aveva avuto parecchi problemi con la paten-

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te, ma non c'è nulla che riesca ad aggirare gli ostacoli come il denaro, so-prattutto in una città come Marbella. Aveva potuto quindi noleggiare una comoda Mercedes Benz ultimo modello. La tecnologia tedesca era ancora la migliore.

Frank fece chiamare un taxi dalla reception mentre Enrique Gómez u-sciva nell'afa notturna, deciso a tornare a casa a piedi, nel quartiere di San-ta Cruz.

Il nodo alla bocca dello stomaco lo opprimeva al punto di non lasciarlo respirare. Neppure l'incontro con i suoi vecchi amici l'aveva calmato. Al contrario, l'aveva costretto ad affrontare di nuovo il proprio passato. Loro erano lo specchio della realtà, una realtà della quale suo figlio José e i suoi stravaganti nipoti erano all'oscuro, ma che Rocío non ignorava. Per questo Enrique era consapevole che non avrebbe mai potuto ingannare sua mo-glie. Lei lo conosceva bene, sapeva meglio di tutti che tipo di uomo era.

11

Carlo Cipriani scorreva il giornale senza alzare la testa per non farsi in-

nervosire da Mercedes, che camminava senza sosta avanti e indietro nella sala d'attesa.

Hans Hausser aveva acceso la sua vecchia pipa e lasciava vagare lo sguardo tra le volute di fumo in cui parevano perdersi i suoi pensieri. In-tanto, Bruno Müller se ne stava seduto senza osservare nessuno dei com-pagni.

Luca Marini aveva dato loro appuntamento per l'una; era già l'una e mezzo e la segretaria non aveva dato alcuna spiegazione, non sapevano nemmeno se Luca si trovasse in ufficio.

«Ho appena avuto un incontro con il prefetto. Avrei preferito evitarlo» furono le sue prime parole quando arrivò.

«Cos'è successo?» domandò Carlo. «Il governo non crede alla versione irachena, che è quella che va bene a

noi. Ha bisogno di accentuare i toni perché vuole convincere gli italiani che Saddam è un mostro. Dunque, sta preparando il terreno affinché l'opi-nione pubblica lo appoggi nel caso in cui decida di mandare truppe in Iraq. Questa è una vicenda che può tornare utile al governo: per questo è stata divulgata e trasmessa dalle televisioni.»

«Mi spiace, amico mio» riuscì a dire Carlo Cipriani. «Ti abbiamo messo in un bel pasticcio.»

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«Se potessimo dire la verità...» replicò Luca. «Se mi rivelaste di che co-sa si tratta...»

«Per favore, non insistere» gli chiese Carlo Cipriani sconsolato. «Va bene, vi spiegherò come stanno le cose. Prima di vedere il prefetto,

ho incontrato degli amici della polizia. Mi hanno chiesto quello che io chiedo a voi, di dire la verità, per potermi coprire. Ho quindi riferito loro la versione che avevamo concordato e mi hanno guardato come se li stessi prendendo in giro. Mi hanno fatto pressioni, certo, ma ho mantenuto la pa-rola; ho addirittura scherzato con loro asserendo che, per quanto possa ap-parire assurda, è la verità. Non so se si metteranno in contatto con lei, Mercedes; è possibile, anche solo per soddisfare la curiosità di conoscere una donna che manda degli investigatori privati in Iraq. Quanto a te, Carlo, il prefetto ti conosce di fama, dunque non credo che ti daranno fastidio.»

«Noi non abbiamo commesso alcun delitto» disse Mercedes in tono sec-cato.

«Naturalmente no, né voi, né io, ma ci sono due cadaveri e nessuno sa perché quegli uomini sono morti. Be', suppongo che voi lo sappiate o quantomeno lo sospettiate. Sicuramente i miei amici poliziotti staranno chiedendo ai loro colleghi spagnoli informazioni su di lei, Mercedes. Sic-come immagino che dalla Spagna diranno che lei è una persona integerri-ma, ci lasceranno in pace. Tuttavia, non mi sento tranquillo, perché il pre-fetto mi ha riferito che il ministro vuole sapere tutto; ha preso a cuore que-sto caso. Personalmente non ho mai visto un politico commosso per una tragedia; penso piuttosto, come ho già detto, che qualcuno creda di poter approfittare politicamente di questa storia, ma per farlo ha bisogno di co-noscere la verità.»

«Che non vi riveleremo mai» affermò il professor Hausser. «Credo sia meglio tornare a casa» propose Bruno Müller. «Sì, è meglio» convenne Luca annuendo. «Dal momento che sono certo

che ci stanno seguendo tutti, vi consiglio di non uscire insieme, ma uno per volta. Mi spiace, ma penso che qualcuno di voi dovrà fermarsi a mangiare qui, e così...»

«Di chi non si fida?» domandò Mercedes. «Ah, l'intuito femminile! Per principio, mi fido dei miei collaboratori;

molti lavoravano con me in Sicilia, altri sono giovani preparati, che ho se-lezionato personalmente. Ma questo caso è diverso. Ci conosciamo tutti: i vecchi colleghi poliziotti conoscono i miei uomini dell'agenzia. Non so quale sia il grado di amicizia che li unisca, per cui è sempre possibile che

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sia filtrato qualcosa. Comunque, ormai non si può più fare nulla.» «Come ci consiglia di agire?» Bruno Müller era evidentemente a disa-

gio. «Signor Müller» rispose Marini «la cosa migliore è comportarsi nor-

malmente. Non dicevate di non aver fatto niente di male? E allora conti-nuate a crederlo; non avete fatto nulla, dunque non dovete comportarvi di-versamente dal solito.»

«Volevo che venissero a cena da me, per salutarci» disse Carlo. «Amico mio, se fossi in te rinuncerei all'idea della cena d'addio. Il pro-

fessor Hausser e il maestro Müller dovrebbero tornare a casa loro. Quanto alla signora Barreda, mi sembra più opportuno che rimanga a cena da te e anche che si fermi a Roma ancora un paio di giorni. Mi dica, Mercedes, che cosa racconteranno in Spagna sul suo conto?»

«Che sono una vecchia eccentrica, un'imprenditrice edile che sale sulle impalcature e conosce i propri operai personalmente. Non ho mai avuto problemi con la giustizia, nemmeno una multa per divieto di sosta.»

«Una persona integerrima» mormorò Luca Marini. «Le assicuro che lo sono.» «Mi hanno fatto sempre paura le persone integerrime» affermò l'ex poli-

ziotto. «Perché?» volle sapere il professor Hausser. «Perché nascondono tutte qualcosa, anche se in fondo al cuore.» Rimasero in silenzio per qualche secondo, ciascuno assorto nei propri

pensieri. Poi il professor Hausser riprese in mano la situazione. «Visto che le cose stanno così, meglio affrontarle. Lei, signor Marini, continuerà a di-re la verità, perché, anche se non ci crede, è ciò che ha fatto finora.»

«No, non ho detto tutta la verità» protestò Luca. «Sì, ha raccontato tutto quello che sa; ciò che non può raccontare è ciò

che ignora» affermò il professore. «Quanto a noi, dovremmo parlare prima di separarci. Bruno, credo che tu esageri quando dici che ce ne dobbiamo tornare tutti a casa. Lo faremo, certo, ma non subito, non scappando come dei fuggiaschi. Siamo tutte persone anziane rispettabili, vecchi amici. Dunque, Carlo, se mi inviti a cena io verrò più che volentieri a casa tua, e credo che dovremmo farlo tutti. Se la polizia vorrà parlare con noi, diremo la verità: siamo un gruppo di amici che si sono ritrovati a Roma e Merce-des, che è molto audace, ha deciso che l'Iraq è un buon posto per fare affa-ri, perché appena finirà la guerra bisognerà ricostruire ciò che gli america-ni distruggeranno. Non c'è nulla di male se lei, che possiede un'impresa di

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costruzioni, è interessata a qualche buon investimento. Che io sappia, non ha mai partecipato a un corteo con in mano uno striscione contro la guerra, o invece l'hai fatto, tesoro?»

«No, non ancora, anche se in realtà pensavo di partecipare alle manife-stazioni che stanno organizzando a Barcellona» spiegò Mercedes.

«Bene, non ci andrai» affermò il professor Hausser. «Sarà per un'altra volta.»

«Lei mi stupisce, professore» disse Luca. «Sembra che non mi abbia sentito: il prefetto vuole che si apra un'inchiesta, perché questi sono gli or-dini dall'alto.»

«L'Italia è uno Stato di diritto, dunque se un caso non c'è, non se lo pos-sono inventare» insistette il professor Hausser.

«Ma il caso esiste: abbiamo due cadaveri» replicò Marini, arrabbiato. «Basta!» esclamò Carlo Cipriani. «Io la penso come Hans; non dobbia-

mo comportarci come criminali, dal momento che non abbiamo fatto nulla. Noi non abbiamo ammazzato nessuno. Se è necessario, parlerò con alcuni amici del governo che sono miei pazienti. Ma non agiremo come se fossi-mo delinquenti, fuggendo o uscendo da questi uffici separatamente. No, mi rifiuto di avere sensi di colpa. E tu, Bruno...»

«Sì, hai ragione, non sono ancora riuscito a levarmeli di dosso.» «Vi vedo determinati... Bene. Meglio così. Per me il caso è chiuso, salvo

che i miei vecchi colleghi mi cerchino ancora o che non ci si debba rivede-re tutti in televisione. Se ci saranno novità, vi chiamerò.»

Si salutarono senza aggiungere altro. In strada, Carlo propose di andare a pranzo da lui.

«Telefono per farci preparare qualcosa. A casa staremo più tranquilli.» Mangiarono praticamente in silenzio, scambiandosi qualche banalità

mentre la governante di Carlo Cipriani serviva loro un pranzo improvvisa-to.

Quando passarono in salotto per il caffè, Carlo chiuse la porta e chiese di non essere disturbato. «Dobbiamo prendere una decisione» affermò.

«È già stata presa» gli ricordò Mercedes. «Bisogna contattare una di quelle società di cui abbiamo parlato e mandare un professionista che trovi Tannenberg e faccia quel che deve fare. Non c'è altro da aggiungere.»

«Siamo ancora tutti d'accordo riguardo a questo?» domandò Cipriani. La risposta affermativa dei tre amici non si fece attendere. «Ho il numero di telefono di una società di Londra, la Global Group. Il

titolare, un certo Tom Martin, è amico di Luca. Mi ha detto lui di chiamar-

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lo.» «Carlo, non so se è una buona idea mettere ancora Luca in mezzo a que-

sta storia.» «Forse hai ragione, Hans, ma non conosciamo nessun altro che se ne

possa incaricare; dunque, io sono dell'idea di chiamare questo Tom Martin: spero che Luca mi perdoni.»

«Dovresti avvisarlo che contatterai Tom Martin e, se ti chiede di lasciar perdere, cercheremo qualcun altro. Luca è un tuo amico, non devi metterlo con le spalle al muro.»

«D'accordo, Hans, lo chiamerò. E lo farò adesso.» «Non siate stupidi» li interruppe Mercedes. «Lasciamo in pace Luca, ne

ha avuto abbastanza di noi. Possiamo contattare quella società senza fare il suo nome, senza comprometterlo. Se Luca ti ha detto che Tom Martin è la persona giusta cui rivolgersi, non pensiamoci più.»

«Ma lui non sa esattamente quello che vogliamo» precisò Carlo. «Be', immagino che tu non gli abbia detto che abbiamo intenzione di uc-

cidere un uomo. Dobbiamo reagire. È ovvio che siamo angosciati per l'as-sassinio di quei due ragazzi, ma abbiamo sempre saputo che non sarebbe stato facile realizzare i nostri piani, che qualcuno avrebbe potuto lasciarci la pelle, che avrebbero anche potuto ucciderci. È tutta la vita che ci stiamo preparando a questo momento. So che ci siamo immaginati mille si-tuazioni e che nessuna è come quella che stiamo vivendo, ma sono certa che saremo in grado di far fronte all'emergenza.»

Furono d'accordo di chiamare Tom Martin. L'avrebbe fatto Hans Haus-ser: avrebbe preso un appuntamento e sarebbe andato a Londra a trovarlo. L'incarico che intendevano affidargli era semplice: avrebbe dovuto manda-re un uomo in Iraq. Sapevano già dove viveva Clara Tannenberg, dunque, attraverso di lei, presto o tardi questi sarebbe arrivato ad Alfred. Poi, do-veva trovare il momento giusto per ucciderlo. Per un professionista ciò non avrebbe rappresentato un problema.

Bruno insistette nella sua decisione di tornare a Vienna quanto prima. A Roma non si sentiva tranquillo.

«Per evitare intercettazioni telefoniche dovremo fare a meno di usare i nostri apparecchi» propose il professor Hausser. «Potremmo comprare dei cellulari con la scheda e usarli una volta sola.»

«E come ci comunicheremo il numero?» domandò Mercedes. «Cerchia-mo di non diventare paranoici, per favore.»

«Hans ha ragione» disse Carlo. «Dovremmo stare attenti. Stiamo per uc-

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cidere un uomo.» «Stiamo per uccidere un porco» esclamò Mercedes con rabbia. «Comunque, non mi pare una cattiva idea quella dei cellulari» insistette

Carlo. «Troveremo il modo di comunicarci il numero, magari attraverso la posta elettronica.»

«Ma se intercettano le telefonate, possono farlo anche con la posta elet-tronica. Internet è il posto meno sicuro per conservare un segreto.»

«Ah, Bruno, non essere così pessimista!» lo rimproverò Mercedes. «Che io sappia, si possono creare account fittizi su Internet. Hotmail, la posta gratuita di Microsoft, lo permette. Dunque, se ciascuno di noi aprirà un in-dirizzo su Hotmail, potremo mandarci i numeri di telefono e metterci in contatto. Però dovremo essere comunque prudenti, perché neanche Hot-mail è sicuro. Chiunque potrebbe leggere la nostra posta, dunque occorrerà essere abbastanza criptici nell'inviarci messaggi.»

Dedicarono parte del pomeriggio a decidere i nomi che avrebbero utiliz-zato nelle comunicazioni via Internet e il professor Hans Hausser ideò un codice cifrato in cui le lettere avrebbero rappresentato dei numeri, quelli dei cellulari che avrebbero di volta in volta acquistato e di cui poi si sareb-bero disfatti una volta utilizzati.

Era tardi quando i quattro amici si separarono abbracciandosi calorosa-mente. Il giorno dopo, Bruno e Hans avrebbero lasciato Roma. Mercedes si sarebbe fermata ancora un paio di giorni per non dare l'impressione, se la polizia l'avesse pedinata, di essere in fuga.

Robert Brown aspettava impaziente che Ralph Barry terminasse di parla-

re al telefono. Quando riagganciò gli domandò nervoso: «Ebbene, che cosa farà Picot?».

«Il mio contatto mi assicura che Picot è tornato dall'Iraq molto impres-sionato, che non fa che ripetere che sarebbe una pazzia andare a scavare ora, che non c'è tempo, che in sei o sette mesi non si riuscirebbe a conclu-dere niente; inveisce contro Bush e Saddam, dicendo che sono uno peggio dell'altro.»

«Non mi hai risposto, Ralph, voglio sapere se ci andrà o no.» «Non l'ha detto, ma pare che non scarti l'idea. Per il momento è andato a

Madrid.» «Continui a non rispondere.» «Perché non so che cos'abbia deciso di fare.» «Potremmo impiegare gli uomini di Dukais in questa spedizione?»

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«Tu credi che i gorilla di Dukais possano farsi passare per studenti di ar-cheologia? Su, Robert, rifletti!»

«Certo che rifletto! E ho bisogno di uomini per questi scavi, sicché Du-kais dovrà procurarmene di adatti.»

«E con conoscenze di storia, geografia, geologia eccetera. I suoi gorilla non sanno nemmeno dov'è la Mesopotamia.»

«Allora dovranno fare un corso accelerato, studiare giorno e notte, impa-rare. Riceveranno una gratifica se riusciranno a farsi passare per studenti o professori.»

«Attento, Robert! Sai che nel mondo accademico ci conosciamo tutti. Non puoi camuffare un mercenario da intellettuale, lo scoprirebbero subi-to.»

Robert Brown aprì di colpo la porta dell'ufficio facendo sussultare il se-gretario, discreto ed efficiente.

«Qualcosa non va, signor Brown?» domandò Smith. «Dukais non è ancora arrivato?» «No, signore, se fosse arrivato l'avrei avvisata.» «A che ora gli ha fissato l'appuntamento?» «Per l'ora che mi ha detto lei, signore, alle quattro.» «Sono le quattro e dieci.» «Sì, signore, sarà in ritardo a causa del traffico.» «Quel Dukais è un imbecille.» «Sì, signore.» La figura imponente di Paul Dukais apparve sulla soglia dell'ufficio di

Smith prima che Robert Brown fosse tornato nel proprio. «Finalmente!» «Robert, il traffico di Washington è infernale a quest'ora; tutti tornano a

casa.» «Saresti dovuto uscire prima.» «Ultimamente non riesci a controllarti» replicò freddo il presidente della

Planet Security. Nell'ufficio di Brown, dopo che si erano serviti un whisky, Ralph Barry

cercò di attenuare la tensione tra i due uomini. «Paul, Robert vuole manda-re degli uomini nella spedizione archeologica che Yves Picot dovrebbe or-ganizzare. Ti farò avere un dossier con tutto ciò che devi sapere su Picot, ma per adesso ti posso dire che è francese, ricco, ex professore di Oxford, donnaiolo e avventuriero, ma conosce il suo mestiere e tutti quelli del ra-mo.»

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«Sembra un tipo in gamba.» «Lo è, infatti. Ci servono uomini che sappiano fare qualcosa di più che

leggere e scrivere; devono essere universitari, gente che sia in grado di par-lare con disinvoltura dei campus in cui ha studiato. Non possono essere americani, devi cercarli in Europa o magari in qualche paese arabo, ma non qui.»

«Quindi, devono conoscere il mestiere e saper fare un po' di tutto, no?» domandò con ironia Dukais.

«Esattamente.» Il tono della risposta di Robert non lasciava dubbi sul suo umore.

«A proposito, Robert, sono pronte le squadre di uomini che mi avevi chiesto di mandare sulle linee di confine irachene. Attendiamo un tuo or-dine.»

«Dovranno aspettare ancora qualche tempo. Prima mi sta a cuore risol-vere questo problema.»

«Non saprei, Robert, non conosco nessun universitario che faccia il mer-cenario nel tempo libero. Cercherò nell'ex Iugoslavia; forse lì riuscirò a trovare qualcuno.»

«Buona idea! Lì si ammazzano fin da bambini; ci saranno universitari che hanno partecipato ai massacri e vogliono guadagnarsi qualche soldo.»

«Sì, Robert, credo che ne troveremo.» Ralph Barry li ascoltava con un misto di ammirazione e repulsione. Da

tempo avevano comprato la sua coscienza e l'avevano valutata parecchi soldi. Non si stupiva più di quanto ascoltava, benché Robert lo sorprendes-se sempre. Era Giano, il dio dai due volti. Pochi conoscevano le due facce. Chiunque avrebbe detto che era un uomo educato e squisito, colto e raf-finato, in grado di adempiere ai propri doveri e, naturalmente, incapace addirittura di passare col rosso. Ma Ralph conosceva un altro Brown, un uomo crudele, senza scrupoli, a volte volgare, avido di denaro e di potere. Quello che non era mai riuscito a scoprire era il nome del suo mentore. Robert a volte si riferiva a lui come al suo mentore, ma non gli aveva mai rivelato chi fosse né che cosa facesse, benché lui sospettasse che potesse trattarsi del potente George Wagner, l'unico uomo davanti a cui Brown tremava. Non gliel'aveva mai chiesto; sapeva che a quella domanda non avrebbe ottenuto alcuna risposta, e la dote che Robert apprezzava di più era la discrezione.

Paul disse loro che li avrebbe chiamati non appena avesse trovato gli uomini giusti, ammesso che ci riuscisse.

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Picot riprese a proiettare le diapositive che aveva scattato alle tavolette e

le esaminò con occhio critico. Accanto a lui, Fabián lo osservava di sottec-chi. Sapeva che stava prendendo una decisione, e che probabilmente non sarebbe stata quella giusta, ma il suo amico era fatto così. Si conoscevano dagli anni in cui Yves Picot insegnava a Oxford e Fabián faceva un dotto-rato sulla scrittura cuneiforme. Avevano simpatizzato immediatamente perché i due erano come corpi estranei in quell'antica università.

Picot era un professore francese a contratto, Fabián uno studioso spa-gnolo che si era trasferito in Inghilterra per specializzarsi in una materia di cui si occupavano fior di intellettuali. I due avevano qualcosa in comune: erano innamorati della Mesopotamia, un luogo trasformato in Iraq dal co-lonialismo inglese.

Fabián ricordava l'impressione che gli aveva procurato il Codice di Hammurabi quando l'aveva visto al Louvre. Aveva dieci anni ed era la sua prima visita a Parigi. Per mano a suo padre, ascoltava le spiegazioni che lui gli dava. Dopo avere visto tante meraviglie tutte insieme, quando erano entrati nelle sale della Mesopotamia, Fabián aveva sentito risvegliarsi un inaspettato interesse. Ciò che lo aveva lasciato definitivamente a bocca a-perta era stato sentire che su quel pezzo di pietra di basalto erano scritte leggi antichissime, che si fondavano sulla legge del taglione. Suo padre gli aveva spiegato che la regola numero centonovantasei del codice recitava: "Se un uomo ha cavato un occhio a un altro, gli verrà cavato un occhio". Quel giorno aveva deciso che sarebbe diventato archeologo e avrebbe sco-perto regni perduti in Mesopotamia.

«Ti decidi o no?» «È una pazzia» rispose Picot. «Certo, ma ora o mai più. Vedremo ciò che rimarrà dopo la guerra.» «Se ci fidiamo delle parole di Bush, l'Iraq diventerà l'Arcadia, dunque

potremo andare a scavare come se fosse una passeggiata.» «Ma né tu né io crediamo alle parole di Bush. Sono sicuro che dopo

questa guerra l'Iraq farà la fine del Libano. Conosci l'Oriente, sai quello che sta accadendo: non ci sarà un'entrata trionfale dei ragazzi a stelle e strisce. Gli iracheni odiano Saddam, ma odiano anche gli americani; in re-altà, in Oriente odiano tutti gli occidentali e in parte hanno ragione. Non gli abbiamo dato niente, abbiamo mantenuto regimi corrotti, gli abbiamo venduto quello di cui non avevano bisogno, non siamo stati capaci di favo-rire lo sviluppo di un ceto medio e di intellettuali e loro sono sempre più

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poveri e sfruttati. I fanatici religiosi si stanno dando da fare per bene: aiu-tano nei quartieri più poveri, insegnano gratuitamente nelle madrase, han-no costruito ospedali per curare chi non può pagarsi medici né farmaci... L'Oriente sta per scoppiare.»

«Già, ma quello che dici non si può applicare a tutto l'Iraq. Ti ricordo che Saddam ha imposto un certo laicismo. Il problema è il petrolio; gli Sta-ti Uniti devono tenere sotto controllo le fonti di energia e sono pronti a creare dei mostri per poi offrirsi di distruggerli.»

«L'Oriente è sempre più povero.» «Fabián, smetterai mai di essere un ragazzo di sinistra?» «Ormai sono troppo grande per sentirmi dare del ragazzo; quanto all'es-

sere di sinistra, forse hai ragione... Di certo non smetterò mai di guardare in faccia la realtà, anche se fosse dal divano più comodo di casa.»

«Tu che faresti al mio posto?» «Quello che pensi di fare tu, anche se è una follia: andrei in Iraq. E

quando scoppierà la guerra, sarà finita.» «Se bombardano, ci faranno tutti secchi.» «Sì, è possibile; il problema è riuscire ad andarsene almeno cinque mi-

nuti prima.» «Chi ci appoggerà?» «Nessuno, dovremo fare tutto da soli. Non credo che nella mia universi-

tà, o in altre, ci darebbero anche solo un soldo bucato per mandarci in Iraq. In Spagna la maggioranza è contraria alla guerra, ma scavare in Iraq signi-ficherebbe buttare via il denaro per un capriccio.»

«Dunque, i soldi ce li metto io.» «E io ti aiuto a formare la squadra. All'università Complutense ci sono

un sacco di studenti dell'ultimo anno che darebbero qualsiasi cosa per po-ter partecipare a degli scavi, anche in Iraq.»

«Mi hai sempre detto che in Spagna non esistono grandi specialisti sulla Mesopotamia.»

«Infatti non ce ne sono, ma abbiamo moltissimi allievi desiderosi di po-ter raccontare un'esperienza da archeologo. Anche tu ne hai.»

«Non sono così sicuro che troveremo qualcuno che ci voglia accompa-gnare in questa avventura. Chiederai un anno sabbatico?»

«Io non sono ricco come te e ho bisogno di uno stipendio alla fine del mese, dunque parlerò con il rettore per vedere come organizzarmi. Quando potremmo partire?»

«Subito.»

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«Quand'è subito?» «La settimana prossima o al più tardi quella successiva. Non c'è tempo

da perdere.» «Dovremmo organizzare una spedizione archeologica di questa portata

in due settimane?» «Certamente è impossibile, ma tanto è una pazzia...» «E allora, se è una pazzia, buttiamoci, e vediamo che cosa succederà.» I due amici scoppiarono a ridere e batterono le palme delle mani come

fanno i giocatori di pallacanestro. Poi andarono a festeggiare bevendo nei bar del Barrio de las Letras, il quartiere di Madrid che non dorme mai, in cui avevano stabilito la propria residenza studenti, artisti, scrittori, pittori.

Passarono gran parte della notte in bianco. Prima mangiucchiarono in qualche bar, poi andarono ad ascoltare musica nelle caffetterie, a bere nei locali, e parlarono e risero con tutti quelli che incontravano in quei luoghi in cui la notte stabilisce un'intimità che svanisce con i primi raggi del sole, quando ognuno torna alle proprie occupazioni.

Yves si alzò prima di Fabián. Immaginava che il suo amico stesse anco-ra dormendo fra le braccia della giovane che aveva incontrato nell'ultimo bar, con la quale, da quanto Picot aveva capito, Fabián aveva intrecciato una relazione. La ragazza pareva avere un carattere terribile; aveva violen-temente rimproverato Fabián per non averle telefonato quella sera come avrebbe dovuto fare, ma alla fine tutto si era risolto e ora erano lì, che dormivano insieme.

Lui si fermava spesso nell'attico di Fabián. Dalla terrazza si vedevano i tetti della città. L'appartamento aveva una stanza riservata agli amici che capitavano a Madrid, e Yves la considerava un po' sua, poiché appena po-teva si rifugiava in quella città aperta e allegra dove nessuno vuole sapere chi sei né da dove vieni.

Si sedette alla scrivania del suo amico e cercò di telefonare in Iraq. Im-piegò qualche istante prima di mettersi in comunicazione con Husseini. «Ahmed?»

«Chi parla?» «Picot.» «Ah, Picot! Come sta?» «Ho deciso di partire, dunque voglio che si organizzi, perché non c'è

tempo da perdere. Le dirò di cosa ho bisogno. Se non può ottenerlo, me lo faccia sapere.»

Per mezz'ora i due uomini parlarono di quanto sarebbe stato necessario

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per iniziare gli scavi. Ahmed fu sincero con lui e gli spiegò che cosa a-vrebbe potuto reperire in Iraq e cosa no. Ma soprattutto sorprese Picot quando si offrì di finanziare parte della spedizione.

«Vuole investire dei soldi?» «Desideriamo partecipare alle spese più urgenti. Noi finanziamo la mis-

sione, lei mette il personale e le attrezzature.» «E come otterrà i soldi, se non sono indiscreto?» «Faremo uno sforzo, questa impresa significa molto per l'Iraq, in questo

momento.» «Su, Ahmed, non ci credo.» «E invece è così.» «Il mio istinto mi dice che il suo capo Saddam non sarà disposto a spen-

dere nemmeno un dollaro per cercare delle tavolette, per quanto possano essere importanti. Voglio sapere chi paga, altrimenti non parto.»

«In parte il ministero e in parte Clara. Lei ha un patrimonio personale, ereditato dai genitori. È figlia unica.»

«Allora, dovrò contendere la Bibbia d'argilla con sua moglie.» «Sia ben chiaro che, se la troviamo, la Bibbia è di Clara; è lei che ne ha

scoperto l'esistenza e che possiede le prime due tavolette, ed è lei che vuo-le sovvenzionare gli scavi senza badare a spese.»

«Sembra assurdo spendere tanti soldi in scavi tenendo conto delle condi-zioni in cui versa il paese.»

«Signor Picot, qui non si tratta di mettere in discussione la moralità al-trui. Noi non giudichiamo la sua e lei si astenga dal giudicare la nostra. La Bibbia è di Clara, ma lei potrà dire di avere partecipato alla spedizione ar-cheologica insieme a noi. Tutti a Roma hanno sentito Clara parlare delle tavolette.»

«Eh, già, adesso iniziate a dettare le regole. Senza di me la spedizione non si fa.»

«Senza di noi nemmeno.» «Posso sempre aspettare che Saddam cada e allora...» «Allora non se ne fa nulla.» «Mi sorprende che lei non mi abbia esposto tali condizioni quando sono

venuto in Iraq.» «Sinceramente, non pensavo che avrebbe accettato.» «Bene, vuole che stipuliamo un contratto, un documento in cui sia chiara

la partecipazione di entrambe le parti?» «È una buona idea. Lo scrive lei o lo faccio preparare io?»

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«Se ne occupi lei, io le dirò che cosa modificare. Quando pensa che po-trà mandarmelo?»

«Domani potrebbe andare bene?» «No, direi di no. Lo aspetto tra un quarto d'ora all'indirizzo e-mail che le

dirò. O troviamo un accordo adesso o non ne parliamo più.» «Mi dia l'indirizzo.» Trascorsero il resto della mattinata a discutere attraverso la posta elet-

tronica e per telefono, ma all'una avevano concluso l'accordo. Fabián era andato all'università e la ragazza non si era ancora svegliata.

Dal documento appariva chiaro che si stava mettendo in moto una spe-dizione archeologica di cui avrebbe fatto parte il professor Picot, per sca-vare un antico tempio-palazzo dove Clara Tannenberg sospettava si potes-sero trovare dei resti di tavolette come quelle venute alla luce anni prima, durante un'altra spedizione a Carran, in cui uno scriba che si firmava Sha-mas affermava che Abramo gli avrebbe narrato la storia del mondo.

Ahmed fu esplicito con Picot: sua moglie non si sarebbe fatta portare via lo splendore della gloria.

Fabián chiamò Picot dal suo ufficio all'università e decisero di pranzare

insieme. La sua compagna di quella notte continuava a dormire, cosa che aveva molto stupito Picot.

«Non le sarà mica successo qualcosa?» domandò a Fabián. «Non ti preoccupare, è una dormigliona.» Dopo pranzo andarono nell'ufficio di Fabián. Questi aveva già parlato

con alcuni dei suoi alunni migliori e con altri professori, ai quali aveva raccontato il progetto.

Della ventina di persone riunite, otto studenti si offrirono di partecipare e un paio di professori promisero di parlare con il rettore per ottenere il permesso di partire. Decisero che si sarebbero rivisti il giorno seguente per discutere gli ultimi dettagli.

Quando furono rimasti soli, Picot e Fabián iniziarono a telefonare, o-gnuno col proprio cellulare, a colleghi di altri paesi. La maggior parte ri-spondeva loro che erano dei pazzi, altri che ci avrebbero pensato su. Tutti chiedevano tempo.

Picot decise che il giorno seguente si sarebbe recato a Londra e a Oxford per vedere di persona alcuni amici, poi sarebbe passato da Parigi e da Ber-lino. Fabián si sarebbe occupato di andare a Roma e ad Atene, dove cono-sceva alcuni professori.

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Era martedì. Domenica si sarebbero ritrovati a Madrid, per vedere effet-tivamente quante persone erano riusciti a reclutare. L'obiettivo era di rag-giungere l'Iraq al più tardi il primo ottobre.

Ralph Barry entrò sorridente nell'ufficio di Robert Brown. «Porto buone

notizie.» «Sentiamole.» «Ho appena parlato con un collega di Berlino, Picot è là che recluta pro-

fessori e alunni per andare in Iraq. Dillo a Dukais; potrebbe sempre infilar-ci qualcuno dei suoi ragazzi, se ne ha trovati. È stato anche a Londra e a Parigi e ha provocato reazioni contraddittorie nella comunità accademica. Tutti lo ritengono un pazzo, ma alcuni provano la curiosità insana di anda-re a vedere che cosa sta succedendo in Iraq.

«Non credo proprio che riuscirà a farsi accompagnare da persone di pre-stigio, ma sicuramente alcuni professori e studenti lo seguiranno. Il gruppo che sta formando è dei più eterogenei, e una volta lì non so cosa saranno capaci di fare. Non hanno un piano di lavoro e neppure un programma, né uno studio approfondito sui mezzi necessari. Pare che il più fidato collabo-ratore di Picot sia Fabián Tudela, un professore di archeologia dell'univer-sità Complutense di Madrid. È un esperto della Mesopotamia, ha preso il dottorato a Oxford e ha partecipato a vari scavi in Medio Oriente. È un ti-po in gamba, oltre a essere il migliore amico di Picot.»

«Così alla fine si è deciso...» «Sì. La tentazione era molto forte per un tipo come lui. Ma dubito che

riescano a combinare qualcosa. Sei mesi non sono niente in archeologia.» «È vero, ma potrebbero avere fortuna. Magari andasse così!» «In ogni caso, si sono messi in moto.» «Bene, continua a tenere sotto controllo la situazione. E poi chiama Du-

kais. Spiegagli dove va Picot e con chi. Spero che sia in grado di trovare qualcuno che si aggreghi a questa spedizione.»

«Non sarà facile; non si può trasformare un gorilla in uno studente.» «In ogni caso, parlaci.» Rimasto solo, Robert Brown compose un numero di telefono e aspettò

con impazienza che qualcuno rispondesse. Si tranquillizzò quando udì la voce del Mentore. «Mi dispiace disturbarti, ma volevo che sapessi che Yves Picot sta organizzando una spedizione in Iraq.»

«Ah, Picot! Avrei dovuto immaginare che non avrebbe resistito. Hai fat-to tutto quello che ti ho detto?»

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«Lo sto facendo.» «Non puoi commettere errori.» «Non accadrà.» Brown esitò qualche secondo prima di azzardarsi a do-

mandare: «Hai già scoperto chi ha mandato gli italiani?». Il silenzio del Mentore fu peggio di un rimbrotto. Il presidente esecutivo

della fondazione Mondo Antico iniziò a sudare, ben cosciente dell'inoppor-tunità della domanda.

«Fa' in modo che le cose vadano come previsto.» Con queste parole, il Mentore considerò conclusa la conversazione. Paul Dukais prendeva nota di ciò che Ralph Barry gli raccontava per te-

lefono. «Quindi, adesso si trova a Berlino» ripeté il presidente della Planet Security.

«Sì, è stato pure a Parigi e a Londra, e credo che presto tornerà a Ma-drid. Siamo a settembre, forse puoi far iscrivere i tuoi gorilla in una di que-ste università perché si offrano volontari.»

«Tu stesso mi hai appena detto che cercano studenti dell'ultimo anno, come potrebbero portarsi via delle matricole? Non capisco perché dovrei impegnare i miei uomini in questa spedizione archeologica. Posso trovare un'altra copertura per mandarli là.»

«Ordini del capo.» «Robert è impossibile.» «Robert è nervoso. Si tratta di tavolette del valore di milioni di dollari.

In realtà, sono pezzi inestimabili, se realmente si riuscirà a dimostrare che furono ispirate dal patriarca Abramo. Sarebbe una scoperta rivoluzionaria, la Bibbia d'argilla, la Genesi raccontata da Abramo.»

«Non ti entusiasmare, Ralph.» «Non riesco a trattenermi.» «Adesso sei un uomo d'affari.» «Però non posso impedirmi di amare la storia. In realtà, è la mia unica

passione.» «Non fare il sentimentale, non è da te. Ti chiamerò io. Adesso sono oc-

cupato.» Mercedes passeggiava senza meta per le strade che danno su piazza di

Spagna. Aveva fatto acquisti nelle lussuose boutique di via Condotti, via della Croce, via Frattina... Un paio di borse, foulard di seta, un tailleur, una camicetta, scarpe. Si annoiava. Non le era mai piaciuto fare shopping, an-

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che se cercava di curare la propria persona. I suoi amici le dicevano che era una donna elegante, benché lei sapesse che optare per lo stile classico era l'unico modo per non sbagliare.

Aveva voglia di tornare in Spagna, a Barcellona, alla sua ditta, a control-lare i cantieri e a salire sulle impalcature tra gli sguardi terrorizzati dei mu-ratori, che la consideravano una vecchia pazza.

L'attività costante era la spinta che la faceva andare avanti, non pensare a null'altro se non a vivere nel presente. Aveva sempre fatto in modo di non trovarsi a tu per tu con se stessa, anche se aveva scelto di vivere in so-litudine: non si era sposata, non aveva avuto figli, non aveva fratelli né ni-poti e non le restava alcun parente. Sua nonna, la madre di suo padre, era morta anni prima. Era un'anarchica dura come un macigno, che aveva co-nosciuto il carcere franchista. Era anche l'unica persona che l'aveva aiutata a tenere i piedi per terra, a sentirsi parte della gente, una di loro. Perché sua nonna si rifiutava di mitizzare la loro vita. "I fascisti sono quel che sono" diceva. "Nulla di ciò che hanno fatto ci deve stupire." Era un modo per placare i suoi incubi, cercando di convincerla che ciò che era accaduto do-veva accadere perché era causato dal comportamento di uomini che porta-vano la malvagità dentro di sé.

Era vissuta il tempo sufficiente per aiutarla ad affrontare la vita guar-dando davanti a sé.

A Barcellona, a quell'ora probabilmente Mercedes si sarebbe trovata a discutere con l'architetto di qualche suo cantiere, a pianificare progetti fu-turi.

Era solita pranzare da sola nel suo ufficio, e cenare da sola davanti al te-levisore.

In quel momento pensò di cercare un posto dove sedersi e mangiare qualcosa, aveva fame. Poi sarebbe tornata a piedi all'hotel e avrebbe prepa-rato le valigie. Sarebbe partita il giorno dopo con il primo aereo. Carlo sa-rebbe passato più tardi per cenare con lei al ristorante e salutarla.

Carlo la chiamò in camera dalla reception. La stava aspettando. Quando

lei scese, si abbracciarono. Era un modo per liberare il torrente di senti-menti che opprimeva entrambi.

«Hai parlato con Hans e Bruno?» gli chiese Mercedes. «Sì, mi hanno telefonato appena arrivati. Stanno bene. Hans è molto for-

tunato ad avere Berta, è una donna eccezionale.» «Anche tu hai dei figli stupendi.»

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«Sì, è vero, ma io ne ho tre, Hans solo una, dunque è fortunato che Berta sia com'è. Lo accudisce e lo coccola come fosse un bambino.»

«Bruno sta bene? Sono preoccupata, l'ho visto scosso per la situazione, come se avesse paura.»

«Anch'io ho paura, Mercedes. E credo ce l'abbia anche tu. Il fatto che sia nostro dovere agire così non ci dà l'immunità.»

«Questa è la tragedia dell'essere umano, nessuna delle sue azioni resta impunita. È stata la maledizione di Dio quando scacciò Adamo ed Eva dal paradiso.»

«A proposito, durante la telefonata con Bruno ho sentito Deborah prote-stare. Lui mi ha detto che è preoccupata, che vuole che non ci si veda più. Hanno discusso, e Bruno ha replicato che piuttosto si sarebbe separato da lei. Che niente e nessuno gli avrebbe fatto rompere il vincolo che ci lega.»

«Povera Deborah! Capisco la sua sofferenza.» «Tu non le sei mai piaciuta.» «Io non piaccio quasi a nessuno.» «In realtà sei tu che fai in modo di allontanare gli altri, per un senso di

insicurezza. Questo lo sai, vero?» «Mi sta parlando il medico o l'amico?» «Ti sta parlando l'amico, che è pure un medico.» «Tu puoi guarire i corpi, ma per l'anima non ci sono cure.» «Lo so, ma almeno potresti fare uno sforzo per vedere con altri occhi ciò

che ti circonda.» «Lo faccio già. Come credi che sia potuta sopravvivere tutti questi anni?

Sai, io ho solo voi. Da quando è morta mia nonna voi siete le uniche per-sone che mi legano alla vita. Voi e...»

«Sì, la vendetta e l'odio sono motori della storia, e anche delle vicende personali. Malgrado gli anni trascorsi, ricordo ancora tua nonna. Era una donna con un coraggio straordinario.»

«Non si è rassegnata a sopravvivere, come faccio io, e ha sempre affron-tato tutto e tutti. Quando uscì di galera non si piegò, continuò a essere a-narchica: organizzava riunioni clandestine, attraversava la frontiera france-se per fare propaganda antifranchista in Spagna e per riunirsi con vecchi esiliati. Senti questa: negli anni Cinquanta e Sessanta, in tutti i cinema spa-gnoli prima di proiettare il film davano un documentario su ciò che face-vano Franco e i suoi ministri. Noi vivevamo a Mataró, una cittadina vicino a Barcellona, e c'era un cinema estivo in cui da bambini vedevamo film al-l'aperto e mangiavamo semi di zucca. Quando appariva la prima immagine

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di Franco, mia nonna sputava per terra e diceva sottovoce: "Credono di a-vere vinto, ma si sbagliano; finché possiamo pensare siamo liberi". Poi si picchiava un dito sulla testa, aggiungendo: Qui non comandano". Io la guardavo spaventata, con la paura che ci arrestassero. Non è mai accaduto nulla.»

«Ci ha sempre accolto con affetto e non ha mai fatto domande quando venivamo a trovarti. La ricordo vestita di nero, con i capelli raccolti in una crocchia sulla nuca, il volto pieno di rughe. C'era tanta dignità in lei...»

«Sapeva di cosa parlavamo e i nostri propositi, conosceva il nostro giu-ramento. Non me l'ha mai rimproverato; al contrario, mi consigliava uni-camente di fare le cose usando la testa, senza lasciarmi trascinare dalla rabbia.»

«Non so se ci riusciremo.» «Invece ci siamo, Carlo. Credo che ci stiamo avvicinando all'epilogo, a

Tannenberg.» «Perché avrà voluto uscire allo scoperto, dopo tanti anni? Continuo a

chiedermelo, Mercedes, e non trovo una risposta.» «Anche i mostri hanno un cuore. Quella donna può essere una figlia, una

nipote, chissà. E dal dossier di Marini mi sono fatta l'idea che Tannenberg l'abbia mandata a Roma per farsi aiutare a trovare quelle tavolette di cui la donna ha parlato al convegno. Devono essere molto importanti per loro, tanto che ha voluto correre il rischio di esporsi.»

«Tu credi che anche i mostri abbiano un cuore?» «Guardati intorno, pensa alla storia recente, a tutti i dittatori che hai vi-

sto circondati dalle loro famiglie, con i nipotini in braccio, mentre accarez-zano il gatto. Pensa a Saddam, senza andare tanto lontano: non si è mai fat-to problemi a bombardare con i gas i villaggi curdi, assassinando donne, bambini e vecchi, o a fare scomparire gli oppositori del suo regime, e guarda cosa raccontano dei suoi figli. Sono uguali a lui, e lui li vizia per-mettendo loro di tutto, coccola quei piccoli mostri come se fossero dei te-sori. O Ceausescu, o Stalin, o Mussolini, o Franco, o tanti altri dittatori che sbavavano per i loro cari.»

«Tu mescoli tutto, Mercedes.» Carlo rise. «Fai di tutta l'erba un fascio. Anche tu sei un'anarchica!»

«Mia norma era un'anarchica, e pure mio nonno. Mio padre era un anar-chico.»

Rimasero in silenzio, evitando di spargere sale su ferite che ancora san-guinavano.

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«Hans si è già messo in contatto con quel Tom Martin?» domandò Mer-cedes per cambiare discorso.

«No, ma mi ha detto che ci farà sapere appena ci saranno novità. Sup-pongo che preferisca aspettare due o tre giorni. È appena tornato e sua fi-glia Berta si preoccuperebbe se ripartisse subito.»

«Potrei incaricarmene io; in fondo non ho nessuno e pertanto non devo dare spiegazioni su dove vado o a chi telefono.»

«Lasciamo che lo faccia Hans.» «E il tuo amico Luca?» «Non ti piace, lo so, però è una brava persona e ci ha aiutato. E continua

a farlo. Mi ha telefonato prima che venissi qui e mi ha detto che non ci so-no novità, che per ora i suoi ex colleghi non hanno fatto nulla. Non ha vo-luto allarmarmi, ma crede che qualcuno abbia curiosato nei suoi archivi cercando informazioni su quanto è accaduto. Non hanno trovato nulla per-ché lui non ha mai istruito un fascicolo. Il caso se l'è accollato da solo e ha sempre dato ordini ai suoi uomini senza rivelare chi fosse il cliente. Crede anche che abbiano frugato nel suo ufficio. Ha cercato dappertutto per ac-certarsi che non ci fossero microfoni nascosti, ma non ha trovato nulla; comunque mi ha telefonato da una cabina. Ci vedremo domani. Passerà dalla clinica.»

«Tannenberg?» «Potrebbe essere lui o la polizia; non c'è nessun altro a cui interessi ciò

che è accaduto.» «Hai ragione.» Continuarono a chiacchierare fino a tardi. Sarebbe passato del tempo

prima che avessero occasione di rivedersi.

12 «Paul, ho individuato un paio di uomini che sembrano fare al caso tuo.

Hanno le caratteristiche che mi chiedevi. Se mi dessi più tempo, potrei tro-varne altri.»

«Il tempo è l'unica cosa che non ho. È già iniziato il conto alla rovescia per questa maledetta guerra.»

«Non ti lamentare, perché grazie a questa guerra guadagneremo un sacco di soldi.»

«Sì, Tom, le guerre si sono proprio trasformate in un buon affare. Ho firmato non so quanti contratti per mandare uomini in Iraq. E suppongo sia

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lo stesso per te.» «Già e vorrei proporti alcune cose che potremmo fare insieme. Quanti

uomini hai?» «Fino adesso, più di diecimila sotto contratto.» «Accidenti! Io non arrivo a tanto, comunque non voglio della gente im-

provvisata, ma uomini con una certa esperienza.» «Da queste parti non è difficile trovarne. Ho incominciato ad assumere

degli asiatici.» «Che ci importa da dove arrivano? Quel che conta è che siano pronti a

combattere. Ho a disposizione un buon numero di ex iugoslavi: serbi, croa-ti, bosniaci; dei duri, con una gran voglia di premere il grilletto. Quei due che ti ho trovato sono tipi poco raccomandabili, spero che tu sia in grado si tenerli sotto controllo. Sono giovani, ma pazzi. Hanno ucciso molte perso-ne, tante da perdere il conto.»

«Quanti anni hanno?» «Uno ventiquattro e l'altro ventisette. Uno è bosniaco e l'altro è croato.

Erano studenti prima che in Iugoslavia cominciassero ad ammazzarsi fra loro. Sono due sopravvissuti che hanno perso dei familiari in guerra. Il croato è un ottimo tiratore. E gli piace il denaro. Studia informatica all'uni-versità, e credo che sia un piccolo genio del computer. L'altro era un mae-stro.»

«Nessuno dei due studia storia o archeologia?» «No, non ho mercenari portati per la storia. Questi possono fare al caso

tuo per l'età e perché parlano inglese. Sai bene che i governi europei si la-vano la coscienza assegnando borse di studio agli ex iugoslavi, per cui se ti dai da fare puoi iscriverli a una qualsiasi università che ti sembri utile, a Berlino o a Parigi, e lì sicuramente incontrerai qualcuno che riesca a met-terli in contatto con la cerchia di Picot.»

«Caspita, non è poi così facile!» «Dai, Paul, prova a pensarci: questi due sono capaci di qualsiasi cosa in

cambio di una buona paga. Sono abituati a uccidere per sopravvivere. Li iscriviamo a Berlino o a Madrid. In Spagna è facile trovare nuove identità alle persone. È un paese in cui ci sono ancora degli idealisti disposti a darsi da fare per chiunque racconti loro una storia triste. E questi hanno una vi-cenda tragica alle spalle. Dammi le coordinate di Picot e io farò in modo che si avvicinino al suo ambiente. Pagherà gli studenti che porta con sé, per cui questi due potrebbero dire di aver bisogno di denaro per studiare e di essere disposti a partire con gli altri.»

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«Ma come fai a pensare che Picot assoldi un informatico e un maestro? Ha bisogno di archeologi o di storici.»

«D'accordo, amico, sei tu che decidi, questo è tutto quello che ti posso offrire.»

«Manderò uno dei miei uomini perché li istruisca e spieghi loro quello che devono fare. Sarà lì domani. Fammi avere la fattura.»

«Va bene. Quando vieni a Londra?» «Tra una settimana. Ho una riunione con alcuni clienti a cui puoi parte-

cipare. Ti manderò un'e-mail.» «Va bene. Ci risentiamo.» Tom Martin riagganciò. Gli piaceva Paul Dukais. Entrambi si occupava-

no della stessa cosa: offrire sicurezza ad alcuni e, al bisogno, ammazzarne altri. Le loro aziende erano in espansione, questo era il lato positivo della globalizzazione. Naturalmente, l'Iraq prometteva di essere un buon affare. Lui aveva già firmato quattro contratti milionari e sperava di concluderne altri.

Senza dubbio la Global Group era la migliore società europea per la si-curezza, proprio come quella di Paul Dukais, la Planet Security, era la mi-gliore del Nordamerica. Le due società controllavano più del sessantacin-que per cento del business mondiale, gli altri al confronto erano formiche. Ma in Iraq ci sarebbe stata una fetta della torta per tutti, e gli uomini della Global e quelli della Planet avrebbero dovuto affrontare insieme alcune missioni. Era di questo che voleva discutere con Paul.

L'avrebbe invitato a cena e a bere qualcosa una volta concluso l'accordo che di sicuro avrebbero raggiunto, come avevano fatto tante altre volte in passato.

13

La cena si svolgeva quasi in silenzio. Alfred Tannenberg evitava di ri-

volgersi ad Ahmed, il quale non aveva alcun interesse a parlare con lui, dunque lo sforzo per mantenere un'apparenza di normalità ricadeva tutto su Clara.

Appena terminato di cenare, lei chiese a suo nonno di non ritirarsi nelle sue stanze.

«Che cosa vuoi?» «Che parliamo. Non posso sopportare la tensione che c'è tra te e Ahmed;

voglio sapere che cosa sta succedendo.»

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I due uomini si guardarono senza sapere quale posizione prendere; fu Ahmed a rompere il silenzio.

«Tuo nonno e io abbiamo un modo differente di vedere le cose.» «Ah, e questo significa dunque che avete deciso di non rivolgervi più la

parola? State per avviare una grande impresa! Come si può iniziare qual-cosa di simile se in questa casa c'è un clima da funerale? Che cosa sta suc-cedendo? Mi sembra che il problema sia più grave di una semplice diver-genza di vedute, altrimenti perché vi comportereste come se voleste scan-narvi?»

Alfred Tannenberg non era disposto a giustificarsi né davanti alla nipote né, tanto meno, davanti al genero. Considerava ignobile quella conversa-zione, ragione per cui decise di troncarla. «Clara, mi rifiuto di continuare questo discorso. Preoccupati di organizzare la missione, tutta la responsa-bilità sarà tua. A te appartiene la Bibbia d'argilla, sei tu che la devi trovare e, soprattutto, conservare. Tutto il resto è irrilevante rispetto a questa im-presa. A proposito, non te l'ho ancora detto, andrò al Cairo per un paio di giorni. Ma prima di partire ti lascerò denaro a sufficienza per poter iniziare gli scavi. Dovrai portarlo con te e saperlo amministrare. Ah, voglio che Fa-tima ti accompagni.»

«Fatima? Ma, nonno, come faccio a portare Fatima in una spedizione ar-cheologica? Che cosa potrebbe fare, una volta lì?»

«Dovrà occuparsi di te.» Quando Tannenberg esprimeva un desiderio nessuno osava contraddirlo,

nemmeno Clara. «D'accordo, nonno, ma tu e Ahmed non potreste fare la pace, per amor

mio? Mi sento così a disagio in questa situazione...» «Tesoro, non ti immischiare. Lascia perdere.» Ahmed non aveva aperto bocca. Quando il nonno di Clara si ritirò, la

guardò furioso. «Non potevi evitare questa sceneggiata? Guarda che non puoi pretendere che le persone vadano sempre d'accordo.»

«Ascolta, Ahmed, io non ho idea di cosa stia succedendo a mio nonno e a te, ma so che tu da tempo sei aggressivo e scortese con tutti, specialmen-te con me. Perché?»

«Sono stanco, Clara, non mi piace come viviamo.» «E come viviamo?» «Asserragliati nella Casa Gialla, sempre in balia del volere di tuo nonno.

Lui decide della nostra esistenza, riempie le ore della nostra giornata di-cendoci quello che dobbiamo fare, quali errori non dobbiamo commettere.

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Qui mi sento in prigione.» «Perché non te ne vai, allora? Io non posso obbligarti a restare e nem-

meno te lo chiederei. Hai tutti i diritti di avere una vita diversa se non ti piace quella che fai.»

«Mi stai invitando a lasciarti? Non ti è venuto in mente che potremmo andarcene insieme?»

«Questa è la mia casa, non posso scappare da me stessa. E poi, Ahmed, io qui sto bene.»

«Mi sarebbe piaciuto continuare a vivere a San Francisco. Lì sì che era-vamo felici.»

«Io sono felice qui, sono irachena.» «No, non sei irachena, sei solo nata qui.» «E allora di dove sono? Sono nata qui, sono cresciuta qui e qui sono sta-

ta felice, e voglio continuare a esserlo. Non ho bisogno di andare da nes-suna parte per essere felice, tutto ciò che desidero si trova qui.»

«Io invece non trovo qui tutto ciò che desidero; di certo non in questa casa né in questo paese. L'Iraq non ha futuro, lo stanno distruggendo.»

«Che vuoi fare, Ahmed?» «Voglio andarmene, Clara.» «E allora vattene, Ahmed, io non farò nulla per trattenerti. Ti amo tanto,

troppo per volere che tu rimanga qui e sia infelice. Che altro posso fare?» Ahmed fu sorpreso della reazione di Clara. Si sentì addirittura ferito nel

suo amor proprio. Sua moglie non aveva bisogno di luì, ed era chiaro che non avrebbe fatto nulla per tenerlo al suo fianco; al contrario, gli avrebbe facilitato le cose. «Ti aiuterò a trovare la Bibbia d'argilla. Credo che il mio sostegno ti sarà indispensabile, soprattutto se tuo nonno andrà al Cairo. Poi, quando tutto sarà finito, partirò. Non potrò recarmi negli Stati Uniti, ma cercherò rifugio in Francia o in Inghilterra, e lì attenderò che giunga il momento in cui gli iracheni non saranno più considerati degli appestati per fare ritorno a San Francisco.»

«Non c'è ragione perché tu rimanga, Ahmed. Ti ringrazio di volermi aiu-tare, ma credi che sia una buona idea passare i prossimi mesi come se non fosse successo niente, sapendo che poi te ne andrai?»

«Tu non verrai con me?» «No, resterò in Iraq. Voglio vivere qui. Mi è piaciuta l'America, siamo

stati felici. Io non ero mai uscita dal Medio Oriente. Mio nonno non me l'aveva mai permesso. La mia vita era sempre trascorsa tra Iraq, Egitto, Giordania e Siria. Sì, magari un giorno andrò a New York o a San Franci-

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sco, ma da turista. Te lo ripeto, la mia vita è qui.» «Ti rendi conto che questo è l'inizio della nostra separazione?» «Sì. Mi dispiace molto perché ti amo, ma credo che nessuno dei due

debba rinunciare a essere se stesso, perché finiremmo per odiarci .» «Se non vuoi che rimanga per aiutarti a trovare la Bibbia d'argilla, cer-

cherò il modo di uscire dall'Iraq.» «Mio nonno ti aiuterà.» «Non credo.» «Ti assicuro che lo farà.» «Comunque, pensa alla mia proposta; sono disposto a rimanere ancora

per qualche mese. So di poterti essere utile e, malgrado desideri andarme-ne, mi piacerebbe aiutarti.»

«Per stasera abbiamo parlato abbastanza, Ahmed, lasciami riflettere fino a domani. Dove dormirai?»

«Sul divano, nel mio studio.» «Bene, dobbiamo discutere i dettagli del divorzio, ma se non ti spiace lo

faremo domani.» «Grazie, Clara.» «Il fatto è che io ti amo, Ahmed.» «Anch'io ti amo, Clara.» «No, Ahmed, tu non mi ami, in realtà hai smesso di amarmi da tempo.

Buonanotte.» Rimasero in silenzio mentre facevano colazione. Fatima entrò in sala da

pranzo in cerca di Ahmed, con passo frettoloso. «La vuole il signor Picot. Dice che è urgente.» Ahmed si alzò e uscì dalla stanza diretto al telefono. «Pronto.» «Sono Picot. Ho un elenco provvisorio di coloro che parteciperanno alla

spedizione. Gliel'ho appena mandato per e-mail in modo che si affretti a preparare i visti. Ho deciso di mandare avanti due persone con parte delle attrezzature perché inizino a montarle. Quando arriveranno gli altri, vorrei che ci fosse un'infrastruttura già organizzata per cominciare a lavorare quanto prima. Ho bisogno che siano pronti in fretta tutti i documenti per non avere problemi alla dogana. Non vorrei creare fastidi ai miei collabo-ratori.»

«Ci può contare. Che materiale le serve?» «Tende, alimenti non deperibili, attrezzature per gli scavi... Quando arri-

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veremo, voglio che le tende in cui andremo a stare siano già montate e che sia stata selezionata la squadra di operai. S'incaricherà lei di tutto?»

«Farò quello che posso. Sa, probabilmente non parteciperò a questa mis-sione.»

«Come?» «Non si preoccupi. Clara si farà carico di tutto. In ogni caso stia tran-

quillo, queste prime mansioni posso ancora assumerle io.» «Scusi, ma che sta succedendo? Investiremo un sacco di soldi in questi

scavi; non immagina quanto mi sia costato convincere un gruppo di stu-denti e di archeologi a venire in Iraq e adesso lei mi dice che non ci sarà. Che scherzo è questo?»

«Non è uno scherzo. Il fatto che io non partecipi agli scavi non cambierà i termini del nostro accordo; la mia presenza è irrilevante, avrà tutto quello che le serve. Le assicuro che Clara è un'archeologa molto in gamba e non ha bisogno del mio aiuto per portare avanti la spedizione, e neanche lei.»

«Non mi piacciono gli imprevisti.» «Anch'io li detesto, ma così è la vita, amico. Comunque ora leggerò la

sua e-mail e vedrò di procurarle il necessario. Desidera parlare con Clara?» «No, non adesso. Forse più tardi.» Clara osservava Ahmed appoggiata allo stipite della porta. Aveva ascol-

tato la conversazione. «Picot non si fida di me.» «Picot non ti conosce. È un uomo pieno di pregiudizi, per cui se tu sei

irachena, secondo lui dovresti portare il velo e non fare un passo senza tuo marito. Questa è l'immagine che in Occidente hanno dell'Oriente. Cambie-rà idea.»

«È preoccupato perché tu non ci sarai.» «Sì, ma non sarà un problema per te. In realtà, voi non avete affatto bi-

sogno di me. Clara, abbiamo ripassato fino alla nausea quello che c'è da fa-re. Conosci Safran meglio di me, e sull'archeologia mesopotamica nessuno può darti lezioni. E poi, ho pensato che puoi nominare Karim tuo aiutante. È uno storico piuttosto in gamba. È il nipote del Colonnello e sarà orgo-glioso di partecipare a questa spedizione.»

«E tu cosa gli dirai? Come gli spiegherai la tua assenza?» «Dobbiamo parlarne, Clara, decidere come ci separeremo, quando e co-

me dirlo e cosa fare dopo. Cerchiamo di agire nel migliore dei modi, per te, per me, per tutti.»

Clara annuì. Desiderava sinceramente che si lasciassero senza rancori e scenate. Però si domandava quando avrebbero dato libero sfogo a tutte le

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emozioni represse. «Che cosa ti ha chiesto Picot?» «Andiamo nello studio a leggere la sua e-mail, poi ci metteremo al lavo-

ro. Non c'è tempo da perdere. Devo chiamare il Colonnello. Picot invierà a breve parte delle attrezzature e non vuole problemi alla dogana. Hai a por-tata di mano il piano di lavoro che abbiamo elaborato?»

«Ce l'ha mio nonno. Gliel'ho lasciato perché lo guardasse.» «Allora va' a prenderlo così, se sei pronta, lo portiamo al ministero per

preparare la spedizione. Forse uno dei due dovrà andare in avanscoperta.» Alfred Tannenberg si trovava ancora in sala da pranzo e non nascose la

propria stizza quando Clara tornò. «Da quando sei diventata così maledu-cata da lasciarmi il piatto sul tavolo e andartene? Si può sapere che succe-de?»

«Era Picot.» «Sì, ho sentito che era Picot. Deve fermarsi il mondo quando telefona

Picot?» «Scusa, nonno, ma sai quanto è importante per raggiungere il nostro o-

biettivo. Ha chiamato per dire che manderà avanti parte delle attrezzature e alcuni collaboratori, così al suo arrivo sarà già tutto pronto e potremo met-terci subito al lavoro. Dobbiamo risolvere i problemi con la dogana. A-hmed parlerà con il Colonnello e uno di noi due andrà a Safran perché ogni cosa sia sistemata prima che arrivi il materiale. Dobbiamo selezionare gli operai, metterci d'accordo con il capo del villaggio sul salario... insomma, un sacco di cose.»

«D'accordo, però non lasciarmi mai più seduto a tavola da solo. Mai più.»

«Non ti arrabbiare, per favore, siamo così vicini a realizzare il tuo so-gno...»

«Non è un sogno, Clara, la Bibbia d'argilla esiste, è là, devi solo trovar-la.»

«La troverò.» «Bene, e quando accadrà prendi le tavolette e torna al più presto.» «Andrà tutto come previsto, te l'assicuro.» «Dammi la tua parola che non permetterai a nessuno di portarle via.» «Ti do la mia parola.» «E adesso al lavoro.» «Sono venuta a chiederti di restituirmi il piano di lavoro che abbiamo

fatto Ahmed e io.»

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«È sulla scrivania del mio studio, prendilo. Quanto ad Ahmed, prima se ne andrà, meglio sarà.»

Clara lo guardò stupita. Com'era possibile che suo nonno fosse a cono-scenza di quanto stava accadendo tra Ahmed e lei? «Nonno...»

«Che se ne vada, Clara, noi non abbiamo bisogno di lui. Si troverà male senza di noi, perché senza di noi non è nessuno.»

«Come fai a sapere che Ahmed se ne vuole andare?» «So tutto quello che accade nella Casa Gialla. Non credi che sarei un

bell'imbecille se non sapessi ciò che succede in casa mia?» «Io lo amo, non fargli del male; se gliene farai, non te lo perdonerò.» «Clara, in questa casa sono io a decidere. Non dirmi quello che posso o

non posso fare.» «Invece te lo dico, nonno. Se succederà qualcosa ad Ahmed, me ne an-

drò anch'io.» Il tono di voce di Clara non dava adito a dubbi. Alfred Tannenberg si re-

se conto che l'avvertimento della nipote era sincero. Quando salì sul fuoristrada del marito, la tensione era visibile sul volto

di Clara. «Che è successo?» domandò Ahmed. «Sa che ci separiamo.» «E che minaccia ha fatto nei miei confronti?» Clara sentì la ferita che i due uomini che amava di più al mondo le sta-

vano procurando. Non sopportava l'astio che provavano l'uno nei confronti dell'altro. «Su, Ahmed, mio nonno si è sempre comportato bene con te, non usare questo tono.»

«Lo conosco, Clara, per questo lo temo.» «Lo temi? Lui ha fatto di tutto per aiutarti, non c'è nulla che tu abbia vo-

luto e che non ti sia stato concesso. Non so perché tu lo debba temere.» Ahmed tacque. Non voleva che Clara intuisse la parte oscura degli affari

del nonno a cui lui aveva partecipato per ambizione. «Tuo nonno è stato generoso, senz'altro, ma io ho lavorato lealmente al suo fianco, senza mai fare domande.»

«E perché avresti dovuto fare domande su mio nonno?» chiese lei irrita-ta.

«Dài, Clara, non roviniamo tutto per colpa di tuo nonno. Stiamo cercan-do di agire per il meglio.»

«Mi sono accorta che non vi sopportate. Da quando? Cos'è successo?

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Come ho fatto a non rendermene conto prima?» «Non farti tante domande. Sono cose che accadono nelle famiglie, negli

affari, tra gli amici. Un giorno smetti di capire le persone. Tutto qui.» «È così semplice?» «Vuoi complicare le cose?» «Voglio che voi non complichiate le cose, voglio essere lasciata in pace,

non voglio diventare il vostro campo di battaglia!» Ahmed annuì. Stava guidando e non poteva guardarla in faccia, ma si

rendeva conto che l'armonia che aveva regnato fra loro era sul punto di spezzarsi. «Per quel che mi riguarda, cercherò di semplificare le cose. Non vorrei farti del male per nulla al mondo. Non te lo meriti.»

«Certo che non me lo merito. Dunque, lasciatemi in pace.» «Bene. Allora, che cos'hai detto a tuo nonno?» «Niente, semplicemente non ho negato che ci stiamo separando. Vuole

che te ne vada al più presto.» «Su questo sono d'accordo con lui. Lascerò la Casa Gialla. Posso stare

da mia sorella.» D'un tratto Clara sentì un dolore acuto al petto. Una cosa era parlare in

astratto di separarsi, un'altra il distacco reale. «Fa' quello che credi, quello che è meglio per te.»

«Quello che è meglio per noi, Clara.» Stava per dirgli che lei non voleva lasciarlo, che iniziava ad avere paura

del dolore che già provava al solo pensiero che se ne sarebbe andato. Ma preferì continuare a mantenere un atteggiamento dignitoso. «Sai, Ahmed, l'unica cosa che desidero è evitare scenate. E soprattutto vorrei chiederti di non litigare con mio nonno. Io gli voglio bene.»

«Lo so, Clara, so quanto lo ami. Lo farò per te; almeno, ci proverò.» Quando entrarono nel ministero avevano già cambiato discorso. Parla-

vano di chi dei due sarebbe andato a Safran. «Vado io, Ahmed; poi tu non ci sarai e preferisco curare l'or-

ganizzazione fin dall'inizio, e scegliere io gli operai.» Non gli disse che andarsene l'avrebbe aiutata a placare l'angoscia che si stava impossessando di lei.

«Forse hai ragione. Io rimarrò qui e ti aiuterò da Baghdad. Così, intanto, potrò predisporre tutto per la partenza.»

«Come te ne andrai?» «Non lo so.» «Verrai accusato di tradimento, Saddam potrebbe mandare un sicario per

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ucciderti.» «Sì, ma è un rischio che devo correre.» Trascorsero il resto della mattina al telefono, compilando documenti e

permessi. A mezzogiorno, Ahmed andò a colazione con il Colonnello e Clara tornò alla Casa Gialla.

«Arrivi in tempo per il pranzo» le disse Fatima. «Tuo nonno ha visite, è nel suo studio.»

Clara andò in camera a rinfrescarsi dopo avere chiesto a Fatima di avvi-sarla quando suo nonno fosse sceso per pranzare.

Tannenberg finì di leggere l'ultima pagina sotto lo sguardo impaziente

del suo interlocutore, poi ripose con cura i documenti in una cartellina che infilò nel cassetto superiore della scrivania e fissò gli occhi d'acciaio su Yasir. «Andrò al Cairo. Organizza una teleconferenza con Robert Brown, voglio che sia in un luogo in cui non possano intercettarlo.»

«Impossibile. I satelliti americani registrano tutto, specialmente le con-versazioni tra gli Stati Uniti e questo povero angolo del mondo.»

«Lascia stare le immagini poetiche, Yasir, voglio parlare con Robert.» «Non è possibile.» «Dovrai fare in modo che lo sia. Ho bisogno di mettermi in contatto con

lui e con altri amici. O troviamo un canale sicuro o li chiamerò direttamen-te nei loro uffici. È necessario che discutiamo il piano che mi hanno man-dato: loro non sanno nulla e hanno fatto delle scelte assurde. Per come l'hanno ideato, sarà un disastro. E poi, voglio avere io il controllo, come sempre. Che non mandino nessuno a dirigere l'operazione. Perché? Perché in questa zona comando io, è il mio territorio, non usurperanno il mio po-sto.»

«Nessuno vuole usurpare il tuo territorio. Sanno che non stai bene e vo-gliono mandarti rinforzi.»

«Non sottovalutarmi, Yasir, non fare anche tu questo sbaglio.» «Forse se la sono presa per le dichiarazioni di Clara a Roma, perché ti

sei esposto rendendo nota l'esistenza della Bibbia d'argilla.» «Questo non è affar loro. Voglio parlarci direttamente, altrimenti non ci

sarà nessuna operazione.» «Ma cosa dici? Hai intenzione di rovinarci tutti?» «No, voglio sapere esattamente che cosa sta per accadere e quando.

Dobbiamo pianificare ogni dettaglio con cura. Parlerò con un uomo di Paul Dukais e gli spiegherò come organizzare le cose. I gorilla di Dukais non

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sanno fare tutto. Dirigerò le operazioni a modo mio. Gli uomini faranno quello che dico io, quando e dove deciderò. Altrimenti, ti assicuro che nes-suno riuscirà a fare nulla, o si scatenerà una guerra personale.»

«Ma che ti succede, Alfred? Sei diventato matto?» Il vecchio si alzò, si avvicinò al suo interlocutore e lo schiaffeggiò. «Ya-

sir, hai smesso di mangiare merda di cammello il giorno in cui mi hai co-nosciuto. Non te lo dimenticare.»

Gli occhi neri dell'uomo brillarono di odio. Si conoscevano da una vita, ma quell'affronto non gliel'avrebbe perdonato.

«Vai, e fa' quel che ti ho detto.» Yasir uscì dallo studio senza voltarsi indietro, sentendo ancora la palma

della mano di Alfred sulla guancia. Alfred Tannenberg trovò Clara seduta da sola a tavola all'ombra delle

palme, intenta ad ascoltare il rumore dell'acqua della fonte. Lei si alzò e gli diede un leggero bacio sul volto ben rasato. Gli piaceva l'odore di tabacco che suo nonno emanava.

«Ho fame, sei in ritardo, nonno!» gli disse a mo' di saluto. «Siediti, Clara, sono contento di stare solo con te, dobbiamo parlare.» Fatima posò sul tavolo vassoi con diversi tipi di insalata e di riso da ser-

vire con la carne e poi se ne andò. «Cosa pensi di fare?» domandò Tannenberg. «Non so a che ti riferisci...» «Ahmed se ne va. Tu cosa vuoi fare?» «Io rimango in Iraq. Questo è il mio paese, la mia vita è qui. La Casa

Gialla è casa mia. Non voglio diventare un'esule.» «Se Saddam cadrà, saranno guai per tutti. Anche noi dovremo lasciare il

paese. Non potremo rimanere qui quando arriveranno gli americani.» «Ma arriveranno?» «Ho appena ricevuto la notizia che è stata presa la decisione. Speravo

che così non fosse, che quella di Bush fosse solo una bravata ma, a quanto sembra, i preparativi per la guerra sono già avviati. Hanno ormai deciso anche il giorno dell'attacco. Dobbiamo iniziare a prepararci. Andrò al Cai-ro per organizzare alcune cose e parlare con degli amici.»

«Tu sei un uomo d'affari, hai avuto un buon rapporto con Saddam, è ve-ro, ma come tanti altri. Non possono attaccare tutti gli iracheni che hanno appoggiato questo regime.»

«Se entreranno nel nostro paese, faranno quello che vogliono. Un eserci-

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to che vince una guerra ne ha il diritto.» «Non voglio lasciare l'Iraq.» «E invece dovremo farlo, almeno fino a che la situazione si sarà calma-

ta.» «Allora, perché iniziamo gli scavi?» «Perché o troviamo ora la Bibbia d'argilla o sarà persa per sempre. È la

nostra ultima opportunità. Non avrei mai immaginato che Shamas fosse tornato a Ur.»

«In realtà, a Safran.» «È lì accanto, non cambia nulla. I patriarchi erano nomadi, si spostavano

in continuazione con le greggi e si insediavano temporaneamente da qual-che parte. Non era la prima volta che andavano a Carran, né che tornavano a Ur. Ma ho sempre creduto che la Bibbia d'argilla, se fosse esistita, doves-se trovarsi a Carran o in Palestina, dato che Abramo si diresse a Canaan.»

«Quando parti per Il Cairo?» «Domattina presto.» «Io andrò a Safran.» «E Ahmed?» Il tono in cui domandò del marito di sua nipote era indiffe-

rente. «Ha bisogno di una buona scusa per lasciare l'Iraq. Lo aiuterai?» «No, non lo farò. Abbiamo degli affari da concludere. Quando saranno

conclusi, per me se ne può andare all'inferno. Ma non può partire senza aver portato a termine l'accordo che ha firmato.»

«Che tipo di affari sono?» «Arte, ciò a cui mi dedico.» «Questo lo so, ma perché Ahmed deve restare?» «Perché è necessario che vada in porto l'affare che sto per concludere.» «Credevo volessi che se ne andasse al più presto.» «Ho cambiato idea.» «Dovrai parlarne con lui. Siamo d'accordo che lascerà la Casa Gialla e si

trasferirà da sua sorella.» «Non m'importa dove va a stare, m'importa solo che rimanga in Iraq fino

all'arrivo degli americani.» «Non accetterà.» «Ti assicuro che lo farà.» «Non minacciarlo!» «Non lo sto minacciando. Siamo uomini d'affari e lui non può andarsene

adesso. Tuo marito ha guadagnato un sacco di soldi grazie e me e ha biso-

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gno del mio aiuto per lasciare il paese.» «Glielo negherai se si rifiuterà di restare?» «Non lo aiuterò, nemmeno per te, Clara. Ahmed non rovinerà il lavoro

di tutta una vita.» «Mi vuoi spiegare perché se ne deve occupare proprio lui?» «Non ti ho mai reso partecipe dei miei affari e non intendo iniziare a far-

lo adesso. Dunque, appena vedi Ahmed digli che devo parlare con lui.» «Verrà stasera a prendere alcune cose.» «Che non se ne vada senza passare prima da me.» «Non si fida di noi.» George Wagner usò il tono di voce neutro che pre-

sagiva burrasca, come sapeva chi lo conosceva bene. Ed Enrique Gómez lo conosceva bene, al punto che anche se parlavano

al telefono e a tanti chilometri di distanza non faceva fatica a immaginare il suo amico con le labbra serrate in una smorfia e un tic all'occhio destro che gli faceva vibrare la palpebra. «Crede che siamo stati noi a mandare gli italiani a seguire sua nipote» replicò.

«Sì, è quello che crede, e il peggio è che non sappiamo chi li abbia dav-vero mandati. Yasir ci ha fatto sapere che Alfred vuole parlare con tutti noi e che non ci sarà nessuna operazione se non la dirigerà lui. Vuole che Du-kais invii uno dei suoi uomini per discutere con lui come pianificare le co-se e minaccia che non se ne farà nulla se non a modo suo.»

«Lui conosce il territorio, George, questo è indiscutibile. Sarebbe una follia lasciare tutta l'operazione nelle mani di Dukais. Senza Alfred non si può fare.»

«Sì, ma lui non può minacciarci, né dettare condizioni.» «Noi vogliamo la Bibbia d'argilla, e non certo per esporla in un museo;

lui la vuole per sua nipote. Bene, abbiamo una divergenza di interessi, ma non possiamo fare a meno di fidarci di Alfred o mandare tutto all'aria per la testardaggine di dimostrare chi è il più forte. Corriamo il rischio di sca-tenare una guerra fra di noi. Se siamo arrivati a questo punto è stato perché abbiamo agito come un'orchestra, ciascuno eseguendo la sua parte.»

«Fino a che Alfred ha voluto stonare.» «Non esageriamo, George, e non dimentichiamoci che se vuole recupe-

rare la Bibbia d'argilla è solo per sua nipote.» «Quella stupida!» «Su, non è una stupida, è sua nipote. Tu non puoi capire perché non hai

una famiglia.»

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«Noi siamo una famiglia. Noi, solo noi, o te lo sei dimenticato, Enri-que?»

Enrique Gómez rimase in silenzio, pensando a Rocío, a suo figlio José, ai nipoti. «George, alcuni di noi hanno formato un'altra famiglia, verso la quale hanno dei doveri.»

«Tu ci sacrificheresti per la tua famiglia?» «Non farmi questa domanda, perché non c'è risposta. Io amo la mia fa-

miglia; quanto a voi... siete come le mie braccia, i miei occhi, le mie gam-be... Non si può descrivere cosa siamo noi quattro. Non comportiamoci come i bambini a cui chiedono se vogliono più bene a mamma o a papà. Alfred ama sua nipote, le vuole regalare la Bibbia d'argilla. So che non è sua, che appartiene tanto a noi quanto a lui. Dunque, evitiamo che ciò ac-cada, ma senza fare drammi, e confidiamo in lui, come sempre, per l'altra operazione. Se gli dichiariamo guerra, lotterà e ne usciremo distrutti.»

«Non può farci alcun male.» «Sì che può, George; lo sai bene, e sai anche che se lo spingiamo a farlo

non esiterà.» «Cos'hai in mente?» «Di organizzare due operazioni. Una, quella già prevista, con a capo Al-

fred; l'altra, quella della Bibbia d'argilla, da pianificare di nascosto.» «È quel che ho fatto fin dall'inizio. Paul ha trovato due uomini da infil-

trare nella squadra di Picot.» «Bene, si tratta proprio di questo: di mettere qualcuno alle costole della

nipote di Alfred e, se troveranno la Bibbia, di portargliela via. A nessuno verrà fatto del male.»

«Credi che la donna se la lascerà sottrarre? Non pensi che Alfred abbia già escogitato un piano perché nessuno possa portargliela via?»

«Sì, avrà previsto che ci proveremo. Ci conosce, ma anche noi cono-sciamo lui. Dunque, giocheremo al gatto e al topo, ma se gli uomini di Paul saranno abbastanza intelligenti, sapranno accaparrarsi la Bibbia e scappare.»

«Conosci qualche gorilla intelligente?» «Ce ne dev'essere qualcuno, George. In ogni caso, lasciamo come ultima

chance il ricorso alla violenza; ma che sia l'ultima, non la prima.» «Sai come vanno le cose, quando si è sul campo... Non saremo lì noi a

valutare la situazione, saranno i gorilla a decidere. E può darsi che faccia-no del male alla donna.»

«Almeno potremo dare istruzioni precise perché non commettano scioc-

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chezze il primo giorno.» «Mi consulterò con Frank, e se è d'accordo agiremo così. Magari ti darà

ragione: lui, come te, ha una famiglia.» «E avresti dovuto averla anche tu, George.» «Non ne ho mai sentito il bisogno.» «Sarebbe stato meglio.» «Lo è stato per voi, ma io ho preferito non farmi carico di moglie e figli.

Da quest'onere, almeno, io sono libero.» «Non è poi così male avere una famiglia, George.» «Ti rende debole e vulnerabile.» «Non abbiamo avuto scelta.» «Lo so, è andata così, comunque non parliamone più. Telefonerò a

Frank.» «E che Dukais mandi qualcuno in gamba a parlare con Alfred. Lui non

ha mai sopportato di essere comandato, lo sai.» «Lo so.» «Dunque facciamo le cose per bene. Io non voglio che accada qualcosa

ad Alfred, capito, George? Prendiamoci la Bibbia d'argilla; lui sa che non gli appartiene e capirà le nostre ragioni, anche se non gli piaceranno.»

«Non possiamo rinunciare alla Bibbia d'argilla solo perché la donna non ce la vuole dare.»

«Non ho detto che dobbiamo rinunciarci, vorrei solo portargliela via senza farle del male.»

«Ma...» «Tu mi hai capito, George. Non parliamone più. Facciamo ciò che è ne-

cessario, ma solo se è necessario.»

14 Yasir si stupiva del fatto che un uomo tanto volgare come Dukais fosse

così importante. Ma lo era, e lui lo sapeva. Dukais stava masticando una gomma. Si era tolto le scarpe e aveva mes-

so i piedi sopra il tavolo senza vergognarsi di mostrare i calzini incollati alla pelle per il sudore. «Le scarpe che mi ha regalato mia moglie mi rovi-nano i piedi» disse a mo' di scusa.

Yasir si accomodò in poltrona lasciandosi andare all'indietro, senza riu-scire a nascondere il proprio disgusto per i calzini di Dukais.

Inoltre, era stanco. Era a Washington da due giorni, e la città lo stressa-

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va; come se non bastasse, notava la xenofobia nei confronti degli arabi che dilagava in città. Era uscito dall'hotel solo per le riunioni di lavoro.

Lo infastidiva l'ignoranza degli americani. Non sapevano dove si trovas-se l'Egitto né cosa stesse succedendo in Oriente. E ancor meno capivano perché non li sopportassero. Lo sorprendeva che un paese tanto ricco come gli Stati Uniti, accanto a una classe dirigente preparata - che muoveva gli ingranaggi del mondo -, ospitasse anche un così grande numero di persone ignoranti.

Yasir era un uomo d'affari e la sua religione era il denaro, ma quando andava negli Stati Uniti si risvegliava in lui un certo nazionalismo. Non sopportava il disprezzo degli americani.

"Egitto?", "È vicino alla Turchia?", "C'è il mare?", "Ci sono ancora i fa-raoni?" Sì, queste domande gliele avevano fatte non una, ma cento volte.

Il suo paese era povero o, meglio, lo avevano impoverito i diversi regimi corrotti con l'indispensabile aiuto delle potenze per le quali il mondo era solo una specie di scacchiera. L'Egitto aveva subito l'influenza sovietica, e ora subiva quella statunitense. Come gli aveva detto suo figlio Abu: "A co-sa ci è servito? Loro ci vendono quello di cui abbiamo bisogno a peso d'o-ro e noi siamo eternamente indebitati".

Per quanto potesse discutere con il figlio a causa del suo radicalismo, Yasir pensò che Abu avesse ragione. Non capiva perché a suo figlio, a cui non mancava nulla, piacesse avere come amici quella banda di fanatici che credevano che la soluzione a tutti i problemi fosse l'Islam.

Prima di prendere l'aereo per Washington, aveva avuto una discussione con Abu a causa della barba che il figlio si era lasciato crescere. Per molti giovani egiziani la barba si era trasformata in un simbolo di ribellione.

«Sarà Alfred a dirigere le operazioni» disse Dukais a Yasir. «È la cosa migliore. In effetti, lui conosce l'Iraq a differenza di noi, e gli uomini ese-guiranno i suoi ordini. Quando ritornerai al Cairo ti accompagnerà uno dei miei, un ex colonnello dei berretti verdi. Ha la pelle un po' scura come voi, dato che è di origine ispanica, così non richiamerà troppo l'attenzione. I-noltre, spiccica anche qualche parola in arabo. Si occuperà lui dei ragazzi, per cui sarà meglio che faccia la conoscenza di Alfred, in modo che sappia direttamente da lui quello che c'è da fare. Si chiama Mike Fernández ed è un tipo in gamba. Prima di uccidere è in grado di pensare. Ha lasciato l'e-sercito perché io lo pago di più, molto di più.» Si mise a ridere mentre a-priva una scatola d'argento, da cui estrasse un avana. Ne offrì uno a Yasir, ma l'egiziano lo rifiutò. «Posso fumare solo nel mio ufficio. In casa non

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me lo permettono, nei ristoranti è vietato, a casa degli amici le loro mogli isteriche, come la mia, me lo impediscono. Un giorno di questi mi trasferi-rò qui per sempre.»

«Alfred è mollo malato. Non so per quanto ne avrà.» «Tuo cognato è ancora il suo medico?» «Mio cognato è il primario dell'ospedale dove Alfred è in cura. Lì lo

hanno operato e gli hanno tolto una parte di fegato, ma le ultime ecografie hanno rivelato alcune piccole macchie; in conclusione, ha il fegato pieno di tumori che lo stanno uccidendo.»

«Ne avrà ancora per sei mesi?» «Mìo cognato dice che è possibile, ma non ne è sicuro. Alfred non si la-

menta e fa la sua solita vita. Sa che sta morendo, ma...» «Ma?» «Ma tranne che di sua nipote non gli importa di nulla.» «Dunque è un uomo disperato.» «No, non è disperato. Sa che gli rimane poco tempo e non teme niente e

nessuno.» «Questo non va bene, bisogna avere sempre paura di qualcuno» mormo-

rò Dukais. «L'unica cosa che gli sta a cuore è sua nipote. Non gli basta lasciarle un

mucchio di soldi. Vuole trovare la Bibbia d'argilla, il tesoro che sta cer-cando da così tanti anni. Dice che sarà quella la sua eredità.»

Paul Dukais poteva non osservare le più elementari norme dell'educa-zione, come evitare di mettere i piedi sul tavolo, ma era estremamente in-telligente, e per questo era arrivato in alto. Non gli fu quindi difficile capi-re perché Alfred Tannenberg si comportasse in quel modo. «La ragazza non sa niente di lui» disse «ma quando Alfred morirà lei si dovrà confron-tare con la realtà, e l'unico modo per evitare che sia stigmatizzata è tra-sformarla in un'archeologa di fama internazionale. Per questo hanno biso-gno di Picot: perché le fornisca quella patina di rispettabilità che le manca. Potrebbero anche cercare la Bibbia d'argilla da soli, ma questo non libere-rebbe Clara dal disonore. Invece, se la scoperta avvenisse durante gli scavi di una spedizione archeologica internazionale, le cose sarebbero differenti. Ma mi ha sempre sorpreso il fatto che la ragazza non sia al corrente di nul-la.»

«Clara è molto intelligente, solo che non vuole affrontare nessun argo-mento che potrebbe incrinare il rapporto con suo nonno. Per questo si osti-na a non vedere né ascoltare. Ma non sottovalutarla.»

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«In realtà non la conosco. Ho su di lei un dossier di parecchie pagine: cosa le piace e cosa no, le sue avventure a San Francisco, i risultati acca-demici; ma tutto ciò in realtà non serve a conoscere una persona. In questo lavoro ho capito che i dossier non sono in grado di mostrarti l'anima della gente.»

Yasir rimase impressionato dalla riflessione di Dukais. Pensò che il pre-sidente della Planet Security non fosse così sempliciotto come amava far credere. Riconosceva in lui certi valori, nonostante gli desse veramente fa-stidio vederlo con i piedi sul tavolo...

«Dammi qualche ora perché possa parlare con alcuni amici e preparare gli appunti che porterai ad Alfred. Il mio uomo verrà con te. Gli dirò di chiamarti questa sera, così vi conoscerete. Ti ho già detto che si chiama Mike Fernández? Va be', fa lo stesso, ti contatterà, così potrai istruirlo sul viaggio. Sarebbe il caso di spiegargli un po' di cose su quel che troverà, una volta arrivato laggiù.»

«Non è mai stato in Iraq?» «Sì, durante la guerra del Golfo. Ma quella non è stata una vera guerra,

lo sappiamo tutti. È stata solo un'esibizione, uno spiegamento di forze per spaventare Saddam, oltre che un modo per provare gli aggeggi che com-prano i ragazzi del Pentagono con i soldi dei contribuenti. È stato anche in Egitto ma, che io sappia, in vacanza, a vedere le piramidi.»

Quando Yasir se ne andò, Paul Dukais chiamò Robert Brown, ma lui non era in ufficio. Gli dissero che l'avrebbe trovato sul telefonino. Era a pranzo con i rettori di alcune università americane con i quali stava orga-nizzando una serie di iniziative culturali di una certa importanza per l'anno successivo.

Dukais decise che l'avrebbe chiamato più tardi. Fabián era nervoso. Yves l'aveva convinto ad andare in avanscoperta in

Iraq ma, benché lui avesse accettato con entusiasmo, non riusciva a orga-nizzare tutti i preparativi e a ottenere i visti per i diversi scali che dovevano fare prima di giungere a destinazione.

Era riuscito a riunire una squadra di una ventina di persone. Non erano sufficienti, ma non avevano trovato nessun altro che volesse giocarsi la pelle andando a scavare in Iraq alla vigilia di una guerra. Lui stesso si di-ceva che era una pazzia, ma aveva bisogno di qualche goccia di follia da aggiungere alla sua vita.

Poco prima gli aveva telefonato una studentessa dell'ultimo anno dispo-

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sta ad accompagnarlo per un paio di mesi, fino a Natale. Voleva che cono-scesse un amico di un amico. Era bosniaco, gli aveva detto, ed era giunto a Madrid per studiare. Non aveva un soldo e quando aveva saputo che alcuni matti se ne sarebbero andati in Iraq, e che addirittura li pagavano bene, a-veva chiesto di partecipare alla spedizione, disposto a fare qualsiasi cosa.

Ma che avrebbe potuto fare un ragazzo che in Bosnia era un maestro di scuola ed era arrivato a Madrid per seguire un corso di spagnolo all'univer-sità? Fabián non le aveva ancora dato una risposta; prima doveva parlare con Picot. Inoltre, nella spedizione c'era un croato, gliel'aveva detto Picot. L'aveva raccomandato un professore tedesco; a quanto pareva, il giovane studiava informatica in Germania. "Un sopravvissuto della guerra che odia la violenza" gli avevano detto, ma che, tuttavia, non aveva altra risorsa che andare in un paese in stato d'assedio per guadagnare qualche soldo. A Ber-lino la vita era molto cara.

A Picot non era parsa una cattiva idea poter contare su un informatico per elaborare al computer i dati degli scavi fin dal primo giorno. Quindi, il croato li avrebbe accompagnati. Forse inserire nel gruppo un bosniaco sa-rebbe stato un azzardo. Croati e bosniaci si erano massacrati fino a qualche giorno prima e l'ultima cosa di cui lui e Picot avevano bisogno erano ten-sioni intestine. E poi, tornò a chiedersi, come avrebbe potuto aiutarli un maestro di scuola?

Picot entrò fischiettando nell'appartamento di Fabián. Si vedeva che era contento. «Ehilà! C'è qualcuno in casa?»

«Sono nel mio studio!» gridò Fabián. «Che giornata!» disse Picot. «Oggi è andato tutto per il verso giusto.» «Meno male» replicò Fabián «perché io sto diventando scemo con le

pratiche per la dogana. Manco dovessimo trasportare carri armati invece di tende da campeggio. E anche con i visti mi fanno impazzire.»

«Dài, non ti preoccupare. Si aggiusterà tutto.» «Ti vedo molto ottimista. Cos'è successo?» «Sto per concludere un accordo con la rivista "Archeologia scientifica"

affinché nelle diverse edizioni - quella inglese, francese, greca, spagnola, in tutte, insomma - vengano pubblicati i resoconti del nostro lavoro. Spero di ottenere qualche risultato entro la fine dell'anno. Mi pare importante a-vere l'appoggio editoriale della rivista più prestigiosa del nostro settore. Dovremo mandare loro materiale con articoli esplicativi scritti da noi. So che è un sovraccarico di lavoro, ma è tutto a nostro vantaggio.»

«Sì, è vero. Come ci sei riuscito?»

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«Mi ha chiamato l'editore da Londra, interessato alla spedizione. Al convegno di Roma aveva assistito all'intervento di Clara Tannenberg in cui lei affermava che Abramo aveva dettato la Genesi a uno scriba. Crede che, se ho accettato di organizzare questa spedizione, la cosa possa essere seria e vuole avere l'esclusiva; pubblicherà i resoconti della nostra missione.»

«Non so se mi piacerà lavorare con il fiato della stampa sul collo.» «Neanche a me piacerà, ma date le circostanze è la cosa migliore. Non

sono così sicuro di dove andremo a finire.» «Adesso non cominciamo!» «Non mi fido di quella gente. C'è qualcosa di strano, qualcosa che mi

sfugge, ma non riesco a capire di che si tratta.» «Che vuoi dire?» «Non sono riuscito a conoscere il misterioso nonno di Clara Tannen-

berg. Non mi hanno nemmeno detto in quale spedizione e in che anno sono state trovate le due tavolette. Sono una strana coppia.»

«Chi? Quella Clara e suo marito?» «Sì. Lui mi pare un tipo in gamba, uno che sa il fatto suo.» «E lei non ti è piaciuta fin dal primo giorno.» «No, non è vero, ma in quella donna c'è qualcosa di strano.» «Sono ansioso di conoscerla. Sono sicuro che sarà molto più interessante

di quello che dici.» «Sì, però ti ripeto che c'è qualcosa di strano in lei. Comunque, dovrai

averci a che fare perché suo marito non parteciperà alla missione, non so perché.»

«Questo sì che mi intriga: chissà per quale ragione ha deciso di mollare tutto proprio adesso.»

«Non si capisce.» «Ah, dimenticavo! Ha telefonato Magda, la ragazza dell'ultimo anno che

ci ha aiutato a reclutare gli studenti. Le hanno raccomandato un ragazzo bosniaco, un maestro di scuola che segue un corso di spagnolo per stranieri alla Complutense. Pare sia a corto di soldi e non avrebbe problemi ad ac-compagnarci e a fare qualsiasi cosa. Parla inglese.»

«E il suo corso di spagnolo?» «Non so. Te lo dico perché non abbiamo un gruppo molto numeroso,

anche se non capisco in che modo questo tizio potrà esserci utile.» «Devo pensarci. Magari ci darebbe una mano, ma non possiamo nem-

meno farci carico di gente che non serva a qualcosa di concreto. Per il cro-ato è diverso, un informatico ci può essere d'aiuto.»

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«Ho anche pensato che far convivere a stretto contatto un croato e un bosniaco potrebbe causare tensioni.»

«Non è un problema da poco. Fino all'altro giorno si ammazzavano. Non so, ci voglio riflettere, però credo che non sia una buona idea.»

«Nemmeno io sono tanto convinto, ma ho promesso a Magda che te ne avrei parlato comunque.»

«Bene. Tra quelli che vengono con noi, c'è un bravo fotografo?» «A che ci serve?» «Per la rivista! Loro non manderanno nessuno.» «Non dicevi che sono tanto interessati?» «Sì, ma ti ho anche spiegato che tutto il lavoro lo dobbiamo fare noi.

Non vogliono correre rischi, non possono mandare un'équipe in un paese nella situazione in cui si trova l'Iraq. Una rivista come "Archeologia scien-tifica" non è un settimanale di attualità.»

«Come se non avessimo abbastanza da fare!» «Su, non protestare, e dimmi quando partirai.» «Se non devo lottare contro altri funzionari, fra tre giorni. Purtroppo

mancano ancora dei documenti, dunque non è sicuro.» «Chi hai deciso di far venire con te per aiutarti?» «Marta.» «Caspita!» «Ehi, guarda che non c'è niente tra me e Marta.» «Però ti piacerebbe, come piacerebbe a me e a chiunque.» «Ti sbagli. Non hai mai capito che Marta è un'amica, nient'altro. Ci co-

nosciamo da quando studiavamo all'università e, che tu ci creda o no, non abbiamo mai avuto una relazione.»

«Be', è la donna più interessante tra quelle che ti circondano.» «Senza dubbio, ma è una carissima amica, come d'altronde tu sei un ca-

rissimo amico. E, per quanto mi risulta, io a letto con te non ci vengo.» «D'accordo, Marta mi pare intelligente e in gamba.» «Lo è, e ha un dono: sa trattare con tutti, dal ministro al rigattiere.» «Ma là saremo in Iraq.» «Marta è stata in Iraq. Conosce il paese, ci andò anni fa come archeologa

con un gruppo di professori sovvenzionato da una fondazione bancaria. Rimasero un paio di mesi. E poi, parla l'arabo. Potrà farsi capire dai fun-zionari della dogana, dal capo del villaggio, dagli operai, da chiunque.»

«Anche tu mastichi l'arabo.» «L'hai detto: lo mastico. Tu e Marta lo parlate bene, io no. E poi mi fido

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di lei, del suo modo di ragionare; oltre a essere intelligente è molto intuiti-va e trova sempre una soluzione ai problemi.»

«D'accordo, è una buona idea. Sono convinto anch'io che sia una perso-na in gamba. Come archeologa non la conosco, ma se tu dici che è vali-da...»

«Lo è, in questi ultimi anni ha partecipato a spedizioni in Siria e in Giordania, conosce la zona dell'antica Carran dove mi hai detto che quel nonno misterioso trovò le tavolette, dunque non potrebbe esserci qualcuno di più idoneo di lei per questo incarico.»

«Fabián, è un'ottima decisione quella di portare Marta con te. In un lavo-ro come il nostro è importante poter contare su gente affiatata che conviva senza creare tensioni: là le cose non saranno facili.»

«Sta venendo qui.» «Stupendo, dobbiamo ancora occuparci di un sacco di cose.»

15 Robert Brown entrò nella residenza in stile neoclassico nel cuore di un

parco di querce e faggi. Piovigginava; quando scese dall'auto, un maggiordomo lo stava atten-

dendo con l'ombrello aperto. Non era stato il primo ad arrivare: il brusio della conversazione mescolato a qualche risata e al tintinnio dei bicchieri giungeva fino alla scalinata che portava in casa.

Il Mentore si trovava all'ingresso a ricevere gli ospiti. Alto, magro, due occhi azzurri gelidi come il ghiaccio e i capelli bianchi

che un tempo erano stati biondi, dava un'impressione d'imponenza. Nessu-no aveva dubbi sul fatto che quell'uomo avesse fra le mani un grande pote-re, nonostante l'età. Quanti anni poteva avere? si domandò Brown, calco-lando che doveva avere già superato gli ottanta.

Diversi segretari di Stato, quasi l'intero staff della Casa Bianca, senatori, congressisti, avvocati e giudici, insieme a banchieri e a presidenti di multi-nazionali, petrolieri e broker, chiacchieravano animatamente nei saloni splendidamente arredati alle cui pareti erano appesi quadri di importanti maestri della pittura.

Quello che più piaceva a Brown era un Picasso del periodo rosa, un ar-lecchino tragico e burlone appeso sopra il caminetto del salone principale, dove pure si potevano ammirare un Manet e un Gauguin.

In un altro salone vi erano tre dipinti del Quattrocento e un Caravaggio.

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Quella casa pareva una sorta di piccolo museo. Quadri di grandi artisti dell'impressionismo, alternati a capolavori di El Greco, Raffaello e Giotto. Piccole figure in marmo accanto a tavolette babilonesi, due imponenti bas-sorilievi egizi del Nuovo Regno, un leone alato assiro... Ovunque si posas-se lo sguardo si trovava un'opera d'arte che sottolineava il gusto del padro-ne di casa.

Paul Dukais si avvicinò a Robert Brown con una coppa di champagne in mano. «Caspita, ci siamo proprio tutti!»

«Come va, Paul?» «Mica male la festa! Era da un bel po' che nessuno riusciva a mettere in-

sieme tante persone così potenti. Stasera ci sono quasi tutti quelli che muovono i fili del mondo. Manca solo il presidente.»

«Non si nota nemmeno.» «Possiamo parlare?» «Questo è il posto migliore per farlo. Nessuno baderà a noi, tutti quanti

chiacchierano e concludono affari. Sempre che tu riesca a trovarmi un bic-chiere da tenere in mano...»

Fecero segno a un cameriere e Robert chiese un whisky e soda, poi si si-stemarono in un angolo dove tutti potessero vederli parlare come due vec-chi conoscenti.

«Alfred ci creerà dei problemi» esordì Dukais. «Raccontami cosa c'è di nuovo.» «Ho fatto quel che mi hai chiesto. Uno dei miei uomini migliori, Mike

Fernández, un colonnello in pensione, ex berretto verde, andrà con Yasir al Cairo per poi incontrarsi con Alfred. Ho fiducia in Mike, è uno con la testa sulle spalle.»

«Ispanico...» «Nell'esercito non ci sono più americani di origine anglosassone. Sono i

neri e gli ispanici quelli che combattono al nostro posto. E fra loro c'è gen-te in gamba, hanno dovuto faticare per arrivare dove sono, per cui non tutti sono disprezzabili.»

«Non è che li disprezzi, è solo che non so se un ispanico riuscirà ad an-dare d'accordo con Alfred. Sai com'è fatto...»

«Andranno d'accordo. Sono certo che Mike gli piacerà.» «Questo Mike è dominicano, portoricano, messicano...?» «È americano da tre generazioni, è nato qui, come pure i suoi genitori.

Sono stati i suoi nonni ad attraversare il Rio Grande. Non hai nulla da te-mere.»

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«Non riescono proprio a piacermi gli ispanici.» «A te non piace nessuno che non sia bianco come il latte.» «Non dire fesserìe! Ho buoni amici arabi.» «Sì, ma per te gli arabi sono un'altra cosa, non so perché ma è così, ben-

ché adesso non sia proprio politicamente corretto avere degli amici tra lo-ro.»

«I miei amici non vendono cianfrusaglie in un bazar.» «Va bene, non perdiamo tempo in stupidaggini. Dimmi fino a che punto

può arrivare Mike con Alfred.» «A cosa ti riferisci?» «Se Alfred non collabora, se non gioca pulito, che dobbiamo fare?» «Innanzitutto devono conoscersi, far decollare l'operazione, così potre-

mo vedere che cosa ci racconta il tuo uomo, ma soprattutto voglio sapere cosa ne pensa Yasir.»

«E con la nipote?» «Se lei trova la Bibbia d'argilla, Mike gliela dovrà prendere facendo in

modo che le tavolette non subiscano danni. Quelle tavolette non apparten-gono né ad Alfred né a sua nipote. La missione consiste nel prenderle e portarle qui intatte.»

«E se la donna non collabora?» «Paul, se Clara non collabora, peggio per lei. I tuoi uomini devono fare

quello che ti ho appena detto: con le buone o con le cattive.» «Se trovano le tavolette prima che facciamo partire l'altra operazione, fi-

niremo per dover affrontare Alfred.» «Per questo dobbiamo evitare di utilizzare metodi estremi con Clara, a

meno che non ne siamo costretti. Se dovesse accadere, bisogna aver pronto un piano per realizzare in anticipo ciò che ci siamo riproposti, senza conta-re sull'appoggio di Alfred. Yasir ti dirà come e con chi.»

Il Mentore, sfoderando un sorriso che pareva una smorfia, si avvicinò si-lenziosamente ai due uomini, tanto che ebbero un soprassalto quando se lo trovarono accanto. «State facendo affari?»

«Mettiamo a punto gli ultimi dettagli dell'operazione. Paul vuole sapere fin dove può arrivare con Alfred e sua nipote.»

«È difficile trovare un equilibrio» replicò il Mentore guardando nel vuo-to.

«È proprio per questo che voglio istruzioni precise, non mi piacciono le improvvisazioni» affermò Dukais «e nemmeno i fraintendimenti. Perciò sono contento che siate qui per dirmi qual è il limite.»

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L'uomo anziano lo squadrò dall'alto in basso. I suoi occhi riflettevano il disprezzo che provava per Dukais. «In guerra non ci sono limiti, amico mio, conta solamente la vittoria.» Si voltò e andò a mischiarsi tra gli invi-tati.

«Ho sempre avuto l'impressione di non piacergli» constatò Dukais. «Nessuno gli piace, però sa molto bene di chi ha bisogno e di chi no.» «E adesso ha bisogno di noi.» «Proprio così. E poi l'hai sentito: in guerra non ci sono limiti.» Frank Dos Santos e George Wagner si strinsero la mano senza convene-

voli. La festa era al culmine e un'orchestra da camera accompagnava le chiacchiere degli invitati.

«Manca solo Enrique» disse George. «Manca anche Alfred. Andiamo, non essere così duro con luì.» «Ci ha traditi.» «Alfred non la pensa così.» «E come la pensa? Hai parlato con lui?» «Sì. Tre giorni fa mi ha telefonato a Rio.» «Che imprudenza!» «Sono certo che ha adottato tutte le misure di sicurezza necessarie. Io

ero in hotel quando mi ha chiamato.» «Che cosa ti ha detto?» «Vuole che sappiamo che non è sua intenzione tradirci e nemmeno pro-

vocare una guerra tra noi. Ha rilanciato la sua offerta: dirigere e seguire lo svolgimento dell'operazione che abbiamo messo in moto e rinunciare alla sua parte di utili in cambio della Bibbia d'argilla. È un'offerta generosa.»

«E la chiami generosa? Sai quanto possono valere quelle tavolette, se le troverà? Hai una vaga idea del potere che conferiranno a chi le possiede? E dài, Frankie! Mi auguro solamente che tu non ti faccia ingannare. Mi pre-occupa il fatto che tu ed Enrique siate sempre disposti a giustificare Al-fred. Lui ci ha traditi.»

«Non esattamente. Prima che sua nipote si recasse a Roma, cercò di convincerci a cedergli la Bibbia d'argilla se l'avesse trovata, in cambio di tutti i vantaggi dell'altro affare.»

«Gli rispondemmo di no e decise di andare comunque dritto per la sua strada.»

«Sì, si è sbagliato. Ma ora è su tutte le furie perché crede che siamo stati noi a far pedinare sua nipote.»

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«Ma non siamo stati noi!» «Perciò dobbiamo scoprire chi è stato e perché. Finché non lo appurere-

mo, non mi sentirò tranquillo.» «E cosa dovremmo fare? Sequestrare il capo dell'agenzia d'investigazio-

ni italiana perché ci dica chi l'ha contattato? Sarebbe una follia, non pos-siamo commettere un simile errore.»

«Non ti capisco. Non capisco come tu faccia a non dare importanza a quanto è accaduto. Qualcuno pedinava Clara, e questo non è normale.»

«Clara è sposata con un funzionario di Saddam. Non ti è venuto in men-te che qualcuno potrebbe pensare che Ahmed Husseini sia una spia? Sad-dam non permette a nessuno di uscire dall'Iraq e invece a quanto pare Hus-seini entra ed esce quando vuole. Ci dev'essere parecchia gente interessata a sapere il perché. Chissà che non siano stati gli stessi servizi segreti italia-ni, o quelli della NATO, chi può dirlo. Chiunque potrebbe essere interessa-to a seguire Husseini.»

«Il fatto è che hanno seguito non lui, ma Clara.» «Questo non possiamo saperlo.» «E invece sì, non insistere affermando il contrario.» «Dovremo tenere gli occhi aperti, ma non abbiamo motivo di preoccu-

parci.» «Non ti capisco, George...» «Non ti puoi fidare di me, come sempre?» «Lo stiamo facendo, ma Enrique e io abbiamo un presentimento e Alfred

è furibondo.» «Sono io a essere furibondo! Ci ha traditi! Non può prendersi quelle ta-

volette, non gli appartengono. Come fate a non rendervi conto di cosa si-gnifichi il comportamento di Alfred? Nessuno di noi può decidere per la propria convenienza o per il proprio interesse, nessuno. È chiaro a tutti e quattro. E Alfred ci vuole fregare.»

«Fin dove sei disposto ad arrivare?» «Io o noi?» «Noi, George, fin dove arriveremo?» «Non c'è perdono per chi tradisce.» «Darai l'ordine di ucciderlo?» «Non gli consentirò di rubarci quel che è nostro.» Clara aveva una borsa in mano. Diede un'ultima occhiata alla sua stanza

chiedendosi se avesse dimenticato qualcosa, ma ben presto lasciò perdere.

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Ahmed l'aspettava sulla porta per condurla alla base militare da dove un e-licottero l'avrebbe portata fino a Tell Mughayir; da lì avrebbe raggiunto Safran su un fuoristrada.

Aveva rifiutato la proposta di Ahmed di accompagnarla e non aveva permesso a Fatima di scortarla, questa volta. Le bastavano i quattro uomini ai quali suo nonno aveva ordinato di non perderla di vista.

Ahmed non viveva più nella Casa Gialla. Da diversi giorni si era trasfe-rito da sua sorella.

Sapeva che il marito aveva parlato a lungo con il nonno prima che questi andasse al Cairo. Nessuno dei due aveva voluto raccontarle cosa si fossero detti. Ahmed le aveva riferito solo che probabilmente si sarebbe trattenuto in Iraq fino all'inizio della guerra. Però non gliel'aveva assicurato. Lei ave-va insistito per una spiegazione, ma suo marito si era chiuso in se stesso.

Con il nonno non era stata più fortunata. «Telefonami quando arrivi, voglio sapere se stai bene» le disse Ahmed

quando giunsero alla base. «Starò bene, non ti preoccupare; si tratta solo di un paio di giorni.» «Sì, ma agli inglesi piacerebbe molto bombardare quella zona.» «Per favore, stai tranquillo. Non accadrà nulla.» Salì sull'elicottero e si mise le cuffie per proteggersi dal rumore dei roto-

ri. A mezzogiorno sarebbe arrivata a Safran, e pensava di godersi la solitu-dine del luogo.

Quando Ahmed vide l'elicottero librarsi nel cielo provò un senso di libe-razione. Per qualche giorno non si sarebbe sentito in colpa, perché era così che si sentiva quando stava con Clara. Era cosciente dell'enorme sforzo che lei faceva per non perdere il controllo delle proprie emozioni, per non lasciarsi scappare il minimo rimprovero. Aveva reso le cose semplici, mol-to semplici, e non gli aveva permesso di fare marcia indietro.

Ma lui sarebbe stato costretto a prendere una decisione difficile: o accet-tava il ricatto del nonno di Clara e partecipava all'ultima operazione già avviata o doveva cercare di andarsene, di scappare dall'Iraq.

Sentiva sul collo il fiato del Colonnello. Sapeva che Alfred l'aveva aller-tato affinché lo pedinassero, per cui lasciare l'Iraq sarebbe stato arduo. Se fosse rimasto sarebbe diventato ricco; Alfred gli aveva assicurato che a-vrebbe pagato generosamente la sua partecipazione a quest'ultima impresa e, inoltre, l'avrebbe aiutato a uscire dal paese.

Solo il nonno di Clara avrebbe potuto garantirgli la fuga, ma poteva fi-darsi di lui? Non l'avrebbe usato per poi dare, all'ultimo momento, l'ordine

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di ucciderlo? Non aveva modo di saperlo; con Alfred non si poteva essere sicuri di nulla.

Aveva parlato con sua sorella, l'unica della famiglia che viveva a Ba-ghdad e che, come lui, sognava di andarsene; era tornata da appena un an-no, poiché suo marito, un diplomatico italiano, era stato destinato a Ba-ghdad, e sperava che appena fosse iniziata la guerra li avrebbero evacuati.

Per il momento Ahmed era stato accolto a casa loro, un grande apparta-mento situato in una zona residenziale in cui vivevano altri diplomatici oc-cidentali, e aveva occupato la camera del più piccolo dei suoi nipoti, che era passato a condividere la stanza con il fratello maggiore.

Sua sorella gli consigliava di chiedere asilo politico, ma lui conosceva l'imbarazzante situazione in cui avrebbe messo il cognato se si fosse pre-sentato all'ambasciata italiana con una simile richiesta. Avrebbe provocato un incidente diplomatico, e probabilmente Saddam gli avrebbe impedito di andarsene, nonostante la protezione degli italiani.

No, non era quella la soluzione. Ahmed doveva lasciare l'Iraq con i pro-pri mezzi, senza compromettere nessuno, tanto meno la sua famiglia.

Quando l'elicottero atterrò in una base vicina a Tell Mughayir, Clara a-

veva la sensazione che le sarebbe scoppiata la testa. Le dolevano le tempie perché il rumore dei rotori aveva attraversato le cuffie di protezione.

Buona parte del materiale da guerra dell'Iraq era ferraglia, come l'elicot-tero che li aveva portati fino lì. Il Colonnello li aveva avvertiti che era l'u-nico di cui poteva disporre.

Sul fuoristrada, scortata da un paio di soldati e seguita su un'altra auto dai quattro uomini di suo nonno, Clara iniziò a sentirsi meglio.

Faceva caldo, un caldo secco che aumentava quando incrociavano qual-che altro mezzo che sollevava una nuvola di polvere gialla.

Il capo del villaggio la ricevette sulla porta di casa sua e la invitò a pren-dere un tè. Scambiarono i soliti convenevoli, fino a che, terminate le for-malità, Clara gli spiegò il motivo per cui si trovava lì e che cosa voleva.

L'uomo la ascoltò attento, con un sorriso, e le assicurò che, seguendo le istruzioni telefoniche di Ahmed, aveva già organizzato tutto. Avevano ini-ziato a costruire alcune case di argilla, un materiale che abbondava nella zona; come tremila anni prima, una volta pulita dalle impurità, la impasta-vano con acqua e aggiungevano paglia tritata, sabbia, ghiaia o cenere. La tecnica di costruzione era semplice: alzavano muri a fasi alterne e quando una parte si seccava aggiungevano un altro strato di argilla. Per rendere le

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capanne impermeabili le ricoprivano di paglia e di foglie di palma. Ne avevano terminate una mezza dozzina e, al ritmo a cui lavoravano,

altre sei sarebbero state pronte prima della fine della settimana. All'interno erano molto semplici e non troppo ampie, ma almeno Ahmed

si era preoccupato di farci installare docce e servizi sanitari. Orgoglioso del lavoro svolto in così poco tempo, il capo del villaggio le

assicurò anche di avere scelto personalmente gli uomini necessari per gli scavi.

Clara lo ringraziò e, facendo un giro di parole per non offenderlo, gli spiegò che riteneva opportuno organizzare una riunione con tutti gli uomi-ni del villaggio perché gli operai di cui aveva bisogno dovevano avere ca-ratteristiche precise. Era sicura, gli disse, che lui avesse scelto bene, ma gli chiedeva di permetterle di vedere tutte le persone disposte a lavorare nella missione archeologica.

Dopo lunghe trattative, Clara decise di citare en passant il Colonnello, in modo da porre fine a quell'interminabile mercanteggiare, visto che il capo del villaggio insisteva sul fatto che solo lui avrebbe potuto scegliere i lavo-ranti.

Quando udì nominare il Colonnello, l'uomo acconsentì alla richiesta di Clara. Il giorno dopo, le disse, avrebbe potuto riunire tutti gli uomini che voleva. C'erano anche donne disposte a occuparsi della pulizia delle tende degli stranieri durante gli scavi.

Scendeva la sera quando Clara gli comunicò che accettava l'invito ad al-loggiare in casa sua, insieme a sua moglie e alle figlie, fino a che non fosse arrivato il resto della spedizione. Ma prima, gli disse, voleva andare alle rovine e rimanere lì per un po', a pensare al lavoro da fare. L'uomo assentì. Sapeva che Clara avrebbe fatto quello che voleva e, inoltre, su di lui non ricadeva alcuna responsabilità, giacché la sua ospite era arrivata sotto scor-ta da Baghdad.

Clara pensò che il villaggio doveva sicuramente il nome al colore giallo che avvolgeva tutto, alla tinta paglierina dei sassi. Le piaceva quel colore, che pareva voler uniformare quel luogo sperduto, così vicino all'antica Ur.

Chiese alla scorta di rimanere a distanza. Desiderava restare sola, senza sentire quella presenza assillante. Ma gli uomini rifiutarono perché gli or-dini di Alfred erano stati tassativi al riguardo: non potevano perderla di vi-sta e se qualcuno avesse cercato di farle del male avrebbero dovuto ucci-derlo, dopo avergli fatto confessare il proprio nome e chi fosse il suo man-dante. Nessuno avrebbe potuto nuocere alla nipote di Tannenberg senza

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pagare con la vita. A nulla servirono le proteste di Clara; il massimo che ottenne fu che si

mantenessero a una certa distanza, ma senza mai perderla di vista. Camminò per tutto il perimetro accarezzando i resti della pietra con cui

era stato eretto quell'edificio misterioso. Lo osservò da tutte le angolature, togliendo il terriccio che aveva aderito alla roccia e raccogliendo piccoli frammenti di tavolette che ripose gelosamente in una borsa di tela. Poi si sedette in terra e, appoggiandosi alla pietra, lasciò vagare l'immaginazione per quei luoghi in cerca di Shamas.

16

«Ma, Abram, ciò che mi stai raccontando succede anche nell'epopea di

Gilgamesh» protestò Shamas. «Sei sicuro?» «Certo che lo sono, l'abbiamo studiato con Ili.» «Ti ho già detto che a volte gli uomini cercano di spiegare quello che

accade attraverso racconti e poemi.» «Va bene, allora continua la storia di quel Noè.» «In realtà, non si tratta della storia di Noè, ma dell'ira di Dio verso gli

uomini e il loro comportamento. Tutto ciò che Dio vedeva sulla terra era male, per questo decise di sterminare la sua creatura più amata: l'uomo. Pe-rò Dio, che è sempre misericordioso, si commosse davanti alla bontà di Noè e decise di salvarlo.»

«Dunque ordinò che venisse costruita un'arca di legno di cipresso, sì, questo l'ho già scritto» replicò Shamas rileggendo una delle tavolette am-mucchiate accanto alla palma cui erano appoggiati. «E anche le misure dell'arca: lunghezza trecento cubiti, larghezza cinquanta e altezza trenta. La porta dell'arca si trovava su un lato, e Dio ordinò che fosse costruita su tre piani.»

«Vedo che hai scritto tutto quel che ti ho detto.» «Certo. Anche se questa storia non mi piace tanto quanto quella della

creazione del mondo.» «E perché no?» «Ho ripensato molto a Adamo e a Eva quando si nascosero da Dio per la

vergogna di sentirsi nudi. E alla maledizione di Dio contro il serpente per avere indotto Eva a disobbedire.»

«Shamas, non puoi scrivere solo quello che ti piace. Mi hai chiesto di

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raccontarti la storia del mondo. Dunque, è importante che tu sappia perché Lui volle castigare gli uomini e inondare la terra. Se non vuoi continua-re...»

«Sì, certo che voglio! Solo che ricordavo l'epopea di Gilgamesh e...» Il ragazzo si morse il labbro temendo di avere provocato l'ira di Abram. «Per favore, continua e perdonami!»

«Dov'ero rimasto?» Shamas ripassò le ultime righe scritte sulla tavoletta e lesse a voce alta:

«Il Signore disse a Noè: "Entra nell'arca tu con tutta la tua famiglia, perché ti ho visto giusto dinanzi a me in questa generazione. D'ogni animale mon-do prendine con te sette paia, il maschio e la sua femmina; degli animali che non sono mondi un paio, il maschio e la sua femmina''».

«Scrivi» gli ordinò Abram. «"Anche degli uccelli mondi del cielo, sette paia, maschio e femmina, per conservarne in vita la razza su tutta la terra. Perché tra sette giorni farò piovere sulla terra per quaranta giorni e quaran-ta notti; sterminerò dalla terra ogni essere che ho fatto." Noè fece quanto il Signore gli aveva comandato.

«Noè aveva seicento anni, quando venne il diluvio, cioè le acque, sulla terra. Noè entrò nell'arca e con lui i suoi figli, sua moglie e le mogli dei suoi figli, per sottrarsi alle acque del diluvio. Degli animali mondi e di quelli immondi, degli uccelli e di tutti gli esseri che strisciano sul suolo en-trarono a due a due con Noè nell'arca, maschio e femmina, come Dio ave-va comandato a Noè.

«Dopo sette giorni, le acque del diluvio furono sopra la terra; nell'anno seicentesimo della vita di Noè, nel secondo mese, il diciassette del mese, proprio in quello stesso giorno, eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono. Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti... E il Signore chiuse la porta dietro di lui.»

Il ragazzo faceva scorrere velocemente lo stilo sull'argilla, impressionato nell'immaginare che si aprissero porte nel cielo da cui Dio spargeva la pioggia. Pensò a un'anfora che si rompesse versando acqua ovunque. Sha-mas continuò a scrivere, senza alzare lo sguardo, ciò che gli raccontava Abram.

«Le acque si innalzarono sempre più sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto tutto il cielo... Perì ogni essere vivente che si muove sulla terra, uccelli, bestiame e fiere e tutti gli esseri che brulicano sulla terra e tutti gli uomini...

«Dio si ricordò di Noè... e fece passare un vento sulla terra e le acque si

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abbassarono. Le fonti dell'abisso e le cateratte del cielo furono chiuse e fu trattenuta la pioggia dal cielo; le acque andarono via via ritirandosi dalla terra e calarono dopo centocinquanta giorni. Nel settimo mese, il diciasset-te del mese, l'arca si posò sui monti dell'Ararat. Le acque andarono via via diminuendo fino al decimo mese. Nel decimo mese, il primo giorno del mese, apparvero le cime dei monti.»

Abram rimase in silenzio e socchiuse gli occhi. Shamas ne approfittò per riposare. Utilizzava le tavolette da entrambi i lati; quello che aveva intra-preso non era un compito facile. Quando Abram avesse terminato di det-targli la storia di Noè, gli avrebbe raccontato ciò che lo tormentava in so-gno. Voleva tornare a Ur, si sentiva straniero a Carran, anche se lì c'erano suo padre, sua madre e i suoi fratelli. Ma la felicità l'aveva abbandonato da quando avevano raggiunto quella città. Adesso non vedeva quasi più suo padre, e sua madre era sempre di cattivo umore. A tutti mancava la casa accogliente e fresca che suo padre aveva costruito alle porte di Ur. Non avevano più voglia di spostarsi continuamente come prima.

«A cosa pensi, Shamas?» «A Ur.» «E cos'è che pensi?» «Che mi piacerebbe stare con mia nonna, addirittura tornare nella scuola

di Ili.» «Non ti piace Carran? Anche qui stai imparando.» «Sì, è vero, ma non è lo stesso.» «Cosa non è lo stesso?» «Il sole, la notte, il linguaggio della gente, il sapore dei fichi non sono

uguali.» «Ah, senti la nostalgia!» «Cos'è la nostalgia?» «Il ricordo delle cose perdute, e a volte di ciò che nemmeno conoscia-

mo.» «Non voglio separarmi dalla tribù, ma non mi piace vivere qui.» «Non rimarremo a lungo.» «So che Terach è anziano e che quando non ci sarà più tu ci porterai a

Canaan, ma il fatto è che non so se voglio andarci. Anche mia madre vor-rebbe tornare indietro.» Shamas rimase in silenzio, angosciato per avere aperto troppo il proprio cuore. Temeva che Abram lo dicesse a suo padre e che questi si intristisse nel sapere che non era felice.

Abram parve avergli letto nel pensiero. «Non ti preoccupare, non lo dirò

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a nessuno, ma dobbiamo fare in modo che tu torni a essere felice.» Il ragazzo si sentì sollevato mentre riprendeva lo stilo per continuare a

scrivere ciò che gli raccontava Abram. Così seppe che Noè prima aveva mandato un corvo e più tardi una co-

lomba per vedere se la terra si era asciugata, e aveva dovuto liberare una seconda colomba, e una terza, fino a che quest'ultima non ritornò. E Dio ebbe pietà degli uomini e disse: "Non maledirò più il suolo a causa del-l'uomo, perché l'istinto del cuore umano è incline al male fin dall'adole-scenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto".

Dio, gli spiegò Abram, benedisse Noè e i suoi figli e disse loro di essere fecondi, di moltiplicarsi e di popolare la Terra. Egli diede pure agli uomini tutto ciò che si muove e ha vita, allo stesso modo di come aveva dato loro l'erba verde, però proibì di mangiare carne con la sua anima, e cioè, con il sangue: "Del sangue vostro, anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo fratello".

«E cioè, restituì agli uomini il paradiso?» chiese Shamas. «Non esattamente, sebbene Dio ci perdonò e ci fece diventare gli esseri

più importanti della sua opera dandoci tutto quanto aveva creato sulla Ter-ra; la differenza è che nulla ci viene regalato. Gli uomini e gli animali de-vono lottare per sopravvivere, bisogna lavorare per ottenere le sementi per i campi, le donne soffrono per darci la discendenza. No, Dio non ci ha re-stituito il paradiso, si è solo impegnato a non cancellarci dalla faccia delia Terra. Mai più si apriranno le porte del cielo spargendo pioggia come fosse un torrente. Ma adesso basta, il sole si sta nascondendo. Domani ti raccon-terò perché gli uomini non parlano tutti allo stesso modo e a volte non si capiscono.»

Il ragazzo aprì gli occhi sorpreso. Abram aveva ragione, il sole si vedeva appena, ma a lui sarebbe piaciuto continuare. Di sicuro sua madre lo stava cercando e suo padre avrebbe voluto vedere quello che aveva imparato quel giorno alla scuola degli scribi. Dunque si tirò su con un salto, raccolse con cura le tavolette e iniziò a correre verso la casa di mattoni della sua famiglia.

Il giorno dopo Abram non andò all'appuntamento con Shamas. Cercava la solitudine perché sentiva dentro di sé la chiamata della voce di Dio. Quella notte si era svegliato madido di sudore; avvertiva qualcosa che lo attanagliava.

Quando si alzò, uscì da Carran camminando senza meta per ore fino a

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che, all'imbrunire, si sedette a riposare in un palmeto circondato da erba verde. Aspettava un segno del Signore.

Chiuse gli occhi e sentì una fitta al cuore, e nello stesso istante la voce santa di Lui.

"Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno bene-dette tutte le famiglie della terra."

Aprì gli occhi sperando di vedere il Signore, ma le ombre della notte si erano impadronite del palmeto, illuminato solo dalla luna rossastra e da migliaia di stelle come minuscoli punti che brillavano nel cielo.

L'inquietudine tornò a impossessarsi di lui. Dio gli aveva parlato con chiarezza, poteva sentire ancora la forza delle sue parole riecheggiargli dentro.

Sapeva che si sarebbe dovuto mettere in marcia verso la terra di Canaan, come voleva il Signore. Ancora prima di uscire da Ur, Lui gli aveva indi-cato il cammino, essendo Terach anziano e desideroso di riposare a Carran, la terra dei suoi antenati.

I giorni e le notti erano trascorsi senza che la tribù si muovesse da Car-ran, dove avevano trovato ricchi pascoli e una prospera città per il com-mercio. Si erano insediati lì, come aveva voluto Terach, anche se Abram aveva sempre saputo che quello era un accampamento provvisorio, poiché sarebbe giunto il giorno in cui il Signore l'avrebbe spinto a esaudire i pro-pri desideri.

Quel giorno era arrivato e sentiva l'angoscia di dover obbedire a Dio e disobbedire a Terach.

Il suo vecchio padre, con lo sguardo offuscato e le gambe che faticavano a camminare, dormicchiava buona parte del giorno perduto nelle regioni abitate dal ricordo e dal timore dell'aldilà. Come avrebbe fatto a dirgli che dovevano partire? Il dolore gli opprimeva il petto e le lacrime sgorgavano dai suoi occhi senza che lo potesse impedire.

Amava suo padre, che l'aveva guidato durante la vita. Da lui aveva im-parato ciò che sapeva, e osservando le sue abili mani che modellavano le statue aveva capito che le mani non possono fare Dio.

Terach credeva nel Signore, ed era riuscito a trasmettere la fede nell'a-nima del resto della tribù, ancora adesso ben disposta a onorare le figure di argilla profusamente adornate dei santuari.

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Abram camminava con passo leggero. Doveva raggiungere la casa di suo padre, dove Sarai l'avrebbe aspettato sveglia, malgrado il sole fosse tramontato da tempo. Sentiva il bisogno di affrettare il passo perché sapeva che Terach lo attendeva. Suo padre lo chiamava angosciato.

Nei pressi di Carran incontrò un uomo della tribù che aveva il compito di condurlo di tutta fretta da suo padre. La sera prima, gli spiegò, Terach era caduto in una sorta di sopore da cui nessuno riusciva a risvegliarlo e mormorava solo il nome di Abram.

Quando entrò in casa, Abram ordinò alle donne di uscire dalla stanza di suo padre e chiese a suo fratello Nacor di lasciarglielo vegliare.

Nacor, sfinito dalla lunga giornata, uscì a respirare l'aria fresca della not-te mentre Abram si occupava di Terach.

Chi si trovava in casa sentì il brusio della voce di Abram, benché paresse a tutti di udire anche la voce stanca del vecchio.

L'alba li sorprese con la morte di Terach. La schiava di Sarai si avvicinò

alla tenda per avvisare Yadin, il padre di Shamas, che si affrettò a raggiun-gere la casa di Terach situata a pochi passi dalla sua. Trovò Abram e il fra-tello Nacor, insieme alle loro mogli, Sarai e Milca, e al nipote Lot.

Le donne piangevano con le mani fra i capelli, mentre gli uomini non riuscivano a pronunciare parola, tale era il loro sgomento.

Yadin si fece carico della situazione e mandò a chiamare sua moglie af-finché, con l'aiuto delle altre donne, lavasse il cadavere di Terach e lo pre-parasse per dormire il sonno eterno nella terra di Carran.

Terach era morto nel luogo che amava sopra ogni altro, poiché a Carran, in quel continuo spostarsi con il gregge in cerca di pascoli e di grano, era nata parte della sua stirpe, quasi quanta era venuta alla luce a Ur.

La tribù, dopo la veglia funebre, si accinse a consegnare il corpo di Te-rach alla terra secca e riarsa di quel periodo dell'anno.

Sul volto di Abram si rifletteva il dolore di essere orfano. Terach era sta-to suo padre e la sua guida, e gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva. L'a-veva aiutato a trovare Dio e non l'aveva mai rimproverato di ridere delle figure d'argilla che loro trasformavano in dèi su incarico di qualche nobile signore o del re in persona. Terach aveva sentito Dio nel suo cuore, come lo sentiva Abram. Adesso sarebbe toccato a lui guidare la tribù e portarla nelle terre dove ci fossero pascoli e tutti potessero vivere senza timore. Una terra promessa da Dio.

«Andremo a Canaan» annunciò. «Prepariamoci a partire.»

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Gli uomini discussero sul cammino da seguire. Alcuni avrebbero preferi-to rimanere a Carran, altri proponevano di tornare a Ur, ma la maggioranza avrebbe seguito Abram ovunque fosse diretto.

Yadin andò da colui che era diventato il capo della tribù. «Abram, non ti accompagneremo a Canaan.»

«Lo so.» «Lo sai? Com'è possibile, se fino a ieri non lo sapevo nemmeno io?» «Si leggeva nello sguardo della tua famiglia che non mi avreste accom-

pagnato. Shamas sogna di tornare a Ur, tua moglie sente la mancanza di quella città, dov'è rimasta la sua famiglia, e pure tu preferisci guidare il tuo clan negli spostamenti da Ur a Carran alla ricerca di pascoli e di grano con cui alimentarli. No, non ho nulla da rimproverarti. Capisco la tua decisio-ne, e sono contento per Shamas.»

«Di certo la nostalgia che leggo negli occhi di mio figlio mi ha fatto de-cidere di ritornare.»

«Shamas è chiamato a perdurare attraverso i suoi scritti. Sarà un buono scriba, un uomo giusto e saggio. Il suo destino non è quello del pastore.»

«Quando partirai con la tribù?» «Non prima di una luna. Ho ancora molto da fare, e soprattutto non pos-

so andarmene prima di aver finito ciò che sto raccontando a Shamas. Do-vrà spiegare ai nostri che rimarranno a Ur e a tutti coloro che incontrerà nel corso della sua vita chi siamo, da dove veniamo e qual è la volontà di Dio. Non siamo in grado di capire perché dobbiamo affrontare la soffe-renza se non comprendiamo le ragioni per cui il Signore ci ha creati e il peccato commesso da quell'uomo e da quella donna. Solo ciò che sta scrit-to perdura e prima di partire voglio che Shamas scriva quanto ho da dir-gli.»

«Sarà così. Dirò a mio figlio di cercarti, gli preparerò sufficienti tavolet-te affinché possa tramandare tutto ciò che gli racconterai.»

Abram lo attendeva al solito posto, appena fuori Carran. Non si erano

quasi più parlati dalla morte di Terach. Il ragazzo si avvicinò con aria cir-cospetta, desideroso di trovare le parole che trasmettessero l'angoscia che provava per la scomparsa dell'anziano e il dolore di Abram.

Ma non ci fu bisogno di dire nulla perché Abram gli strinse una spalla in segno di riconoscenza e lo invitò a sedersi al suo fianco. «Mi dispiacerà non vederti più» gli assicurò il patriarca.

«Non tornerai più a Ur, e nemmeno a Carran?» domandò preoccupato

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Shamas. «No. Il giorno in cui mi metterò in cammino sarà per sempre e senza

voltarmi indietro. Non ci vedremo più, Shamas, ma ti porterò nel mio cuo-re e spero che non mi dimenticherai. Tu conserverai le tavolette con la sto-ria del mondo e spiegherai alla tua gente ciò che io ho spiegato a te. Devo-no conoscere la verità e smettere di adorare figure di argilla dipinte di por-pora e oro.»

Shamas sentì la responsabilità dell'incarico di Abram, che era il segno della sua fiducia. Timidamente gli domandò se Lui gli avesse parlato di nuovo.

«Sì, l'ha fatto il giorno in cui preparava Terach a ritornare alla terra con cui Egli modellò il primo uomo. Ho da compiere ciò che Lui mi ordina. Devi sapere, Shamas, che la mia stirpe si espanderà in tutti gli angoli della Terra, e di me diranno che sono il loro padre.»

«Allora ti chiameremo Abramo, "padre di una moltitudine"» affermò il ragazzo abbozzando un sorriso incredulo in quanto sapeva che Sarai, la sposa di Abram, non gli aveva dato figli.

«Tu l'hai detto, così mi conosceranno i figli dei miei figli e i figli dei lo-ro figli e i figli dei figli di questi, e così nei secoli dei secoli.»

Il ragazzo fu impressionato dalla fermezza con cui Abram assicurava di essere in procinto di diventare il padre di molte tribù. Ma gli credette, co-me sempre gli aveva creduto, consapevole che non gli aveva mai mentito e che era l'unico tra tutti loro a poter parlare con Dio. «Dirò a tutti che devo-no chiamarti Abramo.»

«Così faranno. E ora preparati, perché devi metterti a scrivere. Sono molte le cose che hai bisogno di sapere prima che ci separiamo.»

Shamas prese lo stilo e mise la tavoletta sulle ginocchia, pronto a scrive-re quanto Abramo gli avrebbe dettato.

«L'intera vita di Noè fu di novecentocinquanta anni, poi lui morì. Questa è la discendenza dei figli di Noè: Sem, Cam e Iafet, ai quali nacquero figli dopo il diluvio... Da costoro si dispersero le nazioni sulla terra dopo il di-luvio.

«Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dal-l'Oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamo mattoni e cuociamoli al fuoco". Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi disse-ro: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Ma il Signore

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scese a vedere l'opera degli uomini, e si dolse per la loro superbia e tornò a castigarli.»

«Ma perché?» si azzardò a domandare Shamas. «Non vedo perché sia un male voler raggiungere il cielo. A Ur i sacerdoti studiano le stelle e per questo devono avvicinarsi al firmamento. A Ur il re pensava di costruire uno ziqqurat vicino a Safran affinché i sacerdoti potessero decifrare i mi-steri del sole e della luna, l'apparire e lo scomparire delle stelle, il peso e la misura. Sappiamo che la Terra è rotonda perché così hanno calcolato i sa-cerdoti osservando il cielo...»

«Fai silenzio!» lo rimproverò Abramo. «Devi scrivere quello che ti dico e senza fare discussioni.»

Shamas stette in silenzio. Temeva Dio, quel Dio che era il suo perché era lo stesso di Abramo e del suo clan, ma se Lui era capace di leggere nei loro cuori perché si adirava così sovente con gli uomini? L'avrebbe castigato dato che pensava che era ingiusto?

«Quegli uomini» continuò Abramo «volevano sfidare il potere di Dio, costruire una torre in cui rifugiarsi se di nuovo Lui avesse deciso di man-dare un castigo terribile sulla Terra come lo era stato il Diluvio. Così, que-sta volta Lui decise di confondere il linguaggio degli uomini affinché non si capissero tra loro. Da allora ogni clan possiede la sua propria lingua, e le tribù del Nord non comprendono quelle del Sud, né quelle dell'Est quelle dell'Ovest. Quindi, in una città troviamo uomini che non si capiscono tra loro perché gli uni sono giunti da un luogo diverso da quello degli altri. Il Signore non tollera né l'orgoglio né la superbia nelle Sue creature. Non si può sfidare Dio, né pretendere di avvicinarsi ai limiti che ha stabilito tra il Cielo e la Terra.»

Ancora una volta vennero sorpresi al tramonto dall'apparire della luna e s'incamminarono verso Carran. Abramo aiutava Shamas a portare le tavo-lette. Sulla porta di casa incontrarono Yadin, che li invitò a entrare per condividere un tozzo di pane e del latte.

I due uomini parlarono dei viaggi che entrambi avrebbero dovuto intra-prendere in direzioni opposte, sapendo che ben difficilmente si sarebbero incontrati di nuovo.

Yadin voleva smettere di fare il pastore e andar via per sempre da Ur, dove Shamas sarebbe diventato uno scriba al servizio del Palazzo. Ili gli avrebbe insegnato a fare i calcoli, in cui Shamas si era distinto durante l'in-segnamento a Carran.

Negli ultimi anni Shamas si era trasformato in un adolescente consape-

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vole del fatto che lo studio esigeva dedizione. Inoltre, gli scribi di Carran non avevano con lui né la pazienza né l'attenzione che aveva avuto il suo maestro di Ur, e Shamas doveva sforzarsi di fronte alla minaccia di non proseguire gli studi se non si fosse applicato di più.

Tuttavia, avrebbe dovuto acquisire ancora molte conoscenze per diventa-re un dub-sar e dopo parecchi anni arrivare al grado di ses-gal e infine giungere al culmine della propria vita in qualità di um-mi-a.

Shamas ascoltava in silenzio la conversazione fra suo padre e Abramo e le raccomandazioni che reciprocamente si facevano.

L'inverno era ormai passato e la primavera sbocciava tingendo di verde la terra e colorando di azzurro intenso il cielo. Era l'epoca propizia per viaggiare.

Abramo e Yadin decisero di salutarsi sacrificando un agnello, nella spe-ranza che fosse propizio al Signore.

«Padre, noi quando ce ne andremo?» domandò il ragazzo appena Abra-mo uscì.

«L'hai sentito anche tu, entro la prossima luna non saremo più qui. Non partiremo da soli, altri membri del clan faranno ritorno a Ur insieme a noi. Non ti pentirai di non accompagnare Abramo?»

«No, padre, voglio tornare a casa.» «Ma qui sei a casa.» «Sento che la mia casa è quella di Ur, dove sono cresciuto. Mi ricorderò

di Abramo, ma lui mi ha detto che tutti devono seguire il proprio cammi-no. Lui farà ciò che Dio gli ha ordinato, e io sento che si aspetta da me che faccia ritorno alla terra dei nostri avi. Lì spiegherò agli altri quanto so circa la storia del mondo e conserverò con cura le tavolette che Abramo mi ha dettato.»

«Hai deciso il tuo destino.» «No, padre, credo che sia stato Dio a deciderlo per me. Abramo mi ha

detto di fare quel che sento dentro, e quel che sento è che devo tornare.» «Sento anch'io la medesima cosa, figliolo, e pure tua madre. Lei ha il

cuore pieno di nostalgia e sorriderà di nuovo il giorno m cui ci avvicine-remo a Ur. Vuole morire dove nacquero e dove sono sepolti i suoi avi. Qui è casa nostra, ma si sente come una straniera. Sì, dobbiamo proprio parti-re.»

Shamas assentì felice. L'attesa del viaggio gli provocava una sorta di formicolio. Per lui era una necessità vitale rompere con la monotonia. A-vrebbero camminato durante il giorno, si sarebbero accampati al tramonto

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e le donne si sarebbero messe a cuocere il pane e la cena. Il ragazzo assaporò in anticipo i tuffi nell'Eufrate e le chiacchiere attorno

al fuoco. Pensò ad Abramo con una punta di dispiacere. Gli sarebbe mancato mol-

to. Sapeva che quel suo parente era un uomo speciale, eletto da Dio affin-ché diventasse il padre di tutte le loro tribù. Non sapeva come questo sa-rebbe successo, dato che Sarai non gli aveva dato figli, ma se Dio glielo aveva promesso, sarebbe stato così, si disse Shamas.

Aveva scritto la storia del mondo. La creazione della Terra così come Abramo la conosceva. Non aveva dubbi sul fatto che fosse avvenuta pro-prio in quel modo.

Il suo rapporto con Dio era difficile. A volte credeva di essere sul punto di capire il mistero della vita ma, quando era lì lì per riuscirci, la sua mente si confondeva ed era incapace di pensare. Altre volte non comprendeva af-fatto le azioni di Dio, la sua ira e la durezza con cui castigava gli uomini. Non riusciva a comprendere perché la disobbedienza fosse tanto insoppor-tabile per il Signore.

Ma il fatto di non capire Dio e di rimproverargli dentro di sé alcune delle sue decisioni riguardo agli uomini non lo portava a credere meno in Lui.

La sua fede era come una rosa radicata nella terra per l'eternità. Suo padre aveva insistito affinché fosse prudente quando fossero giunti a

Ur. Non avrebbe potuto mettere in discussione Enlil, padre di tutti gli dèi, come pure Marduk, e nemmeno Tiamat, né le tante altre divinità.

Shamas era conscio della difficoltà di parlare di un Dio senza volto, che non si può vedere ma solo sentire dentro il cuore, per cui sarebbe stato ac-corto quando avesse deciso di raccontare di Lui e non avrebbe cercato di imporlo sopra gli altri dèi. Avrebbe dovuto gettare il seme nel cuore di chi lo avesse ascoltato e attendere che da lì sbocciasse Lui.

Giunse il giorno dell'addio. Al primo chiarore, nella frescura dell'alba,

Abramo e la sua tribù e Yadin e i suoi si stavano preparando per la parten-za. Le donne caricavano gli asini e i bambini correvano loro attorno con gli occhi ancora impastati di sonno, disturbando il lavoro delle madri.

Shamas attendeva ansioso che Abramo gli si rivolgesse e si sentì felice quando lui gli fece segno di avvicinarsi.

«Vieni, abbiamo ancora tempo di parlarci mentre gli altri finiscono di fa-re i preparativi per il viaggio» gli disse Abramo.

«Ora che te ne vai, sento già che mi ricorderò per sempre di te» replicò

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Shamas. «Sì, ci ricorderemo l'uno dell'altro. Ma voglio lasciarti un compito, del

resto te l'ho già chiesto giorni fa: non perdere la storia della Creazione. Dio ha creato tutte le cose così come te l'ho raccontato. Noi uomini dimenti-chiamo di essere un soffio del Suo respiro e tendiamo a credere di non ave-re bisogno di Lui, invece altre volte lo rimproveriamo di non aiutarci nel momento in cui ne abbiamo bisogno.»

«Sì, anch'io a volte mi chiedo perché.» «Come possiamo capire Dio? Siamo stati creati con la terra, come quegli

dèi che Terach e io modellavamo. Camminiamo, parliamo, sentiamo per-ché Lui soffiò la vita dentro di noi, e quando vuole ce la toglie, come io di-struggevo i tori alati che gli altri veneravano come dèi. Erano dèi fatti da me, che smettevano di essere tali per la forza della mia mano. No, non pos-siamo capirlo, e nemmeno provarci, e tanto meno giudicare le Sue azioni. Io non posso rispondere alle tue domande perché non ho le risposte. So so-lo che c'è un Dio principio e fine, creatore di quanto esiste, che ci ha dato la vita e ci ha condannati a morire per averci permesso di scegliere.»

«Dio ti accompagnerà ovunque tu vada, Abramo.» «Accompagnerà anche te, e noi. Lui tutto vede e tutto sente.» «Con chi parlerò di Dio?» «Con tuo padre, Yadin, che lo porta nel cuore. Con il vecchio Joab, con

Zabulon, come con molti dei tuoi parenti con cui hai iniziato il viaggio, e con molti di coloro che rimasero a Ur.»

«E chi mi guiderà?» «C'è un momento nella vita in cui dobbiamo cercare dentro di noi per

decidere. Tu hai tuo padre, puoi fidarti del suo affetto e della sua sapienza. Fallo, saprà aiutarti e troverà risposte che sazino il tuo cuore.»

Udirono la voce di Yadin che li chiamava per congedarsi. Shamas sentì un nodo in gola e fece uno sforzo per non piangere. Pensa-

va che se fosse scoppiato in lacrime avrebbero riso di lui, poiché stava di-ventando uomo.

Abramo e Yadin si abbracciarono. Sapevano che non si sarebbero mai più rivisti. Si scambiarono le ultime raccomandazioni, augurandosi il me-glio per il futuro.

Poi Abramo abbracciò Shamas, e il ragazzo non poté trattenere una la-crima che immediatamente asciugò con il pugno.

«Non vergognarti di provare dolore per la separazione da coloro che ami e che ti amano. Anch'io ho le lacrime negli occhi, anche se non le lascio

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sgorgare. Ti ricorderò sempre, Shamas, e sappi che così come sarò il padre degli uomini, come lo fu Adamo, grazie a te gli uomini conosceranno la storia del mondo e la racconteranno ai propri figli e questi ai loro e così fi-no alla fine dei tempi.»

Abramo diede il segnale della partenza e la sua tribù iniziò a muoversi. Allo stesso tempo Yadin aveva alzato una mano indicando ai suoi che era l'ora di andare. I due clan si avviarono in direzioni opposte; alcuni si volta-rono indietro e fecero un ultimo cenno di saluto. Shamas guardava in dire-zione di Abramo in attesa che voltasse gli occhi verso di lui, ma questi camminava eretto, senza girarsi. Solo quando giunse all'altezza del palme-to dove aveva trascorso tante sere con Shamas si fermò qualche secondo percorrendo quel luogo con lo sguardo. Sentì da lontano gli occhi di Sha-mas su di sé e si voltò sapendo che il ragazzo aspettava l'ultimo addio. Non riuscivano a vedersi, ma entrambi sapevano che si stavano fissando.

Il sole era alto nel cielo e iniziava il conto alla rovescia di un altro giorno dell'eternità.

17

«Signora! Signora!» Clara fu risvegliata dal suo sopore dalle grida di uno degli uomini che la

accompagnavano. «Che succede, Alì?» «Signora, è scesa la notte e il capo del villaggio è preoccupato. Le donne

la attendono per cenare.» «Vengo subito, ci metterò un attimo.» Si alzò scuotendo via la polvere gialla che le si era appiccicata ai vestiti

e alla pelle. Non aveva voglia di parlare con nessuno, e tanto meno con il capo del villaggio e la sua famiglia. Desiderava godersi la solitudine di quel luogo sapendo che non sarebbe durata a lungo.

Fantasticava su Shamas, gli aveva dato un volto e poteva ascoltare il suono della sua voce, riusciva quasi a udire il rumore dei suoi passi.

Doveva essere stato un apprendista scriba, a causa dei caratteri un po' imprecisi della sua scrittura, ma a ogni modo sembrava una persona spe-ciale. Pareva possedere un dono ed essere assai vicino al patriarca Abramo, tanto che costui gli aveva raccontato la storia della Creazione.

Ma che idea doveva avere avuto Abramo della Genesi? Poteva essere stata un'imitazione di antiche leggende mesopotamiche?

Abramo era un nomade, il capo di una tribù. Tutti i clan nomadi posse-

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devano le proprie tradizioni e leggende, ma nel loro andare e venire entra-vano in contatto con altre tribù, con persone di culture diverse, di cui assi-milavano i costumi, le tradizioni e la religione. Era infatti evidente che il Diluvio narrato dagli ebrei nella Bibbia aveva similitudini con l'epopea di Gilgamesh.

Quando giunse a casa del capo del villaggio, lui la stava aspettando sulla porta con un gelido sorriso sulle labbra a cui Clara non badò. Fece onore al cibo che le servirono e quindi si ritirò in una stanza dove avevano predi-sposto un letto accanto a quello di una delle figlie del suo ospite.

Era stanca e si addormentò profondamente, come non le riusciva di fare da quando Ahmed aveva lasciato la Casa Gialla.

La residenza di Alfred Tannenberg al Cairo si trovava a Heliopolis, il

prestigioso sobborgo in cui vivevano i gerarchi del regime. Dalle finestre dello studio si scorgeva una fila di alberi, oltre a un certo

numero di uomini a guardia del perimetro della casa. L'età aveva reso Alfred ancora più sospettoso di quanto fosse stato in

gioventù. Ora non si fidava nemmeno più dei suoi amici, degli uomini per i quali un tempo avrebbe dato la vita, convinto che avrebbero fatto la me-desima cosa per lui.

Perché si ostinavano tanto con la Bibbia d'argilla? Avrebbe offerto tutto quello che possedeva in cambio di quelle tavolette, che rappresentavano il futuro di Clara. Non si trattava di denaro; sua nipote ne aveva già a suffi-cienza per vivere agiatamente per il resto della propria vita. Lui per Clara voleva la rispettabilità, perché il mondo in cui avevano vissuto sarebbe sta-to distrutto; non poteva più ingannare se stesso, nonostante rifiutasse di ammetterlo con quanti sostenevano quella tesi. In realtà, le informazioni che da un anno George gli inviava non lasciavano adito a dubbi. Dall'11 settembre 2001 il mondo era impazzito.

Gli Stati Uniti avevano bisogno di dominare l'avversario per poter con-trollare le fonti di energia, e gli arabi credevano, per uscire dalla propria miseria e farsi rispettare, di dover ricorrere alla forza, e in questo modo gli interessi dei due paesi finivano per entrare in collisione. Volevano la guer-ra ed eccola lì; lui si trovava nel mezzo, disposto a fare affari come in tante altre occasioni. Solo che adesso gli rimanevano pochi mesi di vita e te-meva per il futuro di sua nipote. E il futuro non passava per Baghdad né per Il Cairo. Ahmed, il marito di Clara, lo sapeva, e per questo aveva deci-so di tagliare la corda. Ma lui non voleva che sua nipote diventasse una ri-

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fugiata malvista ovunque per il fatto di essere irachena o semplicemente per essere chi era, perché prima o poi la verità sarebbe venuta fuori. L'uni-co modo per salvare Clara era fornirle una rispettabilità professionale, che lei avrebbe ottenuto solo grazie alla Bibbia d'argilla. George, però, non vo-leva accettarlo e, nonostante Frankie ed Enrique avessero una famiglia, an-che loro parevano non comprenderlo.

Era solo contro tutti, e c'era un ulteriore problema tenuto nascosto: il po-co tempo che gli rimaneva da vivere.

Tornò a dare un'occhiata al referto medico. Volevano operarlo un'altra volta, estirpargli il tumore che gli aveva invaso il fegato. Doveva prendere una decisione, anche se in realtà l'aveva già presa. Non sarebbe tornato in sala operatoria, soprattutto visto che l'intervento, sempre secondo le previ-sioni dei medici, non gli garantiva di allungargli la vita. Sarebbe anche po-tuto morire sotto i ferri se il suo cuore gli avesse tirato un brutto scherzo. E recentemente la tachicardia e l'ipertensione avevano nuovamente attentato alla sua salute. Il suo unico obiettivo era vivere sufficientemente a lungo affinché Clara potesse terminare gli scavi a Safran prima che gli americani cominciassero a bombardare.

Udì bussare alla porta dello studio e distolse lo sguardo dal referto medi-co sperando che entrasse chi stava aspettando.

Un domestico gli annunciò l'arrivo di Yasir e di Mike Fernández. Alfred gli disse di farli accomodare.

Si alzò e si diresse alla porta dello studio per salutare i visitatori. Yasir fece un leggero inchino con il capo accompagnato da un mezzo sorriso che pareva una smorfia. Non aveva perdonato a Tannenberg lo schiaffo ricevu-to durante l'ultimo incontro. Alfred non pensava di scusarsi, poiché una simile offesa non gli sarebbe stata comunque perdonata. Yasir l'avrebbe tradito non appena ne avesse avuto l'occasione, dopo avere concluso l'affa-re che avevano fra le mani. Doveva solo essere preparato a parare il colpo, quando fosse arrivato.

Mike Fernández esaminò con attenzione l'anziano mentre si salutavano. Lo sorprese la forza con cui Alfred gli strinse la mano, ma soprattutto ebbe la sensazione di trovarsi davanti a un uomo cattivo. Non sapeva spiegarlo, ma lo sentiva dentro di sé. Non che lui fosse un santo: da molto tempo si era impelagato in affari sporchi agli ordini di Dukais e aveva fatto cose di cui sua madre, se fosse stata ancora viva, si sarebbe vergognata. Tuttavia, nonostante le esperienze degli ultimi anni, continuava a distinguere il bene dal male e quel vecchio non gli ispirava nulla di buono.

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Il maggiordomo entrò nello studio portando su un vassoio una brocca d'acqua e altre bibite, che appoggiò sul tavolino basso intorno al quale si erano seduti. Quando uscì, Alfred non perse tempo in formalità e si rivolse direttamente a Fernández.

«Qual è il piano?» «Mi piacerebbe dare un'occhiata alla frontiera del Kuwait con l'Iraq, e

vorrei esaminare anche alcuni punti fra il confine giordano e quello turco. È importante sapere su quali infrastrutture potremo contare nei diversi luo-ghi in cui avverrà lo spiegamento degli uomini, e soprattutto conoscere le vie di fuga. Credo che potremo contare su una buona copertura grazie a una società che esporta balle di cotone dall'Egitto in Europa.»

«E cos'altro?» domandò secco l'anziano. «Me lo dica lei. Sarà lei a dirigere le operazioni, io mi troverò sul cam-

po; per questo voglio perlustrare il territorio dove dovrò agire.» «Io le indicherò i punti attraverso cui gli uomini varcheranno il confine

con l'Iraq. Da anni entriamo e usciamo dal paese senza che né gli iracheni, né i turchi, né i giordani, né i kuwaitiani se ne accorgano. Conosciamo quelle terre come la palma della nostra mano. Lei si incaricherà dei suoi uomini, ma al comando delle operazioni sul territorio ci saranno i miei e saranno loro a entrare e a uscire dall'Iraq.»

«Questo non era previsto.» «Il problema cruciale è lasciare il paese nel minor tempo possibile pas-

sando inosservati. Temo che lei difficilmente possa mimetizzarsi con il pa-esaggio, e dubito che possano farlo gli uomini di Paul. Si vede subito che lei non è di qui. Se l'arrestassero, l'operazione salterebbe. Noi possiamo entrare e uscire perché siamo del posto, facciamo parte dell'ambiente, voi sareste visibili come la Statua della Libertà. Mi sembra però giusto lasciare qualcuno dei suoi uomini in luoghi strategici che le indicherò. Per quel che riguarda la società che esporta cotone, la conosco, è di mia proprietà, ma non è la scelta più adatta in questa circostanza. Abbiamo bisogno che i no-stri amici di Washington ci permettano di viaggiare sugli aerei militari che hanno nelle loro basi in Kuwait e in Turchia e che fanno scalo in Europa; una volta lì, ci incaricheremo noi del resto. Saranno i suoi uomini a viag-giare su quegli aerei con lei; è lì che i miei non devono salire. Ciascuno si deve muovere sul proprio terreno.»

«E sta a lei decidere qual è il terreno di ciascuno.» «Sa una cosa? Quando si viaggia nel deserto, i beduini ti sorprendono

sempre. Sei convinto di essere solo e, all'improvviso, alzi lo sguardo ed

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eccoli lì. Come siano arrivati, da quanto tempo ti stiano seguendo, questo non si sa. Fanno parte della sabbia del deserto. Lei sarebbe visibile a chi-lometri di distanza, ma non riuscirebbe a scorgere loro neppure se fossero a cinque metri.»

«I suoi uomini sono beduini?» «I miei uomini sono nati qui, in questa sabbia, e sono invisibili. Sanno

quello che devono fare, dove andare e come andarci. Nessuno si farà nota-re a Baghdad, a Bassora, a Mossul, a Kairah o a Tikrit. Entreranno e usci-ranno con la stessa tranquillità con cui lei entra ed esce di casa. Abbiamo sempre fatto così, questo è il mio territorio, dunque non accetto cambia-menti nel modo di agire. O forse a Washington sono diventati matti?»

«No, non sono diventati matti, semplicemente vogliono controllare le operazioni.»

«Controllare le operazioni? Sono io ad avere il controllo.» «È lei a dirigerle, certo, ma quelli vogliono qui alcuni dei loro uomini.» «Temo che non concluderemo nulla se non facciamo come dico io. A

Washington sanno che voi non potreste attraversare nessuna frontiera.» «Ne parlerò con Dukais.» «Lì c'è il telefono.» Mike Fernández si alzò. Aveva forzato la situazione semplicemente per-

ché non voleva essere solo una comparsa nei piani del vecchio, ma sapeva che Dukais si sarebbe arrabbiato se l'avesse cercato, dato che gli ordini e-rano stati chiari: doveva fare quello che diceva Alfred. «Ne parlerò con lui più tardi» disse, sorpreso dalla durezza dell'anziano.

«Faccia quello che vuole, ma sappia che non mi piace giocare a braccio di ferro, e se qualcuno ci prova, perde. È stato sempre così e così sarà fino al giorno in cui morirò.»

Fernández rimase in silenzio. Avevano misurato le proprie forze ed era chiaro che Alfred non era disposto a condividere il comando. Pensò che la cosa più saggia sarebbe stata accettare la situazione. In fondo, Tannenberg aveva ragione: quello non era il suo territorio e si trovavano alla vigilia di una guerra. L'operazione sarebbe andata a monte se avessero fermato lui o uno dei suoi uomini. E poi, per quanto lo riguardava, non c'era il minimo problema che fossero gli altri a correre dei rischi.

Durante l'ora successiva Tannenberg gli diede una lezione di tattica e di strategia militari. Aprì una mappa su cui indicò dove si sarebbero dovute appostare le forze di Mike e in che modo si sarebbero dovute muovere per raggiungere le basi americane in Kuwait e in Turchia; gli mostrò la strada

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per arrivare fino ad Amman e addirittura una via alternativa per rag-giungere l'Egitto.

«E da dove entreranno i suoi uomini, signor Tannenberg?» «Questo non ho intenzione di rivelarglielo. Raccontarlo a lei sarebbe

come mettere un annuncio su Internet.» «Non si fida di me?» domandò Mike Fernández. «Io non mi fido di nessuno, ma in questo caso non si tratta di fiducia.

Lei spiegherà il piano a Paul Dukais e se io le dico da dove entreranno i miei uomini logicamente gli riferirà questa informazione. E non ho la mi-nima intenzione che si venga a sapere. È affar mio, amico, entrare e uscire dalle frontiere del Medio Oriente senza che nessuno se ne accorga. Dun-que, quello che le ho detto è più che sufficiente, non ha bisogno di sapere altro.»

Mike si aspettava una risposta simile: sapeva che il vecchio si sarebbe mostrato inflessibile e lui non gli avrebbe tirato fuori nient'altro, ma decise di insistere. «Tuttavia, lei mi ha dato le coordinate del punto dove i miei uomini dovranno aspettare...»

«Proprio così, ma se da quelle coordinate crede di trarre delle conclusio-ni si sbaglia, dunque faccia lei.»

«D'accordo, signor Tannenberg, vedo che non sarà facile trattare con lei.»

«Si sbaglia, è molto facile, invece; mi aspetto solo che ognuno sappia come agire. Lei faccia la sua parte, io farò la mia, e non ci saranno pro-blemi. Questa non è una gita fra amici, per cui non m'interessa che lei mi racconti come i suoi capi riusciranno a convincere i ragazzi del Pentagono a farsi prestare i loro aerei, né io le rivelerò quanti dei miei uomini parteci-peranno a questa operazione e da dove entreranno o usciranno. Ma invece le dirò di quanti uomini ha bisogno.»

«Me lo dirà lei?» domandò ironico l'ex colonnello Fernández. «Sì, dal momento che lei non ha la benché minima idea di come arrivare

dai punti che le ho indicato alle basi americane. Per cui i suoi uomini ver-ranno scortati da alcuni dei miei, soprattutto per assicurarsi che tutto pro-ceda al meglio.»

«E quanti uomini devo portare?» «Non più di una ventina, e che possibilmente parlino qualche lingua ol-

tre l'inglese.» «Si riferisce all'arabo?» «Esatto.»

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«Non sono sicuro che riusciremo ad accontentarla...» «Ci provi.» «Lo dirò al signor Dukais.» «Lui sa già che caratteristiche devono avere gli uomini per questa mis-

sione, perciò ha scelto lei.» Mentre scendevano dalla scaletta dell'aereo avvertirono il caldo secco

del deserto. Marta sorrise felice. L'Oriente le piaceva. Fabián sentì che gli mancava l'aria e accelerò il passo per raggiungere in fretta il terminal del-l'aeroporto di Amman.

Attendevano i bagagli fermi di fronte al nastro trasportatore quando un uomo alto e bruno si diresse verso di loro parlando in perfetto spagnolo.

«Il signor Tudela?» «Sì, sono io.» L'uomo gli tese la mano e strinse la sua con forza e decisione. «Sono

Haydar Annasir. Mi manda Ahmed Husseini.» «Ah!» fu tutto ciò che riuscì a dire Fabián. Marta non diede importanza al fatto che Haydar non l'avesse salutata e

gli tese la mano, meravigliandolo. «Io sono la professoressa Gómez, come sta?»

«Benvenuta, professoressa» rispose Haydar Annasir con un leggero in-chino, mentre le stringeva la mano.

«La signora Tannenberg non è venuta?» domandò lei. «No, si trova già a Safran, vi aspetta lì. Ma prima dobbiamo ritirare alla

dogana ciò che avete portato. Datemi le ricevute e mi occuperò di prendere tutto e di farlo trasportare sul camion» precisò Annasir.

«Andremo direttamente a Safran?» volle sapere Fabián. «No. Vi abbiamo prenotato una stanza al Marriot per stanotte, domani

passeremo il confine iracheno, raggiungeremo Baghdad e da lì in elicottero ci trasferiremo a Safran. Spero che tra pochi giorni possiate incontrare la signora Tannenberg» fu la risposta di Haydar Annasir.

Dovettero espletare le formalità della dogana, fortunatamente senza pro-blemi, in quanto la presenza di Haydar era sufficiente a impedire compli-cazioni. Controllarono che i container con le attrezzature fossero depositati direttamente su tre camion che li attendevano nella zona di carico e scarico dell'aeroporto. Poi raggiunsero l'hotel.

Haydar disse loro che sarebbe tornato alle otto e mezzo per accompa-gnarli a cena; intanto, se lo desideravano, avrebbero potuto riposare. Il

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giorno dopo sarebbero partiti all'alba, intorno alle cinque. «Che impressione ti ha fatto quel tipo?» domandò Fabián a Marta men-

tre bevevano qualcosa al bar, aspettando che Annasir arrivasse. «Gentile ed efficiente.» «E parla uno spagnolo perfetto.» «Sì, senz'altro ha studiato in Spagna; adesso ci racconterà dove e per-

ché.» «All'inizio non ti ha nemmeno considerata.» «Già, si è rivolto solo a te; sei tu l'uomo e pertanto doveva trattare con

te. Cambierà atteggiamento.» «Mi ha sorpreso che tu non gli abbia fatto notare di essere seccata per un

simile comportamento.» «Non l'ha fatto di proposito. È il risultato dell'educazione che ha ricevu-

to. Non credere che voi occidentali siate tanto meglio» replicò Marta ri-dendo.

«Be', siamo cambiati e abbiamo fatto degli sforzi enormi per metterci al livello delle donne; sappiamo che siete voi il superuomo.»

«Probabilmente Nietzsche pensava a sua sorella quando teorizzò il supe-ruomo. Ma, parlando sul serio, sono abituata a questo genere di trattamen-to in Medio Oriente. Fra qualche giorno si arrenderà all'evidenza e capirà che il capo sono io.»

«Ehi, grazie per avermi detto che ti sei autoeletta.» Scherzarono un po' mentre finivano il whisky con ghiaccio in attesa di

Haydar Annasir. Costui apparve alle otto e mezzo in punto, come aveva annunciato.

"Non è male" pensò Marta esaminandolo con occhio critico mentre at-traversava il bar diretto verso di loro.

Haydar indossava un vestito blu di buona fattura e una cravatta di Her-mès con dei piccoli elefanti.

"La cravatta con gli elefanti è un po' fuori moda, comunque è molto ele-gante" disse Marta tra sé mentre si sforzava di non sorridere per non mette-re in imbarazzo quell'uomo orgoglioso che non sapeva su quale terreno si sarebbe spinto insieme ai due stranieri.

Li portò a cena in un ristorante situato nella zona residenziale di Am-man, frequentato solo da occidentali, uomini d'affari di passaggio nella ca-pitale che dividevano il tavolo con uomini d'affari e politici giordani.

Fabián e Marta lasciarono che fosse Haydar a incaricarsi delle ordina-

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zioni, e non diedero mai a vedere di conoscere la lingua araba. «Sono curioso di sapere dove ha imparato lo spagnolo» disse Fabián. Haydar parve imbarazzato dalla domanda ma rispose educatamente. «Mi

sono laureato in economia all'università Complutense di Madrid. Il gover-no spagnolo è sempre stato favorevole a che gli studenti giordani potessero studiare nel vostro paese, garantendo delle borse di studio. Ho vissuto sei anni a Madrid».

«Quando?» volle sapere Marta. «Dall'Ottanta all'Ottantasei.» «Un'epoca molto interessante» insistette Marta, sperando che Haydar di-

cesse qualcosa di più. «Sì, ha coinciso con la fine del periodo di transizione e il primo governo

socialista.» «Com'eravamo giovani allora!» esclamò Fabián. «Mi dica, lei lavora per la signora Tannenberg?» domandò Marta senza

giri di parole. «No, non proprio. Lavoro per suo nonno. Dirigo gli uffici del signor

Tannenberg ad Amman» rispose Haydar non senza un certo imbarazzo. «Il signor Tannenberg è un archeologo?» continuò a informarsi Marta,

facendo finta di non aver notato l'evidente disagio di Haydar. «È un uomo d'affari.» «Ah! Avevo capito che anni fa era stato al sito di Carran e che là aveva

trovato le tavolette che hanno provocato tanto scalpore nella comunità ar-cheologica» soggiunse Fabián.

«Mi spiace, non saprei. Lavoro per il signor Tannenberg ma non cono-sco altre attività che non siano i suoi attuali affari» replicò schivo Haydar.

«Sono indiscreta se le chiedo di che cosa si occupa il signor Tannen-berg?»

La domanda di Marta colse alla sprovvista Haydar, che non si aspettava di venire sottoposto a un interrogatorio. «Il signor Tannenberg si occupa di diverse cose, è un uomo rispettato e considerato, che apprezza la discre-zione» rispose seccato.

«Sua nipote Clara è un'archeologa famosa in Iraq?» insistette Marta. «Conosco poco la signora Tannenberg; so che è una persona in gamba

nel suo lavoro e che è sposata con un importante professore dell'università di Baghdad. Ma sono sicuro che tutte queste domande potrete rivolgerle direttamente a lei, una volta a Safran.»

Fabián e Marta si guardarono giungendo al tacito accordo di non insiste-

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re. Erano stati estremamente scortesi con il loro anfitrione. Quello era l'O-riente, e in Oriente nessuno faceva domande dirette senza correre il rischio di offendere.

«Rimarrà con noi a Safran?» chiese Fabián. «Sarò a vostra disposizione per la durata degli scavi. Non so se dovrò re-

stare tutto il tempo a Safran o a Baghdad. Sarò dove riterranno più neces-saria la mia presenza.»

Quando li lasciò davanti all'albergo, ricordò loro che la mattina seguente alle cinque sarebbe passato a prenderli. I camion con il carico erano già partiti per Safran.

«L'abbiamo messo in imbarazzo» affermò Fabián mentre si salutavano, sulla porta dell'ascensore.

«Sì, ha passato un brutto quarto d'ora. Ma non mi importa. Io sono cu-riosa di sapere quando e dove quel Tannenberg ha scavato a Carran; sai che ho partecipato anch'io a degli scavi in quella zona. Prima di partire ho cercato tutte le spedizioni archeologiche fatte a Carran e Tannenberg non figura da nessuna parte.»

«Chissà se quel nonno misterioso ha mai scavato da un'altra parte che non fosse il giardino di casa sua. Magari ha comprato quelle tavolette da qualche ladro.»

«Sì, l'ho pensato anch'io. Ma mi succede la stessa cosa che è capitata al tuo amico Yves: il nonno di Clara Tannenberg mi intriga.»

Durante il viaggio a Baghdad il caldo era soffocante. La città portava i

segni evidenti dell'embargo che pativa da tempo. C'era grande povertà, come se dalla sera alla mattina la prospera classe media irachena fosse scomparsa.

Marta si sentì male sull'elicottero e non riuscì a trattenere il vomito, malgrado le attenzioni di Fabián. Quando giunsero a Safran era pallida e a pezzi, ma sapeva di dover fare uno sforzo perché sarebbero passate ancora diverse ore prima che potesse riposare.

Clara Tannenberg la sorprese: bruna, di media statura, la pelle color cannella e gli occhi azzurri come l'acciaio. Era bella. Semplicemente bella.

Anche Clara osservò Marta con interesse. Pensò che doveva avere passa-to da qualche anno i quaranta; ostentava la sicurezza delle donne occiden-tali che devono tutto a loro stesse e alla propria tenacia e pertanto non sono disposte a farsi dire cosa devono o non devono fare. Decise che Marta era una persona attraente: mora, alta e con gli occhi castani scuri; aveva i ca-

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pelli lisci, di media lunghezza, e le unghie curate. Clara osservava sempre le mani delle donne. Gliel'aveva insegnato sua

nonna; diceva che dalle mani avrebbe saputo con che tipo aveva a che fare. Lei aveva sempre seguito quel consiglio. Le mani riflettevano l'anima delle donne e la loro condizione sociale. Quelle di Marta erano magre e ossute, fresche di manicure, e le unghie erano coperte da uno smalto trasparente che le rendeva brillanti.

Dopo i primi convenevoli, Clara li informò che i camion erano già arri-vati a Safran, anche se non c'era stato ancora il tempo di scaricarli.

«Potete dormire nelle case dei contadini o, se preferite, nelle tende che abbiamo montato. Abbiamo iniziato a costruire qualche casa di argilla, molto semplice, come quelle che si facevano secoli fa in Mesopotamia e che ancora si continuano a costruire. Alcune sono già pronte, ma mancano i materassi e altri oggetti che devono arrivare da Baghdad; saranno qui tra un paio di giorni. Forse non basteranno per alloggiare tutti, ma almeno una buona parte della spedizione sarà sistemata. Qui non ci sono lussi, ma spe-ro che vi troverete a vostro agio.»

«Possiamo dare un'occhiata in giro?» domandò Fabián. «Vuole vedere dove abbiamo trovato la costruzione?» gli chiese Clara di

rimando. «Esattamente, è proprio quello che vorrei fare» rispose Fabián con il più

splendente dei sorrisi. «Bene, darò ordine di portare i bagagli nei vostri alloggiamenti e poi an-

dremo a piedi fino all'edificio. Non è molto lontano, e oggi non fa troppo caldo» fu la risposta di Clara.

«Se non le dispiace» intervenne Marta «io preferirei muovermi in auto. Ho patito il viaggio e non mi sento troppo bene.»

«Ha bisogno di qualcosa? Preferisce rimanere qui?» le domandò Clara. «No, vorrei solo bere un goccio d'acqua, avere il tempo di rinfrescarmi

e, se possibile, non andare a piedi» replicò Marta. Clara impartì qualche ordine e in un secondo il leggero bagaglio di Mar-

ta era stato portato nella casa del capo del villaggio, mentre quello di Fa-bián da una famiglia che viveva lì accanto.

Marta approfittò dei minuti che le erano stati concessi per bere e recupe-rare le forze. Poi si diressero con una jeep sul luogo dove avrebbero tra-scorso i mesi successivi.

Fabián scese dal veicolo prima che il conducente si fosse fermato del tutto. Con passo spedito cominciò a esaminare il sito, fermandosi a osser-

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vare il perimetro rimasto scoperto dopo l'esplosione di una bomba che a-veva lasciato macerie dietro di sé. «Vedo che hanno ripulito la zona» disse.

«Sì; dovremmo trovarci sul tetto di un edificio e ciò che vediamo da questa breccia è una stanza dove probabilmente impilavano le tavolette; questo spiegherebbe la quantità di frammenti trovati. Dunque, questo luo-go doveva essere un tempio-palazzo» spiegò Clara.

«Non ci sono testimonianze sull'esistenza di un tempio tanto vicino a Ur» replicò Fabián.

«No, ma le ricordo, professore, che il valore di una scoperta è questo: rinvenire qualcosa della cui esistenza non ci siano indizi. Se scavassimo in lungo e in largo l'Iraq troveremmo varie dozzine di templi-palazzi, dato che rappresentavano i centri amministrativi di ampi distretti» continuò Clara.

Marta, intanto, si era allontanata da loro in cerca di un angolo da cui a-vere una particolare prospettiva del luogo. Fabián e Clara la lasciarono fa-re, senza interrompere il suo andirivieni.

«È sua moglie?» gli domandò Clara. «Marta? No. Insegna archeologia nella mia stessa università, la Complu-

tense di Madrid. E ha una lunga esperienza di scavi. Tra l'altro, anni fa si trovava a Carran, dove suo nonno trovò quelle misteriose tavolette.»

Clara annuì in silenzio. Suo nonno le aveva proibito in modo categorico di dare informazioni sul suo conto. Non avrebbe dovuto dire una parola di più, anche se avessero insistito per avere particolari riguardo a quando e come era andato a Carran, dunque decise di cambiare argomento. «Siete stati molto coraggiosi ad avventurarvi in Iraq, con i tempi che corrono.»

«Speriamo che vada tutto bene. Non sarà facile lavorare in queste condi-zioni.»

«Sì, noi iracheni ci auguriamo che si tratti solo di un braccio di ferro tra Bush e Saddam.»

«Non illudetevi. La guerra è stata dichiarata e appena ci saranno le con-dizioni gli americani partiranno all'attacco. Non credo che tarderanno più di sei o sette mesi.»

«Perché la Spagna appoggia Bush contro l'Iraq?» «Non confonda la Spagna con il nostro attuale governo. La maggioranza

degli spagnoli è contraria alla guerra; non condividiamo le ragioni di Bush.»

«Allora, perché non vi ribellate?» Fabián scoppiò a ridere. «È buffo che lei mi chieda perché non ci ribel-

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liamo, quando voi vivete sotto la dittatura di Saddam. Vede, io non sono d'accordo con il mio governo rispetto all'appoggio dato agli Stati Uniti contro l'Iraq, né riguardo a tante altre questioni, ma il mio è un governo democratico. Voglio dire, i cittadini hanno il diritto di voto.»

«Gli iracheni amano Saddam» affermò Clara. «No, non lo amano e il giorno in cui cadrà, perché ciò avverrà, solo po-

chi favoriti dal suo regime lo difenderanno. I dittatori si subiscono, nessu-no li ama, nemmeno chi ha vissuto sotto il loro regime senza mai lamen-tarsi. L'unica cosa che resterà di Saddam sarà il ricordo delle sue vessazio-ni. Parliamoci chiaro, il fatto di essere contro la guerra non significa ap-poggiare Saddam. Saddam rappresenta tutto ciò che un democratico dete-sta: è un dittatore sanguinario, con le mani macchiate del sangue degli ira-cheni che hanno osato opporglisi e di quello dei curdi che ha assassinato in massa. Non ci interessa Saddam, né la sorte che potrà avere. Siamo contra-ri alla guerra perché crediamo che nessuno debba morire a causa di un uo-mo solo, e soprattutto perché è una guerra fondata su bassi interessi: il do-minio sul petrolio iracheno. Gli americani vogliono il controllo delle fonti energetiche irachene perché sentono sul collo il fiato del colosso cinese! Però insisto: non si illuda, chi è contro la guerra è anche contro Saddam.»

«Non mi ha chiesto se sono dalla parte di Saddam» lo rimproverò Clara. «Non mi importa che lo sia. Che farà? Mi denuncerà a quei soldati per

farmi arrestare? Immagino che se lei vive in Iraq e non le manca nulla sia perché appoggia il regime di Saddam. Non potremmo scavare qui, in que-ste circostanze, se suo nonno non fosse un uomo influente in Iraq, dunque non inganniamoci. E non si inganni nemmeno lei pensando che noi siamo disposti a chinarci davanti a Saddam o a magnificare il suo regime. È un dittatore e ci ripugna profondamente.»

«Però, nonostante tutto, venite qui a scavare.» «Se riusciamo a evitare uno scontro politico scaveremo. Ci troviamo in

una situazione difficile, non creda che sia stato semplice prendere una de-cisione. La nostra presenza qui può essere manipolata da qualcuno per pre-sentarci come sostenitori di Saddam, dunque questa non è un'avventura da poco. Pensiamo di trovarci di fronte all'opportunità di scoprire se ciò che lei ha affermato a Roma abbia qualche fondamento. Lavoreremo sodo e senza sosta e, se non arriveremo a nulla, vorrà dire che almeno ci abbiamo provato. Come archeologi è un'occasione che non potevamo lasciarci scap-pare.»

«Lei è amico di Yves Picot?»

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«Sì, siamo amici da parecchio tempo. Yves è un eterodosso, ma è uno dei migliori archeologi dei nostri giorni e sicuramente solo uno come lui sarebbe stato capace di convincerci a giocarci la pelle in un posto come questo» affermò Fabián lasciando vagare lo sguardo in cerca di Marta.

«Quanti archeologi parteciperanno alla spedizione?» «Sfortunatamente, meno di quanti sarebbero necessari. La squadra non è

adeguata per il lavoro che dovremo affrontare. Verranno due esperti in prospezione magnetica, un professore di archeozoologia, uno studioso del-l'Anatolia, sette specialisti della Mesopotamia, oltre a Marta, a Yves e a me, e alcuni studenti degli ultimi anni di archeologia. In totale, saremo cir-ca trentacinque.»

Clara non riuscì a nascondere una smorfia di delusione. Sperava che Pi-cot sarebbe stato in grado di trovare più specialisti per la spedizione.

Fabián se ne accorse e provò un certo fastidio. «Ed è andata anche trop-po bene. È un miracolo aver trovato trentacinque persone disposte a lavo-rare qui, e ci siamo riusciti grazie a Yves. Questo paese verrà raso al suolo, e non è proprio il luogo adatto alle avventure archeologiche. Ciò nonostan-te, Yves ci ha convinti e noi abbiamo lasciato i nostri impegni; e non creda sia facile dire al rettore della tua facoltà che te ne vai a metà settembre, con i corsi che stanno per iniziare. Dunque, tutti coloro che sono qui hanno fat-to un sacrificio personale, sapendo quanto sarà difficile trovare qualcosa che davvero valga la pena e giustifichi l'investimento della nostra profes-sionalità e del nostro tempo.»

«Adesso non la metta come se mi steste facendo un favore!» replicò Cla-ra esasperata. «Se siete qui è perché sperate di trovare qualcosa, altrimenti non sareste venuti.»

Marta si era avvicinata a loro e aveva ascoltato l'ultima parte della con-versazione. «Che succede?» domandò.

«Uno scambio di opinioni» rispose Fabián. Clara non disse nulla, abbassò lo sguardo e fece un profondo respiro per

calmarsi. Non poteva lasciar trasparire il proprio temperamento, tanto me-no alla vigilia dei lavori. Sentiva la mancanza di Ahmed; lui ci sapeva fare, era a proprio agio con tutti e riusciva sempre a dire ciò che pensava senza offendere, ma mantenendosi fermo nelle sue idee.

«Bene» continuò Marta «ho dato un'occhiata in giro e ciò che ho visto mi è sembrato interessante. Su quanti operai potremo contare?»

«Circa cento. Qui a Safran abbiamo una cinquantina di uomini, gli altri verranno dai villaggi vicini.»

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«Ne servono di più. È impossibile setacciare tutta questa sabbia se non ci sono braccia a sufficienza. Quelle sono le case che stanno costruendo per la squadra?» domandò indicando di fronte a sé.

«Sì. Sono a circa trecento metri, non troppo lontano. Dunque, vivremo qui accanto, senza bisogno di auto per spostarci» rispose Clara.

«Noi possiamo disporre di tende piuttosto attrezzate. A mio avviso, dopo che gli operai avranno terminato ciò che stanno facendo per non lasciarlo a metà, dovrebbero iniziare subito i lavori di scavo.» Il tono di Marta non la-sciava spazio a dubbi.

«Subito? Prima che arrivi il resto della spedizione?» chiese Fabián sor-preso.

«Sì, non c'è tempo da perdere. Sinceramente, è quasi impossibile fare un simile lavoro nel poco tempo che abbiamo a disposizione, dunque inizie-remo subito. Domani, se siete d'accordo. Adesso torniamo al villaggio per discutere con gli altri alcuni dettagli del lavoro. La zona deve essere ripuli-ta il più possibile, prima dell'arrivo di Yves e del resto della squadra. Che ve ne pare?»

«Sei tu che comandi» rispose Fabián. «Io sono d'accordo» affermò Clara. «Bene, vi spiegherò il piano di lavoro con cui potremo iniziare a opera-

re.»

18 Hans Hausser entrò con passo deciso nell'immenso atrio del moderno e-

dificio situato nel cuore di Londra. Un pannello indicava il nome delle de-cine di imprese che avevano la loro sede in quel mostro di cristallo e ac-ciaio. Cercò con un'occhiata la scritta GLOBAL GROUP, nonostante sa-pesse già che si trovava al settimo piano. Si diresse verso l'ascensore pro-vando una stretta d'inquietudine alla bocca dello stomaco.

Un illustre professore di fisica quantistica stava andando ad assoldare un killer perché assassinasse un uomo e tutti i suoi familiari, non importava chi né quanti fossero. Non c'era pietà nel suo cuore, ma solo la preoccupa-zione di non riuscire a trattare con l'uomo che avrebbe dovuto incontrare.

Gli uffici della Global Group erano uguali a quelli di una qualsiasi altra multinazionale: pareti grigio chiaro, soffitti bianchi, mobili moderni, bei quadri astratti di pittori dai nomi impossibili da ricordare, segretarie so-briamente eleganti e gentili.

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Tom Martin non lo fece attendere. Gli strinse la mano sulla porta dell'uf-ficio, una grande stanza arredata con una splendida libreria di legno chiaro che ricopriva tutte e quattro le pareti, un'ampia finestra da cui si vedeva la vecchia Londra e il lento scorrere del Tamigi, poltrone di cuoio e nessun oggetto personale. Né fotografie né trofei; sull'enorme tavolo di legno e cristallo non c'erano fogli, ma solo un sofisticato apparecchio telefonico e un personal computer.

Una volta che si furono seduti in poltrona, con davanti una tazza di caf-fè, Tom Martin si dispose ad ascoltare con una certa curiosità l'anziano si-gnore dall'aria disorientata che gli stava di fronte.

«Dunque, mi dica in cosa posso aiutarla...» «Non le farò perdere tempo. So che il suo lavoro consiste nell'inviare

persone nelle zone di guerra, un piccolo esercito di uomini che si spostano in grandi o piccoli gruppi o anche da soli. Lei offre sicurezza ma, se vo-gliamo parlare fuor di metafora, nel suo lavoro si uccide. I suoi uomini uc-cidono per proteggere le persone che li assumono o per difendere interessi materiali, che siano edifici, giacimenti petroliferi o altro.»

Tom Martin ascoltava l'anziano signore con un misto di perplessità e di-vertimento; dove voleva arrivare?

«Signor Martin, ho bisogno di ingaggiare uno dei suoi uomini perché uccida una persona. Be', in realtà dovrà ucciderne più di una, non so esat-tamente quante, potrebbero essere due, o tre, o cinque, non so.»

Il responsabile della Global Group non riuscì a nascondere la sorpresa che provò alla richiesta di quell'uomo. Un signore attempato dall'aspetto distinto, che una settimana prima gli aveva chiesto un appuntamento di-cendo di chiamarsi Burton, ora era seduto davanti a lui e gli stava commis-sionando degli omicidi. Così, semplicemente.

«Mi scusi, signor Burton... si chiama Burton, vero?» «Mi chiami così» rispose il professor Hausser. «Dunque, Burton non è il suo vero nome... Vede, io devo sapere chi so-

no i miei clienti.» «Lei ha bisogno di sapere che la pagheranno, e bene. E io la pagherò

molto generosamente.» «Se ho ben capito, lei mi commissiona un omicidio. Per quale motivo?» «Questo non è affar suo. Diciamo che c'è una persona, i cui interessi so-

no entrati in conflitto con i miei e con quelli di alcuni amici e che non ha avuto scrupoli a utilizzare le maniere forti con noi. Per cui vogliamo eli-minarla.»

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«E le altre persone che pure vuole far eliminare?» «I suoi parenti stretti. Quelli che troverete.» Tom Martin rimase in silenzio, impressionato dalla tranquillità con la

quale quell'uomo dall'aspetto innocuo gli stava chiedendo di commettere chissà quanti assassinii. Glielo aveva chiesto con lo stesso tono di voce con cui avrebbe ordinato un caffè al bar o con cui salutava il portinaio tutte le mattine: affabilmente, senza dare troppa importanza.

«Può precisarmi che cosa ha fatto quest'uomo e perché vuole che la pu-nizione venga estesa anche alla sua famiglia?»

«No. Mi dica solo se accetta l'incarico e quanto mi costerà.» «Vede, io non dirigo un'agenzia di assassini, per cui...» «Andiamo, signor Martin, so bene chi è lei! Quelli del suo ambiente la

considerano il migliore ed elogiano la sua discrezione. Mi hanno detto di esporle la questione senza mezzi termini, ed è quel che ho fatto.»

«Mi piacerebbe sapere chi le ha parlato del mio lavoro.» «Un conoscente comune. Un uomo che ha collaborato con lei e ne è ri-

masto soddisfatto.» «E questa persona le ha detto che gestisco un'agenzia di assassini?» «Signor Martin, lei non mi conosce e per questo non si fida di me. La

capisco. Ma come definirebbe lei quel che fanno i suoi uomini quando in una miniera di diamanti sparano a un povero nero che si era avvicinato troppo al limite invalicabile? Che mi dice di quelle squadre che proteggo-no uomini d'affari e non esitano a premere il grilletto su indicazione di chi li ha assoldati?»

«Ho bisogno di sapere chi è lei, almeno un'indicazione...» «Mi dispiace, ma non l'avrà. Se ha paura che sia una trappola, stia tran-

quillo. Sono una persona di una certa età, non ho più tanto da vivere, e quel che mi rimane voglio dedicarlo a saldare un vecchio conto. Per questo ho bisogno che venga eliminato un uomo.»

Tom Martin squadrò in silenzio quel tipo anziano che con tanto aplomb e senza giri di parole gli chiedeva di uccidere. No, non era della polizia, ne era certo. E la curiosità lo spinse a rischiare, facendogli dimenticare la consueta cautela. «Chi è l'uomo che bisogna eliminare?»

«Accetta l'incarico?» «Mi dica di chi si tratta e dove si trova.» «Quanto mi costerà?» «All'inizio dovremo fare un sopralluogo sul posto, e decidere come e

quando; e questo costa parecchio.»

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«Un milione di euro per il tizio e un altro per la famiglia?» Il presidente della Global Group rimase colpito. O il vecchio cercava di

tentarlo o non aveva idea dei prezzi di mercato. «Lei ha quella somma?» «Qui con me ho trecentomila euro. Se concludiamo l'affare, glieli darò

come acconto. Il resto, a cose fatte.» «E chi vuole far uccidere? Saddam Hussein?» «No.» «Chi, allora? Ha una sua foto recente?» «No, non ho fotografie. È una persona anziana, uno più vecchio di me,

prossimo ai novant'anni. Vive in Iraq.» «In Iraq?» Martin era sempre più sorpreso. «Sì, credo proprio in Iraq; almeno, una sua parente risiede lì. Ecco alcu-

ne foto della casa. Non so se lui abiti lì, ma la donna che ci vive è sua pa-rente; anche lei dovrà morire, ma non prima che ci abbia condotto al nostro vero obiettivo.»

Tom Martin prese le foto della Casa Gialla che avevano scattato gli uo-mini mandati da Luca Marini. Le guardò con attenzione. Era una costru-zione coloniale ben protetta, a giudicare dalle immagini.

In alcune fotografie compariva una bella donna, vestita all'occidentale, in compagnia di un'altra, coperta dalla testa ai piedi.

«Qui siamo a Baghdad?» domandò. «Sì, è Baghdad.» «E questa è la donna...» affermò Tom Martin esaminando le foto. «Sì, credo che sia parente dell'uomo che deve morire. Ha lo stesso co-

gnome. Vi può condurre a lui.» «Come si chiama?» «Tannenberg.» Il presidente della Global Group rimase per qualche istante in silenzio.

Non era la prima volta che sentiva quel nome. Non molto tempo prima il suo amico Paul Dukais gli aveva chiesto degli uomini perché s'infiltrassero in una spedizione archeologica organizzata da quella donna, quella Tan-nenberg, che sembrava voler mettere le mani su qualcosa che non le appar-teneva, o che per lo meno non apparteneva solo a lei.

A quanto pareva, i Tannenberg avevano nemici dappertutto, disposti a usare qualsiasi mezzo. Quest'uomo che gli stava davanti aveva gli stessi in-teressi di Dukais o il suo movente era differente?

«Accetta l'incarico?» «Sì.»

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«Bene, stipuliamo un contratto.» «Signor... signor Burton, non si stipulano contratti di questo tipo.» «Io non le darò nemmeno un euro senza un contratto.» «Faremo un contratto generico di investigazione, per indagare su un cer-

to individuo in un determinato luogo...» «Sì, ma senza che ne compaia il nome. Voglio la massima discrezione.» «Lei è molto esigente...» «Ma anche molto generoso. So che pagherò molto più di quanto lei ri-

chiede per questo tipo di incarichi. Dunque, per due milioni di euro lei farà ciò che le chiedo.»

«Naturalmente.» «E... un'altra cosa, signor Martin. So che lei è il migliore o, almeno, è

quello che si dice. Se la pago profumatamente è perché non tollero errori né inganni. Se dovesse tradirmi, i miei amici e io disponiamo di denaro sufficiente a trovarla anche in capo al mondo, se fosse necessario. Ci sarà sempre qualcuno disposto a cercarla, anche qui dentro.»

«Non sopporto le minacce. Veda di non commettere passi falsi con me, o metterò fine a questa conversazione» rispose molto serio Tom Martin.

«Non è una minaccia. Semplicemente voglio che le cose siano chiare fin dall'inizio. Alla mia età, non posso spendere tutti i soldi che possiedo né portarli nella tomba. Dunque, li investo per esaudire le mie ultime volontà, ma da vivo. Ed è quello che sto facendo.»

«Signor Burton o qualunque sia il suo vero nome, noi non siamo abituati a tradire i clienti. Chi lo facesse avrebbe chiuso.»

Hans Hausser gli diede tutte le informazioni che aveva. Non erano mol-te, poiché Tannenberg aveva individuato la squadra di Marini e loro non avevano avuto il tempo di fornire altri dettagli su chi viveva in quella casa gialla oltre alla donna e al marito, insieme alla servirti.

Due ore dopo il professore usciva dalla Global Group. Era soddisfatto perché intuiva che finalmente si avvicinava l'ora della vendetta.

Camminò senza meta, sicuro che Martin l'avrebbe fatto seguire. Entrò all'Hotel Claridge e si diresse al ristorante, dove pranzò senza troppo appe-tito. Poi tornò nella hall e cercò un ascensore. Chi l'avesse pedinato avreb-be pensato che alloggiasse nell'hotel. Premette il pulsante del quarto piano. Una volta lì, scese a piedi fino al secondo piano, poi chiamò di nuovo l'a-scensore e premette il pulsante del garage.

Un portiere gli domandò dove fosse la sua auto, ma lui non rispose, fin-gendo, con un sorriso, di non capire. Alla sua età pareva inoffensivo. At-

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traversò il garage e dopo qualche minuto uscì dalla rampa delle auto. Svol-tò al primo angolo e si allontanò dall'hotel cercando un taxi, che non tardò a trovare, e chiese di andare all'aeroporto. Il suo volo partiva qualche ora dopo per Amburgo. Da lì avrebbe preso un altro aereo per Berlino e poi sa-rebbe andato a Bonn, a casa sua. Non sapeva se fosse riuscito a depistare Tom Martin, ma almeno gli aveva reso le cose difficili.

«Sono io.» Carlo Cipriani riconobbe la voce del suo amico. Sapeva che gli avrebbe

telefonato, dato che aveva ricevuto un'e-mail cifrata a cui aveva risposto comunicando il numero del cellulare al quale avrebbe dovuto chiamare e che, una volta utilizzato, sarebbe finito in un cestino dei rifiuti. La scheda sarebbe stata buttata nel Tevere.

«È andato tutto bene. Ha accettato e si attiverà immediatamente.» «Non ti ha creato problemi?» «Era sorpreso, ma il signor Burton è stato abbastanza persuasivo» rispo-

se Hans Hausser sogghignando. «Quando ti farà sapere qualcosa?» «Tra un paio di settimane. Deve organizzare una squadra, mandarla là...

Ci vuole tempo.» «Speriamo di riuscirci!» replicò Carlo. «Stiamo facendo tutto il possibile e, anche se dovessimo sbagliare, l'im-

portante è andare avanti, non fermarsi.» Una voce impersonale che annunciava ai passeggeri il volo per Berlino

s'intromise nella conversazione. «Ti chiamerò non appena saprò qualcosa. Mettiti in contatto con gli al-

tri.» «Lo farò» gli assicurò Cipriani. Hans Hausser riagganciò la cornetta del telefono pubblico da cui stava

chiamando, nell'aeroporto di Amburgo. Avevano appena annunciato il suo volo per Berlino. Da lì avrebbe tele-

fonato a Berta. Sua figlia era preoccupata per quei continui spostamenti e aveva iniziato a insistere per farsi raccontare che cosa stesse accadendo. Lui le aveva mentito dicendo che viaggiava per rivedere vecchi professori in pensione, come lui, ma Berta non gli aveva creduto. Naturalmente non avrebbe mai potuto immaginare che suo padre assoldasse sicari per uccide-re qualcuno. Avrebbe giurato che era un uomo pacifico: all'università ave-va sempre sostenuto le proteste contro la guerra e contro qualsiasi espres-

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sione di violenza, in qualunque parte del mondo. E poi era un paladino dei diritti umani, e i suoi allievi lo adoravano, tanto che andava ancora in fa-coltà come professore emerito. Nessuno voleva che Hans Hausser si riti-rasse.

Mercedes Barreda corse in camera sua. Aveva lasciato sul letto la borsa

in cui c'era il telefono cellulare sul quale i suoi amici avrebbero potuto rin-tracciarla.

Aprì la borsa velocemente, temendo che si potesse spegnere il segnale di chiamata.

«Non ti agitare» sentì dire da Carlo prima di avere il tempo di aprire bocca.

«Sono arrivata di corsa.» «Tranquilla, è tutto a posto.» «È andata bene?» «Senza problemi. Tra un paio di settimane sapremo qualcosa.» «Così tanto?» «Non essere impaziente.» «Lo sono, lo sono sempre stata.» «Non è facile sistemare subito la faccenda...» «Lo so, ma a volte ho paura di morire o di non farcela...» «Sì, anch'io ho questi incubi, ma siamo in dirittura d'arrivo.» Terminata la conversazione, Mercedes si lasciò cadere sul divano. Era

stanca. Aveva visitato un paio di cantieri della sua impresa edile, e poi era stata a una riunione con gli architetti e gli arredatori che lavoravano per lei.

Pensò che tutto il denaro accumulato sarebbe stato speso nel modo mi-gliore, investito in sicari per ammazzare Tannenberg.

I soldi non l'avevano mai attratta. Aveva fatto testamento: quando fosse morta, i suoi averi sarebbero passati a varie organizzazioni non governati-ve e a un ente animalista, e le azioni della sua impresa sarebbero state divi-se equamente tra gli impiegati che da tanti anni lavoravano per lei. Non l'aveva detto a nessuno, perché si riservava la possibilità di cambiare idea, ma per il momento le sue disposizioni erano quelle.

La sua domestica le aveva lasciato sul tavolo della cucina un'insalata e una fettina di petto di pollo impanata. Mercedes mise tutto su un vassoio e si sedette davanti al televisore. Trascorreva così le serate da quando era morta sua nonna, tanti anni prima.

La casa era il suo rifugio, non vi aveva mai invitato nessuno se non i

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suoi unici amici: Hans, Carlo e Bruno. Bruno stava finendo di cenare quando lo squillo del telefonino che tene-

va nella tasca della giacca lo fece sussultare. Sua moglie, Deborah, si mise all'erta. Si era accorta che da un po' di tempo, da quando era tornato da Roma, suo marito comprava e distruggeva cellulari e schede senza dare spiegazioni. Non ce n'era bisogno: lei sapeva che il passato era ancora pre-sente nella sua vita. Né i figli né i nipoti erano riusciti a cancellarlo. Per Bruno Müller non c'era nulla di più importante di ciò che gli era accaduto più di cinquant'anni prima.

Deborah si morse il labbro per non lasciarsi sfuggire un rimprovero, proprio quella sera in cui Sara e David cenavano a casa. Non capitava di frequente che fossero lì insieme, visto che David viaggiava continuamente da una parte all'altra del mondo, accompagnando le migliori orchestre sin-foniche con il suo violino.

«Scusatemi un momento...» disse Bruno mentre usciva dalla sala da pranzo diretto in studio.

«Com'è misterioso papà» disse Sara. «Non riesci a rispettare la privacy degli altri?» la riprese David. «Su, non scaldiamoci, è solo una telefonata» intervenne la madre, cer-

cando un argomento che li coinvolgesse in attesa del ritorno di Bruno. «È andato tutto bene» disse Carlo. «Ah, mi togli un peso dal cuore» rispose Bruno. «Ero preoccupato.» «Hans sta già tornando a casa e nel giro di due settimane sapremo qual-

cosa.» «Hanno accettato il lavoro?» «Sì, come sai l'offerta era così generosa che sarebbe stato difficile dire di

no.» «Dobbiamo vederci?» «Forse, quando sapremo qualcosa di concreto. Adesso non lo ritengo ne-

cessario.» «Hai ragione. Hai parlato con lei?» «Proprio adesso. Sta bene, ed è impaziente quanto noi.» «Abbiamo aspettato così tanto.» «Stiamo per arrivare alla conclusione.» «Hai ragione.» Quando Bruno riattaccò, prese la scheda del cellulare e la fece in pezzi;

poi andò in bagno e la gettò nel water così come faceva ogni volta che par-

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lava con i suoi amici da quando era tornato da Roma. Luca Marini aspettava che avvisassero Carlo Cipriani. Aveva trascorso

tutta la mattinata a fare esami per il check-up annuale nella clinica del suo amico.

Di lì a un paio di giorni Antonino, il figlio di Carlo, gli avrebbe dato i ri-sultati, previamente controllati da suo padre. Ora sarebbe andato a pranzo col suo amico, così come avevano combinato.

Carlo entrò nello studio del figlio e abbracciò Luca. «Mi dicono che stai benissimo. È vero, Antonino?»

«Così pare» rispose questi. «Da quanto siamo riusciti a vedere, non c'è nulla di cui preoccuparsi.»

«E l'affaticamento?» «Non t'è venuto in mente che potrebbe essere l'età?» scherzò Carlo. «È

quel che mi dice Antonino quando mi lamento.» Una volta al ristorante, Carlo Cipriani domandò direttamente all'amico

che cosa lo impensierisse. «Hai avuto notizie dai tuoi vecchi colleghi della polizia?»

«Qualche sera fa ho cenato con alcuni di loro in occasione del pensio-namento di un collega. Ho chiesto se c'erano novità e mi hanno detto che il caso non è ancora stato archiviato ma è stato messo da parte. Dopo qualche giorno hanno sospeso le indagini e l'amico che se ne occupava ha deciso di lasciar perdere. Se dovesse subire altre pressioni, dirà che ci sta ancora la-vorando.»

«Tutto qui?» «Non mi pare poco, Carlo, ed è tutto quello che posso ottenere. Mi stan-

no già facendo un favore. Se dovessero tornare sulla faccenda, mi avvise-ranno; in ogni caso, hanno ben chiaro che, a meno che io dica loro la veri-tà, non sarà facile districare la matassa.»

«Potrebbero chiedere di parlare con Mercedes, dato che hai riferito che è lei la persona che ha commissionato l'indagine sulla situazione in Iraq.»

«Sì, ma voler saper quel che accade in Iraq non è un delitto. Certamente non è una storia facile da bere: un'imprenditrice catalana che assume un'a-genzia d'investigazioni italiana per avere notizie riguardo alla situazione in Iraq, con il proposito di fare affari una volta finita una guerra che ancora non è nemmeno iniziata, e tutto ciò dietro raccomandazione di un amico.»

«È così complicato...» mormorò Carlo. «Ed è quello che rende credibile la faccenda» rispose Marini. «E poi,

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sono un attore consumato» scherzò. «Hai dei buoni amici, e questo ci aiuta.» «Certo che ho dei buoni amici, e tu sei uno di loro. Ma voglio dirti che

Mercedes Barreda mi è parsa una donna terribile.» «Non lo è; è una persona straordinaria e coraggiosa, non puoi immagina-

re quanto. In verità, è la donna migliore che io conosca.» «La stimi davvero.» «Le voglio molto bene.» «E perché non te la sposi?» «È una cara amica, ma nulla di più.» «Però l'ammiri molto. Quando siete insieme si nota una speciale compli-

cità fra voi.» «Non vedere quello che non c'è. Per me Mercedes è come una sorella.

La porto sempre nel cuore, proprio come Hans e Bruno.» «Sono i tuoi amici più cari. Da quanto vi conoscete?» «Da talmente tanto tempo che, se ci penso, mi rendo conto di come sono

vecchio.» Carlo cambiò abilmente discorso. Non diceva mai una parola di troppo

riguardo ai suoi amici, tanto meno sul passato comune che li univa, al di là del bene e del male.

19

Si notava subito che era lui a comandare in quel gruppo così eterogeneo.

Non c'era bisogno di essere degli agenti segreti per rendersi conto che il ti-po alto, con il fisico robusto e i capelli biondo scuro deteneva il potere tra quegli uomini e quelle donne che non avevano mai smesso di ridere e scherzare durante la lunga attesa per recuperare i bagagli dai nastri traspor-tatori. Erano arrivati con un volo precedente al suo, stracarichi di valigie.

Si era stupito sentendoli discutere di archeologia. Andavano in Iraq per scavare e Gian Maria pensò ancora una volta che la casualità non esiste, e che se lui si trovava in mezzo a un gruppo di archeologi diretti in Iraq vo-leva dire che era opera della Provvidenza.

Li aveva sentiti dire che andavano a Baghdad, ma che quella sera non avrebbero varcato la frontiera e si sarebbero fermanti a dormire ad Am-man.

Il sacerdote, nervoso, fece uno sforzo quasi sovrumano per vincere la propria timidezza e parlare al capo del gruppo prima che scomparisse nel

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terminal dell'aeroporto. «Mi scusi, posso disturbarla?» Yves Picot osservò l'uomo che, rosso come un peperone per l'imbarazzo,

attendeva timoroso una risposta. «Sì, mi dica.» «Ho sentito che siete diretti a Baghdad...» «Esatto.» «Potrei venire con voi?» «Con noi? Ma lei chi è?» Il giovane arrossì ancora di più. Non voleva mentire, non poteva, ma

non avrebbe nemmeno detto tutta la verità. «Mi chiamo Gian Maria, e sto andando in Iraq a vedere cosa posso fare.»

«Che significa "cosa posso fare"? Che intenzioni ha?» «Tra le altre cose, dare una mano. Ho degli amici che lavorano in un'or-

ganizzazione non governativa, aiutano i bambini dei quartieri più poveri di Baghdad e forniscono gli ospedali di alcuni farmaci. Di certo saprà che non hanno nulla a causa dell'embargo. La gente sta morendo perché non ci sono antibiotici con cui combattere le infezioni e...»

«Sì, sì, lo so qual è la situazione in Iraq... Ma lei va là così, alla ventu-ra?»

«Ho avvisato i miei amici, ma non possono venire a prendermi ad Am-man, e io... veramente non sono abituato a questi viaggi e se potessi rag-giungere Baghdad insieme a voi... contribuirei alle spese...»

Yves Picot scoppiò a ridere. Gli piaceva quell'uomo talmente timido che il solo fatto di parlargli lo faceva avvampare. «In che hotel è alloggiato?» gli chiese.

«In nessuno...» «E come credeva di andare a Baghdad?» «Non saprei... pensavo che qui me l'avrebbero detto.» «Alle cinque di domattina partiremo dal Marriot. Se si farà trovare lì, la

porteremo con noi. Chieda di me, mi chiamo Yves Picot.» Si voltò e si incamminò, lasciando il giovane sorpreso e senza dargli il

tempo di ringraziarlo. Gian Maria sospirò sollevato. Prese la piccola valigia nera che conteneva

il suo esiguo bagaglio e uscì dall'aeroporto per cercare un taxi. Si sarebbe fatto portare al Marriot sperando, con un po' di fortuna, di trovare una stanza libera; preferiva, se possibile, stare vicino al gruppo di archeologi.

Il taxi lo lasciò all'ingresso dell'hotel e Gian Maria entrò con passo deci-so nella hall, dove l'aria condizionata alleviava la calura esterna. Lì si tro-vava il gruppo di Picot. Non voleva apparire molesto, dunque attese in un

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angolo appartato che la reception si liberasse. Aspettò pazientemente per più di venti minuti prima di avvicinarsi al bancone.

L'impiegato, in un inglese impeccabile, gli spiegò di non avere più ca-mere singole; gli rimaneva solo una doppia che, immaginava, non gli inte-ressasse.

Gian Maria esitò qualche istante. Non poteva scialare e, se avesse pagato una stanza doppia, le sue risorse si sarebbero ridotte considerevolmente, ma giunse alla conclusione che era l'unica soluzione. Cosicché, cinque mi-nuti più tardi, si trovava in una comoda camera dalla quale decise che non sarebbe uscito fino al giorno successivo. Non voleva correre rischi né, tan-to meno, perdersi in una città sconosciuta. E poi desiderava riposare. Ne sentiva il bisogno dopo tanti giorni stressanti passati alla ricerca del modo migliore per andarsene da Roma senza destare sospetti.

Telefonò a un superiore per avvisarlo che era arrivato senza problemi e che il giorno dopo avrebbe varcato la frontiera irachena.

Poi, disteso sul letto con un libro in mano, si addormentò. Non erano an-cora le tre del mattino quando si svegliò di soprassalto. Mancavano più di due ore prima che il gruppo di archeologi lasciasse l'hotel. Per paura di riaddormentarsi, chiamò il centralino e si accertò che la sveglia fosse pro-grammata per le quattro. Ma non riuscì più a riprendere sonno; continuava a pensare se fosse il caso di chiedere a quell'archeologo che pareva il capo, Picot, se conosceva Clara Tannenberg. Magari sapeva chi era o, almeno, dove rintracciarla. Loro andavano in Iraq e quella donna, in quel paese, ci viveva... Ma, appena decideva che l'avrebbe fatto, cambiava subito idea. No, non poteva fidarsi di nessun estraneo. Se avesse chiesto di lei a Picot, questi gli avrebbe rivolto mille domande e l'eventualità che lui la cono-scesse gli avrebbe creato un sacco di guai. Infatti, lui non poteva rivelare a nessuno il vero motivo per cui andava a Baghdad. Sarebbe rimasto zitto, anche se il silenzio era un carico troppo pesante.

Yves Picot non era di buonumore. Era andato a letto tardi, gli faceva ma-

le la testa e aveva sonno. Non aveva voglia di parlare. Quando vide nella hall il giovane dell'aeroporto fu sul punto di dirgli di trovare un altro modo per raggiungere Baghdad, ma lo sguardo triste di quell'uomo lo indusse ad agire con una generosità che non gli era solita.

«Salga su quella Land Rover e non crei fastidi.» Fu tutto ciò che disse. Gian Maria non replicò e montò sulla Land Rover

che l'uomo gli aveva indicato, mentre l'autista attendeva il gruppo che do-

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veva trasportare. Un minuto dopo arrivarono tre ragazze che non dovevano avere più di

ventidue o ventitré anni. «Tu sei quello dell'aeroporto!» esclamò una bionda dagli occhi verdi,

magra e di bassa statura. «Io?» chiese Gian Maria, sorpreso. «Sì, ti abbiamo notato mentre aspettavamo i bagagli. Non smettevi di

guardarci, vero, ragazze?» Le altre due risero e Gian Maria si sentì arrossire. «Mi chiamo Magda» si presentò la bionda dagli occhi verdi «e queste

due delinquenti sono Lola e Marisa.» Gli diedero un bacio invece di porgergli la mano e si sedettero accanto a

lui, parlando continuamente. Gian Maria le ascoltava senza intervenire. Solo ogni tanto, quando si ri-

volgevano a lui, rispondeva cercando di non lasciarsi scappare una parola di troppo. Attraversarono la frontiera senza problemi e giunsero a Baghdad prima delle dieci.

Yves Picot aveva un appuntamento con Ahmed Husseini al ministero. Il gruppo si sistemò all'Hotel Palestine, presso cui avevano riservato delle stanze per la notte. Gian Maria si diresse con loro all'hotel e da lì localizzò la ONG, dove lo stavano davvero aspettando.

«Di che ti occupi?» gli domandò improvvisamente Magda. «Io?» chiese sconcertato Gian Maria. «Sì, tu, certo. Di cosa ci occupiamo noi lo so già.» «Voi siete archeologhe, no?» domandò lui timidamente. «No, non ancora» rispose Marisa, una ragazza goffa dai capelli castani. «Siamo all'ultimo anno» precisò Lola. «Non abbiamo ancora finito il

corso, ma siamo venute qui perché è un'opportunità unica e poi ci serve per il curriculum... Scavare sotto la direzione di Yves Picot, con Fabián Tudela e Marta Gómez è un'occasione irripetibile.»

«Speriamo che poi ci promuovano all'esame» disse ridendo Magda «perché la Gómez è una tipa tosta. L'anno scorso mi ha bocciata.»

«Io sono passata per un pelo nonostante abbia sostenuto un esame per-fetto» si lamentò Marisa. «Per quella donna non si è mai abbastanza prepa-rati.»

«Mi auguro che trovi un fidanzato e si rilassi» disse Lola scoppiando di nuovo a ridere. «Qui gli uomini hanno un fascino particolare.»

«Non credo che alla Gómez manchino gli uomini; basta vedere come la

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guardano i professori...» replicò Marisa. «E pure i nostri compagni» continuò Magda. «Piace a tutti.» «Sei italiano?» domandò Lola. «Sì.» «Però parli spagnolo» insistette la ragazza. «Un po', ma non tanto bene» spiegò Gian Maria, imbarazzato da tutte

quelle domande. «E allora? Di cosa ti occupi?» tornò a chiedere Magda. «Mi sono laureato in lettere antiche, specializzandomi nelle lingue semi-

tiche» rispose Gian Maria pregando fra sé perché non insistessero. «Ma chi studia più le lingue morte? Che palle! Credo che non ci sia nul-

la di peggio» esclamò Magda. «Dunque conosci l'ebraico, l'aramaico...» volle sapere Lola. «E pure l'accadico, l'urrita...» aggiunse Gian Maria. «Ma, quanti anni hai?» La domanda di Marisa lo sconcertò. «Trentacinque» rispose. «Pensavamo che avessi la nostra età!» esclamò Marisa. «Non ti davamo più di venticinque anni» aggiunse Lola. «E non lavori?» domandò Magda. «Io?» «Sì, tu» insistette Magda. «Potrei dirlo a Yves; stiamo cercando alcune

persone.» «E cosa potrei fare per voi?» «Andiamo a scavare a Safran, vicino a Tell Mughayir, l'antica Ur» spie-

gò Magda. «E, data la situazione, non sono stati in molti a voler partecipa-re a questa spedizione.»

«In realtà è un'impresa controversa, poiché molti archeologi e professori credono che non saremmo dovuti venire in Iraq di questi tempi; la conside-rano quasi una follia» spiegò Lola.

«E hanno ragione, in effetti, perché tra qualche mese Bush bombarderà l'Iraq, migliaia di persone moriranno e nel frattempo noi staremo qui a cer-care tavolette come se fosse la cosa più normale del mondo» precisò Mari-sa.

«Sono qui per collaborare con un'organizzazione non governativa» spie-gò Gian Maria. «Lavorano nei quartieri più poveri distribuendo cibo e me-dicinali...»

«Bene, ma questo non ti impedisce di venire a darci una mano. Lo dirò a Picot; e poi pagano benissimo, dunque se dovessi trovarti a corto di sol-

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di...» suggerì Magda. Quando scesero dall'auto davanti all'Hotel Palestine, l'umore di Picot

non era granché migliorato. Aveva bisogno di un caffè forte e lasciò che Albert Anglade, il responsabile operativo, si occupasse di sbrigare le prati-che alla reception.

«Professore! Professore!» gridò Magda. Yves pensò che l'ultima cosa che avrebbe desiderato era stare a sentire i

problemi della ragazza, anche se aveva dato una mano a convincere altri studenti della Complutense a partecipare alla spedizione. «Mi dica...»

«Sa? Gian Maria è uno specialista in lingue morte... forse potrebbe es-serci utile» gli disse la studentessa.

«E chi è Gian Maria?» domandò Picot in tono astioso. «Quello in macchina con noi, il tipo che abbiamo conosciuto all'aeropor-

to.» «Ah! Certo che lei è davvero efficiente, non la finisce più di raccoman-

darci persone» replicò Picot di cattivo umore. «Be', capisco che lei non abbia voluto il maestro bosniaco, ma uno spe-

cialista in lingue morte... conosce l'accadico» insistette Magda. «Bene, gli chieda dove potremo trovarlo a Baghdad e, se avremo biso-

gno di lui, lo contatteremo» concesse Picot. «Ma certo che ne avremo bisogno! Ha idea di quante tavolette dovremo

decifrare?» insistette Magda. «Signorina, le assicuro che non è la prima volta che partecipo a una spe-

dizione archeologica. Le ho detto di chiedere a quel giovane la sua dispo-nibilità e... me lo mandi al bar. Gli parlerò io.»

«Stupendo!» Magda raggiunse di corsa la hall temendo che Gian Maria se ne fosse già andato. Quel tipo le piaceva, non sapeva perché, forse per quel suo aspetto fragile. «Gian Maria!» gridò quando lo vide.

«Sì?» rispose lui, arrossendo al pensiero che tutti lo osservavano. «Il capo vuole parlarti, ti aspetta al bar. Possi in te non ci penserei due

volte. Dài, vieni con noi!» «Magda, io ho già un impegno: sono qui per dare una mano. La gente sta

malissimo» protestò lui. «Anche a Safran se la passano male, e nei momenti liberi potrai occupar-

ti della gente del villaggio.» Gian Maria era sorpreso dall'energia che pareva possedere quella ragaz-

za. Era piena di buone intenzioni, ma sembrava un terremoto, un uragano. Trovò Picot che stava bevendo un caffè.

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«Grazie per avermi portato a Baghdad» gli disse a mo' di saluto. «Di nulla. Magda sostiene che lei è uno specialista in lingue morte.» «Sì.» «Dove ha studiato?» «A Roma.» «E perché?» «Perché?» «Sì, perché?» «Perché... perché mi piace.» «Le piace l'archeologia?» «Certo...» «Vuole unirsi a noi? Non abbiamo molti esperti. Conosce bene l'accadi-

co?» «Sì.» «E allora venga con noi.» «Non posso. Le ho già detto che mi trovo qui per lavorare in un'organiz-

zazione non governativa.» «Sta a lei decidere. Se cambia idea, ci troverà a Safran. È un villaggio

sperduto tra Tell Mughayir e Bassora.» «Magda me l'ha spiegato.» «Non è facile muoversi in Iraq, dunque le darò un numero di telefono

per poterci tenere in contatto. È quello del direttore del dipartimento di Scavi archeologici, Ahmed Husseini; se decidesse di venire con noi, lui l'aiuterà a raggiungerci.»

Gian Maria rimase in silenzio. Nei suoi occhi si rifletté l'emozione che aveva provato nell'udire il nome di Ahmed Husseini. Quando era riuscito a entrare nella sede del convegno di archeologia a Roma per chiedere infor-mazioni su Tannenberg, gli avevano spiegato che quel cognome corri-spondeva a una donna, Clara Tannenberg, che partecipava al convegno in-sieme al marito, Ahmed Husseini.

«Che c'è? Conosce Ahmed?» gli domandò Picot incuriosito. «No, non so chi sia. Sa, sono un po' stanco e confuso dalla sua offerta,

io... io sono venuto per aiutare gli iracheni e...» «Decida lei. Io le offro un lavoro ben pagato... Ora, se permette, dovrei

sistemare alcune cose prima di incontrarmi con Husseini.» Lo lasciò lì, in mezzo al bar, confuso. Qualche secondo più tardi arrivò

Magda, cercandolo con lo sguardo. «Hai deciso?»

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«Non so ancora...» «Problemi di coscienza?» «Credo di sì.» «Anch'io me li faccio; quello che ti ha detto Marisa è vero: questa situa-

zione crea a tutti noi dei problemi di coscienza, ma che ci vuoi fare... Le si-tuazioni ideali non esistono.»

«Questa è la peggiore possibile» le fece notare Gian Maria. «Sì, è vero. Tra qualche mese moriranno migliaia di iracheni... e noi, in-

tanto, ce ne stiamo qui a cercare città sepolte nella sabbia, sapendo che cinque minuti prima che inizino i bombardamenti ce ne potremo andare. Se ci penso, mi viene voglia di tornare indietro, ma...»

«Dunque hai deciso di non pensare.» «Non voglio insistere, Gian Maria. Se vuoi, sai dove puoi trovarci.» Si

diresse verso l'uscita dell'hotel con passo insicuro. Ciò che stava accadendo era poco meno di un miracolo. Aveva appena

trovato un ago in un pagliaio. Picot conosceva il marito di Clara Tannen-berg e lui aveva fatto quel viaggio solo per trovare quella donna. Se il ma-rito era a Baghdad, non sarebbe stato difficile rintracciarla.

Aveva bisogno di riordinare i pensieri prima di fare il passo successivo. Non poteva mostrarsi ansioso di conoscere Ahmed Husseini. Decise che

avrebbe atteso due o tre giorni prima di mettersi in contatto con lui. E poi doveva pensare a quel che gli avrebbe detto, e come. Il suo obiettivo era arrivare fino a Clara Tannenberg, il problema era convincere il marito a condurlo da lei.

In strada prese un taxi a cui diede un indirizzo scrìtto su un pezzetto di carta. Il tassista sorrise e gli domandò in inglese di dove fosse.

«Sono italiano» rispose Gian Maria senza sapere se quella risposta a-vrebbe suscitato reazioni negative, dato che Silvio Berlusconi, il capo del governo italiano, appoggiava Bush.

Però al tassista parve non importare da dove lui venisse e continuò a chiacchierare, facendogli molte domande. «Si sta male» disse a un certo punto «e c'è molta miseria, prima non era così.»

Gian Maria annuì senza parlare, timoroso di dire qualcosa che potesse provocare la reazione del tassista.

«Lei va all'ufficio di Aiuti all'infanzia?» «Sì, voglio dare una mano.» «Siete brava gente, aiutate i nostri figli. I bambini iracheni non ridono

più, piangono dalla fame. Molti muoiono per mancanza di medicinali.»

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Finalmente giunsero all'indirizzo dove avevano sede gli uffici della ONG dove Gian Maria si era offerto come volontario.

Pagò il tassista e con la valigia nera in mano entrò in un portone sgan-gherato, dove un cartello in arabo e in inglese indicava che al primo piano si trovava la sede di Aiuti all'infanzia, un'organizzazione non governativa che si occupava dei bambini che vivevano in paesi in guerra.

Un suo amico aveva un parente nel consiglio d'amministrazione della fi-liale dell'associazione a Roma e, di fronte alle sue insistenze, l'aveva aiuta-to a farsi mandare a Baghdad. Le ONG normalmente cercano specialisti, non volontari entusiasti che a volte si rivelano un intralcio più che un aiu-to, ma l'appoggio dello zio del suo amico gli era stato davvero prezioso.

Aveva giustificato la sua insistenza a recarsi nella capitale irachena con la necessità di fare qualcosa per dei fratelli bisognosi; aveva assicurato di non riuscire più a stare a guardare con le braccia conserte la tragedia che si abbatteva su quel popolo.

Era stato faticoso convincere i superiori, ma l'avevano visto così sicuro di quella decisione ed erano rimasti talmente impressionati dalla sofferenza che traspariva sul suo viso che alla fine gli avevano permesso di andarse-ne, anche se senza troppo entusiasmo. Il direttore di Aiuti all'infanzia di Baghdad gli aveva creato ogni sorta di problema prima di arrendersi all'i-nevitabile: quel raccomandato sarebbe arrivato in Iraq.

La porta era aperta, e diverse donne con i bambini attaccati alle sottane parevano attendere inquiete che qualcuno si occupasse di loro.

Una ragazza le invitava a pazientare, dicendo che il dottore avrebbe visi-tato i loro figli, ma che c'era un po' da aspettare. Gian Maria si avvicinò a lei e attese che rispondesse al telefono. Quando riagganciò, la giovane lo guardò per un istante.

«Lei cosa vuole?» gli domandò in inglese. «Vengo da Roma e vorrei vedere il signor Baretti, mi chiamo Gian Ma-

ria.» «Ah, è lei! L'aspettavamo. Adesso avviso Luigi.» La giovane era passata con disinvoltura dall'arabo all'inglese e poi all'ita-

liano. Si alzò e si diresse lungo un corridoio in cui si allineavano diverse porte. Entrò in una di esse e qualche secondo più tardi uscì facendogli dei segni con la mano perché si avvicinasse.

«Si accomodi» gli disse la giovane mentre gli tendeva la mano. «Io sono Alia.»

Luigi Baretti doveva avere circa cinquant'anni. Aveva una calvizie inci-

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piente e qualche chilo di troppo, e pareva energico e poco propenso a per-dere tempo. «Lei ha fatto di tutto per venire qui e, visto che in questo mondo l'importante è avere una raccomandazione, c'è riuscito.»

Gian Maria provò vergogna. Gli pareva umiliante come accoglienza e gli sarebbe piaciuto trovare una frase efficace con cui ribattere, ma tacque.

«Si sieda.» Quello di Baretti fu un ordine, più che un invito. «Immagino che penserà che non sono molto educato, ma non ho tempo per i convene-voli. Sa quanti bambini sono morti questa settimana per mancanza di cure? Glielo dico io: dei nostri, sono morti in tre. Non voglio neanche provare a immaginare quante siano le vittime in tutta Baghdad. E lei ha una crisi spi-rituale e decide che per risolverla deve venire in Iraq. Ho bisogno di far-maci, di cibo, di medici, di infermiere e di denaro, non di gente che si vo-glia lavare la coscienza venendo a vedere da vicino la miseria per poi tor-nare alla sua comoda vita a Roma o dove diavolo abita lei.»

«Ha finito?» domandò Gian Maria, ripresosi dallo stupore iniziale. «Come dice?» «Chiedevo se ha finito di esprimermi il suo disappunto o se ha intenzio-

ne di continuare a insultarmi.» «Io non l'ho insultata!» «Ah, no? Sono commosso per l'accoglienza. Grazie, lei è un essere uma-

no straordinario.» Baretti rimase in silenzio. Non si aspettava un contrattacco da parte di un

uomo capace di arrossire. «Si sieda e mi dica cos'ha intenzione di fare.» «Non sono medico, e nemmeno infermiere, non ho denaro, dunque se-

condo lei non posso fare niente.» «Sono a pezzi» si scusò il direttore di Aiuti all'infanzia. «Si vede. Forse è arrivato il momento che qualcuno la sostituisca, dato

che non riesce più a reggere il peso della situazione.» Gli occhi di Luigi Baretti esprimevano una rabbia immensa. Quel tipo

allampanato stava mettendo in discussione la sua capacità di dirigente, e quel posto era la sua vita. Viveva a Baghdad da sette anni, dopo essersi trovato in altri paesi in conflitto. Decise di essere più cauto, giacché quel giovane pareva avere gente importante alle spalle. Lo provava il fatto che si trovava lì, e magari per soffiargli il posto.

Gian Maria era sorpreso di se stesso. Nemmeno lui sapeva da dove aves-se tirato fuori la forza per parlare in quel modo a Baretti.

«Certo che può dare una mano» disse infine questi. «Sa guidare? Ab-biamo bisogno di qualcuno che trasporti i bambini all'ospedale più vicino,

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o alle loro case, o che vada all'aeroporto a prendere i pacchi che ci spedi-scono da Roma e da altri luoghi. Eccome se ne abbiamo bisogno!»

«Cercherò di rendermi utile» affermò Gian Maria. «Sa dove alloggiare?» «No, pensavo di chiederle se conosce qualche posto non troppo costo-

so.» «La soluzione migliore è affittare una stanza presso una famiglia irache-

na. A lei costerà poco e a loro i soldi faranno comodo. Chiederò ad Alia. Quando vuole iniziare a lavorare?»

«Domani?» «Per me va bene. Si trovi una sistemazione e si faccia spiegare da Alia

come siamo organizzati qui.» «Le spiace se chiamo Roma per dire che sono arrivato e che sto bene?» «No, affatto. Usi pure il mio telefono mentre io vado a parlare con A-

lia.» Gian Maria tornò a domandarsi perché si stava prendendo impegni che

non avrebbe portato a termine. Era andato in Iraq per trovare quella donna, Clara Tannenberg, e l'incarico che aveva appena accettato avrebbe cambia-to i suoi piani.

"Ma, cosa sto facendo? Perché non ho più il controllo delle mie azioni? Chi sta guidando o deviando i miei passi?"

In poco più di ventiquattr'ore si sentiva cambiato. Affrontare il mondo esterno gli aveva procurato uno shock. Ma ciò che più lo inquietava era avere perso il controllo di se stesso.

Alia gli disse che uno dei medici iracheni che collaboravano con Aiuti all'infanzia aveva una stanza libera a casa sua e gliel'avrebbe potuta affitta-re. Lo avrebbe accompagnato all'ospedale e lì si sarebbero conosciuti; nel frattempo avrebbero portato una cassa di antibiotici e di bende che aveva-no ricevuto quella mattina stessa dalla loro sede in Olanda.

Gian Maria si accomodò accanto ad Alia su una vecchia Renault. La ra-gazza guidava a gran velocità cercando di evitare gli ostacoli del caotico traffico di Baghdad.

Non impiegarono più di cinque minuti a raggiungere l'ospedale, che si trovava lì vicino. Con passo deciso, Alia lo condusse lungo i corridoi dove il pianto si mescolava all'odore di sangue e ai lamenti dei malati.

Vedeva passale medici e infermieri con il volto preoccupato, impotenti per la mancanza di mezzi. Guardavano morire i loro pazienti perché non c'erano farmaci.

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Giunsero al reparto di pediatria, e lì chiesero del dottor Falsal al-Bitar. Un'infermiera indicò loro con un gesto stanco la porta della sala operatoria. Attesero un bel po' prima che il medico ne uscisse. Pareva furibondo.

«Un altro bambino che non ho potuto salvare» disse con amarezza, sen-za rivolgersi direttamente a nessuno.

«Faisal» lo chiamò Alia. «Ah, sei qui! Sono arrivati gli antibiotici?» «Sì, ti ho portato questa cassa.» «Solo questa?» «Sai bene cosa succede alla dogana...» Il medico fissò i suoi tormentati occhi neri su Gian Maria, in attesa che

Alia li presentasse. «Lui è Gian Maria, è appena arrivato da Roma e viene a dare una ma-

no.» «È un medico?» «No.» «E che cosa fa?» «Sono qui per aiutare, potrò rendermi utile in qualcosa...» «Ha bisogno di una stanza» intervenne Alia «e siccome mi hai detto di

averne una libera, pensavo che forse gliel'avresti potuta affittare.» Faisal osservò Gian Maria e, abbozzando un sorriso che pareva più una

smorfia amara, gli tese la mano. «Se aspetta un attimo che finisca e mi ac-compagna a casa, le farò vedere la stanza. Non è molto grande, ma magari le può andar bene. Vivo con mia moglie e tre figli, due bambine e un bam-bino. Mia madre abitava con noi, ma è morta qualche mese fa, per questo abbiamo una stanza libera.»

«Andrà di sicuro benissimo» affermò Gian Maria. «Mia moglie fa la maestra» spiegò Faisal «ed è un'ottima cuoca, sempre

che le piaccia il nostro cibo.» «Sì, certamente» fu la risposta riconoscente di Gian Maria. «Se lavorerà con Aiuti all'infanzia, sarà meglio che familiarizzi con que-

st'ospedale. Alia glielo mostrerà.» La giovane lo condusse per corridoi e ambulatori, fermandosi a salutare i

medici e gli infermieri che incontravano. Tutti parevano disperati per la mancanza di attrezzature e di farmaci con cui far fronte alle sofferenze dei loro pazienti.

Un'ora dopo Gian Maria si accomiatò da Alia sulla porta dell'ospedale per andare con Faisal a casa sua.

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L'auto del medico, un'altra vecchia Renault, era lustra dentro e fuori. «Vivo ad al-Ganir; lì vicino c'è una chiesa, se ha desiderio di pregare.

Molti italiani si recano in quella chiesa.» «Una chiesa cattolica?» «Una chiesa cattolica caldea; è più o meno lo stesso, no?» «Sì, sì, certo.» «Mia moglie è cattolica.» «Sua moglie?» «Sì. In Iraq c'è un'importante comunità cristiana che ha sempre vissuto

in pace. Adesso non so cosa accadrà...» «Anche lei è cristiano?» «Sì, ufficialmente sì, però non sono praticante.» «Cosa vuol dire che non è praticante?» «Non vado in chiesa, non prego. Da molto tempo mi sono allontanato da

Dio; probabilmente è successo uno di quei giorni in cui non sono riuscito a salvare la vita di un piccolo innocente e l'ho visto morire fra atroci soffe-renze senza capire perché. E non mi parli della volontà di Dio, né del fatto che Lui ci manda delle prove e che dobbiamo accettare il Suo volere. Quel piccolo aveva la leucemia, e per due anni ha lottato per la sua vita con una forza encomiabile. Aveva sette anni. Non aveva mai fatto del male a nes-suno, Dio non doveva fargli superare nessuna prova. Se Dio esiste, la sua crudeltà è infinita.»

Gian Maria non poté trattenersi dal farsi il segno della croce e guardò Faisal con compassione, ma la sua pena non si poteva paragonare al dolore e all'ira del medico. «Lei colpevolizza Dio per tutto ciò che accade agli uomini.»

«Io colpevolizzo Dio per ciò che accade ai bambini, agli esseri innocenti e indifesi. Noi adulti siamo responsabili di quello che abbiamo compiuto, di ciò che siamo diventati, ma un neonato? Un bambino di tre anni o di dieci, di dodici? Che cos'hanno fatto queste creature per meritarsi di morire in mezzo a sofferenze simili? E non mi venga a parlare del peccato origi-nale, perché non sopporto le stupidaggini. Che Dio è quello che fa ricadere le conseguenze di una colpa su milioni di innocenti?»

«È diventato ateo?» domandò Gian Maria temendo la risposta. «Se Dio esiste, non è qui» sentenziò Faisal. Rimasero in silenzio per il resto del tragitto fino all'appartamento del

medico, situato all'ultimo piano di un edificio su tre livelli. Mentre Faisal apriva la porta, sentirono le grida di un litigio infantile.

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«Che succede?» domandò il medico a due bambine uguali come gocce d'acqua che si prendevano per i capelli al centro di un soggiorno spazioso.

«È stata lei a prendermi la bambola» disse una delle due indicando l'al-tra.

«Non è vero» rispose quella chiamata in causa. «Questa bambola è la mia, ma a lei non importa.»

«Questa storia deve finire» sentenziò Faisal mentre alzava le bambine da terra per baciarle.

Le piccole ricambiarono il bacio senza far caso a Gian Maria. «Queste sono le gemelle» disse Faisal. «Rania e Leila. Hanno cinque

anni e sono indiavolate.» Una donna bruna, con i capelli raccolti in una coda e vestita con un

tailleur, entrò in sala con un bambino in braccio. «Nur, ti presento Gian Maria. Gian Maria, Nur è mia moglie e questo è

Hadi, il piccolo della famiglia. Ha un anno e mezzo.» Nur lasciò il piccolo sul pavimento e strinse la mano di Gian Maria salu-

tandolo con un sorriso. «Benvenuto nella nostra casa. Faisal mi ha telefo-nato per informarmi che lei sarebbe venuto a vivere da noi, se le fosse pia-ciuta la stanza.»

«Certo che mi piacerà!» esclamò Gian Maria. «Vivrà qui?» domandò una delle gemelle. «Sì, Rania, se vuole, sì» rispose sua madre sorridendo per la faccia

sconcertata di Gian Maria, che si stava domandando come avrebbe potuto distinguerle, uguali com'erano.

Faisal e Nur accompagnarono Gian Maria nella camera che era stata del-la madre del medico. C'era una finestra che dava sulla strada; non era mol-to ampia ma pareva confortevole. Un letto con la testiera in legno chiaro, un comodino, un tavolo rotondo con un paio di sedie in un angolo e un ar-madio costituivano il mobilio.

«Mi sembra perfetta» affermò Gian Maria «ma ancora non mi avete det-to quanto mi costerà...»

«Le andrebbero bene trecento dollari al mese?» «Certo.» «I pasti sono inclusi...» parve scusarsi Nur. «Mi sembra davvero perfetto, grazie mille.» «Le piacciono i bambini? Lei ha figli?» volle sapere Nur. «No, non ho figli, ma adoro i bambini. Ho tre nipotini.» «Be', è ancora molto giovane, ha tempo per averne» affermò Nur. «A-

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desso, se si vuole sistemare...» Gian Maria annuì. Un minuto dopo aveva già appeso l'esiguo bagaglio

nell'armadio, dove c'era una pila di lenzuola e asciugamani. «Abbiamo un bagno e un bagnetto più piccolo, con la doccia. Se vuole

utilizzare il bagnetto sarà più indipendente; con tre bambini l'altro è sem-pre occupato» gli spiegò Nur.

«Per me va bene. Vi ringrazio. Vorrei pagare subito.» «Subito? Ma se è appena arrivato! Aspetti di vedere se si trova bene con

noi...» protestò Nur. «No, preferirei pagare il mese in anticipo.» «Se insiste...» «Sì, davvero.» Faisal, intanto, si era messo a lavorare in un piccolo studio che dava di-

rettamente sul soggiorno. In realtà faceva parte della stanza, ma grazie a una libreria sistemata di traverso era un luogo abbastanza appartato.

La casa era grande. Oltre al soggiorno, c'erano una cucina e altre tre stanze, compresa quella che Gian Maria aveva affittato.

«Le darò un mazzo di chiavi perché possa entrare e uscire liberamente, anche se devo chiederle di tener conto che in questa casa ci sono dei bam-bini e...»

«Dio mio, ci mancherebbe altro! Cercherò di disturbare il meno possibi-le. So cosa significa vivere in famiglia.»

«Saprà venire dagli uffici a qui?» volle sapere Faisal. «Me la caverò. Dovrò imparare.» «A proposito, conosce l'arabo?» «Un po', mi difendo.» «Meglio così. Comunque, se avrà bisogno di aiuto per qualsiasi cosa,

non esiti a dirmelo.» «Grazie.» Faisal abbassò lo sguardo sui documenti che stava leggendo e Gian Ma-

ria capì che per integrarsi nella vita familiare avrebbe dovuto rispettare la sua routine; dunque decise di uscire. Voleva familiarizzare con il quartiere e pensare. Aveva bisogno di riflettere, e sarebbe stato più facile farlo all'a-ria aperta che rinchiuso in camera sua.

«Vado a fare una passeggiata, ha bisogno di qualcosa?» domandò a Nur. «No, grazie tante. Cena con noi?» «Se non disturbo...» «Certo che no, mangiamo presto, alle otto.»

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«Ci sarò.» Camminò per il quartiere. Notò alcuni sguardi curiosi, ma nessuna ostili-

tà. Le donne vestivano all'occidentale, e molte ragazze indossavano jeans e magliette con sopra i nomi di complessi rock.

Si fermò davanti a un banchetto su cui un vecchio aveva esposto qualche ortaggio e un cesto di arance. Decise di comprare qualcosa da portare a ca-sa di Nur e Faisal. Acquistò peperoni, pomodori, cipolle, zucchine e aran-ce, che l'uomo assicurava provenire dal suo orto. Gli domandò dove si tro-vasse la chiesa e lui gli indicò come arrivarci. Doveva percorrere ancora due isolati e girare a destra.

Gian Maria esitò, ma alla fine decise di avvicinarsi alla chiesa; i due sacchetti che portava non erano troppo pesanti.

Quando entrò si sentì travolgere da un'ondata di pace interiore. Un grup-po di donne stava pregando e i loro mormorii rompevano il silenzio. Si si-stemò in fondo a una panca e si inginocchiò. Con gli occhi chiusi cercò di trovare dentro di sé le parole per rivolgersi a Dio, chiedendogli di guidare i suoi passi come aveva fatto fino a quel momento. In tutto ciò che gli stava accadendo vedeva l'aiuto di Dio: il gruppo di archeologi all'aeroporto di Amman, la sua capacità di vincere la timidezza e di parlare al caposquadra, il professor Picot, e il fatto che l'avesse portato fino a Baghdad; la coinci-denza che avesse nominato Ahmed Husseini, che questi fosse a Baghdad e che, pertanto, probabilmente sarebbe riuscito ad arrivare fino a Clara Tan-nenberg.

No, nulla di tutto ciò era casuale. Era stato Dio a guidare i suoi passi proteggendolo e aiutandolo nella sua missione.

Dio era sempre con lui, doveva solo essere disposto ad ascoltarlo, anche in mezzo alla tragedia. Se avesse potuto convincere Faisal... Pregò per il medico, un uomo buono che si era allontanato dal Signore a causa del do-lore altrui.

Erano le sette passate quando uscì dalla chiesa, dunque accelerò il passo. Non voleva arrivare in ritardo e fare una cattiva impressione a Nur e Fai-sal.

Giunto a casa, udì attraverso la porta le risate delle gemelle e il pianto del piccolo Hadi.

«Salve!» disse entrando, rivolto a Faisal, che continuava a lavorare igno-rando il rumore che facevano i suoi figli.

«Ah, è arrivato!» fu la risposta del medico. «Sì, e vi ho portato qualcosa...»

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«Grazie, ma non si doveva disturbare.» «Nessun disturbo. Mi sembrava che le arance avessero un bell'aspetto.» «Nur è in cucina...» «Bene, le porto i sacchetti.» Nur cercava di far mangiare al piccolo Hadi una pappa spessa, ma il

bambino la rifiutava sgambettando e chiudendo la bocca ogni volta che sua madre gli avvicinava il cucchiaio. «Non c'è verso, non vuole mangiare» si lamentò.

«Cosa gli dà?» «Purè di verdure con uova.» «Be', non mi stupisce! Anch'io da piccolo odiavo le verdure.» «Qui non c'è molto da mangiare. Noi siamo ancora fortunati, perché ab-

biamo un po' di denaro per comprare qualcosa. Anche se, a dire la verità, siamo contenti che lei abbia affittato la stanza. Da mesi non ho uno stipen-dio pieno e a Faisal succede lo stesso. Cosa c'è in quei sacchetti?»

«Peperoni, zucchine, pomodori, cipolle, arance. Non c'era molto altro da comprare.»

«Ma non avrebbe dovuto comprare niente!» «Se vivrò qui, voglio contribuire nel limite delle mie possibilità.» «Grazie, il cibo è sempre bene accetto, visto che scarseggia.» «Me ne sono accorto. Sono stato anche in chiesa.» «Lei è credente?» «Sì, e le assicuro che in vita mia non ho mai smesso di vedere l'operato

di Dio.» «Be', lei è fortunato. Noi da tempo ne abbiamo smarrito le tracce.» «Anche lei ha perso la fede?» «Faccio fatica a conservarla. Se devo essere sincera, direi che me ne re-

sta poca. E questo nonostante io non sia costretta a vedere ciò che vede mio marito ogni giorno in ospedale. Ma quando mi racconta che un bam-bino è morto per un'infezione che sarebbe potuta guarire con degli antibio-tici, allora anch'io mi domando dove sia Dio.»

Nur si alzò con un'espressione stanca, dopo avere rinunciato a imboccare Hadi. Con il bambino in braccio si diresse in sala. «Rania, Leila, venite qui e date un'occhiata a vostro fratello mentre io apparecchio per la cena.»

«No» rispose una delle gemelle. «Come no?» disse Nur irritata. «Io sto giocando» insistette la bambina. Nur non replicò, depose il bambino sul tappeto con i suoi giocattoli e

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tornò in cucina. Gian Maria la seguì. Non sapeva bene cosa fare. «Posso dare una ma-

no?» «Sì, certo, apparecchi. In quella credenza troverà una tovaglia e lì ci so-

no i piatti e i bicchieri. Le posate sono in quel cassetto.» Finita la cena, Faisal e Gian Maria aiutarono Nur a sparecchiare mentre

lei infilava i piatti nella lavastoviglie. Poi il medico mise a letto le bambine e la moglie fece addormentare Ha-

di, che protestava nella culla. Gian Maria diede loro la buonanotte, consapevole che dopo una giornata

di lavoro quello doveva essere il momento in cui la coppia avrebbe potuto chiacchierare con una certa tranquillità.

Inoltre, doveva ancora trovare il modo per avvicinarsi ad Ahmed Hus-seini. Yves Picot avrebbe potuto aprirgli quella porta, ma non era sicuro che fosse una buona idea arrivare ad Ahmed attraverso l'archeologo.

Era sfinito. La giornata era stata intensa, non erano passate nemmeno ventiquattr'ore dal suo arrivo a Baghdad e pareva fossero trascorsi mesi. Si addormentò senza avere il tempo di pregare.

20

Nel suo studio, Robert Brown discuteva con Dukais. «Ma come mai hai

solo un uomo?» gridò. «Te l'ho già spiegato. Picot ha rifiutato il bosniaco, ma ha accettato il

croato. Pertanto, adesso almeno c'è un nostro uomo nella spedizione; se la smetti di urlare, capirai quello che sto dicendo.»

«Un unico uomo per affrontare Alfred! Devi essere matto.» «Non ho intenzione di affrontare Alfred con un solo uomo, anche se sa-

rebbe la cosa più intelligente per non richiamare l'attenzione. Tanti uomini equivarrebbero a mettere un annuncio sui giornali.»

«Il croato sa cosa deve fare?» domandò Brown abbassando la voce. «Sì, ha ricevuto istruzioni precise. Per prima cosa deve seguire tutti i

movimenti di Clara, conoscere i ritmi di lavoro della squadra, propormi un piano d'azione. Ma se mi ascolti, ti dirò che credo di poter inviare un altro paio di persone che fingeranno di essere uomini d'affari intenzionati a sfruttare l'embargo. Sono due tipi svegli e in gamba.»

«Ah, sì? E che ci faranno due uomini d'affari in un villaggio sperduto nel

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Sud dell'Iraq?» «Robert, non trattarmi come uno scemo. Da molti anni faccio questo

mestiere e ti assicuro che sono in grado di dare adeguate coperture ai miei uomini. Dunque, ti risparmierò i particolari.»

«No, non me li risparmiare; mi faranno delle domande e devo sapere co-sa rispondere.»

«D'accordo, ma tieni presente che secondo me il croato è più che suffi-ciente e che gli altri dovranno intervenire solo in caso di necessità.»

«Sarà necessario, non temere.» «No, non lo sarà. Il croato è un assassino che sa fare il suo lavoro. Ha

ucciso più gente di quanta ne possa ricordare. Non solo è un tiratore stra-ordinario, ma usa il coltello con una precisione da chirurgo. Questo è tutto ciò di cui avrà bisogno per far sì che Clara consegni le tavolette, sempre che lei le trovi.»

«E come se ne andrà da lì? Fischiettando?» Discussero ancora un po'. Dukais non riuscì a tranquillizzare Brown, ma

in realtà sapeva che non si sarebbe calmato fino al giorno in cui lui fosse entrato nello studio con quelle dannate tavolette.

Quando Robert Brown rimase solo, telefonò al Mentore. Questi lo invitò a cena per quella sera. A casa sua avrebbero parlato tranquillamente e sen-za testimoni.

Enrique Gómez stava aspettando suo figlio José. Qualche minuto prima

gli aveva telefonato George da Washington. L'operazione aveva avuto ini-zio. C'era un uomo alle calcagna di Clara Tannenberg, disposto a tutto.

Aveva insistito ancora con George di non fare del male ad Alfred, anche se sapeva che se avessero anche solo sfiorato sua nipote sarebbe stato mol-to più grave che ammazzare lui. Però, data la situazione, bisognava essere possibilisti e cercare di salvare il salvabile, e lui contava su Alfred. Erano uniti a doppio filo, per quanto George potesse essere arrabbiato. Sapeva anche, però, che l'uomo alle costole di Clara avrebbe dovuto prendere delle decisioni su due piedi e non avrebbe corso rischi solo per evitare un omi-cidio. Le istruzioni erano chiare: procurarsi la Bibbia d'argilla con le buone o con le cattive e lasciare immediatamente l'Iraq tramite i contatti attivati. Il croato avrebbe agito con freddezza: bastava leggere il suo curriculum per sapere che cosa era in grado di fare.

José entrò nello studio di suo padre e si avvicinò per baciarlo. «Come stai?»

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«Bene. E tu?» «Stufo di lavorare! Non mi sono fermato un attimo.» «Però è andato tutto bene, vero?» «Sì, ma non siamo riusciti a concludere la fusione di quelle due società.

Quando sembra che siano sul punto di arrivare a un accordo, qualche av-vocato di una delle parti in causa si mette a creare qualche problema.»

«Va be', ormai ci sei abituato, alla fine firmeranno.» «Suppongo di sì. Ci hanno chiamato a giugno per arbitrare le operazioni

e non c'è modo di metterli d'accordo.» «Non te la prendere.» La conversazione fu interrotta dal suono del telefono. Enrique rispose

rapidamente. «Pronto?» «Enrique? Sono Frankie...» «Come stai? Ho parlato adesso con George.» «Ti ha detto che abbiamo un uomo nella spedizione? È un croato...» «Sì, lo so.» «Mi ha appena chiamato Alfred. È nervoso, ci ha minacciati.» «Come?» «È stato vago. Ha semplicemente detto che se dovrà morire combattendo

non si tirerà indietro. Ci conosce e sa che cercheremo di portargli via la Bibbia d'argilla.»

«Sempre che la trovi...» «Ci conosce come se stesso, dunque non deve sforzarsi troppo per im-

maginare le nostre mosse. Mi ha detto di essere sicuro che abbiamo degli uomini infiltrati, che li scoprirà e li ucciderà, e vuole anche farci sapere che se non permetteremo a Clara di tenersi le tavolette, renderà pubblici tutti i sotterfugi di quest'affare. Dice che ha dato disposizioni a persone di fiducia che, se dovesse morire nei prossimi mesi, gli venga fatta l'autopsia per accertare se la causa sia stata naturale o indotta. Se risultasse che si è trattato di omicidio, verrà reso pubblico un memoriale che è nelle mani di qualcuno che nemmeno immaginiamo. Sembra che in quel memoriale rac-conti tutto.»

«È matto!» «No, ha semplicemente preso delle precauzioni.» «Che cosa propone?» «La sua offerta è sempre la stessa: se lasceremo a Clara la Bibbia d'argil-

la, lui porterà a termine positivamente l'operazione che abbiamo per le ma-

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ni.» «Non si fida di noi...» «No, non si fida. E vuole tenersi ciò che non è suo. George ha ragio-

ne...» «Credo che stiamo per suicidarci.» «Ma cosa dici?» «Ho un nodo allo stomaco e la sensazione che stiamo per finire male.» «Non essere irrazionale.» «Non lo sono, stai sicuro. Parlerò con lui.» «Non è un po' rischioso chiamarlo dalla Spagna?» «Credo di sì, ma se non c'è alternativa lo farò. Devo partire per un viag-

gio d'affari, valuterò il da farsi mentre sarò via.» «Telefonami.» Enrique riagganciò e strinse i pugni. Suo figlio lo guardava in silenzio.

Era preoccupato dall'espressione di angoscia e al tempo stesso di rabbia dipinta sul volto del padre.

«Che c'è, papà?» «Niente che ti riguardi.» «Bella risposta!» «Mi spiace essere maleducato, ma non voglio che tu faccia domande sui

miei affari, non è una novità per te.» «No, non lo è. Da quando ho l'uso della ragione so che devo evitare di

farti domande e di intromettermi nei tuoi affari. Non so di quale genere di affari si tratti, ma sono perfettamente a conoscenza che sono un terreno minato a cui nessuno si può avvicinare.»

«Esattamente; è sempre stato così e sarà così per sempre. E adesso vorrei restare solo, devo fare qualche telefonata.»

«Hai detto che partirai; dove sei diretto?» «Me ne vado per un paio di giorni.» «Sì, ma dove? E a fare cosa?» Enrique si alzò e diede una manata sul tavolo. Era un uomo di ottant'an-

ni, ma l'ira riflessa sul suo volto era tale da fare indietreggiare José. «Non ti impicciare dei miei affari e non trattarmi come un vecchio! Non sono ancora decrepito! Vattene! Lasciami in pace!»

José si voltò e uscì sconvolto dallo studio del padre. Faceva fatica a ri-conoscerlo in quell'uomo collerico disposto anche a picchiarlo se si fosse avvicinato a lui.

Enrique tornò a sedersi. Aprì un cassetto e cercò un tubetto da cui prese

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due pillole. Gli sembrava che la testa gli scoppiasse. Il medico l'aveva avvertito in più di un'occasione che doveva evitare le

emozioni forti. Anni prima aveva avuto un infarto senza gravi conseguen-ze, ma l'età non facilitava le cose.

Maledisse Alfred e maledisse se stesso per avere preso le sue difese con George. Perché Alfred non poteva fare la sua parte, come tutti? Perché do-veva sempre agire di testa sua?

Schiacciò un pulsante situato sotto il piano della scrivania e subito dopo sentì bussare discretamente alla porta.

«Avanti!» Una cameriera vestita di nero con un grembiule bianchissimo e la cresti-

na attendeva sulla porta gli ordini di Enrique. «Mi porti un bicchiere di acqua fresca e dica a doña Rocío che devo par-

larle.» «Sì, signore.» Rocío entrò nello studio del marito con il bicchiere d'acqua in mano e

quando lo vide si spaventò. Notò in lui ciò che aveva notato in altre occa-sioni: un estraneo con lo sguardo di ghiaccio che rifletteva un carattere ca-pace di tutto. «Enrique, cosa succede? Ti senti male?»

«Entra, ho qualcosa da dirti.» La donna annuì, posò il bicchiere sulla scrivania e si sedette su una pol-

trona lì accanto. Si lisciò la gonna coprendosi ancora di più le ginocchia, come se con quel gesto potesse proteggersi dalla bufera che sapeva sarebbe presto scoppiata nella penombra dello studio.

«In questo cassetto» e indicò il primo della scrivania «c'è la chiave di una cassetta di sicurezza della banca. Non contiene carte compromettenti, ma alcuni documenti relativi ai miei affari. Il giorno in cui morirò voglio che tu vada in banca e li distrugga. José non li dovrà assolutamente vedere. E non voglio nemmeno che tu gli parli del passato.»

«Non lo farei mai!» Enrique fissò sua moglie cercando di frugare con lo sguardo nei luoghi

più reconditi della sua anima. «Non so, Rocío... Finora non l'hai fatto, ma c'ero io qui per impedirlo. Il giorno in cui non ci fossi più...»

«Non ti ho mai dato motivo di lamentarti o di non avere fiducia in me...» «Hai ragione. Ma adesso giurami che farai quello che ti dico. Non te lo

chiedo per me, te lo chiedo per José. Lascia che le cose rimangano così. Ricorda che se quei documenti dovessero venire scoperti... i miei amici verrebbero a saperlo e prima o poi accadrebbe qualcosa.»

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«Che cosa potrebbero farci?» domandò la moglie spaventata. «Non puoi nemmeno immaginarlo. Abbiamo delle regole, dei codici e

siamo obbligati a rispettarli.» «Perché non li distruggi tu stesso quei documenti? Perché non fai sparire

quello che non dobbiamo trovare?» «Farai come ti ho detto. Ci sono cose di cui non mi posso disfare finché

sono vivo, ma che nessuno dovrà vedere quando sarò morto.» «Ah, vorrei morire io prima di te!» «Non ho nulla in contrario, ma se così non fosse vorrei che tu mi giuras-

si sulla Bibbia che farai ciò che ti chiedo.» Enrique appoggiò una Bibbia sulla scrivania e ordinò a sua moglie di posare una mano sul libro.

Rocío era terrorizzata. Sentiva che la richiesta del marito nascondeva una minaccia.

Giurò con la mano sulla Bibbia che avrebbe fatto quanto Enrique le or-dinava; poi ascoltò le istruzioni del marito e scoprì che, oltre ai documenti gelosamente custoditi in banca, avrebbe dovuto distruggere quelli che si trovavano nella cassaforte nascosta dietro un quadro dello studio.

Di nuovo solo, Enrique chiamò George. «Sì.» «Sono io.» «Ci sono novità?» «La novità è che hai ragione. Non possiamo essere deboli con Alfred.

Lui è capace di rovinare tutto.» «E di distruggerci. È stato lui a violare le regole. Anch'io gli voglio be-

ne, ma o lui o noi.» «Noi.» «Mi fa piacere sentirlo.» Gli elicotteri attendevano allineati nella base militare supercontrollata

dalla Guardia repubblicana. Ahmed Husseini stava spiegando al coman-dante della base l'importanza che aveva per l'Iraq il fatto che la spedizione archeologica di Safran giungesse a buon fine. Il comandante lo ascoltava annoiato. Aveva ricevuto istruzioni precise dal Colonnello per il trasporto degli stranieri e dell'attrezzatura a Safran e avrebbe obbedito senza bisogno di ascoltare una lezione sull'antica Mesopotamia.

Yves Picot e il suo assistente Albert Anglade aiutavano i soldati a siste-mare le casse con il materiale sull'elicottero, e lo stesso faceva il resto dei membri della spedizione, incluse le donne, che venivano osservate, tra ri-

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satine e bisbigli, dai soldati. Picot era stato categorico nel raccomandare loro d'indossare pantaloni,

stivali e camicie ampie; niente shorts né magliette attillate. Ma anche così, i soldati si lustravano gli occhi con quel gruppo di occidentali che pareva-no non avere altri problemi che arrivare sane e salve a Safran.

Quando ebbero caricato tutto e i membri della squadra furono sistemati negli elicotteri, Picot cercò Ahmed con lo sguardo.

«Mi dispiace che lei non venga con noi» disse accomiatandosi. «Come le ho spiegato ieri, verrò a Safran. Non potrò rimanere a lungo,

ma vedrò di venire a dare un'occhiata ogni due settimane. A ogni modo, sarò a Baghdad e se dovessero esserci problemi potrò risolverli molto più efficacemente dal mio ufficio.»

«Be', spero di non doverla disturbare.» «Vi auguro di avere successo. Ah, e fidatevi di Clara! È un'archeologa

molto in gamba e possiede un sesto senso per trovare le cose importanti.» «Ne terrò conto.» «Buona fortuna.» Si strinsero la mano e Yves salì sull'elicottero. Qualche minuto dopo il

velivolo scomparve all'orizzonte. Ahmed sospirò. Aveva di nuovo perso le redini della propria vita, era un'altra volta nelle mani di Alfred Tannen-berg. Il vecchio non aveva lasciato spazio a dubbi: o partecipava all'opera-zione, o l'avrebbe ucciso. Peggio ancora, l'aveva minacciato che sarebbe stata la polizia segreta di Saddam a incaricarsi di punirlo come traditore.

Ahmed sapeva che Alfred non avrebbe avuto alcun problema a farlo spa-rire in qualche cella segreta di Saddam, dove non sarebbe sopravvissuto.

Alfred gli aveva detto con disprezzo che se l'operazione fosse riuscita e se Clara avesse trovato le tavolette, lui se ne sarebbe potuto andare dove gli pareva; non l'avrebbe aiutato a scappare, ma non gliel'avrebbe nemme-no impedito.

Ahmed era però sicuro di questo: Tannenberg aveva dato disposizioni per farlo pedinare giorno e notte. Lui non vedeva gli uomini di Alfred, o forse erano quelli del Colonnello, ma loro di certo lo tenevano d'occhio.

Tornò al ministero. Aveva molto lavoro da sbrigare. Ciò che Alfred gli aveva chiesto non sarebbe stato facile da portare a termine, ma l'unico in grado di provarci era lui.

Clara sentì un brivido di emozione udendo il rumore degli elicotteri. Pi-

cot si sarebbe sorpreso quando, una volta lì, avesse constatato che gli scavi

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erano già iniziati. Fabián e Marta si avvicinarono a lei. Anche loro si sentivano orgogliosi

del lavoro svolto. Quando Picot posò piede a terra, Fabián gli si avvicinò e i due si abbrac-

ciarono. «Mi sei mancato» disse il professore. «Anche tu» rispose l'amico ridendo. Marta e Clara si occuparono di Albert Anglade, che era sceso dall'elicot-

tero bianco come la neve. A un cenno di Clara, comparve un abitante del villaggio con una bottiglia d'acqua e un bicchiere di plastica.

«Beva, si sentirà meglio.» «Non credo di farcela» si lamentò Albert, rifiutando di mandare giù l'ac-

qua. «Andiamo, ti passerà; anch'io sono stata male» cercò di consolarlo Mar-

ta. «Ti giuro che non salirò mai più su un elicottero per tutta la vita» affer-

mò Albert. «Tornerò a Baghdad in auto.» «Anch'io» replicò Marta ridendo «ma adesso bevi un po' d'acqua. Clara

ha ragione, ti sentirai meglio.» Fabián mostrò orgoglioso l'accampamento a Yves: le case di argilla dove

avrebbero installato i laboratori e classificato le tavolette e gli oggetti che avessero trovato, la sala dei computer, l'ampia stanza in cui si sarebbero riuniti per discutere del lavoro realizzato, le docce, le latrine, le tende im-permeabilizzate dove sarebbero vissuti alcuni membri del gruppo nei mesi successivi, ammesso che non volessero sistemarsi nelle stanze che alcuni contadini erano disposti ad affittare.

Entrarono nella casa dove Fabián aveva organizzato l'ufficio che avreb-be rappresentato il quartier generale. Albert, che li seguiva a fatica, si la-sciò cadere su una sedia mentre Marta e Clara insistevano affinché bevesse un sorso d'acqua. Ne offrirono un bicchiere anche a Picot.

«Bel lavoro» affermò questi. «Lo sapevo che era meglio se voi ci prece-devate.»

«In realtà, abbiamo già iniziato gli scavi» affermò Marta. «Da un paio di giorni stiamo ripulendo la zona e mettendo alla prova l'abilità degli operai. C'è un po' di tutto, ma è gente volenterosa, sono sicura che si daranno da fare.»

«E poi, anche se non ti ho consultato, avrei pensato a Marta come diret-trice degli scavi, e le ho pure regalato una frusta» disse ridendo Fabián. «Ha organizzato il lavoro di ognuno di noi, in effetti ci ha schiavizzati. Ma

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gli operai sono contenti e non fanno un passo senza chiedere prima il suo permesso.»

«Un buon direttore è sempre necessario» affermò Picot stando allo scherzo. «Peccato che io sia rimasto senza lavoro.»

Clara li osservava divertita ma senza osare prendere parte al gioco. Nei giorni precedenti si era accorta che tra Fabián e Marta esisteva una solida amicizia, ma nulla di più. C'era una grande complicità tra loro, che si capi-vano con uno sguardo, e intuì che anche fra Fabián e Picot c'era un'intesa simile.

«Noi dove dormiremo?» domandò Albert, che non si era ancora ripreso dal mal d'aria.

«Nella casa qui accanto ho preparato una stanza per te, una per Yves e una per me. Se preferisci, posso dare un'occhiata alla lista dei residenti che mettono a disposizione delle stanze» gli spiegò Fabián.

«No, andrà benissimo, e se non vi spiace mi coricherei un momento» re-plicò Albert in tono di supplica.

«L'accompagno, così le faccio vedere l'alloggio» si offrì Clara. Quando Clara e Albert furono usciti, Yves si rivolse a Fabián. «Qualche

problema?» «Nessuno. Qui per Clara provano tutti un rispetto reverenziale. Lei non

fa obiezioni e ha accettato tutti i nostri suggerimenti; o, meglio, gli ordini di Marta. Dà la sua opinione, ma se non ci convince non perde tempo in discussioni. È vero che qui tutti dipendono da lei, voglio dire che in caso di conflitto sarà a lei che chiederanno consiglio e obbediranno. Ma è molto intelligente e non fa pesare il fatto di avere il coltello dalla parte del mani-co.»

«C'è una donna, Fatima, che si occupa di lei come fosse sua madre. A volte l'accompagna addirittura agli scavi. E ci sono anche quattro uomini che non si staccano da Clara notte e giorno» aggiunse Marta.

«Sì, me ne sono accorto a Baghdad; ha la scorta, ma non c'è da stupirse-ne, vista la situazione in Iraq. E poi, suo marito è un uomo importante del regime» affermò Yves.

«Non è solo per la situazione del paese» lo interruppe Marta. «L'altro giorno due guardie del corpo l'hanno persa di vista. Era con me, non riu-scivamo a dormire e ci eravamo alzate prima dell'alba per uscire a cammi-nare. Quando ci hanno trovate, parevano impazziti e uno di loro le ha ri-cordato che suo nonno li avrebbe ammazzati se le fosse accaduto qualcosa e ha fatto allusione a degli italiani. Clara mi ha guardato e li ha fatti tace-

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re.» «Questo significa che la donna ha dei nemici...» disse Picot ad alta voce. «Non fate voli di fantasia» intervenne Fabián. «Non possiamo sapere a

cosa si riferissero i suoi guardaspalle.» «Però erano spaventati, te l'assicuro» insistette Marta. «Avevano paura

delle conseguenze, parevano terrorizzati da ciò che avrebbe fatto loro il nonno di Clara.»

«Che non c'è modo di conoscere» si lamentò Yves. «E di cui Clara non vuole parlare» soggiunse Marta. «Abbiamo cercato di farci raccontare quando e come lui andò a Carran,

ma non c'è stato verso, lei non spiccica parola ed evita le risposte dirette. Dai, adesso ti facciamo vedere il resto dell'accampamento» propose Fa-bián.

Yves si felicitò con loro per il lavoro svolto e con se stesso per essere riuscito a convincere Fabián ad accompagnarlo in quest'avventura. Ap-prezzò molto anche il contributo di Marta. Era una donna con un'innata capacità organizzativa.

«Ho dato un nome alle case in cui lavoreremo e dove collocheremo le at-trezzature» spiegò la donna. «Il posto dov'eravamo prima è il "quartier ge-nerale", il deposito delle tavolette è logicamente "la casa delle tavolette", mentre i computer li metteremo lì» disse indicando un'altra costruzione di argilla «e chiameremo il posto semplicemente "comunicazioni". I ma-gazzini saranno identificati da numeri.»

Il capo del villaggio aveva organizzato una piccola festa di benvenuto;

gli archeologi avevano pranzato con lui e con gli abitanti più autorevoli del posto. A Yves non piacque l'uomo che avevano scelto come caposquadra; non sapeva perché, dato che pareva discreto e gentile, ma c'era qualcosa in lui che gli faceva pensare che non fosse un contadino come gli altri.

Ayed Sahadi era alto e muscoloso, con la pelle più chiara del resto dei residenti. Aveva un aspetto marziale e si notava che era abituato a coman-dare.

Parlava inglese, cosa che impressionò Yves. «Ho lavorato a Baghdad, l'ho imparato lì» fu la sua spiegazione. Clara pareva conoscerlo e lo trattava con una certa familiarità, però lui

manteneva una rispettosa distanza. Gli uomini gli obbedivano senza prote-stare, e il capo del villaggio pareva addirittura a disagio al suo cospetto.

«Da dov'è uscito Ayed?» volle sapere Yves Picot.

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«È arrivato un paio di giorni dopo di noi. Clara assicura che lo stava a-spettando perché ha lavorato con suo marito e con lei in altre occasioni. Non so cosa dirti, sembra un militare» rispose Fabián.

«Sì, anche a me è parso così; magari è un infiltrato di Saddam» affermò Yves.

«Bene, dobbiamo mettere in conto che ci terranno sotto controllo e che ci saranno spìe dappertutto. Questa è una dittatura e siamo alla vigilia di una guerra, dunque non c'è da stupirsi che Ayed sia un infiltrato» commen-tò Marta con naturalezza.

Quella sera, dopo che tutta la squadra si fu sistemata, Yves la convocò per spiegare il piano di lavoro. Erano tutti professionisti, gli studenti che li accompagnavano erano all'ultimo anno di università e alcuni avevano già preso parte ad altri scavi, dunque Yves non dovette perdere tempo a dire più del dovuto.

Alle quattro del mattino ci sarebbe stata la sveglia. Per le cinque meno un quarto tutti dovevano avere fatto la doccia e la colazione e, subito dopo, prima delle cinque, si sarebbero dovuti presentare al sito degli scavi. Alle dieci ci sarebbe stata una piccola pausa di un quarto d'ora e poi avrebbero continuato a lavorare fino alle due. Dalle due alle quattro avrebbero man-giato e avrebbero avuto il tempo per riposare; alle quattro avrebbero ripre-so i lavori fino al calar del sole.

Nessuno si lamentò, né la squadra di Yves né gli uomini del villaggio. Avrebbero ricevuto la paga in dollari, e il salario giornaliero era dieci volte superiore a quanto avrebbero guadagnato in un mese, per cui erano dispo-sti a lavorare tutto il tempo necessario.

Quando la riunione fu terminata, un giovane di media statura, con gli occhiali e l'aspetto innocuo, si avvicinò a Yves Picot. «Ho qualche pro-blema a installare i computer. La corrente elettrica è molto debole e gli ap-parecchi sono potenti.»

«Ne parli con Ayed Sahadi; lui le dirà come risolvere la situazione» ri-spose Picot.

«Non ti piace.» Il commento di Marta sorprese Yves Picot. «Perché dici così?» «Perché si vede. In realtà, Ante Plaskic non piace a nessuno. Non so

perché l'hai voluto inserire nella spedizione.» «Mi è stato raccomandato da un amico dell'università di Berlino.» «Suppongo che tutti abbiamo dei pregiudizi ed è inevitabile pensare alla

strage di bosniaci da parte dei serbi e dei croati, e Ante è croato.»

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«Il mio amico mi ha spiegato che Ante è un sopravvissuto, che il suo vil-laggio è stato raso al suolo dai bosniaci, i quali volevano vendicarsi di una strage che altri avevano perpetrato in precedenza. Non so. In quella male-detta guerra a soffrire di più e ad avere la sorte peggiore furono i bosniaci, dunque magari hai ragione e io probabilmente ho dei pregiudizi senza vo-lerlo.»

«A volte seguiamo schemi molto semplici: questo è bene e questo è ma-le, questi sono tutti buoni e quelli tutti cattivi, e non perdiamo tempo con le sfumature. Magari Ante è davvero una vittima di quella guerra.»

«O magari un carnefice.» «Era molto giovane all'epoca dei fatti» insistette Marta, perché le piace-

va fare l'avvocato del diavolo. «Non tanto. Adesso avrà una trentina d'anni, no?» «Credo ne abbia ventisette.» «Durante la guerra civile iugoslava hanno ammazzato ragazzini di quat-

tordici e quindici anni.» «E allora rispediscilo a casa.» «No, come dici tu, non sarebbe giusto.» «Io non ho detto questo» protestò Marta. «Lo metteremo alla prova e, se continuerò a sentire questo disagio ogni

volta che lo vedo, ti darò retta e lo manderò via.» Fabián si avvicinò insieme ad Albert Anglade, l'aiutante di Picot. «Vi

vedo pensierosi, che c'è?» «Stavamo parlando di Ante» rispose Marta. «Che a Yves non piace per niente, tanto che si è già pentito di averlo fat-

to venire, o mi sbaglio?» Yves Picot scoppiò a ridere al commento di Albert. Questi lo conosceva

bene, lavoravano insieme da tanti anni e poteva intuire in anticipo chi il suo capo avrebbe apprezzato, chi avrebbe considerato sgradito e chi gli sa-rebbe stato indifferente.

«C'è qualcosa di inquietante in lui» continuò Albert. «Nemmeno a me piace.»

«Solo perché è croato» affermò Marta. «Ragazzi, questi sono pregiudizi razzisti.» Il commento di Fabián fu come un pugno nello stomaco. Tutti loro dete-

stavano i pregiudizi, e il pensiero che qualcuno venisse discriminato a cau-sa delle proprie origini lì faceva rabbrividire.

«Bel colpo basso» si lamentò Yves.

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«Questa conversazione non porterà a nulla» commentò Fabián molto se-rio. «Non possiamo giudicare una persona per per le azioni di altri del suo paese o della sua comunità.»

«Hai ragione, ma in realtà non sappiamo molto di lui» intervenne Albert interrompendo il discorso.

«Bene, allora cambiamo argomento. Dov'è Clara?» domandò Marta. «Con Ayed Sahadi. Sono rimasti a parlare con gli operai. Credo che lui

abbia detto che dopo sarebbe andato agli scavi con alcuni dei nostri a dare un'occhiata» rispose Fabián.

Ayed Sahadi era ciò che pareva, ossia un militare, membro del servizio

di controspionaggio iracheno e un protetto del Colonnello. Alfred Tannenberg aveva chiesto al suo amico di mandare a Safran A-

yed, che conosceva per aver collaborato in alcuni degli affari in cui era coinvolto il Colonnello.

Il comandante Sahadi aveva fama di sadico. Se qualche nemico di Sad-dam cadeva nelle sue mani, implorava di morire, perché circolavano storie terribili riguardo alle lunghe agonie cui sottoponeva le vittime.

La sua missione a Safran era, oltre che proteggere la vita di Clara Tan-nenberg, cercare di scoprire gli uomini che secondo Alfred Tannenberg i suoi amici avrebbero infiltrato per impadronirsi della Bibbia d'argilla.

Sahadi aveva mescolato alcuni dei suoi tra gli operai assunti per gli sca-vi. Soldati come lui, esperti in controspionaggio, che avrebbero guadagna-to fior di quattrini se avessero portato a buon fine quel particolare incarico.

Clara conosceva Ayed per averlo visto in alcune occasioni nella Casa Gialla insieme al Colonnello. Suo nonno aveva detto chiaro e tondo che Ayed sarebbe diventato la sua ombra e che lei avrebbe dovuto nominarlo caposquadra, proprio come aveva insistito che Haydar Annasir formasse parte della squadra per coordinarsi con Ahmed a Baghdad e con lui.

Ben sapendo che sarebbe stato inutile opporsi agli ordini di suo nonno, Clara aveva accettato, seppure a denti stretti.

Una campanella svegliò i membri della squadra archeologica, immersi

nel sonno. In una delle case di mattoni, dov'era stata improvvisata una cucina, alcu-

ne donne del villaggio distribuivano caffè, pane appena sfornato con burro e marmellata e frutta fresca.

Yves Picot odiava alzarsi presto, ma era in piedi dalle tre del mattino

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perché non aveva potuto chiudere occhio, al contrario di Fabián e Albert, che avevano russato per tutta la notte. Anche Marta non pareva di buonu-more e faceva colazione in silenzio, rispondendo a monosillabi quando si rivolgevano a lei.

L'unica che pareva felice era Clara. Picot la osservò di sottecchi, sorpre-so dalla loquacità della donna a quell'ora del mattino.

Non erano ancora le cinque quando iniziarono a lavorare. Tutti sapevano che cosa fare, e ogni archeologo dirigeva un gruppo di operai ai quali dava precise istruzioni.

Ante Plaskic era rimasto nell'accampamento, nella casa di argilla dove

erano stati installati i computer e in cui lui aveva una stanza con una bran-da per dormire.

Aveva avuto la fortuna di poter disporre di uno spazio solo per lui. No-tava la diffidenza latente della squadra nei suoi confronti, ma aveva deciso di non far caso a quei segnali di antipatia. Era lì per impadronirsi di alcune tavolette e ammazzare chiunque gliel'avesse impedito; inoltre, da molto tempo aveva smesso di sentire il bisogno di essere accettato. Poteva vivere senza fraternizzare con il resto dell'umanità. Fosse stato per lui, avrebbe ucciso, a uno a uno, tutti i componenti della spedizione.

Lo sorprese vedere entrare nella stanza Ayed Sahadi, dato che pensava che si trovasse agli scavi con il resto degli operai.

«Buongiorno.» «Buongiorno.» «Ha bisogno di qualcosa?» gli domandò Ayed. «Per adesso va tutto bene, spero che questi aggeggi funzionino. Dovreb-

be essere così, dal momento che sono i migliori sulla piazza.» «Bene, se dovesse avere qualche problema come ieri, mi cerchi, altri-

menti chieda a Haydar Annasir; lui può telefonare a Baghdad per farci mandare quello di cui avrà bisogno.»

«Lo farò. Comunque, tra poco andrò a dare un'occhiata agli scavi; qui non c'è ancora molto da fare.»

«Vada quando vuole.» Ayed Sahadi uscì dalla casa pensando all'informatico. C'era qualcosa in

lui, nel suo volto da bambino, negli occhiali da intellettuale, che gli faceva venire in mente l'immagine di un impostore. Disse a se stesso che non po-teva iniziare a vedere fantasmi solo perché aveva intuito il vuoto che, in modo più o meno consapevole, gli altri avevano creato intorno a lui.

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Nemmeno ad Ayed piaceva quel croato, che sicuramente aveva assassinato dei fratelli musulmani, e dire che lui non era un uomo legato alla religione di Maometto, anzi, il contrario. Comunque, considerava i bosniaci come parte della sua gente.

L'attività si svolgeva frenetica intorno al cratere e all'edificio che lascia-va appena intravedere una stanza dove nel passato qualcuno aveva allinea-to centinaia di tavolette in scaffali di mattoni. Decise di non restare a guar-dare, ma di prendere parte al lavoro, e si mise al fianco di Clara.

«Mi dica come posso aiutarla.» Clara non ci pensò due volte e gli chiese di darle una mano a togliere la

sabbia dal perimetro che avevano segnato.

21 Tom Martin aveva fatto fatica a decidersi. Normalmente visualizzava al-

l'istante gli uomini adatti a ogni missione, ma in questa circostanza il suo istinto gli diceva che ciò che gli aveva chiesto il falso signor Burton a-vrebbe comportato più pericoli del solito.

Per questo impiegò una settimana per trovare l'uomo che avrebbe man-dato in Iraq a uccidere tutti i Tannenberg che avesse incontrato sulla sua strada. Perché di questo si trattava: per prima cosa, sapere se esisteva un vecchio di nome Tannenberg in qualche angolo del paese di Saddam, e poi liquidare lui e i suoi discendenti. Chi gli aveva commissionato l'incarico era stato assolutamente chiaro: non doveva sopravvivere nessun Tannen-berg, qualunque età avesse.

Si era chiesto se mandare più uomini, ma poi aveva optato per uno solo; se avesse avuto bisogno di rinforzi, li avrebbe inviati. Sapeva che i merce-nari che uccidevano per mestiere non lavoravano volentieri in compagnia. Ciascuno aveva i propri metodi e le proprie manie, erano persone partico-lari.

Aveva anche esitato a parlare dell'incarico con il suo amico Paul Dukais, il presidente della Planet Security. In fondo, questi gli aveva chiesto aiuto per infiltrare un uomo in una spedizione archeologica a cui partecipava una certa Clara Tannenberg, alla quale avrebbe dovuto sottrarre delle tavolette, sempre che fossero state ritrovate, e, se necessario, non si sarebbe dovuto fare scrupoli a ucciderla. Alla fine aveva deciso di non dire nulla a Paul.

Era sicuro che il croato che aveva raccomandato a Dukais avrebbe fatto il proprio lavoro, e il suo uomo pure. Lui partiva avvantaggiato: sapeva

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che i Tannenberg avevano parecchi nemici con denaro a sufficienza per pagare un sicario disposto a ucciderli.

Lion Doyle entrò nell'ufficio di Tom Martin e attese in piedi che lui lo invitasse a sedersi.

«Siediti, Lion. Come stai?» «Bene, sono appena tornato dalle vacanze.» «Meglio, così sei riposato per la missione che ho intenzione di affidarti.» Per un'ora i due uomini esaminarono tutte le informazioni di cui dispo-

nevano, incluse quelle sul misterioso signor Burton, che Tom Martin aveva fatto fotografare prima che uscisse dal palazzo della Global Group.

«Non ho trovato niente su di lui. Di certo non è inglese, benché parli perfettamente la lingua, ma gli amici di Scotland Yard non hanno nei loro schedari nessun uomo con quella faccia. Non c'è nulla su di lui nemmeno all'Interpol.»

«Dunque, è un onesto cittadino che paga le tasse e non ha motivo di fi-gurare negli archivi della polizia» commentò Doyle.

«Sì, ma gli onesti cittadini non commissionano omicidi; inoltre, a volte parlava in prima persona, altre diceva "noi"; dunque sono in tanti, non agi-sce da solo.»

«A quanto pare, i Tannenberg non sono molto popolari. Hanno dei ne-mici, si dedicano ad affari pericolosi. Chi ha pagato per la loro morte deve essere stato una vittima dei loro inganni, deve avere passato una brutta e-sperienza.»

«Sì, probabilmente è così, ma ho l'impressione che mi sfugga qualcosa.» «Quanto, Martin?» «Quanto cosa?» «Quanto mi offri per quest'incarico? Non mi sai dire se devo ammazzare

un Tannenberg o quattro, se oltre a quella donna e a quel vecchio invisibile ci sono altri membri della famiglia, magari dei bambini. Non mi piace ammazzare i bambini.»

«Un milione di euro. È quello che ti spetta. Un milione di euro puliti.» «Voglio la metà anticipata.» «Non so se sarà possibile, il cliente non ha ancora saldato il conto.» «Allora digli che io voglio mezzo milione. Semplicemente.» «D'accordo.» «Sai come devi pagarmi. Se entro tre giorni arriva il denaro, andrò in I-

raq.» «Hai bisogno di una copertura.»

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«Sì, cosa mi puoi offrire?» «Dimmi cosa preferisci...» «Se non ti dispiace, la copertura me la cerco io; se avrò bisogno di te, te

lo farò sapere. Ho tre giorni per pensare, ti chiamerò.» Quando uscì dalla Global Group, Lion Doyle si diresse al parcheggio

dove aveva lasciato l'auto, una monovolume familiare grigia. Guidò senza meta per le strade di Londra, per verificare se qualcuno lo seguisse; poi imboccò l'autostrada per il Galles, dov'era tornato dopo una vita.

Si era comprato una vecchia fattoria, l'aveva ristrutturata e si era sposato con una professoressa di filologia dell'università di Cardiff. Una donna splendida che era arrivata nubile a quarantacinque anni per essersi dedicata esclusivamente alla carriera universitaria, fino a riuscire ad avere una cat-tedra.

Marian aveva i capelli castani chiari, gli occhi verdi, era alta e formosa. Si era innamorata di lui appena l'aveva conosciuto. Bruno, con gli occhi scuri e la corporatura robusta, Lion Doyle era un uomo che ispirava fiducia e sicurezza.

Le aveva raccontato di essere stato nell'esercito ma, stanco di quella vita nomade, aveva preferito svolgere la professione d'investigatore privato, un mestiere grazie al quale aveva guadagnato abbastanza da comprarsi la fat-toria, ristrutturarla e stabilirvisi.

Ormai era troppo tardi per pensare di avere figli, ma erano entrambi d'accordo sul fatto che sarebbero rimasti insieme, condividendo bei mo-menti e aspettando la vecchiaia.

Se Marian fosse venuta a sapere che suo marito aveva un conto segreto sull'Isola di Man e denaro sufficiente per non lavorare più per il resto della sua vita e per togliersi qualche capriccio, non ci avrebbe creduto. Era con-vinta che tra loro non ci fossero segreti e che, benché godessero di una cer-ta agiatezza economica, non potessero comunque scialare.

Per questo Marian si accontentava che una signora si incaricasse delle pulizie della casa tre volte la settimana e che un giardiniere, ogni tanto, desse una mano in giardino, che Lion era solito curare personalmente quando era a casa.

Spesso suo marito si assentava per intere settimane, ma quello era il suo lavoro, e Marian lo accettava senza protestare. Sapeva che a volte Lion si dimenticava di telefonarle, e che quando lei provava a comporre il numero del suo cellulare rispondeva la segreteria telefonica. Ma ogni volta, quando rientrava, lui era affettuoso e le portava qualche regalo: una borsa, un paio

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di orecchini, un foulard, dettagli che dimostravano che non si era scordato di lei. Marian non aveva il minimo dubbio che Lion sarebbe sempre torna-to a casa.

Alle otto e mezzo del mattino, Hans Hausser era solito trovarsi nel suo

ufficio all'università. Gli piaceva starsene un po' in pace prima dell'arrivo degli studenti e ne approfittava per comunicare con Tom Martin attraverso la posta elettronica. L'indirizzo era a nome di un certo signor Burton, regi-strato a Hong Kong.

Tom Martin era stato esplicito nel suo messaggio: "Si metta in contatto con me".

Hausser chiamò la figlia Berta per dirle di non aspettarlo per pranzo e nemmeno per cena; doveva recarsi fuori Bonn, per cui probabilmente non sarebbe tornato prima del giorno seguente.

Berta si preoccupò. Ultimamente suo padre aveva comportamenti che la lasciavano perplessa.

Il professore lasciò il campus e salì su un autobus che lo portò in centro. Da lì ne prese un altro per la stazione, dove acquistò un biglietto per Berli-no.

Giunse a destinazione nel primo pomeriggio. Quando uscì dalla stazione prese di nuovo un autobus per il centro città.

Berlino era un viavai di gente che si muoveva a ritmo frenetico. Tutti pa-revano avere fretta e ognuno era chiuso in se stesso. Sarebbe stato davvero difficile attirare l'attenzione in quello zoo umano in cui si era trasformata la città.

Il professor Hausser cercò un negozio di telefonia e comprò un cellulare con scheda prepagata. Il negozio era affollato e la commessa molto indaf-farata; serviva i clienti quasi senza guardarli.

Con il telefono in tasca, iniziò a camminare lungo una delle arterie prin-cipali della città. Si fermò a un angolo e compose il numero personale di Tom Martin.

Fu proprio Martin a rispondere. «Ah, è lei! Bene, sono contento di sen-tirla. Volevo solo farle sapere che ho trovato la persona giusta, ma vuole un anticipo.»

«Quanto?» «La metà della metà.» «Capisco... Altrimenti?» «Altrimenti non accetta l'incarico. È un lavoro difficile, delicato, da arti-

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giano. In realtà, lei sa bene quanto sia complicata questa missione...» «Per quando lo vuole?» «Al massimo fra tre giorni.» «Va bene.» Hans Hausser interruppe la comunicazione. Avevano parlato un minuto

e mezzo. Cercò un altro negozio di telefonia e comprò un secondo cellula-re.

La mossa successiva era parlare con i suoi amici. Entrò in un cybercaffè e pagò un'ora di connessione Internet. Non avrebbe avuto bisogno di tutto quel tempo, ma preferì agire con calma. Per prima cosa scrisse un'e-mail a Carlo, poi a Mercedes e infine a Bruno. Inviò a tutti e tre il numero di te-lefono del cellulare appena acquistato, sempre con il codice che avevano inventato; inoltre, li avvisò che sarebbe rimasto seduto davanti al computer per mezz'ora in attesa di un'eventuale risposta all'indirizzo di posta elettro-nica del signor Burton, altrimenti li avrebbe chiamati agli ultimi numeri di cellulare che si erano scambiati.

Era difficile che lo contattassero subito, ma lui aspettò. Ricevette un'e-mail da Bruno, a cui rispose immediatamente.

Poi uscì dal cybercaffè e fermò un taxi per farsi portare all'aeroporto. Da una cabina chiamò il cellulare di Mercedes.

La conversazione durò appena un minuto. Quando riattaccarono, Merce-des disse alla sua segretaria che sarebbe tornata a casa. Uscì dall'ufficio e si diresse verso le Ramblas in cerca di un cybercaffè. Quando lo trovò, scelse un computer in un angolo discreto e aprì la posta elettronica che uti-lizzava per comunicare con i suoi amici. Oltre al messaggio mandato da Hans, Bruno e anche Carlo le comunicavano di essere al corrente che il professore aveva appena chiamato.

Più tardi Mercedes cercò una cabina telefonica e prenotò un biglietto ae-reo per Parigi per il giorno successivo, nelle prime ore del mattino.

In quel momento, a Roma, Carlo Cipriani aveva appena prenotato un vo-lo che partiva quella sera stessa per la capitale francese. Bruno Müller, come Mercedes, sarebbe arrivato il giorno seguente.

Hans Hausser aveva un debole per Parigi. Il tassista lo distraeva con le

sue chiacchiere, a cui lui rispondeva a monosillabi per non apparire male-ducato, mentre lasciava correre lo sguardo lungo la Senna.

All'aeroporto di Berlino aveva avuto il tempo di acquistare una venti-quattrore, oltre a una camicia, della biancheria e alcuni prodotti per l'igiene

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personale. L'impiegato dell'Hotel du Louvre non trovò, dunque, nulla di strano in quel distinto signore dai capelli bianchi che aveva riservato una camera per telefono e in quel momento si presentava alla reception. Non si stupì nemmeno quando quel signore uscì un'ora dopo il suo arrivo.

Hans s'incamminò verso Place de l'Opéra e giunto lì si sedette a un caffè. Aveva fame, non aveva mangiato nulla in tutto il giorno. Mezz'ora più tar-di un altro signore della stessa età gli fece un cenno mentre entrava nel lo-cale. Hans si alzò in piedi e si abbracciarono.

«Sono contento di vederti, Carlo.» «Anch'io. Che avventura! Non ti immagini cos'ho dovuto inventare per-

ché i miei figli mi lasciassero in pace. A casa ho dato istruzioni affinché non venisse loro detto che partivo per un viaggio. Ho la sensazione di esse-re scappato senza permesso, come un adolescente.»

«A me è accaduta la stessa cosa. Ho telefonato a Berta e lei mi ha fatto una scenata; mi sono dovuto arrabbiare e ricordarle che ormai sono grandi-cello per essere tenuto sotto controllo. Ma so di averle dato un dispiacere e dunque non sono tranquillo. Che ne dici di andare a cena? Ho una fame da lupo.»

«D'accordo. Conosco un bistrot qui vicino dove si sta bene.» Hans Hausser spiegò di persona all'amico ciò che gli aveva scritto per

posta elettronica: la sua breve conversazione con Tom Martin e come co-stui gli avesse chiesto mezzo milione di euro entro tre giorni. Gliene aveva già consegnati trecentomila il giorno in cui avevano firmato il contratto e l'ammontare dell'operazione sarebbe stato di due milioni; se adesso gli a-vessero versato un altro mezzo milione, sarebbe stato come pagare quasi la metà in anticipo.

«Glieli daremo, non abbiamo scelta» disse Carlo. «Ci dobbiamo fidare di lui. Luca mi ha detto che è uno dei migliori per questo genere di affari, e date le caratteristiche della missione... Insomma, non credo che ci tradirà. Ho del denaro con me, anche Mercedes e Bruno ne porteranno. Abbiamo fatto tutto come d'accordo, e ritirato a poco a poco dei soldi dalla banca per qualsiasi evenienza, come adesso.»

Dopo cena i due amici si salutarono. Carlo aveva prenotato una stanza in un albergo non lontano da quello di Hans, l'Hotel d'Horse.

Alle undici del mattino il Café de la Paix non era troppo affollato. Parigi

si era svegliata con il cielo grigio e una pioggia fine impregnava tutto e rendeva il traffico difficoltoso.

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Mercedes aveva freddo. A Barcellona c'era bel tempo e lei indossava un tailleur leggero che non la proteggeva dall'umidità e dalla pioggia. Bruno Müller, più previdente, aveva un impermeabile.

I quattro amici stavano bevendo un caffè. «Alle due parte il mio aereo per Londra» disse Hans Hausser. «Appena

arriverò a casa vi chiamerò.» «No, non possiamo aspettare fino a domani» ribatté Mercedes. «Io mori-

rei d'impazienza. Vogliamo sapere se è andato tutto bene; per favore, tele-fonaci prima.»

«Farò il possibile, Mercedes, ma preferirei non dovermi accollare anche l'assillo di chiamarvi. I miei riflessi non sono più quelli di una volta, dun-que faccio già abbastanza fatica a cercare di seminare gli uomini di Tom Martin... Sono sicuro che cercheranno di seguirmi per scoprire chi è il mi-sterioso signor Burton.»

«Hai ragione, Hans» gli disse Bruno. «Dovremo avere pazienza.» «E pregare» concluse Carlo. «Preghi chi sa farlo!» fu la risposta scontrosa di Mercedes. Hans Hausser uscì dalla caffetteria con un sacchetto delle Galeries Lafa-

yette in cui, sotto un maglione, aveva infilato le buste che i suoi amici gli avevano consegnato: un totale di mezzo milione di euro da consegnare a Tom Martin.

La seconda ad andarsene fu Mercedes, che insistette per non essere ac-compagnata. Fermò un taxi e si fece portare direttamente all'aeroporto. Carlo e Bruno decisero di pranzare insieme prima di lasciare a loro volta la città.

A Londra pioveva più che a Parigi. Hans Hausser era contento di avere

comprato un impermeabile all'aeroporto Charles de Gaulle. Pensò che con del denaro in tasca si poteva andare ovunque senza preoccuparsi del baga-glio.

Era stanco e avvertiva lo stress delle ultime ventiquattr'ore ma, con un po' di fortuna, avrebbe potuto essere a casa all'alba.

Aveva telefonato a Berta e la figlia l'aveva supplicato di dirle dove fos-se. Non aveva riconosciuto se stesso quando le aveva risposto che, se si fosse intromessa ancora una volta nella sua vita, non avrebbero più vissuto sotto lo stesso tetto. Berta aveva soffocato un singhiozzo prima di riaggan-ciare.

Un taxi lo lasciò a tre isolati dalla sede della Global Group. Camminò a

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passo leggero, quanto le sue gambe stanche gli permettevano. Tom Martin si stupì quando gli annunciarono dall'ingresso che il signor

Burton era in attesa di essere ricevuto. «Lei mi sorprende» gli disse il presidente della Global Group mentre gli

stringeva la mano. «Perché?» domandò secco il falso signor Burton. «Non immaginavo che si presentasse così, senza avvisare. Avrebbe po-

tuto fare un bonifico bancario...» «Così è meglio per tutti. Mi prepari una ricevuta per il mezzo milione di

euro e non ne parliamo più. Quando partirà per l'Iraq il suo uomo?» «Appena avrà il denaro.» «Le ho già anticipato trecentomila euro...» «Certo, ma il professionista incaricato per questa missione voleva assi-

curarsi una caparra sostanziosa. Si gioca la vita, in fondo.» «Non sarà la prima volta.» «No, non lo è. Ma questa è una missione un po' speciale, poiché non sa

quante persone dovrà eliminare, né di chi si tratti. E poi adesso chiunque entri in Iraq viene schedato, e non solo dalla polizia di Saddam. Gli ameri-cani hanno occhi dappertutto, e anche i miei ex compagni dell'MI5.»

«Così, lei ha lavorato per i servizi segreti britannici...» «Non lo sapeva? Credevo che conoscesse tutto di me.» «Non mi interessa il suo passato, ma il suo presente, i servizi che offre

ora.» «Ebbene sì, ho lavorato per Sua Maestà, però un bel giorno i capi deci-

sero di mandare in pensione chi aveva partecipato al gioco della guerra fredda. Ormai eravamo obsoleti, il nemico era cambiato, ci dissero. Ed ef-fettivamente stavano fabbricando un nuovo nemico: gli arabi. Gli arabi so-no poveri, anche se i loro governanti si sono arricchiti grazie al petrolio; la maggior parte della popolazione vive miseramente, sotto regimi dittatoria-li, ed è facile manipolarli per fare emergere la frustrazione accumulata. L'Occidente aveva bisogno di un nemico, una volta appurato che dietro il Muro c'erano migliaia di aspiranti a convertirsi in perfetti consumatori.»

«Per favore, mi risparmi il sermone.» «Va bene, come preferisce.» Tom Martin scrisse di suo pugno la ricevuta del mezzo milione di euro e

vi appose il timbro della Global Group e la sua firma. Poi la consegnò al signor Burton.

«Quando mi farà avere qualche notizia?» domandò il professor Hausser.

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«Appena ne avrò. Domani il mio uomo riceverà il denaro, dopodomani partirà. Deve trovare una copertura per entrare in Iraq e, una volta lì, cerca-re la famiglia che lei vuole eliminare. Abbia pazienza, certe cose non si fanno dalla sera alla mattina.»

«Bene, annoti questo numero di telefono. È un cellulare. Quando avrà novità, me lo faccia sapere.»

«È più sicuro Internet.» «Non sono d'accordo. Mi chiami.» «Come vuole. Lei è un uomo singolare, signor Burton...» «Suppongo che quasi tutti i suoi clienti lo siano.» «Naturalmente, signor Burton. Questo non è il suo nome, vero?» «Signor Martin, per lei dovrebbe essere sufficiente che io sia il signor

Burton, non crede? Ci sono in ballo due milioni di euro perché sia così. E poi, non sopporto i curiosi.»

«Nella mia agenzia gestisco gli affari a modo mio, signor Burton, e per me è importante conoscere la sua identità. È stato lei a presentarsi qui per affidarci un incarico, diciamo, delicato. È stato lei a bussare alla mia porta, non io alla sua.»

«Nel suo lavoro, signor Martin, la discrezione è vitale. Mi sorprende la sua curiosità, davvero, e mi pare anche poco professionale. Non faccia perdere tempo ai suoi uomini con i pedinamenti. Rispetti l'accordo che ab-biamo stipulato, per questo la pago. E ora, se non le spiace, vorrei andar-mene.»

«È lei che comanda, signor Burton.» Hans Hausser strinse la mano che Tom Martin gli porse e uscì dall'uffi-

cio, convinto che l'investigatore l'avrebbe fatto seguire. Questa volta il trucco dell'hotel non avrebbe funzionato e sapeva che sarebbe stato più dif-ficile evitare gli scagnozzi della Global Group.

In strada iniziò a camminare fino a che vide un taxi, lo fermò e si fece portare all'ospedale centrale. Lui stesso era stupito di ciò che stava facen-do. In realtà, tutte le idee per seminare i suoi inseguitori erano ispirate dal-le assidue letture di romanzi gialli, un genere di cui era appassionato. Chis-sà se questa trovata avrebbe funzionalo. In alcuni momenti si sentiva un po' ridicolo a comportarsi così e temeva di incontrare qualche conoscente che rivelasse la sua identità di rispettato professore di fisica quantistica.

Il taxi lo lasciò all'ingresso principale dell'ospedale. Con passo sicuro entrò nell'immenso atrio e si diresse verso gli ascensori. Non sapeva se qualcuno lo stesse seguendo, dunque salì sul primo che giunse al pianter-

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reno. Non schiacciò nessun pulsante. L'ascensore si fermava per caricare e scaricare gente, mentre lui si guardava intorno per individuare il suo pedi-natore. Scese al penultimo piano insieme a due donne dall'aspetto malatic-cio, un vecchio su una sedia a rotelle spinta da una donna e un giovane dal-l'aspetto trasandato.

"Chiunque di loro potrebbe essere un impiegato della Global Group" si disse. Tutti si diressero da qualche parte tranne lui. Nessuno si voltò a guardarlo e Hausser si infilò in un altro ascensore. Nemmeno questa volta schiacciò alcun pulsante e ripeté l'operazione scendendo al terzo piano e aspettando un altro ascensore. Così trascorse un'ora. Infine decise di uscire dall'ospedale senza che lo vedessero; attese che l'ascensore si svuotasse e schiacciò il pulsante dei sotterranei. Una volta lì cercò il cartello che indi-cava PRONTO SOCCORSO e con passo deciso si infilò in un corridoio in cui un altro cartello vietava l'accesso ai non autorizzati. Nessuno lo seguì, così procedette fino a una sala dove c'erano vari lettini sui quali giacevano i malati che venivano trasportati lì con le ambulanze. Vide una porta in fondo in cui entravano le barelle e vi si diresse senza esitare.

«Lei cosa fa qui?» Il medico che gli parlava aveva un'espressione poco amichevole e Hans

Hausser si spaventò. Si sentiva un bambino colto in fallo. «In questa zona non sono ammessi i familiari dei pazienti; esca e aspetti

fuori come tutti gli altri, finché le verranno date informazioni sul suo pa-rente.»

Hans Hausser era diventato pallido e gli era venuto un attacco di tachi-cardia.

«Ma che le succede?» gli domandò il medico, vedendo che l'uomo si sentiva male.

«Un amico mi ha portato qui; non mi sento bene, faccio fatica a respira-re, mi fa male il braccio sinistro, ho la tachicardia, e sono a Londra di pas-saggio...» riuscì a dire Hans Hausser raccomandandosi a Dio affinché lo perdonasse per le menzogne sulla sua salute.

«Venga di qua» gli ordinò il medico. Tre minuti dopo lo sottoposero a un elettrocardiogramma; gli fecero an-

che un prelievo di sangue e una radiografia del torace. Poi lo lasciarono su una barella nel pronto soccorso per tenerlo sotto osservazione.

Erano le sette del mattino quando i medici decisero che quell'uomo non aveva avuto una crisi cardiaca e che la tachicardia doveva essere stata cau-sata da un'indisposizione temporanea.

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Lui si lamentò di non sentirsi bene, per cui il personale dell'ospedale de-cise di portarlo all'aeroporto con un'ambulanza, che naturalmente avrebbe pagato di tasca sua. Se nel tragitto gli fosse successo qualcosa, l'ospedale poteva essere denunciato per negligenza.

Hans Hausser pagò la parcella in contanti e su una sedia a rotelle fu fatto salire a bordo dell'ambulanza. Durante il tragitto prenotò un biglietto per Berlino sul volo delle nove. L'infermiera gli disse di avvisare che sarebbe arrivato con l'ambulanza e la sedia a rotelle.

Quando giunsero all'aeroporto, l'infermiera lo accompagnò fino al can-cello d'imbarco, dove spiegò che il signor Hausser poteva viaggiare ma che l'equipaggio doveva essere avvertito nell'evenienza di una crisi. Una ho-stess spinse la sedia a rotelle fino a una sala dove lui dovette attendere solo qualche minuto prima di essere accompagnato sull'aereo senza passare al-cun controllo.

A Berlino pioveva a dirotto. Hausser fece fatica a convincere una gentile hostess che non aveva più bisogno della sedia a rotelle e che avrebbe preso un taxi per tornare a casa. Finalmente riuscì a lasciare l'aeroporto e a salire su un taxi per raggiungere la stazione. Ebbe fortuna, perché quando arrivò mancavano appena cinque minuti alla partenza del treno per Bonn.

Durante il viaggio chiamò Berta per avvertirla che sarebbe rientrato a casa a metà pomeriggio. Chiamò anche Bruno per rassicurarlo che stava bene. Lui l'avrebbe fatto sapere a Carlo e a Mercedes. Si sentiva sfinito e ridicolo.

Berta non riuscì a nascondere l'ansia che provava quando, qualche ora più tardi, vide suo padre entrare in casa. Hans Hausser aveva un pessimo aspetto, di un anziano malato, cosicché malgrado le sue proteste la figlia chiamò un medico, un vecchio amico, che accorse subito e che non rilevò nulla di preoccupante, nonostante le apprensioni di Berta.

Finalmente lo lasciarono solo e Hausser poté fare ciò di cui aveva real-mente bisogno: una doccia e una bella dormita nel suo letto.

Paul Dukais tornò a leggere il rapporto che Ante Plaskic gli aveva fatto

recapitare. La scelta del croato era stata azzeccata, avrebbe ringraziato Tom Martin per la raccomandazione.

Su vari fogli scritti in un inglese più che accettabile, Ante Plaskic faceva un resoconto dettagliato di come si svolgevano i lavori della spedizione ar-cheologica e le difficoltà che bisognava affrontare.

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Non mi fido di Ayed Sahadi e lui non si fida di me. Sahadi è più di un caposquadra; probabilmente è una spia o un poliziotto. La sua missione mi pare ovvia: proteggere Clara Tannenberg. Cerca di non perderla mai di vista. Ci sono tre o quattro uomini sempre attaccati a lei, oltre alla sua guardia del corpo. È difficile avvicinarsi senza essere sotto il tiro di uno di quegli scagnozzi.

Ciò nonostante, a lei piace sfuggire alla protezione dei suoi guardiani e, in un paio di occasioni, c'è stato un autentico panico per la sua scomparsa, sempre all'alba. Una volta era andata a fare il bagno nell'Eufrate insieme alla professoressa Gómez, un'altra aveva organizzato una fuga segreta con altre donne della spedi-zione. Nessuno se n'era accorto, nemmeno Picot. In un'altra occa-sione aveva deciso di passare la notte vicino alle rovine, e si era portata una coperta per dormire all'aperto.

Sarà difficile che riesca a seminare di nuovo gli uomini che la proteggono. Due di loro dormono per terra a pochi metri dalla ca-sa in cui pernotta.

Una specie di amministratore, un certo Haydar Annasir, in-caricato di pagare gli uomini e a cui Ayed Sahadi chiede tutto ciò di cui il professor Picot può aver bisogno, ha avuto un diverbio con lei. L'ha minacciata di telefonare al nonno, e deve averlo fatto perché lei lo guarda con rancore. Oltre a un piccolo contingente di soldati, è arrivato da Baghdad un gruppo di uomini armati che ha circondato l'accampamento.

Picot ha chiesto più manodopera, e Ayed Sahadi e Haydar An-nasir sono riusciti ad assoldare altri cento operai. I ritmi di lavoro sono insopportabili, quasi non si riesce a riposare, solo poche ore per notte, e nella squadra inizia ad affiorare la tensione. Un paio di professori che accompagnano Picot hanno avuto da ridire con lui per questioni inerenti al metodo di lavoro, gli studenti si la-mentano di essere sfruttati e gli operai sono a pezzi e hanno le mani distrutte.

Ma né al professor Picot né a Clara pare importare minima-mente della stanchezza degli operai e della loro squadra.

Picot conta su un archeologo che fa da paciere, un certo Fabián Tudela, l'unico capace di riportare la calma quando sembra che la situazione debba esplodere. Ma esploderà, è inevitabile: lavoria-mo più di quattordici ore al giorno.

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Quello che dicono di aver trovato è un tempio, e ciò che è stato messo allo scoperto dalla bomba americana è uno dei piani alti, dove pensano si trovasse una biblioteca; da lì la grande quantità di tavolette rinvenute. Sono già state ripulite tre sale e sono state re-cuperate più di duemila tavolette, che si trovavano allineate in una nicchia.

Gli studenti, sotto la supervisione di quattro professori, le stan-no classificando dopo aver proceduto alla loro pulizia. In appa-renza, contengono fondamentalmente conti amministrativi del pa-lazzo, anche se nella sala della quale si stanno occupando ora han-no rinvenuto resti di tavolette in cui sono descritte conoscenze in campo minerale e animale.

Le sale rinvenute finora misurano cinque metri e trenta per tre e sessanta, anche se dicono che ne troveremo di più grandi.

Sono state recuperate tavolette con i nomi degli scribi sulla par-te superiore. Pare che questa fosse un'abitudine; apparentemente ce ne sono alcune di quel tale Shamas con una lista di fiori del po-sto. Ma fino adesso non hanno trovato traccia di tavolette su poe-mi epici, né su fatti storici, cosa che rende sempre più nervosa la Tannenberg e più ancora Picot, che si lamenta di perdere tempo.

Qualche giorno fa c'è stata una riunione di tutta la squadra per fare una valutazione dei ritrovamenti. L'esposizione di Picot è sta-ta improntata al pessimismo, ma Fabián Tudela, la professoressa Gómez e altri archeologi hanno ammesso di trovarsi di fronte a uno dei siti archeologici più importanti del secolo, dato che di questo palazzo non c'erano notizie, e l'opinione generale è che la sua vicinanza all'antica Ur ne accresca l'interesse. Pare che le di-mensioni del palazzo non siano troppo grandi, ma sufficienti ad accogliere una ricca biblioteca che, da quanto dicono, è quella che abbiamo trovato, dato che è situata ai piani superiori.

La professoressa Gómez vorrebbe estendere gli scavi oltre quel-lo che si crede essere il perimetro del tempio-palazzo, per localiz-zare mura e case. Sono rimasti a discutere più di tre ore sulla con-venienza di farlo o no, e alla fine è stata accettata la richiesta di Marta Gómez, perché Fabián Tudela e la stessa Clara Tannenberg l'hanno spalleggiata. Per questo hanno assoldato altri operai e ne stanno cercando ancora.

Non è facile in questi momenti trovare uomini, perché il paese è

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in stato d'allerta, ma la miseria è tanta e i Tannenberg devono es-sere talmente influenti che, sembra, tra qualche giorno arriverà una squadra di operai da altre zone del paese per aggiungersi agli scavatori.

Il mio compito è catalogare sul computer tutte le scoperte, che vengono fotografate da diverse angolazioni, e descriverne detta-gliatamente il contenuto.

Mi avvalgo dell'aiuto di tre studenti. Nella sala dei computer gli archeologi possono controllare co-

me procede il lavoro e dare istruzioni, anche se noi rispondiamo direttamente alla professoressa Gómez, una donna diffidente e meticolosa, davvero insopportabile.

Il genero del capo del villaggio, il contatto che mi avete se-gnalato per mandare i rapporti, è uno di quelli che vanno e vengo-no dagli insediamenti vicini in cerca di cibo, e pare godere della fiducia di Ayed Sahadi, sempre che quell'uomo si fidi di qualcu-no, e sempre che fidarsi di qualcuno non sia un grosso rischio.

Se troveranno le tavolette che cercano, non sarà facile portarle via e tanto meno lasciare questo posto. Con i soldi si possono comprare gli uomini, ma temo che qui ci sarà sempre qualcuno disposto ad aumentare la posta, per cui non mi stupirei se mi tra-dissero. L'unica maniera per evitarlo è che voi convinciate il mio contatto che nessuno sarà in grado di offrirgli una cifra più alta di quella che gli verrà pagata se mi aiuterà ad andarmene da qui...

22

Smith aprì la porta dell'ufficio accompagnato da Ralph Barry e da Ro-

bert Brown. «Signor...» «Ah, siete già qui! Entrate.» Una volta chiusa la porta e dopo che ognuno si fu servito un whisky,

Dukais porse loro una fotocopia della relazione. «Voglio l'originale» disse Robert Brown. «Naturalmente, sei tu che paghi. Non credevo, questo tizio ha talento per

la narrazione. È la prima volta che mi sono divertito a leggere una relazio-ne.»

«E allora?» domandò Brown.

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«Allora cosa?» «Come procede la faccenda?» «All'apparenza non hanno trovato un bel niente. Insomma, quella male-

detta Bibbia d'argilla non salta fuori; hanno recuperato una montagna di tavolette di cui conoscete bene il valore.»

«Nessuno sospetta del vostro contatto?» «Un certo Ayed Sahadi, il caposquadra. Ma il croato crede che sia qual-

cosa di più. Forse è un uomo di Tannenberg incaricato di proteggere la ni-pote.»

«Tannenberg avrà messo uomini dappertutto» aggiunse Ralph Barry. «Sì, proprio così» assentì Dukais. «Ma quello, a quanto pare, è un tipo

speciale. Yasir ce lo confermerà.» «È una vera fortuna poter contare su Yasir» affermò Robert Brown. «Alfred l'ha offeso a tal punto che Yasir si sente libero da ogni obbligo

nei suoi confronti.» «Non t'ingannare su Alfred; lui sa bene che Yasir lo tradirà e sta all'erta.

Alfred è più in gamba di Yasir e pure di te» sottolineò Brown con arrogan-za.

«Che vuoi dire?» replicò Dukais irritato. «Non mettiamoci a litigare adesso...» intervenne Ralph Barry. «Yasir ha almeno una decina di uomini infiltrati nella squadra di archeo-

logi, oltre al contatto diretto con il croato» proseguì Dukais, come se nulla fosse successo. «Se questo Ayed Sahadi è più di quel che sembra, lui lo scoprirà.»

Quando Robert Brown uscì dall'ufficio di Dukais, disse all'autista di por-

tarlo a casa di George Wagner. Doveva consegnargli personalmente la re-lazione del croato e attendere istruzioni, se gliene avesse date. Con il Men-tore non sapeva mai come regolarsi; era freddo come il ghiaccio, e l'ac-ciaio dei suoi occhi rifletteva i suoi scatti d'ira. E quando ciò accadeva, Robert Brown tremava.

23

Gian Maria non poteva nascondere i sintomi della depressione. Si senti-

va totalmente inutile. L'obiettivo del suo viaggio in Iraq gli stava sfuggen-do di mano, in realtà lui aveva perso il controllo della propria vita e non sapeva neppure perché si trovasse lì.

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Non riusciva a riposare. Luigi Baretti aveva deciso di fargli sudare il suo arrivo non richiesto a Baghdad, per cui la sua giornata di lavoro iniziava alle sei e non finiva mai prima delle nove o delle dieci di sera. Tornava a casa di Faisal e Nur esausto, senza nessuna voglia di prestare attenzione al-le gemelle o al piccolo Hadi.

Di solito mangiava da solo. Nur gli lasciava un vassoio con la cena, che lui divorava seduto al tavolo della cucina. Poi andava a letto e crollava sfi-nito.

Quella mattina il suo superiore, padre Pio, l'aveva chiamato da Roma. Quando pensava di tornare? Aveva superato la sua crisi spirituale?

Non sapeva come rispondere a quelle domande, ma aveva la sensazione di avere intrapreso una fuga che non l'avrebbe condotto da nessuna parte.

Aveva cercato di incontrare Clara Tannenberg, ma senza successo, no-nostante si fosse presentato in più di un'occasione al ministero della Cultu-ra chiedendo di essere ricevuto da Ahmed Husseini. I funzionari gli do-mandavano se il signor Husseini lo stesse aspettando e quando lui rispon-deva di no, lo invitavano ad andarsene o a esporre il motivo della sua visita in. modo che fosse trasmesso al direttore del dipartimento di Scavi archeo-logici.

Aveva anche tentato di raggiungerlo telefonicamente, ma una segretaria gentilissima insisteva perché lui le spiegasse che cosa voleva dal signor Husseini, che in quel momento era molto occupato e non poteva dargli ret-ta.

Gian Maria era schiacciato dalla responsabilità nei confronti di Clara Tannenberg, e ogni giorno cercava sulle riviste qualche riferimento alla donna, ma senza risultati.

Il tempo era passato in fretta, troppo in fretta. Ormai era quasi Natale, e lui non poteva trovare altre scuse; sapeva di avere una possibilità di arriva-re ad Ahmed Husseini, e questa era Yves Picot. Non aveva voluto utilizza-re il nome dell'archeologo per non comprometterlo, ma non poteva far al-tro che arrendersi all'evidenza: Ahmed Husseini non l'avrebbe ricevuto se non per intercessione di qualcuno, e quel qualcuno nel suo caso non poteva essere altri che Yves Picot.

«Oggi andrò via presto, Alia» annunciò alla segretaria di Aiuti all'infan-zia.

«Hai un appuntamento? Con chi?» gli domandò curiosa la ragazza. Decise di dirle la verità, per lo meno in parte. «No, non ho nessun ap-

puntamento. Sai, in realtà voglio vedere degli amici.»

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«Hai degli amici in Iraq?» «Be', non sono proprio degli amici, è un gruppo di archeologi che ho co-

nosciuto quando sono arrivato all'aeroporto; mi hanno accompagnato qui da Amman. So che si trovano vicino a Ur a fare degli scavi e mi piacereb-be sapere a che punto sono. Vado a cercarli.»

«E come farai?» «Mi hanno detto che se avessi voluto mettermi in contatto con loro avrei

dovuto chiamare un certo Ahmed Husseini, credo che sia il direttore del dipartimento di Scavi archeologici.»

«Caspita, con che gente hai a che fare!» «Io?» «Sì, Ahmed Husseini è un uomo importantissimo, coccolato dal regime.

Suo padre è stato ambasciatore e lui è sposato con una donna molto ricca, un'irachena mezzo egiziana e mezzo tedesca. La famiglia della moglie è un po' avvolta nel mistero, ma lei ha un sacco di soldi.»

«Però io non conosco questo Husseini; i miei amici mi hanno detto che lui mi avrebbe messo in contatto con loro. Ed è quello che voglio fare.»

«Stai attento, Gian Maria, questo Husseini...» «Ma dai, voglio soltanto chiedergli come raggiungere i miei amici ar-

cheologi!» «D'accordo, ma stai in guardia, è gentaglia» disse Alia abbassando il to-

no della voce. «A quelli lì non manca nulla e vivono alle spalle degli altri. Se gli americani invaderanno l'Iraq, vedrai come si affretteranno a mettersi in salvo, 'sti bastardi. L'unico motivo che giustificherebbe l'intervento dei marine sarebbe quello di liberarci da un simile orrore. È da poco che sei qui, e non ti sei ancora reso conto che Saddam è il diavolo in persona e che ha trasformato l'Iraq in un inferno.»

«So bene quanto state soffrendo, credi che non lo veda? Ma tutto ciò sta per finire, ne sono sicuro. Dai, non buttiamoci giù, e se Luigi ti chiede qualcosa digli che tornerò dopo pranzo.»

Alia si morse il labbro e poi gli appoggiò delicatamente una mano sulla spalla. «Sai una cosa? Ho l'impressione che tu stia soffrendo, e parecchio; lo si vede. Non so per quale ragione stai male, ma se hai bisogno d'aiuto...»

«Non dire sciocchezze! Sono solo stanco. Luigi non mi lascia tranquillo un minuto, come del resto fa anche con te.»

«È vero, ti sta sfruttando. In ogni caso, ho l'impressione che tu stia ma-le.»

«Ma no, sul serio! E adesso fammi chiamare questo Ahmed Husseini

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che ti piace così poco...» Come tutte le altre volte, la segretaria gli disse che il signor Husseini era

occupato, e solo quando Gian Maria fece il nome di Yves Picot notò un cambiamento nel tono della voce che gli diceva di attendere.

Un minuto dopo Ahmed Husseini era al telefono. «Chi parla?» «Scusi se la disturbo. Sono un conoscente di Yves Picot; il professore mi

ha detto di chiamarla se avessi avuto bisogno di contattarlo...» Husseini lo interruppe bruscamente. Gian Maria si rese conto di essere

stato troppo precipitoso; stava facendo una pessima impressione a quel po-tente funzionario del regime. Rispose alle domande che Ahmed Husseini gli fece e quando lui parve soddisfatto gli fissò un appuntamento nel suo ufficio per quella sera stessa.

«Se è disposto a unirsi a loro, questo è il momento giusto. C'è carenza di manodopera, per cui una persona con le sue conoscenze potrebbe essere molto utile.»

In realtà, Gian Maria non aveva intenzione di unirsi a Picot e tanto meno di mettersi in viaggio verso sud per raggiungere la sconosciuta Safran. L'unica cosa che voleva era adempiere il compito che lo aveva indotto ad andare a Baghdad: chiedere a quell'uomo di sua moglie, di Clara Tannen-berg, e spiegargli che era di vitale importanza che parlasse con lei. Perché solo a lei avrebbe raccontato il motivo della sua presenza lì. Era venuto a salvarla, ma non poteva spiegarle né da cosa né da chi senza tradire tutto ciò in cui credeva e che aveva giurato di non rivelare per il resto della pro-pria vita.

Ahmed Husseini non pareva il terribile sbirro del regime che Alia gli a-veva descritto. Inoltre, lo colpì il fatto che non portasse i baffi, così in uso tra gli iracheni. Sembrava il manager di una multinazionale più che un funzionario al servizio di Saddam Hussein.

Ahmed gli offrì un tè e gli domandò cosa l'avesse portato a Baghdad e le sue impressioni sul paese; poi gli raccomandò di visitare alcuni musei. «Così, desidera incontrare il professor Picot...»

«Non esattamente...» «Allora, che cosa vuole?» gli chiese Ahmed Husseini. «Mi piacerebbe sapere come stabilire un contatto con le persone della

sua squadra; so che andavano dalle parti di Ur.» «Effettivamente, sono a Safran.» Gian Maria si morse un labbro. Doveva domandargli di Clara Tannen-

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berg e non sapeva come avrebbe reagito quell'uomo apparentemente paci-fico se uno sconosciuto gli avesse chiesto di sua moglie. «Anche lei e sua moglie siete archeologi, vero?»

«Sì, è vero. Ha sentito parlare di mia moglie?» domandò stupito Ahmed. «Sì, certo.» «Suppongo che Picot le avrà spiegato che la missione di Safran è in par-

te dovuta all'impegno personale di mia moglie. Data la situazione nel mio paese, non è facile disporre di mezzi per scavare. Ma lei ama l'archeologia sopra qualsiasi altra cosa ed è una studiosa del passato del nostro paese, per cui è riuscita a convincere il professor Picot a venirla ad aiutare a dis-sotterrare quelli che paiono i resti di un tempio o di un palazzo, non lo sappiamo ancora con certezza.»

La porta dell'ufficio si aprì ed entrò Karim, l'assistente di Husseini, che sfoggiava un gran sorriso. «Ahmed, è tutto pronto per la spedizione a Sa-fran. Ho chiamato Ayed Sahadi per avvertirlo della partenza del camion. Non ho parlato direttamente con lui, ma ho avuto fortuna perché sono riu-scito a parlare con Clara...»

Ahmed Husseini alzò una mano come per ordinare a Karim di tacere, mentre a Gian Maria s'illuminava lo sguardo. Aveva finalmente trovato Clara Tannenberg. Quell'uomo glielo aveva appena confermato. Adesso che sapeva dove si trovava, doveva andare a Safran. Si sentì uno stupido per non aver considerato la possibilità che Clara Tannenberg facesse parte della spedizione di Picot. Ricordò che quando era riuscito a entrare al con-vegno di archeologia a Roma per cercare Clara Tannenberg, una funziona-ria gli aveva chiesto in tono canzonatorio se fosse interessato a prendere parte alla spedizione che l'irachena stava organizzando. Inoltre, le riviste specializzate avevano dato risalto all'intervento di Clara Tannenberg in cui aveva annunciato l'esistenza di tavolette della cosiddetta Bibbia d'argilla... Quindi, se Yves Picot si trovava lì era per trovare quelle tavolette grazie alla moglie di Husseini, e lui non era stato capace di mettere insieme le co-se.

Karim uscì dall'ufficio senza più aprire bocca. Aveva interrotto il suo capo e questi l'aveva anche guardato in modo non proprio amichevole.

«Sua moglie è a Safran, certo...» «Sì, naturalmente» replicò Ahmed Husseini, confuso. «È logico» fu l'unico commento di Gian Maria. «Dunque, mi dica in che modo posso aiutarla» continuò Ahmed in tono

seccato.

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«Ebbene, io volevo parlare col professor Picot per sapere se potevo stare un paio di mesi a Safran. Non ho molto tempo a disposizione. Sono in Iraq per collaborare con l'organizzazione non governativa Aiuti all'infanzia, e non posso fermarmi a lungo, per cui se il professore non ha nulla in con-trario sul fatto che vada a dare una mano, anche se per poco tempo...»

Ahmed Husseini trovava quell'uomo un po' strano. Non sapeva perché, ma aveva l'impressione che stesse improvvisando. Avrebbe fatto delle in-dagini prima di dargli la possibilità di andare a Safran. «Parlerò con il pro-fessor Picot e, se lui è d'accordo, per quel che mi riguarda non ci sono pro-blemi ad aiutarla a raggiungere Safran. Sa bene che siamo in stato d'allerta e disgraziatamente uno non può andare dove gli pare senza un permesso, per motivi di sicurezza.»

«Capisco, ma ci vorrà molto per organizzare il viaggio?» «Non si preoccupi, la chiamerò... La mia segretaria annoterà il suo nu-

mero di telefono e il suo indirizzo per poterla rintracciare.» «Andrò a Safran» riuscì a dire Gian Maria temendo la reazione di A-

hmed. «Dovrà attendere che io la avvisi.» Il tono di Ahmed Husseini pareva ce-

lare una velata minaccia. Gli pareva che quell'uomo fosse patetico e since-ro, ma a questo punto non si fidava più di nessuno.

Quando Gian Maria uscì dal ministero era madido di sudore. Sapeva di non poter più fare marcia indietro, di doversi preparare a far fronte a quan-to sarebbe potuto accadere. Ahmed Husseini avrebbe scoperto chi era. Si era reso conto che il suo atteggiamento amichevole non era altro che una maschera. Alia aveva ragione: Ahmed Husseini era un uomo del regime e poteva farlo arrestare o farlo espellere dall'Iraq.

Ahmed Husseini non perse tempo e non appena Gian Maria fu uscito

dall'ufficio chiamò Karim. «Voglio che tu dica al Colonnello di fare inda-gini su quell'uomo. È un amico del professor Picot e vuole andare a Safran. Se Picot è d'accordo ci andrà, ma prima voglio avere qualche informazione sul suo conto.»

Ventiquattr'ore più tardi Karim consegnò al suo capo un paio di fogli con il risultato delle indagini del Colonnello. Ahmed iniziò a leggere, e al-la terza riga scoprì perché quel Gian Maria non era quel che sembrava. Decise di chiamare Picot.

Yves Picot si mise a ridere quando Ahmed Husseini gli spiegò per tele-

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fono la storia del sacerdote. «Ma perché le dà fastidio che sia un prete?» gli chiese. «Io non ho problemi se me lo manda, siamo stracarichi di lavo-ro e uno specialista in accadico e in ebraico antico ci farebbe proprio co-modo. Se i suoi segugi hanno terminato le indagini, mettetelo su un elicot-tero e speditelo qui.»

«Va bene, ma voglio fare ancora qualche verifica. Sono incerto su come comportarmi in questo caso.»

«Lo lasci partire. Gian Maria è venuto in Iraq ad aiutarci. Non ha detto di essere un sacerdote, ma nemmeno lo ha nascosto. Nessuno gliel'ha chie-sto.»

«Crede che il Vaticano sia interessato alla Bibbia d'argilla?» domandò Ahmed.

«Il Vaticano? Ma per favore! Il Vaticano non manderebbe mai un sacer-dote a spiarci.» Picot non poté fare a meno di ridere. «Non sia paranoico, lei è una persona intelligente. Veramente le pare strano che ci siano delle brave persone che desiderano alleviare le sofferenze altrui?»

«Perché non ha detto di essere un sacerdote?» «Non l'ha nemmeno negato. Figura sul passaporto e questo è l'Iraq, dove

si sa tutto di tutti. A proposito, quante spie ha assoldato tra gli operai?» domandò Picot senza smettere di ridere.

«Dovrebbe essere più prudente» gli consigliò Ahmed temendo le conse-guenze che avrebbe potuto avere quella conversazione che sicuramente sa-rebbe stata registrata dal Mujabarat, il servizio segreto iracheno.

«Se lo dice lei... Aspetti che le passo Clara.» «Per me non ci sono problemi se viene» disse poco dopo Clara a suo

marito. «Che differenza fa se è un sacerdote? Sono circondata da cristiani. Chi credi che siano quelli che sono venuti? E, che io sappia, anche nel no-stro paese ci sono dei sacerdoti...»

«Ci mancherai...» Nur pareva sinceramente dispiaciuta della partenza di

Gian Maria. Le aveva annunciato solo due giorni prima che sarebbe andato a Safran, per raggiungere alcuni amici che si trovavano là per degli scavi.

Faisal aveva fatto una smorfia quando era venuto a saperlo e non aveva nascosto nascosto la sua irritazione verso l'insopportabile superficialità di quegli stranieri a caccia di tesori nel suo paese mentre la gente moriva per mancanza di cibo e di medicinali. Gian Maria si era dispiaciuto per quel rimprovero e non era riuscito a trovare argomenti a sua difesa per fugare la delusione che gli occhi di Faisal riflettevano.

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Gian Maria finì di sistemare l'ultima camicia, chiuse la piccola valigia nera e si preparò a salutare Nur e Faisal. Le gemelle si trovavano nel sog-giorno, in attesa che la loro mamma le portasse a scuola dopo aver lasciato Hadi a casa della nonna paterna.

Non gli fu facile andarsene. Era arrivato ad apprezzare sinceramente quella famiglia che faceva fronte con grande dignità alle difficoltà della vi-ta in un paese stremato da un regime dittatoriale.

Che lui sapesse, non facevano parte di nessun movimento anti Saddam, ma la loro avversione nei confronti del dittatore era palese, per lo meno a giudicare dalle conversazioni con gli amici che frequentavano casa loro. Gli avevano spiegato che conoscevano persone scomparse da casa, dai luoghi di lavoro. Ciò avveniva in coincidenza con le visite del Mujabarat o di qualche altro servizio segreto di Saddam.

C'erano famiglie che si rovinavano per cercare di avere notizie dei propri figli, mariti, padri, zii: qualcuno diceva loro di conoscere uno della polizia che per una certa somma di denaro avrebbe fornito loro informazioni e magari sarebbe riuscito a rendere meno duro il trattamento in prigione. I familiari vendevano ogni loro avere per pagare il poliziotto corrotto che poi, naturalmente, non faceva nulla.

Odiavano Saddam ma non si fidavano nemmeno degli Stati Uniti. Nes-sun iracheno capiva perché l'esercito americano e i suoi alleati non fossero entrati a Baghdad durante la guerra del Golfo. Parevano essersi accontenta-ti della politica dell'embargo che faceva soffrire unicamente il popolo ira-cheno, mentre nei palazzi di Saddam non mancava nulla.

Con Nur e Faisal aveva vissuto la realtà del paese, la fame, la paura, lo scoramento. Gli sarebbero mancati, come pure gli sarebbe mancata Alia, ma non Luigi Baretti. Il direttore di Aiuti all'infanzia gli pareva un uomo inadatto alla situazione e incapace di dare, oltre al cibo e ai medicinali, un po' d'affetto a chi gli chiedeva aiuto.

Ahmed Husseini lo attendeva sulla porta di casa di Faisal per accompa-gnarlo all'aeroporto, da dove un elicottero li avrebbe trasferiti a Safran.

Gian Maria presentò i suoi amici ad Ahmed e questi lo salutarono con freddezza. Non volevano avere nulla a che fare con chi pareva stare troppo vicino a Saddam.

«Sono felice che venga anche lei» disse ad Ahmed quando furono saliti sull'elicottero.

«Voglio vedere come vanno le cose da quelle parti.» Il rumore dei rotori rendeva impossibile qualsiasi conversazione e i due

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uomini si concentrarono sui loro pensieri. Ahmed si augurava di non essersi sbagliato nei confronti del sacerdote,

essendo giunto alla conclusione, dopo averlo sottoposto a un'accurata in-dagine, che fosse del tutto inoffensivo.

Clara non riuscì a evitare di correre incontro ad Ahmed quando questi

scese dall'elicottero. Le era mancato più di quanto avrebbe voluto. Si abbracciarono, anche se per pochi secondi: entrambi erano coscienti

del fatto che non ci sarebbe stato nessun passo indietro sulla strada intra-presa per il divorzio.

Fatima li stava osservando da una certa distanza pregando affinché A-hmed rinunciasse all'idea di separarsi da Clara.

Yves Picot li ricevette affettuosamente. Provava simpatia per Ahmed; forse per quel motivo non faceva nulla per conquistare Clara. La donna gli piaceva più di quanto fosse disposto ad ammettere di fronte a Fabián, che lo prendeva in giro dicendo che la cosa era evidente.

Ma nel codice morale di Picot non era contemplata la possibilità di cor-teggiare le mogli dei conoscenti e, nonostante lui lo frequentasse da poco tempo, Ahmed gli era simpatico e non voleva intromettersi nel suo matri-monio.

Ricevette Gian Maria con un affettuoso colpetto sulla spalla. «Come de-sidera che la trattiamo? Da "padre"? Da "fratello"?»

«La prego, mi chiami solo Gian Maria.» «Meglio così. In verità, lei mi pareva una persona un po' strana, ma non

potevo immaginare che fosse un sacerdote. È così giovane.» «Non tanto. Tra pochi giorni compirò trentasei anni.» «Ma se ne dimostra al massimo venticinque!» «Sono sempre sembrato più giovane di quanto non sia.» Gian Maria

guardava Clara di sottecchi, in attesa che gliela presentassero. Prima, però, ricevette un rimprovero dalle tre giovani studentesse con le quali aveva viaggiato da Amman. Magda, Marisa e Lola gli dissero che erano arrabbia-te con lui.

«Ma, insomma, perché non ci hai detto che sei un prete?» lo rimproverò Magda.

«Non me lo avete chiesto» si scusò mi. «Sì, ti abbiamo chiesto di cosa ti occupavi, e ci hai risposto che eri lau-

reato in lettere antiche» gli ricordò Marisa. «Non ce l'hai voluto dire» affermò Lola.

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«Ma per quale motivo?» insistette Magda. Fabián gli si avvicinò insieme a Marta e ad altri del gruppo. «È diventato

assai popolare» gli disse a mo' di saluto. «Io sono Fabián Tudela; venga, le presento gli altri, e le mostrerò dove sistemarsi.»

Quando, finalmente, si trovò al cospetto di Clara, lui arrossì, e quella re-azione fece scoppiare la donna in una risata.

«Mi avevano detto che lei arrossisce per un nonnulla» gli disse. «È di-sposto a mollare ogni cosa per lavorare qui?»

«Farò tutto ciò che mi ordinerete, io... spero proprio che troviate la Bib-bia d'argilla.»

«Se è qui, la troveremo.» «Ve lo auguro.» «Per lei poi, in quanto sacerdote, dovrebbe essere un'esperienza specia-

le.» «Se fosse vero che il patriarca Abramo narrò la Creazione...» replicò

Gian Maria dubbioso. «Lo fece. Le assicuro che è così, e che troveremo quelle tavolette.» «Ci sarà il tempo?» «Tempo?» «Sì, certo... Sapete bene che sta per scoppiare la guerra, nessuno dubita

che gli Stati Uniti e i loro alleati attaccheranno.» «Per questo motivo lavoriamo così tanto, nonostante io sia ottimista e

speri che alla fine non accadrà nulla e che questa sia solo una minaccia.» «Temo che non sarà così» commentò Gian Maria con amarezza. Fabián li accompagnò fino a una casetta che stava accanto ad altre per-

fettamente uguali. «Dormirà qui. È l'unico posto dove ci sia ancora una branda libera» gli spiegò invitandolo a entrare nell'ufficio dei computer.

Ante Plaskic lo ricevette con un certo fastidio. Avrebbe preferito godere della relativa indipendenza che aveva avuto fino a quel momento, ma sa-peva bene che non poteva protestare.

Anche Ayed Sahadi non era parso contento e aveva chiesto spiegazioni a Picot riguardo all'ingaggio di Gian Maria.

«Cercherò di disturbare il meno possibile» disse il sacerdote ad Ante Plaskic.

«Lo spero proprio» ribatté questi dimostrando la sua insofferenza nei confronti del nuovo arrivato.

Gian Maria non capiva perché suscitava così tanta antipatia nel croato e nel caposquadra, ma decise di non curarsene. L'importante era che non ac-

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cadesse nulla a Clara Tannenberg. Perché quella era la sua missione, lo scopo del suo viaggio in Iraq: evitare che a quella donna venisse fatto del male. Non poteva rivelarle ciò che sapeva, che stavano cercando di uccide-re lei e forse anche suo padre e i suoi fratelli, nel caso ne avesse avuti.

Sentiva sulla coscienza il peso di quel segreto. Non si era mai reso conto che un giorno la tragedia si sarebbe potuta presentare all'improvviso.

Aveva ascoltato in confessione l'orrore che può albergare nel cuore degli uomini e aveva pianto sentendosi impotente e incapace di dare consolazio-ne a un'anima sofferente e disposta alla più crudele delle vendette. Un'ani-ma che aveva conosciuto l'inferno in questa vita e in cui non albergava più un grammo di compassione.

Ora doveva guadagnarsi la fiducia di Clara, scoprire se aveva altri fami-liari oltre ad Ahmed, ed evitare ciò che nel suo intimo gli pareva inevitabi-le se Dio non fosse intervenuto. Lo avrebbe fatto? si domandò.

Lion Doyle aveva studiato minuziosamente tutte le informazioni che

Tom Martin gli aveva fornito ed era giunto a una conclusione: per avvici-nare Tannenberg avrebbe dovuto incontrare sua nipote Clara, e questa a quanto pareva si trovava dalle parti di Tell Mughayir e partecipava agli scavi di una spedizione archeologica nella quale erano coinvolti studiosi di mezza Europa. Sapeva già che Alfred Tannenberg era quasi inavvicinabile, superprotetto ventiquattr'ore al giorno nella sua Casa Gialla a Baghdad, controllata non solo dai suoi uomini ma anche dai soldati di Saddam.

Anche la casa di Tannenberg al Cairo aveva una protezione ufficiale. Sapeva che sarebbe riuscito a entrare e uscire, ma il rischio era troppo grande e, da quanto gli aveva detto Tom, il vecchio stava in guardia, poi-ché si aspettava che qualcuno dei suoi soci o amici gli giocasse un tiro, e aveva rafforzato le misure di sicurezza. La nipote avrebbe rappresentato il salvacondotto per entrare in casa di Tannenberg dall'ingresso principale. Inoltre, anche lei doveva morire, come recitava il contratto.

Telefonò a Tom Martin annunciandogli che sarebbe passato dalla Global Group. Aveva bisogno della sua influenza per ottenere un tesserino della stampa. «L'Iraq è sull'orlo della guerra e ci sono giornalisti di mezzo mon-do che raccontano quello che sta succedendo, per cui il modo migliore per passare inosservato è fingermi uno di loro.»

«Sei pazzo! I corrispondenti di guerra si conoscono tutti tra loro, sono sempre gli stessi in ogni conflitto.»

«Non è vero; comunque mi farò passare per fotografo. Un fotografo in-

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dipendente, free lance. Ma ho bisogno che una rivista o un giornale mi ri-lasci un tesserino e che confermi, se qualcuno lo chiede, di nutrire interes-se per le mie foto. Ho già comprato dell'attrezzatura professionale di se-conda mano.»

«Dammi un paio d'ore e vedrò quel che posso fare. Forse ho la soluzio-ne.»

«Prima la trovi e prima parto.» Non erano passate due ore che Lion Doyle entrava in una casa a due

piani nei dintorni di Londra, sulla cui porta un cartello annunciava che lì aveva sede la Photomundi.

Il direttore dell'agenzia lo stava aspettando. Era un uomo magro e di bassa statura che, quando parlava, mostrava dei denti piccoli e affilati. «Ha portato una fototessera?»

«Sì, l'ho qui con me.» «Bene, me la dia; in un minuto avrà il suo tesserino.» «Mi parli dell'agenzia» chiese Lion. «Facciamo di tutto, dalle foto per i matrimoni ai cataloghi commerciali,

e nel caso anche reportage per la stampa. Se una rivista ha bisogno di un fotografo per un lavoro mi chiama, io glielo mando, lui fa le foto, mi pa-gano e l'affare è fatto. E aiuto anche la patria. Ci sono amici di amici che hanno bisogno di essere accreditati, come lei adesso; bene, me lo chiedo-no, mi pagano e io non voglio sapere altro.»

«E se il fotografo si mette in qualche guaio?» «È un problema suo. Io non ho nessuno in organico, sono tutti collabora-

tori che chiamo a seconda delle necessità. Lavoro solo su contratto. Per e-sempio, mi è stato detto che lei sta per partire per l'Iraq, vuole fare delle foto per poi venderle al suo ritorno a qualche periodico o quotidiano. Eb-bene, io le fornisco un tesserino che attesta che lei è un collaboratore di Photomundi e la mia responsabilità finisce qui. Se torna indietro con le fo-to, telefonerò a un paio di amici della stampa per vedere se sono interessati a comprarle; se non le vogliono, la spesa è stata a suo carico, non mio. Se lei si mette in un guaio, io non sono responsabile di nulla. Mi ha capito?»

«Perfettamente.» Mezz'ora dopo Lion Doyle usciva dalla Photomundi con un tesserino di

fotografo indipendente. Adesso doveva unicamente preoccuparsi di fare i bagagli e comprare un biglietto aereo per Amman.

Il gruppo era esausto ma euforico, dato che due giorni prima la squadra

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diretta da Marta Gómez, dopo avere finito di ripulire una nuova sala, aveva trovato due statue di tori alati alte mezzo metro praticamente intatte e circa duecento tavolette quasi intonse.

Gian Maria copiava e traduceva il contenuto delle tavolette. Yves Picot e Clara Tannenberg si mostravano spietati e costringevano operai e archeo-logi a lavorare senza sosta.

Clara era molto gentile con Gian Maria e cercava di aiutarlo nel lavoro di decifrazione della complicata lingua degli antichi abitanti di Safran, per cui passavano parecchie ore insieme. Lui aveva notato la disperazione del-la donna, e anche quella sera la tensione si rifletteva in ogni muscolo del suo volto.

«Sai, Gian Maria, malgrado stiamo procedendo nel lavoro e il tempio si sia rivelato un autentico tesoro archeologico, certe volte dubito che le tavo-lette di Shamas si trovino qui.»

«Clara» si azzardò a dirle «e se questa storia non fosse mai esistita? Se il patriarca Abramo non avesse mai raccontato la sua idea della Creazione?»

«Ci sono le tavolette di mio nonno! E lì sopra Shamas lo ha scritto chia-ro e tondo!»

«Ma il patriarca potrebbe avere cambiato idea o potrebbe essere succes-so qualcosa» suggerì Gian Maria.

«Per esistere, esistono, quel che non si sa è dove siano. Credevo di tro-varle qui. Quando la bomba ha scavato il cratere lasciando allo scoperto il tetto dell'edificio e abbiamo rinvenuto i resti delle tavolette, alcune firmate da Shamas, mi è sembrato un miracolo, che non fosse accaduto per caso...» si lamentò Clara.

Gian Maria pensò che effettivamente pareva un miracolo che a distanza di tanti anni i Tannenberg avessero trovato altre tavolette di quello scriba chiamato Shamas. Lui credeva che tutto accadesse per volere di Dio, ma in questo caso non capiva ciò che Dio intendesse dire. «E se non fossero nel tempio?» le domandò.

«Come sarebbe a dire "se non fossero nel tempio"? A cosa ti riferisci?» A Clara si era illuminato lo sguardo e nei suoi grandi occhi d'acciaio pare-va essere tornata la speranza.

«Vediamo un po', gli scribi avevano funzioni ben determinate nel tem-pio: avevano l'incarico di tenere i conti dell'amministrazione locale, dei contratti di compravendita... Abbiamo trovato un catalogo della flora di questo luogo, un elenco di minerali, tutto nella norma. Forse questo Sha-mas non custodiva nel tempio le tavolette con la storia che gli aveva rac-

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contato Abramo. Potrebbe averle tenute in casa, o in qualche altro luogo.» Clara rimase in silenzio riflettendo su ciò che aveva appena finito di dire

Gian Maria. Forse il sacerdote aveva ragione, anche se lei non doveva tra-scurare il fatto che nell'antica Mesopotamia erano soliti trascrivere sulle tavolette i poemi epici. E la Creazione, anche se nella versione di Abramo, era comunque un'epopea.

Cominciò a valutare la possibilità di ampliare il perimetro degli scavi ol-tre quanto avevano progettato, ma sapeva che non avevano tempo a suffi-cienza. Suo nonno aveva telefonato dal Cairo e per la prima volta aveva sentito in lui un certo pessimismo. I suoi amici non gli avevano lasciato il-lusioni: l'Iraq sarebbe stato attaccato e questa volta gli americani non si sa-rebbero limitati a bombardarlo: lo avrebbero invaso.

Inoltre, convincere Picot sarebbe stata un'impresa quasi impossibile. Lui era disperato quanto lei per il fatto di non avere trovato la Bibbia d'argilla, ma non sarebbe stato d'accordo a estendere le ricerche, perché ciò avrebbe significato disperdere il lavoro degli operai e questo sarebbe andato a de-trimento degli scavi al tempio. Ciò nonostante, avrebbe parlato con Yves. Forse Gian Maria aveva ragione.

Clara sentì su di sé lo sguardo di Ante Plaskic. Poteva essere solo lui, dato che non era la prima volta che lo sorprendeva a osservarla di nascosto quando entrava nella sala dei computer o si sedeva vicino a Gian Maria e ad altri membri del gruppo per pulire le tavolette che sistemavano su un lungo tavolo davanti alla casa di argilla che serviva loro da ufficio.

Anche Ayed Sahadi non la perdeva di vista, ma ciò non le trasmetteva un senso d'inquietudine. Suo nonno le aveva detto che quell'uomo l'avreb-be protetta se qualcuno avesse cercato di farle del male. In realtà, lei non aveva paura di nessuno, si sentiva al sicuro. Conosceva bene il terrore che avevano gli iracheni ad alzare le mani contro qualcuno che godeva dei fa-vori di Saddam, e lei e la sua famiglia potevano contare sull'amicizia degli ambienti più prossimi al presidente. Non aveva di che preoccuparsi.

Era domenica e Yves, consapevole della spossatezza del gruppo, aveva

proposto per quella sera un po' di riposo. Ma Clara e Gian Maria non vi avevano fatto caso e perciò si trovavano insieme a pulire tavolette alla luce del tramonto. Ante se ne stava lì con le mani in mano a guardarli, consape-vole del fastidio che provocava nella donna.

Sarebbe stato facile ucciderla. L'avrebbe strangolata, non aveva bisogno di altre armi oltre alle sue mani. Per questo motivo guardava con curiosità

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il collo di Clara, pensando al momento in cui l'avrebbe stretto fino a to-glierle l'ultimo respiro.

Non provava niente per la donna, né per nessun altro. Si sentiva rifiutato da tutti e solo quel prete aveva fatto degli sforzi per essere gentile con lui. Anche a Picot riusciva difficile elogiare il suo lavoro, benché lui lo svol-gesse con abilità ed efficienza.

Ma, oltre a Clara, avrebbe dovuto uccidere anche il suo cerbero, Fatima, la donna sciita che la seguiva per tutto il campo come un cane fedele; lo faceva uscire dai gangheri vederla pregare tre volte al giorno inginocchiata in direzione della Mecca. Avrebbe ucciso anche Ayed Sahadi, dato che sa-peva che costui non avrebbe esitato a fare lo stesso con lui. E non aveva neppure dubbi che il caposquadra fosse qualcosa di più di quel che appari-va. I militari della guarnigione vicina a volte scattavano sull'attenti quando lo vedevano, nonostante Ayed li redarguisse ogni volta con un rapido ge-sto. Il timore che incuteva lasciava intendere che fosse considerato più di un caposquadra. Ante aveva pure scoperto che una mezza dozzina di uo-mini parlavano spesso con Ayed, come a volerlo informare su questioni che non c'entravano con gli scavi.

Tuttavia, Ante sapeva di essere a sua volta controllato dal caposquadra, che gli dimostrava in svariati modi la sua diffidenza, come per avvisarlo di non fare sciocchezze. Erano tutti e due degli assassini e si erano ricono-sciuti come tali.

Alfred Tannenberg uscì con passo deciso dall'ospedale. Era stato ricove-

rato per una settimana e si sentiva spossato, ma non voleva che qualcuno lo notasse. Gli uomini, come tutti gli altri animali, annusano la debolezza degli altri e ne approfittano per attaccare.

La conversazione che aveva appena avuto col suo medico non lasciava spazio a dubbi: al massimo, sarebbe arrivato alla primavera.

Il medico era stato restio a comunicargli quanto gli rimaneva da vivere, ma lui l'aveva costretto a rivelargli che se fosse arrivato a marzo sarebbe stato tutto tempo regalato. Quindi, doveva disporre in modo adeguato dei mesi che gli restavano per assicurare un futuro a Clara.

Si sarebbe trattenuto qualche giorno al Cairo per sistemare alcuni affari e poi sarebbe tornato in Iraq. Avrebbe fatto una sorpresa a sua nipote poiché aveva intenzione di fermarsi a Safran, di stare accanto a lei fino a che non gli avessero detto di abbandonare quel luogo. In realtà, avrebbero sicura-mente dovuto lasciare l'Iraq e l'avrebbero fatto insieme, se lui fosse stato

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ancora vivo. Ma aveva bisogno di Ahmed. Sapeva che quando lui fosse morto Clara sarebbe rimasta inerme e doveva avere al suo fianco qualcuno che le volesse bene e la proteggesse. I suoi uomini erano pagati per farlo, ma questo fintanto che c'era lui, a meno che qualcun altro non avesse preso in mano le redini. Non gli importava se Ahmed e Clara avrebbero divor-ziato, ma dovevano restare insieme fino a quando tutti e due si fossero po-tuti allontanare dall'Iraq, nel caso in cui si fossero avverate le previsioni e gli americani avessero invaso il paese.

Alfred non aveva mai avuto dubbi sul fatto che Ahmed avrebbe accettato la sua proposta, innanzitutto perché non avrebbe voluto danneggiare Clara e sapeva che lasciarla in Iraq avrebbe significato condannarla a morte, e poi perché opporsi ai suoi desideri voleva dire firmare la propria condanna. In terzo luogo, o forse quello sarebbe stato il movente principale di A-hmed, perché avrebbe potuto disporre di una grossa somma per quell'ulti-mo lavoro, perciò avrebbe fatto quanto ci si aspettava da lui. Per questo motivo Alfred gli aveva ordinato di trattenersi a Safran fino a febbraio. Robert Brown, tramite quel tale Mike Fernández, l'ex colonnello dei ber-retti verdi, gli aveva passato un'informazione incontestabile: l'attacco sa-rebbe avvenuto a marzo.

E in quel momento Mike Fernández lo stava aspettando. Alfred gli ave-va dato appuntamento in mattinata a casa, dove ora si stava dirigendo a bordo della sua Mercedes nera.

L'ex colonnello dei berretti verdi ormai sapeva già che tipo d'uomo era e non perse tempo a provare a ingannarlo. Alfred Tannenberg aveva sempre parecchie miglia di vantaggio rispetto a lui e a Paul Dukais: pareva sapere non solo cosa facevano, ma anche cosa pensavano.

Verso mezzogiorno Fernández era pazientemente in attesa, avvolto nel silenzio della sala d'aspetto della casa di Tannenberg, che ogni giorno pa-reva più vigilata. Si era accorto che avevano collocato videocamere perfino sui rami degli alberi lì intorno. Il vecchio pareva essere sicuro che qualcu-no l'avrebbe ucciso se lui gliene avesse fornito la benché minima occa-sione, e non era assolutamente disposto a concederla.

«Ebbene, colonnello, ci sono novità?» domandò Tannenberg a mo' di sa-luto.

«Come sta, signore?» fu la risposta di Mike Fernández. «Così.» «Gli uomini sono già qui. Ho studiato le mappe con loro e vorrei sapere

se siamo autorizzati a prendere posizione nel luogo d'incontro con i suoi

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uomini, per cominciare a perlustrare il terreno.» «No, per ora non si può fare. Dovranno limitarsi a studiare le mappe.» «Ma i suoi uomini si muovono senza difficoltà in tutta la zona.» «È così, e non voglio richiamare l'attenzione proprio adesso. Quando i-

nizieranno i fuochi d'artificio sarà un'altra cosa. Il successo dell'operazione sta tutto nella disciplina, nel fatto che lei e i suoi uomini seguiate le indica-zioni dei miei. Se lo farete, ne uscirete vivi.»

«Il signor Dukais si è già organizzato affinché i miei uomini e il carico possano partire su aerei militari diretti alle basi europee.»

«Spero che abbia tenuto conto delle mie raccomandazioni e abbia dispo-sto che parte del carico faccia scalo in Spagna e parte in Portogallo. Sono due paesi alleati e amici degli Stati Uniti, e sono dediti alla causa.»

«Quale causa, signore?» volle sapere l'ex berretto verde. «Naturalmente quella di Bush e dei suoi amici, che sono anche i nostri.

È un grosso affare, questo, amico mio.» «Un'altra parte del carico raggiungerà direttamente Washington.» «Sì, proprio così.» «E lei, signore, dove sarà quando scoppierà la guerra?» «Questo non la deve interessare. Sarò dove dovrò essere. Yasir le tra-

smetterà i miei ordini; ci terremo in comunicazione in ogni momento, an-che quando i nostri amici cominceranno a bombardare.»

Mike Fernández provava un'enorme curiosità di sapere se Alfred Tan-nenberg fosse leale nei confronti di qualcosa o di qualcuno e non resistette alla tentazione di domandarglielo. «Suppongo, signore, che sia per lei mo-tivo di preoccupazione sapere che questa volta, oltre a bombardare, inva-deremo l'Iraq.»

«E perché dovrei preoccuparmi?» «Insomma, lei ha una famiglia e molti amici importanti vicini a Sad-

dam...» «Io non ho amici, colonnello, ho solo degli interessi. Non mi importa chi

vinca o chi perda la guerra. Io continuerò a fare affari; il denaro è un cama-leonte che assume i colori del vincitore.»

«Ma lei vive lì... so che ha una bella casa a Baghdad.» «La mia casa è dove sono io. E adesso, se mi permette, mi piacerebbe

lavorare invece di soddisfare le sue curiosità. Saddam è amico mio e anche Bush lo è; grazie a tutti e due, sto per fare un grosso affare, e anche lei. E, come noi, qualche centinaio di persone.»

«Ma morirà della gente, perderemo degli amici...»

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«Io non perderò nessun amico, e lei non faccia il sentimentale. Tutti i giorni muoiono delle persone, solo che in guerra ne muoiono di più: la dif-ferenza è tutta qui.»

24

Lion Doyle notò il gruppo che stava al lato opposto del bancone. Erano

giornalisti, si vedeva lontano un miglio. Due di loro erano travestiti da mi-litari: pantaloni verdi mimetici, giubbotti cachi, anfibi neri.

Riconosceva i giornalisti da lontano per la loro mania di indossare in-dumenti militari quando venivano inviati a seguire qualche guerra. Molti non arrivavano mai al fronte, e il massimo della vicinanza al conflitto era rappresentato dal bar di un hotel di lusso situato a volte a centinaia di chi-lometri dalle zone pericolose. Anche ora il Kuwait era pieno zeppo di giornalisti travestiti che davano notizia, dalla piscina dell'hotel, della ten-sione presente in quei luoghi.

Altri rischiavano la pelle eludendo i controlli che i regimi militari, a pre-scindere dal loro colore, impongono sempre.

Aveva conosciuto giornalisti veramente in gamba, che a suo giudizio avevano l'audacia di fanatici convinti che la loro missione fosse di infor-mare, sia pure dall'inferno, i lettori affinché conoscessero la verità. Ma quale verità?

«Caspita, ma sei proprio tu, Lion!» Sentendo pronunciare il suo nome Doyle s'irrigidì. Quando si girò, si

trovò di fronte una donna che conosceva. «Miranda.» «Non mi dire che sei ad Amman in vacanza.» «No, non sono in vacanza.» «Sei di passaggio per andare in...» «In Iraq, come te.» «L'ultima volta ci siamo visti in Bosnia.» «La prima e l'ultima, se non ricordo male.» «E mi hai raccontato che stavi guidando un convoglio di camion di una

ONG che trasportavano scorte alimentari per i poveri bosniaci, non è ve-ro?»

«Dài, Miranda, non essere rancorosa.» «E perché dovrei esserlo?» «Forse perché sono dovuto andare via da Sarajevo senza avere il tempo

di salutarti.»

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Miranda scoppiò in una risata mentre gli si avvicinava e, mettendosi in punta di piedi, lo baciava sulle guance. Poi gli presentò l'uomo che, accan-to a lei, osservava divertito la scena. «Questo è Daniel, il miglior cineope-ratore del mondo. E lui è Lion. Lion e non so che altro...»

Lion non disse il cognome e strinse la mano a Daniel. Il cineoperatore, molto più giovane di lui, non doveva avere più di trent'anni ed esibiva una coda di cavallo stretta da un elastico. Gli fece una buona impressione poi-ché non si era travestito da militare, come del resto aveva evitato di fare Miranda, che indossava jeans, stivali, maglione e giacca a vento.

«E adesso chi vai ad aiutare?» volle sapere la donna. «Nessuno, ma ti faccio concorrenza.» «Non mi dire, e perché?» «Non te l'ho detto a Sarajevo, ma lavoro come fotografo per un'agen-

zia.» Miranda lo guardò con diffidenza. Lei conosceva tutti i corrispondenti di

guerra, di qualsiasi paese. Finivano sempre per ritrovarsi: a Sarajevo, in Palestina, in Cecenia... E Lion non era uno di loro, di questo era certa.

«Faccio il fotografo, ma non per la stampa» spiegò lui, rendendosi conto della diffidenza che aveva risvegliato in Miranda. «Realizzo servizi per ca-taloghi commerciali e, quando non c'è lavoro, faccio anche matrimoni. Sai, servizi fotografici per chi vuole conservare un album del giorno delle noz-ze.»

«E dunque...» iniziò a dire Miranda. «E dunque, 'sta merda di lavoro scarseggia, e certe volte sono costretto a

fare altro, come guidare dei camion o quel che capita. L'agenzia per la qua-le lavoro ha anche contatti con la stampa. Il capo mi ha detto che di questi tempi l'Iraq interessa ai periodici e che se fossi stato in grado di fare delle buone foto le avrei potute piazzare. Per cui ho deciso di provarci.»

«E come si chiama questa agenzia?» chiese Miranda. «Photomundi.» «Ah, la conosco!» esclamò Daniel. «Ingaggia fotografi per lavori speci-

fici, dà loro l'incarico e a volte li molla senza comprare una foto. Spero che in Iraq ti vada bene, altrimenti finirai per doverti pagare anche il viaggio.»

«E mi sta già costando un bel po'» replicò Lion. «Be', se ti possiamo dare una mano...» si offrì Daniel. «Mi farebbe piacere ricevere qualche dritta, dato che io non sono un

giornalista. Non è la stessa cosa fotografare un barattolo di asparagi o una guerra.»

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«Chiaro che non è la stessa cosa» disse Miranda, sempre diffidente. Daniel non pareva prevenuto come la sua collega e invitò Lion a unirsi

al gruppo di giornalisti che stava all'altra estremità del bancone. Lui esitò un attimo. Non voleva frequentare i reporter più del necessario,

ma non poteva nemmeno rifiutare l'invito dell'ingenuo cineoperatore. Così decise di aggregarsi a loro e gli fu presentata una decina di corrispondenti di guerra di diversi paesi che stavano organizzando il trasferimento in Iraq.

Non gli fecero molto caso. Non lo conoscevano, e quello che Miranda presentava come un fotografo di cataloghi che voleva tentare la fortuna come fotoreporter suscitò in tutti loro un senso di fastidio. Lo guardavano con sufficienza: si erano fatti le ossa sui campi di battaglia e, tra un whisky e l'altro, gli raccontarono che avevano visto la morte in faccia e orrori che non avrebbero mai potuto dimenticare.

Il giorno seguente, all'alba, sarebbero saliti su alcune automobili prese a noleggio diretti a Baghdad e lo invitarono a unirsi a loro, previo pagamen-to della sua parte di spese per il veicolo. Lion chiese quanto gli sarebbe co-stato e, dopo aver finto di fare i conti, accettò, cosa che gli valse un bel po' di pacche sulle spalle.

Il mattino dopo si ritrovarono tutti insonnoliti nell'atrio dell'Hotel Inter-continental. Non assomigliavano alla stessa allegra brigata della notte pre-cedente. Gli effetti dell'alcol e la mancanza di riposo avevano lasciato il segno.

Daniel fu il primo a vedere Lion e alzò una mano per salutarlo, mentre Miranda aggrottava le sopracciglia. «Che problemi hai col tuo amico?» le domandò.

«Non è un mio amico, l'ho conosciuto dalle parti di Sarajevo, durante una sparatoria. In realtà, potrei quasi dire che mi ha salvato la vita.»

«Com'è andata?» «Un gruppo di militari serbi stava attaccando un villaggio vicino a Sara-

jevo. Quel giorno mi trovavo lì con alcuni colleghi di altre televisioni. Fi-nimmo in mezzo ai proiettili. Non so bene che cos'accadde, ma d'un tratto mi ritrovai sola in strada, nascosta tra due auto, con le pallottole che mi fi-schiavano attorno. C'era un cecchino da qualche parte. Improvvisamente apparve Lion, non chiedermi da dove né come, so solo di averlo visto al mio fianco. Mi costrinse ad abbassare la testa e poi mi portò via da lì. I serbi avrebbero potuto ucciderci tutti, ma quel giorno giunsero alla conclu-sione che gli conveniva apparire in televisione, per cui riuscimmo ad an-darcene. Lion mi fece salire su un camion e mi portò a Sarajevo. In verità

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rimasi colpita da come riusciva a destreggiarsi in quella situazione. Sem-brava... sembrava un soldato, non un camionista. Dopo che mi aveva tratto in salvo decidemmo di incontrarci più tardi. Sparì. Non l'ho più rivisto fino a ieri sera.»

«Ma non l'hai dimenticato.» «No. Non l'ho dimenticato.» «E ora provi sentimenti contraddittori, non sai che pensare, e soprattutto

non sai se vuoi stargli vicino. Mi sbaglio?» «Dài, Daniel, non farai mica lo psicanalista!» «È che ti conosco troppo bene» replicò lui con un sorriso. «È vero, non ci siamo mai separati negli ultimi tre anni. Passo più tempo

con te che a casa mia.» «Il lavoro è lavoro. Anche Esther si lamenta che sto più con te che con

lei, e poi quando arrivo a casa sono sempre distrutto.» «Che fortuna hai avuto con Esther...» «Sì, è stupenda. Un'altra mi avrebbe cacciato di casa a calci.» «Non riesco a capire che cosa ti abbia spinto a venire proprio adesso che

state per avere un figlio.» «Siamo giornalisti e dobbiamo stare dove accadono le cose, e adesso il

posto giusto è l'Iraq. Esther lo capisce. In fondo, anche lei è del mestiere, benché faccia reportage sulla famiglia reale.»

Lion prese posto su un fuoristrada insieme a Miranda, Daniel e due fo-tografi tedeschi.

Miranda non pareva di buonumore e rimase in silenzio per gran parte del viaggio, senza partecipare alla conversazione di Daniel e dei suoi colleghi.

Lion non si ingannava riguardo a Miranda. Malgrado l'aspetto fragile, era una donna in gamba non solo come corrispondente di guerra, ma pure in altre battaglie, quelle della vita. Magrolina e minuta, sotto il metro e sessanta, con i capelli neri cortissimi e gli occhi color miele, Miranda rap-presentava per Lion una forza della natura. Aveva carattere, sapeva impor-si e soprattutto non sembrava avere paura. Quando lui l'aveva conosciuta in quel villaggio vicino ,a Sarajevo era rimasto sorpreso dal suo autocon-trollo, nonostante la situazione critica.

La strada per Baghdad era lunga e polverosa. C'era più traffico del soli-to, poiché le organizzazioni non governative preferivano trasportare i pro-pri carichi da Amman; incrociarono due convogli di camion e incontrarono autobus che andavano in entrambe le direzioni. Sulla frontiera giordana con l'Iraq c'era un pullman zeppo di iracheni che cercavano di convincere

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la polizia del proprio paese a lasciarli passare. Alcuni ebbero fortuna; altri, una volta mostrati i documenti, vennero fermati in malo modo. I giornalisti scesero dai mezzi per riprendere la scena e domandare che cosa fosse ac-caduto. Non ricevettero risposte bensì minacce, per cui decisero di prose-guire. Volevano evitare problemi prima di essere giunti a destinazione.

L'Hotel Palestine aveva conosciuto tempi migliori. Lion faticò a trovare

una stanza. Erano tutte prenotate, gli aveva detto gentilmente un impiegato assalito da una valanga di giornalisti che si affollavano al banco della re-ception reclamando le proprie camere. Lion gli allungò una mancia per ammorbidirlo.

Cento dollari gli aprirono la porta di una stanza all'ottavo piano. Il rubi-netto del bagno perdeva, non si potevano chiudere le persiane e il coprilet-to aveva bisogno della tintoria, ma per lo meno lui aveva un letto sulla te-sta.

Sapeva che avrebbe incontrato i giornalisti al bar appena avessero lascia-to i bagagli nelle proprie stanze. Nessuno si sarebbe messo al lavoro fino al giorno successivo, ma nel frattempo si sarebbero dati da fare per contattare interpreti e guide. L'ufficio stampa del ministero dell'Informazione forniva interpreti agli inviati dei media stranieri, anche se qualcuno preferiva cer-carli per proprio conto, ben sapendo che le autorità usavano gli interpreti ufficiali per raccogliere informazioni sui giornalisti stessi.

«Avrai bisogno di qualcuno che ti accompagni» gli disse Daniel quando si incontrarono al bar.

«No. Non ho denaro a sufficienza per affrontare questo tipo di spesa; cercherò di arrangiarmi da solo. Ho investito tutto nel viaggio...» si scusò Lion.

«Il fatto è che ti obbligheranno; non lasceranno certo che un fotoreporter inglese vada a ficcare il naso dappertutto.»

«Starò attento a non farmi notare. Vedi, la mia idea è di realizzare un re-portage fotografico sulla vita di tutti i giorni a Baghdad. Credi che potreb-be interessare ai giornali?»

«Dipende dalla qualità delle foto, dal contenuto. Dovresti trovare qual-cosa di speciale» gli consigliò Daniel.

«Lo troverò. Domani uscirò all'alba, voglio fotografare Baghdad appena sveglia, per cui stanotte andrò a letto presto; sono stanco per il viaggio.»

«Cena con noi» lo invitò Daniel. «No, non voglio fare tardi. Sono sceso per bere un tè e poi me ne vado

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dritto a letto.» Daniel non insistette. Anche lui era sfinito e capiva che Lion volesse ri-

posare. Lion dormì come un sasso. Non aveva mentito quando aveva detto a

Daniel di essere stanco. Si svegliò all'alba e dopo una rapida doccia prese la sacca con l'apparecchiatura fotografica e scese in strada. Doveva cercare di non farsi notare, per cui passò buona parte della mattinata nel bazar e per le strade di Baghdad. Fotografava tutto ciò che attirava la sua at-tenzione, ma soprattutto voleva tastare il polso della città. Nella capitale i-rachena sottoposta all'embargo mancava tutto ma, come sempre, c'erano alcuni privilegiati. I negozi erano vuoti, però, se uno sapeva a quali porte bussare, poteva trovare prodotti di prima qualità.

Durante la sua lunga passeggiata non aveva smesso di pensare a una scusa per presentarsi a Safran.

Quando, dopo mezzogiorno, fece ritorno in hotel, non trovò nessuno del-la tribù di giornalisti. Decise di andare al ministero dell'Informazione per parlare con il capo dell'ufficio stampa ed esporgli il proprio desiderio di andare a Safran.

Come quasi tutti gli iracheni, Alì Sidqui esibiva folti baffi neri. Era un

uomo corpulento e robusto, ma nascondeva i chili di troppo grazie all'al-tezza e al portamento impettito. Come viceresponsabile dell'ufficio stampa cercava di sfoderare il migliore dei suoi sorrisi con i giornalisti che ogni giorno e sempre più numerosi accorrevano a Baghdad.

«In cosa possiamo aiutarla?» chiese a Lion. Lui gli spiegò che era un fotografo indipendente e gli mostrò le sue cre-

denziali di Photomundi. Alì prese i suoi dati e gli chiese quale fosse la sua prima impressione di Baghdad. Dopo circa mezz'ora di amichevole con-versazione, Lion andò al nocciolo della questione.

«Vorrei fare un reportage speciale. Vede, so che stanno realizzando un importante scavo archeologico dalle parti di Tell Mughayir, in un villaggio che mi pare si chiami Safran. Mi piacerebbe andarci per fare un servizio sugli scavi e mostrare al mondo come l'antica Mesopotamia continui a sve-lare i suoi segreti. Credo che la spedizione sia composta da persone di mezza Europa, e sarebbe interessante far vedere come, nonostante la situa-zione, ci siano ancora personalità accademiche in Iraq.»

Mentre Lion parlava, Alì Sidqui pensò che il reportage che gli propone-va il fotografo inglese avrebbe potuto rappresentare una buona pubblicità

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per il regime. Lui non sapeva che a Safran fossero in corso degli scavi ar-cheologici, ma non lo disse. Ascoltò con interesse e promise di chiamarlo all'Hotel Palestine nel caso in cui fosse riuscito a ottenere dai suoi supe-riori un permesso per il viaggio a Safran.

Lion avrebbe potuto scegliere di andare a Safran con i propri mezzi, ma sapeva di doversi adattare al suo nuovo ruolo di fotografo e comportarsi come il resto della stampa che affollava Baghdad.

Trascorse il pomeriggio vagando da un posto all'altro e fotografando quello che più lo colpiva. Fece ritorno all'hotel con gli ultimi raggi del so-le.

Miranda era alla reception insieme a Daniel. Anche loro erano appena arrivati. «Chi non muore si rivede!» fu il suo saluto.

«Ho lavorato tutto il giorno, e voi?» «Siamo stati in giro. Questa gente se la passa proprio male; abbiamo vi-

sto un ospedale che faceva venire voglia di piangere, non c'era niente» si lamentò Daniel.

«Sì, mi sono reso conto anch'io degli effetti dell'embargo. Ma mi hanno sorpreso le persone, quanto sono gentili nonostante la situazione.»

«Che probabilmente peggiorerà. E di questo si stanno occupando Bush e i suoi amici» affermò Miranda.

«Be', Saddam però non è proprio quel che si dice un angelo» replicò Lion.

«No, certo che no, ma a Bush non interessa Saddam. Quel che gli inte-ressa è il petrolio.»

Il tono di voce di Miranda indicava che era pronta a litigare, ma Lion non aveva il benché minimo interesse a polemizzare. Di Bush gli importa-va tanto quanto di Saddam. Era in Iraq per fare un lavoro e poi se ne sa-rebbe tornato alla tranquillità della sua fattoria insieme a Marian, per cui decise di non ribattere.

Daniel, tuttavia, era troppo colpito dal suo giro per Baghdad per lasciar cadere la discussione. «Spetterebbe agli iracheni cacciare Saddam, non a noi.»

«Hai ragione, ma credo che sia difficile che ci riescano. Qui chiunque si ribelli finisce in prigione e, se ha un po' di fortuna, lo fanno fuori subito. Non possiamo chiedere miracoli, la gente subisce le dittature perché è dif-ficile abbatterle. O ricevono aiuto dall'esterno o non possono uscire dalla loro situazione» fu la risposta di Lion.

«Ma certe volte quel che arriva dall'esterno è merda. Saddam è stato un

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uomo degli americani, così come lo sono stati Pinochet o Bin Laden. A-desso non serve più e loro lo vogliono scaricare. Va bene, che lo facciano pure, per me non c'è problema; il fatto è che finiranno per ammazzare mi-gliaia di innocenti e per distruggere un intero paese. Quando la guerra sarà finita non ci sarà più neppure l'Iraq» sentenziò con rabbia Miranda.

«Non parliamone adesso. Mi pare che abbiamo avuto tutti una giornata pesante. Perché non andiamo a cena?»

Daniel disse di essere stanco e che preferiva ritirarsi in camera sua, ma Miranda accettò la proposta di Lion. Al ristorante incontrarono altri gior-nalisti e si unirono a una tavolata con due reporter spagnoli, un irlandese, tre svedesi e quattro francesi. Per fortuna tutti parlavano l'inglese.

Ognuno raccontò la propria esperienza della giornata, ben sapendo che tutti tenevano per sé le informazioni più interessanti. Nonostante la solida-rietà, tra loro c'era pur sempre concorrenza.

Dopo cena si trasferirono al bar insieme agli altri giornalisti. "Che incre-dibile tribù!" pensò Lion, affascinato dalle conversazioni che s'incrociava-no, dagli stravaganti aneddoti e dalla personalità di alcuni inviati.

«Hai già spedito qualche foto?» gli chiese Miranda. «Lo farò domani. Spero di avere fortuna: se le vendono subito, potrò

fermarmi; altrimenti dovrò tornare.» «Ti arrendi facilmente» replicò Miranda sarcastica. «Direi piuttosto che sono realista e che posso correre solo determinati ri-

schi. Non ti ho ancora domandato da dove vieni.» «Perché me lo chiedi?» «Perché non sono riuscito a capire di dove sei. Lavori per un'emittente

televisiva indipendente. Parli un inglese perfetto, ma con un leggero accen-to che non ho ancora identificato. Ti ho sentita chiacchierare in francese con una collega, ma poi ti sei imbarcata in una discussione con un tizio della televisione messicana, e dal casino che stavi facendo senza nemmeno lasciarlo ribattere ho capito che padroneggi perfettamente anche lo spagno-lo.»

«Sei proprio curioso.» «Hai qualche motivo per non rispondermi?» «Sì, il motivo è che non ne ho voglia. Vedi, io non vengo da nessuna

parte. Odio le bandiere, gli inni nazionali e tutto quello che divide gli uo-mini.»

«Ma sarai pur nata in qualche posto...» «Sì, ma non appartengo a quel posto né a nessun altro. Preferisco essere

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apolide.» «Hai un passaporto da apolide?» domandò Lion incuriosito. «Ho un passaporto di un paese dell'Unione Europea, dato che per passa-

re le frontiere devi dimostrare la tua identità e avere una residenza.» «Come vuoi tu, non me lo dire.» «Invece te lo dirò. Mio padre è nato in Polonia, ma i suoi genitori erano

tedeschi. Mia madre è nata in Inghilterra, ma suo padre era greco e sua madre spagnola. Io sono nata in Francia... dunque, secondo te, di che na-zionalità sono?»

«Cosa facevano i tuoi?» «Mio padre faceva il pittore, mia madre la stilista. Non erano di nessun

posto e vivevano dappertutto. Odiavano le frontiere.» «E ti hanno trasmesso la loro ostilità.» «Ho imparato a odiarle da sola, non c'è stato bisogno che me lo inse-

gnassero.» Miranda smise di parlare con Lion e si unì alla conversazione generale. Lui riuscì a sentire che i giornalisti spagnoli stavano organizzando un

viaggio a Bassora, mentre gli svedesi volevano andare a Tikrit, la città na-tale di Saddam.

«E fu, Lion, rimarrai a Baghdad?» La domanda gliel'aveva rivolta un giornalista francese che aveva cono-

sciuto ad Amman. Lion attese un attimo prima di rispondere. Poi decise di dire la verità.

«Io vorrei visitare l'antica Ur.» «E perché?» volle sapere il francese. «Mi hanno parlato di una spedizione archeologica che sta lavorando da

quelle parti, e può darsi che riesca a realizzare un servizio sugli scavi.» «E dove si trova esattamente questa spedizione?» insistette il tizio. «Ho capito a cosa ti riferisci» intervenne una donna tedesca. «È la spedi-

zione del professor Picot, no?» «Penso di sì. In verità non ne so molto, ma credo che sia interessante»

rispose Lion. «Mi pare che abbiano trovato i resti di un palazzo o di un tempio e che ci

potrebbero essere delle tavolette molto interessanti con una versione della Genesi. Il "Frankfurter" ha pubblicato un articolo a questo proposito» spiegò la tedesca. «Lo so perché alla spedizione partecipano parecchi pro-fessori e archeologi provenienti dalla Germania. Ma non credo che tutto ciò adesso sia importante.»

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«Per voi forse no, ma se riesco a fare un buon reportage fotografico di questi scavi e l'agenzia lo vende a qualche rivista specializzata...» si giusti-ficò Lion.

«Non è una cattiva idea» disse una giornalista italiana. «Fino a che Bush non bombarda dobbiamo pur tenerci occupati» com-

mentò uno svedese. «Ragazzi, io sono un indipendente, non mi fregate il servizio!» si lamen-

tò Lion. «Non ti ruberemo nulla. Qui siamo abituati a dividere tutto» ribatté Mi-

randa. «Ma voi lavorate per network televisivi e importanti testate giornalisti-

che, mentre io sono venuto allo sbaraglio e pagandomi pure il viaggio...» continuò lui.

«Non fare la lagna. Non c'è nessun segreto in quella spedizione; le in-formazioni che ci ha riferito la nostra collega sono già state pubblicate sui giornali» gli fece notare Miranda.

«E pure in Italia» sottolineò l'inviata speciale di un'agenzia romana. Lion interpretò ancora per un po' la parte del novellino preoccupato, poi

se ne andò in camera. Doveva prepararsi per il trasferimento a Safran, a-vesse avuto o no il permesso del ministero dell'Informazione.

Lo svegliò lo squillo del telefono. Alì Sidqui sembrava di buonumore. «Ho belle notizie per lei. I miei superiori ritengono che il suo viaggio a

Safran e il reportage sulla missione archeologica siano un'ottima idea. L'accompagneremo laggiù.»

«La ringrazio davvero, ma preferirei organizzarmi per conto mio.» «Mi dispiace, non è possibile. Per andare da quelle parti è necessario a-

vere un permesso governativo. È zona militare e la spedizione ha un la-sciapassare ufficiale. Non le creeranno problemi solo se avrà il benestare di Baghdad. Per cui o accetta di farsi accompagnare da noi oppure dovrà rinunciare al suo progetto.»

Lion accettò. Non aveva alternative. Alì Sidqui gli disse di passare quel-la mattina stessa all'ufficio stampa del ministero per organizzare il viaggio. Conosceva qualche altro collega interessato a trasferirsi a Safran? Lion ri-spose di cattivo umore che preferiva non condividere con nessuno la sua idea: che gli altri ci andassero pure quando lui fosse tornato con il suo re-portage.

Al ministero dell'Informazione, Alì Sidqui gli presentò il suo capo. Co-

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stui sembrava entusiasta all'idea che in Gran Bretagna venisse pubblicato un servizio sugli scavi condotti dal professor Picot.

«Gli intellettuali europei non ci abbandonano» disse il responsabile del-l'ufficio stampa.

Lion assentì. Gli interessava così poco quel che diceva quel funzionario di Saddam, che si mise a riempire un questionario dopo avere fotocopiato il suo passaporto.

«La chiameremo nel giro di un paio di giorni. Si tenga pronto; suppongo che non abbia problemi a viaggiare in elicottero.»

«Non lo so, non ci sono mai salito» mentì Lion. Tom Martin aveva appena ricevuto un messaggio da parte di Lion. Il di-

rettore di Photomundi gli aveva inoltrato all'indirizzo di posta elettronica che Lion gli aveva comunicato una lunghissima lettera in cui il presunto fotoreporter descriveva le proprie impressioni su Baghdad e annunciava di considerarsi fortunato per essere riuscito a raggiungere una località chia-mata Safran. Gli inviava poi una serie di foto chiedendogli di fare il possi-bile per venderle.

Il direttore di Photomundi non s'interessò particolarmente all'e-mail di Lion. Era pagato a sufficienza per non vedere, non sentire e, soprattutto, starsene zitto. Avrebbe invece provato a vendere le foto; erano meglio di quanto sperasse, oltretutto non si aspettava proprio di ricevere del materia-le da quel Lion.

Tom Martin si immerse nella lettura del messaggio del suo uomo in Iraq. Lion era a Safran, e con la benedizione del regime di Saddam.

Oggi sono arrivato a Safran. L'elicottero su cui ho viaggiato era

un vecchio rottame sovietico che faceva un rumore infernale. Qui ci sono più di duecento persone al lavoro; il capo della spe-

dizione, il professor Yves Picot, è ossessionato da questa corsa contro il tempo. Sa bene di non averne molto. Ho conosciuto i membri più autorevoli del gruppo, che amichevolmente mi hanno descritto l'importanza del lavoro che stanilo facendo. Uno degli archeologi, un certo Fabián Tudela, mi ha spiegato che il tempio che stanno portando alla luce è dell'epoca di un re citato nella Bibbia, che si chiamava Amrafel. Spero che le fotografie e il re-portage interessino i lettori, vista l'importanza del lavoro in que-stione.

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Nel campo c'è grande eccitazione dato che, a quanto pare, è at-teso qui il nonno di Clara Tannenberg, una delle archeologhe. La notizia è arrivata prima di me e tutti parlavano di questo perso-naggio. C'è gente che solo a sentirne il nome si mette a tremare. Dovrebbe arrivare fra tre o quattro giorni. Stanno preparando una casa e hanno fatto arrivare dei mobili da Baghdad perché possa stare il più comodo possibile.

Per curiosità ti dirò che questa archeologa viene accudita da una donna, una sciita coperta da capo a piedi. Mangia solo quello che le prepara lei, una vecchia serva che si occuperà anche del nonno. Mi pare di aver capito che lui verrà accompagnato dal marito del-la nipote, che riveste un importante incarico presso il ministero della Cultura, da un medico e da un'infermiera, a cui stanno pre-parando l'alloggio, dopo avere allestito un ospedale da campo ar-rivato dal Cairo. È evidente che l'uomo deve essere malato.

Ti parlo di loro dato che qui tutto pare girare attorno alla visita che il nonno farà alla nipote archeologa.

Questo sito pare più un fortilizio che un'innocente spedizione archeologica, ma spero di poter portare a buon fine il reportage.

Il presidente della Global Group sorrise. Non aveva alcun dubbio che

quel Lion Doyle sarebbe riuscito a portare a termine quel che eufemistica-mente definiva "reportage" e che non sarebbe stato altro che la punizione della famiglia Tannenberg.

Aveva avuto fortuna con quel caso. Trovare i Tannenberg in Iraq sareb-be risultato più complicato del previsto se lui non fosse già stato in posses-so di informazioni grazie al suo amico Paul Dukais. Gli venne da pensare che la vita è piena di incredibili casualità, perché altrimenti non si poteva spiegare il fatto che Dukais gli avesse chiesto degli uomini da mandare in Iraq per controllare Clara Tannenberg e che poco dopo si fosse presentato nel suo ufficio il signor Burton offrendogli due milioni di euro per elimina-re quella stessa famiglia.

Era ancora incerto se fare menzione a Paul Dukais del secondo incarico che gli era stato affidato sui Tannenberg, ma alla fine decise di lasciar per-dere. Era meglio mantenere il segreto professionale, soprattutto dal mo-mento che i suoi interessi non andavano contro quelli di Paul.

Compose il numero del cellulare del misterioso e sfuggente signor Bur-ton. Non ottenne risposta fino al quinto squillo.

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«Sì?» «Signor Burton, volevo informarla che un mio amico ha visto i suoi a-

mici; sappia che stanno bene, tanto il nonno quanto la nipote e suo marito. Sfortunatamente il nonno è infermo, anche se non conosco la gravità della malattia, ma credo che potrò scoprirlo abbastanza in fretta.»

«Non c'è nessun altro membro della famiglia?» «Nessuno, che si sappia.» «Porterà a termine il lavoro?» «Naturalmente.» «C'è dell'altro?» «Al momento no, a meno che non voglia conoscere tutti i dettagli.» «Voglio essere informato su ogni cosa.» «I suoi amici sono nel Sud del paese, in un magnifico villaggio. La nipo-

te, come le ho già detto, sta lavorando a capo di un gruppo numeroso a cui il nonno si unirà fra poco. Non stia in pensiero per loro, sono protetti, non solo dalle forze dell'ordine ma anche da un servizio di sicurezza privato.»

«Nient'altro?» «Diciamo che queste sono le notizie più importanti.» «Dobbiamo vederci?» «Non è necessario. La richiamerò appena avrò qualche novità.» «Ci conto.» Berta aveva sollevato gli occhi dal libro e guardava preoccupata suo pa-

dre. «Chi era?» gli domandò. «Uno dell'università» rispose Hans Hausser. «Perché non ti ritiri, una buona volta? Non hai certo bisogno di lavorare.

Hai sempre sostenuto che non vedevi l'ora di andare in pensione per legge-re e per pensare, ma non mi sembra che tu lo stia facendo.»

«Lascia che finisca i miei giorni come mi pare. Andare all'università e stare con i giovani mi fa sentire vivo. Alla mia età il tempo non passa mai se sei solo.»

«Ma tu non sei solo!» protestò Berta. «Non contiamo nulla i bambini e io?»

«Per favore, tu sei la cosa più importante per me! Però devi cercare di capire che ho bisogno di sentirmi attivo, di credere che non sono solo un vecchio inutile e che posso servire ancora a qualcosa.»

Hans si alzò e abbracciò la figlia. Le voleva più bene che a chiunque al-tro, era tutto ciò che gli rimaneva. Berta sentì l'emozione nell'abbraccio di suo padre.

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«Hai ragione; ma non posso fare a meno di preoccuparmi per te. Ulti-mamente ti stai comportando in modo strano.»

«Berta, lasciami almeno i miei segreti.» «Io non ho mai avuto segreti nei tuoi confronti» protestò lei. «Ma io sono tuo padre, e i padri non possono raccontare tutto ai figli.

Anche tu non dici tutto ai tuoi, o sbaglio?» «Ma papà, sono ancora così piccoli...» «E anche tu lo sei per me. A ogni modo, stavo scherzando. Non ho se-

greti per te, ma mi piace sentirmi indipendente e andare e venire senza do-ver dare spiegazioni. In realtà, l'unica cosa che faccio è vedere dei vecchi amici.»

Hans Hausser continuò a parlare per un po' con sua figlia, anche se sen-tiva una stretta alla bocca dello stomaco. Tom Martin gli aveva appena ri-ferito che Alfred Tannenberg era vivo, per cui potevano finalmente ottem-perare al giuramento che avevano fatto quando erano ragazzi. Doveva chiamare Mercedes, Carlo e Bruno per dire loro che quella che pareva una mera possibilità si stava realizzando. Quel vecchio malato a cui si riferiva Tom Martin era proprio il mostro che tenevano nascosto nelle loro viscere. La prima telefonata che fece fu a Mercedes. Sapeva che la sua amica, dal giorno in cui Carlo li aveva chiamati da Roma per dire che aveva trovato Tannenberg, era in ansia al punto che aveva perso il sonno e l'appetito.

Mercedes ascoltò Hans e sentì il cuore accelerare i battiti. «Mi piacereb-be essere là» gli disse.

«Sarebbe un'imprudenza e tu lo sai bene; inoltre, non potresti fare nul-la.»

«Dovremmo uccidere noi Tannenberg, con le nostre mani, e dirgli chi siamo, affinché sappia il motivo per cui gli stiamo togliendo la vita.»

«Per favore, Mercedes!» «Ci sono cose che uno dovrebbe fare personalmente.» «Sì, ma date le circostanze noi non possiamo. Si trova in Iraq, in un vil-

laggio nel Sud del paese, protetto da uomini armati.» «Hai una figlia e dei nipoti, e anche Carlo e Bruno hanno una famiglia,

per cui capisco che voi non vogliate fare pazzie. Ma io sono sola, non ho nessuno, e alla mia età l'unica prospettiva è invecchiare in solitudine. Non ho niente da perdere.»

Hans Hausser si spaventò. Temeva che lei fosse davvero capace di anda-re in Iraq per cercare di uccidere personalmente Tannenberg. «Sai una co-sa, Mercedes? Nessuno di noi ti perdonerebbe se Tannenberg rimanesse in

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vita per colpa tua.» «Per colpa mia?» «Sì. Se vai in Iraq, ti arresteranno appena cercherai di avvicinarti a lui e

tutta l'operazione andrà in fumo. L'unico risultato che otterresti è che Tan-nenberg continui a vivere, mentre tu finiresti in un carcere iracheno, e noi... finiremmo in galera a nostra volta.»

«Non è detto che le cose debbano andare così.» «Sei così superba che non riesci nemmeno a ragionare.» Mercedes rimase in silenzio. Si sentiva ferita dalle parole di Hans. Sape-

va che lui aveva ragione, tuttavia... Aveva passato tutta la vita immaginan-do il momento in cui avrebbe affondato un coltello nel ventre di Tannen-berg mentre gli spiegava perché lo stava ammazzando.

Per molte notti aveva sognato di avvicinarsi a quell'uomo e di cavargli le unghie e gli occhi, o di azzannarlo come una lupa fino a veder sgorgare il suo sangue. Sentiva che toccava a lei togliergli la vita, che Tannenberg non sarebbe dovuto morire senza rendersi conto del perché.

La voce di Hans la riportò alla realtà. «Mercedes, sto parlando con te.» «E io ti sto ascoltando.» «Mi metterò in contatto con Carlo e Bruno; non sono disposto a finire in

galera perché la superbia e l'ira ti stanno annebbiando la ragione. Se ti in-trometterai, non vorrò sapere più nulla di questa faccenda, mi ritirerò. Non dovete più far conto su di me.»

«Come sarebbe a dire?» «Che non sono pazzo e mi rifiuto di correre rischi inutili. Carlo, Bruno,

tu e io siamo quattro vecchi. Sì, è proprio quello che siamo, e dobbiamo rassegnarci al fatto che qualcuno faccia il lavoro al posto nostro. Se hai cambiato idea dimmelo, ma, te lo ripeto, non contare sul fatto che appoggi una simile follia.»

«Mi spiace che ti sia arrabbiato...» «Sono più che arrabbiato...» «L'unico obiettivo della mia vita è che tutti i Tannenberg siano uccisi tra

i più atroci dolori.» «Ma non è necessario che li ammazziamo di persona.» «Non mi lascerete mai sola. Lo so.» «Pensa a ciò che ti ho detto. Ora chiamerò Carlo e Bruno. Ciao.» Il pro-

fessor Hausser interruppe la comunicazione preoccupato. Sapeva di aver parlato duramente alla sua amica, ma la temeva, aveva paura di quel che

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sarebbe stata capace di fare. Mercedes non aveva avuto altro obiettivo nel-la vita che trovare Tannenberg e ucciderlo. E non avrebbe esitato a farlo.

Carlo si preoccupò dopo che Hans gli ebbe spiegato la reazione di Mer-cedes, proprio quando avevano avuto la conferma che Tannenberg era vi-vo. La stessa cosa accadde con Bruno. Decisero che Carlo sarebbe andato a Barcellona per convincere Mercedes a non rovinare il piano sul quale si erano accordati. Bruno insistette per accompagnarlo, ma sia Hans sia Carlo sapevano che, se il loro amico fosse andato nella città catalana, Deborah avrebbe avuto un altro dei suoi attacchi d'ansia, per cui lo convinsero a trattenersi a Vienna; se Carlo non fosse riuscito a far ragionare Mercedes, ci avrebbero provato tutti e tre insieme, ma quella sarebbe stata l'ultima ri-sorsa.

A Barcellona pioveva a dirotto. Carlo si strinse nell'impermeabile e atte-

se pazientemente il suo turno per salire su un taxi che lo portasse in centro. Aveva con sé solo una piccola valigetta con l'indispensabile per una notte, ma la sua idea era di far ritorno a Roma quella sera stessa. Dipendeva tutto dalla testardaggine di Mercedes.

Il palazzo dove aveva sede l'impresa di Mercedes era situato alle pendici della collina del Tibidabo. L'impiegata alla reception lo accompagnò in una sala d'attesa mentre avvisavano, così disse, la signora Barreda. Un at-timo dopo tornò in compagnia di Mercedes.

«E tu cosa ci fai qui?» gli chiese. «Avevo delle cose da sbrigare a Barcellona e ho pensato di venire a tro-

varti.» Mercedes lo prese per un braccio e lo condusse nel suo ufficio. Quando,

dopo che la segretaria ebbe portato loro un caffè, rimasero soli, i due vec-chi amici si guardarono negli occhi.

«Ti ha chiesto Hans di venire qui...» «No, l'ho deciso da solo. Ma Hans mi ha fatto preoccupare parecchio e

ha messo in ansia anche Bruno. Che vuoi fare, Mercedes?» La voce di Car-lo lasciava trapelare una sfumatura di sofferenza ma era ferma e non dava spazio a concessioni o giustificazioni.

«Non riesci a capire che voglio ucciderlo personalmente?» «Sì, posso comprendere il tuo desiderio, anch'io vorrei farlo, così come

Hans e Bruno. Ma non è certo la decisione migliore. Non ne saremmo ca-paci.»

«Non è poi tanto difficile infilare un coltello nel ventre di un uomo.»

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«È difficile andare in Iraq, arrivare nel luogo in cui Tannenberg si trova, avvicinarsi a lui. È difficile trovare l'occasione per accoltellarlo. Per questo abbiamo incaricato un professionista, un uomo abituato ad agire in situa-zioni simili e che saprà scegliere il momento giusto per eliminarlo. Noi non ci riusciremo, nonostante lo odiamo con tutte le nostre forze e sarem-mo assolutamente capaci di ucciderlo con le nostre mani.»

«Dovreste almeno lasciarmi provare...» si lamentò Mercedes. «Ma per favore! Non avremo una seconda occasione. Se ci provi e non

ci riesci, nessuno si potrà più avvicinare a Tannenberg e la nostra vendetta diventerà impossibile. Non hai il diritto di farlo, assolutamente.»

«Ti stai arrabbiando anche tu con me...» «Io? Non scherzare. Nessuno di noi è arrabbiato con te. Non farmi dire

cose che già sai. Il sentimento che ci unisce è indistruttibile, capiti quel che capiti. Tu, però, non puoi dimenticare il nostro accordo. È una vendetta non tua personale, Mercedes, ma di tutti; abbiamo giurato che l'avremmo compiuta insieme, e tu non puoi rompere il giuramento.»

«E perché non ci andiamo insieme?» «Perché sarebbe una fesseria.» Rimasero in silenzio a riflettere. «So che avete ragione, ma...» disse infine lei. «Se andrai in Iraq, ci rovinerai e non riuscirai a uccidere Tannenberg. Se

sei decisa a farlo, devi dirmelo.» «Per favore, non farmi sentire una persona cocciuta!» «Non m'importa come ti senti, l'unica cosa che voglio è che tu rifletta e

continui a ragionare, come facevi quando non riuscivi nemmeno ad alzarti da terra, come sei stata capace di fare durante tutti questi anni, come hai fatto negli ultimi tempi, da quando abbiamo capito che stavamo per trovare Tannenberg.»

«Gli arabi dicono che la vendetta è un piatto che si gusta freddo.» «E hanno ragione. Noi non dimenticheremo e non perdoneremo mai, ma

dobbiamo agire con freddezza. Altrimenti la nostra sofferenza non sarà servita a nulla.»

«Lasciami pensare.» «No. Mi devi dare una risposta ora. Voglio sapere se è necessario annul-

lare l'operazione in Iraq. Non possiamo mettere in pericolo la vita dell'uo-mo che abbiamo inviato.»

«È un killer professionista.» «L'hai detto: professionista. Per cui, se mettiamo in pericolo la sua vita

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perché interferiamo col suo lavoro, saremo responsabili delle conseguenze. Abbiamo stipulato un contratto con un'agenzia, un'agenzia di omicidi.»

«Un'agenzia di sicurezza.» «Dai, Mercedes! Quegli uomini sono pronti a uccidere, per questo si

fanno pagare.» «Hai ragione, piantiamola con le sciocchezze.» «E dunque?» «Devo pensarci, Carlo...» «Quindi non ti ho convinta...» «Non lo so... lasciami riflettere.» «Perdio, Mercedes, non fare sciocchezze!» «Non vi tradirò mai. Non vi dirò che non ho intenzione di farlo mentre

penso il contrario. Preferisco che mi odiate piuttosto che mentirvi.» «Preferisci che Tannenberg viva» fu la conclusione di Carlo. «No!» gridò Mercedes con rabbia. «Come puoi dire una cosa simile? Io

voglio ucciderlo con le mie mani! È questo che desidero!» «Vedo che è inutile cercare di ragionare con te. Sospenderemo l'opera-

zione. Hans chiamerà Tom Martin perché richiami il suo uomo. È finita.» Mercedes guardò Carlo con ira. Si era piantata le unghie nella palma del-

la mano e una smorfia amara aveva trasformato il suo volto in un ghigno. «Non potete fare questo» mormorò.

«Certo che possiamo, ed è ciò che faremo. Hai deciso di rompere il giu-ramento fatto con noi, di mettere a rischio l'operazione. Se non vuoi più stare nella nostra barca, è finita. Rinunceremo alla vendetta ma non te lo perdoneremo mai, mai. Dopo avere cercato Tannenberg per tanti anni, ora lo abbiamo trovato, insieme a sua nipote; potevamo ucciderli, c'eravamo quasi riusciti, ma tu, improvvisamente, ce lo impedisci perché credi di do-verlo fare di persona. Va bene, l'hai voluto tu. Siamo arrivati fin qui insie-me, ma a partire da questo momento andrai per la tua strada.» Una vena pulsava sulla tempia sinistra di Carlo, mettendone in evidenza la tensione.

Mercedes, per l'ansia, sentiva un acuto dolore al petto. «Che stai dicen-do, Carlo...»

«Che non ci vedremo mai più. Che Hans, Bruno e io non vogliamo più saperne di te per il resto della vita e che non ti perdoneremo mai.» Carlo si sentiva esausto per i toni aspri di quella conversazione. Voleva molto bene a Mercedes e intuiva la sua enorme sofferenza, ma non poteva cedere alle sue richieste.

«Non accetto ultimatum» replicò lei, bianca come un lenzuolo.

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«Nemmeno noi.» Rimasero in silenzio, un silenzio imbarazzante e grave che era il prelu-

dio alla fine di un rapporto che pareva destinato a durare in eterno. Carlo si alzò dalla poltrona, guardò Mercedes e si diresse verso la porta.

«Me ne vado. Se cambi idea, chiamaci, ma fallo prima di stanotte. Domani Hans andrà a Londra per rompere il contratto con Tom Martin.»

Mercedes non parlò. Rimase a sedere, sprofondata nel sofà. Quando la sua segretaria entrò, pochi minuti dopo, si alzò. D'improvviso la donna sembrava invecchiata, come se le fossero spuntate migliaia di piccole ru-ghe che teneva nascoste, e una smorfia amara deformava il suo viso un tempo imperturbabile.

«Signora Mercedes, sta bene?» Mercedes non la stava ascoltando e non le rispose. La segretaria le si av-

vicinò e le mise una mano sulla spalla temendo una reazione. «Si sente male?» insistette. Mercedes uscì da quello straniamento. «Sono solo un po' stanca.» «Vuole che le porti qualcosa?» «No, non ce n'è bisogno. Non ti preoccupare.» «Disdico il pranzo con il sindaco?» «No. Chiama l'architetto dei lavori a Mataró e passamelo.» La segretaria esitò, ma non ebbe il coraggio di dirle altro; il suo capo

non era una donna con la quale si poteva insistere. Dopo che Mercedes fu rimasta sola, trasse un profondo respiro. Aveva

voglia di piangere, ma erano troppi armi, da quando era morta sua nonna, che non versava più una lacrima, così si sforzò di trattenersi mentre beveva un bicchiere d'acqua.

Lo squillo del telefono la fece sussultare. Pensò che poteva essere Carlo, ma la voce della segretaria le annunciò che aveva in linea l'architetto dei lavori a Mataró.

Carlo Cipriani era sconsolato. La discussione con Mercedes era stata una

dura battaglia. Sapeva di non essere riuscito a convincerla; doveva chiama-re Hans e Bruno per informarli.

Se Mercedes fosse andata in Iraq, non solo avrebbe corso dei pericoli, ma avrebbe anche intralciato l'operazione. Dovevano decidere cosa fare. Forse, se Bruno avesse parlato con Mercedes, avrebbe avuto più fortuna di lui e di Hans.

All'aeroporto, dopo avere acquistato un biglietto per il primo volo per

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Roma, cercò un telefono da cui chiamare Bruno. Rispose Deborah e gli disse di attendere mentre gli passava Bruno. «Carlo, da dove chiami?» «Dall'aeroporto di Barcellona. Mercedes non vuole sentire ragioni, ab-

biamo discusso; sono distrutto, è stata una conversazione molto dura.» Bruno rimase in silenzio. Aveva confidato sul fatto che Carlo sarebbe

stato capace di convincere Mercedes. Se lui non c'era riuscito, nessun altro avrebbe potuto farlo.

«Bruno, ci sei?» «Sì, scusami, è che mi hai lasciato senza parole. Che facciamo ora?» «Sospendiamo l'operazione.» «No!» «Non abbiamo scelta. Se Mercedes si impunta, sarebbe una pazzia con-

tinuare. Hans deve andare a Londra...» «Non possiamo rinunciare proprio adesso! Abbiamo passato tutta la vita

sperando di vendicarci e ora ci ritiriamo. Io non ci sto!» «Bruno, per favore. Non ci sono alternative, te l'ho detto!» «No, se voi volete ritirarvi, fatelo pure. Io andrò a Londra, parlerò con

quell'uomo e pagherò l'operazione di tasca mia.» «Siamo diventati tutti pazzi!» «No, la pazza è Mercedes. È lei la causa di tutto» sussurrò Bruno. «Per favore, non discutiamo, dobbiamo vederci. Verrò a Vienna.» «Sì, dobbiamo vederci. Chiamerò Hans.» «Dammi qualche minuto perché ci parli prima io. Sarà impaziente di sa-

pere cos'è successo con Mercedes.» «D'accordo. Poi uno di voi mi chiami per farmi sapere dove ci incontre-

remo.» Hans Hausser attendeva con impazienza la telefonata di Carlo, anche se

non immaginava che sarebbe arrivata così presto. Aveva serbato la speran-za che l'amico sarebbe riuscito a convincere Mercedes e sentì il terreno sprofondare sotto i suoi piedi quando venne a sapere che non era stato così. Stabilirono di vedersi a Vienna il giorno seguente. Lì avrebbero deciso che cosa fare.

Quando Carlo giunse a Roma andò direttamente in clinica. Aveva voglia di vedere i suoi figli, di un po' di normalità.

Lara e Antonino non erano ancora tornati dalla pausa pranzo e non c'era nemmeno Maria, la sua segretaria. Sulla scrivania del suo studio trovò la

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pratica relativa alla moglie di un amico che doveva essere operata di lì a un paio di giorni da Antonino. Si preoccupò alla vista dei risultati delle analisi e dell'ecografia. Avrebbe dovuto parlare con suo figlio.

Telefonò agli uffici dell'Alitalia e prenotò un biglietto per Vienna. Sa-rebbe partito alle sette di mattina del giorno successivo e rientrato prima di sera. I viaggi in giornata lo stancavano meno che dormire fuori casa. Inol-tre, così aveva il vantaggio che i suoi figli non si sarebbero preoccupati di saperlo fuori Roma.

Lara fu la prima ad arrivare. «Non ti ho visto stamattina in clinica, e non eri nemmeno a casa» disse a suo padre.

«Cosa volevi?» «Parlarti di Carol.» «Ho visto le analisi e l'ecografia. Non va per niente bene.» «Antonino è preoccupato.» «Voglio sapere che cosa ne pensa e, prima di prendere qualsiasi decisio-

ne, parlare con Giuseppe.» «Antonino ritiene che sarebbe meglio non operarla.» «Vedremo. Per il momento ripeteremo gli esami e, in ogni caso, spo-

stiamo di un paio di giorni l'intervento. Dobbiamo essere sicuri di quello che facciamo.»

«Il cancro potrebbe essersi esteso all'intestino.» Il quel momento entrò Maria seguita da Antonino. «Ciao, papà. Dove ti eri cacciato?» «Dovevo sbrigare una faccenda.» «Hai la faccia stanca.» «Parliamo di Carol.» «Secondo me, oltre allo stomaco, potrebbe avere l'intestino intaccato.

Non so cosa troveremo se apriamo.» «Dobbiamo operarla.» «È molto anziana...» «Ha settantacinque anni, come me.» «Ma non è nelle tue condizioni fisiche» protestò Lara. «E tu cosa proponi? Un trattamento palliativo contro il dolore e poi la-

sciarla morire?» «No, credo che dobbiamo rifare gli esami, eseguire un'ecografia più det-

tagliata al Gemelli, e poi decidere se operare» spiegò Antonino. «Va bene, chiamerò il primario del Gemelli affinché le facciano l'eco-

grafia oggi stesso. Domattina ripeterete il resto delle analisi e dopodomani

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la ricovereremo. Adesso lasciatemi chiamare Giuseppe.» Carlo trascorse il resto della giornata nello studio. Quando uscì, erano

circa le nove di sera. Era stanco e il giorno seguente doveva svegliarsi al-l'alba.

Deborah li ricevette con la faccia scura. Bruno era teso; si vedeva che

aveva discusso con sua moglie. «È una testarda, non capisce quello che vogliamo fare.» «Ma è al corrente delle nostre intenzioni?» domandò Hans preoccupato. «No, ma sa che l'abbiamo trovato. È mia moglie...» si scusò Bruno. «Anch'io l'avrei detto alla mia» lo giustificò Carlo. «E io alla mia... non ti preoccupare» disse Hans. Quando Deborah entrò in sala con un vassoio con il caffè, li guardò

nuovamente con l'aria seccata. «Deborah, lasciaci soli, dobbiamo parlare» le chiese Bruno. «Sì, lo farò, ma prima desidero che mi ascoltiate. Io ho sofferto quanto

voi, anch'io ho visto l'inferno, ho perso i genitori, i parenti, gli amici. Sono una sopravvissuta, come voi. Dio ha voluto risparmiarmi e per questo lo ringrazio. Per tutta la vita ho pregato affinché l'odio e il risentimento non mi infettassero l'anima. Non è stato facile, né voglio dire di esserci riuscita. Ma quello che so è che non possiamo vendicarci con le nostre mani perché questo ci trasformerebbe in assassini. Abbiamo dei tribunali, qui in Ger-mania, e in tutta Europa. Si potrebbe denunciare quell'uomo e processarlo. È il sistema che deve fare giustizia. In che cosa vi trasformereste se faceste assassinare un uomo e tutta la sua famiglia?»

«Nessuno ha detto che lo vogliamo assassinare» rispose serio Bruno. «Vi conosco, soprattutto te. Avete trascorso tutta la vita aspettando que-

sto momento. Avete alimentato l'un l'altro la vostra sete di vendetta per quel giuramento fatto da ragazzi. Nessuno di voi ora se la sente di fare marcia indietro. Dio non vi potrà perdonare.»

«Occhio per occhio, dente per dente» commentò Hans. «Vedo che è proprio inutile parlare con voi» concluse Deborah uscendo

dalla stanza. I tre uomini restarono in silenzio per un minuto. Poi Carlo riferì detta-

gliatamente della sua discussione con Mercedes. Decisero che Bruno l'a-vrebbe chiamata, sarebbe stato l'ultimo tentativo.

«Ma non sospenderemo l'operazione» insistette questi. «Se non lo facciamo, dovremo però informare Tom Martin della situa-

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zione...» suggerì Hans. «Potremmo andare a trovarlo e spiegargli quel che sta succedendo, ma

prima aspettiamo di vedere se Bruno avrà più fortuna con Mercedes; io non sono stato capace di convincerla, forse avrei dovuto insistere...»

«Dài, Carlo, hai fatto quel che potevi» lo consolò Bruno. «Sappiamo be-ne com'è fatta Mercedes. Io ho meno possibilità di te di convincerla, non facciamoci troppe illusioni.»

«È incredibile quanto sia testarda... Forse, se la incontrassimo tutti e tre insieme...» propose Hans.

«Non servirebbe a niente» fu la recisa risposta di Bruno. «Allora, chiamala subito; aspetteremo che tu abbia parlato con lei e poi

vedremo il da farsi» suggerì Carlo. Bruno si alzò e si diresse verso lo studio. Preferiva parlare con Mercedes

lontano dalle orecchie di Deborah. Mercedes era in ufficio. Bruno avvertì una punta d'ansia nella sua voce. «Bruno, sei tu?» «Sì, Mercedes, sono io.» «Sono proprio a terra.» «Anche noi.» «Spero che mi comprendiate.» «No, non riusciamo a capire perché desideri fare di testa tua, senza tene-

re conto della nostra opinione. Hai deciso di infrangere il giuramento che avevamo fatto. Vorrei che tornassi in te, ci stai facendo soffrire moltissi-mo.»

Rimasero zitti per qualche istante, che parve interminabile. Si sentivano i loro respiri, ma né Mercedes né Bruno riuscivano a proferire parola.

Alla fine fu Bruno a rompere il silenzio. «Mi stai ascoltando, Merce-des?»

«Sì, Bruno, ti ascolto, e non so che dire.» «Voglio che tu sappia che da allora non avevo mai più sofferto come in

questi ultimi giorni. E lo stesso succede a Carlo e a Hans. La cosa peggiore è che hai distrutto la nostra principale ragione di vivere, ci sembra che tutti questi anni non siano serviti a nulla. Tua nonna non si sarebbe comportata così, lo sai bene.»

Rimasero nuovamente in silenzio. Bruno si sentiva esausto. Aveva la bocca secca e il mal di stomaco; e poi stava anche per mettersi a piangere.

«Mi dispiace per il dolore che sto causando» riuscì a mormorare Merce-des.

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«Ci stai togliendo anni di vita. Se persisti nel tuo proposito, la mia esi-stenza non avrà più alcun senso. Per che cosa dovrei tirare avanti?» La di-sperazione di Bruno era reale. Le parole arrivavano dal profondo del cuore. Esprimeva la propria angoscia e quella dei suoi amici, e Mercedes lo sape-va.

«Mi dispiace. Perdonatemi... Va bene, credo che non farò nulla.» «Le scuse non bastano. Devo esserne certo» replicò Bruno. «D'accordo, ti do la mia parola: non prenderò iniziative. E, se cambierò

opinione, ve lo farò sapere.» «Ma non puoi tenerci sulla corda...» «Hai ragione, ma non posso nemmeno mentirvi. Non agirò di testa mia,

e se dovessi cambiare idea vi telefonerò.» «Va bene. Grazie.» «E Carlo e Hans?» «Sono distrutti, come me.» «Di' loro di stare tranquilli. Abbiamo notizie?» «Nessuna. Dobbiamo aspettare.» «Aspetteremo.» «Grazie, Mercedes.» «Non mi ringraziare, sono io che devo farmi perdonare.» «Non ce n'è bisogno, la cosa importante è che noi quattro restiamo uni-

ti.» «Siamo stati sul punto di mandare a monte la nostra amicizia. Mi dispia-

ce.» «Non dire altro, Mercedes.» Bruno riagganciò il telefono senza riuscire a

trattenere le lacrime. Piangeva mentre ringraziava Dio di averlo aiutato a convincere Mercedes. Poi andò in bagno a lavarsi la faccia e quindi tornò in sala.

Carlo e Hans aspettavano in silenzio, pensierosi e impazienti. «Non farà nulla» disse Bruno entrando. I tre uomini si abbracciarono, piangendo senza provare vergogna. Bruno

aveva appena vinto una battaglia che pareva impossibile.

25 Clara era nervosa, mentre aspettava di udire il rumore dell'elicottero su

cui viaggiavano suo nonno e Ahmed. Suo marito l'aveva sorpresa annun-ciandole che avrebbe accompagnato il vecchio a Safran.

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Era anche preoccupata per lo stato di salute di suo nonno; Ahmed le a-veva detto di stare tranquilla, ma il fatto che avessero allestito un ospedale da campo non era certo un buon segno.

Aveva aiutato per tutto il giorno Fatima a sistemare la casa dove avrebbe vissuto insieme a suo nonno e non si era neppure avvicinata alla zona degli scavi. Sapeva che il nonno era esigente e inoltre, se la sua salute era peg-giorata, avrebbe dovuto disporre di certe comodità durante la permanenza a Safran. Non aveva idea di quanto tempo si sarebbe fermato lì e neppure di quanto si sarebbe trattenuto Ahmed.

Dalla finestra vide Fabián dirigersi di corsa verso di lei. «Credo che abbiamo trovato qualcosa» le disse con la voce carica di

emozione. «Che cosa? Dimmi...» domandò ansiosa. «Abbiamo rinvenuto le fondamenta di diversi edifici situati a meno di

trecento metri dal tempio, nel luogo dove avevamo iniziato a scavare una settimana fa. Non sembrano molto grandi, quindici metri di lunghezza, e ciascuno di essi ha una stanza principale di forma triangolare.

«In una di quelle stanze abbiamo trovato la statua di una donna seduta, forse una dea della fertilità, e anche alcuni frammenti di ceramica nera.

«Ma c'è dell'altro: la squadra di Marta ha portato alla luce una serie di bulla e di calculi in una stanza del tempio. Abbiamo diversi coni, di cui al-cuni perforati, piccole e grandi sfere, di cui alcune perforate, e anche un paio di sigilli, uno con la figura di un toro, l'altro con un'immagine simile a un leone... Ti rendi conto di cosa significa? Yves sembra impazzito, e Mar-ta non ti dico.»

«Vengo subito!» gridò Clara entusiasta. La figura di Fatima apparve sulla porta di casa. «Tu non vai da nessuna

parte. Non abbiamo ancora finito e tuo nonno sta per arrivare» la rimpro-verò la vecchia governante.

Si udì il rumore di un elicottero, per cui Clara non replicò. Per quanto desiderasse correre a vedere gli scavi, sapeva che non l'avrebbe potuto fare fino a che suo nonno non si fosse sistemato. C'erano ancora poche ore di luce, ma anche con il buio lei sarebbe andata a vedere.

Ayed Sahadi, scortato da due uomini armati, entrò con passo deciso nel-la casa. «Signora, l'elicottero sta per atterrare. Vuole seguirci?»

«Lo so, Ayed, l'ho sentito... sì, vengo con voi.» Uscì, seguita da Fatima. Salirono su una jeep e si diressero verso il luo-

go in cui l'elicottero si stava posando.

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Clara sussultò vedendo il nonno. Era dimagrito tanto che i vestiti sem-bravano non contenere altro che ossa rivestite di pelle. I suoi occhi azzurro acciaio parevano vagare nelle orbite e lui si muoveva come al rallentatore, benché cercasse di camminare eretto.

Quando Clara lo abbracciò, sentì che il nonno non aveva più forze e per la prima volta in vita sua si rese conto che lui era un essere mortale e non un dio, come invece l'aveva considerato fino allora.

Fatima accompagnò il padrone in camera sua, dove aveva disposto tutto come piaceva a lui, malgrado lo spazio esiguo. Il medico le chiese di uscire per visitare Tannenberg e cercare di valutare le conseguenze che il viaggio dal Cairo a Baghdad, e da lì fino a Safran, avevano avuto sull'ammalato, Fatima borbottò quando vide che accanto al dottore c'era un'infermiera.

Quando il medico uscì dalla stanza trovò Clara sulla porta in attesa, im-paziente.

«Posso entrare?» gli chiese lei. «Sarebbe meglio lasciarlo riposare un poco.» Fatima chiese se doveva portargli qualcosa da mangiare e il medico si

strinse nelle spalle. «Secondo me, dovrebbe dormire; è sfinito ma, se vuole, gli chieda se ha

fame appena Samira sarà uscita. Gli sta facendo un'iniezione.» «Noi non ci conosciamo, dottore» disse Clara con una certa diffidenza

all'uomo giovane, alto e magro che accompagnava suo nonno insieme alla bella infermiera che si trovava ancora nella stanza.

«Lei non se lo ricorda, ma ci siamo incontrati al Cairo, all'ospedale ame-ricano, quando operarono suo nonno. Sono l'assistente del dottor Aziz, mi chiamo Salam Najeb.»

«Ha ragione, mi scusi...» «Non si preoccupi, ci siamo visti solo un paio di volte.» «Mio nonno è... è molto grave?» «Sì. Ha una forza straordinaria, ma il tumore si è esteso e lui non vuole

farsi operare, e poi l'età...» «Se venisse operato, servirebbe a qualcosa?» domandò Clara temendo la

risposta. Il medico rimase qualche secondo in silenzio, come cercando le parole

giuste per risponderle. «Non lo so, però a giudicare da come sta...» «Quanto tempo gli resta?» La voce di Clara era appena un sussurro. Lei

lottava per non cedere alle lacrime, ma soprattutto non voleva che suo nonno ascoltasse la conversazione.

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«Solo Allah può saperlo ma, secondo l'opinione del dottor Aziz e la mia, non più di tre o quattro mesi; a parer mio anche meno,»

L'infermiera uscì dalla stanza e sorrise timidamente a Clara in attesa di ordini dal medico.

«Gli ha fatto l'iniezione?» le chiese Salam Najeb. «Sì, dottore, adesso è tranquillo; ha detto che vuole parlare con la signo-

ra...» Clara entrò nella stanza del nonno seguita da Fatima. Alfred Tannenberg era coricato e pareva ancora più esile sotto le lenzuo-

la. «Nonno» mormorò Clara. «Ah, bambina mia! Siediti. Fatima, lasciaci soli, voglio parlare con mia

nipote. Ma mi piacerebbe che mi preparassi una buona cena.» Fatima uscì dalla stanza sorridendo. Se Tannenberg aveva appetito, allo-

ra l'avrebbe sorpreso con qualche manicaretto. «Sto morendo» disse Tannenberg prendendo la mano della nipote. La disperazione si disegnò sul volto di Clara, che a fatica riusciva a trat-

tenere le lacrime. «Che non ti venga in mente di metterti a piangere, non ho mai sopporta-

to la gente che piange, lo sai bene. Tu sei forte, sei come me, dunque ri-sparmiati le lacrime e parliamo.»

«Tu non morirai» riuscì a dire Clara. «Sì, morirò, e voglio evitare che uccidano te. Sei in pericolo.» «Chi mi vuole eliminare?» domandò Clara stupita. «Ancora non sono riuscito a scoprire chi c'era dietro quegli italiani che ti

hanno pedinato a Baghdad. E non mi fido di George né di Frankie, e nem-meno di Enrique.»

«Ma, nonno, sono i tuoi amici! Hai sempre detto che loro erano come te e che se un giorno ti fosse accaduto qualcosa mi avrebbero protetto...»

«Sì, era così in passato. Non so quanto vivrò, il dottor Aziz non mi dà più di tre mesi, dunque non perdiamo tempo con argomenti che affronte-remo più avanti. Voglio che tu abbia la Bibbia d'argilla perché sarà il tuo salvacondotto per poter iniziare una vita lontano da qui; sarà la tua lettera di presentazione. Dobbiamo trovarla perché non c'è denaro al mondo che possa comprare la rispettabilità.»

«Cosa vuoi dire...?» «Quello che sai e che hai sempre saputo anche se non ne abbiamo mai

parlato. Non posso lasciarti in eredità i miei affari perché non è quello che

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desidero per te. I miei affari moriranno con me e tu disporrai di denaro suf-ficiente per vivere il resto della tua vita senza preoccupazioni. Votati al-l'archeologia, fatti un nome, è quello che abbiamo sempre voluto entrambi, è lì che troverai la tua strada. In questo paese mi rispettano, compro e ven-do qualsiasi merce, procuro armi a gruppi terroristici, assecondo i capricci più stravaganti di principi e governanti, mi incarico di far sì che alcuni dei loro nemici smettano di infastidirli, e loro mi fanno dei favori; per esem-pio, chiudere un occhio davanti all'esproprio del loro patrimonio archeo-logico e artistico. Non ho intenzione di raccontarti per filo e per segno in che cosa consistono i miei affari, ma sono soddisfatto di ciò che ho ottenu-to. Sei delusa?»

«No, nonno, non potrei mai sentirmi delusa di te. Ti voglio bene, tantis-simo. Alcune cose le sapevo, capivo che i tuoi affari erano... complicati. Non ti giudico, non lo farei mai, sono sicura che hai sempre fatto ciò che ritenevi giusto.»

La lealtà incondizionata di Clara era l'unica cosa che commuoveva il vecchio. Sapeva che in quegli ultimi momenti poteva contare solo su di lei. Era in grado di leggere negli occhi della nipote e si rendeva conto che era sincera con lui, che non stava fingendo.

«Nel mio mondo» le disse «il rispetto ha molto a che vedere con la pau-ra, e io sto morendo, non è un segreto. Sono sicuro che l'assistente del dot-tor Aziz non terrà la bocca chiusa sul mio stato di salute. Dunque, gli av-voltoi volano già sulla mia testa, lo sento, sono qui. Si abbatteranno su di te appena io non ci sarò più. Pensavo che Ahmed si sarebbe incaricato di questa impresa e che ti avrebbe protetta, ma la vostra separazione mi ob-bliga a cambiare i piani.»

«Ahmed sa tutto riguardo i tuoi affari?» «Ne sa abbastanza; non è affatto un ingenuo, per quanto negli ultimi me-

si si sia fatto un sacco di scrupoli, ma ti proteggerà fino a che non sarai fuori dall'Iraq. L'ho pagato profumatamente.»

Clara provò un senso di nausea. Suo nonno aveva appena distrutto per sempre qualsiasi possibilità di recuperare il suo rapporto con il marito. Non glielo rimproverava, la stava solo preparando ad affrontare la realtà, e in quella realtà Ahmed veniva pagato per proteggerla. «Ma chi può voler-mi morta?»

«George, Frankie ed Enrique vogliono la Bibbia d'argilla. Sono sicuro che hanno mandato qui degli uomini pronti a portarcela via, se la trovere-mo. Non ha prezzo o, meglio, il suo prezzo è talmente elevato che loro si

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rifiutano di rispettare gli accordi.» «Quali accordi?» «C'entrano con un affare, il mio ultimo affare, visto che non mi resta

molto da vivere.» «Sarebbero capaci di farmi uccidere?» «Vogliono la Bibbia, dunque cercheranno di portarcela via non appena

la troveremo. Eviteranno di farti del male se non ci saranno difficoltà ma, se non gliela cederemo, faranno ciò che sarà necessario. I loro uomini sono pronti a tutto e, se ci sarà bisogno di uccidere, uccideranno. Io, al loro po-sto, farei lo stesso. Dunque cerco di indovinare i loro movimenti. Fino a che la Bibbia non salterà fuori tu non corri alcun rischio, ma dal momento in cui la troveremo inizieranno i problemi.»

«E tu sei sicuro che qui ci siano uomini mandati dai tuoi amici...» «Ci sono. Ayed Sahadi non li ha ancora scoperti, anche se sospetta di al-

cuni. Forse si sono infiltrati tra gli operai, tra i fornitori che vengono al-l'accampamento, e potrebbero addirittura far parte della squadra di Picot. Uccidere qualcuno è solo una questione di soldi, e i miei amici ne hanno più di quanti gliene servano, come ne ho io per proteggerti.»

Quella conversazione la stava lacerando, ma per nulla al mondo Clara sarebbe voluta apparire come una donna debole davanti a suo nonno e tan-to meno desiderava fargli credere che si stesse vergognando di lui o che lo stesse giudicando. E poi dentro di sé non gli rimproverava nulla, non le importava cosa suo nonno avesse fatto. Aveva sempre saputo che la sua era un'esistenza privilegiata in quella polveriera che era il Medio Oriente, dove solo pochi dispongono di tutte le ricchezze. Lei apparteneva alla cer-chia dei fortunati, per questo aveva sempre una scorta di uomini armati di-sposti a proteggerla a prezzo della vita. Suo nonno li pagava per quello. Sin da piccola sapeva quanto lui fosse potente e spietato e le piaceva il modo reverenziale in cui era stata trattata prima a scuola e poi all'universi-tà. No, non aveva mai ignorato il potere di suo nonno e se non aveva fatto domande era perché non voleva ricevere risposte che le avrebbero fatto male. Aveva preferito rimanere in un'ignoranza tanto comoda quanto ipo-crita.

«Che cos'hai in mente?» «Ho proposto ai miei amici di lasciarti la Bibbia d'argilla in cambio di

tutto il guadagno dell'operazione che stiamo per concludere. La mia offerta è generosa, ma loro non vogliono accettare.»

«La Bibbia d'argilla è un'ossessione anche per loro...»

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«Sono i miei amici, Clara, e li amo come me stesso, ma non quanto amo te. Devi andartene al più presto da qui. Dobbiamo trovare la Bibbia d'argil-la prima che arrivino gli americani e, appena sarà nelle nostre mani, parti-rai immediatamente. La collaborazione con il professor Picot ci aiuterà; è un tipo discutibile, ma nessuno mette in dubbio le sue qualità di archeo-logo. Grazie a lui, ti potrai introdurre in un mondo nuovo, ma ciò sarà pos-sibile solo con la Bibbia d'argilla.»

«E se non la troviamo?» «La troveremo; se così non fosse, te ne dovrai comunque andare dall'I-

raq, ti trasferirai al Cairo. Lì potrai vivere con una certa tranquillità, anche se ho sempre sognato di mandarti in Europa, nelle città dove da tanto tem-po desideri andare: Parigi, Londra, Berlino... Comunque i soldi non ti man-cheranno.»

«Non hai mai voluto che andassi in Europa.» «No, non prima di aver trovato la Bibbia d'argilla, altrimenti potresti do-

ver affrontare problemi che non voglio tu debba affrontare. Non sopporte-rei che qualcuno ti facesse del male.»

«Chi potrebbe farmelo?» «Il passato, Clara, che a volte irrompe come un maremoto, distruggendo

il presente.» «Il mio passato non è importante.» «Non è del tuo passato che sto parlando. Adesso dimmi come procedono

i lavori.» «A Gian Maria è venuto in mente che Shamas potrebbe avere custodito

la Bibbia d'argilla a casa sua invece che al tempio, così abbiamo iniziato ad ampliare il perimetro degli scavi. Oggi hanno rinvenuto i resti di fonda-menta di case del popolo addossate all'edificio principale, magari trovere-mo anche quella di Shamas... Nel tempio, oltre alle tavolette, c'è qualche statua. Ci basterebbe un colpo di fortuna: portare alla luce l'abitazione di Shamas.»

«Quel sacerdote, Gian Maria, ha creato qualche problema?» «Come sai che è un sacerdote?» Clara rise pensando all'assurdità della

sua domanda. Il nonno era informato di tutto ciò che accadeva all'accam-pamento; Ayed Sahadi, il caposquadra, gli riferiva ogni dettaglio, e poi c'e-rano altri uomini che non si sarebbero lasciati sfuggire nulla.

Alfred Tannenberg bevve un sorso d'acqua mentre aspettava la risposta di sua nipote. Sentiva la fatica del viaggio, ma era soddisfatto del colloquio con Clara. Non era cambiato nulla fra loro. Lei non aveva mutato espres-

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sione dopo aver sentito che qualcuno la voleva uccidere, aveva incassato tutto senza batter ciglio, senza fare domande stupide né sorprendersi, come un'ingenua, dei loschi affari di famiglia.

«Gian Maria è una brava persona ed è molto in gamba. È specializzato in lingue semitiche: l'accadico, l'ebraico, l'aramaico e l'urrita non hanno segreti per lui. È scettico sul fatto che Abramo possa aver dettato la sua vi-sione della Creazione, ma lavora sodo. Non ti preoccupare, non è pericolo-so, è solo uno studioso.»

«Io so che le persone non sempre sono come appaiono.» «Ma Gian Maria è un prete...» «Sì, lo è, l'abbiamo verificato.» «Dunque, sai che non è pericoloso.» Tannenberg chiuse gli occhi, e Clara gli accarezzò teneramente il volto

solcato di rughe. «Adesso vorrei dormire un po'.» «Dormi; più tardi Picot vorrà conoscerti.» «Vedremo. Adesso va'.» Fatima aveva sistemato Salam Najeb in una casa attigua e l'infermiera

nella stanza vicino a quella di Tannenberg, anche se era sicura che quella Samira non poteva fare nulla che non avrebbe potuto fare lei stessa. Cono-sceva Tannenberg al punto di sapere di cosa lui avesse bisogno anche sen-za che lui glielo chiedesse. Un gesto, il movimento di una mano, il modo di atteggiarsi erano tutti segnali che la aiutavano ad anticipare ciò che il suo padrone avrebbe desiderato. Ma il medico si era mostrato inflessibile: Samira doveva rimanere vicino al malato per qualsiasi evenienza. In realtà, anche la casa che avevano assegnato a lui aveva una parete in comune con quella di Tannenberg.

«Cosa c'è, tesoro?» domandò a Clara quando la vide in cucina. «Sta molto male...» «Non morirà» le assicurò Fatima. «Non finché non avrete trovato quelle

tavolette. Non ti abbandonerà.» Clara si lasciò abbracciare dalla sua vecchia governante, sapendo che a-

vrebbe potuto contare su di lei in qualsiasi circostanza. E quelle che si av-vicinavano non potevano essere più inquietanti: il nonno le aveva annun-ciato che qualcuno avrebbe cercato di ucciderla. «Dove sono il medico e l'infermiera?» chiese.

«Stanno organizzando l'ospedale da campo.» «Bene, vado agli scavi. Tornerò per cena, non so se mio nonno vorrà

mangiare da solo, con me o con gli altri.»

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«Non ti preoccupare, ci sarà cibo per tutti, se vorrà degli ospiti.» La jeep stava parcheggiando davanti alla porta di casa e una mezza doz-

zina di uomini attendeva disposizioni da lei. Cinque minuti dopo si trovava nel sito archeologico.

Lion Doyle le si avvicinò sorridendo. «Ha saputo la notizia? Hanno tro-vato resti di abitazioni, i suoi colleghi ne sono entusiasti.»

«Lo so, anche se non sono potuta venire prima. Come va con il suo re-portage fotografico?»

«Bene, meglio di quanto sperassi. E poi Picot mi ha ingaggiato.» «Ingaggiato? E per cosa?» «Pare che una rivista di archeologia gli abbia chiesto un resoconto degli

scavi, possibilmente illustrato, e lui mi ha incaricato di fare le fotografie. Il mio viaggio non sarà inutile.»

Clara strinse i denti, seccata. Dunque, Picot pensava di appropriarsi della gloria inviando un reportage a una rivista di archeologia. «E di quale rivi-sta si tratta?»

«Credo si chiami "Archeologia scientifica". Mi ha detto che viene pub-blicata in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna, in Italia e negli Stati Uniti... Insomma, una rivista importante.»

«Certo che lo è. Si potrebbe dire che solo ciò che viene pubblicato su quella rivista ha valore dal punto di vista archeologico.»

«Se lo dice lei, sarà così; non ci capisco niente di queste cose, anche se devo confessare che comincio a essere contagiato dal vostro entusiasmo.»

Clara si congedò da Lion Doyle e si diresse verso Marta e Fabián, che stavano lavorando.

Avevano dissotterrato un'altra parte del tempio e rinvenuto un sillabario; era come se all'improvviso quel posto avesse deciso di rivelare i suoi mi-steri e offrire i propri tesori allo sforzo estremo di quel gruppo eterogeneo.

«Dov'è Picot?» domandò Clara. «Oggi è un giorno straordinario, ha trovato i resti delle mura di Safran. È

là» rispose Marta indicando Picot insieme a un gruppo di operai che pare-vano scavare la terra con le mani.

«Sai, Clara, credo che siamo già alla seconda terrazza del tempio. Sem-bra uno ziqqurat ma non ne sono sicuro. Qui ci sono resti della muraglia interna, e abbiamo iniziato a ripulire quella che pare una scala» la informò Fabián.

«Avremmo bisogno di più operai» affermò Marta. «Lo dirò ad Ayed, ma non credo che sarà facile assoldare altra gente. Il

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paese è in stato d'allerta» li informò Clara. Yves Picot si trovava insieme a una squadra di operai, con le mani nelle

macerie e assorto nel proprio lavoro, per cui non la vide neppure arrivare. «Salve, so che oggi è un gran giorno» lo salutò Clara. «Non te lo puoi nemmeno immaginare. Sembra che la fortuna sia dalla

nostra parte. Abbiamo trovato i resti delle mura esterne e accanto si vedo-no chiaramente le fondamenta di alcune costruzioni. Vieni a vedere.» Picot le fece strada sulla sabbia gialla indicandole resti di mattoni perfettamente impilati che solo l'occhio di un esperto avrebbe potuto identificare come un'antica abitazione. «Ho messo più della metà degli uomini a lavorare in questa zona. Però Fabián ti avrà detto che siamo andati molto avanti con gli scavi e che il tempio pare chiaramente uno ziqqurat.»

«Sì, ho visto. Rimango a darvi una mano.» «Bene. Credi che potremmo assoldare altra gente? Abbiamo bisogno di

più operai se vogliamo ripulire tutto quanto rapidamente.» «Lo so, Fabián e Marta mi hanno detto la stessa cosa. Vedrò quello che

si può fare. A proposito, quel fotografo, Lion, mi ha detto che gli hai pro-posto un lavoro.»

«Sì, gli ho commissionato un reportage fotografico sui nostri scavi.» «Non sapevo che ti fossi già accordato con qualcuno per pubblicare i ri-

sultati delle nostre ricerche.» Clara sottolineò "nostre", affinché Picot no-tasse la sua contrarietà.

Lui la guardò divertito e scoppiò a ridere. «Su, Clara, non te la prendere, nessuno vuole rubarti nulla! Conosco delle persone nella rivista "Archeo-logia scientifica" che mi hanno chiesto di tenerle informate sugli scavi che avremmo fatto qui. Sono tutti interessati alla tua Bibbia d'argilla. Se la tro-viamo, sarà un successo nella storia dell'archeologia. Non solo dimostre-remo l'esistenza di Abramo, ma anche che conosceva la storia della Gene-si. Sarà una scoperta rivoluzionaria. Tuttavia, anche se queste tavolette non dovessero saltare fuori, ciò che stiamo portando alla luce ha abbastanza va-lore per renderci orgogliosi. Stiamo dissotterrando uno ziqqurat di cui non si conosceva l'esistenza, e in uno stato di conservazione migliore di quanto ci potessimo aspettare. Non ti preoccupare, se sarà un successo, lo sarà per tutti. La mia vanità è già stata soddisfatta, mia cara, io ho una solida carrie-ra alle spalle. Ah, e immagino che tu abbia posto l'accento su quel "nostre" perché nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza Fabián Tudela, Marta Gómez e gli altri colleghi...»

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Yves si chinò e riprese il suo lavoro senza far più caso a Clara, che senza dire una parola si diresse verso un gruppo di operai che in quel momento stavano ripulendo un'area di terreno.

Il sole tramontava quando Picot diede per conclusa la giornata di lavoro. Gli uomini si sentivano sfiniti e affamati, e desideravano tornare alla pro-pria abitazione o all'accampamento per riposare e recuperare le forze.

Fatima era in attesa di Clara sulla porta di casa e pareva di buonumore. «Tuo nonno si è svegliato; ha fame e ti aspetta.»

«Devo fare una doccia, dopo andrò da lui.» «Mi ha detto che preferisce che ceniate soli, gli archeologi li riceverà

domani.» «Mi sembra giusto.» Stavano finendo di mangiare quando Fatima entrò in casa per annunciare

che il signor Picot voleva salutare il signor Tannenberg. Clara stava per replicare, tuttavia Alfred non gliene diede il tempo e fece

segno a Fatima di farlo passare. I due uomini si soppesarono con lo sguardo per una frazione di secondo,

il tempo di darsi una forte stretta di mano e guardarsi negli occhi. A Picot, Tannenberg non piacque. Quello sguardo azzurro acciaio riflet-

teva crudeltà; da parte sua, Tannenberg esaminò l'archeologo e riuscì a captare l'energia che emanava.

Fu Alfred Tannenberg a dirigere la conversazione, e Picot rispose per la maggior parte del tempo alle domande dirette del vecchio, che voleva sa-pere anche i dettagli più insignificanti del loro lavoro. Soddisfece minuzio-samente le curiosità del nonno di Clara, in attesa del momento in cui sa-rebbe stato lui a fare domande.

«Avevo voglia di conoscerla; non sono riuscito a indurre Clara a raccon-tarmi come e quando lei trovò quelle tavolette a Carran, quelle che hanno portato tutti noi fin qui.»

«È successo molto tempo fa.» «In che anno fu la spedizione? Chi la diresse?» «Amico mio, è passato talmente tanto tempo che non mi ricordo... prima

della Seconda guerra mondiale, quando in Oriente giunsero gruppi di ro-mantici amanti dell'avventura più che dell'archeologia e molti di loro sca-vavano guidati dall'intuito. No, non fu una spedizione di archeologi, ma di persone appassionate di archeologia. Scavammo nella zona di Carran e rinvenimmo quelle tavolette in cui Shamas, sacerdote o scriba, si riferisce ad Abramo e alla Creazione. Da allora ho creduto che un giorno avremmo

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trovato il resto delle tavolette a cui accennava lo scriba. Io le chiamo la Bibbia d'argilla.»

«Anche Clara le ha definite così al convegno di Roma, provocando una sorta di rivoluzione nella comunità degi archeologi.»

«Se l'Iraq vivesse un periodo di pace, si sarebbe messa in moto più di una spedizione per cercare di entrare nelle grazie di Saddam e avere l'e-sclusiva degli scavi. Lei ha rischiato venendo nel momento peggiore, è sta-to coraggioso.»

«In realtà, non avevo niente di meglio da fare» rispose Yves con un cer-to cinismo.

«Sì, lo so, lei è ricco e non è nemmeno sfiorato dalla dura necessità di mettere insieme uno stipendio alla fine del mese. Sua madre proviene da un'antica famiglia di banchieri, non è così?»

«Mia madre è inglese, figlia unica, e mio nonno, effettivamente, posse-deva una banca sulle isole del Canale. Sa, un paradiso fiscale.»

«Lo so. Ma lei è francese.» «Mio padre è francese, alsaziano, io sono cresciuto tra quelle isole e

l'Alsazia. Mia madre ereditò la banca, e mio padre la dirige.» «Ma a lei la finanza non interessa per niente» affermò, più che domanda-

re, Tannenberg. «Effettivamente, l'unica cosa che mi affascina dei soldi è la possibilità di

spenderli nel modo più piacevole possibile, ed è quel che faccio.» «E il giorno in cui erediterà la banca, che cosa ci farà?» «I miei genitori godono di una salute eccellente, dunque spero che quel

giorno sia lontano, e poi ho una sorella molto più intelligente di me, dispo-sta a farsi carico degli affari di famiglia.»

«Non la preoccupa lasciare qualcosa di solido ai suoi figli?» «Non ho figli e nessun interesse ad averne.» «Noi uomini abbiamo bisogno di sapere che dopo di noi rimarrà qualco-

sa.» «Alcuni, ma non io.» Clara assisteva in silenzio alla conversazione di Yves con suo nonno no-

tando che l'archeologo non faceva nulla per piacere al vecchio. Fu Samira a mettere fine all'incontro. Entrò seguita da Fatima, che cercava di impe-dirglielo.

«Signor Tannenberg, è l'ora dell'iniezione.» Alfred Tannenberg guardò l'infermiera rabbioso. L'avrebbe schiaffeggia-

ta, quando fossero rimasti soli, per avere osato entrare rivolgendosi a lui in

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quei termini, come una bambinaia. «Esca.» Il tono dell'anziano era freddo come il ghiaccio e lasciava presagire una

burrasca. Fatima prese per un braccio l'infermiera e la condusse fuori rim-proverandola per il suo comportamento. Tannenberg prolungò la visita an-cora di mia mezz'ora, senza badare alla stanchezza di Clara, che a fatica tratteneva gli sbadigli. Poi si accomiatò da Yves Picot promettendogli che avrebbe potuto contare su una nuova squadra di operai.

Qualche minuto più tardi un grido lacerante ruppe il silenzio delia notte. Poi si udì il pianto di una donna, che si spense lentamente fino a scompari-re di nuovo nel silenzio.

Clara si rigirava, scomoda, nel letto. Sapeva che suo nonno aveva punito Samira per la sua sfrontatezza nell'averlo interrotto e trattalo come un bambino. L'infermiera doveva imparare che Alfred Tannenberg pagava molto generosamente i suoi dipendenti, ma non perdonava mai un errore. Immaginò che doveva averla fatta frustare; non era la prima volta che ca-stigava in quel modo chi manifestava un atteggiamento a lui sgradito.

Ayed Sahadi aveva ordinato di tenere sotto controllo Lion Doyle e Ante

Plaskic; non si fidava di nessuno dei due, era sicuro che non fossero chi sostenevano di essere.

Lion Doyle, da parte sua, se ne stava all'erta con Ayed Sahadi; intuiva che non era un semplice caposquadra. Quanto ad Ante Plaskic, era sicuro che fosse un sicario come lui, forse un altro uomo mandato da Tom Martin o dai suoi amici, ma non aveva dubbi sul fatto che il croato non fosse il pacifico informatico che voleva apparire.

I tre uomini si riconoscevano per ciò che erano: assassini, mercenari di-sposti a servire il miglior offerente.

Il gallese intuiva che era giunto il momento di agire. Non avevano anco-ra trovato la Bibbia d'argilla, ma i lavori degli scavi avanzavano a tappe forzate e, inoltre, c'era sempre più tensione nell'accampamento. Le notizie che giungevano da fuori non lasciavano spazio a dubbi: tra non molto le truppe statunitensi avrebbero lasciato cadere tonnellate di bombe sull'Iraq.

Gli operai scherzavano assicurando che avrebbero cacciato via gli ame-ricani come conigli, che mai avrebbero permesso loro di calpestare la terra irachena, ma erano consapevoli che quelle spacconate servivano solo a far-si coraggio, poiché sapevano che molti di loro sarebbero morti nel tentati-vo di difendersi o sotto i bombardamenti.

Clara pareva fidarsi di Lion. Non evitava la sua compagnia e gli indicava

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pazientemente i reperti d'argilla attaccati alla terra, spiegandogli l'impor-tanza di ogni oggetto e come doveva essere fotografato per metterne in e-videnza il valore archeologico.

Lion aveva riso di gusto quando aveva saputo dal direttore di Photo-mundi che i suoi scatti di Baghdad erano stati comprati da un'agenzia di stampa e che il reportage su "Archeologia scientifica" era stato un succes-so, non solo per il testo scritto da Picot, ma anche per le foto che lo illu-stravano. L'unico inconveniente era che il reportage aveva fatto sì che i ca-nali televisivi chiedessero ai loro inviati in Iraq di recarsi a Safran per farsi raccontare la storia del gruppo di archeologi di vari paesi che eseguivano gli scavi, ignari dei tamburi di guerra.

Lion Doyle non fu dunque sorpreso quando vide apparire Miranda ac-compagnata da Daniel, il cineoperatore, e da un altro gruppo di giornalisti che, con il benestare del ministero dell'Informazione, erano atterrati a Sa-fran.

«Caspita, ecco il fotografo!» disse Miranda a mo' di saluto. «Sono contento di vederti. Come vanno le cose a Baghdad?» «Male, fottutamente male. La gente è al limite della sopportazione. Il tuo

amico Bush insiste a dire che Saddam possiede armi di distruzione di mas-sa e un paio di giorni fa, il 5 febbraio, Colin Powell è intervenuto in una sessione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per mostrare delle foto scattate dal satellite in cui si vedono insediamenti di soldati, oltre a luoghi sospetti in cui potrebbero essere custodite quelle maledette armi.»

«Che tu non credi ci siano.» «Nemmeno tu lo credi.» «Non so.» «Dai, Lion, non fare il finto indifferente!» «Non ho voglia di litigare, okay?» Daniel decise di intervenire cambiando discorso per evitare discussioni.

«Come avete passato il Natale in un posto così?» domandò con curiosità. «Non l'abbiamo festeggiato. Qui nessuno riposa, si lavora diciotto ore al

giorno.» «Ma nemmeno quel giorno avete sospeso gli scavi?» insistette Daniel. «L'unica differenza è stata il cibo: abbiamo mangiato meglio.» «A Baghdad abbiamo improvvisato una festa. Ognuno ha portato quello

che è riuscito a trovare.» Miranda li lasciò e percorse l'accampamento guardandosi intorno curio-

sa. Le avevano parlato di Yves Picot e di Clara Tannenberg, e pensava di

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intervistare entrambi. Essere usciti da Baghdad per calarsi in quel pezzetto di terra gialla le ricordava le gite scolastiche e l'aiutava a rompere la mono-tonia.

Picot e Clara collaborarono con i giornalisti, benché non potessero evita-re di manifestare un certo fastidio per essere stati obbligati a interrompere il lavoro. Tutte le mani erano indispensabili, comprese quelle di Clara e di Picot.

Clara si accorse che Picot pareva folgorato da Miranda. Non si staccava da lei, li vedeva ridere e parlare, in disparte. Pensò che forse si conosceva-no già e non riuscì a non provare una fitta di gelosia. Miranda era tutto ciò che lei non era: una donna che si era fatta da sola, indipendente, sicura, di quelle che non devono niente a nessuno, abituata a trattare tutti da pari a pari, senza scendere a compromessi. Non la sorprese il fatto che lei e Lion Doyle si conoscessero: in fondo, lavoravano entrambi nel settore dell'in-formazione.

All'ora di pranzo, Miranda condivise la tavola con Marta Gómez, Fabián Tudela, Gian Maria e Albert Anglade, oltre che con Daniel e Haydar An-nasir, l'aiutante di Tannenberg, e la stessa Clara. Lion si unì a loro malgra-do lo sguardo seccato di Miranda.

«Ci sono manifestazioni in tutta Europa, la gente non vuole questa guer-ra» disse Daniel.

«Quale guerra? Non siamo ancora in guerra, magari Bush alla fine non attaccherà e sta solo cercando di spaventare Saddam» intervenne timida-mente Haydar Annasir.

«Attaccherà» affermò Miranda «e lo farà a marzo.» «Perché a marzo?» domandò Clara. «Perché per allora avrà pronti tutti i suoi armamenti. Se aspettasse oltre,

farebbe troppo caldo e i suoi uomini non sono abituati a combattere sotto un sole cocente come quello che c'è qui, dunque attaccheranno in marzo o al più tardi in aprile.»

«Speriamo che ritardino» disse Picot. «Fino a quando vi fermerete qui?» volle sapere Miranda. «Secondo i suoi calcoli, ci resta un mese» fu la risposta di Picot. «I miei calcoli?» domandò Miranda. «Lei ha appena detto che attaccheranno a marzo e siamo a febbraio.» «Ha ragione, manca un mese. E come ve ne andrete da qui? I soldati non

vi proteggeranno più appena inizieranno i bombardamenti; Saddam avrà bisogno di tutti gli uomini disponibili, e prima o poi bloccheranno i lavo-

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ri.» La riflessione di Miranda li fece sprofondare nel silenzio. A un tratto a-

vevano preso coscienza che il mondo seguiva un ritmo diverso da quello del villaggio sperduto in cui si erano rinchiusi mesi prima, cercando di tro-vare nella sabbia un segreto vecchio come il tempo, un segreto che forse era solo una chimera.

Fu Marta Gómez a rompere il silenzio che era calato sul gruppo. «Avete visto, abbiamo scoperto un tempio; sembra parte di uno ziqqurat, anche se non ne siamo sicuri, e secondo noi risale a duemila anni prima di Cristo; fino a oggi non se ne conosceva l'esistenza. Abbiamo anche dissotterrato resti di fondamenta di abitazioni della stessa epoca, benché sfortuna-tamente rimanga poco di esse. Stiamo studiando centinaia di tavolette tro-vate in due stanze dello ziqqurat e abbiamo una certa quantità di statue in buono stato... Ciò che voglio dire, Miranda, è che il lavoro fatto in questi cinque mesi sarebbe durato cinque anni in circostanze normali. Capisco che in un momento come questo le scoperte archeologiche abbiano scarsa rilevanza, dato che il paese è sull'orlo di una guerra, ma se le bombe non distruggeranno ciò che abbiamo trovato le assicuro che questo diventerà uno dei siti archeologici più importanti del Medio Oriente, sempre che si possa ritornare quando questa maledetta guerra sarà finita. Credo che tutti noi dobbiamo considerarci soddisfatti di quanto è stato fatto.»

«Avete potuto contare sull'appoggio di Saddam per realizzare i vostri scavi» affermò Miranda.

«Sì, certo. Non si può andare a lavorare in un paese senza l'autorizzazio-ne delle sue istituzioni, qualunque esse siano. Saddam ci ha permesso di scavare e, per farlo, abbiamo potuto disporre di mezzi che il professor Pi-cot paga di tasca sua» fu la risposta di Fabián Tudela.

«Credevo che la signora Tannenberg fosse corresponsabile e cofinanzia-trice della spedizione...»

Clara decise di approfittare della curiosità di Miranda per sottolineare che quella era la sua spedizione e che tutto ciò che era stato scoperto, o che sarebbe venuto alla luce, apparteneva tanto a lei quanto a Picot. «Effetti-vamente, è un'impresa che abbiamo realizzato il professor Picot e io. È un progetto costoso e difficile, date le circostanze, ma, proprio come ha spie-gato la professoressa Gómez, ha già dato i suoi frutti, dei frutti straordina-ri.»

«Ma voi cercate qualcosa di più... credo che lei, in un convegno tenutosi l'anno scorso a Roma, abbia parlato di certe tavolette in cui il patriarca A-

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bramo avrebbe narrato la storia della Creazione. Ha aggiunto che casual-mente avete trovato qui altre tavolette con il nome dello stesso scriba. Mi sbaglio?»

Questa volta fu Picot a rispondere. «No, non si sbaglia. Clara ne possie-de un paio, che abbiamo potuto datare, in cui uno scriba chiamato Shamas racconta che un certo Abram gli avrebbe svelato la storia del mondo. Clara sostiene l'ipotesi che l'Abram a cui si riferisce Shamas sia il patriarca A-bramo e, se la sua teoria verrà confermata, la scoperta sarà straordinaria.»

«Tenga conto che la scienza dubita dell'esistenza dei patriarchi» spiegò Fabián. «Nessuno ha potuto finora dimostrare che siano realmente vissuti. Se trovassimo le tavolette collegate a quelle che possiede Clara, si dimo-strerebbe non solo la veridicità della Bibbia, ma anche che la Genesi fu ri-velata da Abramo. Lei non immagina l'importanza che questo fatto avreb-be per l'archeologia, per la scienza e pure per la religione.»

«Ma non le avete ancora trovate, quelle tavolette...» insinuò Miranda. «No, non ancora» ribatté Marta «ma abbiamo portato alla luce diverse

tavolette con il nome di Shamas, dunque siamo speranzosi di trovare anche la Bibbia d'argilla.»

«La Bibbia d'argilla?» «Cos'altro sarebbero delle tavolette con la leggenda della Creazione?»

domandò a sua volta Marta. «Ha ragione, e poi il nome mi piace... La Bibbia d'argilla. E lei che ne

pensa di tutto questo? È un prete, dico bene?» La curiosità di Miranda fece arrossire Gian Maria fino alla radice dei ca-

pelli. «Ehi, è la prima volta che vedo arrossire un uomo!» esclamò Miranda

ridendo. «Su, Gian Maria, ti hanno solo rivolto una domanda» lo rassicurò Marta. Il sacerdote non trovava le parole per rispondere; gli ardeva il volto sen-

tendosi il bersaglio di tutti gli sguardi. Fabián cercò di dargli una mano sviando l'attenzione. «Gian Maria è un

esperto di lingue semitiche; ci è enormemente utile, lavora sodo decifrando tavolette. Senza di lui non avremmo potuto fare così tanti progressi in poco tempo. Comunque, fino a che non avremo trovato quelle tavolette e non le avremo analizzate, noi e altri esperti qualificati, non si potrà affermare che si tratti della Bibbia d'argilla. Fino allora ci muoveremo sul terreno delle ipotesi. Ci sono un paio di tavolette scritte da una mano poco esperta che sembrano pagine di un diario personale, un diario di argilla, in cui qualcu-

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no annuncia che gli verrà raccontato qualcosa. Comunque, come le ha det-to Marta, anche se non trovassimo le altre tavolette, ciò che abbiamo dis-sotterrato finora giustifica il nostro lavoro qui.»

«Perché sostiene che quelle due tavolette, che sono la causa della vostra permanenza qui, sono scritte da una mano poco esperta?» gli domandò Mi-randa.

«Per la qualità del tratto» rispose Fabián. «È come se Shamas non pa-droneggiasse lo stilo, che come lei sa è una cannuccia con cui si facevano le incisioni sull'argilla. Non solo, la scrittura sulle tavolette che abbiamo trovato qui, e che portano il nome di Shamas sulla parte superiore, non as-somiglia affatto a quella sulle tavolette che possiede Clara. Lo Shamas che è vissuto qui era uno scriba che padroneggiava la scrittura e l'aritmetica, oltre a essere un esperto naturalista che ci ha tramandato un elenco della flora della zona.»

«Potrebbe essere che lo Shamas che scrisse le tavolette rinvenute a Car-ran e lo Shamas di qui non fossero la stessa persona, benché Clara sia certa del contrario» aggiunse Marta.

«E perché lei crede che siano la stessa persona?» volle sapere Miranda. «Perché, se è vero che la scrittura delle tavolette di Carran è diversa da

quella delle tavolette trovate qui, ci sono linee, segni che paiono tracciati dalla stessa mano, anche se quelli di Safran sono più fermi e decisi. La mia teoria è che Shamas incise le tavolette di Carran da bambino o da adole-scente e quelle di Safran da adulto.» Clara non esitò nella risposta. Co-nosceva le tavolette come la palma della propria mano e le analisi di labo-ratorio lasciavano poco spazio ai dubbi: le tavolette di Carran e quelle di Safran parevano scritte dalla stessa mano.

«Però mi piacerebbe sapere che cosa pensa la Chiesa di tutto ciò» insi-stette Miranda rivolgendosi a Gian Maria.

Il sacerdote, che si era ripreso dall'imbarazzo iniziale, tornò ad arrossire ma rispose alla curiosità della giornalista. «Io non posso parlare a nome della Chiesa, sono solo un sacerdote.»

«Allora mi dica che cosa ne pensa lei.» «Sappiamo dalla Bibbia dell'esistenza del patriarca Abramo. Natural-

mente, io credo che sia esistito, che sia stato un uomo in carne e ossa, indi-pendentemente dal fatto che le prove archeologiche lo confermino.»

«E crede anche che Abramo sapesse della Creazione e l'abbia raccontata a qualcuno?»

«La Bibbia non dice nulla in proposito, ed è abbastanza esplicita riguar-

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do alla vita del patriarca Abramo. Quindi... be', direi che sono scettico; non riesco a credere che esista una Bibbia d'argilla. Ma se troveremo queste ta-volette, sarà la Chiesa a certificarne l'autenticità.»

«Ma lei è stato mandato dal Vaticano?» domandò Miranda. «No, per l'amor di Dio! Il Vaticano non ha niente a che vedere con la

mia permanenza qui» replicò Gian Maria timoroso. «Allora, che ci fa qui?» insistette Miranda. «Be', è stata una casualità...» «E cioè?» volle sapere la giornalista, malgrado l'evidente imbarazzo del

sacerdote. «Non potresti lasciarlo in pace?» intervenne Lion Doyle, che fino a quel

momento era rimasto zitto. «Eccolo, il cavaliere errante! Sempre in soccorso dei bisognosi, che sia

una donila in mezzo a una sparatoria o un prete in difficoltà.» «Sei insopportabile, Miranda!» sentenziò Lion irritato. «No, non ho problemi a spiegarlo» disse Gian Maria con un filo di voce.

«Vede, io mi ero recato a Baghdad per collaborare con un'organizzazione non governativa, e durante il viaggio, casualmente, avevo conosciuto il professor Picot. Sono venuto qui a vedere il suo lavoro; lui sapeva che so-no esperto in lingue semitiche e così mi ha chiesto di fermarmi a Safran.»

«E, pur essendo sacerdote, lei può fare quello che le pare?» insistette Miranda.

«Ho un permesso per rimanere qui» rispose Gian Maria, arrossendo di nuovo.

Per tutto il pomeriggio Miranda e Daniel filmarono gli archeologi al la-

voro. Intervistarono Picot e Clara, e poi Marta Gómez e Fabián Tudela, i quali, come il resto del gruppo, dovettero ripetere le stesse parole ad altri giornalisti giunti a Safran.

«Sono invadenti, specialmente Miranda, anche se mi piace.» «Su, Marta, fanno il loro lavoro, come noi facciamo il nostro.» «Tu sei sempre tanto comprensivo, ma ci hanno fatto perdere la giorna-

ta.» Fabián Tudela accese una sigaretta e lasciò vagare lo sguardo oltre le vo-

lute di fumo. Marta aveva ragione, soprattutto se ciò che avevano racconta-to i giornalisti corrispondeva al vero, ossia che la guerra sarebbe potuta scoppiare a marzo, o al massimo ad aprile. Si chinò accanto a Marta e ini-ziò a ripulire dalla sabbia parte di quella che pareva una terrazza, che la-

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sciava intravedere un patio quadrato con resti di mattoni cotti e ceramica. La luce del sole era svanita quasi completamente quando decisero di tor-

nare all'accampamento. Gli operai brontolavano per la stanchezza, ma so-prattutto erano spaventati dalle notizie che avevano appreso dai giornalisti: la guerra era inevitabile e stava per scoppiare.

Clara aveva preparato la cena intorno al fuoco, su cui arrostiva lenta-mente una mezza dozzina di agnelli aromatizzati con le spezie.

Un giornalista olandese filmava entusiasta la scena, mentre un suo col-lega della radio si lamentava dei problemi di connessione satellitare che gli impedivano di inviare la cronaca della giornata.

Yves Picot rispondeva all'uno e all'altro cercando di affrontare le diffi-coltà con l'aiuto del buon Haydar Annasir, che aveva sempre una soluzione per tutto.

«Sembri contento.» Picot si voltò udendo la voce di Clara. «Non ho motivi per non esserlo.» «Ma stasera sei più allegro del solito.» «Be', da tempo non avevamo contatti con il mondo civile, questa gente

ci ha portato notizie fresche e mi ha ricordato che esiste un'altra realtà oltre agli scavi.»

«Dunque, senti nostalgia.» «Non è esattamente così, ma lavoriamo da cinque mesi, mangiando pol-

vere, non abbiamo fatto altro che scavare e quasi mi ero dimenticato che fuori di qui c'è la vita.»

«Hai voglia di andartene?» «Sono preoccupato per la sicurezza della squadra. Domani chiamerò tuo

marito. Desidero che Ahmed mi spieghi il piano di evacuazione. Si è im-pegnato a tenere pronti i mezzi per toglierci da qui quando cadranno le prime bombe.»

«E se non avremo ancora trovato la Bibbia d'argilla?» «Ce ne andremo comunque. Non pretenderai che continuiamo a scavare

sotto le bombe americane? Credi che faranno un'eccezione e non bombar-deranno Safran perché qui c'è un gruppo di matti che scava? Sono respon-sabile di questa gente, sono venuti per me, alcuni sono buoni amici e non c'è niente e nessuno per cui valga la pena di mettere a repentaglio le loro vite, niente, nemmeno la Bibbia d'argilla.»

«Quando te ne andrai?» «Non lo so ancora, ma voglio essere pronto. Mi pare sia arrivato il mo-

mento di trarre delle conclusioni. Voglio parlare con i miei uomini, decide-

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remo tutti insieme, però non c'è da illudersi, hai sentito i giornalisti.» «Le cose non sono peggio di cinque mesi fa, non è cambiato nulla.» «Loro dicono di sì» «I giornalisti esagerano sempre; è il loro mestiere.» «Ti sbagli; magari qualcuno lo fa, ma non tutti, e qui abbiamo tre gior-

nalisti olandesi, due greci, quattro inglesi, cinque francesi, due spagnoli...» «Mi dici cose che sapevo già.» «È difficile che esagerino tutti, o che tutti si inventino l'imminente inva-

sione di Bush.» «Io vado avanti.» Yves Picot guardò Clara negli occhi. Non poteva chiederle di mollare

tutto, ma lo irritava l'idea che continuasse senza di lui. «Proseguirai gli scavi sotto una pioggia di bombe?»

«Magari non saranno i tuoi amici a vincere.» «Chi sarebbero i miei amici?» «Quelli che ci bombarderanno.» «Ti è venuto un attacco di nazionalismo? Non provare a far leva sui sen-

si di colpa, almeno non con me, perderesti il tuo tempo. Te lo dirò una vol-ta per tutte, credo che Saddam sia un dittatore sanguinario e che meritereb-be il carcere. Non m'importa nulla della fine che farà. Quello che mi di-spiace è che molti iracheni pagheranno per le sue nefandezze.»

«A causa di Saddam o perché ci vogliono rubare il petrolio?» «Per tutt'e due le cose. Saddam è un alibi, non ne dubito. Io non parteci-

po ai giochi della politica, ci ho rinunciato ormai da tempo.» «Tu non credi in nulla.» «Quando avevo vent'anni ero di sinistra, un mililanle appassionato, e ar-

rivai a conoscere talmente bene il partito dei miei sogni da rimanerne schi-fato. Nessuno era ciò che pareva né tanto meno ciò che diceva di essere. Capii che politica e disonestà vanno di pari passo, per questo me ne allon-tanai. Difendo la democrazia borghese che ci permette di illuderci di essere liberi, tutto qui.»

«E gli altri? Che mi dici di quelli come noi, che non siamo nati nel mon-do dei privilegiati? Cosa dobbiamo fare? In che cosa dobbiamo sperare?»

«Non lo so, so solo che siete vittime del governo dei grandi, ma anche vittime dei vostri stessi governanti, e vittime di voi stessi. Sono francese e difendo la Rivoluzione, credo che in tutti i paesi ci dovrebbe essere un e-vento simile che apra le porte alla luce e alla ragione. Ma in questa parte del mondo quelli come te e tuo nonno hanno costruito la propria ricchezza

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e il proprio potere sulla miseria dei loro compatrioti, dunque non chiedere a me che cosa potete fare. Io non mi sento colpevole di nulla.»

«Credi che la tua cultura sia superiore alla nostra...» «Vuoi che ti dica la verità? Ebbene sì, lo credo. L'Islam vi impedisce di

fare una rivoluzione borghese. Fino a che non separerete la religione dalla politica non ne uscirete. A me disgusta vedere le tue compatriote coperte dalla testa ai piedi, come quella donna che ti segue dappertutto... si chiama Fatima, no? Mi indigna che camminino dietro i loro mariti o che non pos-sano parlare tranquillamente con un uomo.»

Fabián si avvicinò loro con un bicchiere in ciascuna mano. «È una for-tuna che questo non sia un paese di stretta osservanza islamica e possiamo bere qualcosa.»

Porse loro i bicchieri, che Clara e Picot presero in silenzio. «Che vi succede?» domandò Fabián. «Ho detto a Clara che dobbiamo iniziare a rassegnarci al fatto che tra

poco ce ne andremo.» «Da quello che ci hanno riferito, sarà tra non molto» assentì Fabián. «Domani telefonerò ad Ahmed, perché coordini con Albert i dettagli del-

la nostra partenza. Staremo fino all'ultimo, ma al primo segno di pericolo non ci fermeremo un secondo di più.»

Il tono di voce di Picot non ammetteva repliche e Clara si rese conto di avere perso la battaglia.

«Clara, abbiamo fatto scoperte importanti, te ne rendi conto, vero?» dis-se Fabián cercando di consolarla.

«Che cosa abbiamo scoperto?» domandò lei irritata. «Abbiamo portato alla luce un tempio di cui non c'erano notizie, un vil-

laggio che nessuno conosceva. Dal punto di vista archeologico questa campagna è stata proficua, non ce ne andiamo a mani vuote, possiamo sen-tirci orgogliosi del lavoro fatto. Abbiamo potuto contare su gente straordi-naria che non si è lamentata delle giornate di lavoro sfiancante. Da cinque mesi non facciamo altro che scavare, nient'altro. Non vorrai che ci gio-chiamo pure la vita, vero?»

Clara guardò Fabián ma non seppe cosa rispondere. Dentro di sé sapeva che lui e Picot avevano ragione, ma riconoscerlo avrebbe significato darsi per vinta. «Quando ve ne andrete?» riuscì a domandare.

«Non sappiamo, dovremo prima discuterne con Ahmed. Vorrei anche parlare con un paio di amici di Parigi e con i miei genitori: i banchieri san-no sempre quando sta per scatenarsi una guerra. Tu, Fabián, dovresti met-

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terti in contatto con i tuoi amici di Madrid e vedere cosa ti dicono.» «Sì, gli telefonerò domani. Adesso sarebbe il caso di scambiare quattro

chiacchiere con i giornalisti e di mangiarci quegli splendidi agnelli. Sono affamato.»

Dalla finestrella della stanza di Clara non si vedeva quasi nulla. La luna

era nascosta. Da un po' non si udiva il mimmo rumore nell'accampamento. Dormiva-

no tutti, ma lei non riusciva a prendere sonno. La conversazione con Picot e, più tardi, quella avuta con Salam Najeb, il medico che curava suo non-no, l'avevano sconvolta.

Il dottore non era andato per il sottile: il nonno aveva avuto un collasso e il risultato delle analisi era preoccupante. Secondo il suo parere avrebbe dovuto essere trasportato in un vero ospedale.

Clara era entrata nella stanza del nonno e si era stupita che fosse potuto invecchiare tanto in un giorno. Aveva gli occhi infossati e la respirazione difficoltosa. Quando gli aveva detto che avrebbero dovuto portarlo a Ba-ghdad e da lì al Cairo, il nonno aveva scosso la testa. No, non sarebbe par-tito fino a che non avessero trovato la Bibbia d'argilla. Lei non aveva avuto il coraggio di dirgli che Picot era pronto ad andarsene.

L'orologio segnava le tre del mattino e faceva freddo; Clara indossò una felpa e con la luce spenta uscì dalla stanza diretta in quella di Fatima. La donna aveva il sonno pesante e non si svegliò neppure quando Clara aprì la finestra per saltare fuori.

Le guardie della scorta dormivano davanti all'entrata principale e nell'in-gresso dell'abitazione, ma avevano lasciato sguarnita l'uscita posteriore.

Clara attese qualche secondo che il cuore smettesse di battere impazzito e, strisciando nell'ombra, si diresse verso lo ziqqurat. Aveva bisogno di toccare i vecchi mattoni di argilla e di sentire la brezza della notte per tranquillizzare il proprio spirito.

Giunta nella zona degli scavi, si accorse che anche lì le guardie dormi-vano beate. Ayed Sahadi li avrebbe uccisi se avesse saputo che qualcuno era riuscito a entrare nel sito archeologico senza che loro se ne accorgesse-ro. Ma non sarebbe stata certo Clara a tradirli. Cercò un luogo dove sedersi e poter pensare. Sentiva che la sua vita era sul punto di cambiare irrime-diabilmente. Mentre un tempo c'erano state solo sicurezza e certezze, ades-so lei intravedeva dolore e solitudine, e per la prima volta si rese conto di non essersi mai fermata a riflettere; semplicemente aveva vissuto, senza

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preoccuparsi di nulla, rifiutandosi di vedere e capire ciò che avrebbe turba-to la sua egoistica tranquillità.

No, lei non era migliore di Ahmed, che avrebbe guadagnato parecchio denaro per proteggerla, ma almeno non era un'ipocrita, poiché aveva la co-scienza pulita.

Si addormentò raggomitolata su un letto di terra e argilla, e nel sogno cercò Shamas.

26

Ili aveva raggiunto il grado di um-mi-a ed era la massima autorità in

quel tempio, da cui contribuiva a governare la regione. Il re aveva voluto estendere il suo potere oltre Ur e aveva commissionato

la costruzione di quello ziqqurat di piccole dimensioni dove i saggi imma-gazzinavano le conoscenze di cui erano custodi e altri frutti dell'osserva-zione di quanto li circondava, i fiori, le piante e il cielo, allo scopo di sve-larne i misteri.

Quella era una mattina speciale: un dub-sar avrebbe acquisito la condi-zione di ses-gal.

Il vecchio Yadin, con gli occhi annebbiati dal passare del tempo, non a-vrebbe potuto vedere Shamas ma avrebbe seguito la cerimonia di accetta-zione e avrebbe riso scoprendo le gengive sdentate. Da tempo la sua sposa, la madre di Shamas, si era assunta il compito di essere lei gli occhi di Ya-din e raccontava al marito ogni dettaglio di ciò che accadeva intorno a lo-ro. Avrebbe alzato la testa orgogliosa sapendo fin dove era arrivato quel suo figlio discolo.

Il maestro assaporava in anticipo i particolari della cerimonia del suo a-lunno preferito. Shamas gli aveva provocato numerosi mal di testa e in non poche occasioni Ili aveva dovuto dominare l'ira di fronte alla sua testar-daggine e all'impertinenza delle sue domande.

Shamas non aveva mai accettato le risposte semplici. Aveva bisogno di analizzare tutto quanto gli veniva detto e di trovare una logica; accettava la verità degli altri solo se era chiara e inconfutabile.

Ili era riuscito a convincerlo a non manifestare disprezzo verso gli dèi, almeno in pubblico.

Suo zio Abramo aveva persuaso il giovane Shamas che esisteva un solo Dio, e che tutto era stato creato per sua volontà. Lui, Ili, gli spiegava che effettivamente l'ordine della Creazione era partito da Elohim, ma poi di-

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scutevano sull'esistenza di altri dèi che Shamas negava. Tuttavia il tempo non passa invano e Shamas si era tranquillizzato di-

ventando il migliore degli scribi; adesso sarebbe stato insignito di una ca-rica ancora più prestigiosa, quella di ses-gal, e un giorno sarebbe stato um-mi-a, l'um-mi-a di tutti, dato che era indubbia la sua sapienza, frutto del-l'osservazione, dello studio e del non accontentarsi mai dell'evidenza.

La sposa di Shamas, una giovane chiamata Lia, l'aiutò a indossare la tu-nica e lo salutò con un sorriso.

Quel giorno Shamas divenne ses-gal sotto gli auspici di Ili, mentre la-sciava vagare la mente per altri territori a molti giorni di distanza. Pensava ad Abramo; lo immaginava nella terra di Canaan, in qualità di padre di molte tribù, poiché le notizie erano giunte fino a Ur. Dio gliel'aveva pro-messo, Dio aveva mantenuto la parola.

Dio continuava a sembrare a Shamas un essere imperscrutabile e capric-cioso e, benché credesse in Lui con tutto il cuore, non riusciva a compren-derlo, ma diceva a se stesso che in fondo lui era solo un essere umano, frutto del soffio divino che aveva dato vita all'argilla da cui erano nati gli uomini.

A volte credeva che gli sarebbe scoppiata la testa quando cercava di se-guire la logica della Creazione. C'erano momenti in cui sentiva di essere sul punto di capire tutto, ma quella chimera svaniva all'improvviso e lui tornava ad avere la mente piena di tenebre. Ili lo riportò alla realtà schia-rendosi la voce. Shamas non aveva ascoltato le parole del maestro e aveva appena fatto caso agli scribi e ai sacerdoti che pregavano accanto a lui la dea Nidaba.

Desiderava rimanere solo con Ili per offrirgli un dono a cui negli ultimi anni aveva lavorato dando il meglio di se stesso. Si trattava di alcune tavo-lette sulle quali, con segno chiaro ed elegante, aveva raccontato quanto a-veva appreso da Abramo: la storia della Creazione, l'ira di Dio contro gli uomini per la loro empietà, la distruzione di Babele e la confusione delle lingue. Tre belle leggende scritte sull'argilla che avrebbe voluto fossero custodite in una delle sale in cui si trovavano altre storie e racconti sull'o-rigine del mondo.

Sul far della sera, maestro e discepolo sfruttarono alcuni momenti di so-litudine per dedicarli alle confidenze.

Sul cranio di Ili non era rimasto un solo capello e la sua camminata lenta così come le sopracciglia bianche rendevano evidente che era ormai entra-to nella vecchiaia. «Diventerai un buon um-mi-a» gli disse il maestro.

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«Sono soddisfatto di ciò che sono. È un privilegio lavorare accanto a te, ogni giorno imparo qualcosa di nuovo.»

«... Che non ti basta mai, perché sei ansioso di sapere di più, molto di più. Continui ancora a interrogarti sul significato dell'esistenza, e nemme-no il tuo Dio ti dà la risposta.»

Shamas rimase in silenzio. Ili aveva ragione: erano più le domande che gli scoppiavano in gola delle risposte che era capace di ottenere dagli uo-mini che lo circondavano.

«Ormai sei uomo da tempo» continuò Ili «e devi accettare il fatto che e-sistono interrogativi ai quali non c'è risposta, indipendentemente dal dio che invochi. Almeno hai imparato a rispettare gli dèi, poiché mi hai fatto soffrire in più di un'occasione per paura che la tua sfrontatezza giungesse alle orecchie del nostro re. Ma nessuno ti ha tradito, nemmeno coloro che non ti capiscono.»

«Però, Ili, tu sai quanto me che gli dèi conservati nel tempio sono solo argilla.»

«È vero, ma non è l'argilla che invochiamo quando desideriamo qualco-sa dagli dèi. È il loro spirito, ed è questo che tu non ammetti, che l'argilla sia solo la rappresentazione di un dio, poiché è difficile pregare il nulla, una divinità che non ha volto, né forma, che non si vede.»

«Abramo diceva che Dio creò gli uomini a sua immagine.» «Dunque, è come noi? Assomiglia a te, a me, a tuo padre? Se ci ha creati

a sua immagine vuol dire che possiamo rappresentarlo con l'argilla per ri-volgerci a Lui.»

«Dio non sta nell'argilla.» «Ti ho sentito dire che il tuo Dio è in ogni luogo, dunque, forse anche in

quella terra con cui ha fatto gli uomini.» Da anni discutevano dello stesso argomento, anche se con il trascorrere

del tempo le loro parole erano state private di qualsiasi traccia di acredine. Parlavano con tranquillità, non litigavano più cercando d'imporre l'uno al-l'altro la propria idea di divinità.

«Ti ho portato un regalo» disse Shamas sorridendo davanti alla sorpresa che si disegnava sul volto del suo maestro.

«Grazie, ma il più bel regalo è stato averti come alunno, perché mi hai fatto migliorare ogni giorno sapendo che dovevo rispondere alle tue do-mande.»

I due uomini risero. Erano arrivati a stimarsi sinceramente e ad accettarsi per com'erano, anche se quel percorso di apprendimento era stato non pri-

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vo di dolore. Shamas condusse Ili in una piccola stanza in cui gli piaceva lavorare e

gli consegnò diverse tavolette avvolte nella tela. Ili le liberò con cura dall'involucro e rimase meravigliato dalla precisio-

ne dei segni fatti dallo stilo di colui che era stato il più ribelle dei suoi a-lunni.

«È la storia della creazione del mondo tale e quale me la raccontò A-bramo. Mi piacerebbe che la custodissi tu.»

Gli occhi di Ili si velarono per l'emozione mentre prendeva il regalo che gli veniva consegnato dalle mani di Shamas. «Mi hai parlato tanto delle leggende di Abramo...»

«Sono racchiuse qui, così come mi vennero raccontate. Conservo tuttora le tavolette scritte a Carran, ma il mio polso allora non era tanto saldo e ancora non avevi fatto di me quel che sono oggi. Spero che queste siano scritte bene.»

«Grazie, Shamas. Le terrò con me fino all'ultimo giorno della mia vita.» Quella sera Lia ascoltò attenta il marito, fiera di sapere che era diventato

un uomo importante all'interno della gerarchia del tempio. Più tardi, mentre sua moglie dormiva, Shamas tirò fuori le sue vecchie

tavolette, quelle che aveva portato da Carran, e le osservò in silenzio. Ve-derle lo faceva tornare con la mente alla sua infanzia, alla sua adolescenza, agli anni nomadi insieme a suo padre e alla tribù. Non provava nostalgia per il passato, poiché era soddisfatto del presente; continuava però a senti-re la mancanza di Abramo, di ciò che lui gli raccontava riguardo a Dio. Anche per i suoi il Dio di Abramo era solo un altro dio, più forte degli al-tri, ma non l'unico, non l'onnipotente.

Di nuovo riavvolse le tavolette nella tela e le ripose con cura su uno scaffale della piccola sala, accanto ad altre perfettamente impilate. Si do-mandò che fine avrebbero fatto quando lui fosse morto. I suoi figli, lo sa-peva bene, non avevano interesse per un Dio che non vedevano.

«Shamas, sveglia, sveglia!» La voce di Lia tradiva paura e angoscia. Shamas aprì gli occhi e si mise a sedere nel letto, osservando dalla fine-

stra le prime luci dell'alba. «Che succede?» «Ili ti ha mandato a chiamare, va' al tempio.» «Così presto? E ha spiegato perché?» «No, il giovane che è venuto si è limitato a dire che Ili ti attende.» Shamas si preparò in fretta per dirigersi al tempio, preoccupato dall'ur-

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genza del maestro. Quando giunse alla sala rettangolare dove Ili lo aspet-tava insieme ad altri scribi, capì che era accaduto qualcosa di grave.

«Shamas, il signore del Palazzo vuole le nostre terre. È geloso della pro-sperità del tempio.»

«Ma che cosa pretende da noi?» «Quello che abbiamo: grano, frutta, palme, acqua. Vuole il nostro be-

stiame e il nostro raccolto. Dice che nelle sue terre scarseggiano i frutti, e che i loro ruscelli sono secchi. Ha deciso di aumentare la decima, sostiene che è poco quanto riceve rispetto a ciò che possediamo.»

«Nei magazzini c'è grano sufficiente affinché non si disperi per l'aridità delle sue terre.»

«Non gli manca nulla, ma vuole di più, crede che sia troppo quello che abbiamo e vuole disporne per sé. È nipote del mio predecessore, l'ultimo grande maestro, ed è convinto di avere il diritto di governare, oltre al pa-lazzo, il tempio. Pretende che sia un amministratore a incaricarsi di super-visionare il nostro lavoro e, in nome suo, decidere quale parte debba anda-re al tesoro reale e quale possa restare al tempio.

«Non te l'ho voluto dire ieri poiché era un giorno importante per te, ma da tempo mi ha dato l'ultimatum e oggi, prima dell'alba, uno dei suoi sol-dati è venuto a reclamare una risposta. Credevo che sarei riuscito a parlare con lui, che l'avrei convinto, ma mi sbagliavo.»

«E se ci opponiamo?» «Ci distruggerà, getterà il sale sulle nostre terre, saccheggerà i magazzi-

ni... Cosa possiamo fare?» si lamentò Ili. Gli scribi tacevano angosciati, temendo le conseguenze del problema

creato dall'ensi, il loro signore locale. Alcuni guardavano Shamas aspet-tando dalla sua mente fervida una soluzione.

«Siamo uomini pacifici, non sappiamo lottare» disse Ili. «Possiamo chiedere aiuto al sovrano di Ur» propose Shamas. «È più po-

tente del nostro ensi, e questi non oserebbe affrontarlo.» Decisero di inviare un emissario a Ur per chiedere aiuto al re e implorar-

ne la protezione. Ili designò un giovane scriba, che si mise in viaggio im-mediatamente. Ma il sovrano avrebbe avuto pietà di loro? I re sono capric-ciosi e la loro logica non ha nulla a che vedere con quella dei sudditi, dun-que il signore di Ur poteva richiedere per il suo aiuto un prezzo ancora più alto di quello dell'ensi di Safran.

Il sole brillava in tutto il suo splendore illuminando le terre gialle di Sa-fran quando il grido di un uomo si levò sul vociferare del mercato.

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Ili e Shamas si guardarono sapendo che quel grido presagiva morte e di-struzione.

Tutti gli scribi accorsero alle porte del tempio dov'erano giunti i soldati, pronti a entrare. Il crepitare del fuoco e il pianto delle donne si innalzavano fino al cielo insieme alle urla dei soldati e degli uomini che difendevano le loro case.

Shamas sapeva che non potevano fare nulla tranne piegarsi come i giun-chi che crescevano sulle rive dell'Eufrate, in attesa che si placasse la tem-pesta, ma il suo istinto fu più forte e affrontò i soldati, malgrado Ili gli a-vesse consigliato di desistere. Era consapevole che il suo sforzo sarebbe ri-sultato inutile, ma non poteva arrendersi di fronte all'ingiustizia che sta-vano subendo.

Quanto tempo era passato? Forse un secondo, forse ore; si sentiva pro-fondamente stanco e nella sua testa regnava la confusione.

"Nessun uomo è eterno, nemmeno un re. Un giorno qualcuno in questo tempio tornerà a vivere in pace, amministrando le terre, il bestiame e i rac-colti degli uomini che confidano nelle azioni degli scribi che, come noi, lavorano dall'alba perché ci sia ordine e giustìzia nella comunità" pensava Shamas mentre veniva trascinato via da un soldato con cui si era messo a lottare.

Vide Ili, il suo maestro, disteso a terra con una ferita alla testa da cui sgorgava un fiotto di sangue. Altri scribi giacevano morti intorno a lui, co-sì come i servitori del tempio che erano accorsi a difendere quel luogo do-ve fino allora la vita era trascorsa pacifica.

Gli faceva male la testa, sentiva le ossa del corpo pesanti, poteva appena muovere un braccio e i suoi occhi erano velati. "Starò morendo come i miei compagni? Forse sono già morto?"

Pensò che non era possibile, perché il dolore che sentiva era troppo in-tenso, sicché gli restava ancora un alito di vita, ma per quanto tempo anco-ra? E Lia era viva? Il soldato gli diede un calcio sul viso e lo buttò nel mucchio di cadaveri; lo credeva morto, visto che quasi non respirava.

Shamas non voleva morire ma non sapeva come evitarlo. Perché Dio a-veva deciso che fosse quella la sua fine? Sorrise; Ili l'avrebbe rimproverato perché in un momento simile continuava a fare domande, domande a Dio. Ma forse gli altri non imploravano Marduk?

Se Abramo fosse stato lì, gli avrebbe domandato perché Dio si compia-cesse del fatto che le sue creature morissero in modo tanto violento. Era necessaria una fine simile? Non riusciva più a vedere niente, la vita se ne

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andava a causa dell'avidità di un uomo. Che assurdità gli sembrava tutto ciò. E Dio dov'era? Alla fine l'avrebbe visto? Sussultò udendo una voce, la voce di Abramo che gli chiedeva di avere fiducia in Dio. Poi una luce bianca illuminò l'angolo in cui lui giaceva e sentì una mano salda afferrare la sua e aiutarlo a tirarsi su. Smise di provare dolore e comprese che si sta-va fondendo con l'Eternità.

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«Clara...? Sì, è lei.» La voce di Miranda la strappò dal sonno profondo in cui aveva incontra-

to Shamas. Clara sentiva un dolore intenso al petto e faceva fatica a respi-rare. Le dolevano le ossa e si sentiva incapace di rispondere a Miranda, che la guardava preoccupata.

Daniel lasciò la macchina da presa accanto a un blocco di mattoni di ar-gilla e sì chinò su Clara, che pareva tremare. «Sta bene?»

I soldati accorsero per controllare con chi stessero parlando i giornalisti e si spaventarono vedendo Clara rannicchiata sulla sabbia gialla, con lo sguardo perso come se si fosse trovata a molti chilometri da lì.

Il comandante gridò un ordine ai suoi uomini, e uno di loro corse via in cerca di una coperta.

Clara era rimasta immobile e per un momento temette di essere paraliz-zata. Non sapeva perché, ma la voce non le arrivava in gola e i suoi arti non obbedivano all'ordine di muoversi.

Sentì Daniel passarle un braccio dietro la testa e aiutarla e tirarsi su; poi le diede da bere un po' d'acqua.

Miranda le tastò il polso con espressione preoccupata mentre il coman-dante guardava inquieto la scena. Se fosse accaduto qualcosa a quella don-na, lui ne sarebbe stato responsabile.

«Ha il polso debole, ma credo che stia bene, non sembra essere ferita» disse Miranda.

«Dovremmo trasportarla all'accampamento e farla visitare da un medi-co» suggerì Daniel.

In quel momento giunse il soldato con la coperta e Daniel gliela avvolse attorno alle spalle.

Clara sentì il calore riaffluirle nel corpo. «Sto bene» mormorò. «Mi di-spiace, devo essermi addormentata.»

«È quasi congelata» le disse Daniel. «Come le è venuto in mente di ve-

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nire a sdraiarsi in un posto simile?» Clara lo guardò e si strinse nelle spalle. Non sapeva che cosa rispondere

o, forse, la spiegazione che poteva dare sarebbe stata troppo complicata, in quelle circostanze.

«L'accompagniamo all'accampamento» propose Miranda. «No... per favore... mio nonno si spaventerebbe. Sto bene, grazie» repli-

cò Clara in un sussurro. «Almeno procuriamole qualcosa di caldo da bere. Comandante, riesce a

farci avere del caffè?» La richiesta di Miranda era un ordine che il comandante, preoccupato,

eseguì senza fiatare. Qualche minuto più tardi Clara, scortata da Miranda e Daniel, se ne stava seduta sotto la tenda che serviva da mensa ai soldati che vigilavano il sito archeologico. Il caffè aveva restituito il colorito al suo viso e lei ormai era in grado di parlare.

«Cosa le è successo?» chiese Miranda. «Sono uscita a passeggiare tra le rovine. Mi piace farlo, riesco a pensare

meglio... poi devo essermi addormentata, tutto qui» rispose Clara. «Dovrebbe fare più attenzione, qui la notte fa freddo.» Il tono paterno di

Daniel fece sorridere Clara. «Non si preoccupi, magari avrò preso un raffreddore, ma niente di più.

Per favore, non dite nulla, io... be', mi piace passeggiare da sola di notte, mi aiuta a pensare, ma qui è difficile stare da soli, e mio nonno ha paura che mi possa accadere qualcosa. E poi, data la situazione politica, ci sono soldati dappertutto, è per questo che cerco di allontanarmi senza essere vi-sta.»

«Non deve darci spiegazioni» assicurò Daniel. «È solo che ci siamo spa-ventati vedendola distesa per terra.»

«Mi sono addormentata; sono stanca, si lavora a ritmi impossibili...» si giustificò Clara.

«Noi volevamo filmare le rovine alle luci dell'alba per fare qualcosa di diverso dagli altri. La verità è che qui è davvero bellissimo» disse Miran-da.

«Se lei sta bene, vorrei approfittarne per finire il lavoro prima che sorga definitivamente il sole, ma tu, Miranda, puoi stare qui con Clara» propose Daniel.

Le due donne rimasero sole. Miranda non aveva obiettato all'invito del suo collega perché Clara la incuriosiva. C'era qualcosa in quella donna che la rendeva speciale, ma non era ancora riuscita a capire di che cosa si trat-

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tasse. «Lei è irachena, ma non si direbbe» esordì Miranda per tastare il terreno. «Sono irachena... be', qui nessuno ci trova nulla di strano.» «Ha gli occhi così azzurri, e il colore dei suoi capelli... insomma, non è

come quello dei suoi compatrioti.» «La mia famiglia viene da fuori.» Miranda provò subito simpatia per Clara, che, come lei, era il frutto di

differenti nazionalità. «Ah, questo spiega il colore dei suoi occhi e il suo aspetto. Mi dica, come riesce a vivere in un posto così?»

La domanda colse alla sprovvista Clara, che immediatamente si mise al-l'erta, preoccupata del fatto che non sarebbe stato facile sostenere una con-versazione con quella giornalista. «Cosa intende dire?»

«Mi domando come una donna colta e sensibile sia capace di sopportare un regime come questo.»

«Non mi sono mai occupata di politica, non mi interessa» fu la risposta secca di Clara.

Miranda la osservò in tralice e decise che Clara non era poi così simpati-ca come aveva pensato fino a poco prima. «La politica riguarda tutti; anche se alcuni dicono di non interessarsene, di certo non possono ignorarla.»

«Ho dedicato tutta la mia vita allo studio, nient'altro.» «Ma immagino che oltre a studiare si sia resa conto di cosa succedeva

intorno a lei» insistette Miranda, irritata. «Glielo dico io cosa c'era intorno a me: uno dei pochi regimi laici dell'O-

riente, una società con una classe media in crescita, prima dell'embargo, una certa prosperità e un'esistenza pacifica per la maggior parte degli ira-cheni.»

«... Degli iracheni che sostenevano il regime. Che mi dice delle persone scomparse, di quelle assassinate, della strage dei curdi, di tutti gli orrori commessi da Saddam?»

«E lei che mi dice dell'appoggio degli Stati Uniti a Pinochet o alla giunta militare argentina? O dell'appoggio a Saddam fino a che faceva loro co-modo? Bombarderanno tutti i paesi che non sono come i vostri? Sono pronta a scommettere che non muoveranno mai un dito contro i sauditi, né gli Emirati, o la Cina, o la Corea. Sono stufa della doppia morale dell'Oc-cidente.»

«Anch'io e, dato che denuncio questa doppia morale, mi ritengo libera di dire a voce alta ciò che penso. Questa è una delle peggiori dittature.»

«Dovrebbe essere più prudente nell'esprimere le sue opinioni.»

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«Vuole denunciarmi?» domandò Miranda, sarcastica. «No, non lo farò. Che sciocchezza!» «Io non giustifico la guerra contro il suo paese, sono contraria, ma spero

che gli iracheni si liberino presto di Saddam.» «E se non volessero farlo?» «Non sia cinica, sa bene che non possono.» «Questo paese ha bisogno di una mano decisa che lo governi.» «Quanto disprezzo per i suoi connazionali!» «Non è disprezzo, è realismo. Se non sarà Saddam sarà qualcun altro,

però alla guida di questo paese ci dev'essere un uomo di polso, altrimenti tutto andrà a rotoli, questa è la realtà.»

«Per lei i diritti umani, la democrazia, la libertà, la solidarietà... signifi-cano qualcosa?»

«Lo stesso che per lei, ma non dimentichi che qui siamo in Medio Orien-te. Sbaglia se cerca di applicare alla nostra realtà il suo punto di vista.»

«I diritti umani sono sempre gli stessi, qui o altrove.» «Lei non conosce gli arabi.» «Io credo nella libertà e nella dignità degli esseri umani, non importa

dove siano nati.» «E fa bene, non lo discuto. Ma lei giudica l'Iraq con i suoi occhi e questo

le impedisce di vedere la realtà.» «L'anno scorso, nel mio viaggio precedente, conobbi un giornalista di

una radio locale. Quando tornai a casa, qualche mese fa, gli telefonai, ma non mi rispose nessuno. Lo chiamai alla radio; lì mi informarono che era scomparso. Si erano presentati all'emittente quelli del Mujabarat e l'aveva-no portato via. Sua moglie dovette vendere tutto ciò che possedeva perché le avevano detto che pagando qualche funzionario corrotto avrebbe avuto notizie del marito. Si privò di ogni cosa, della casa, dell'automobile, con-segnò tutti i suoi averi a un disgraziato che una volta avuto il denaro la de-nunciò. È scomparsa pure lei. I figli sopravvivono a stento con la nonna.»

Clara si strinse nelle spalle. Non aveva risposte; quando qualcuno le spiegava che quelle cose accadevano in Iraq, taceva. Lei era felice, poteva dire solo quello, e nel palazzo di Saddam era sempre stata ben accolta. No, non avrebbe criticato Saddam Hussein; suo nonno non gliel'avrebbe per-messo e comunque a lei non sarebbe mai venuto in mente di farlo.

«Lei sa che queste cose accadono» disse Miranda. Il silenzio di Clara cominciava a irritarla. «Il Medio Oriente ha bisogno di una rivoluzione» insistette la giornalista «una vera rivoluzione che la faccia finita con i go-

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verni criminali, con i regimi medievali che non rispettano nel modo più as-soluto gli esseri umani. Il giorno in cui la gente si renderà conto del cancro da cui è affetta e si deciderà a sconfiggerlo, il Medio Oriente diventerà una potenza.»

«E a chi può importare di tutto ciò?» chiese Clara in tono pungente. «A nessuno, certo. L'interesse è che i sudditi continuino a essere schia-

vizzati da governi corrotti e che credano che la colpa di tutti i mali sia del-l'Occidente, degli infedeli, e che l'unica soluzione sia eliminarli. Manten-gono la gente nell'ignoranza per potersene servire, e il peggio è che le per-sone come lei non fanno nulla, incrociano le braccia, si disinteressano di ciò che accade intorno a loro perché non ne sono coinvolte.»

«Lei da che parte sta?» domandò Clara. «Io? Non sto con Bush né sono a favore della guerra, ma non voglio

nemmeno essere assimilata a quei progressisti da salotto, come ce ne sono tanti in Occidente, convinti che sia politicamente corretto stare dalla parte dei musulmani e che si ostinano a ribadire le peculiarità di ciascuno. Io non condivido le idee di coloro che non rispettano la Dichiarazione dei di-ritti dell'uomo, e da questa parte del mondo nessuno lo fa.»

«Lei vive in mezzo alle contraddizioni.» «Si sbaglia, non sarò politicamente corretta, ma non sono un'ipocrita.» «Parla come Yves...» mormorò Clara. «Yves? Ah, il professor Picot! Mi è sembrata una persona stupenda.» «È vero, anche se a volte è un po' strano.» Clara guardò Miranda e d'im-

provviso capì che Picot aveva voglia di andarsene non solo per l'avvicinar-si della guerra, ma anche per la nostalgia di una realtà che, adesso ne era sicura, la giornalista gli aveva ricordato.

Le spedizioni archeologiche non duravano mai tanto tempo senza inter-ruzioni, e comunque la gente andava e veniva. Loro erano esiliati a Safran da sei mesi, e per Picot e i suoi compagni era effettivamente troppo.

«Lei è una donna... particolare» disse Miranda. «Io? Perché? Sono solo un'archeologa convinta che qui sotto ci sia la

Bibbia d'argilla.» «La professoressa Gómez mi ha detto che non è nemmeno dimostrata

l'esistenza del patriarca Abramo.» «Se troveremo le tavolette proveremo che Abramo non è una leggenda.

Io sono convinta della sua esistenza, del suo viaggio da Ur a Canaan, che qualcosa l'abbia fatto diventare monoteista, e che a partire da quel momen-to abbia portato l'essenza di Dio nel suo cammino. Per questo dobbiamo

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trovare quelle tavolette su cui lo scriba Shamas incise il racconto della Creazione secondo Abramo.»

«È curioso che dopo il suo intervento al convegno di Roma nessun'alta carica ecclesiastica si sia messa in contatto con lei, almeno per vedere le due tavolette che possiede.»

«No, nessuno l'ha fatto, ma nemmeno me l'aspettavo. La Chiesa non mette in discussione l'esistenza dei patriarchi. Se troviamo le tavolette, be-ne; in caso contrario, per loro è lo stesso, non mina le fondamenta della re-ligione.»

«E il prete, quel Gian Maria, che ci fa qui?» «Ci aiuta, nient'altro. È una persona buona e in gamba.» «Ma è un prete e qui non c'entra niente.» «Chi le ha detto che non esistono preti archeologi? Gian Maria è un e-

sperto di lingue semitiche, dunque il suo contributo a questa spedizione è essenziale.»

«Cosa farà quando Picot e gli altri se ne saranno andati?» «Mi rassegnerò e continuerò a scavare.» «Le bombe non fanno eccezioni.» Clara alzò le spalle. La guerra le pareva un'illusione, qualcosa che non

sarebbe mai accaduto e che comunque non aveva niente a che vedere con lei.

Il rumore delle jeep ruppe la calma del mattino. La squadra di archeologi stava arrivando. Una delle auto si fermò davanti alla tenda in cui le due donne stavano parlando.

Ayed Sahadi balzò giù dall'automezzo e si rivolse a Clara senza nascon-dere la propria rabbia. «Ci ha preso in giro un'altra volta! Suo nonno ha ordinato di frustare gli uomini incaricati di proteggerla, quanto a me... non so cosa mi aspetta. La diverte causare guai agli altri?»

«Come osa parlarmi così?» Miranda osservava affascinata la scena. L'ira di quell'uomo non era quel-

la di un semplice caposquadra, anche se gliel'avevano presentato come tale il giorno prima. Il suo era l'atteggiamento di un militare, e nel paese di Saddam ce n'erano molti.

Clara e Ayed Sahadi si guardavano furibondi, come fossero sul punto di saltarsi addosso. I secondi parvero interminabili, poi Miranda vide che A-yed Sahadi faceva profondi respiri e s'imponeva di recuperare il controllo.

«Salga in macchina. Suo nonno vuole vederla immediatamente.» Ayed Sahadi uscì dalla tenda e si sedette al volante in attesa che Clara si deci-

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desse a raggiungerlo. Clara terminò di sorseggiare il caffè, poi guardò Miranda. «Bene, ci ve-

diamo dopo.» «Suo nonno fa frustare la gente?» Quella domanda la colse alla sprovvista. Per lei era normale che il nonno

agisse come meglio credeva, ed era abituata fin da bambina al fatto che fa-cesse frustare chiunque disobbedisse alle regole. «Non faccia caso ad A-yed, è solito esagerare.»

Uscì dalla tenda maledicendo il caposquadra, che aveva screditato suo nonno di fronte alla giornalista. Sperava che il commento di Ayed non a-vesse conseguenze, ma se le avesse avute sarebbe stata lei a ordinare di frustarlo fino a che non avesse implorato perdono.

Miranda li vide allontanarsi e rimase a riflettere. Non aveva creduto a Clara ed era convinta che Ayed avesse detto la verità. Decise di raggiunge-re l'accampamento; voleva cercare di conoscere il nonno di Clara e verifi-care se qualcuno fosse stato frustato. Le venne un brivido al solo pensiero.

Clara stava scendendo dalla jeep mentre Salam Najeb, il medico di suo

nonno, usciva di casa. «Devo parlarle» le disse. «Che succede?» domandò allarmata. «Suo nonno sta peggiorando, dovremmo trasportarlo al Cairo, qui... qui

morirà.» «Lei non può fare niente?» «Sì, potrei operarlo, ma non ho gli strumenti necessari, il rischio è trop-

po alto.» «E allora a che serve la sala operatoria che ha fatto allestire mio nonno?» «Per un'emergenza... ma suo nonno è peggiorato, non ce la farà.» «Lei non si vuole assumere la responsabilità di ciò che potrebbe succe-

dere, vero?» «No, non voglio. Tutto questo è una follia. Ha un cancro al fegato, con

metastasi in altri organi, e ci troviamo in mezzo a un villaggio polveroso... non ha senso. Decida lei.»

Clara non gli rispose ed entrò in casa. Fatima l'aspettava in lacrime sulla porta della camera del nonno. «Teso-

ro, il signore sta molto male.» «Lo so, ma non voglio vederti piangere; lui non lo sopporterebbe, e ne-

anch'io.» La fece spostare ed entrò nella stanza in penombra, dove Samira

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vegliava Alfred Tannenberg. «Clara?» La voce dell'uomo suonava spenta. «Sì, nonno, sono qui.» «Dovrei far frustare pure te.» «Perdonami, non volevo spaventarti.» «Però l'hai fatto. Se ti accadesse qualcosa... morirebbero tutti, giuro che

morirebbero tutti.» «Su, nonno, stai tranquillo. Come ti senti?» «Sto morendo.» «Non dire sciocchezze! Non morirai, tanto meno adesso che stiamo per

trovare la Bibbia d'argilla.» «Picot se ne vuole andare.» «Come lo sai?» «So tutto quello che succede qui.» «Faremo in tempo a trovare le tavolette, non ti preoccupare, e anche se

se ne andasse continueremo noi.» «Ho fatto chiamare Ahmed.» «Verrà?» «Deve venire per raccontarmi come procede l'operazione a cui stiamo

lavorando e per definire alcuni dettagli riguardo alla tua partenza.» «Io non me ne voglio andare!» «Farai quello che ti dico. Nessuno di noi due resterà qui! Se morirò pri-

ma, non m'importa dove verrò sepolto, ma se sarò ancora vìvo, se mi reste-rà anche solo un ultimo respiro, mi ci aggrapperò e non mi lascerò uccide-re dalle bombe di nessuno. Dunque, partiremo tutti e due. Andremo insie-me al Cairo oppure tu seguirai Picot.»

«Picot? E perché?» «Perché lo dico io. Adesso lasciami in pace, ho bisogno di riposare e di

pensare. Questo pomeriggio arriverà Yasir e voglio che mi trovi seduto. Ha ancora paura di me, ma se mi vede sdraiato su un letto cercherà di uc-cidermi.»

Clara baciò il nonno sulla fronte e uscì dalla stanza. Non gli aveva parla-to dell'indiscrezione di Ayed Sahadi per non dargli altri dispiaceri. Suo nonno aveva ragione, doveva almeno far finta di stare bene, e lei l'avrebbe aiutato.

Trovò Salam Najeb nell'ospedale improvvisato che avevano installato accanto al suo alloggio. Il medico stava riordinando gli strumenti della sala operatoria.

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«Mio nonno deve vivere.» «Tutti vogliamo vivere.» «E allora lo tenga in vita, faccia qualsiasi cosa.» «Se fossimo al Cairo potremmo tentare.» «Ma siamo qui ed è qui che lei farà il suo lavoro; la paghiamo profuma-

tamente e deve aiutarlo a vivere.» «Io non sono Dio.» «Certo che no, ma conoscerà il modo di allungare la vita a un vecchio

malato. Gli eviti di soffrire, gli dia qualsiasi cosa perché si mantenga sve-glio e dia l'impressione di stare bene davanti alla gente. Vedremo di torna-re al Cairo, ma finché ci tratterremo qui mio nonno deve apparire com'era una volta.»

«Non è possibile.» «E allora faccia l'impossibile.» «Ciò implica che gli somministri dei farmaci che potrebbero accorciargli

la vita.» «Faccia quel che le ho detto.» Il tono freddo di Clara non lasciava adito a dubbi. Salam Najeb guardò

la donna, ma invece dei lineamenti attraenti e dello sguardo azzurro chiaro vide sul suo viso una smorfia simile a un ghigno e un'espressione torbida. Assomigliava a suo nonno come una goccia d'acqua.

Miranda aspettava a pochi metri dall'ospedale, fumando una sigaretta. La giornalista si rivolse a Clara. «Mi piacerebbe vedere suo nonno.»

«Non riceve visite» rispose freddamente Clara. «Perché?» «Perché è anziano e non sta bene; l'ultima cosa a cui lo sottoporrei è u-

n'intervista con la stampa.» Clara entrò in casa e chiuse la porta senza dare il tempo a Miranda di entrare. Si buttò sul letto e scoppiò a piangere. Ne aveva bisogno.

Quando mezz'ora dopo Fatima entrò nella stanza di Clara, la trovò con gli occhi arrossati e le labbra tremanti. «Tesoro, devi essere forte.»

«Lo sono, non ti preoccupare.» «Yasir arriverà nel pomeriggio; devi convincere il dottore a far sì che

tuo nonno appaia in buone condizioni.» «Sarà così.» «Gli uomini rispettano solo la forza.» «Nessuno mancherà di rispetto a mio nonno finché io sarò viva.» «Giusto. Dimmi, cos'hai intenzione di fare?»

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«I giornalisti se ne andranno a mezzogiorno, dobbiamo salutarli. Voglio parlare con Picot e disporre le cose per l'arrivo di Yasir.»

Fatima si rese conto che Clara pareva essersi indurita nelle ultime ore. Vedeva nei suoi occhi la fiera risolutezza di suo nonno e capì che qualcosa o qualcuno aveva fatto affiorare in lei il peggio dei Tannenberg.

Yves Picot stava parlando con i giornalisti e a Clara non sfuggirono gli sguardi che si scambiava con Miranda.

"Si piacciono" pensò "si sentono attratti e non lo nascondono. Ecco per-ché lui se ne vuole andare al più presto; è stufo di stare qui e appena lei partirà, lui la seguirà."

Fabián e Marta chiacchieravano, così come Gian Maria e Lion Doyle. «Ciao, come mai non siete al lavoro?» domandò Clara cercando di as-

sumere un tono spensierato. Marta Gómez la guardò di sottecchi e si accorse che negli occhi di Clara

c'erano tracce di lacrime. «Stiamo salutando questi amici» spiegò Fabián. «Spero che abbiate trovato interessante ciò che stiamo facendo qui» dis-

se Clara senza rivolgersi a qualcuno in particolare. I giornalisti annuirono ringraziando per la gentilezza con cui erano stati

accolti, poi la conversazione si spostò su argomenti futili, ma Clara si sen-tiva osservata da Miranda e da Marta. Si era messa del collirio negli occhi per far scomparire i segni del pianto, ma sapeva che la giornalista e la pro-fessoressa se n'erano accorte.

Sembrò passare un'eternità prima che i giornalisti finalmente si decides-sero a salire sull'elicottero. Fabián pareva triste per la loro partenza, e la cosa accrebbe ulteriormente l'irritazione di Clara.

Miranda le si avvicinò. Le due donne si guardarono fisso negli occhi in un muto duello che passò inosservato agli altri, ma non a Marta Gómez, che le osservava.

«È stato un piacere conoscerla» disse la giornalista «e spero di rivederla. Suppongo che tornerà a Baghdad; io resterò lì per tutta la durata della guerra, sempre che non mi uccidano.»

«Rimarrà a Baghdad?» «Sì, con molti altri giornalisti.» «Perché?» «Perché qualcuno deve raccontare quello che succede, perché l'unico

modo di porre un freno all'orrore è darne notizia. Se ce ne andassimo, sa-rebbe peggio.»

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«Peggio per chi?» «Per tutti. Esca dal suo castello incantato, si guardi intorno e se ne ac-

corgerà.» «Per favore, non mi faccia prediche! Sono stufa che mi si parli con que-

sto tono di superiorità.» «Mi scusi, non volevo offenderla.» «Buon viaggio.» «La rivedrò a Baghdad?» «Chissà...» Picot si avvicinò a Miranda e la trattenne ridendo perché l'elicottero sta-

va per decollare. «Resta con noi finché non ce ne andiamo!» le disse. «Non sarebbe una cattiva idea, ma temo che al giornale non capirebbe-

ro.» Si baciarono sulle guance e lui l'aiutò a salire sull'elicottero, poi alzò una

mano mentre l'apparecchio si sollevava da terra e si allontanava all'oriz-zonte.

«Pare proprio che vi siate piaciuti subito tu e Miranda» gli disse Clara risentita.

«Sì, è una donna stupenda. Sono contento di averla conosciuta, e spero di avere l'occasione di rivederla lontano da qui.»

«Rimarrà a Baghdad.» «Lo so, è un'incosciente, come te. Credete entrambe in una causa e siete

disposte a giocarvi la pelle pur di arrivare in fondo.» «Non abbiamo nulla in comune.» Clara era sempre più irritata. «No, solo la testardaggine, ma questa è sicuramente una caratteristica di

tutte le donne.» «Adesso non incominciare» intervenne Marta ridendo. «Torniamo al lavoro, questa gente ha rallentato le operazioni e finché sa-

remo qui dovremo darci da fare» disse Fabián. «Fabián ha ragione. A proposito, sei riuscito a metterti in contatto con

Baghdad?» domandò Marta, rivolgendosi a Yves. «Sì, Ahmed sta arrivando» rispose questi. «Dovrebbe essere qui oggi

pomeriggio, sicché aspettiamo di sapere le ultime novità prima di decidere che cosa fare. Ma se ce ne dovremo andare, chiederò a Lion Doyle di foto-grafare tutto ciò che abbiamo scoperto e i luoghi dei ritrovamenti. Voglio un lavoro meticoloso, perché se arriveranno gli americani con le loro bom-be, questo sito scomparirà. E voglio non solo delle foto, ma anche un vide-o. Spero che Lion sia in grado di realizzarlo.»

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«Come sempre, Yves pensa a tutto» commentò Fabián. «Non è che io pensi a tutto, è che mi pare sia giunto il momento della ri-

tirata e dobbiamo essere preparati all'eventualità di dovercene andare di corsa.»

«Bene, Yves, Lion Doyle mi sembra un ottimo professionista. Il suo re-portage per "Archeologia scientifica" è stato molto apprezzato.»

«E tu, Marta, sei venuta benissimo in foto» scherzò Picot. «Mi piacerebbe parlare del piano di lavoro da portare a termine, sia che

restiate qui sia che ve ne andiate» suggerì Clara. «Il grosso è fatto, anche se non abbiamo ancora trovato la Bibbia d'argil-

la; ma almeno abbiamo il tempio, più di duecento tavolette in buono stato, resti di ceramiche, statue... La spedizione è riuscita e non mi pento di esse-re venuto. E voi?» chiese rivolgendosi a Marta e Fabián.

«Nemmeno noi, lo sai» rispose Fabián. «È stata un'esperienza unica la-vorare in queste condizioni. Ma credo che stessimo per trasformarci in au-tomi e i giornalisti ci hanno ricordato che esiste un'altra realtà. Non ho problemi a restare ancora, ma ti confesso che non mi dispiacerebbe andar-mene. E tu che ne pensi, Marta?»

«A parte il desiderio di un bel bagno caldo, mi dispiacerebbe andarmene senza avere trovato la Bibbia d'argilla.»

Clara guardò Marta con gratitudine. Era giunta ad apprezzare quella stu-diosa capace di imporsi senza prepotenza anche con Picot.

«Cercavamo una leggenda e abbiamo trovato una realtà. Non è abba-stanza?» domandò Fabián.

«Cercavamo la Bibbia d'argilla e abbiamo trovato un tempio. Niente ma-le, però... io andrei avanti» insistette Marta.

«Il problema non è andare avanti, è che gli americani stanno per bom-bardare. L'hai sentito anche tu, e io non sono disposto a giocarmi la pelle» protestò Picot. «Abbiamo portato un sacco di gente qui, studenti universi-tari che hanno tutta la vita davanti e a cui non possiamo chiedere di metter-la a repentaglio proseguendo gli scavi per trovare quelle tavolette.»

«Yves, so che hai ragione, ma se vuoi che ti dica la verità io avrei voglia di restare» ribadì Marta.

«Sarebbe una sciocchezza. Sai bene che quando scoppierà la guerra la spedizione archeologica andrà a farsi fottere, gli operai saranno richiamati dall'esercito e inizierà il panico del "si salvi chi può"» le fece notare Fa-bián.

«Lo so, Fabián, lo so. Esprimo solo quello che sento, nient'altro. Se tor-

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neremo, lo faremo tutti insieme, non sono un'avventuriera suicida.» «In ogni caso, Clara, mi pare giusto iniziare a stendere un resoconto del-

le cose fatte e di ciò che resta da fare. Se vuoi, lo imposteremo dopo avere ascoltato le ultime novità da tuo marito, sempre che arrivi nel pomeriggio come previsto. D'accordo?»

Clara annuì alla proposta di Picot. Non aveva scelta.

28 Robert Brown uscì dall'ufficio del Mentore. Il presidente della fondazio-

ne Mondo Antico si sentiva soddisfatto del risultato del colloquio. Adesso Paul Dukais avrebbe dovuto portare a buon fine il piano stabilito ma so-prattutto, pensò, non bisognava permettere a quel matto di Alfred Tannen-berg di mandare tutto a monte per la sua stupida nipote.

Non si sbagliava. Sapeva che senza Tannenberg l'operazione non sareb-be riuscita: tutto dipendeva da quel vecchio malato, ancora temuto da mol-ti.

Telefonò a Paul Dukais e gli diede appuntamento di lì a un'ora. L'Opera-zione Adamo stava per cominciare. Lui stesso l'aveva chiamata così, allu-dendo al fatto che Dio aveva creato il primo uomo con il fango della vec-chia Mesopotamia.

Intanto, anche il Mentore stava parlando al telefono con un uomo a mi-gliaia di chilometri di distanza.

Enrique Gómez da giorni attendeva la chiamata del suo amico. «Dunque sarà il 20...» gli disse.

«Sì, il 20 marzo, me l'hanno confermato qualche ora fa.» «Dukais ha predisposto tutto?» «Robert dice di sì. E tu?» «Non c'è problema. Quando arriverà il materiale, lo riceverò come ho

fatto in altre occasioni.» «Questa volta giungerà a bordo di un aereo militare.» «Lo so, però il contatto che mi hai procurato ha riscosso una parte del

denaro in anticipo. Sa già che cosa gli potrebbe accadere se dovesse esitare o creare problemi.»

«Hai parlato con lui?» «No, continuo a usare come intermediario un uomo che mi è sempre sta-

to fedele da quando sono qui. Francisco, ti ho già parlato di lui.» «Tu non ti fidi di nessuno.»

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«Quella di Francisco è una lealtà ben retribuita.» «Hai stabilito un contatto con i compratori?» «Con i soliti, ma prima voglio vedere il materiale. Come lo dividerete?» «Robert Brown può contare su un buon elemento, Ralph Barry, un ex

professore di Harvard esperto di quella zona. Sarà in Kuwait quando arri-verà il materiale. Ahmed Husseini ha fatto una lista provvisoria.»

«Buona idea. Sai, George, credo che dovremmo cominciare a pensare di ritirarci. Siamo troppo vecchi per andare avanti.»

«Vecchi? No, niente affatto. Di certo, io non voglio aspettare la morte guardando fuori dalla finestra con una coperta sulle ginocchia. Non ti pre-occupare, Enrique, andrà tutto bene, potrai continuare a goderti la tua vita tranquilla a Siviglia. Mi è sempre piaciuta la tua città, ma mi sorprende che tu sia riuscito a integrarti completamente.»

«Se non fosse stato per Rocío, non ce l'avrei fatta.» «Hai ragione, hai avuto fortuna con tua moglie.» «Avresti dovuto sposarti...» «No, non l'avrei sopportato, è l'unica sfera in cui non sarei stato capace

di fingere.» «Alla fine ci si abitua, sai?» «Non potrei mai abituarmi ad avere accanto il corpo di una donna.» I due uomini rimasero qualche secondo in silenzio, lasciando vagare i lo-

ro pensieri. «Dunque, il 20 inizierà la guerra.» «Sì, il 20, adesso chiamo Frankie.» Frank Dos Santos cavalcava e intanto chiacchierava animatamente con

sua figlia Alma. «Sono contento che tu sia riuscita a convincermi ad ac-compagnarti in questa passeggiata. Era tanto tempo che non montavo a ca-vallo.»

«Stai diventando pigro, papà.» «No, piccola, è a causa del lavoro.» Il suono invadente del cellulare interruppe la conversazione. Alma ag-

grottò le sopracciglia, seccata di non poter sfruttare quel momento di cal-ma accanto a suo padre.

«Ciao, George! Dove sono? A cavallo, con Alma, ma ormai sono vec-chio, mi fanno male tutte le ossa.»

Frank Dos Santos tacque ascoltando l'amico, che gli ripeteva ciò che a-veva detto a Enrique Gómez: la guerra sarebbe scoppiata il 20 marzo.

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«D'accordo, è tutto pronto. I miei clienti sono ansiosi di vedere la merce. Ahmed sarà in grado di recuperare la lista di oggetti che ti ho mandato? Se ci riesce, l'affare andrà benissimo. Bene, ti telefonerò, i miei uomini sono pronti per il D Day.» Guardò il cellulare e sospirò, sapendosi osservato da sua figlia.

«Qual è l'affare del momento, papà?» «Uno dei tanti, tesoro.» «Per una volta potresti raccontarmi qualcosa.» «Tu pensa a spendere il denaro che guadagno.» «Ma, papà, sono la tua unica figlia.» «Per questo sei la mia preferita» replicò ridendo Dos Santos. «Vieni,

torniamo a casa.» Robert Brown, accompagnato da Ralph Barry, attendeva l'arrivo di Paul

Dukais. Il presidente della Planet Security era in ritardo, come al solito. «Su, Robert, calmati, starà arrivando.» «Però, Ralph, quell'uomo si fa sempre aspettare. Crede di poter disporre

del tempo degli altri, mi ha stufato!» «Nel suo campo è il migliore, non possiamo fare a meno di lui.» «Nessuno è indispensabile, Ralph, nemmeno Paul.» Quando Paul Dukais entrò nell'ufficio sorridente, Robert Brown sbuffò

seccato. «Si può sapere perché ridi?» «Mi ha appena chiamato mia moglie per dirmi che ha mal di testa e che

pertanto stasera non andremo all'opera. Pensa che fortuna!» Ralph Barry non poté evitare di sorridere pure lui. Non s'ingannava ri-

guardo a Dukais, sapeva che dietro quell'atteggiamento volgare c'era un uomo intelligente, con una mente assai raffinata e più colto di quanto desse a vedere e, soprattutto, una persona capace di qualsiasi cosa.

«I ragazzi del Pentagono hanno deciso la data dell'invasione dell'Iraq. Il 20 marzo» lo informò Robert Brown.

«Invasione? Ossia, non ci accontenteremo di bombardare?» «Invasione, ed entreremo in Iraq per restarci.» «È un vantaggio per la nostra operazione. Prima arriveranno i nostri sol-

dati, prima inizieremo a guadagnare.» «Ralph parte per il Kuwait. Mettiti d'accordo con il colonnello Fernán-

dez perché si preparino a riceverli.» «Non è un colonnello, è un ex colonnello, e Mike è già in zona. Lo

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chiamerò, non ti preoccupare, ma prima dobbiamo avvisare Yasir, perché oggi partiva per Safran. Alfred ha convocato lui e Ahmed. Il vecchio non vuole mollare lo scettro.»

«Bene, allora mettiti in contatto con lui. Bisogna dare la notizia anche ad Alfred.»

«Lo potrà fare Yasir» propose Dukais. «Nessuno di noi può chiamarlo. Sai benissimo che ora tutte le comuni-

cazioni vengono intercettate.» «Userò il solito messaggero, il nipote di Yasir, che vive a Parigi. È un

uomo di Alfred, e gli deve tutto.» «Yasir è suo zio?» domandò Ralph. «Sì, ma il nipote è fedele a Tannenberg. In caso di dubbio, opterebbe per

Alfred.» «Mancano quindici giorni» mormorò Ralph Barry. «Sì, ma è tutto pronto, non ti preoccupare. Mi fido di Mike Fernández, e

se lui dice che l'operazione è ben avviata, vuol dire che è così» assicurò Dukais.

«Io mi fido di Alfred. Lui sa bene come si gestiscono questi affari. Dun-que, non prenderti meriti. L'unico problema di Alfred è sua nipote; si è im-pegnato a lasciarle in eredità qualcosa che non appartiene solo a lei.»

«Abbiamo degli uomini all'accampamento degli archeologi. La donna non rappresenta un ostacolo.» «Se le torciamo un capello, l'operazione an-drà a rotoli. Tu non conosci Alfred» affermò Robert Brown.

«Sei stato tu a dire che, se ce ne fosse stato bisogno, avremmo dovuto usare ogni mezzo...»

«Solo se è necessario, inevitabile... Ovviamente, niente e nessuno può ostacolare l'operazione, questo è chiaro per tutti, no?»

«Saranno gli uomini sul campo a decidere. Speriamo che riescano a ma-nipolare Alfred e sua nipote.»

«Che facciano quello che devono, ma se sbagliano sono uomini morti. Bene, hai bisogno di sapere altro o preferisci parlare direttamente con i no-stri contatti del Pentagono?»

«Non preoccuparti» replicò Dukais «mi faccio carico io degli altri aspet-ti dell'operazione. E tu, Ralph, te ne dovresti andare al più presto.»

«Partirò domani.» «Stupendo. Dunque, attaccheremo il 20. Era ora! Quel bastardo di Sad-

dam vedrà chi ce l'ha più lungo.» «Non essere volgare, almeno risparmiati certe espressioni» protestò Ro-

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bert Brown. «Su, Robert, non fare tanto il raffinato, siamo nel tuo ufficio e non ci

sente nessuno.» «Ti sento io, e mi sembra più che sufficiente.» «Avete intenzione di litigare?» domandò Ralph. «No, dobbiamo metterci al lavoro. Io vado. Ho un sacco di cose da fa-

re.» Paul Dukais uscì dallo studio di Brown senza salutare. Il presidente della fondazione Mondo Antico gli dava fastidio con le sue buone maniere. In fondo, era un delinquente come lui, perché quello erano, si disse Du-kais. I grandi affari a volte non erano altro che operazioni del crimine or-ganizzato. Tutto dipendeva da chi lo faceva e come, e soprattutto biso-gnava non farsi beccare.

No, Brown non era migliore di lui, benché fosse un elegante ex allievo di una delle più importanti università americane.

Ahmed Husseini e Yasir erano seduti sull'elicottero, con le cuffie per

proteggersi dal rumore, quando un soldato corse verso l'apparecchio fa-cendo segnali perché non decollasse.

I due uomini guardarono incuriositi il militare che, accaldato per la cor-sa, si fermava e consegnava un busta chiusa a Yasir.

«L'hanno mandata dal suo ufficio. Hanno detto che è urgentissima.» Yasir prese la busta e, senza ringraziare il soldato, ne estrasse un foglio

scritto su una sola facciata.

Signore, ho ricevuto un'e-mail dal nipote di sua moglie. Dice che il 20 marzo verrà a trovarla con alcuni amici ed è importante che lei lo sappia; non vuole che lo si dica a sua moglie né al resto della famiglia, perché desidera far loro una sorpresa, ma lei do-vrebbe comunicarlo ai suoi amici. Ha insistito affinché lei sapesse subito del suo arrivo.

Infilò il foglio nella busta e la ripose in una tasca della giacca, poi fece

un segnale al pilota per il decollo. Dukais gli confermava la data dell'inizio della guerra. Avrebbe dovuto dirlo ad Ahmed e, naturalmente, ad Alfred. In realtà, quel messaggio era per il vecchio, non per lui. Gli uomini riceve-vano ordini solo da Alfred Tannenberg e lo temevano, benché fosse mo-ribondo. E avevano tutte le ragioni per avere paura di lui, Yasir lo sapeva bene.

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Stava ormai calando la notte quando l'elicottero si posò a un centinaio di metri da Safran. Le luci delle case brillavano come lucciole e soffiava un venticello fresco.

Ayed Sahadi e Haydar Annasir li attendevano con una jeep per traspor-tarli al centro dell'accampamento.

«Che ti succede, Haydar? Ti vedo turbato» domandò Ahmed all'uomo di fiducia di Tannenberg.

«Vivere in questo villaggio è insopportabile. Sono qui da troppi mesi.» «Qualcuno deve tenere d'occhio questa spedizione e il signor Tannen-

berg ha piena fiducia in te» replicò Ahmed Husseini. «Tua moglie ti sta aspettando con il signor Tannenberg; anche Picot e la

sua squadra. Sono nervosi perché i giornalisti che ci hai mandato hanno detto che la guerra è inevitabile e che, in tali condizioni, Bush potrebbe at-taccare da un giorno all'altro» spiegò Haydar Annasir.

«Sì, temo che abbiano ragione. Ci sono manifestazioni in tutta Europa, e anche negli Stati Uniti; ma il presidente Bush ha messo in moto la macchi-na da guerra e non farà marcia indietro.»

«Dunque, ci attaccheranno» affermò Ayed Sahadi, che fino a quel mo-mento era rimasto in silenzio.

«Così pare» fu il commento laconico di Ahmed. «Ma per ora devi resta-re qui. Il Colonnello mi ha detto che sei ancora a nostra disposizione.»

Ayed Sahadi li informò che Yasir si sarebbe installato nella casa del ca-po del villaggio, mentre Ahmed avrebbe condiviso la casa della moglie e di Tannenberg.

L'incontro fra Clara e Ahmed fu imbarazzante. D'improvviso non sape-

vano più come comportarsi né cosa dire. «Dovrai dormire in camera mia» gli disse Clara. «Abbiamo messo una

branda. Mi dispiace, ma sarebbe troppo difficile dare spiegazioni; preferi-sco che per ora non ci siano chiacchiere su di noi.»

«Mi pare giusto. Mi spiace solo darti disturbo... lo spazio non è molto.» «Dovremo arrangiarci. Quanto tempo resterai?» «Non so. Dopo avere parlato con tuo nonno me ne dovrei andare, ho di-

verse cose da sistemare. Lui mi dirà cosa vuole che io faccia.» «Naturalmente, ti paga per questo.» Clara si pentì di aver pronunciato

quella frase, ma ormai era tardi, e poi voleva fargli sapere che non avrebbe più potuto ingannarla.

«Di cosa parli?»

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«Del fatto che lavori per mio nonno, che ti occupi dei suoi affari e che ti paga per questo. O no?»

«Sì, è così.» «Bene, a quello mi riferivo.» «L'hai detto in un modo...» «L'ho detto a modo mio, non ho voglia di essere diplomatica.» «Fino adesso abbiamo evitato lo scontro, non vorrei iniziare a litigare

proprio ora.» «Non temere, non ci saranno scontri. Lasciamo le cose come stanno.

Mio nonno vuole vedervi al più presto.» «Il tempo di rinfrescarmi e andrò da lui.» «Dovrai aspettare Yasir; desidera incontrarvi insieme. Quando sarete

pronti, avvisa Fatima.» Clara si diresse verso la camera di suo nonno. Il medico gli aveva appe-

na fatto un'iniezione. Da meno di dieci minuti aveva finito una trasfusione di sangue che pareva avere restituito un po' di colore alle sue guance sca-vate.

Salam Najeb guardò Clara e le fece un cenno perché si avvicinasse. «Spero che con la trasfusione e le iniezioni il signor Tannenberg possa af-frontare la fatica dei prossimi giorni. Ma ho già avvertito anche lui che do-vremo fargli una trasfusione al giorno, è l'unico modo per... be', per farlo stare in forma.»

«Molte grazie» mormorò Clara. «Mi sento meglio» assicurò Alfred Tannenberg. «È un miglioramento solo temporaneo» insistette il dottor Najeb. «So che non mi può regalare anni di vita, ma almeno mi faccia stare così

fino a che non glielo dirò io.» Il tono di voce dell'anziano non dava spazio a repliche.

«Farò tutto il possibile, signore.» «Mia nipote sarà immensamente generosa con lei, se ci riuscirà.» «Naturalmente, nonno.» Clara si avvicinò e lo baciò sulla fronte. Profu-

mava di sapone. Salam Najeb aveva seguito le istruzioni del nonno e di sua nipote: ave-

vano preteso da lui che riuscisse in qualsiasi modo a far sì che l'anziano malato fosse in grado di apparire sufficientemente in salute per non far du-bitare nessuno della sua potenza. Il medico aveva esaudito i loro desideri. Con il denaro ricevuto, non avrebbe più avuto preoccupazioni finanziarie per gli anni a venire.

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«Bene, dottore, crede che mio nonno potrà uscire dalla camera da letto e sostenere una breve conversazione in sala?» domandò Clara.

«Sì, però faccia in modo che la cosa non vada per le lunghe, potrebbe...» Alcuni colpi secciai alla porta, seguiti dall'entrata di Fatima, interruppe-

ro il medico. «Padrone, i signori Yasir e Ahmed l'attendono in sala» annunciò la don-

na. «Nonno, alzati e appoggiati al mio braccio. Ce la fai?» «Voglio stare in piedi da solo, non voglio aggrapparmi al tuo braccio.

Quelle iene crederebbero che stia morendo e, anche se è vero, non devono saperlo, non ancora.»

Clara aprì la porta e uscirono dalla stanza. Quando entrarono in sala, Ya-sir e Ahmed si alzarono in piedi.

«Lieto di vederti...» riuscì a dire Ahmed. «Alfred...» fu tutto ciò che disse Yasir. Alfred Tannenberg li squadrò a lungo. Sapeva che i due uomini pensa-

vano di vederlo in condizioni assai peggiori. Li osservò con malizia, sorri-dendo apertamente. «Credevate di venire al mio funerale, eh? L'aria di Sa-fran mi fa bene, e stare con Clara mi dà la forza per vivere, ed è quello che voglio.»

Nessuno dei due replicò; si limitarono ad abbozzare un sorriso in attesa che Tannenberg si sedesse, ma questi si divertiva a camminare per la sala guardandoli di sottecchi.

«Nonno, cosa ti faccio portare?» «Solo un po' d'acqua, tesoro, ma i nostri invitati avranno sicuramente

fame. Di' a Fatima che serva loro qualcosa da mangiare, abbiamo parec-chie cose da dirci.»

I tre uomini rimasero soli. Alfred Tannenberg li dominava con la sua so-la presenza. Sapeva che Ahmed e Yasir si aspettavano di incontrare un mo-ribondo, e rideva dentro di sé davanti allo stupore che i due uomini non riuscivano a nascondere.

Yasir consegnò ad Alfred il messaggio di suo nipote. Questi lo lesse e lo ripose nella tasca della giacca.

«Dunque, la guerra scoppierà il 20 marzo. Bene, prima è, meglio è. I miei uomini sono pronti. Hai fatto quello che ti ho chiesto?» domandò ad Ahmed.

«Sì. È stato un lavoro difficile. Per quanto possa sembrare strano, non tutto il patrimonio artistico è catalogato. Ho dovuto spendere più del previ-

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sto per avere un resoconto delle opere più importanti che conserviamo nei nostri musei. Gli elenchi li ho consegnati a Yasir, proprio come mi hai det-to.»

«Lo so. Enrique e Frank hanno stabilito un contatto con i loro clienti e c'è un buon numero di compratori disposti ad accaparrarsi i tesori di questo paese. Anche George ha avvisato i propri clienti tramite Robert Brown, per cui è tutto pronto. Che ne è di quello yankee di Dukais?»

Yasir si schiarì la voce prima di rispondere. Sapeva che quella domanda era rivolta a lui. «Anche Mike Fernández è pronto. I suoi uomini si trovano già in postazione, come tu desideravi. Non ci saranno problemi per il tra-sporto della mercanzia; dobbiamo solo aspettare.»

«Questa è la più grande operazione di vendita d'oggetti d'arte che sia mai stata organizzata» affermò Tannenberg. «In realtà, facciamo un favore al-l'umanità salvando il patrimonio artistico iracheno. Se non lo togliamo di qui potrebbe venire distrutto dalle bombe e, inoltre, una volta scoppiata la guerra tutti cercheranno di fare man bassa degli oggetti di valore senza es-sere in grado di distinguere una tavoletta da un cilindro sumero.»

Né Yasir né Ahmed replicarono al commento di Tannenberg. Erano la-dri, è vero, ma non consideravano necessario aggiungere altra infamia al loro comportamento.

«Quanti pezzi credi che potremo portare via?» domandò Tannenberg ad Ahmed.

«Se va tutto bene, più di diecimila. Ho compilato una lista esauriente di ciò che gli uomini dovranno prelevare da ogni museo. Hanno piantine det-tagliate degli edifici, sulle quali sono segnalati i luoghi in cui si trovano i pezzi più importanti. Spero che non rompano nulla...»

«Che nobile preoccupazione!» Tannenberg rise. «Abbiamo deciso di ru-bare nel nostro paese, lo lasceremo senza più nemmeno un oggetto di valo-re e tu ti preoccupi che i nostri uomini portino a termine l'operazione senza far cadere nemmeno una tavoletta...»

Ahmed strinse i denti, umiliato. Quella risata, per lui, era come uno schiaffo.

«Appena inizieranno i bombardamenti, le nostre squadre entreranno nei musei. Devono riuscire a prelevare i pezzi di valore nel minor tempo pos-sibile e andarsene immediatamente. Raggiungere il Kuwait non sarà un problema, spero che là l'americano sappia fare il suo lavoro» insistette Tannenberg.

«E tu che farai? Fino a quando resterai qui?»

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La domanda di Yasir non lo colse impreparato. In realtà, Tannenberg la stava aspettando, conoscendo l'impazienza del suo uomo. «Questi non so-no affari tuoi, ma non ti preoccupare, Yasir, non morirò per le bombe dei nostri amici. Quando le sganceranno, io sarò al sicuro, non ho ancora in-tenzione di morire.»

«E Clara?» chiese Ahmed. «Clara se ne andrà, devo ancora decidere se con la squadra di Picot o se

la manderò al Cairo» rispose Tannenberg. «Non resta molto tempo, poco più di quindici giorni, se gli americani at-

taccheranno il 20 marzo» insistette Ahmed. «Ti farò sapere, sempre che sia necessario, quando Clara partirà. Ab-

biamo ancora qualche giorno per trovare la Bibbia d'argilla.» «Ma non c'è più tempo!» protestò Ahmed. «Tu che ne sai? Nessuno ha chiesto la tua opinione, non hai voce in ca-

pitolo! Pensa a obbedire agli ordini, a prenderti il denaro e a salvare la pel-le.»

Tannenberg si versò un bicchiere d'acqua e la sorseggiò piano. Né A-hmed né Yasir avevano assaggiato il pranzo preparato da Fatima per loro. I due uomini erano tesi e per questo incapaci di distrarre l'attenzione dall'an-ziano.

«Bene, finiamo di ripassare l'operazione. Adesso faccio chiamare Ha-ydar Annasir per gli ultimi dettagli finanziari. Guadagneremo un sacco di soldi, ma abbiamo anche dovuto investire molto, I miei uomini sanno di avere sempre in anticipo un deposito garantito in banca, come indennizzo alle famiglie, se dovesse succedere loro qualcosa.»

Fatima non permise a nessuno, tranne che a Haydar Annasir, e più tardi

ad Ayed Sahadi, di entrare in sala. Tannenberg aveva dato istruzioni preci-se: neppure Clara avrebbe potuto interromperli. E nemmeno il dottore, se non quando l'avesse chiamato lui.

Clara cenò con Picot e con il resto della squadra. Era nervosa. La pre-senza di Ahmed la irritava. Non sarebbe stato facile dividere la camera da letto con lui, nemmeno per una notte. Peggio ancora, lo sentiva come un estraneo.

«Quando incontreremo tuo marito?» domandò Fabián. «Domani, credo. Questa sera è in riunione con mio nonno, finiranno tar-

di.» «Rimarrai in Iraq o cercherai di andartene prima che scoppi la guerra?»

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chiese Marta. «Non si sa ancora quando inizierà la guerra. I giornalisti che sono stati

qui non avevano informazioni certe. Hanno detto che la guerra sarà inevi-tabile, ma nessuno è nelle condizioni di prevedere ciò che accadrà» disse Clara.

«Questa non è una risposta» la provocò Marta. «È l'unica che posso darvi. Comunque, voglio rimanere qui fino a che...

be', fino a che sarà impossibile restare. Poi vedremo. Se scoppierà la guer-ra, deciderò dove andare e cosa fare per sopravvivere.»

«Vieni con noi.» L'invito di Picot la lasciò perplessa, ma pensò che il tono ironico dell'ar-

cheologo non lasciava spazio a dubbi su quanto poco gli importasse della sorte che le sarebbe toccata.

«Grazie, prenderò in considerazione la proposta. Mi darai asilo politi-co?» disse cercando di essere a propria volta ironica.

«lo? Be', se non c'è altra soluzione, faremo in modo che qualcuno te lo dia. Fabián, credi che potremo contrabbandarla quando torneremo?»

«Non fate battute di spirito» disse Marta. «Anche Clara avrà dei proble-mi e dovremo aiutarla.»

Rimasero in silenzio, e Lion Doyle ne approfittò per fare una richiesta a Clara. «Sa già che Yves vuole che faccia un reportage dettagliato su ogni reperto che è stato rinvenuto qui e sui particolari della spedizione. Domani inizierò a scattare le fotografie. Crede che suo nonno poserebbe per me? Non gli porterei via molto tempo, ma mi pare giusto che una persona che ha investito tanto in quest'operazione... insomma, ne avrebbe un ricono-scimento.»

«Mio nonno è un uomo d'affari e finanzia parte di questa spedizione, ma non credo che voglia apparire in nessun reportage. Comunque, glielo chie-derò.»

«Grazie, anche se suo nonno è un uomo modesto, credo che dovrebbe posare, almeno con lei.»

«Le ho già detto che glielo chiederò, ma adesso non insista.» «A me piacerebbe rimanere.» La voce dolce di Gian Maria riportò tutti

alla realtà. Clara lo guardò con affetto. Ormai voleva davvero bene al sacerdote, che

la seguiva dappertutto come un cane da guardia. Gian Maria soffriva quando lei se ne andava o quando la perdeva di vista. Le dimostrava una devozione che la commuoveva ma che lei non capiva del tutto.

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«Fino a che non parleremo con Ahmed è meglio non prendere decisioni» affermò Yves Picot.

«Già, però se Clara continuerà i lavori, io resterò con lei» dichiarò Gian Maria.

«Ma cosa dici? Qui non possiamo rimanere. Quando scoppierà la guerra, credi che potrete continuare gli scavi? Non ci sarà un solo uomo disposto ad aiutarvi, saranno tutti impegnati a combattere e, in ogni caso, non sca-verebbero con le bombe che gli cascano addosso.» Picot era furioso. An-che lui si era affezionato a Gian Maria e si sentiva responsabile di ciò che gli sarebbe potuto accadere.

«Hai ragione ma, se Clara rimane, rimango anch'io» insistette il sacerdo-te.

«Gian Maria, non essere testardo» lo redarguì Marta. «Quando finirà la guerra, forse potremo ritornare» gli disse Fabián per

consolarlo. Clara restò in silenzio, senza sapere cosa dire. La sorprendeva la fermez-

za con cui Gian Maria insisteva per rimanere al suo fianco. Il sacerdote le stava dimostrando una fedeltà che non avrebbe mai immaginato.

La discussione continuò perché gli altri membri della squadra cercarono di convincere Gian Maria a tornare con loro, anche se fu tutto inutile.

Gian Maria si trattenne a lungo seduto sulla soglia della casa che divide-va con Ante Plaskic e Lion Doyle. Non aveva voglia di dormire, e gli pia-ceva molto stare solo quando tutto l'accampamento riposava.

Accese una sigaretta e lasciò vagare lo sguardo nel cielo pieno di stelle. Aveva bisogno di fare ordine dentro di sé. Si trovava lì da parecchi mesi, e a volte si domandava chi era, chi era stato, che ne sarebbe stato di lui.

La sua fede in Dio era ancora incrollabile: quella era l'unica cosa a non essere cambiata. E non aveva dubbi riguardo alla sua vocazione sacerdota-le. Non avrebbe voluto essere altro che un prete, ma tornare alla tranquilli-tà della stanza nel convento dov'era vissuto da quando era stato ordinato sacerdote era per lui un enorme sacrificio. Si era sorpreso quando il suo superiore l'aveva inviato a confessare a San Pietro. In un primo momento si era sentito schiacciato dalla responsabilità e aveva manifestato dubbi ri-guardo alla propria capacità di accogliere in confessione pellegrini prove-nienti da tutte le parti del mondo, ma il suo superiore l'aveva convinto che quello era il suo posto. "Il Vaticano" gli aveva detto "ha bisogno anche di sacerdoti giovani che prendano contatto con la realtà del mondo, e per que-sto non c'è nulla di meglio dei confessionali di San Pietro."

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Per questo, quando non aveva da studiare o non faceva lezione, ascolta-va le anime tormentate in cerca di consolazione, convinte che lì, in Vatica-no, sarebbero state più vicine al perdono di Dio.

Adesso doveva tornare, ma nulla sarebbe più stato come prima. Gli sa-rebbero mancati la vita all'aria aperta e il cameratismo che aveva conosciu-to in quel gruppo eterogeneo.

Tutti i giorni, prima che l'accampamento si svegliasse, lui si alzava e, dopo aver pregato, diceva messa. Una messa in cui c'erano solo lui e Dio, dal momento che nessuno aveva dimostrato interesse a partecipare e lui non aveva insistito.

Gli sarebbe mancata, una volta a Roma, quella sensazione di libertà che si portava nell'anima.

Pensò a Clara, dicendosi che provava per lei un affetto sincero. A forza di cercare di proteggerla la sentiva come una sorella, anche se era una per-sona difficile e un po' scontrosa. Forse era giunto il momento di rivelarle che era lì per salvarle la vita o, almeno, per tentare di impedire che le ve-nisse fatto del male. Tuttavia, non avrebbe potuto farlo senza infrangere il segreto, senza tradire Dio e l'uomo che gli aveva fatto quella confessione.

Il segreto del confessionale era sacro, dunque lui non poteva neppure spiegarle perché sapeva che avrebbero cercato di uccidere lei e suo nonno.

Clara si avvicinò lentamente alla porta di casa di Gian Maria e si sedette accanto a lui. Accese anche lei una sigaretta e lasciò correre lo sguardo al-l'orizzonte. «Non devi restare, il professor Picot ha ragione.»

«Lo so, ma voglio rimanere, non mi sentirei tranquillo a saperti qui.» «È possibile che mio nonno mi obblighi ad andare al Cairo.» «Al Cairo?» «Sì. Come saprai, parte della mia famiglia viene da lì. Abbiamo una ca-

sa, dove potrai venire quando vuoi.» «Dunque, te ne andrai?» le chiese senza nascondere la preoccupazione. «Mi tratterrò qui finché sarà possibile, ma credo che mio nonno mi co-

stringerà ad andarmene quando scoppierà la guerra. Potresti chiedere a Dio di aiutarci a trovare quelle tavolette?»

«Glielo chiederò, ma puoi farlo anche tu. Preghi qualche volta?» «No, mai.» «Sei musulmana?» «No, sono agnostica.» «Anche se non sei praticante, apparterrai a una religione.» «Mia madre era cristiana, sono battezzata, ma non sono mai entrata in

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una chiesa o in una moschea, nemmeno per curiosità.» «Allora, perché quest'ossessione di trovare la Bibbia d'argilla? Solo per

vanità?» «Ci sono bambini che crescono ascoltando racconti di fate o di castelli

incantati. Mio nonno mi parlava della Bibbia d'argilla. Mi diceva che vole-va che la trovassi io, e mi narrava storie in cui io ero l'eroina, un'archeolo-ga che scopriva un tesoro, il tesoro più importante del mondo, la Bibbia d'argilla.»

«E vuoi trasformare in realtà un sogno infantile.» «Tu non riesci a credere che il patriarca Abramo abbia parlato a uno

scriba della Creazione?» «La Bibbia non dice nulla al riguardo ed è molto precisa nel raccontare

la storia del patriarca...» «Saprai che gli archeologi non hanno ancora trovato parecchie delle città

descritte dalla Bibbia, e che non ci sono prove dell'esistenza di molti per-sonaggi, tuttavia credi a tutto ciò che è contenuto nelle Sacre Scritture.»

«Clara, non dico che non esista una Bibbia d'argilla. Abramo viveva su questa terra, conosceva le leggende sulla creazione del mondo, sul Diluvio; probabilmente avrà parlato a qualcuno di tali leggende, o forse Dio gli a-veva rivelato la Verità... non lo so; sinceramente non so cosa pensare a questo proposito.»

«Però sei qui, hai lavorato più sodo degli altri, e vuoi restare ancora. Perché?»

«Se la Bibbia d'argilla esiste, la voglio trovare anch'io, sarebbe una sco-perta straordinaria per i cristiani.»

«Sarebbe una scoperta come quella di Troia, o di Micene, come le tombe dei faraoni nella Valle dei Re... Chi troverà la Bibbia d'argilla passerà alla storia.»

«Tu vuoi passare alla storia?» «Io voglio trovare le tavolette di mio nonno, voglio potergliele conse-

gnare, voglio realizzare il suo sogno.» «Lo ami molto.» «Sì, amo moltissimo mio nonno e... credo che lui abbia amato solo me.» «Gli uomini lo temono, anche Ayed Sahadi.» «Lo so, mio nonno... è esigente, gli piacciono le cose fatte bene.» Gian Maria non volle rivelarle che gli uomini assicuravano che Alfred

Tannenberg godeva del dolore altrui, che umiliava i deboli e castigava con sadismo chiunque lo contrariasse. Non volle neppure dirle tutto ciò che sa-

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peva di lui. Solo in un'occasione Gian Maria si era trovato al cospetto di Alfred

Tannenberg, qualche giorno prima, quando una sera aveva consegnato a Clara una copia della traduzione delle ultime tavolette rinvenute.

Tannenberg stava leggendo in fondo alla sala e l'aveva fatto entrare. L'a-veva interrogato dettagliatamente per un quarto d'ora, poi era parso stufarsi e gli aveva chiesto di aspettare Clara nell'ingresso. Gian Maria aveva la-sciato la casa sicuro di avere visto in Tannenberg una manifestazione del diavolo in persona, certo che il Maligno fosse annidato in quell'uomo.

«Tu non assomigli a tuo nonno» affermò il sacerdote. «Io credo di sì; mio padre diceva che sono testarda come lui.» «Non mi riferisco alla cocciutaggine, ma alla tua anima... non è come

quella di tuo nonno.» «Ma tu non conosci mio nonno» protestò Clara. «Non sai com'è.» «Però conosco te.» «E cosa pensi di me?» «Credo che tu sia la vittima di un sogno, il sogno di tuo nonno, che non

ti ha permesso di avere sogni tuoi. Ha condizionato la tua vita al punto che, senza saperlo, ti sei ritrovata prigioniera.»

Clara lo guardò fisso e si alzò. Non era arrabbiata con Gian Maria, non avrebbe potuto esserlo perché capiva che quanto lui le aveva detto era ve-ro, e poi il sacerdote le aveva parlato con affetto, senza l'intenzione di of-fenderla, quasi tendendole la mano per guidarla nelle tenebre. «Grazie, Gian Maria.»

«Buonanotte, Clara, buon riposo.» Fatima l'aspettava sull'uscio e le fece cenno di restare in silenzio; poi

l'accompagnò nella stanza del nonno, dove Samira, l'infermiera, gli stava facendo un'iniezione sotto lo sguardo attento del dottor Najeb.

«Ha fatto uno sforzo più grande del previsto per dimostrare che stava bene» sussurrò il medico.

«Ha avuto una crisi?» volle sapere Clara. «È svenuto appena tornato in camera. Meno male che Samira era qui in

attesa di fargli l'iniezione prima di dormire, altrimenti non so proprio che cosa sarebbe accaduto» spiegò il dottor Najeb.

Samira aiutò Fatima a coricare l'anziano e costui tese la mano verso Cla-ra, che gli si sedette accanto.

«Ti sei sforzato troppo; non permetterò che si ripeta» lo sgridò la nipote mentre gli accarezzava la mano.

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«Sto bene, sono solo stanco. Quegli uomini sono iene, venivano a vedere se ero già morto per lanciarsi sopra di me. Ho dovuto dimostrargli che se si avvicineranno saranno loro a morire.»

«Nonno, non potresti fidarti di me?» «Mi fido di te, sei l'unica persona di cui mi fido.» «Allora spiegami che cos'è quell'operazione tanto importante, dimmi

perché vuoi che si concluda a ogni costo, e io farò in modo che eseguano i tuoi ordini. Posso farlo.»

Alfred Tannenberg chiuse gli occhi stringendo la mano della nipote. Per un istante fu tentato di spiegare a Clara in cosa consisteva l'Operazione Adamo, e poter così riposare, ma vi rinunciò perché sapeva che, se in quel momento avesse messo la nipote al corrente, amici e nemici l'avrebbero in-terpretato come un segno di debolezza da parte sua. E poi, si disse, Clara non era pronta a trattare con uomini per i quali la vita degli altri non aveva alcun valore.

«Dottore, vorrei rimanere solo con mia nipote.» «Non deve stancarsi...» «Uscite.» Fatima aprì la porta, pronta a obbedire all'ordine di Tannenberg. Samira

uscì per prima, seguita dal dottor Najeb, poi Fatima si chiuse l'uscio alle spalle.

«Nonno, non fare sforzi.» «Gli americani attaccheranno il 20 marzo. Hai quindici giorni per trova-

re la Bibbia d'argilla.» Clara ammutolì, scioccata dalla notizia. Una cosa era immaginare che ci

sarebbe stata una guerra, un'altra sapere con esattezza il giorno in cui sa-rebbe scoppiata. «Allora è inevitabile.»

«Sì, e grazie alla guerra guadagneremo parecchi soldi.» «Ma, nonno...!» «Su, Clara, ormai sei una donna e immagino che tu abbia capito che non

c'è affare più redditizio della guerra. Io ho sempre trafficato con le guerre. Abbiamo fatto la nostra fortuna grazie alla stupidità altrui. Ti leggo negli occhi che non vuoi che ti dica la verità... d'accordo, lasciamo perdere. Ma non devi dire a nessuno che la guerra scoppierà il 20 marzo.»

«Picot vuole partire.» «Lascialo andare, non importa; bisogna solo fare in modo che rimanga

ancora per qualche giorno, fino al 17 o al 18. Nel frattempo potrete lavora-re.»

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«E se non troveremo le tavolette?» «Avremo perso. Vedrò vanificarsi l'unico sogno della mia vita. Domani

parlerò con Picot. Voglio proporgli qualcosa perché tutto questo lavoro non sia stato inutile e soprattutto per salvarti.»

«Ce ne andremo al Cairo?» «Te lo farò sapere. Ah, e fa' attenzione a tuo marito! Non lasciarti ab-

bindolare.» «Ahmed e io abbiamo chiuso.» «Sì, ma io posseggo molto... sto morendo e tu erediterai tantissimi soldi.

Potrebbe cercare una riconciliazione; i miei amici si fidano di lui, sanno che è un uomo in gamba, per cui non si stupirebbero se mi sostituisse negli affari, dopo la mia morte.»

«Per l'amor del cielo, nonno!» «Tesoro, dobbiamo affrontare questo argomento, non c'è più tempo per

le illusioni. E adesso lasciami dormire. Domani offri agli uomini paga doppia perché si impegnino a fondo, devono continuare a scavare in quel maledetto tempio, devono trovare la Bibbia d'argilla.»

Quando uscì dalla stanza di suo nonno, Clara trovò Samira e Fatima ad attenderla.

«Il dottore ha detto di vegliarlo, questa notte» spiegò Samira. «Gli ho assicurato che mi posso fermare io...» si offrì Fatima. «Tu non sei un'infermiera» replicò Clara con dolcezza. «Però lo so accudire, lo faccio da cinquant'anni.» «Per favore, Fatima, va' a riposare. La casa non va avanti senza di te, e

se non dormi qui sarà un caos.» Abbracciò la vecchia domestica e fece se-gno a Samira di entrare nella stanza del nonno. Poi si diresse in camera sua.

Ahmed era seduto sulla branda e leggeva. Clara si accorse che non si era messo il pigiama, indossava una maglietta e un paio di pantaloncini corti.

«Ciao, Clara.» «Ciao.» «Sembri sfinita.» «Lo sono.» «Ti ho cercata, ma mi hanno detto che stavi parlando con il sacerdote.» «Ci siamo seduti a fumare una sigaretta.» «Siete diventati amici?» «Sì, è una brava persona, non ne ho conosciute tante nella mia vita.» «Tuo nonno è peggiorato, vero?»

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«No, e mi stupisce che tu abbia quest'impressione.» «Be', le notizie arrivano dal Cairo.» «Suppongo che sia Yasir il portatore di simili notizie, ma sono false.

Mio nonno è stazionario, se è questo che vuoi sapere.» «Naturalmente, la testa gli funziona sempre, ma mi è parso... non so, più

fragile, dimagrito.» «Se lo dici tu... Le ultime analisi sono perfette, dunque non c'è pericolo

che gli accada nulla.» «Non metterti sulla difensiva.» «Non è questo, però so che ti piacerebbe vedere mio nonno morto, ma

lui non ti darà questa soddisfazione.» «Clara!» «Su, Ahmed, ci conosciamo abbastanza bene. Mi è costato molto ren-

dermene conto, ma è evidente che tu lo odi. Credo che in fondo non sop-porti di essere un suo dipendente.»

Lui si alzò di scatto e strinse i pugni. Clara lo guardò con aria di sfida, sapendo che non avrebbe osato torcerle un capello perché ciò avrebbe si-gnificato firmare la sua condanna a morte.

«Credevo che ci saremmo potuti separare in modo civile, senza farci del male» replicò Ahmed attraversando la piccola stanza per prendere una bot-tiglia d'acqua minerale.

«La nostra separazione non ha nulla a che vedere con la verità.» «E qual è la verità, Clara?» «Che sei un impiegato di mio nonno, che sei dovuto rimanere in Iraq

perché lui ti darà un sacco di soldi per la tua collaborazione in questo ulti-mo affare con i suoi amici Enrique, Frank e George.»

«Sono anni che lavoro per tuo nonno, questa non è una novità per te. Cos'è che mi rimproveri?»

«Non ti rimprovero nulla.» «Sì che lo fai, ma non vuoi spiegarmi perché. Sarà che siamo tutti ner-

vosi per questa guerra...» «Perché non te ne sei ancora andato?» «Vuoi sapere la verità?» «Sì.» «Bene, forse è giunta l'ora di dirci chiaramente cose che ci siamo sempre

taciuti. Non me ne sono andato perché tuo nonno me l'ha impedito. Mi ha minacciato di farmi arrestare dal Mujabarat. Ci sarebbe riuscito senza pro-blemi, doveva solo alzare il telefono per mandarmi all'inferno. Alfred Tan-

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nenberg ha molto potere in questo paese. Per questo ho accettato le sue condizioni. Non credere che io l'abbia fatto per denaro, l'ho fatto per so-pravvivere.»

Clara lo ascoltava senza muovere un muscolo. Capì che Ahmed era pronto a dirle ciò che le aveva taciuto per anni, vedeva nei suoi occhi tanta rabbia e sapeva che lui avrebbe cercato di demolire il piedistallo su cui lei aveva posto suo nonno.

«Sai in che cosa consiste quest'ultimo affare? Te lo dirò io, sono sicuro che tuo nonno te lo nasconde e che tu, d'altronde, fingi di non saperlo. Hai sempre preferito vivere nell'ignoranza per la paura di offuscare i tuoi sen-timenti nei suoi confronti. Tuo nonno ha fatto fortuna grazie all'arte. È il più grande saccheggiatore di tesori del Medio Oriente.»

«Tu sei pazzo!» «No, è la verità. Alcune delle spedizioni archeologiche che ha finanziato

avevano un unico scopo: mettere le mani sugli oggetti di maggior valore che fossero stati rinvenuti. Non ha avuto scrupoli a corrompere funzionari che arrivavano a malapena alla fine del mese e che, per denaro, hanno fatto finta di non vedere, permettendo ai ladri di portarsi via i tesori dai musei. Ti sorprende? È un affare molto lucroso, che muove milioni di dollari e che ha reso ricco tuo nonno e i suoi rispettabilissimi amici. Loro vendono pezzi unici a clienti privilegiati. Tuo nonno è incaricato di questa parte del mondo, Enrique dell'Europa e Frank dell'America del Sud. George è l'ani-ma dell'affare. Può vendere un'incisione romanica di un eremo in Castiglia come la pala di un altare sudamericano. Nel mondo c'è gente assai capric-ciosa, vede qualcosa e la vuole per sé, ed è solo questione di soldi poterla ottenere. Il gruppo degli eccentrici appassionati d'arte è piuttosto esiguo, ma sono davvero generosi al momento di pagare. Sei pallida, vuoi dell'ac-qua?»

Ahmed prese la bottiglia di minerale e riempì un bicchiere, che porse a Clara. Stava godendo di quel momento. Da anni reprimeva l'indignazione per l'atteggiamento infantile di sua moglie, che preferiva non sentire e non vedere ciò che accadeva intorno a lei. Clara si limitava a vivere, distrug-gendo tutto ciò che si frapponeva sulla sua strada, prendendo ciò che le piaceva, accecata da una deliberata ignoranza che le faceva apparire inno-centi gli affari sporchi di Alfred Tannenberg.

«Tuo nonno non mi ha permesso di andarmene perché ha bisogno di me per l'ultima operazione. Senza di me sarebbe stato molto più difficile, e al-lora non mi ha dato scelta. Ti dirò in che cosa consiste. Ricordi la guerra

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del Golfo? Tuo nonno seppe in anticipo il giorno esatto in cui gli america-ni avrebbero cominciato a bombardare e ideò un piano davvero ingegnoso. Quando avessero iniziato a sganciare le bombe, i suoi uomini sarebbero entrati in alcuni musei e avrebbero portato via gli oggetti più preziosi.

«Fece una lista dettagliata di alcuni pezzi che si trovavano al museo di Baghdad. Non erano molti, una ventina, ma di valore inestimabile. Fu un grosso affare e ora lui e i suoi amici hanno pensato di organizzarne uno ancora più ambizioso. Hanno informatori efficienti. George ha contatti con l'amministrazione statunitense e notizie sicure sui piani del Pentagono. Per questo non ha avuto problemi a venire a sapere la data esatta in cui scop-pierà la guerra. Sai in cosa consiste quest'operazione?»

Ahmed tacque in attesa che Clara gli chiedesse di continuare. Ma lei ri-mase in silenzio guardandolo fisso, senza battere ciglio.

«È un furto di dimensioni enormi. Alfred Tannenberg si porterà via tutti gli oggetti di valore di questo paese. I suoi uomini entreranno nei musei più importanti dell'Iraq, non solo in quello di Baghdad. Vuoi sapere chi gli ha fornito una lista di pezzi unici di valore incalcolabile? Io. Sono stato io a preparare questo elenco di oggetti che sono patrimonio dell'umanità ma finiranno nei musei privati di miliardari capricciosi che anelano di bere nello stesso calice di Hammurabi. E già che ci sono, oltre a statue, tavolet-te, sigilli, calici, affreschi e addirittura obelischi, ne approfitteranno per portarsi via tutto ciò che troveranno. Diciamo che ho preparato loro un paio di elenchi, uno di pezzi unici, l'altro di oggetti importanti.»

«Non è... possibile» riuscì a dire Clara. «È molto semplice, invece. Il 20 marzo scoppierà la guerra, non te l'ha

detto tuo nonno? Dunque, quel giorno i suoi uomini entreranno nei musei e ne usciranno rapidamente. Ogni gruppo si dirigerà verso una frontiera, quelle del Kuwait, della Turchia, della Giordania, e una volta raggiunti quei paesi consegneranno il bottino ad altri, incaricati di portarlo a destina-zione. Enrique si è già compromesso con parecchi acquirenti, proprio co-me Frank, e naturalmente George. Altri pezzi li conserveranno per poi venderli al migliore offerente. Non hanno fretta, anche se a pensarci bene sono tutti e quattro piuttosto vecchi.»

«Ma in mezzo ai bombardamenti...» «Ah, questo rende le cose più facili! Quando inizierà la guerra nessuno

si preoccuperà di proteggere i musei, tutti cercheranno solo di salvarsi la pelle. Gli uomini di Alfred sono molto in gamba, sono i migliori ladri e as-sassini del Medio Oriente.»

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«Taci!» «Non gridare, Clara, non fare l'isterica» ribatté Ahmed con voce tanto

tranquilla quanto gelida. Clara si alzò dalla poltrona e iniziò a camminare per la piccola stanza.

Sentiva un bisogno irresistibile di correre via da lì, ma si trattenne. No, non avrebbe fatto o detto nulla di ciò che Ahmed si aspettava. Si voltò verso di lui, guardandolo con disprezzo per avere demolito il suo mondo, il mondo irreale e fittizio in cui aveva vissuto sin dall'infanzia per decisione del nonno. «Hai detto che la guerra scoppierà il 20 marzo.»

«Sì. Ce l'ha fatto sapere George. Quel giorno non dovrai essere qui, se ci tieni alla vita.»

«Quando ce ne dovremmo andare?» «Non lo so, tuo nonno non me l'ha detto.» «Come uscirai dall'Iraq?» «Tuo nonno ha promesso di tirarmi fuori, solo lui può farlo.» Rimasero in silenzio. Clara sentì di essere invecchiata di colpo e provò

odio nei confronti di Ahmed. Si chiese come poteva avere amato quell'uo-mo che la guardava con freddezza, in attesa di una sua reazione.

Non aveva cercato di ribattere a quanto le aveva rivelato perché sapeva che era vero. L'aveva ascoltato senza dire una parola, assorbendo tutte le informazioni che aveva sempre avuto davanti agli occhi, benché l'affetto per il nonno le avesse impedito di vederle per quello che erano.

Pensò che non le importava che cosa facesse o avesse fatto in passato suo nonno. Gli voleva bene ugualmente, non gli rimproverava nulla, e de-cise nel più profondo del suo cuore che l'avrebbe difeso da quanti, come Ahmed o Yasir, lo volevano morto.

Ahmed la guardava muoversi da una parte all'altra della stanza e si a-spettava di vederla crollare da un momento all'altro. Si sorprese nel notare che Clara riusciva a dominarsi e assumeva il controllo di se stessa, senza dare sfogo alle emozioni che lottavano per affiorare.

«Spero che tu e Yasir siate all'altezza di quanto mio nonno vi ha incari-cato di fare. Naturalmente, starò attenta che non facciate passi falsi, altri-menti...»

«Mi stai minacciando?» domandò Ahmed senza nascondere lo stupore. «Sì, è così, ti sto minacciando. Suppongo che non ti sorprenderà, dal

momento che sono una Tannenberg.» «Vuoi farti spazio nel grande business della criminalità?» «Risparmiati l'ironia e vedi di non sbagliare, con me Forse non mi cono-

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sci, Ahmed, e mi sottovaluti, ma questo è un errore che potresti pagare ca-ro.»

L'uomo era impressionato. Gli pareva davvero che la donna con cui ave-va passato le notti negli ultimi anni fosse una perfetta sconosciuta. E le credette; nel sentirla parlare in quel modo, capì che Clara sarebbe stata ca-pace di tutto. «Mi dispiace di averti dato un dolore, ma era ora che cono-scessi la verità.»

«Non essere cinico, e adesso riposa pure, se vuoi. Io vado a dormire nel-la stanza di Fatima, qui l'aria è appestata dalla tua presenza. Vattene appe-na puoi e, quando sarà terminata l'operazione, cerca di non farti trovare più sulla mia strada. Io non sarò generosa come mio nonno.»

Clara uscì dalla stanza chiudendo dolcemente la porta. Non provava as-solutamente nulla per Ahmed, solo rammarico per gli anni che aveva spre-cato al suo fianco.

Fatima sussultò nel sentire bussare all'uscio. Si alzò dal letto e socchiuse appena la porta. «Clara! Che succede?»

«Posso dormire qui?» «Mettiti nel mio letto, io mi sdraierò per terra.» «Fammi un po' di spazio, ci stiamo tutt'e due.» «No, il letto è troppo piccolo.» «Non discutere, Fatima, mi metterò vicino a te, mi spiace averti sveglia-

to.» «Hai litigato con Ahmed?» «No.» «E allora cos'è successo?» «Ahmed ha voluto farmi del male spiegandomi in cosa consistono alcuni

degli affari del nonno. Furti, omicidi... Credeva che avrei smesso di amar-lo? Mi conosce davvero così poco?»

«Tesoro, noi donne non dobbiamo impicciarci degli affari degli uomini, loro sanno ciò che devono fare.»

«Che sciocchezza! Ti voglio tanto bene, Fatima, ma non ho mai capito la tua sottomissione incondizionata agli uomini. Tuo marito rubava o uccide-va?»

«Gli uomini uccidono, loro sanno perché.» «Ma a te non importa vivere con uomini capaci di uccidere?» «Noi donne accudiamo i nostri uomini e alleviamo i loro figli, facciamo

in modo che in casa si trovino a proprio agio, ma non vediamo, non sen-tiamo, non parliamo, o non saremmo buone mogli.»

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«È davvero così semplice? Non vedere, non sentire, non parlare...» «È come deve essere. Da che mondo è mondo gli uomini lottano. Per la

terra, per il cibo, per i figli. E muoiono e uccidono. Le cose stanno così e né tu né io potremo cambiarle. E poi, chi le vorrebbe cambiare?»

«Tuo figlio è stato ucciso e non ti ho vista piangere.» «Lo piango ogni giorno, ma così è la vita.» Clara si stese sul letto e chiuse gli occhi. Era distrutta, ma la conversa-

zione con Fatima le aveva dato un po' di tranquillità. La vecchia governan-te pareva preparata alle tragedie della vita. «Tu sapevi che mio nonno si occupa di affari in cui a volte è necessario uccidere?»

«Io non sono al corrente di nulla. Il signore fa quello che deve fare, lui sa meglio di noi cos'è necessario.»

Si abbandonarono al sonno finché il primo raggio di sole s'infilò attra-verso una fessura della finestra.

Fatima si alzò e dopo un momento entrò con un vassoio che mise davan-

ti a Clara. «Fa' colazione in fretta, il professor Picot ti vuole vedere.» Quando lei giunse agli scavi, gli uomini della missione stavano già lavo-

rando. Marta le si avvicinò con tracce di argilla sulle mani. «Guarda quest'argil-

la, qui c'è stato un incendio. Abbiamo trovato resti che indicano che il tempio è bruciato, non so se in modo accidentale o doloso. È strano, ma questa mattina sembra che siamo fortunati, abbiamo potuto ripulire il pe-rimetro di un altro patio e sono venute alla luce delle scalinate, e poi armi, spade e lance spezzate, erose dal tempo. Penso che il tempio sia stato at-taccato e raso al suolo nel corso di qualche battaglia.»

«Normalmente i templi venivano rispettati» replicò Clara. «Sì, ma a volte per rifornire di denaro i loro forzieri, i sovrani hanno at-

taccato il potere religioso. Per esempio, durante il regno di Nabonedo, la necessità di incamerare soldi portò a introdurre cambiamenti nelle relazio-ni tra il potere reale e quello religioso. Il sovrano fece sopprimere lo scriba del tempio, lo sostituì con un amministratore reale, il resh sharri, la cui au-torità era superiore a quella del sacerdote, il qipu, e del shatammu, il re-sponsabile delle attività commerciali. In questo caso, magari può anche es-sere successo che, durante qualche invasione o guerra tra re, il tempio ab-bia subito la stessa sorte di altri palazzi e edifici.»

Clara ascoltava attentamente le spiegazioni di Marta, per la quale prova-va una profonda stima, non solo per la sua serietà professionale, ma soprat-

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tutto per la sua personalità. La invidiava per il rispetto che le portavano tutti coloro che lavoravano alla missione, incluso Picot, che la trattava sempre come una sua pari.

Pensò che lei non era riuscita, nella vita, a farsi rispettare come Marta. In fondo, si disse, nella sua biografia non c'era assolutamente nulla degno di nota, salvo un cognome, Tannenberg, che in alcuni luoghi del Medio O-riente era rispettato e temuto. Ma il rispetto e il timore erano per suo non-no, lei aveva solo il merito di esserne la nipote. «Picot l'ha visto?»

«Yves? Sì, certo, e abbiamo deciso di destinare più uomini a questo set-tore. Oggi lavoreremo fino a tardi; dobbiamo sfruttare al massimo il tempo che ci resta.»

Fabián, imbracato in una corda e sorretto da un sistema di pulegge ma-novrato da alcuni operai sotto lo sguardo attento di Picot, si calò in una ca-vità che pareva condurre in qualche stanza sconosciuta, nell'oscurità totale.

«Fa' attenzione, sembra profonda» gli stava dicendo Picot. «Non ti preoccupare, continuate a darmi corda, vediamo un po' dove an-

drò a finire.» «Invece mi preoccupo. Accendi la torcia. Se sotto c'è abbastanza spazio

scenderò anch'io.» Continuarono a calare Fabián lentamente finché si perse nella profonda

cavità che pareva essere un altro piano inferiore del tempio; o forse era sol-tanto un pozzo, ma non l'avrebbero saputo fin quando l'archeologo non fosse risalito in superficie.

Picot pareva nervoso e si affacciò alla bocca della cavità chiamando Fa-bián. «Come va?»

«Calatemi un po' di più, non riesco ancora a toccare il fondo» rispose Fabián, benché la sua voce risuonasse sempre più lontana.

Poi udirono un rumore sordo e subito dopo ci fu il silenzio. Picot iniziò ad allacciarsi una corda intorno alla vita, come aveva fatto Fabián.

«Aspetta, lascia che Fabián ci dica cosa c'è là sotto» suggerì Marta. «Non voglio lasciarlo solo.» «Nemmeno io, ma non succederà nulla se aspetteremo qualche minuto.

Se non avremo risposta, scenderemo.» «Scenderò io» replicò Picot. Marta non rispose; sapeva che una simile decisione era dettata dalle cir-

costanze, dunque evitò di discutere. Qualche minuto dopo videro la corda tendersi, segno che Fabián li

chiamava.

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Yves Picot si avvicinò di più alla bocca della cavità e riuscì a distinguere solo un fascio di luce nell'oscurità. «Stai bene?» gridò sperando che Fabián lo sentisse.

Di nuovo avvertirono uno strattone alla corda tenuta dalle pulegge. «Scendo. Imbracatemi e andate a cercare dei riflettori per illuminare ciò

che può esserci là sotto.» «Non abbiamo riflettori» rispose un operaio. «Allora prendete altre torce, quello che abbiamo» ordinò infastidito Pi-

cot mentre si assicurava di essere bene agganciato alla puleggia. «Marta, io scendo, prendi tu in mano la situazione.»

«Scendo anch'io.» «No. Se dovesse succederci qualcosa, chi si incaricherebbe di tutto?» «Io.» Marta e Picot guardarono Clara, che aveva pronunciato un "io" talmente

sonoro da sorprenderli. «Ti ricordo che questa missione è responsabilità di tutti e due. Sono cer-

ta che non vi accadrà nulla, ma in ogni caso qui ci sono io.» Yves Picot guardò Clara dall'alto in basso valutando se era il caso di la-

sciarla alla guida della spedizione, poi si strinse nelle spalle e con un gesto della mano indicò a Marta di prepararsi. Prima si calò lui. Avvertì l'umidità della terra appiccicata ai vestiti. Poi la collega lo seguì.

Dieci metri più sotto toccarono il suolo e videro che Fabián, rannicchiato a poca distanza da loro, stava raschiando un pezzo di parete con la spatola.

«Ben arrivati» disse loro Fabián senza voltarsi. «Si può sapere cosa stai facendo?» gli chiese Picot. «Credo che qui ci sia una porta o qualcosa che impedisce il passaggio in

un'altra stanza» rispose Fabián «ma ci sono anche tracce di pittura; se vi avvicinate le potete vedere, è un toro alato, molto bello, fra l'altro.»

«E questa cos'è?» volle sapere Marta. «Pare una sala» spiegò Fabián. «Ci sono resti di tavole di legno; se

guardate la parete che ho di fronte, vedrete che le tavole sono incassate nel muro a mo' di scaffali, dunque questo poteva forse essere un luogo dove custodivano le tavolette. Non so, non ho avuto molto tempo di guardare.»

Marta collocò a terra due potenti torce che portava legate in vita e Picot fece lo stesso. Una tenue luce illuminò ciò che pareva una stanza rettango-lare, dove, proprio come aveva appena detto Fabián, c'erano resti di tavole di legno su cui in tempi remoti dovevano avere sistemato le tavolette.

Il pavimento era coperto di pezzi di argilla e legno, oltre che di fram-

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menti di mosaico. Picot aiutò Fabián a pulire la porzione di parete in cui apparivano i resti

della pittura di un toro, mentre Marta continuava a esaminare il pavimento della stanza, dove trovò frantumi di lastre di pietra con bassorilievi sui quali figuravano tori, leoni, falchi e anatre.

«Venite a vedere!» «Cos'hai trovato?» le chiese Picot. «Dei bassorilievi. Be', quel che resta, ma sono bellissimi.» I due uomini ignorarono quell'invito e continuarono il proprio lavoro. «Perché non venite?» volle sapere Marta. «Perché qui c'è qualcosa. Accanto a questo bassorilievo la parete sembra

vuota, come se ci fosse un'altra stanza» disse Fabián. «D'accordo, io rimango qui, ma dovremmo avvisare di sopra che stiamo

bene.» «Fallo tu» le chiese Picot. Marta si spostò sul lato da cui si erano fatti calare e tirò la corda tre volte

per segnalare alla squadra che stavano bene. Poi tornò a esaminare il pa-vimento.

Un'ora dopo i tre si trovavano di nuovo in superficie, con un sorriso ra-dioso di soddisfazione.

«Cosa c'è là sotto?» domandò Clara. «Altre stanze del tempio, finora abbiamo scavato i due piani superiori,

ma ce ne sono altri, almeno quattro o cinque. Il problema è che bisogne-rebbe puntellarlo perché potrebbe crollare. Non sarà facile, e non abbiamo tempo...» spiegò preoccupato Picot.

«Potremmo reclutare altri uomini» suggerì Clara. «Anche se avessimo a disposizione più manodopera, sarebbe difficile. È

un lavoro lungo e non sappiamo per quanto potremo trattenerci qui» disse cupo Fabián.

«A proposito, Clara, dobbiamo parlare con Ahmed e con tuo nonno» le ricordò Picot. «Ieri sera non sono riuscito a incontrare tuo marito, e questa mattina dormivate ancora quando mi sono avvicinato alla casa.»

«Oggi pomeriggio, al ritorno, potrai parlarci; adesso decidiamo come procedere con le nuove scoperte là sotto.»

«Cercheremo di salvare il salvabile e di vedere cos'altro c'è, anche se non è sicuro che ce la faremo. Non si può lottare contro il tempo.»

Clara tornò all'accampamento prima degli altri. Fatima aveva mandato

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un uomo a cercarla. Quando entrò in casa, il silenzio le indicò che doveva correre immediatamente nella stanza di suo nonno.

Entrò senza che il dottor Najeb né l'infermiera, Samira, si accorgessero della sua presenza; non la vide neppure Fatima, che aveva gli occhi gonfi di lacrime.

Rimase in silenzio a osservare il medico collocare una mascherina d'os-sigeno sul volto del nonno, mentre l'infermiera sostituiva la sacca di pla-sma. Una volta finito di occuparsi del malato, i due parvero accorgersi di lei.

Il medico sussurrò a Samira di rimanere accanto a Tannenberg e fece se-gno a Clara di seguirlo fuori dalla stanza.

Clara lo guidò fino alla piccola sala che fungeva da studio del nonno. «Signora, sono molto preoccupato, non credo di poter continuare a far

fronte alla situazione.» «Cos'è successo?» «Questa mattina il signor Tannenberg ha perso conoscenza e ha avuto un

principio d'infarto. Per fortuna, in quel momento lo stavo visitando e siamo potuti intervenire prontamente. Ho provato a trasportarlo all'ospedale da campo ma si rifiuta, non vuole che nessuno si renda conto del suo stato, dunque mi obbliga a curarlo all'interno della stanza dove, come vede, ho fatto installare alcuni macchinari dell'ospedale. Se non lo trasferiremo in un vero ospedale, non reggerà ancora per molto.»

«Sta morendo» disse Clara in un tono talmente tranquillo da sorprendere il medico.

«Sì, sta morendo, questo lei lo sapeva già, ma se non faremo qualcosa accadrà prima del tempo.»

«Rispetteremo la volontà di mio nonno.» Salam Najeb non seppe come replicare. Si sentiva impotente davanti al-

l'atteggiamento apparentemente irrazionale dell'anziano e di sua nipote. Entrambi gli parevano persone molto particolari, con un codice di compor-tamento che lui non riusciva a capire. «Si assumerà lei tutta la responsabi-lità» le disse alla fine.

«Naturalmente. Adesso vorrei sapere se mio nonno è in condizioni di parlare.»

«In questo momento è pienamente cosciente, ma secondo me lo si do-vrebbe lasciare tranquillo.»

«Devo parlare con lui.» L'ostilità si riflesse sul volto del medico, che si strinse nelle spalle sa-

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pendo che era inutile discutere. Sicché, accompagnò Clara nella stanza di suo nonno. «Samira, la signora desidera parlare con il signor Tannenberg; aspetti fuori.»

Clara fece a sua volta un segno a Fatima perché anche lei uscisse dalla stanza, poi si avvicinò al letto e prese la mano di suo nonno. Era ango-sciante vederlo con la mascherina che gli copriva il volto, ma lei fece uno sforzo per sorridere. «Nonno, come stai? No, non cercare di parlare, voglio che tu stia tranquillo. Sai, credo che la fortuna sia dalla nostra parte, ab-biamo scoperto un altro piano del tempio. Picot è sceso con Marta e Fa-bián, e quando sono risaliti erano entusiasti.»

Alfred Tannenberg fece per parlare, ma Clara glielo impedì. «Per favore, ascolta soltanto! Non fare sforzi. Nonno, vorrei che ti fidas-

si di me come io mi fido di te. Ieri notte ho parlato con Ahmed e mi ha raccontato tutto.»

Gli occhi dell'anziano lampeggiarono di collera mentre, con uno sforzo sovrumano, cercava di tirarsi su strappandosi la mascherina che l'aiutava a respirare. «Cosa ti ha detto?» domandò a Clara con un filo di voce.

«Lascia che chiami Samira per rimetterti la mascherina. Io... voglio par-lare con te, ma non puoi toglierti l'ossigeno.» Clara era spaventata vedendo la reazione del nonno, si sentiva in colpa per quello che gli sarebbe potuto accadere.

«Non andartene!» le ordinò lui. «Prima finiamo il discorso, poi chiame-rai l'infermiera o chi ti pare. Voglio sapere che cosa ti ha raccontato quel-l'idiota.»

«Mi ha parlato dell'operazione che... che avete messo in moto, della par-tecipazione dei tuoi amici, di George, di Enrique e di Frank, mi ha spiegato che è un grosso affare.»

Alfred Tannenberg chiuse gli occhi mentre stringeva la mano di Clara per evitare che uscisse dalla stanza in cerca dell'infermiera o del dottore. Quando riuscì a regolarizzare la respirazione li aprì di nuovo e guardò fis-so la nipote. «Non impicciarti dei miei affari.»

«Puoi fidarti di qualcuno più che di me? Per favore, nonno, pensa alla si-tuazione in cui siamo. Ahmed mi ha detto che la guerra inizierà il 20 mar-zo, manca meno di un mese. Non stai bene, e... be', credo che tu abbia bi-sogno di me. Ti ho sentito affermare in più di un'occasione che a volte, perché un affare riesca bene, bisogna comprare la fedeltà dei propri colla-boratori e, se ti sanno malato, magari alcuni dei tuoi uomini si venderanno al migliore offerente.»

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Il vecchio chiuse di nuovo gli occhi pensando alle parole di Clara. Lo sorprendeva la freddezza con cui parlava sua nipote, la naturalezza con cui accettava il fatto che stavano preparando un enorme furto di opere d'arte che avrebbe privato l'Iraq del suo patrimonio culturale. Lei, che tanto ama-va quella terra, che era cresciuta sognando di scoprire città sconosciute, che si appassionava a ogni oggetto del passato, all'improvviso gli appariva come una donna disposta a prendere le redini di un'operazione che altro non era se non un furto.

«Che cosa vuoi, Clara?» «Voglio che né Ahmed né Yasir possano approfittare della situazione.

Desidero che tu mi dica che cosa devo fare, cosa devo dire loro, quello che ritieni opportuno venga fatto.»

«Stiamo per spogliare l'Iraq del suo passato.» «Lo so.» «E non t'importa?» Clara esitò un momento prima di rispondere. Certo che le importava, ma

la lealtà verso suo nonno stava al di sopra di qualsiasi altro obbligo e, inol-tre, non credeva possibile che gli uomini di Alfred riuscissero a saccheg-giare tutto. Non era facile svuotare un museo e, a quanto pareva, ne avreb-bero svaligiati parecchi. «Non voglio mentirti: quando Ahmed mi ha spie-gato la situazione, ho desiderato non credergli, illudermi che fosse una menzogna. Ma non posso cambiare le cose, e nemmeno te, dunque, prima questa storia finirà, meglio sarà. Ciò che mi preoccupa è che tu sei malato e qualcuno potrebbe giocarti un brutto scherzo. Questa è l'unica cosa che mi importa.»

«Visto che sai tutto, comincia ad assumerti le tue responsabilità. Ma ve-di di non sbagliare, non sopporto gli errori.»

«Cosa vuoi che faccia?» «Non ci saranno cambiamenti nell'operazione. Ho già detto ad Ahmed

cosa mi aspetto da lui, come da Yasir e...» Il vecchio non poté continuare a parlare. Gli si velarono gli occhi e Clara

sentì la sua mano gelata tra le sue, una mano senza vita. Gridò, e l'urlo ri-suonò come un ululato.

Il dottor Najeb e Samira entrarono immediatamente allontanandola dal malato. Fatima li seguì e corse ad abbracciare Clara.

Due uomini con le pistole in pugno accorsero nella stanza di Tannen-berg. Credevano che qualcuno stesse minacciando il vecchio.

«Fuori tutti!» ordinò il medico. «Anche lei» disse a Clara.

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Fatima fu la prima a riprendersi dallo shock e si fece carico della situa-zione, vedendo che Clara pareva sconvolta e che altri si accalcavano sulla porta della casa con le armi puntate. «È stato solo un falso allarme. Il si-gnore sta bene» dichiarò cercando di essere convincente.

Finalmente, Clara parve reagire e si avvicinò ai due uomini che stavano sulla soglia, in attesa di ricevere ordini. «Va tutto bene, è stato un piccolo incidente; sono caduta e mi sono fatta male. Mi dispiace, non volevo cau-sare tutta questa confusione.»

Gli uomini la guardarono senza crederle: il grido lacerante che avevano udito non poteva essere quello di una donna che si era fatta male per una semplice caduta. Clara, inoltre, non pareva ferita; era evidente che stava mentendo.

Clara comprese che dal suo comportamento sarebbero dipese le reazioni degli uomini. «Ho detto che non è successo niente! Tornate al vostro lavo-ro! Ah, e non voglio pettegolezzi! Chi non terrà la lingua a freno ne paghe-rà le conseguenze. Voi due, rimanete qui» ordinò agli uomini che erano entrati nella stanza di Tannenberg.

Fatima spinse il resto degli uomini fuori di casa e chiuse la porta perché Clara non vedesse la preoccupazione dipinta sul volto delle guardie di Al-fred.

«Non voglio sentir pronunciare neppure una parola sull'accaduto» disse Clara alle due guardie rimaste nell'ingresso.

«No, signora» rispose uno di loro. «Chi oserà fiatare, la pagherà cara. Con chi terrà la bocca chiusa saprò

essere molto riconoscente.» «Signora, lei sa bene che da anni lavoriamo per il padrone, lui si fida di

noi» protestò una delle guardie. «So che la fiducia ha un prezzo, dunque non commettete l'errore di ven-

dere informazioni su quanto accade qui. Ora, restate nell'ingresso e non la-sciate entrare nessuno.»

«Sì, signora.» Clara tornò nella stanza del nonno cercando di non fare rumore. Il dottor

Najeb guardava l'anziano, preoccupato. «Cos'è successo?» gli domandò. «È quello che stavo per chiederle io.» «Si è tolto la mascherina dell'ossigeno, stavamo parlando e all'improvvi-

so ha rovesciato gli occhi all'indietro e ha avuto uno spasmo.» «Glielo dico per l'ultima volta: o portiamo suo nonno via da qui, o dubi-

to che vivrà ancora a lungo.»

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«Mio nonno rimarrà qui, e adesso mi aggiorni sulle sue condizioni.» «La situazione è critica. Il cuore è sempre più debole. Dobbiamo aspetta-

re il risultato delle analisi che gli ho appena fatto La radiografia al fegato ci mostra l'insorgenza di nuovi tumori. Ma adesso è il suo cuore che desta preoccupazione.»

«Lui è cosciente?» «No. Ma adesso vada e mi permetta di fare il mio lavoro. La terrò in-

formata. Io non mi muoverò da qui.» «Faccia tutto quello che può, non lo lasci morire.» «Sembra che sia lei a volere che non sopravviva.» Le parole di Salam Najeb la colpirono come uno schiaffo, ma Clara non

rispose, perché sapeva che lui non avrebbe capito. Trovò Ahmed davanti alla porta della stanza di suo nonno, arrabbiato perché Fatima gli impediva di entrare.

«Che cos'è successo? Gli uomini sono agitati, dicono che ti sei messa a urlare e credono che sia accaduto qualcosa a tuo nonno.»

«Sono caduta e ho gridato, tutto qui. Mio nonno sta bene, è un po' stan-co, nient'altro.»

«Ho bisogno di parlargli; oggi sono stato a Bassora.» «Dovrai riferire a me.» Ahmed la guardò cercando di cogliere nell'atteggiamento di Clara un in-

dizio di ciò che era realmente accaduto. «Me ne andrò domani, e devo far-gli alcune domande. Che io sappia è tuo nonno a dirigere l'operazione, nes-suno mi ha avvisato di eventuali cambiamenti. Comunque nessuno accette-rà i tuoi ordini, tanto meno io.»

Clara soppesò le parole di suo marito e decise di non mettersi a discutere in quel momento, sicura che avrebbe avuto la peggio. Se Ahmed si fosse accorto che suo nonno si era aggravato, lei non sapeva quali sarebbero sta-te le conseguenze. Decise dunque di comportarsi come al solito, anche se della donna che era stata nemmeno lei sapeva quanto fosse rimasto. «Bene, allora dovrai aspettare domani, ma cercati un altro posto dove dormire. Io sono stanca di fingere davanti a tutti.»

«Credi che sia conveniente che gli altri sappiano della nostra separazio-ne? Tu avresti solo da perderci. Gli uomini non ti rispetterebbero più se sapessero che non hai più un marito, adesso che tuo nonno sta per morire.»

«Mio nonno sta bene, scordati di vederlo morto» rispose Clara rabbiosa. «Non ho nessun desiderio di dormire in camera tua. Se vuoi mi sisteme-

rò in sala, così non ti disturberò.»

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L'insistenza di Ahmed la irritava, poiché Clara sapeva che lui voleva fermarsi per controllare ciò che stava accadendo in quella casa. Se lei si fosse opposta, avrebbe accresciuto ancora di più i suoi sospetti, ma non riusciva a tollerare la sua presenza. «Mi dà fastidio dormire sotto lo stesso tetto con te perché so che vuoi il nostro male, quello di mio nonno e il mio, dunque preferisco che ti cerchi un altro posto.»

«Non desidero affatto il tuo male.» «Sai, Ahmed, non è difficile leggerti in viso. Non so in quale momento

noi due abbiamo passato il confine tra l'affetto e il disprezzo, ma è eviden-te che è accaduto. Non voglio estranei a dormire in casa mia e tu ormai per me non sei altro che un estraneo.»

«Va bene, allora dimmi dove posso andare.» «Nell'ospedale da campo c'è una branda, sistemati lì.» «A che ora potrò vedere tuo nonno, domani?» «Ti avviserò io.» «Picot mi ha detto che mi vuole parlare, vieni anche tu?» «Sì, so che ha convocato una riunione per decidere quando porre fine al-

la spedizione. Ti chiederà se hai elaborato un piano per evacuare la squa-dra nel caso in cui scoppi la guerra. I giornalisti che sono stati qui ci hanno assicurato che il conflitto è ormai inevitabile e che Bush potrebbe attaccare in qualsiasi momento.»

«Sai già che attaccheranno il 20 marzo, dunque non resta molto tempo, ma questo a loro non possiamo dirlo.»

«Lo so.» «Bene, vado a prendere le mie cose per trasferirmi in ospedale.» «D'accordo.» Clara si voltò e si avvicinò nuovamente alla camera del

nonno. Aprì la porta senza fare rumore e si appoggiò alla parete osservan-do il dottor Najeb e Samira, che in quel momento erano intenti a fargli un elettrocardiogramma. Attese che terminassero prima di rivelare la sua pre-senza.

«Le ho detto che è meglio che non stia qui» furono le parole del medico quando la vide.

«Sono preoccupata.» «Ha ragione, suo nonno sta malissimo.» «Potrà parlare?» osò domandare temendo la risposta del medico. Ma Salam Najeb pareva essersi ormai arreso all'evidenza di quanto fosse

inutile insistere sulla gravità delle condizioni del malato. «Adesso no; for-se domani, se supera questa crisi.»

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«È necessario che i suoi uomini lo vedano e... be', che possa sostenere una conversazione, anche se breve.»

«Lei sta chiedendo un miracolo.» «Voglio solo che il sogno di mio nonno non svanisca prima che lui sia

riuscito a portarlo a termine.» «E qual è questo sogno?» le domandò il medico con un'espressione ras-

segnata. «Avrà sentito parlare della nostra missione qui. Cerchiamo delle tavolet-

te che determinerebbero una rivoluzione nel mondo dell'archeologia e an-che nella storia dell'umanità. Queste tavolette sono una Bibbia, una Bibbia d'argilla.»

«Molti uomini perdono la vita inseguendo sogni impossibili.» «Mio nonno ci crederà sino alla fine; non si può arrendere ora, non lo fa-

rebbe mai.» «Non so come starà domani, e nemmeno se sarà ancora vivo. Adesso lo

lasci riposare. Se ci fosse qualche cambiamento nelle sue condizioni, la manderò a chiamare.»

«Ma lo faccia con discrezione.» «Non si preoccupi, suo nonno mi aveva istruito riguardo al valore che ha

per lui il silenzio.»

29 Yves Picot aveva preso una decisione. In realtà, la decisione gliel'aveva-

no ispirata Marta e Fabián. Giacché il rimpatrio era inevitabile, almeno sarebbero partiti portandosi

via il maggior numero possibile di reperti: i bassorilievi, le tavolette, i si-gilli... le loro ricerche erano state feconde.

Marta immaginava già una grande mostra promossa da qualche universi-tà, magari la sua, la Complutense di Madrid, in collaborazione con fonda-zioni disposte a contribuire alle spese dell'allestimento.

Fabián diceva che il lavoro fatto doveva essere presentato alla comunità scientifica, tenendo conto che probabilmente, con la guerra, non sarebbe rimasto nulla di quel tempio. Per questo credeva, come Marta, che avreb-bero dovuto valorizzare le scoperte fatte, non solo attraverso una mostra ma anche con la pubblicazione di un libro con le foto di Lion Doyle, di-segni, piantine e descrizioni.

Ma per realizzare l'idea dei suoi amici, Picot doveva convincere Ahmed

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a lasciargli portare via i tesori rinvenuti a Safran e questo sarebbe stato al-quanto difficile, poiché facevano parte del patrimonio artistico dell'Iraq e, in quelle circostanze, nessun funzionario di Saddam avrebbe osato preleva-re un solo pezzo di argilla da affidare ai paesi che avevano dichiarato loro guerra.

Pensava che forse Alfred Tannenberg avrebbe potuto far valere la pro-pria influenza per convincere Saddam a dare loro il permesso di custodire per qualche tempo i reperti. Era disposto a firmare qualsiasi dichiarazione per attestare che quel materiale era e sarebbe stato sempre iracheno e che in ogni caso sarebbe tornato nel paese cui apparteneva.

Era evidente, però, che per Alfred Tannenberg e per sua nipote l'obietti-vo della spedizione non era stato raggiunto: non erano riusciti a trovare la Bibbia d'argilla, ragione per cui avrebbero potuto rifiutarsi di aiutarli per costringerli a continuare gli scavi, anche se solo un pazzo avrebbe accetta-to di rimanere in un paese che da un momento all'altro sarebbe entrato in guerra.

Dopo avere cenato e dopo che gli altri membri della squadra si erano ri-tirati, Picot, Marta e Fabián invitarono Lion Doyle e Gian Maria a unirsi a loro per partecipare all'incontro con Ahmed e Clara.

Picot si era affezionato al sacerdote, e Lion Doyle gli piaceva. Era sem-pre di buonumore e disposto a dare una mano se necessario. Inoltre, era in-telligente, e Picot apprezzava quella dote.

Gli parve che Clara fosse nervosa e quasi assente e Ahmed un po' teso. Immaginò che la coppia avesse litigato e fosse obbligata a mantenere un contegno davanti a loro, che in fondo erano degli sconosciuti.

«Ahmed, vogliamo conoscere la sua opinione riguardo alla situazione politica. I giornalisti che sono stati qui assicurano che la guerra è ormai prossima.»

Ahmed Husseini non rispose subito. Si accese con calma una sigaretta egiziana, soffiò via il fumo, guardò Picot con un sorriso e poi replicò: «Piacerebbe anche a noi sapere se ci attaccheranno, e soprattutto quando».

«Su, Ahmed, non ci giri intorno, questo è un affare serio; mi dica quan-do dovremmo andarcene e se avete approntato un piano di evacuazione nel caso in cui attacchino di sorpresa» insistette Yves mostrando un certo im-barazzo,

«Noi sappiamo solo che ci sono paesi che stanno cercando con tutti i mezzi di evitare che si scateni il conflitto. Quello che non posso dirvi, a-mici miei, è se ci riusciranno. Quanto a voi... be', non sarò certo io a deci-

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dere cosa dovete fare. Conoscete la situazione politica come la conosco io. Anche se non mi credete, non ho più informazioni di quante ne abbiate voi, visto che le notizie arrivano dai mezzi di comunicazione occidentali. Non posso affermare che ci sarà la guerra, ma non posso nemmeno soste-nere il contrario. Dal mio punto di vista, Bush si sta spingendo un po' trop-po oltre... Insomma, secondo il mio modesto parere, le possibilità che scoppi la guerra sono molte. Per quanto riguarda quando succederà... tutto dipende dal momento in cui gli americani riterranno di essere pronti.»

Yves e Fabián si scambiarono un'occhiata in cui si rifletteva l'antipatia che provavano per Ahmed. Non riconoscevano in quell'uomo cinico e sub-dolo l'archeologo efficiente e preparato che avevano conosciuto mesi pri-ma. Sentivano che lui li stava ingannando.

«Non sia così vago» ribatté Picot senza nascondere la sua irritazione. «Mi dica quando ce ne dobbiamo andare.»

«Se volete partire adesso, provvederò a organizzare tutto perché possiate uscire al più presto dall'Iraq.»

«Che cosa accadrebbe se la guerra iniziasse ora, questa notte stessa? Come ci tirerebbe fuori da qui?» insistette Fabián.

«Cercherei di mandarvi degli elicotteri, ma non sono sicuro di poterne disporre una volta iniziato l'attacco.»

«Dunque, ci consiglia di partire subito» affermò Marta. «Credo che la situazione sia critica, ma non posso prevedere quello che

accadrà. Tuttavia, se volete un consiglio ve lo darò: andatevene prima che le cose si complichino» fu la risposta di Ahmed.

«E tu, Clara, cosa ne pensi?» La domanda di Marta sorprese la stessa Clara, oltre che Picot e Fabián. «Io non voglio che ve ne andiate, credo che potremmo ancora trovare la

Bibbia d'argilla, che ci siamo quasi, ma abbiamo bisogno di un po' di tem-po.»

«Clara, l'unica cosa che ci manca è proprio il tempo» le disse Picot. «Dobbiamo agire in base alla realtà, non ai nostri desideri.»

«Allora decidete voi, tanto quello che penso io ha ben poca importanza.» «Yves, vuole il mio parere?» domandò Lion Doyle. «Sì, certo, dica pure, è stato invitato a questa riunione perché mi interes-

sa conoscere la sua opinione, così come quella di Gian Maria» rispose Pi-cot.

«Ce ne dobbiamo andare» disse senza mezzi termini Doyle. «Non c'è bi-sogno di essere aquile per capire che gli Stati Uniti stanno per attaccare. Le

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informazioni dei colleghi giornalisti non hanno lasciato spazio a dubbi. Francia, Germania e Russia hanno perso la battaglia alle Nazioni Unite e Bush si sta preparando a un attacco da mesi. I militari del Pentagono sanno che è l'epoca migliore per dichiarare guerra a un paese come questo. Il clima è fondamentale, per cui devono essere pronti; è questione di settima-ne, tutt'al più di un paio di mesi. Magari Clara ha ragione sul fatto che se continuassimo a lavorare potremmo trovare quelle tavolette che chiamate Bibbia d'argilla, ma non abbiamo il tempo per farlo, dunque dovreste ini-ziare a smantellare l'accampamento e andarvene da qui quanto prima. Quando inizieranno a bombardare, noi saremo l'ultimo problema per Sad-dam. Ci lascerà al nostro destino, non manderà elicotteri a salvarci, senza contare che sarebbe davvero temerario salire su un elicottero durante i bombardamenti. Anche uscire dal paese su strada sarebbe un'azione suici-da. Per quanto mi riguarda, mi preparo alla partenza, non credo ci sia anco-ra molto da fare qui per me.»

Lion Doyle si accese una sigaretta. L'avevano ascoltato tutti in silenzio, e nessuno fiatava. Fu Gian Maria a scuoterli.

«Lion ha ragione, io... credo che ve ne dobbiate andare.» «Che cosa significa? Tu hai intenzione di fermarti?» chiese Marta. «Sì, se resta Clara. Mi piacerebbe aiutarla.» Ahmed guardò il sacerdote sconcertato. Sapeva che seguiva Clara ovun-

que, che non si staccava mai dal suo fianco, come un cane fedele, ma lo colpiva il fatto che per lei fosse disposto a rimanere in un paese sull'orlo di una guerra. Era sicuro che sua moglie e il sacerdote non avessero una rela-zione sentimentale, e quindi non riusciva a capire l'atteggiamento di Gian Maria.

«Seguiremo il suo consiglio, Lion» disse infine Picot. «Domani inizie-remo a smontare l'accampamento e ci prepareremo per raggiungere Ba-ghdad, e da lì tornare a casa. Quando crede di poterci portare via da qui?» domandò poi ad Ahmed.

«Appena sarete pronti.» «Forse tra una settimana, al massimo due, sarà tutto fatto» disse Picot. Fabián si schiarì la voce guardando Marta per cercare il suo appoggio.

Non poteva decidere di andarsene così; Picot pareva essersi dimenticato della loro idea: portare via dall'Iraq tutti i reperti degli scavi di Safran. «Yves, credo che dovresti domandare ad Ahmed il permesso di organizza-re una mostra con le tavolette, i bassorilievi... insomma, con quello che abbiamo trovato.»

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«Ah, sì! Vede, Ahmed, Fabián e Marta hanno pensato che dovremmo cercare di far conoscere alla comunità scientifica le scoperte di Safran. Sa bene che ciò che abbiamo portato alla luce ha un valore inestimabile. Si potrebbe organizzare una mostra itinerante in diversi paesi. Noi cerchere-mo di ottenere il patrocinio di università e di fondazioni private. Lei potrà aiutarci nell'allestimento della mostra, e naturalmente anche Clara.»

Ahmed soppesò la parole di Picot. Il francese gli stava chiedendo il permesso di portare via tutto ciò che avevano trovato. Provò un senso di amarezza. Molti degli oggetti rinvenuti erano già stati venduti a collezioni-sti privati, ansiosi di farsi consegnare la mercanzia. Clara, ovviamente, non lo sapeva, e nemmeno Alfred Tannenberg, ma Paul Dukais era stato in-transigente nell'ultima conversazione con Yasir. C'erano collezionisti, che erano venuti a conoscenza degli oggetti dissotterrati grazie al reportage pubblicato sulla rivista "Archeologia scientifica", che si erano messi in contatto con intermediari perché chiamassero l'ufficio di Robert Brown, presidente della fondazione Mondo Antico, il paravento che nascondeva gli affari sporchi di George Wagner, Frank Dos Santos ed Enrique Gómez, i soci di Alfred Tannenberg.

«Quello che mi sta chiedendo è impossibile» fu la risposta tagliente di Ahmed Husseini.

«So che è difficile, tanto più in questa situazione, ma lei è un archeologo e sa bene quanto sia importante la scoperta di un tempio» obiettò Picot. «Se lasciamo qui ciò che abbiamo trovato... be', il nostro lavoro, tutti que-sti mesi di sacrifici non avrebbero avuto senso. Se ci aiuterà a fare in modo che i suoi capi capiscano l'importanza che il mondo intero conosca quello che abbiamo scoperto, il suo paese sarà il primo a beneficiarne. Natural-mente, tutti gli oggetti torneranno in Iraq, ma prima sarebbero esposti in una mostra itinerante a Parigi, Madrid, Londra, New York, Berlino. Il suo governo potrebbe designarla come promotore della manifestazione in rap-presentanza dell'Iraq. Crediamo di potercela fare. Non vogliamo appro-priarci di nulla, chiediamo solo che il mondo possa vedere quello che ab-biamo scoperto. Abbiamo lavorato duramente, Ahmed.» Picot tacque cer-cando di intuire dall'espressione del suo interlocutore quale sarebbe stata la risposta. Ma Clara in quel momento prese la parola.

«Yves, non credi di esserti dimenticato di me?» «Niente affatto. Se siamo arrivati fin qui è stato grazie a te e al tuo im-

pegno, Clara. Nulla di quanto è stato realizzato sarebbe stato possibile al-trimenti. Non vogliamo toglierti alcun merito, anzi. Per questo vorrei che

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accettassi di interrompere gli scavi e di venire con noi. Tu sei parte fonda-mentale del nostro progetto e abbiamo bisogno del tuo contributo per pre-parare la mostra, per organizzare le conferenze e i seminari, per trasferire gli oggetti rinvenuti. Ma non potremo concludere nulla se tuo marito non farà in modo che il vostro governo acconsenta a fare uscire dall'Iraq i re-perti.»

«Forse mio marito non può farlo, ma mio nonno sì.» L'affermazione di Clara non li sorprese. In realtà, Picot aveva già pensa-

to di parlare con Alfred Tannenberg se Ahmed si fosse mostrato troppo ri-luttante. I mesi trascorsi in Iraq gli avevano insegnato che non c'era nulla che Tannenberg non potesse ottenere.

«Sarebbe stupendo che Ahmed o tuo nonno convincessero il governo a permetterci di mostrare al mondo il tesoro nascosto di Safran» disse Picot.

Ahmed pensò che non sarebbe stato intelligente mettersi a discutere con Clara, né tanto meno con Picot. Era meglio guadagnare tempo assicurando loro che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere e magari mostrarsi anche entusiasta. E poi forse quella era la sua opportunità di andarsene dal-l'Iraq. Picot gli stava offrendo una copertura inaspettata. Il problema era che molti degli oggetti trovati non sarebbero usciti dall'Iraq né con lui né con Picot. «Farò quello che posso per convincere il ministro» affermò infi-ne.

«Il ministro non sarà in grado di aiutarci, bisogna parlare con Saddam. Solo lui può autorizzare lo sdoganamento di reperti archeologici dall'Iraq» aggiunse Clara.

«Allora, verrai con noi?» domandò Marta a Clara. «No, almeno per ora; ma mi sembra una buona idea che il mondo cono-

sca ciò che abbiamo portato alla luce a Safran. Naturalmente, non porterete via nulla prima di aver firmato una dichiarazione che sancisca chi ha reso possibile questa spedizione» disse Clara in tono di sfida.

Discussero ancora per un po' delle modalità per lasciare l'Iraq appena possibile e dei dettagli per l'allestimento della mostra.

L'accampamento era avvolto da un silenzio assoluto quando Clara, ac-compagnata da Gian Maria, si diresse verso la sua abitazione, sicura che Fatima la stesse aspettando sveglia. Ahmed era entrato con discrezione nell'ospedale da campo dove avrebbe passato la notte.

«Hai sonno?» domandò Clara a Gian Maria. «No, sono stanco, ma non riuscirei a addormentarmi.» «A me piace la notte e adoro il silenzio, è il momento migliore per pen-

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sare. Mi accompagni agli scavi?» «Adesso?» domandò Gian Maria senza nascondere lo stupore per quella

proposta. «Sì, adesso. Come sai, ho sempre due uomini alle calcagna, ma fin da

piccola sono abituata ad avere la scorta, così, anche se non posso evitarli, li dimentico.»

«Be', se vuoi ti accompagno. Prendiamo l'auto?» «No, andiamo a piedi; è una passeggiata lunga, ma ho bisogno di cam-

minare.» Gli uomini che scortavano Clara rimasero diversi passi dietro di loro,

senza dare a vedere il fastidio che comportava la rinuncia a ore di sonno per assecondare i capricci della nipote di Tannenberg.

Quando giunsero in prossimità degli scavi, Clara cercò un luogo dove sedersi e invitò il sacerdote a fare lo stesso. «Gian Maria, mi spieghi per-ché vuoi rimanere qui? Correrai dei rischi se gli americani decideranno di bombardare il paese.»

«Lo so, ma non ho paura. Non pensare che sia un temerario, pero in que-sto momento non ho paura.»

«Tuttavia, sei un sacerdote e qui... be', qui non hai potuto esercitare il tuo ministero. Siamo tutte anime perse, anche se non hai cercato di cate-chizzarci e sei stato molto rispettoso nei nostri confronti.»

«Clara, mi piacerebbe aiutarti a trovare la Bibbia d'argilla. Se fosse vero che Abramo conosceva la Genesi... e, in questo caso, sarà stata la stessa Genesi che conosciamo noi?»

«Dunque vuoi rimanere per curiosità.» «Rimango per aiutarti. Io... be', non mi sentirei tranquillo a lasciarti so-

la.» Clara rise. La inteneriva che Gian Maria desiderasse proteggere proprio

lei, che era scortata giorno e notte da uomini armati. Tuttavia, il sacerdote sembrava convinto di possedere un potere taumaturgico che l'avrebbe pre-servata da ogni male. «Cosa dicono i tuoi confratelli quando parli con lo-ro?» gli chiese.

«Il mio superiore mi stimola a essere di aiuto a chi ne ha bisogno; è al corrente delle sofferenze che sta patendo l'Iraq.»

«Ma tu, in realtà, non stai aiutando nessuno. Sei qui con noi, lavori in una spedizione archeologica.» Nel dirlo, Clara si rese conto di quanto fos-se strano che il sacerdote fosse lì da due mesi come un membro della squadra.

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«Lo sanno, ma credono comunque che possa essere utile alle persone che stanno qui.»

«Non sarà che la Chiesa sta dietro alla Bibbia d'argilla?» domandò Clara con un certo allarme nella voce.

«La Chiesa non ha nulla a che vedere con la mia permanenza a Safran. Mi spiace che tu non ti fidi delle mie parole. Ho il permesso dei miei supe-riori per stare qui, sanno cosa sto facendo e non si oppongono. Molti sa-cerdoti lavorano, non sono l'unico, pertanto non è strano che mi lascino partecipare a una spedizione archeologica. Naturalmente un giorno dovrò tornare a Roma, ma ti ricordo che sono qui da pochi mesi, non da anni, an-che se questo lasso di tempo può esserti sembrato molto lungo.»

«No, il fatto è che... be', se ci penso mi pare strano che un sacerdote sia finito in questa spedizione.»

«Non credo di avere dato motivi per dubitare del mio comportamento. Non sono capace di falsità, Clara.»

«Sai, Gian Maria, anche se non abbiamo mai parlato di fatti personali, a volte ho l'impressione che tu sia l'unico amico che ho qui, l'unico che mi aiuterebbe se avessi un problema.»

Tacquero, lasciando vagare lo sguardo nell'immensità del cielo stellato, assaporando la calma della notte, senza sentire il bisogno di dirsi nulla. Rimasero così un po' di tempo, immersi nei propri pensieri, senza scom-porsi per i rumori della notte amplificati dal silenzio.

Poi il freddo scese su quel luogo e Clara e Gian Maria decisero di andare a dormire.

Clara entrò in casa cercando di non far rumore e si diresse verso la stan-za del nonno, sicura che Samira e Fatima lo stessero vegliando. La casa era al buio. Si appoggiò alla parete per non inciampare e sussurrò il nome di Samira senza ottenere risposta. Nell'aria fluttuava un odore intenso e dol-ciastro. Non si vedeva nulla, e né Samira né Fatima risposero al suo ri-chiamo. Trovò l'interruttore della luce. Era furiosa al pensiero che le due donne se ne fossero andate a dormire invece di accudire suo nonno.

Quando la luce illuminò la stanza, Clara soffocò il grido che le riempì la gola. Si appoggiò al muro cercando di reprimere la nausea che le attana-gliava la bocca dello stomaco.

Samira era distesa per terra con gli occhi sbarrati. Un rivolo di sangue le colava dalle labbra, pallide per l'assenza di vita. L'infermiera stringeva qualcosa in mano, ma Clara non riusciva a distinguere che cosa fosse per-ché le lacrime e la paura le avevano velato gli occhi.

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Non avrebbe saputo dire per quanto tempo fosse rimasta lì appoggiata al muro senza muoversi, ma pensò che fosse passata un'eternità quando fi-nalmente prese il coraggio di avvicinarsi al letto del nonno, con la paura di trovarlo morto come Samira.

La mascherina dell'ossigeno pendeva da un lato del letto e suo nonno era privo di sensi, bianco come la cera. Clara gli avvicinò le dita alla bocca e sentì l'alito debole dell'anziano, poi appoggiò l'orecchio sul suo petto e percepì il battito flebile di chi sta per spirare. Meccanicamente, gli sistemò la mascherina dell'ossigeno e poi corse fuori dalla stanza, senza accorgersi che in un angolo c'era un altro corpo.

Uscendo trovò i due uomini che piantonavano la camera di suo nonno distesi a terra, morti. Provò un senso di panico. Era sola e lì, in quella casa, c'era un assassino.

Varcata la porta dell'abitazione, si fermò e riprese fiato vedendo gli uo-mini di guardia alla casa, gli stessi che l'avevano salutata qualche minuto prima quando aveva lasciato Gian Maria. Com'era possibile che qualcuno fosse entrato senza che loro se ne accorgessero?

«Signora, che succede?» le chiese una delle guardie vedendola apparire sulla soglia con gli occhi spalancati dal terrore e un'espressione di panico sul volto.

Clara fece uno sforzo per parlare, per trovare un briciolo di forza per af-frontare quell'uomo che poteva essere un assassino, l'assassino di Samira e delle altre guardie. «Dov'è il dottor Najeb?» domandò con un filo di voce.

«Nel suo letto che dorme, signora» rispose l'uomo indicando la casa in cui Salam Najeb riposava.

«Vada a chiamarlo.» «A quest'ora?» «Adesso!» Il grido di Clara rivelò la sua disperazione. Poi la donna mandò un altro uomo a cercare Picot e Gian Maria. Sapeva

che avrebbe dovuto avvisare Ahmed, ma non voleva farlo fino a che non fossero arrivati il francese e il sacerdote. Non si fidava di suo marito.

Il medico giunse due minuti più tardi. Non si era nemmeno pettinato per apparire presentabile perché la guardia non gliene aveva dato il tempo; era riuscito a malapena a infilarsi un paio di pantaloni e una camicia prima di raggiungere Clara. «Che cosa è successo?» domandò, allarmato dall'aspet-to della donna.

«A che ora ha lasciato mio nonno?» gli chiese Clara senza rispondere al-la domanda del medico.

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«Erano le dieci passate. Era tranquillo. È rimasta Samira a vegliarlo. Co-s'è successo?»

Clara entrò in casa seguita dal medico e lo condusse fino alla stanza di suo nonno.

Salam Najeb restò immobile sulla porta mentre il suo volto rifletteva l'orrore per la scena che si trovava davanti. Con passo deciso, senza sof-fermarsi sul corpo senza vita di Samira, si avvicinò al letto di Alfred Tan-nenberg. Gli prese il polso, mentre guardava sul monitor le flebili linee vi-tali dell'anziano. Lo visitò a fondo per essere sicuro che non fosse ferito e controllò la mascherina dell'ossigeno. Poi preparò un'iniezione, e gli cam-biò il flacone della flebo in cui quasi non restavano tracce di liquido. Lottò a lungo per ottenere un segnale di vita dal corpo inerte del vecchio.

Quando ebbe terminato, si rivolse a Clara, che attendeva in silenzio. «Non pare aver subito alcun danno.»

«Però è incosciente» balbettò Clara. «Sì, ma spero che presto inizi a reagire.» Il medico diede un'occhiata alla

stanza e si avvicinò a Samira. Si inginocchiò ed esaminò attentamente il cadavere della donna. «L'hanno strangolata. Deve aver cercato di difender-si o di proteggere suo nonno» disse indicando Alfred Tannenberg.

Poi si alzò e si diresse verso un angolo della stanza dove, distesa in mez-zo a una pozza di sangue, c'era Fatima. Fino a quel momento Clara non aveva notato il corpo della donna e non poté trattenere un grido.

«Si calmi, è viva, anche se ha preso un colpo molto forte alla testa. Mi aiuti a sollevarla, la porteremo all'ospedale da campo, qui non posso curar-la. Vado a dare un'occhiata agli uomini qui fuori.»

Clara si inginocchiò, piangendo, accanto a Fatima, cercando di rialzarla. Due guardie, che erano rimaste a osservare la scena in attesa di istruzioni, si avvicinarono e sollevarono la donna per portarla all'ospedale, come ave-va ordinato il medico.

Quando Clara vide entrare Yves Picot e Gian Maria provò un sollievo immediato e scoppiò in lacrime.

Gian Maria si avvicinò e l'abbracciò mentre Picot cercava di ottenere da lei qualche informazione.

«Stai tranquilla, ti senti bene? Cos'è successo? Dio mio!» esclamò ve-dendo il cadavere di Samira.

«Dica alle guardie di portare il corpo dell'infermiera all'ospedale» disse il dottor Najeb a Clara. «Gli uomini di guardia sono morti sotto i colpi di un'arma da fuoco. L'assassino deve avere sparato a distanza ravvicinata, u-

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tilizzando una pistola con il silenziatore. Ho già disposto che vengano tra-sportati anche loro in ospedale.»

«E mio nonno?» gridò Clara. «Ho fatto quel che potevo. Qualcuno dovrà restargli accanto, non allon-

tanarsi mai da lui e chiamarmi se dovesse succedere qualcosa. Ma ora devo curare quella donna e lei farebbe bene ad avvisare le autorità perché svol-gano delle indagini su quanto è successo qui. Anche Samira è stata assas-sinata.»

Salam Najeb voltò loro le spalle. Non voleva che lo vedessero in lacri-me. Piangeva per Samira e piangeva per sé, per aver accettato di trasferirsi a Safran per curare il vecchio Tannenberg. L'aveva fatto per soldi. Alfred Tannenberg gli aveva offerto l'equivalente di cinque anni di stipendio per occuparsi di lui, oltre a promettergli un appartamento in una zona residen-ziale del Cairo.

Ayed Sahadi incrociò il medico sulla soglia di casa. Il caposquadra era pallido e agitato, sapeva che Tannenberg l'avrebbe considerato responsabi-le di qualsiasi disgrazia fosse successa all'accampamento e che il suo capo, il Colonnello, sarebbe stato capace di torturarlo personalmente se il siste-ma di sicurezza di cui era responsabile non avesse funzionato.

Quando entrò nella stanza di Tannenberg, due dei suoi uomini stavano uscendo con il cadavere di Samira. Clara continuava a piangere e Picot or-dinò di mandare a chiamare il capo del villaggio e di trovare una donna in grado di vegliare l'ammalato.

«Lei dov'era?» gridò Clara ad Ayed Sahadi quando lo vide entrare. «Dormivo» rispose lui seccato. «Le costerà caro quello che è successo» lo minacciò Clara. Il caposquadra non replicò, anzi, non la degnò neppure di uno sguardo.

Iniziò a esaminare la stanza, la finestra, il pavimento, la disposizione degli oggetti. Gli uomini che lo accompagnavano non osavano muovere un pas-so senza un suo ordine.

Qualche minuto più tardi giunse il comandante del contingente di soldati addetti a proteggere Safran e il sito archeologico.

Il comandante non badò a Clara e a Picot, e iniziò una discussione con Ayed Sahadi. Entrambi avevano paura; sapevano che i loro superiori erano uomini assai crudeli e che avevano in pugno le loro vite.

Clara osservava i segnali che apparivano sui monitor a cui era collegato il nonno. Credette di percepire un movimento delle palpebre, ma pensò che fosse frutto della sua immaginazione.

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Quando giunse il capo del villaggio in compagnia di sua moglie e di due figlie, Clara spiegò loro cosa avrebbero dovuto fare. Si sarebbero fatti cari-co della casa, e le due giovani avrebbero vegliato Alfred Tannenberg gior-no e notte.

Ayed Sahadi e il comandante della guarnigione stabilirono che i loro uomini avrebbero fatto irruzione in tutte le abitazioni e nelle tende in cerca di indizi che li portassero alla persona che aveva assassinato Samira e le guardie, ma che, soprattutto, era stata capace di arrivare fino al letto di Al-fred Tannenberg. Inoltre, tutti gli abitanti dell'accampamento, indipenden-temente da chi fossero, sarebbero stati perquisiti e interrogati dai soldati. La decisione più difficile da prendere fu quella di avvisare il Colonnello. Ciascuno l'avrebbe informato per conto proprio.

Alfred Tannenberg si agitava e Clara temette che stesse peggiorando, per questo mandò una delle figlie del capo del villaggio a cercare il dottor Na-jeb. La ragazza tornò accompagnata da Ahmed Husseini.

«Mi dispiace, non sono venuto prima perché ero con il dottore. Mi ha spiegato quanto è successo e l'ho aiutato con Fatima. È incosciente, ha per-so molto sangue. L'hanno colpita alla testa con un oggetto contundente. In realtà, credo che non sarà in grado di dirci nulla fino a domani, perché è sotto sedativi.»

«Ce la farà?» domandò Clara. «Pare di sì, almeno stando a quanto dice il dottor Najeb» rispose Ahmed. Fabián e Marta entrarono nella stanza dopo essersi fatti strada fra i tanti

uomini armati che si trovavano all'entrata. Yves Picot si avvicinò a loro e li informò di quanto era accaduto.

Dopo averlo ascoltato, Marta prese in mano la situazione. «Credo che dovremmo trasferirci in sala, date le condizioni del signor Tannenberg. Qui diamo solo fastidio. Lei» aggiunse rivolta alla moglie del capo del vil-laggio «prepari del caffè e quando sarà pronto ce lo porti di là. La notte sa-rà molto lunga.»

Clara la guardò con gratitudine. Si fidava di lei, sapeva che avrebbe fatto ordine in mezzo a quel caos.

Marta si rivolse al comandante e ad Ayed Sahadi, che continuavano a di-scutere in un angolo della stanza. «Avete esaminato a fondo la camera?» chiese loro.

I due uomini risposero risentiti che sapevano fare il proprio mestiere. Marta non fece caso alle loro parole. «Comunque è meglio che usciate»

ordinò loro «e vi trasferiate in sala o dove vi sembri più opportuno. Voi

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due» continuò rivolgendosi alle figlie del capo del villaggio «rimarrete con il signor Tannenberg come vi è stato ordinato. Secondo me, dovrebbero trattenersi anche un paio di guardie, ma nessun altro. Noi ci sposteremo nell'altra stanza, d'accordo?»

Uscirono tutti e si diressero nella piccola sala come aveva suggerito Marta. Gian Maria non si scollava dal fianco di Clara e Yves Picot faceva commenti sull'accaduto con Fabián.

«Non sarebbe meglio che Clara ci raccontasse cos'è successo?» chiese Marta.

Il comandante e Ayed Sahadi si resero conto di non aver domandato a Clara quando fosse entrata nella camera di Tannenberg e avesse trovato il cadavere di Samira.

La moglie del capo del villaggio varcò la soglia della stanza con un vas-soio carico di tazze e un bricco di caffè. La donna aveva anche disposto al-cuni biscotti in un piatto.

Ayed Sahadi fissò Clara e lei sentì che quell'uomo, che il nonno aveva incaricato della sicurezza dell'accampamento, la guardava con rabbia. «Si-gnora Husseini, ci dica a che ora è entrata nella camera di suo nonno e per-ché. Ha sentito qualche rumore strano?»

Clara, con voce flebile, sopraffatta dalla stanchezza e dalla paura, rac-contò della passeggiata con Gian Maria e della chiacchierata vicino al tempio e aggiunse di non ricordare a che ora fosse rincasata. Non aveva però notato nulla di strano. Gli uomini che piantonavano l'ingresso della casa si trovavano al proprio posto, e lei si era diretta nella camera del non-no in cerca di Fatima.

Descrisse tutti i particolari che ricordava della scena che si era trovata davanti una volta accesa la luce. E confessò di non aver fatto caso all'as-senza dei due uomini di guardia alla stanza del nonno, che poi aveva trova-to morti.

Per un'ora rispose alle domande di Ayed Sahadi e del comandante, che continuavano a insistere affinché non trascurasse alcun dettaglio.

«Quel che dovreste dirci voi, invece» intervenne Picot rivolto al coman-dante e ad Ayed Sahadi «è com'è possibile che, con la casa circondata dal-le guardie, qualcuno sia entrato senza essere visto e sia riuscito a raggiun-gere la stanza del signor Tannenberg, dopo avere ucciso due uomini e l'in-fermiera e avere ferito Fatima.»

«Sì, è una domanda alla quale dovrete rispondere voi due. Il Colonnello arriverà domani e pretenderà una spiegazione.»

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I due uomini si guardarono. Ahmed Husseini aveva dato loro la notizia peggiore: l'arrivo del Colonnello.

«L'hai chiamato?» domandò Clara al marito. «Sì. Questa notte hanno assassinato due uomini e una donna incaricati di

proteggere tuo nonno. Non è difficile immaginare che il bersaglio fosse lui. Dunque, mi sono sentito obbligato a informare Baghdad. Suppongo, comandante, che lo sappia già, ma in ogni caso le comunico che un distac-camento della Guardia repubblicana verrà qui per proteggerci. È chiaro che lei non ha saputo o non ha potuto farlo, e nemmeno il nostro amico Sahadi, in qualità di caposquadra, è stato in grado di prevedere il tradimento.»

«Il tradimento? Il tradimento di chi?» chiese nervoso Ayed Sahadi. «Il tradimento di qualcuno che si trova qui. Non so se sia iracheno o

straniero, ma non ho dubbi che l'assassino si trovi tra noi» sentenziò A-hmed.

«E tu non sei escluso.» Tutti guardarono Clara. Accusare direttamente il marito di trovarsi sulla

lista dei sospettati rivelava la rottura della loro relazione, cosa che, come lei ben sapeva, era un errore.

Ahmed la guardò furioso. Non replicò, benché apparisse evidente lo sforzo che faceva per dominarsi.

«La domanda è: a quale scopo?» disse Marta. «Perché?» incalzò Fabián. «Non possiamo sapere se chi si è introdotto nella stanza del signor Tan-

nenberg avesse avuto intenzione di assassinarlo, come crede Ahmed, o se fosse semplicemente un ladro che, intenzionato a rubare, è stato sorpreso da Samira e dalle guardie e...»

«Marta, è difficile che qualcuno abbia deciso di rubare proprio in casa di Tannenberg, circondata com'è da uomini armati» la interruppe Picot.

«Tu che ne pensi, Clara?» La domanda diretta di Marta colse Clara alla sprovvista. Non sapeva ri-

spondere. Suo nonno era un uomo temuto e potente e, di conseguenza, a-veva moltissimi nemici; chiunque di loro avrebbe potuto volerlo morto. «Non lo so. Non so cosa pensare, io... sono... sono sfinita. Tutto questo è orribile.»

Un soldato entrò nella sala e si avvicinò al suo comandante. Gli sussurrò qualcosa nell'orecchio e uscì tanto rapidamente com'era entrato.

«Bene» disse il comandante «i miei uomini hanno iniziato a interrogare gli operai e la gente del villaggio. Per adesso, nessuno pare sapere nulla.

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Signor Picot, interrogheremo anche i membri della sua squadra e lei stes-so.»

«Capisco; da parte mia, sono disposto a collaborare alle indagini.» «Allora prima cominciamo meglio è. Le crea dei problemi se iniziamo

da lei?» domandò il comandante a Picot. «Assolutamente no. Dove vuole che parliamo?» «Qui. Signora, ci permette di condurre in questa casa gli interrogatori?» «No» rispose Clara «cercatevi un altro posto. Credo che il signor Picot

potrà indicarvelo, magari uno dei magazzini.» Il comandante uscì, seguito da Picot, Marta, Fabián e Gian Maria. Sa-

rebbero stati i primi a essere interrogati. In sala rimasero, oltre a Clara, suo marito e il caposquadra, Ayed Sahadi.

«C'è qualcosa che non ci hai detto?» chiese Ahmed a Clara. «Ho raccontato tutto quello che ricordo, ma lei, Ayed, dovrà spiegare

come hanno fatto a introdursi nella camera di mio nonno.» «Non lo so. Abbiamo controllato porte e finestre. Non capisco da dove

siano entrati né se si tratti di un solo individuo. Gli uomini a guardia del-l'ingresso giurano di non avere notato niente di strano» assicurò il capo-squadra. «È impossibile che qualcuno si sia introdotto senza essere visto.»

«Ma qualcuno l'ha fatto. E credo che si tratti di una persona in carne e ossa, non di un fantasma, perché i fantasmi non sparano a bruciapelo, né strangolano donne indifese» affermò Ahmed con rabbia.

«Lo so... è che non mi spiego come sia potuto accadere. A meno che il responsabile non si trovasse già all'interno della casa» suggerì Ayed Saha-di.

«In casa c'erano solo Fatima, Samira e gli uomini di guardia alla stanza di mio nonno» precisò Clara. «C'era anche lei; in fondo è stata lei a trovare i cadaveri...»

Clara sussultò e si alzò in piedi dirigendosi furiosa verso Ayed Sahadi. Gli diede uno schiaffo così forte da lasciargli impresse sulla guancia le dita della mano.

Ahmed balzò in piedi e trattenne la moglie, temendo la reazione di A-yed. «Basta, Clara! Siediti! Ma siamo tutti impazziti? E lei, Ayed, non si permetta più di fare insinuazioni di questo genere; le garantisco che non sono disposto a consentirle di mancare di rispetto a mia moglie o alla mia famiglia.»

«Ci sono stati tre omicidi e tutti sono sospettati fino a che non si troverà l'assassino» disse Ayed.

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Ahmed Husseini gli si avvicinò. Pareva che lo volesse colpire ma non lo fece, si limitò a mormorare fra i denti: «Anche lei è nella lista dei sospetta-ti, forse qualcuno l'ha comprata per attentare alla vita di Tannenberg. Non faccia errori o sarà peggio per lei».

Il caposquadra uscì dalla sala mentre Clara si lasciava cadere su una se-dia. Suo marito si sedette vicino a lei.

«Dovresti cercare di non perdere il controllo. Ti stai esponendo troppo.» «Lo so, ma sono a pezzi, non ce la faccio più.» «Tuo nonno sta molto male, dovresti farlo portare al Cairo, o almeno a

Baghdad.» «Te l'ha detto il dottor Najeb?» «Non c'è bisogno che me lo dicano, basta guardarlo per capire che sta

morendo. Ammettilo, non cercare di ingannarci come fossimo degli imbe-cilli, non puoi continuare a sostenere che sta bene .»

«Ha avuto uno shock, per questo l'hai visto così...» «Non essere ridicola! Ma chi vuoi prendere in giro? Nell'accampamento

tutti parlano della sua morte imminente, credi di essere riuscita a nascon-derlo?»

«Lasciami in pace! Ti piacerebbe che mio nonno morisse, invece vivrà, vedrai quanto vivrà, e vi farà a pezzi come traditori e inetti!»

«Se con te non si può ragionare, è meglio che vada altrove a dare una mano. Fossi in te, cercherei di riposare.»

«Andrò a trovare Fatima.» «Bene, ti accompagno.» Si avviarono verso l'uscita, ma sulla porta incontrarono il dottor Najeb. Il medico pareva sfinito. Disse che non aveva ancora valutato la gravità

delle condizioni di Fatima. Senz'altro l'avevano colpita con un oggetto pe-sante che le aveva aperto una ferita profonda alla testa, da cui aveva perso molto sangue. «Il comandante ha disposto uomini armati intorno all'ospe-dale da campo.»

«Certo, Fatima è l'unica persona in grado di dirci cosa sia successo, sempre che abbia avuto il tempo di rendersi conto di ciò che accadeva in-torno a lei» affermò Ahmed.

Alfred Tannenberg respirava con difficoltà e i suoi parametri vitali pare-vano alterati. Il dottor Najeb rimproverò le donne per non averlo avvertito. Clara provò rimorso per non essere rimasta al capezzale del nonno, mentre osservava Ahmed che valutava le condizioni del malato senza nascondere un'espressione soddisfatta. Suo marito lo odiava al punto di non riuscire a

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mascherarlo. Il medico preparò una sacca di plasma e li mandò a dormire, assicurando

loro che non si sarebbe mosso dalla stanza di Tannenberg. Il rumore dell'elicottero ruppe il silenzio pesante che avvolgeva l'accam-

pamento. Picot aveva deciso, insieme con Fabián e Marta, di porre termine all'avventura in cui si erano imbarcati. Appena possibile, avrebbero inizia-to a smantellare l'accampamento per tornare a casa.

Non sarebbero rimasti nemmeno un giorno più del necessario, anche se Marta pensava che, malgrado le circostanze, bisognasse convincere A-hmed a trovare il modo per portare via dall'Iraq tutti gli oggetti rinvenuti, al fine di allestire la grande mostra che avevano progettato.

Erano stanchi, come del resto tutti i componenti della squadra, soprattut-to perché poco prima dell'alba era arrivato un distaccamento della Guardia repubblicana, la temuta milizia di Saddam Hussein.

Picot osservò Clara dirigersi insieme a suo marito verso l'elicottero. Le pale dell'apparecchio stavano ancora girando quando un corpulento uomo in divisa, con i capelli neri e i baffi folti, che pareva un sosia di Saddam, saltò giù con agilità. Lo seguivano altri due militari e una donna. L'uomo in divisa aveva un aspetto autoritario, ma a Picot parve di scorgere in lui anche qualcosa di sinistro.

Il Colonnello strinse la mano ad Ahmed e salutò Clara, poi camminò ac-canto a loro verso la casa di Tannenberg, facendo un cenno alla donna per-ché li seguisse.

La donna pareva emozionata di trovarsi in quel luogo, come si poteva intuire dall'espressione del suo volto. Clara le si avvicinò dandole il ben-venuto. Il Colonnello spiegò che era un'infermiera di fiducia dell'ospedale militare. Aveva pensato di portarla con sé per aiutare il dottor Najeb, dopo avere appreso dell'assassinio di Samira.

Il sole era già alto quando un soldato andò a cercare Picot per annun-ciargli che il nuovo arrivato voleva parlare con lui.

Clara non si trovava nella sala e neppure Ahmed; c'era solo l'uomo che chiamavano il Colonnello, con un avana e una tazza di caffè.

Picot non gli tese la mano, ma nemmeno l'altro sembrava intenzionato ad andare oltre a un breve cenno del capo a mo' di saluto. Decise di seder-si, anche se il militare non lo aveva invitato a farlo.

«Bene. Mi dica la sua opinione circa l'accaduto» gli chiese direttamente il Colonnello.

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«Non ne ho alcuna.» «Avrà una sua teoria.» «No, non ce l'ho. Ho visto solo una volta il signor Tannenberg, dunque

non posso affermare di conoscerlo. In realtà, non so niente di lui e non posso fare supposizioni sul perché qualcuno si sia introdotto nella sua stanza e abbia ucciso l'infermiera e le guardie che lo proteggevano.»

«Sospetta di qualcuno?» «Io? Assolutamente no. Sa, non riesco a capacitarmi del fatto che ci sia

un assassino tra noi.» «Invece c'è, signor Picot. Spero che Fatima sia presto in grado di parlare.

C'è la possibilità che lei abbia visto qualcosa. Insomma, i miei uomini in-terrogheranno anche i componenti della sua squadra e...»

«L'hanno già fatto, ci hanno interrogati questa notte.» «Mi spiace darvi tanto disturbo, ma comprenderà che è necessario.» «Certo.» «Bene, desidero che lei mi dica tutto ciò che sa; ho bisogno di informa-

zioni sulla gente di qui, che siano iracheni o stranieri. Con gli iracheni non ci sarà alcun problema: mi diranno loro stessi tutto ciò che voglio sapere, anche quello che preferirebbero tenere per sé. Ma la sua gente... Collabori, signor Picot, mi racconti tutto.»

«Buona parte delle persone che sono qui le conosco da parecchio tempo. Sono archeologi e studenti rispettabili; non troverà l'assassino tra i parteci-panti a questa spedizione archeologica.»

«Sarebbe sorpreso di scoprire quante persone insospettabili siano dispo-ste a uccidere. Conosce proprio tutti? Non c'è nessuno con cui è entrato in rapporti solo di recente?»

Yves Picot rimase in silenzio. Il Colonnello gli stava facendo una do-manda a cui non voleva rispondere, poiché se avesse detto che c'erano membri della spedizione che non aveva mai visto prima della partenza per l'Iraq, li avrebbe trasformati in indiziati, e questo gli ripugnava, soprattutto per le conseguenze che avrebbe potuto attirare su di loro l'ombra del so-spetto. In Iraq la gente scompariva nel nulla.

«Ci pensi, prenda tempo» gli disse il Colonnello. «In realtà, conosco tutti, sono persone raccomandate da cari amici di as-

soluta fiducia.» «Io, tuttavia, non mi posso fidare di nessuno; solo così otterremo dei ri-

sultati.» «Signor...»

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«Mi chiami semplicemente Colonnello.» «Colonnello, io sono un archeologo, non sono abituato a trattare con gli

assassini, e i membri delle spedizioni archeologiche di solito non si diver-tono a uccidere. Domandi fin che vuole, ci interroghi quanto le pare, ma dubito fortemente che possa trovare il suo killer tra noi.»

«Collaborerà?» «Farò tutto il possibile, ma temo di non avere informazioni da darle.» «Sono sicuro che mi aiuterà più di quanto immagini. Ho qui un rapporto

riguardo ai membri della sua squadra. Le farò domande su ciascuno di lo-ro, magari arriveremo a qualcosa. Possiamo cominciare?»

Yves Picot annuì. Non aveva scelta. Quell'uomo inquietante non era di-sposto ad accettare rifiuti, dunque lui avrebbe risposto alle sue domande, anche se era fermamente deciso a non dire nient'altro che banalità.

L'interrogatorio non era ancora iniziato, quando Clara entrò nella sala. Sorrideva, cosa che lo stupì. Con tre cadaveri e un assassino in libertà, non c'era molto da ridere.

«Colonnello, mio nonno vuole vederla.» «Dunque ha ripreso conoscenza...» mormorò il militare. «Sì, dice di sentirsi più in forma che mai.» «Vado immediatamente. Signor Picot, noi parleremo più tardi...» «Quando vuole.» Il Colonnello uscì dalla sala accompagnato da Clara. Picot respirò solle-

vato. Sapeva che non si sarebbe potuto sottrarre all'interrogatorio, ma al-meno aveva tempo per prepararsi. Intanto avrebbe cercato Fabián e Marta per parlarne con loro.

Il dottor Najeb fece un cenno a Clara e al Colonnello perché non si avvi-cinassero al letto di Tannenberg fino a che l'infermiera non avesse cambia-to la sacca di plasma. La donna pareva efficiente e un minuto più tardi a-veva terminato il suo compito.

Salam Najeb stava per addormentarsi in piedi; i segni della stanchezza erano evidenti sul suo volto e nel suo aspetto, come pure la tensione per la lunga veglia trascorsa a lottare per la vita di Alfred Tannenberg. «Pare es-sersi miracolosamente ripreso, ma non dovreste stancarlo» consigliò a Cla-ra e al Colonnello, benché sapesse che non avrebbero badato alle sue rac-comandazioni.

«Lei dovrebbe riposare, dottore» disse Clara. «Sì, ora che la signorina Aliya è qui, andrò a rinfrescarmi e a dormire un

po'. Ma prima passerò a vedere Fatima.»

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«I miei uomini la stanno interrogando» lo informò il Colonnello. «Avevo chiesto di lasciarla tranquilla fino a quando avessi stabilito che è

in condizioni di parlare!» protestò il medico. «Su, non faccia così! È ritornata dal regno dei morti e può esserci molto

utile. Solo il signor Tannenberg e Fatima sanno cos'è accaduto in questa stanza, dunque è nostro dovere parlare con loro. Abbiamo tre cadaveri, dottore» rispose il Colonnello, facendo capire che niente e nessuno si sa-rebbe potuto opporre alle sue decisioni.

«Quella donna è molto grave e il signor Tannenberg...» Salam Najeb si interruppe: lo sguardo del Colonnello era sufficientemente esplicito perché un uomo prudente non azzardasse una parola di più.

L'infermiera si fece da parte, lasciando Clara e il Colonnello accanto al malato. Clara prese la mano del nonno fra le sue e gliela strinse, lieta di sentirlo vivo.

«Non possono mettersi contro di te, vecchio amico mio» fu il saluto del Colonnello.

Alfred Tannenberg aveva gli occhi infossati e il pallore delle sue guance indicava che la morte era sempre in agguato, ma la fierezza del suo sguar-do non lasciava dubbi sul fatto che avrebbe lottato sino alla fine per la sua vita. «Cos'è successo?» domandò l'anziano.

«Questo ce lo puoi dire solo tu» rispose il Colonnello. «Non ricordo nulla di preciso... Qualcuno si è avvicinato al mio letto,

credevo fosse l'infermiera, e mi ha illuminato la faccia, poi ho sentito dei colpi secchi, ho cercato di tirarmi su e... non so, penso di essere riuscito a togliermi la mascherina dell'ossigeno. La luce era spenta e non vedevo nul-la... Credo che mi abbiano colpito. Sono confuso, non ricordo bene che co-sa sia successo. Non ho visto niente, ma so che c'era qualcuno qui, qualcu-no che si è avvicinato a me. Avrebbero potuto uccidermi, voglio che pu-niate gli uomini incaricati di sorvegliare la casa. Sono degli inetti, né la mia vita né questo paese sono sicuri nelle loro mani.»

«Non preoccuparti, ci ho già pensato io. Piangeranno tutti i giorni che gli restano da vivere per avere permesso che succedesse una cosa simile» as-sicurò il Colonnello.

«Suppongo che quanto è accaduto non influirà sul lavoro della spedizio-ne, Clara potrà ancora trovare quello che stiamo cercando» affermò Tan-nenberg.

«Picot se ne va, nonno.» «Non glielo permetteremo, resterà qui» sentenziò il vecchio.

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«No, non possiamo fare una cosa simile, sarebbe... un errore. È meglio che parta, rimarrò io il tempo necessario, ma anche tu dovrai andartene da qui. Il Colonnello è d'accordo.»

«Io resto con te!» gridò Tannenberg. «Dovresti ripensarci, amico mio; il dottor Najeb insiste perché ti si porti

via di qui. Ti garantisco l'incolumità di Clara, farò in modo che non le ca-piti nulla, ma tu te ne devi andare» disse il Colonnello.

Alfred Tannenberg non replicò. Si sentiva sfinito ed era cosciente di quanto fosse esile il filo che lo teneva legato alla vita. Se l'avessero portato al Cairo, forse avrebbe potuto resistere ancora un poco, ma quanto? Senti-va che non doveva abbandonare sua nipote alla vigilia della guerra, poiché quando fosse cominciata nessuno si sarebbe più preso cura di lei. «Vedre-mo, c'è ancora tempo» disse infine. «Adesso voglio incontrare Yasir e Ahmed, ciò che è successo non si deve ripercuotere sull'operazione.»

«Ahmed sembra in grado di portarla avanti» commentò il Colonnello. «Ahmed è incapace di fare qualsiasi cosa di sua iniziativa. Non sono an-

cora morto, e anche quando accadrà non sarà lui il mio erede» sentenziò Tannenberg.

«Sapevo delle vostre divergenze, ma forse in questo momento dovresti essere più accomodante. Cosa ne pensi, Clara?»

Clara non rispose alla domanda del Colonnello. Sarebbe stata fedele a suo nonno fino all'ultimo respiro, e poi nemmeno lei si fidava di Ahmed. «Nonno, se vuoi fare una riunione, andrò a cercare le persone che desideri vedere» disse invece.

«Chiedi a tuo marito di venire qui, e anche ad Ayed Sahadi e a Yasir. Ma prima devo prepararmi a riceverli. Di' all'infermiera che mi aiuti a ve-stirmi.»

«Ma non puoi alzarti!» esclamò Clara spaventata. «Certo che posso. Fa' come ti ho detto.» Gli uomini del Colonnello non erano riusciti a farsi dire da Fatima nulla

di rilevante. La donna poteva appena parlare, e non smetteva di piangere. Ricordava che era seduta accanto al letto di Alfred Tannenberg e si era ad-dormentata mentre Samira preparava le sacche di plasma che sarebbero servite al vecchio durante la notte. A un certo punto aveva udito un rumore fuori dalla porta, ma non aveva aperto gli occhi, immaginando che fosse caduto qualcosa agli uomini che stavano di guardia.

All'improvviso un altro rumore, questa volta nella stanza, l'aveva fatta

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voltare in direzione di Samira. Aveva visto qualcuno vestito di nero dalla testa ai piedi, con il volto coperto, che strangolava l'infermiera; non aveva fatto in tempo a gridare, perché la figura si era abbattuta su di lei, le aveva tappato la bocca e l'aveva colpita con un oggetto che aveva in mano. L'a-veva percossa più volte fino a che lei aveva perso i sensi. Era tutto ciò che rammentava.

Aveva detto che non sapeva se fosse stato un uomo ad aggredirla, ma doveva essere così, in quanto era molto forte. Indossava dei guanti, perché lei aveva cercato di mordere la mano che le tappava la bocca e si era resa conto che era coperta da una stoffa elasticizzata. Non ricordava invece nessun odore particolare, né di avere udito qualche voce, rammentava solo di avere avuto paura, una paura assoluta, profonda, perché aveva temuto che sarebbe morta. Ringraziava Allah per avere salvato la vita a lei e al suo padrone.

30

Lion Doyle passeggiava per l'accampamento in cerca di risposte. Qual-

cuno era entrato nella stanza di Tannenberg e, poiché sapeva di non essere stato lui, o i suoi mandanti, impazienti per l'assenza di risultati, avevano contattato un altro uomo, o qualcuno dei nemici di Tannenberg aveva vo-luto tentare la sorte provando a eliminarlo.

Gli uomini del Colonnello lo avevano interrogato. Erano più brutali che abili. Evidentemente erano abituati a ottenere confessioni sotto tortura, per cui li faceva andare su tutte le furie doversi limitare ad ascoltare senza po-ter utilizzare i loro metodi per scovare l'assassino di Samira e delle due guardie.

Per Doyle non era stato difficile superare l'interrogatorio e nemmeno re-citare la sua parte di fotografo indipendente; in realtà, era un attore consu-mato e in molte occasioni si era sorpreso della propria capacità di vestire panni diversi senza il minimo imbarazzo.

Aveva parlato con Picot e anche il professore aveva più domande che ri-sposte. Fabián e Marta erano sconvolti ma non sapevano nulla, e neppure Gian Maria, che non nascondeva la propria angoscia per l'accaduto.

L'unico a non mostrare alcuna emozione era il croato. Ante Plaskic, do-po essere stato interrogato dagli uomini del Colonnello, era tornato a se-dersi davanti al computer per terminare il lavoro iniziato il giorno prima.

Lion si disse che aveva sempre sospettato che Plaskic si facesse passare

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per un informatico, proprio come lui fingeva di essere un fotografo e Ayed Sahadi un caposquadra; quest'ultimo d'un tratto si era rivelato essere un militare agli ordini del Colonnello, anche se continuava a vestirsi da ope-raio. Così Doyle decise di andare a fare quattro chiacchiere con Plaskic per vedere se riusciva a intuire la verità riguardo a quanto era accaduto. Sape-va che sarebbe stato difficile strappargli qualche informazione, dato che il croato era un professionista come lui, ma ci avrebbe provato ugualmente.

Quando entrò nella stanza dove Plaskic lavorava, fu sorpreso di trovarlo con il figlio del capo del villaggio. Non che fosse strana la sua presenza lì, in quanto l'uomo era al comando di una squadra di operai ed era solito spo-starsi dal sito archeologico all'accampamento, ma i due stavano discutendo animatamente e si zittirono vedendolo entrare. Lion ammirò il sangue freddo del croato nel tenere sotto controllo la situazione.

Ante Plaskic fece un sospiro e si rivolse a Doyle. «Lion, gli operai sono inquieti; quest'uomo mi chiede se i lavori devono proseguire e che ne sarà di loro quando noi ce ne andremo. Temono le conseguenze di quanto è ac-caduto, e cioè che accusino degli omicidi qualcuno di loro. Dice che il pro-fessor Picot non gli ha detto nulla. Per cui, se tu sai qualcosa...»

«So quel che sai tu, e cioè quasi niente. Suppongo che dovremo attende-re che la situazione si chiarisca e che scoprano l'assassino o gli assassini, poi vedremo. Quanto alla decisione di andarcene, bene, pare che qui ri-manga poco da fare e quindi, date le circostanze, forse sarebbe la scelta più prudente.»

Ante Plaskic si strinse nelle spalle e non replicò. Il figlio del capo del villaggio mormorò qualche parola di scusa e uscì.

Doyle fissò il croato e questi gli restituì lo sguardo. In quei secondi, i due uomini si misurarono riconoscendosi per quel che veramente erano e si avvisarono l'un l'altro che se si fossero affrontati il risultato sarebbe stato nefasto per uno dei due.

«Cosa credi che sia successo in casa di Tannenberg?» domandò alla fine Lion Doyle al croato rompendo il silenzio.

«Non posso saperlo.» «Avrai una tua opinione.» «No, non faccio mai ipotesi su ciò che non conosco.» «Già... alla fine, suppongo che acciufferanno l'assassino. Dev'essere an-

cora qui.» «Se lo dici tu...» Incrociarono nuovamente gli sguardi in silenzio, poi Lion voltò le spalle

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e uscì. Il croato si sedette davanti al computer e parve concentrarsi sullo schermo.

Ante Plaskic era certo che Lion Doyle sospettasse di lui, ma sapeva an-che che il fotografo non possedeva alcun elemento che potesse avvalorare i suoi sospetti. Era stato estremamente attento, non aveva mai abbassato la guardia e nessuno si era accorto della sua relazione con Samira. In effetti, non c'era stato granché tra loro, tranne qualche sguardo intenso. Chiacchie-ravano spesso, anche se in realtà era lei a parlare per la maggior parte del tempo, mentre lui l'ascoltava senza alcun interesse. La donna non vedeva l'ora di trovare un uomo che la portasse via dall'Iraq e pareva aver deciso che quell'uomo poteva essere lui. Non capiva perché, ma di fatto Sarnira non smetteva di dimostrargli la propria disponibilità a intraprendere una relazione, di qualunque tipo fosse.

Lui, però, non l'aveva mai sfiorata. Non gli piacevano le musulmane, neanche quelle bionde e con gli occhi azzurri del suo paese, tanto meno quella donna con la pelle scura, i capelli neri e il naso prominente.

Tuttavia, non aveva rifiutato le sue attenzioni, dato che poteva tornargli utile. Lei lo teneva informato su quanto accadeva nella casa, su come stava Alfred Tannenberg, su chi gli telefonava, chi gli faceva visita, sui problemi tra Clara e suo marito Ahmed Husseini.

Samira era un'inesauribile fonte di informazioni, grazie alle quali lui po-teva trasmettere rapporti dettagliati e attendibili all'agenzia che l'aveva as-sunto, la Planet Security. In realtà, Plaskic scriveva i suoi resoconti e li passava al figlio del capo del villaggio, un uomo di Yasir, l'egiziano che era stato il braccio destro di Alfred Tannenberg, nonostante negli ultimi tempi i due si odiassero. Yasir faceva giungere le sue informazioni alle persone giuste, quelle che l'avevano assunto, e tramite lui Plaskic riceveva anche nuove istruzioni.

Yasir era arrivato all'accampamento insieme ad Ahmed e gli aveva chie-sto una relazione puntuale sulla salute di Tannenberg. Né Ahmed né lo stesso Yasir avevano avuto la conferma dei loro sospetti, e cioè che Tan-nenberg stesse morendo. Il dottor Najeb si rifiutava recisamente di dare simili informazioni.

Per questo motivo Plaskic aveva chiesto a Samira un appuntamento, che lei aveva accettato entusiasta. Al calare della notte, mentre l'accampamen-to era addormentato, lei l'avrebbe fatto entrare in casa di Tannenberg.

Samira gli aveva detto che, se lui fosse stato capace di scivolare tra le ombre della notte evitando le guardie, sarebbero potuti stare insieme. Gli

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aveva spiegato che i dieci uomini che sorvegliavano la casa, cinque davan-ti e cinque dietro, dopo mezzanotte si davano appuntamento per fumare una sigaretta e bere un caffè. Ante avrebbe dovuto attendere quel momento per passare dal retro, dove si trovava una finestrella che dava su una stanza utilizzata come magazzino. Samira l'avrebbe lasciata socchiusa; lui non a-vrebbe dovuto fare altro che entrare e attenderla.

Ante Plaskic aveva accettato il piano, sebbene la sua intenzione fosse non di aspettarla in quello sgabuzzino, ma di entrare nella stanza del vec-chio e capire esattamente come stava, all'insaputa dell'infermiera.

Almeno in parte le cose si erano svolte come prestabilito. Il croato aveva atteso che Picot terminasse la riunione con il suo gruppo fidato, che venis-sero spente le luci dell'accampamento e che calasse il silenzio. Era mezza-notte quando aveva lasciato la sua branda e, senza far rumore, era strisciato verso il retro della casa di Tannenberg. Aveva dovuto poi aspettare circa mezz'ora nascosto nell'ombra prima che una delle guardie che stavano al-l'ingresso andasse a cercare i suoi colleghi per invitarli a prendere il caffè. In realtà, questi non abbandonavano mai la vigilanza: rimanevano sull'an-golo della casa, con una visuale che a loro pareva sufficiente per controlla-re che nessuno si introducesse dal retro.

Si erano sbagliati. Ante Plaskic era riuscito a eludere la sorveglianza, ad avvicinarsi alla finestrella e a entrare in casa. Due uomini erano seduti ai lati della porta della stanza di Tannenberg. Non lo avevano visto arrivare e, prima che se ne rendessero conto, avevano ambedue una pallottola in cor-po. Il silenziatore della pistola aveva funzionato alla perfezione. L'unico rumore era stato quello dei cadaveri che crollavano al suolo.

Poi il croato aveva sospinto la porta. Samira aveva ragione. La vecchia serva dormicchiava e non si era accorta di nulla.

Samira l'aveva visto con la pistola in pugno e si era spaventata. Aveva pensato che volesse uccidere Tannenberg e aveva cercato di impedirgli di avvicinarsi al malato. Plaskic le aveva tappato la bocca intimandole di non gridare e di starsene tranquilla, ma lei non aveva voluto sentire ragioni, per cui aveva dovuto ucciderla. L'aveva strangolata ma la colpa, si disse, era stata della donna, che non gli aveva obbedito. Se fosse rimasta zitta e quie-ta, sarebbe stata ancora viva.

Anche la vecchia serva aveva costituito un problema. Quando l'aveva vi-sta saltare su dalla sedia sulla quale era seduta, aveva dovuto tapparle la bocca e colpirla in testa con la pistola. Aveva creduto di averla uccisa, dato che l'aveva lasciata a terra con il capo ferito e sanguinante e con gli occhi

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rovesciati. Ma quella megera si era salvata. Plaskic avrebbe preferito sa-perla morta, tuttavia non lo preoccupava che se la fosse cavata: non l'aveva visto in volto, dato che lui portava un passamontagna e inoltre la stanza era in penombra, per cui era impossibile che potesse riconoscerlo.

Come d'abitudine, Ante aveva informato il figlio del capo del villaggio, l'uomo di Yasir, di ciò che aveva visto in casa di Tannenberg, solo che in quest'occasione non aveva scritto nemmeno una riga; gli aveva unicamente spiegato lo stato di salute del vecchio: era monitorato, l'ago della trasfusio-ne di sangue in un braccio e quello della flebo nell'altro.

Il figlio del capo del villaggio gli aveva domandato se era stato lui a uc-cidere l'infermiera e i due uomini, ma Ante non gli aveva risposto. L'altro si era infuriato, al punto che l'aveva minacciato di farlo sbattere in galera dal Colonnello. Proprio in quel momento erano stati interrotti dall'arrivo di Lion Doyle. Anche Ante pensava che l'inglese non fosse quel che sembra-va; in realtà, era convinto che Doyle fosse lì per una missione simile alla sua.

Il giorno seguente il Colonnello pareva di umore peggiore del solito.

Ahmed Husseini lo ascoltava pazientemente, attento a non dire nulla che potesse innervosirlo ulteriormente. Anche Yasir se ne stava zitto.

«Non me ne andrò da qui fino a che non acciufferemo l'assassino» disse. «Deve essere qui, tra noi, e si sta prendendo gioco di me; ma lo troverò, e quando ciò avverrà invocherà la morte come una liberazione.»

Aliya, l'infermiera, entrò nella sala. Clara l'aveva mandata ad avvisarli che il nonno li stava aspettando.

I tre uomini trovarono Alfred Tannenberg seduto in poltrona, con una coperta sulle gambe e senza la solita flebo al braccio. Pareva essersi rim-picciolito, era tutt'ossa e di un pallore impressionante.

Al suo fianco, seduta, Clara sorrideva soddisfatta. Aveva convinto il dot-tor Najeb a fare l'impossibile affinché suo nonno potesse ricevere il Co-lonnello seduto, fingendo di stare bene. Il medico, quindi, gli aveva fatto un'iniezione con un cocktail di medicinali che avrebbero permesso a Tan-nenberg di reggere per un po'. Anche le trasfusioni di sangue l'avrebbero aiutato a stare in piedi.

Alfred Tannenberg non perse tempo in convenevoli. Quello che gli man-cava era proprio il tempo, dunque andò subito al sodo. «Amico mio» disse rivolto al Colonnello «voglio che tu mi faccia un favore speciale. So bene che è una richiesta difficile e che solo un uomo come te può esaudirla.»

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Ahmed Husseini guardò incuriosito il vecchio e non gli sfuggì la sicu-rezza che Clara ostentava, come se realmente Tannenberg potesse essere eterno.

«Chiedimi quello che vuoi, sai che puoi contare su di me» gli assicurò il Colonnello.

«Il professor Picot e la sua équipe vogliono andarsene; va bene, lo capi-sco e, date le circostanze, non li possiamo trattenere. Clara si fermerà qual-che giorno in più e poi si riunirà a loro per partecipare all'organizzazione di una grande mostra sulle scoperte fatte a Safran. Sarà un'esposizione im-portante, che coinvolgerà molte capitali europee. Cercheranno di portarla anche negli Stati Uniti, cosa che il nostro amico George potrà favorire tramite la fondazione Mondo Antico.»

«Che favore vuoi che ti faccia?» domandò il Colonnello. «Devi riuscire a ottenere i permessi affinché Picot possa portare via tutto

quello che ha trovato nel tempio. Ci sono pezzi di grande valore e temo che non sarà facile convincere il nostro amato presidente Saddam, ma io credo che tu possa riuscirci. Dovresti anche mettere a disposizione gli eli-cotteri e i camion che permetteranno a Picot e ai suoi di lasciare al più pre-sto l'Iraq con il loro prezioso carico.»

«E a noi, cosa ne viene?» chiese il Colonnello senza giri di parole. «Se mi farai questo favore con la stessa efficienza che hai dimostrato in

altre occasioni, ti ritroverai sul tuo conto segreto in Svizzera mezzo milio-ne di dollari in più.»

«Informerai il Palazzo?» domandò il Colonnello. «In realtà, l'ho già fatto. I figli del nostro leader ne sono a conoscenza e

attendono con ansia il mio messaggero.» «Allora, se Baghdad è d'accordo, telefonerò a mio nipote Karim perché

dia inizio alle operazioni.» «Clara dovrebbe andarsene subito» consigliò Ahmed. «Clara se ne andrà quando lo riterrò opportuno, e io farò altrettanto, ma

per il momento continuerà a lavorare» replicò Tannenberg furibondo. «Voglio che domani mattina vengano ripresi gli scavi archeologici, non devono fermarsi dopo quanto è accaduto.»

«Sono stati rinvenuti dei pezzi che... non sarà facile portare via» sog-giunse Ahmed.

«Se li sono già venduti?» domandò Tannenberg sorprendendo sia A-hmed sia Yasir, che teneva gli occhi bassi.

«Non ti fidi mai di chi ti sta vicino» protestò Ahmed.

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«E che conosco fin troppo bene quelli che mi stanno accanto, per cui ri-tengo possibile che il nostro zelante presidente di Mondo Antico, Robert Brown, abbia ricevuto l'incarico da George di mettersi in contatto con i no-stri migliori clienti per annunciare i ritrovamenti di Safran, e che questi, avidi per la novità, abbiano già sborsato una bella somma di quattrini per gli oggetti promessi. Forse mi sbaglio, Yasir?»

La domanda diretta di Tannenberg colse di sorpresa l'egiziano, che ini-ziò a sudare copiosamente inzuppando la camicia bianca inamidata. Non rispose e chiese aiuto con lo sguardo ad Ahmed. Temeva la reazione di Tannenberg.

Ma fu il Colonnello a parlare, preoccupato per la piega che stava pren-dendo la conversazione. «Così, c'è un conflitto di interessi con i tuoi amici di Washington...»

Tannenberg lo interruppe improvvisando una risposta, ben sapendo che il Colonnello non aveva alcuna intenzione di essere coinvolto in una guer-ra di quel tipo. «No, non c'è alcun conflitto di interessi. Se a Washington hanno deciso di vendere qualcuno dei pezzi che abbiamo trovato, per me va bene. È il nostro lavoro, e una cosa non esclude l'altra. I reperti ver-ranno esibiti in una mostra, se riusciremo a portarli fuori dal paese, ma non torneranno in Iraq; verranno invece consegnati ai loro nuovi proprietari. Questi dovranno aspettare alcuni mesi, forse un anno, prima di averli tra le mani, ma questo per loro non è una novità, ci sono abituati. Dall'acquisto di un pezzo alla consegna a volte passano anni, per cui il problema non sussiste. Al termine della mostra, avranno quel che desiderano.»

«Mi piace fare affari con te; hai sempre una soluzione per ogni proble-ma» disse più tranquillo il Colonnello.

«In questo caso non ci saranno difficoltà; è sufficiente che riusciamo a portare i pezzi alla mostra...»

«Se hai parlato con il Palazzo va tutto bene. Lascia fare a me.» «Hai scoperto qualcosa sugli omicidi?» volle sapere Tannenberg. «Nulla, e la cosa mi preoccupa. L'assassino deve essere un tipo in gam-

ba, che sa celarsi bene e che ha un buon alibi. L'importante è che tu sia vi-vo, vecchio amico mio» affermò il Colonnello.

«Sono vivo perché non ha voluto uccidermi. Sono vivo perché l'obietti-vo non era la mia morte.»

Il Colonnello rimase in silenzio a riflettere sulle parole di Tannenberg. Il vecchio aveva ragione: l'aggressore non aveva voluto ucciderlo ma, allora, cosa cercava nella sua stanza? «Lo troveremo» disse infine. «È solo que-

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stione di tempo, per questo voglio che Picot rimanga ancora qualche gior-no, potrebbe essere qualcuno della sua squadra.»

«D'accordo, ma stai in guardia perché non abbiamo più molto tempo, oggi è il 25 febbraio.»

«Lo so, lo so.» «Voglio che Picot sia lontano da qui al massimo il 10 marzo» ordinò

Tannenberg. «E tu e Clara quando partirete?» «Non ti preoccupare, a questo penserò io, ma ti assicuro che quando ini-

zierà la guerra non saremo più qui» affermò il vecchio. Il Colonnello salutò l'amico e lo lasciò con Ahmed Husseini e Yasir.

Anche Clara uscì dalla stanza, dopo avere dato un bacio al nonno. Voleva parlare con Picot e dirgli che potevano cominciare a pensare alla mostra, ma prima sarebbero dovuti tornare al lavoro. Il Colonnello aveva accondi-sceso alle richieste di suo nonno. L'impresa non si sarebbe conclusa, gli operai avrebbero continuato a scavare; non c'era tempo da perdere.

«E così mi avete tradito» affermò Tannenberg. Yasir e Ahmed si agitarono sulle sedie. Temevano la reazione di quel-

l'uomo, capace di ordinare di ucciderli in quello stesso istante senza che nessuno, nemmeno il Colonnello, potesse fare qualcosa.

«Nessuno ti ha tradito» riuscì a dire Ahmed. «No? E allora come mai sono stati venduti reperti di Safran senza che io

lo venissi a sapere? Non avrei dovuto esserne informato? I miei amici mi conoscono così poco da prendersi gioco di me?»

«Per favore, Alfred! Nessuno vuole prendersi gioco di te...» iniziò a dire Yasir

«Yasir, tu sei un traditore. In realtà, non vedi l'ora che io muoia e l'odio ti offusca il cervello al punto di farti mostrare tutta la tua meschinità.»

Yasir abbassò il capo per la vergogna nel sentire le parole pronunciate dal vecchio. Guardò di sottecchi Ahmed e lo vide nervoso quanto lui. «Stavamo per dirtelo, per questo siamo venuti. George vuole che tu sappia che ci sono degli acquirenti per i pezzi di Safran.»

«Ah, sì? E perché non me l'avete detto l'altra sera? Pensavate di farmi una sorpresa?»

«Abbiamo avuto poco tempo per parlare e non pareva il momento...» protestò Ahmed.

«Non hai fegato, Ahmed. Sei solo un tirapiedi, come Yasir, e lo sarai per

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il resto dei tuoi giorni. Gli uomini come te non sanno comandare, obbedi-scono e basta.»

Ahmed Husseini arrossì per l'umiliazione. Gli sarebbe piaciuto prendere a schiaffi il vecchio, ma non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo, per cui rimase zitto.

«Va bene, allora parlerò io con George, così mi spiegherà in che cosa consiste il nuovo gioco.»

«È pericoloso!» osò dire Yasir. «I satelliti spia registrano tutte le telefo-nate, lo sai bene; chiamare George sarebbe come mettere un annuncio sul "New York Times".»

«È George che cambia le regole del gioco, non io. Fortunatamente sei uno stupido e senza che te lo chiedessi mi hai confessato che i miei amici stanno tramando contro di me. Ora lasciatemi solo, devo lavorare.»

I due uomini se ne andarono, certi che Alfred Tannenberg non sarebbe stato con le mani in mano. Aveva espresso tutto il disprezzo che provava per loro, e ne temevano le conseguenze.

Tannenberg chiamò Aliya e le ordinò di avvisare una delle guardie af-finché trovasse Ayed Sahadi, uno degli assassini più abili del gruppo del Colonnello, che da anni questi pagava perché fosse sempre al suo fianco.

Ayed Sahadi fu sorpreso di vedere Alfred Tannenberg seduto in poltrona e, come sempre, arrabbiatissimo. E si stupì ancora di più quando apprese quello che voleva da lui. Soppesò i rischi della missione di cui il vecchio lo incaricava, ma il denaro che gli promise valse a fugare qualsiasi dubbio.

Per Clara non fu facile convincere Picot a riprendere i lavori. «Non puoi

andartene smantellando il sito degli scavi. Io rimango, forse non riuscirò a trovare le tavolette, ma per lo meno permettimi di provarci ancora.»

Fabián la pensava come Picot sul fatto che fosse meglio andarsene quan-to prima.

Fu Marta a intercedere a favore di Clara, convincendo i due uomini che non ci avrebbero perso nulla se i lavori di scavo fossero continuati. «Clara ha ragione, per lei sarebbe utilissimo se gli operai continuassero a credere che tutto prosegue come sempre, e che tu pensi che sia ancora possibile trovare qualcosa. Inoltre, non sappiamo quando riusciremo ad andare via; invece di stare con le mani in mano, potremmo lavorare.»

«Dobbiamo imballare i reperti trovati, e questo porterà via del tempo» protestò Fabián.

«D'accordo, ma ciò non ci impedisce di continuare a lavorare. Non è in-

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compatibile. E poi Clara ha ottenuto quel che volevamo, e cioè che ci la-scino portare via i pezzi per la mostra...» ricordò Marta.

«Bella ricattatrice sei!» disse Fabián. «No, cerco solo di essere giusta. Senza di lei sarebbe impossibile orga-

nizzare l'esposizione che abbiamo in mente e che giustifica la nostra pre-senza qui. Glielo dobbiamo.»

L'occhiata di gratitudine di Clara sorprese la stessa Marta. Aveva finito per apprezzare la collega, nonostante fosse una donna completamente di-versa da lei. Pensava che Clara fosse come sperduta in quel mondo patriar-cale che erano l'Iraq e il Medio Oriente e la considerava vittima di una mentalità che le aveva impedito di essere se stessa, sempre all'ombra di suo nonno e di suo marito.

«D'accordo» assentì Picot «lavoreremo fino al momento della partenza. Ma non voglio trattenermi nemmeno un giorno più del necessario. Sento che incomincio a soffocare qui. E poi questi omicidi ci hanno messi tutti in agitazione, e non so come abbiate ancora voglia di lavorare.»

«La vita va avanti» disse Clara per tutta risposta. «Perché non è toccato a te morire» replicò Picot, senza nascondere il suo

fastidio per l'insensibilità di Clara. Gian Maria li ascoltava senza dire nulla. Pareva esausto, desolato, scon-

volto dalla situazione. «Gian Maria, rimarrai con me come avevi detto?» volle sapere Clara. «Sì, resterò» rispose il sacerdote. «Ma sarebbe una follia. Ha più senso che tu venga con noi. Questa im-

presa è finita, non te ne rendi conto?» Il sacerdote scosse la testa come per respingere la domanda di Picot.

Non avrebbe lasciato Clara. Si era quasi convinto che la donna e suo non-no non fossero in pericolo di vita, che nessuno avrebbe cercato di far loro del male, che il passato non avrebbe presentato il conto a quel vecchio ma-lato e nemmeno a sua nipote. Ma dopo quello che era successo sapeva che sarebbe dovuto rimanere per proteggere entrambi.

Picot riunì il gruppo della spedizione e annunciò che dovevano comin-ciare a imballare il materiale, in modo da essere pronti per quando avreb-bero potuto lasciare Safran. Clara aveva assicurato che non sarebbero pas-sati più di quindici giorni, dato che il tempo stringeva. Rimasero tutti sor-presi, però, quando Picot comunicò che avrebbero lavorato fino all'ultimo. Avrebbero continuato a scavare, cercando di strappare ancora qualche se-greto a quella terra color zafferano.

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Ci fu qualche protesta che Picot zittì immediatamente, cercando poi di motivarli con il progetto dell'esposizione che tutti avrebbero contribuito a organizzare.

Clara tornò dal nonno. Aliya l'aveva messo a letto e il dottor Najeb ave-va ripreso a monitorarlo. Il vecchio era esausto per la fatica. «Sta andando tutto bene» gli assicurò la nipote.

«Non ne sono così sicuro. I miei amici stanno giocando sporco e questo rende ogni cosa più difficile.»

«Ce la faremo, nonno.» «Se troverai la Bibbia d'argilla.» «La troverò, nonno, ci puoi contare.» Salam Najeb volle parlare con Clara e le disse la verità senza tanti giri di

parole: non credeva che Alfred Tannenberg avesse ancora molto da vivere. «Mi sta dicendo che può morire da un momento all'altro?» «Sì.» Clara era sul punto di piangere. Si sentiva terribilmente stanca e, soprat-

tutto, ormai da giorni provava l'amarezza della solitudine. Un tempo suo nonno le appariva forte come una roccia e fornito di tutte le risorse che a lei mancavano per affrontare una situazione come quella in cui si trovava-no in quel momento; ora, invece, non poteva nemmeno più contare su Fa-tima, da quando la donna giaceva nell'ospedale da campo più morta che viva.

«Servirebbe a qualcosa trasferirlo?» Il medico si strinse nelle spalle. In realtà pensava che Tannenberg fosse

già condannato e che neppure nel migliore ospedale del mondo sarebbero riusciti a prolungargli la vita. «Secondo me ha tardato troppo a considerare questa opportunità. Gliel'ho anche detto, ma lei non mi ha dato ascolto.»

«Risponda. Se domani lo portassimo al Cairo, ce la farebbe?» «Non so se sopravvivrebbe al viaggio» disse il medico con sincerità. «So che mio nonno l'ha pagata ben più del dovuto perché lei lo curasse,

ma io le darò molto di più se riuscirà a farlo vivere qualche giorno ancora, soprattutto evitandogli di soffrire.»

«Non sono Allah, non ho potere stilla vita.» «Ma lei ne conosce i segreti.» «No, non è così, e se Allah se lo vuole portare via, i miei sforzi non ser-

viranno a nulla.» «Ci provi lo stesso, e non dimentichi che in qualsiasi momento potrei

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comunicarle che ce ne dobbiamo andare da qui. E lo dovremo fare entro pochi giorni.»

«Temo che lei se ne andrà da sola.» «Ma questo, come dice lei, è nelle mani di Allah.» Il figlio del capo del villaggio sembrava nervoso. Suo padre offriva dolci

agli invitati, Yasir e Ahmed, sicuro di osservare alla perfezione le leggi dell'ospitalità.

Questi, tuttavia, non mangiarono molto e si trattennero presso il loro an-fitrione il tempo necessario per non sembrare scortesi. Il figlio del capo del villaggio si offrì di accompagnarli all'accampamento, che era situato a un centinaio di metri da lì.

Procedevano lentamente e in silenzio, assaporando il sigaro che era stato loro offerto. Ahmed non ebbe il tempo di rendersi conto di quanto stava accadendo, allorquando, all'improvviso, tre uomini sbucarono dall'ombra e li circondarono. Un minuto dopo Yasir emetteva un grido acuto e crollava a terra con un pugnale nel ventre. Le mani del figlio del capo del villaggio erano macchiate di sangue. I tre uomini che erano comparsi sparirono in un attimo portandosi dietro il cadavere, senza che Ahmed fosse riuscito a dire una parola. Il figlio del capo del villaggio non poté impedire che Ahmed si mettesse a vomitare. Mentre si ripuliva con un fazzoletto il sangue dalle mani, aspettò che si riprendesse.

«Perché?» domandò Ahmed appena riuscì a parlare. «Il signor Tannenberg non perdona i traditori. E vuole che anche lei lo

sappia.» «E quando sarà il mio turno?» osò chiedere Ahmed. «Non lo so, non me l'hanno detto.» «Vattene, voglio stare solo.» «Mi hanno dato ordine di accompagnarla.» Ahmed affrettò il passo per mantenere le distanze da quell'uomo che a-

veva tolto la vita a Yasir senza fare una piega, ma questi lo raggiunse met-tendoglisi al fianco.

«Mi hanno incaricato di dirle che il signor Tannenberg la sta tenendo d'occhio e, anche quando non ci sarà più, se lei lo tradirà ancora la farà uc-cidere, così com'è capitato al signor Yasir.»

«Non ne dubito; ma adesso mi lasci.» «Non posso, devo accompagnarla per evitarle incidenti.»

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Ayed Sahadi si avvicinò alla carovana. I cammelli si riposavano liberi dal basto. Un uomo alto gli venne incontro abbracciandolo.

«Che Allah ti protegga.» «Che protegga anche te» rispose Sahadi. «Vieni a prendere una tazza di tè con noi» lo invitò l'uomo. «Non posso, devo tornare. Ma mi dovresti fare un favore, ti ricompense-

rò.» «Noi siamo amici.» «Lo so, ed è per questo che te lo chiedo. Prendi» gli disse porgendogli

un pacchetto chiuso «fa' in modo che arrivi il più presto possibile in Ku-wait.»

«E a chi lo devo consegnare?» «L'indirizzo è scritto sopra questa busta; la consegnerai insieme al pac-

chetto. Prendila, e che Allah ti protegga.» L'uomo intascò la manciata di dollari con cui Ayed lo stava pagando.

Non si prese la briga di contarli; sapeva che, come in altre occasioni, erano sufficienti. Alfred Tannenberg pagava sempre bene.

Il silenzio dell'alba venne rotto da un grido che svegliò tutto l'accampa-mento.

Picot uscì di casa seguito da Fabián ed entrambi rimasero impietriti; al-tri, come loro, erano scesi dal letto per vedere che cosa stava succedendo ed erano ammutoliti.

Lì, in mezzo all'accampamento, appeso a un palo, c'era il corpo di un uomo. Era stato torturato. Le membra erano lacere, non aveva più le mani e i piedi. Le orbite erano vuote e gli erano state strappate anche le orec-chie.

Alcuni non ressero la vista di quel cadavere straziato e non poterono sof-focare la nausea; altri rimasero attoniti, senza sapere che cosa fare, ma fu-rono sollevati nel vedere arrivare dei soldati che si facevano carico del corpo mutilato.

«Voglio andarmene da qui immediatamente! Ci ammazzeranno tutti!» gridò Picot entrando come una furia nella casa che condivideva con Fabián e con il suo assistente, Albert Anglade.

«Quello che sta avvenendo qui non ha niente a che fare con noi» affermò Fabián.

«Ma allora con chi?» gli gridò Picot di rimando. «Calmati! Non otterremo nulla facendoci saltare i nervi.» Albert Anglade uscì dal bagno dopo aver vomitato, pallido e con gli oc-

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chi pieni di lacrime. «Che orrore! Questo è troppo!» disse. Marta Gómez entrò in casa sorprendendo i tre uomini; si sedette su una

sedia, accese una sigaretta e rimase in silenzio. «Marta, stai bene?» le domandò Fabián. «No, non sto bene. Sono distrutta. Non so che cosa stia succedendo qui,

ma questo posto si sta trasformando in un cimitero, io... credo che do-vremmo andarcene, se possibile oggi stesso.»

«Calmati» le disse Fabián. «Dobbiamo tranquillizzarci tutti quanti prima di prendere una decisione. E bisogna parlare quanto prima con Clara e Ahmed. Loro sanno quel che sta accadendo e hanno l'obbligo di metterci al corrente.»

«Quell'uomo... era quello che accompagnava Ahmed» disse Marta. «Sì, Yasir, un uomo che a detta di Ahmed lavorava per Tannenberg»

spiegò Fabián. «Ma... chi ha potuto fare una cosa simile?» insistette Marta. «Dài, calmati» cercò di consolarla Fabián. «Devo parlare con tuo nonno.» Il tono di voce di Ahmed era quello di un uomo distrutto e impaurito.

Clara fu sorpresa di vederlo in quello stato: gli abiti in disordine, gli occhi arrossati e umidi, le mani tremanti.

«Cos'è successo?» «Non lo sai? Ti sei persa lo spettacolo con cui tuo nonno ci ha dato il

buongiorno? Oltre a ucciderlo, era proprio necessario infierire sul cadave-re? È un mostro... quell'uomo è un mostro...»

«Non so di cosa stai parlando» balbettò Clara. «Yasir... ha fatto uccidere Yasir e ne ha fatto profanare il cadavere. Lo

ha fatto esporre lì, in mezzo all'accampamento, perché tutti lo vedessimo, perché non ci dimenticassimo che lui è il nostro dio, il padrone di tutti noi...» Ahmed piangeva a dirotto, incurante delle guardie che lo osserva-vano senza nascondere il loro disprezzo per quella dimostrazione di debo-lezza.

Clara aveva voglia di scappare via, di gridare, ma riuscì a controllarsi, sicura che quegli uomini non avrebbero più rispettato suo nonno, e neppu-re lei, se si fosse lasciata prendere dal panico. «Mio nonno non può rice-verti, sta riposando.»

«Devo vederlo, voglio sapere quando mi ucciderà» gridò Ahmed. «Stai zitto! Non permetterti più di dire simili sciocchezze in mia presen-

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za. Vattene. Devi tornare a Baghdad a portare a termine quello che mio nonno ti ha incaricato di fare. E adesso lasciaci in pace.»

L'arrivo del Colonnello sconcertò Clara, anche se non si fece intimidire dallo sguardo gelido dell'uomo.

«Voglio vedere il signor Tannenberg.» «Non so se si è già alzato. Aspetti qui.» Clara lo lasciò in sala con Ahmed e andò nella stanza del nonno. Aliya

stava finendo di fargli la barba e il dottor Najeb gli sfilava l'ago dalla vena per rimuovere la flebo.

«Gli ho detto che non deve sforzarsi» spiegò a Clara. «E stia zitto una buona volta» intervenne Tannenberg. «Se ha fatto quel-

lo che doveva, ci lasci tranquilli. Le ho già detto che oggi ho bisogno di essere in forma.»

«Però lei non è in forma, e io non posso fare di più...» «Mi lasci da solo con mia nipote» gli ordinò Tannenberg. L'infermiera e il medico uscirono dalla stanza senza protestare. Avevano

paura di Tannenberg. Sapevano che era pericoloso contrariarlo. «Che c'è, Clara?» «Il Colonnello vuole vederti. È serissimo. È venuto anche Ahmed... dice

che è saltato fuori il corpo di Yasir... che sei stato tu a farlo uccidere e mu-tilare...»

«Ed è stato proprio così. Ti sorprende? Nessuno deve avere dubbi su co-sa può succedergli se si scontra con me. È un avvertimento per gli uomini che sono qui e per i miei amici di Washington.»

«Ma... che cosa aveva fatto Yasir?» «Cospirava contro di me, mi spiava per conto dei miei amici, faceva af-

fari alle mie spalle.» «E tu come lo sai?» «Cosa? Come lo so? Ti sorprende il fatto che io fossi al corrente di quel-

lo che faceva Yasir perché sono costretto a stare qui, su questo letto, senza potermi muovere? Ma anche così ho occhi e orecchie dappertutto.»

«Era proprio necessario ucciderlo?» osò chiedere Clara. «Lo era. Io non faccio mai nulla che non sia necessario. E ora di' al Co-

lonnello di entrare, e a quello stronzo di tuo marito di andarsene; sa già quel che deve fare.»

«Lo farai uccidere?» «Può darsi, tutto dipende da quel che accadrà nei prossimi giorni.» «Per favore... ti prego, risparmialo.»

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«Bambina mia, nemmeno per te rinuncerei a fare tutto il necessario af-finché i miei affari vadano in porto. Se esitassi, se non agissi come tutti si aspettano da me, ne approfitterebbero. Le regole sono queste, e non posso non tenerne conto. La morte di Yasir è servita affinché George, Enrique e Frankie sappiano che sono ancora vivo; e anche i miei soci di qui, compre-so il Colonnello, hanno captato il messaggio. Ora vai, e fa' quel che ti ho detto.»

«E che spiegazioni devo dare?» mormorò Clara. «A chi?» «A Picot, a Marta... Vorranno sapere cosa sta accadendo.» «Non dire niente. Che scavino e cerchino di trovare la Bibbia prima di

andarsene, o impedirò loro di partire.» Due ore dopo la situazione all'accampamento era tornata a una finta

normalità. Clara, cercando di farsi forza, dopo avere avuto una discussione con Picot, che le aveva chiesto spiegazioni riguardo a ciò che stava acca-dendo, era tornata al lavoro con un gruppo di operai.

Ne Picot né gli altri del suo staff avevano voluto accompagnarla al tem-pio e la criticavano per la sua indifferenza nei confronti di quanto era suc-cesso. Lei non li aveva ascoltati e aveva ignorato le loro accuse, sapendo di non avere scelta, perché se avesse dubitato o se avesse mostrato qualche segno di debolezza avrebbe mandato tutto a monte, e non poteva permet-terlo.

Stava scavando, quando udì da lontano il rumore degli elicotteri che de-collavano. Capì che Ahmed se n'era andato, e questo la tranquillizzò. Non lo amava più, ma non avrebbe sopportato che suo nonno lo facesse uccide-re. Se fosse successo, tutte le difese di Clara sarebbero crollate. Era meglio che lui stesse lontano.

Non sapeva se se ne fosse andato anche il Colonnello, ma non aveva im-portanza: suo nonno aveva sottolineato che era sempre lui a tenere le redi-ni, che non era ancora morto.

A mezzogiorno Clara decise di scendere nella cavità che portava alla camera scoperta alcuni giorni prima. Ayed Sahadi la pregò di non farlo, ma lei lo zittì. Gian Maria, che la seguiva silenziosamente ovunque, si offrì di accompagnarla.

«D'accordo, ma prima passerò io e, a seconda della situazione, deciderò se sia il caso che tu mi raggiunga.»

Legata alla fune attaccata a una puleggia, Clara scivolò nel buio della terra fino a toccare il suolo. La puzza di marcio le provocò un conato di

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vomito, che però trattenne. Era decisa a esplorare quella stanza che Picot e Fabián avevano già ispezionato, concludendo che era un passaggio per ac-cedere ad altre zone del tempio.

Accese le torce che portava alla cintura e le collocò in punti strategici. Poi cominciò a tastare le pareti e il suolo.

Perse la nozione del tempo, nonostante di tanto in tanto strattonasse la fune per segnalare che stava bene, ma senza dare a Gian Maria il segnale di raggiungerla. Gli aveva detto chiaro e tondo che sarebbe potuto scende-re solo con il suo permesso.

Non avrebbe saputo dire come fosse accaduto ma, colpendo con il mani-co della spatola una delle pareti, questa era crollata avvolgendola in una nuvola di calcinacci e polvere. Quando ebbe riaperto gli occhi, Clara si immobilizzò, terrorizzata perché qualcosa le aveva sfiorato la gamba de-stra. Riusciva appena a respirare, convinta che si trattasse di un serpente o un topo.

I secondi divennero eterni; non aveva il coraggio di guardare in basso e rimase immobile al punto di sembrare inchiodata al terreno. All'improvvi-so una luce le illuminò il viso e udì un rumore di passi. Un uomo le stava parlando e la sua voce allentò la tensione che l'aveva attanagliata.

«Clara, stai bene?» Nella penombra distinse Gian Maria e mai come in quel momento fu

tanto felice di incontrare un essere umano. «Non ti muovere, c'è qualcosa qui...»

«Dove? Non vedo niente. Cos'è successo?» «Non vedi proprio niente?» «Clara, non c'è niente.» Lei trovò finalmente il coraggio di guardare in basso e constatò che ef-

fettivamente non c'era nulla. Un animale doveva averla sfiorata per poi al-lontanarsi indifferente. Sospirò sollevata e tese una mano a Gian Maria. «Credo che sia passato un serpente o un topo, non lo so con precisione, ma l'ho sentito strisciare sui piedi. Per fortuna ho gli stivali.»

«Che spavento! Perché non ce ne andiamo?» «Per quale motivo sei venuto quaggiù, se vuoi già risalire?» «Sono venuto a cercarti, ero preoccupato.» «Ti preoccupi troppo per me.» «Sì, è così» ammise il sacerdote. «Aiutami, voglio dare un'occhiata. Dirò agli operai di scendere e di ripu-

lire quest'area. È evidente che siamo su un altro piano del tempio. Dob-

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biamo riportarlo alla luce.» «Non sarà una cosa facile» commentò Gian Maria. «No, ma non possiamo aspettare, non c'è più tempo.» Una volta risalita in superficie, Clara ordinò a una squadra di operai di

calarsi nella cavità, mentre un altro gruppo ripuliva l'esterno. Fece accen-dere grossi falò: avrebbero lavorato per tutta la notte. Non potevano perde-re nemmeno un minuto, anche a costo di mettere in pericolo la vita di que-gli uomini, a cui lei aveva promesso un compenso extra se avessero la-vorato nottetempo.

Sapeva che Picot si sarebbe arrabbiato, ma non le importava. Alla fin fi-ne, lei era corresponsabile degli scavi e suo nonno il principale finanziato-re. Era arrivata l'ora di fare valere la propria posizione.

Lion Doyle lesse il fax che Marta gli aveva portato. «Mi pare che sia della sua agenzia, me l'ha appena dato Ante. Stava di-

stribuendo la corrispondenza, ma non sapeva dove trovarla.» «Grazie.» Il fax veniva dal direttore di Photomundi, ma Lion sapeva che dietro

quel nome c'era il suo capo, Tom Martin, il presidente della Global Group.

È da un po' che non abbiamo più tue notizie e i nostri clienti so-no impazienti. Che ne è del reportage promesso? Se non puoi oc-cupartene, devi rientrare, dato che non pagheranno più per singole foto.

Dammi immediatamente notizie o, altrimenti, fai ritorno. Tom Martin gli faceva fretta perché i clienti la facevano a lui. Chi vole-

va Alfred Tannenberg morto non era più disposto ad aspettare, e il presi-dente della Global Group stava dicendo a Lion che o riusciva a uccidere il vecchio subito, o il cliente avrebbe rescisso il contratto.

Lion aveva già preso un buon anticipo, ma sapeva che Martin se lo sa-rebbe fatto restituire.

Andò nel magazzino che fungeva da ufficio e incontrò Fabián con altri due archeologi che dava istruzioni ad Ante Plaskic affinché cominciasse a mettere nelle casse tutto il materiale informatico e facesse un elenco di quanto archiviato.

«Devo inviare un fax» disse. «Faccia pure» gli rispose Fabián. «Stamattina ne è arrivato uno del suo

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capo e l'hanno portato col resto della posta.» «Sì, e lui sta sulle spine. Vuole assolutamente un reportage con ambien-

tazione bellica, e qui non c'è modo di accontentarlo. A quanto pare i gior-nali non sono più interessati agli scavi archeologici.»

«Il fatto è che siamo alla vigilia di una guerra» disse uno degli archeolo-gi.

«È proprio così. Andrò a parlare con Picot per capire come tornare a Ba-ghdad.»

«Potrebbe aspettarci, tanto fra poco ce ne andremo tutti. Yves vorrebbe partire subito, ma dovremo attendere che Ahmed ci dia il consenso e so-prattutto che il Colonnello ottenga il permesso di portare via i reperti per allestire la mostra» spiegò Fabián.

«D'accordo, aspetterò. Posso usare uno dei computer per scrivere una nota al mio capo?»

«Quello lì è collegato alla stampante» gli indicò Ante Plaskic. «È proprio una perdita di tempo non potersi connettere a Internet» si la-

mentò Lion. «Certo, ma qui non ci sono linee telefoniche sufficientemente sofisticate

e bisogna adattarsi. Scrivi pure il messaggio e lascialo su quella mensola. Questa sera qualcuno andrà a Tell Mughayir a inviare i fax e a spedire le lettere.»

La risposta di Lion Doyle al suo falso capo di Photomundi fu lapidaria: "Questa settimana avrai il reportage".

31

Tom Martin aprì la busta che la segretaria gli aveva appena passato. La

stava aspettando. Il direttore di Photomundi l'aveva chiamato per avvisarlo che aveva un fax di Doyle.

Lesse quelle poche parole e stracciò il foglio. Avrebbe chiamato imme-diatamente il misterioso signor Burton. L'uomo era in collera. Gliel'aveva detto un paio di giorni prima. Aveva sborsato un mucchio di denaro in an-ticipo, gli aveva ricordato, e voleva dei risultati. Se il tizio mandato in Iraq aveva localizzato Tannenberg e sua nipote, se era riuscito a infiltrarsi tra loro, perché non concludeva la faccenda?

Il presidente della Global Group gli aveva rammentato che quella mis-sione in Iraq non era cosa facile, che se il suo uomo non aveva ancora con-cluso era perché doveva essere realmente impossibile farlo e stava atten-

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dendo il momento giusto; gli aveva chiesto di pazientare, ma il signor Bur-ton gli aveva assicurato che la sua pazienza aveva un limite.

Martin compose l'ultimo numero che Burton gli aveva dato. Era di un cellulare inglese, ma in realtà non aveva la benché minima idea di dove si trovasse quell'uomo.

«Sì?» «Il signor Burton?» «Sì, mi dica, Martin.» «Mi ha riconosciuto subito.» «Parli pure.» «Ho saputo che per questa settimana la faccenda sarà conclusa.» «Me lo garantisce?» «Le riferisco quel che mi ha detto il mio uomo.» «Quando sapremo se è veramente tutto finito?» «Le ho già detto che spero di darle buone notizie entro la fine della set-

timana.» «Voglio delle prove, le parole non sono sufficienti.» «Questo, signor Burton, sarà più difficile, per lo meno in un primo mo-

mento.» «È stabilito nel contratto.» «E io rispetto sempre gli accordi, signor Burton.» «È suo dovere, signor Martin.» «Certamente. La richiamerò io.» «Attendo sue notizie.» Hans Hausser posò il telefono e tornò al libro che stava leggendo quando

era stato interrotto dalla chiamata del presidente della Global Group. Era tardi, le sette passate, ma doveva chiamare Carlo, Mercedes e Bruno.

Aspettavano con impazienza di sapere cosa stesse succedendo in quel vil-laggio sperduto dell'Iraq dove pareva che fossero annidati il mostro e sua nipote.

Si alzò, prese l'impermeabile e fece per uscire stando attento a non far rumore per non spaventare sua figlia Berta, che in quel momento stava dando da mangiare ai bambini. Ma Berta aveva l'udito fino e comparve nell'ingresso.

«Papà, dove stai andando?» «Ho bisogno di sgranchirmi le gambe.» «Ma è molto tardi e sta piovendo.»

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«Berta, non trattarmi come se fossi tuo figlio! Sto tutto il giorno in casa e ho voglia di fare due passi. Tornerò subito.» Chiuse la porta senza dar tempo a sua figlia di replicare. Sapeva che la stava facendo soffrire, ma non poteva evitarlo, non sarebbe stato corretto non informare subito i suoi amici.

Il professor Hausser camminò per un buon tratto allontanandosi da casa. Poi prese un autobus e scese quattro fermate dopo all'altezza di una cabina del telefono.

Carlo Cipriani era in clinica, in sala operatoria, ad assistere il figlio An-tonino che stava operando al rene un suo amico. Maria, la sua segretaria, gli assicurò che il dottor Cipriani l'avrebbe richiamato appena fosse tornato nello studio.

Il numero che compose dopo fu quello del cellulare di Bruno Müller. «Bruno...» «Hans... come stai?» «Bene, amico mio. Ho delle novità: mi assicurano che il lavoro sarà fatto

entro questa settimana.» «Ne sei sicuro?» «È quello che mi hanno detto, e spero che sia la verità.» «Abbiamo atteso così tanti anni che possiamo certo aspettare un'altra

settimana...» «Sì, anche se ti confesso che sono più impaziente che mai. Speriamo di

farla finita e di tornare a una vita normale.» Bruno Müller rimase qualche istante in silenzio. Avvertiva la stessa op-

pressione al petto che stava provando il suo amico. Condividevano il me-desimo violento desiderio di sapere che Tannenberg era morto. Quel gior-no, come diceva Hans, sarebbero tornati a vivere in modo diverso da co-m'erano vissuti fino a quel momento. «Hai già parlato con Carlo e Merce-des?»

«Carlo è con Antonino in sala operatòria. Mercedes la chiamerò adesso. Ho sempre un po' paura delle sue reazioni.»

«Quando parli con Carlo non fargli domande riguardo all'altro suo figlio. Non ha avuto ancora notizie ed è disperato.»

«Non sa dove sia finito?» «No. L'altro giorno, quando gli ho telefonato, mi ha detto che non gli ha

scritto né lo ha chiamato; alla residenza sostengono che sta bene, anche se sta attraversando una profonda crisi personale, ma non gli vogliono far sa-pere dove si trova. Carlo si sente in colpa. Non mi ha spiegato il perché,

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ma crede di essere il responsabile dell'accaduto.» «E il suo amico, il direttore della Investigazioni e Sicurezza, non può far

nulla per aiutarlo?» «Temo che il ragazzo abbia lasciato detto che se suo padre cerca di rin-

tracciarlo romperà definitivamente con lui.» «I figli sono una fonte di felicità, ma a volte anche di amarezza.» «È vero, ma senza di loro non saremmo nulla.» «Lo so, amico mio, lo so. D'accordo, telefonerò a Mercedes, e appena

saprò qualcosa ti richiamerò immediatamente.» Mercedes Barreda stava finendo di truccarsi. Quella sera sarebbe andata

all'opera. Era stata invitata nel palco d'onore dell'amministratore delegato di una delle banche con cui la sua impresa aveva aperto una linea di credi-to, e non aveva potuto rifiutare.

Non amava particolarmente l'opera, nonostante fosse appassionata di musica classica. Soprattutto, non le andava di mettersi m mostra, frequen-tare un posto per farsi vedere più che per godersi lo spettacolo.

Tutto ciò non le andava a genio, e per questo era di pessimo umore. Udì squillare il telefonino e fu tentata di non rispondere, poi però ebbe

un sussulto quando si rese conto che a suonare era l'apparecchio che aveva acquistato giorni addietro per ricevere notizie da Hans. «Sì?» fece con una punta di angoscia nella voce.

«Credevo che non mi avresti risposto.» «Ero soprappensiero. Dimmi, come vanno le cose?» «Bene, pare che succederà questa settimana.» «Che garanzie abbiamo?» «Me l'hanno assicurato, per cui non ci resta che attendere.» «Sono stufa di aspettare.» «Si tratta solo di una settimana, cerchiamo di non perdere la calma pro-

prio adesso.» «Hai ragione. Quando mi richiamerai?» «Appena saprò qualcosa.» «Fallo, per favore.» «Sai bene che non mancherò; sarai la prima a essere informata.» «Grazie.» «Abbi cura di te.» «Anche tu.»

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Hans Hausser uscì dalla cabina telefonica e camminò sotto la pioggia, fino a che, inzuppato, decise di prendere un taxi per tornare a casa.

Era congelato e iniziava a tossire. Sua figlia Berta l'avrebbe rimprovera-to per aver preso freddo.

Robert Brown aprì la porta di casa. Paul Dukais aveva suonato il cam-

panello varie volte, impaziente, e l'impazienza non era una caratteristica del direttore della Planet Security.

«Ci siamo tutti?» domandò Dukais a Brown. «Sì. Ralph è appena arrivato, e ho chiamato il Mentore. Andrò a trovarlo

non appena mi dirai il perché di tutta questa urgenza.» Dukais entrò nel salotto di Brown e ne ammirò l'elegante semplicità, che

denotava il buongusto del presidente di Mondo Antico. Ralph Barry era seduto con in mano un bicchiere di whisky. La sua presenza era opportuna, visto che faceva parte dell'affare in quanto direttore della fondazione.

Ramón González, il maggiordomo di Brown, chiese sollecito a Dukais che cosa desiderasse bere.

«Un doppio whisky con ghiaccio.» Quando ebbe il bicchiere in mano e Ramón fu uscito dalla stanza, guar-

dò i due uomini immaginando il loro sgomento alla notizia che stava per dargli. «Alfred Tannenberg ha fatto assassinare Yasir. Ma non si è limitato a togliergli la vita. Ha ordinato che gli tagliassero le mani e i piedi e gli cavassero gli occhi. Poi ha messo questi reperti in una cassetta, l'ha fatta sigillare e ce l'ha mandata in regalo. Mi è appena arrivata, e per questo vi ho chiamato. Ho anche una lettera dello stesso Tannenberg per il Mentore e i suoi soci. Sono riuscito a parlare con uno dei miei uomini al Cairo, che a sua volta si è messo in contatto con Ahmed. Mi ha riferito che costui pa-re essere impazzito dopo l'omicidio di Yasir.»

Paul Dukais non era intenzionato a risparmiare loro il macabro spettaco-lo dei resti di Yasir e tolse il coperchio a una cassetta metallica da cui e-strasse un'altra cassetta, che aprì mettendo in mostra un ammasso di carne e ossa mescolato a sangue rappreso e un paio di occhi in decomposizione.

Il presidente di Mondo Antico si alzò in piedi pallido, turbato, con la bocca aperta e gli occhi fuori dalle orbite per l'orrore.

Anche Ralph Barry era in stato di shock. Nessuno dei due sembrava in grado di spiccicare parola. All'improvviso Barry uscì dalla stanza di corsa, trattenendo un conato di vomito.

«Mettila via!» gridò Robert Brown isterico.

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Paul Dukais abbassò il coperchio della cassetta e la ripose in quella di metallo. Chiuse quest'ultima con una chiave, che poi si infilò in tasca, e fissò Robert Brown: i suoi lineamenti apparivano alterati.

«Dio mio, che orrore! Tannenberg è un demonio!» Dukais non replicò. Pensò che Robert Brown non fosse migliore di lui o

di Tannenberg: era anch'egli responsabile di furto e di assassinio; l'unica differenza era che evitava di sporcarsi le mani. Ciò che distingueva i man-danti dai sicari era che questi ultimi rischiavano la vita in quel lavoro; in-vece Brown sorseggiava tranquillamente un whisky in attesa dei risultati.

Ralph Barry ritornò con la faccia stravolta. «Sei un figlio di puttana!» urlò a Dukais.

«Nemmeno a me è piaciuto vedere quella roba» disse indicando la cas-setta che aveva messo su un tavolino accanto al divano «ma non volevo tenere questo scempio tutto per me. Voi fate parte dell'operazione, per cui non devo nascondervi nessun dettaglio.» Paul Dukais si alzò e si servì una generosa dose di whisky. «Bere superalcolici fa sparire i cattivi sapori.»

Né Brown né Barry si mossero da dov'erano, ancora sconvolti dalla vi-sione dei resti di Yasir. Alla fine, Robert Brown si riscosse e domandò: «Cos'ha detto Ahmed?».

«Ahmed e i miei uomini a Safran sembrano concordi nel sostenere che Alfred sta morendo. Non gli davano più di una settimana di vita, ma si sbagliavano. Uccidere Yasir è stato il suo modo per comunicarci che è an-cora vivo, vuole che sappiamo che quello è ancora territorio suo e che sen-za il suo permesso non possiamo muoverci.»

«Ma Ahmed che ha detto?» insistette Robert Brown. «Il mio uomo al Cairo è convinto che l'unico desiderio di Ahmed sareb-

be quello di fuggirsene a gambe levate. A ogni modo farà la sua parte. Il mio uomo gli ha detto chiaro e tondo che da questo affare non si esce quando si vuole. Non dobbiamo sconvolgere i nostri piani; basta sempli-cemente aspettare. Mancano pochi giorni allo scoppio di quella maledetta guerra.»

«E Clara Tannenberg?» domandò Ralph Barry. «Ahmed afferma che si è trasformata in un demonio, come suo nonno.» «Hanno trovato le tavolette?» «No, Ralph, non le hanno trovate, ma a quanto pare Clara è disposta a

rivoltare tonnellate di terra. Ahmed ha riferito che Picot ha convinto Clara, e lei a sua volta Alfred, a portare via dall'Iraq tutti i reperti rinvenuti duran-te gli scavi. Pensano di organizzare una grande esposizione in diverse capi-

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tali europee, e di farla arrivare anche qui, per cui è certo che prima o poi ti chiameranno. Tu sei amico di Picot, no?»

Ralph Barry bevve un lungo sorso di whisky e sospirò prima di rispon-dere a Dukais. «Siamo conoscenti. Nel mondo accademico frequentiamo tutti quelli che contano.»

«Quindi, i pezzi di Safran non verranno recapitati insieme al resto» mormorò Robert Brown.

«No, e questa è una delle sorpresine di Clara e di suo nonno. Pare che Alfred non sia contrario alla vendita, è disposto a far sparire i pezzi, ma so-lo dopo che sua nipote avrà girato mezzo mondo per mostrarli a tutti. Cre-do che Alfred ci stia invitando ad avere pazienza, dato che è solo questione di tempo.»

«È pazzo!» esclamò sprezzante Robert Brown. «Io direi invece che continua a mostrarsi saggio» ribatté Paul Dukais.

Poi aprì una cartellina da cui estrasse tre dossier, che porse a Robert Brown. «Qui c'è una relazione dettagliata, con una precisa ricostruzione di quanto è accaduto negli ultimi giorni a Safran, compresa la morte di una giovane infermiera e di due guardie.»

«Ma perché non ce l'hai detto? Cos'è successo?» domandò Ralph Barry sempre più alterato.

«Ve lo sto dicendo ora. Lo leggerete nella relazione. Mi avete chiesto di scoprire quale sia il vero stato di salute di Tannenberg, ma costui è prati-camente inavvicinabile, soprattutto dal momento del suo arrivo a Safran, per cui uno dei miei uomini ha dovuto infilarsi in camera sua; a quanto pa-re ha avuto delle difficoltà e di conseguenza si è visto obbligato a liquidare l'infermiera e le guardie. Ha anche ferito la vecchia serva di Tannenberg. Ha visto Alfred pieno di tubi e in fin di vita, ma a quanto pare lui si è ri-preso. È andata così. Ora vi devo lasciare; comunicatemi eventuali cam-biamenti di programma.»

«Non ci saranno cambiamenti, seguiremo il piano previsto» assicurò Robert Brown.

Paul Dukais si alzò e se ne andò senza salutare. Era sconvolto come Brown e Barry, ma non poteva permettersi di farlo vedere. Dirigeva un'or-ganizzazione di uomini pronti a uccidere per i motivi più ripugnanti e nei modi più brutali, per cui non poteva mostrarsi impressionato per un paio di piedi, due mani e un paio d'occhi infilati in una cassetta.

L'unica cosa che lo tranquillizzava era che Mike Fernández, l'ex colon-nello dei berretti verdi, gli aveva assicurato che il piano era stato organiz-

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zato in modo scrupoloso e che niente poteva andare storto. Aveva fiducia in Mike più che in qualsiasi altro dei suoi uomini, e se lui gli diceva che l'operazione poteva procedere, Paul non aveva dubbi.

Robert Brown e Ralph Barry rimasero qualche istante in silenzio, ognu-

no perso nei propri pensieri. I due raffinati esponenti del mondo dell'arte erano sgomenti.

La cosa peggiore, pensava Robert Brown, sarebbe stata la reazione del Mentore. George Wagner sarebbe andato su tutte le furie, senza peraltro alzare la voce. Temeva soprattutto la sua freddezza; la durezza del suo sguardo mostrava chiaramente quello che era capace di fare. In realtà, era come Alfred, solo che si muoveva per gli eleganti uffici di Washington, mentre Tannenberg lo faceva nei vicoli oscuri di qualche città orientale.

«Vado a fare una telefonata, torno subito» disse Brown a Ralph Barry. Questi assentì. Sapeva che il suo capo si accingeva ad affrontare una

conversazione difficile. George Wagner non era un uomo che accettasse provocazioni, nemmeno dal suo vecchio amico Tannenberg.

Gli uomini erano esausti. Clara lasciava loro solo il tempo per un breve

riposo. Nell'ultima settimana avevano rimosso tonnellate di sabbia portan-do alla luce il tempio.

Yves Picot non la ostacolava, ma partecipava solo sporadicamente all'at-tività frenetica che Clara aveva imposto agli operai.

Il gruppo di archeologi la aiutava a imballare il materiale affinché fosse pronto nel momento in cui Ahmed Husseini avesse consentito loro di parti-re. Non erano capaci di opporsi alle richieste di Clara, che era ininterrot-tamente tenuta d'occhio da Ayed Sahadi.

Alfred Tannenberg aveva avvisato il militare che fungeva da caposqua-dra che, qualsiasi cosa fosse successa nell'accampamento, lui ne avrebbe risposto con la vita.

Anche Gian Maria non perdeva mai di vista Clara; pareva entrare nel panico ogni volta che non si trovava al suo fianco.

Fabián e Marta cercavano di darle tutto il loro appoggio, impressionati dalla forza di volontà della collega, che dormiva appena e non perdeva tempo per mangiare. Abbandonava gli scavi unicamente per andare a tro-vare il nonno e Fatima, con i quali trascorreva solo pochi minuti per poi rimettersi subito al lavoro.

Clara si rimproverava di non stare accanto al nonno, consapevole che

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quelli erano i suoi ultimi giorni di vita. Alfred Tannenberg era sfinito e so-lo la sua immensa forza di volontà riusciva a mantenerlo in vita.

Fatima si era rimessa in piedi e, nonostante non potesse fare quasi nulla, aveva supplicato il dottor Najeb di permetterle di stare accanto al suo pa-drone.

«Signora Husseini.» Clara non fece caso a chi la stava chiamando e continuò a ripulire con

una spatola e un pennello i resti di quel che pareva un capitello. Aveva de-ciso di non rispondere quando qualcuno le si rivolgeva col cognome dei marito; non aveva mai espresso a parole il suo fastidio, ma sperava che gli altri se ne rendessero conto e smettessero di farlo.

«Signora Husseini...» Si voltò irritata. Un bambino di appena dieci anni la guardava ansioso,

temendo la sua collera. Gli avevano detto che quella signora aveva un brut-to carattere e che urlava. Si rilassò quando la vide sorridere.

«Cosa vuoi?» «Mi hanno detto di riferirle di andare a casa; il dottor Najeb vuole veder-

la.» «Cos'è successo?» domandò lei preoccupata. «No lo so, mi hanno solo chiesto di venire a cercarla.» Clara si tirò su e seguì il piccolo, che si era messo a correre verso l'ac-

campamento. Temeva il peggio. Se il dottor Najeb l'aveva mandata a chiamare, voleva dire che le condizioni di suo nonno si erano aggravate.

Entrò in casa e il silenzio le annunciò che le cose non andavano bene. La stanza di suo nonno era vuota e quando se ne rese conto Clara non riuscì a trattenere le lacrime. Uscì di casa urlando.

Il piccolo le si avvicinò e le indicò l'ospedale da campo. La stavano a-spettando, le disse.

Il dottor Najeb e Aliya cercavano di rianimare Alfred Tannenberg. Lo avevano trasportato all'ospedale dopo che il vecchio era stato colpito da un ictus cerebrale.

Incosciente e con la metà del corpo paralizzata, Tannenberg lottava tra la vita e la morte, cercando di non cedere alle lusinghe della signora con la falce che lo invitava a seguirla.

Clara rimase a osservare il medico e l'infermiera. Nessuno dei due le si avvicinò per parlarle, e il dottor Najeb si limitò a guardarla con un'espres-sione che non lasciava spazio alla speranza.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato, quando il dottor

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Najeb le si avvicinò e, prendendola per un braccio, la condusse in un luogo appartato.

«Non so se supererà la crisi, potrebbe andarsene fra un'ora, o un giorno... ma dubito che possa riprendersi.»

Clara ricominciò a piangere. Era estenuata dalla sua battaglia contro il tempo, soprattutto perché sapeva di non essere in grado di andare avanti senza il sostegno del nonno. Aveva bisogno di sapere che era vivo per po-ter vivere lei stessa. «Ne è sicuro?» balbettò.

«Non so come abbia fatto a resistere così a lungo. Ha avuto un ictus ce-rebrale, non credo che riprenderà conoscenza ma, se dovesse accadere, la cosa più probabile è che non riesca a parlare, e che nemmeno la riconosca; sicuramente non si potrà muovere. La situazione è critica. Mi dispiace.»

«E se lo portiamo via di qui?» domandò Clara con un barlume di spe-ranza.

«Ve l'ho chiesto un'infinità di volte, ma né lei né suo nonno mi avete da-to retta. Adesso è troppo tardi. Se lo trasportiamo non credo che sopravvi-vrà al viaggio.»

«Cosa possiamo fare?» «Nulla, tutto quello che si poteva fare è stato fatto. Adesso si può solo

aspettare e vedere cosa succede. Aliya e io staremo sempre al suo fianco, e le consiglio di fare altrettanto: può morire da un momento all'altro.»

Ayed Sahadi si trovava a pochi passi dalla donna e dal dottor Najeb, at-tento a non perdere una parola della conversazione tra i due. Gian Maria era accanto al caposquadra, pronto a soccorrere Clara se fosse stato neces-sario.

Lei si ricompose e si asciugò le lacrime con il dorso della mano, lascian-do una traccia di polvere sul viso. Non poteva mostrarsi debole in un mo-mento simile. Suo nonno l'aveva avvisata: da quelle parti gli uomini si muovevano solo al rumore dei tamburi o della frusta.

«Ayed, raddoppia la vigilanza attorno all'ospedale. Mio nonno ha avuto una crisi, ma la supererà. Il nostro bravo dottore sta facendo tutto quanto è necessario» disse guardando fisso Salam Najeb, che non s'azzardò a con-traddirla.

«Sì, signora» replicò il caposquadra. «Bene, fai quel che ti ho detto e assicurati che nessuno smetta di lavora-

re. Non c'è motivo. Io starò qui ancora per un po'.» «Anch'io» disse Ayed Sahadi. «Tu farai quel che ti dico. Vai alla zona degli scavi e fai in modo che gli

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uomini non smettano di lavorare.» «Il signore mi ha ordinato di non perderla di vista.» Clara si piantò di fronte ad Ayed e l'uomo temette che stesse per colpir-

lo, tanta era la rabbia che il suo sguardo trasmetteva. Poi, a bassa voce, ri-peté l'ordine e aggiunse: «Quando vedrai che tutto funziona a dovere, po-trai tornare. Hai capito?».

«Sì, signora.» «Meglio così.» Clara si voltò ed entrò nell'ospedale seguita da Gian Ma-

ria, che le mise una mano sulla spalla per indurla ad ascoltarlo. «Clara, non so se tuo nonno sia un cristiano osservante, ma se tu lo desi-

deri... io sono un sacerdote, posso dargli l'estrema unzione per aiutarlo nel suo cammino verso il Signore.»

«L'estrema unzione?» «Sì, l'ultimo dei sacramenti. Aiutiamolo a morire come un cristiano, an-

che se la sua vita non è stata esemplare. Dio è misericordioso.» «Non so se mio nonno vorrebbe che gli dessero l'estrema unzione se fos-

se... se fosse cosciente...» «Desidero solo aiutarlo, e aiutare te. È mio dovere, sono un sacerdote, e

non posso veder morire un uomo che è nato nella religione di Cristo senza potergli offrire l'ultimo conforto dei sacramenti.»

«Mio nonno non credeva in niente. E io nemmeno. Dio non ha mai fatto parte della nostra vita, semplicemente non avevamo bisogno di nessun dio.»

«Non lasciarlo morire senza l'estrema unzione» insistette Gian Maria. «No, non posso acconsentire. Lui non mi ha mai detto di chiamare un

sacerdote quando fosse stato in punto di morte. Se te lo permettessi sareb-be... sarebbe un sacrilegio.»

«Ma cosa dici? Non sei in te!» protestò il sacerdote. «Mi dispiace, Gian Maria. Mio nonno morirà come ha vissuto. Se il tuo

Dio esiste ed è misericordioso come affermi, lo accoglierà, che abbia rice-vuto o no l'estrema unzione.»

«Clara, per favore, lascia che ti aiuti, che aiuti lui! Ne avete bisogno tutti e due, anche se non lo sapete.»

«No, Gian Maria, mi dispiace.» Gli voltò le spalle ed entrò nell'ospedale. Non era disposta a sottoporre il nonno a nessun rito senza il suo permesso. In realtà, non sapeva bene cosa fosse l'estrema unzione. Lei non era né cat-tolica né cristiana, e tanto meno musulmana. Suo nonno e suo padre non le avevano mai parlato di Dio. Per loro la religione era un argomento per fa-

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natici e per ignoranti. Gian Maria tacque senza sapere che cosa fare. Clara si era mostrata ir-

removibile, e lui non poteva imporle nulla. Decise di rimanere nei pressi dell'ospedale e chiese a Dio di illuminare Clara affinché cambiasse idea.

Picot, Fabián e Marta si recarono all'ospedale per offrire il loro aiuto a Clara, cosa che fecero anche gli altri archeologi.

Marta le disse che sarebbe potuta tornare agli scavi fino a che Clara non l'avesse raggiunta.

«Grazie, Marta; se ci sei tu, mi sentirò più tranquilla. Questa gente non è capace di fare nulla senza qualcuno che li diriga.»

«Non preoccuparti, ti sostituirò fino a quando potrai tornare.» Quella fu la notte più lunga della vita di Clara. Vedeva morire suo nonno

senza poter fare nulla per impedirlo. Salam Najeb le disse che non pensava che il malato sarebbe arrivato alla

mattina, ma si sbagliava. Non era ancora l'alba che Alfred Tannenberg aprì gli occhi. Sembrava arrivare da molto lontano e il suo sguardo perduto in-dicava angoscia e dolore.

L'anziano parve riconoscere Clara, ma non era in grado di parlare. Metà del suo corpo era paralizzata e lui era estremamente debole.

Clara seguiva in silenzio ogni movimento del dottor Najeb, in attesa che il medico le dicesse che c'era qualche speranza, ma dovette aspettare tutta la mattina prima che questi le facesse segno di uscire con lui dall'ospedale.

«La situazione di suo nonno è stabile, vada a riposarsi.» «Intende dire che non morirà?» «Non lo so, non posso prevedere se nel giro di un'ora gli verrà un altro

infarto ed entrerà in coma o se andrà avanti così per un giorno, o per qual-che settimana. In realtà, non riesco ancora a spiegarmi come abbia fatto a superare la crisi.»

«E adesso come ci comporteremo? Lei cosa propone?» «Al momento, desidero solo farmi una doccia e riposare un poco, e lei

dovrebbe seguire il mio esempio, proprio perché non so che cosa potrà ac-cadere. Recuperi le energie; lei è esausta e in questo stato non sarà utile né a suo nonno né a se stessa.»

«E se succedesse qualcosa?» «C'è Aliya con lui. Lei è in forze perché ha potuto dormire, quindi ora

non c'è bisogno di noi. E c'è anche Fatima. Non si è ancora ristabilita com-pletamente, ma in caso di necessità potrà avvisarci subito.»

Clara decise di seguire le raccomandazioni del medico. Era esausta e da

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circa un giorno non mangiava nulla. Appena si stese sul letto, si addormen-tò profondamente.

L'operaio chiamò Marta. Un colpo di piccone aveva aperto un varco at-

traverso il quale s'intravedevano i resti di una stanza. «Signora, qui c'è u-n'altra stanza...» disse all'archeologa.

Marta guardò attraverso l'apertura e vide una piccola sala con frammenti di argilla per terra. Un'altra stanza del tempio, anche se più piccola delle altre. Spiegò agli operai come avrebbero dovuto allargare l'apertura per ac-cedere alla senza danneggiarla. Nel giro di un paio d'ore avevano puntel-lato il muro e reso possibile l'ingresso.

Pareva che all'interno non ci fosse niente di particolare, tranne alcune statue e un bassorilievo intatto.

Il suolo era coperto di pezzi di argilla, resti di tavolette cadute durante il bombardamento. A un'estremità del muro vi erano delle scanalature dove un tempo venivano collocate le tavole di legno su cui deporre le tavolette.

Marta esaminò alcuni frammenti, e ciò che lesse non richiamò la sua at-tenzione: si trattava di poesie sumere piuttosto note. Ordinò di raccogliere con attenzione tutti i reperti e di portarli in magazzino per studiarli e classi-ficarli. Trovarono pure delle piccole statue rotte e dei resti di stili.

Marta incaricò un operaio di avvisare Picot e Fabián di raggiungerla per vedere la nuova stanza, ammesso che fossero interessati.

Quando i due uomini giunsero e ispezionarono il luogo, furono d'accor-do con lei: non vi era nulla di particolarmente rilevante, ma avrebbero co-munque dovuto esaminare i frammenti di tavolette. Non erano molti, ma alcuni erano di dimensioni tali da permettere di ricostruire delle frasi di senso compiuto.

Il pomeriggio trascorse nello sgombero di quella parte del tempio e con-temporaneamente nella raccolta delle tavolette da classificare.

«Gian Maria potrebbe darci una mano» rifletté Marta «ma vaga come un'anima in pena nei pressi dell'ospedale.»

«Se vuole rendersi utile, dovrebbe dare un'occhiata a quelle tavolette e valutare se hanno qualche valore» disse Picot.

Fabián andò a cercare il sacerdote per dirgli di tornare al lavoro e questi accettò, rassegnato al fatto che Clara non gli avrebbe permesso di avvici-narsi a suo nonno.

Per due giorni la routine parve tornare a regnare nell'accampamento, no-

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nostante la tensione avesse cominciato ad affiorare tra i membri del gruppo di archeologi che attendevano impazienti il momento di andarsene.

Il mese di marzo aveva portato giornate più lunghe e maggiore luce e ca-lore. Per questo, la telefonata di Ahmed Husseini venne accolta con sollie-vo da parte di tutti.

Picot sorrideva felice dopo la conversazione con Ahmed, che gli aveva comunicato la buona notizia che il governo aveva dato il permesso di pre-levare gli oggetti trovati nel tempio perché fossero esposti all'estero. Una mostra, sottolineò Ahmed, i cui organizzatori sarebbero stati Clara e lui stesso. Inoltre, Picot avrebbe dovuto firmare un documento in cui si ren-deva responsabile dei reperti e, naturalmente, ne garantiva il rientro in I-raq.

Se erano pronti, e Picot glielo confermò, gli elicotteri sarebbero venuti a prenderli la settimana seguente, all'alba di giovedì. Li avrebbero portati a Baghdad e da lì alla frontiera con la Giordania. Entro dieci giorni al mas-simo sarebbero tornati a casa.

Clara accolse la notizia con indifferenza. L'unica sua preoccupazione era la salute di suo nonno e non le importava quello che avrebbero deciso a Baghdad, anche se in alcuni momenti sentiva nostalgia del silenzio; e per lei il silenzio significava rimanere sola in quella terra color zafferano, sen-za la presenza di Picot e dei suoi colleghi. Aveva nostalgia della solitudine che poteva trovare solo lì.

Alfred Tannenberg era ancora vivo. Pareva avere miracolosamente supe-rato l'ictus cerebrale, nonostante il dottor Najeb dicesse che quel miglio-ramento era solo apparente.

In realtà, il vecchio non parlava e poteva appena muoversi. A volte sem-brava riconoscere Clara, in altri momenti il suo sguardo era perso in terri-tori irraggiungibili per chi gli stava attorno.

«Il signore avrebbe bisogno di allontanarsi da questo posto» diceva la vecchia Fatima, convinta che Tannenberg sarebbe stato meglio se fosse stato affidato alle sue cure nella piccola casa piuttosto che nell'ospedale da campo, ma il dottor Najeb si mostrò inflessibile al riguardo.

Ciò che più spiaceva a Clara era non poter accompagnare il nonno negli spazi immaginari in cui lui si muoveva. Ma nonostante ciò non si separava mai da lui; non s'azzardava ad andare agli scavi, e sapeva tutto quello che vi succedeva grazie a Marta.

Una sera, mentre Clara stava vegliando il nonno tenendogli le mani fra le sue, questi prese a balbettare parole che però lei non riuscì a capire.

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Credette di riconoscere alcune frasi in tedesco, la sua lingua materna, ma non le capì.

Tannenberg pareva agitato e cercava di muoversi, e nei suoi occhi affio-rava l'ira. Il dottor Najeb non seppe spiegare quel che stava succedendo e Clara vietò che gli venisse somministrato un sedativo, sicura che il nonno sarebbe stato capace di recuperare la parola. Persuase il dottor Najeb a si-stemare il paziente in poltrona e a permettergli di respirare l'aria tiepida della sera. Questo, come diceva Fatima, gli avrebbe fatto bene.

Seduta al suo fianco, fu sorpresa nel notare che il nonno osservava con interesse quanto gli stava attorno, come se lo vedesse per la prima volta. Poi s'illuminò nel vederlo abbozzare un sorriso. «Nonno, nonno, mi senti? Nonno, sai chi sono? Nonno, per favore, parlami. Mi senti? Mi senti?»

Alfred Tannenberg spalancò gli occhi e fece vagare lo sguardo tutt'intor-no. All'ingresso di alcune tende gli archeologi chiacchieravano distratta-mente. C'erano persone che non conosceva, che non aveva mai visto, ma non gli importava.

Guardò la donna che stava al suo fianco e che pareva gli parlasse, anche se lui non riusciva a capirla. Sì, era Greta, anche se non ricordava che l'a-vesse accompagnato in quel viaggio. Chiuse gli occhi e respirò il profumo dell'aria della sera; si sentì pieno di vita, nonostante qualcuno insistesse a interpellarlo, strappandolo al limbo in cui si trovava.

32

«Tannenberg, mi sente? Le sto parlando! Mi sente?» Il giovane aprì gli occhi e guardò con indifferenza l'uomo che gli aveva

parlato. «Cosa vuole, professore?» «Dovrebbe essere al lavoro con i suoi compagni; l'ho incaricata di scava-

re vicino al muro ovest, e lei è qui a dormire.» «Sto riposando in attesa della posta. Non vedo l'ora di sapere cosa suc-

cede a Berlino.» «Ritorni immediatamente agli scavi! Lei non è diverso dagli altri!» «E invece sì! Sono qui perché è la mia famiglia che paga sia lei sia que-

sta spedizione. Siete tutti miei dipendenti.» «Come si permette?» «Professore, lei è solo un ebreo insolente! Mio padre non avrebbe dovu-

to affidarle questa spedizione archeologica.» «Suo padre non mi ha affidato un bel niente, è l'università che mi ha in-

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caricato!» «Ma andiamo, professore, e chi sarebbe il più importante finanziatore

della nostra università? Lei e il professor Wesser siete in Siria da due anni grazie ai contributi universitari. Perché non ve ne tornate a casa? Dovreste stare dove stanno tutti gli ebrei come voi. Un giorno o l'altro il rettore del-l'università dovrà rispondere del fatto di avervi permesso di rimanere qui.»

Il professore, un uomo dall'aspetto severo e già avanti negli anni, stava per ribattere quando fu interrotto dalle urla di un ragazzo che correva verso di lui.

«Professor Cohen, venga! Presto!» Il professore attese che il ragazzo si avvicinasse. «Cosa succede, Alì?» «Il professor Wesser vuole che lo raggiunga, dice che sulle tavolette c'è

qualcosa di straordinario.» Il giovane Alì sorrideva, si vedeva che era con-tento. Aveva avuto fortuna a essere assoldato da quei matti che scavavano la terra in cerca di statue e che parevano contentarsi di pezzi di argilla con sopra strane iscrizioni.

Il professor Wesser e il professor Cohen dirigevano quel gruppo di gio-vani che si era installato a Carran. Non avrebbero tardato ad andarsene perché settembre stava per cominciare, e l'anno prima erano partiti in quel periodo. "Ma torneranno" si disse Alì. "Torneranno a cercare quei pezzi di argilla per i quali mostrano tanto interesse."

Il professor Cohen andò con Alì fino al pozzo situato a un centinaio di metri dal sito archeologico dove scavavano da alcuni mesi, senza accorger-si che Alfred Tannenberg lo stava seguendo, incuriosito dalla scoperta che poteva aver fatto il professor Wesser.

«Jacob, guarda cosa c'è scritto qui sopra!» disse Wesser allungando un paio di tavolette a Cohen.

Cohen prese gli occhiali da un astuccio metallico che teneva nella tasca della giacca e cominciò a passare il dito indice sulle linee incise su una ta-voletta di una trentina di centimetri. Quando terminò di leggere, guardò il suo collega e si abbracciarono. «Dio sia lodato! Aaron, non riesco a crede-re che sia vero.»

«Lo è, amico mio, e abbiamo fatto questa scoperta grazie ad Ali.» Il ragazzo sorrise orgoglioso. Era stato lui a raccontare al professor Wes-

ser che lì vicino c'era un pozzo pieno di tavolette con incisi gli stessi segni che a lui interessavano tanto. Aaron Wesser non ci aveva pensato su due volte e si era lasciato guidare dal ragazzo fino al pozzo, sapendo che non era improbabile che dei contadini avessero utilizzato resti di tavolette per

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costruirlo, come avevano fatto per edificare le loro case. Il pozzo pareva privo d'interesse e solo occhi molto esperti si sarebbero

soffermati su quelli che a prima vista sembravano dei mattoni, ma che in realtà erano qualcos'altro.

Il professor Wesser aveva cominciato a esaminarli a uno a uno, deci-frando quei segni che tanto affascinavano Alì, il quale non riusciva a capi-re come quegli stranieri potessero riconoscervi le lettere utilizzate dai loro antenati.

D'un tratto il professor Wesser si era messo a gridare; Alì si era spaven-tato, temendo che fosse stato morso da un serpente o punto da uno scor-pione. Ma l'unica cosa che il professore voleva era che gli portassero gli at-trezzi per estrarre un paio di mattoni, operazione che, come ebbe modo di vedere Alì, non avrebbe danneggiato la struttura del pozzo.

Così era corso fino alla casa dove dormiva il professor Wesser, aveva preso gli attrezzi e glieli aveva riportati il più rapidamente possibile.

«Ora sappiamo che quando il patriarca Abramo andò verso la Terra Promessa portò con sé la storia della Genesi. Gliel'aveva rivelata Dio» dis-se Aaron Wesser.

«Ma chi sarebbe questo Shamas?» domandò il professor Cohen. «Nella Bibbia non si fa riferimento a nessuno con questo nome, e il racconto dei patriarchi è minuzioso...»

«Hai ragione, ma queste tavolette non lasciano adito a dubbi. Adesso dobbiamo trovare quella narrazione, le tavolette dove questo Shamas ha scritto la Genesi raccontata da Abramo» suggerì il professor Wesser.

«Devono essere qui. Abramo rimase per un lungo periodo a Carran pri-ma di intraprendere il viaggio per Canaan; dobbiamo trovarle» esclamò en-tusiasta il professor Cohen.

«Quindi i nostri antenati conoscevano la Genesi per mezzo di Abramo» mormorò Aaron Wesser.

«Ma la cosa più importante, amico mio, è che se queste due tavolette non mentono esiste una Bibbia scritta sull'argilla, una Bibbia ispirata dallo stesso Abramo.»

«La Bibbia d'argilla. Dio mio, se troveremo queste tavolette, avremo fat-to la più grande scoperta di tutti i tempi!»

Alfred Tannenberg ascoltava affascinato la conversazione tra i due, che anche in sua presenza non nascondevano il loro entusiasmo. Stava per prendere le tavolette dalle mani del professor Cohen, quando uno dei suoi compagni di spedizione, un altro giovane universitario come lui, giunse

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correndo e agitando un telegramma. «La guerra! La guerra! Alfred, siamo entrati in guerra; andiamo a ri-

prenderci quello che i polacchi ci hanno rubato! Danzica tornerà a far parte della nostra amata patria! Ti rendi conto, Alfred? Hitler ridarà dignità alla Germania. Tieni, c'è un telegramma anche per te.»

«Grazie, Georg, oggi è proprio un gran giorno! Dobbiamo festeggiare» esclamò il giovane Tannenberg iniziando a leggere avidamente il suo tele-gramma davanti agli sguardi preoccupati dei professori, che erano ammu-toliti dopo avere ascoltato la conversazione tra i due giovani.

«Mio padre dice che stiamo dando una bella lezione ai polacchi» prose-guì Georg.

«E il mio dice che Francia e Regno Unito stanno per dichiararci guerra. Georg, dobbiamo tornare, non voglio perdermi questo momento, è nostro dovere stare al fianco di Hitler; lui farà tornare grande la Germania, e io voglio esserci.»

«Sono pazzi!» I due ragazzi guardarono con odio il professor Cohen. «Come si permette di insultarci?» s'indignò Alfred Tannenberg mentre

afferrava per la camicia il vecchio professore. «Lasci il professor Cohen!» gli ordinò Aaron Wesser. «Taci, ebreo di merda!» lo zittì il giovane di nome Georg. Alì osservava impaurito la scena che si svolgeva davanti ai suoi occhi.

Aveva paura dei due giovani che avevano incominciato a colpire i loro professori, che a stento riuscivano a difendersi.

Quando i due uomini caddero al suolo coperti di sangue, Georg e Alfred si occuparono di Alì. Dopo essersi scambiati un'occhiata maligna, inco-minciarono a prendere a calci il ragazzino, che non riusciva nemmeno a proteggersi il capo dai colpi che gli venivano inferti.

«Basta! Lo state uccidendo!» gridò il professor Cohen. Alfred Tannenberg impugnò una piccola pistola che teneva nascosta nei

pantaloni e sparò al professore. Quindi si concentrò su Wesser e gli sparò in mezzo agli occhi. L'ultima pallottola fu per il piccolo Alì, che giacque agonizzante per i colpi ricevuti.

«Erano degli sporchi ebrei» commentò Alfred Tannenberg rivolto all'a-mico Georg, che osservava divertito.

«Non me ne frega niente che siano morti» replicò Georg «ma adesso do-vremo trovare una scusa.»

Alfred Tannenberg si sedette per terra e accese una sigaretta, dilettandosi

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con le volute di fumo che s'inanellavano nel vento della sera. «Diremo che li abbiamo trovati già morti.»

«Solo questo?» «Solo questo. Chiunque avrebbe potuto ucciderli per derubarli, no?» «Se lo dici tu, Alfred... Bene, studiamo un piano per non contraddirci.

Credo che tu abbia ragione, sai? La Germania deve realizzare il sogno di Hitler; questi stranieri ci stanno succhiando il sangue e contaminano la no-stra nazione.»

«Devo dirti una cosa, una cosa importante, che potremo condividere solo con Heinrich e Franz.»

«Di che si tratta?» «Guarda il pozzo.» «Lo sto guardando.» «Vedi, mancano due pezzi, due mattoni. Sono quelli lì.» «E cosa avrebbero di tanto incredibile?» «Secondo i due vecchi, sono due tavolette che riportano una straordina-

ria rivelazione. A quanto pare, fu il patriarca Abramo a trasmettere la Ge-nesi al suo popolo. E cioè, quel che racconta la Bibbia riguardo alla Crea-zione l'avremmo saputo per mezzo di Abramo.»

Georg s'inginocchiò e prese le due tavolette senza riuscire a comprende-re i segreti della scrittura cuneiforme. In fin dei conti, era solo al secondo anno di università.

I due - o meglio, i quattro, dato che Heinrich e Franz erano i loro miglio-ri amici - volevano diventare archeologi. Avevano frequentato la medesi-ma scuola e scelto di iscriversi alla stessa facoltà, avevano gusti molto si-mili e anche i loro genitori erano amici d'infanzia. Avevano cementato il loro rapporto, tanto profondo quanto indistruttibile, in un Napola, uno de-gli istituti per l'educazione politica nazionale patrocinati da Adolf Hitler, dove una delle condizioni per essere ammessi era avere le caratteristiche fisiche e razziali giuste, e cioè essere giovani e robusti tedeschi di sangue puro.

Essere stati accettati nel Napola aveva rappresentato un onore per loro e per le rispettive famiglie, dato che l'istituto era riservato ai ragazzi dai re-quisiti fisici e accademici ineccepibili. Storia, geografia, biologia, matema-tica, musica e sport, soprattutto sport, erano alcune delle attività di queste scuole speciali nate sulle fondamenta dei vecchi istituti per cadetti in cui si erano formati gli ufficiali della Germania imperiale e della Prussia. Per questo motivo si esercitavano anche in addestramenti paramilitari in cui

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giocavano a "conquistare" un ponte, a leggere una carta topografica, a "ri-pulire" un bosco occupato da un altro gruppo o a marciare tutta una notte sotto le intemperie.

Ma quelle scuole non avevano nulla a che vedere con i Napola voluti da Hitler, destinati a formare l'élite della Germania da lui sognata. Per fare ciò, i figli delle classi abbienti condividevano l'educazione con quei figli della classe operaia che si erano distinti nelle loro scuole e che possedeva-no quella prestanza fisica che tanto piaceva al Führer.

Quando Alfred, Georg, Heinrich e Franz avevano terminato il periodo d'istruzione nel Napola e avevano superato l'esame, avevano dovuto deci-dere quale strada intraprendere, se nell'esercito, nel partito, nella pubblica amministrazione, nell'industria o nell'università. Nel loro caso non c'erano stati dubbi, i genitori non avevano lasciato loro scelta e avevano deciso che avrebbero frequentato l'università e si sarebbero laureati.

I quattro erano ansiosi di contribuire a rafforzare l'impoverita Germania, anche se a nessuno di loro mancava niente. Il padre di Alfred era un indu-striale tessile, quello di Heinrich un avvocato, come quello di Franz, men-tre il padre di Georg faceva il medico.

Adolf Hitler era il loro eroe, così come lo era per i loro genitori e per la maggior parte dei loro amici. Credevano in quell'uomo come se si fosse trattato di un dio, e fremevano quando sentivano i suoi discorsi, convinti che avrebbe fatto ritornare grande la Germania.

Si misero quindi d'accordo su ciò che avrebbero dovuto dire e nascosero accuratamente le tavolette. Avrebbero chiesto al professor Keitel, un fedele seguace di Hitler, come loro membro della spedizione archeologica e, inol-tre, studioso della scrittura cuneiforme, che gliene svelasse il contenuto.

Il professor Keitel era in debito con il padre di Alfred. La sua famiglia aveva lavorato nella sua fabbrica tessile, e lui stesso l'aveva fatto per riu-scire a entrare all'università grazie al signor Tannenberg, il quale l'aveva raccomandato perché ottenesse un posto di assistente. Disgraziatamente l'avevano affiancato al professor Cohen, un ebreo che disprezzava con tut-to se stesso, ma Keitel aveva sopportato l'umiliazione di lavorare con lui nella speranza che un giorno gli ebrei sarebbero stati allontanati dalla so-cietà.

Con passo deciso e gesti misurati, i due amici giunsero al-l'accampamento che si trovava accanto al sito da cui stavano dissotterrando resti antichi di millenni.

Interpretarono alla perfezione la parte dei giovani sconvolti da quella

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tragedia e raccontarono, senza troppi dettagli, come avessero trovato i cor-pi dei due professori e del povero Alì.

Wesser li aveva avvisati che era intenzionato a dare un'occhiata alla zo-na dove sorgeva il vecchio pozzo. Il professor Cohen aveva detto ad Alfred che era preoccupato per il ritardo del suo collega e che sarebbe andato a cercarlo insieme al piccolo Alì. Dato che non tornavano, Alfred si era in-camminato verso il pozzo seguito da Georg, che voleva consegnargli il te-legramma che aveva ricevuto da casa. Quando erano giunti a destinazione, avevano trovato i professori morti, come pure Alì. Non sapevano cosa fos-se successo ma, dissero, erano rimasti molto impressionati dalla vicenda.

Accompagnati dagli altri archeologi e dagli studenti tornarono al pozzo per recuperare i cadaveri del professor Cohen e del professor Wesser. Al-cuni membri della spedizione non riuscirono a sopportare la vista dei due anziani morti e non fecero nulla per dissimulare l'emozione.

Alfred e Georg recitarono la loro parte di studenti commossi senza però perdere la compostezza. Per nessuno dei loro colleghi studenti e degli altri professori era un segreto che loro odiassero gli ebrei, ma ugualmente ma-nifestarono pubblicamente il loro dolore per la terribile fine di quei due uomini.

Il professor Keitel, su richiesta dei giovani, assunse immediatamente la guida della spedizione archeologica. Si incaricò di raccontare alle autorità locali i particolari del crimine e di inviare un messaggero al console tede-sco affinché fosse informato del fatto increscioso e ne desse comunicazio-ne alle famiglie dei due poveretti.

Il professor Keitel annunciò poi che considerava terminati i lavori di scavo, dato che la Germania era entrata in guerra e la patria avrebbe avuto bisogno di loro.

Quando, verso la fine di ottobre, fecero ritorno a Berlino, il professor Keitel era riuscito a decifrare il segreto delle tavolette: un certo Shamas af-fermava che il patriarca Abramo gli aveva raccontato la storia della crea-zione del mondo. Prima di partire da Carran avevano cercato di recuperare quelle misteriose tavolette senza però trovarne traccia, ma i quattro amici giurarono che sarebbero tornati a cercarle; in ogni caso non se ne andarono a mani vuote. A dire il vero, il professor Keitel aveva fatto finta di non ve-dere che i suoi quattro protetti avevano nascosto nei loro bagagli qualcuno dei reperti dissotterrati a Carran.

«No, Alfred, non ti permetterò di arruolarti nell'esercito. Devi proseguire

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gli studi, ci sono attività nelle quali ti potrai rendere egualmente utile.» «La Germania ha bisogno di me.» «Sì, ma non per combattere. Prima devi finire di studiare.» «Georg si arruolerà in settimana, e anche Franz e Heinrich.» «Ma dai, figlio mio! Non crederai che i loro genitori lo permetteranno?

La pensano esattamente come me, che innanzi tutto dovete ottenere il dot-torato all'università. La Germania ha bisogno di uomini preparati.»

«La Germania ha bisogno di uomini disposti a morire.» «Per sacrificarsi va bene chiunque, e la nostra nazione non può certo

permettere che muoiano i suoi ragazzi migliori.» Il signor Tannenberg fissò dritto negli occhi il figlio sapendo di non es-

sere riuscito a vincere la sua testardaggine. Alfred avrebbe obbedito, certo, ma senza arrendersi, insistendo e argomentando il fatto che avrebbe dovuto servire la patria al fronte.

«Va bene, padre, farò quello che dici, ma mi piacerebbe che riconside-rassi la tua decisione; almeno, prova a pensarci.»

«D'accordo, Alfred, ci rifletterò. Adesso vai a parlare con tua madre. Sta organizzando una serata musicale e vuole che fu le dia una mano. Verran-no gli Hermann con la loro figlia Greta. Sai già che noi pensiamo che sia la ragazza giusta per te. Siete uguali, ariani puri, forti e intelligenti, una cop-pia che darà splendidi figli al nostro paese.»

«Credevo che volessi che mi concentrassi negli studi.» «Ed è proprio ciò che tua madre e io desideriamo, però hai l'età per co-

minciare a corteggiare la ragazza con cui un giorno to sposerai. A noi pia-cerebbe che questa ragazza fosse Greta.»

«Non ho intenzione di sposarmi.» «Capisco che alla tua età tu non voglia impegnarti, ma prima o poi lo

dovrai fare, ed è tempo che pensi a ciò che sarebbe meglio per te.» «Hai scelto tu la mamma o l'ha scelta tuo padre per te?» «È una domanda impertinente.» «No, padre, non lo è; desidero solo sapere se è una tradizione di famiglia

che siano i genitori a decidere con chi debbano sposarsi i figli. Ma non ti preoccupare, Greta andrà bene come qualsiasi altra. Almeno è carina, an-che se terribilmente tonta.»

«Come ti permetti di dire una cosa simile? Un giorno lei sarà la madre dei tuoi figli.»

«Io non ho detto che voglio sposare una donna intelligente, preferisco Greta, sul serio, e poi ha una grande qualità: se ne sta sempre zitta.»

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Il signor Tannenberg considerò terminata la conversazione col figlio. Non voleva più ascoltarlo mentre prendeva in giro la figlia del suo amico Fritz Hermann.

Fritz era un importante ufficiale delle SS, un uomo vicino a Himmler, che aveva trascorso con lui molti giorni al castello di Wewelsburg, vicino alla storica città di Paderborn, in Vestfalia. Lì si riuniva una volta l'anno l'elite delle SS, il capitolo segreto dell'organizzazione. Ogni membro aveva una poltrona con una targa d'argento su cui era inciso il proprio nome. Tannenberg sapeva che il suo amico Fritz Hermann aveva il suo posto, da-to che faceva parte del gruppo degli eletti.

Grazie all'amicizia con Fritz Hermann, la sua piccola azienda tessile an-dava a gonfie vele e non aveva subito le conseguenze della crisi sofferta dall'economia tedesca. Hermann, infatti, aveva raccomandato ai suoi supe-riori dell'esercito la fabbrica dell'amico Tannenberg, che aveva cominciato a produrre le cravatte e le camicie per le SS.

Tannenberg, tuttavia, voleva rinsaldare la sua vantaggiosa amicizia con Fritz e per riuscirci nulla era meglio che suggellare la loro alleanza con le nozze tra il suo figlio maggiore Alfred e la figlia di Hermann.

Greta non era la più carina delle ragazze, ma non era neppure brutta. Bionda, con gli occhi azzurri un po' sporgenti e la pelle bianchissima, ave-va la tendenza a ingrassare, cosa che si capiva subito dalle mani paffute. Sua madre, la signora Hermann, sottoponeva la figlia a una dieta strettis-sima per cercare di tenerne sotto controllo il peso, mentre suo padre la ob-bligava a fare esercizio fisico nella vana speranza di migliorarne l'aspetto.

Ciò che nessuno poteva negare era il virtuosismo di Greta nel suonare il violoncello. Suo padre aveva tentato invano di indurla a studiare pianofor-te, come faceva la maggior parte delle ragazze del suo rango, ma lei si era mostrata inflessibile e aveva ottenuto il permesso di prendere lezioni di violoncello. Per il resto, era una figlia obbediente che non aveva mai dato problemi ai genitori. I suoi tre fratelli, di dieci, tredici e quindici anni, l'a-doravano perché, anche se aveva solo diciotto anni, la consideravano come una seconda madre.

All'università non c'erano più professori ebrei. La maggior parte era do-

vuta fuggire, abbandonando ogni proprietà; quelli che invece erano rima-sti, convinti che alla fine la ragione avrebbe avuto il sopravvento, dal mo-mento che loro non avevano fatto nulla di male ed erano dei bravi tedeschi come gli altri, erano stati deportati nei campi di concentramento. Per que-

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sto motivo a nessuno importò che né il professor Cohen né il professor Wesser fossero tornati da Carran. In realtà, i due anziani docenti, sebbene fossero le massime autorità per quel che riguardava il sumero, non svolge-vano attività didattica; se avevano avuto l'opportunità di andare a Carran, era stato solo perché il rettore, che gli alunni sospettavano avere sangue ebreo, aveva pensato di allontanarli dalla Germania facendoli partecipare a quella spedizione archeologica.

Li aveva fatti rimanere a Carran per due anni, anche se gli altri parteci-panti alla spedizione tornavano in Germania una volta terminati i mesi di lavoro. Disgraziatamente, i due vecchi professori avevano trovato la morte proprio in quella regione del Nord della Siria.

Alfred aveva invitato i suoi amici alla serata musicale organizzata dalla madre. Pensava che così gli sarebbe risultato meno gravoso l'obbligo im-postogli dal padre. Gli piaceva la musica, ma non quei concerti in casa, du-rante i quali sua madre si metteva al piano e le sue amiche e le loro figlie suonavano gli altri strumenti cercando di stupire l'uditorio con brani prova-ti per settimane.

Ammirava sua madre; in realtà, pensava che non ci fosse donna più bella di lei. Alta, sottile, i capelli castani e gli occhi grigioazzurri, Helena Tan-nenberg era una donna dall'eleganza innata che risvegliava sempre mormo-rii d'ammirazione ovunque andasse.

Vederla accanto a Greta faceva venire in mente la favola del cigno e del brutto anatroccolo. E, naturalmente, il cigno era la signora Tannenberg.

«E così tuo padre vuole che sposi Greta. Che fortunato!» scherzò Georg punzecchiandolo.

«Vedremo chi sceglierà tuo padre per te.» «Sa che è totalmente inutile provarci. Non mi sposerò mai» replicò Ge-

org. «Dovrai farlo, è il nostro dovere: il Führer ci vuole tutti sposati a far figli

di pura razza ariana» disse ridendo Heinrich. «Voi potete fare tutti i figli che volete, potete farli anche per me. Io non

ho intenzione di riprodurmi» insistette Georg. «Dài, Georg, sono sicuro che qualcuna di queste ragazze ti piace! Non

sono mica male...» intervenne Franz. «Ma non vi siete ancora resi conto che a me le donne non interessano?» Il tono tra il cinico e l'amaro dell'amico indusse Alfred e gli altri a spo-

stare la conversazione su temi meno compromettenti. Nessuno voleva sa-pere ciò che Georg pensava al riguardo. Se l'avessero saputo, la loro ami-

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cizia non sarebbe stata più la stessa. Il padre di Alfred si avvicinò con Fritz Hermann al gruppo formato dal

figlio e dai suoi amici. Hermann si interessò agli studi dei ragazzi e insistette affinché contri-

buissero alla difesa della Germania. «Studiate, ma non dimenticatevi che il Reich ha bisogno di ragazzi come voi in prima linea.»

«Potremmo entrare nelle SS?» La domanda di Alfred prese alla sprovvista sia suo padre sia i suoi ami-

ci. «Voi nelle SS? Sarebbe fantastico! Il nostro Reichsführer sarebbe orgo-

glioso di poter contare su giovani come voi. Io posso favorire la vostra ammissione alle SS anche immediatamente. Vi aspetto domani pomeriggio nel mio ufficio all'RSHA, l'ufficio centrale della sicurezza del Reich sulla Prinz Albrechtstraße. Questo concerto è andato molto meglio di quanto mi aspettassi!» esclamò soddisfatto Fritz Hermann.

Dopo che il signor Tannenberg e Hermann se ne furono andati, Georg rimproverò Alfred. «Si può sapere che ti salta in mente? Non ho nessuna voglia di entrare nelle SS né nella Gestapo né in nessuno dei gloriosi corpi del Reich! Quello che desidero è dedicarmi agli scavi. Voglio fare l'ar-cheologo, non il soldato, e credevo che anche per voi fosse la stessa cosa.»

«Andiamo, Georg! Sai bene che non potremo rimanere a lungo lontano dall'esercito, dalle SS o da un altro corpo. Cominciano a guardare male i nostri padri; il mio non vuole che entri nell'esercito, per cui mi arruolerò nelle SS, dove spero che il mio futuro suocero mi trovi un posto comodo per cui non debba preoccuparmi di nulla. E voi dovreste fare altrettanto» spiegò Alfred.

«Sai una cosa, amico mio?» disse Heinrich. «Hai proprio ragione. Ti ac-compagnerò all'appuntamento con Hermann. Non mi dispiace l'idea di un buon posto nelle SS, così non dovrò più dipendere da mio padre.»

«Quindi, diventeremo delle SS» sottolineò Franz. «Pensi che ci sia qualcosa di meglio?» gli domandò Alfred. «No, direi proprio di no. Vengo anch'io con te» confermò Franz. «Siete proprio dei fessi! Ma perché fate così?» Dalla voce di Georg tra-

spariva un tono disperato. «Perché siamo in guerra e abbiamo l'obbligo di fare qualcosa per la

Germania. Mio padre ha ragione: per sacrificarsi va bene chiunque, noi in-vece dobbiamo stare dove possiamo essere utili senza farci uccidere, e ma-gari occupare un posto che sia anche vantaggioso per i nostri interessi.

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Credo che chiederò a Hermann di mandarmi in un campo di concentra-mento, magari a Dachau. È una sistemazione niente male per tenersi occu-pati durante guerra.»

Il segretario di Fritz Hermann chiese loro di aspettare in una stanza atti-

gua all'ufficio e fece capire che il suo capo in quel momento era impegnato con Himmler in persona.

I quattro amici attesero pazientemente mezz'ora prima di essere ricevuti da Hermann.

«Entrate, entrate! Che bello avervi qui. Ho parlato al Reichsführer di voi, e quando avrete espletato tutte le pratiche e farete ufficialmente parte delle SS ve lo presenterò.»

Fritz Hermann ascoltò le richieste dei giovani e prese accordi con loro: Alfred e Heinrich volevano essere destinati all'ufficio politico di uno dei campi dove venivano tenuti prigionieri i nemici della Germania. Franz pre-feriva andare al fronte con una delle unità delle SS, le Waffen, e Georg chiese di far parte di un'unità nei servizi di informazione.

«Perfetto! Nelle SS potrete mettere in mostra la vostra intelligenza e le vostre qualità!»

Quella sera i quattro amici uscirono dall'ufficio di Hermann trasformati in membri delle SS. Il gerarca si era dimostrato in gamba, e in poco meno di due ore aveva trovato per ognuno di loro un posto al quartier generale, così avrebbero potuto continuare gli studi e contemporaneamente servire nelle SS.

«Brindiamo alla Germania!» disse Alfred alzando un boccale di birra. «Brindiamo a noi, invece» replicò Georg. Fu una lunga notte, dal momento che non fecero ritorno a casa prima

dell'alba. Iniziava una nuova fase della loro vita, ma i quattro giurarono che niente e nessuno avrebbe potuto incrinare la loro amicizia. Avevano davanti a sé due anni prima che Fritz Hermann li inviasse alla destinazione definitiva, che nel caso di Alfred Tannenberg sarebbe stata l'Austria, in qualità di ufficiale di collegamento dell'RSHA, l'ufficio centrale della sicu-rezza del Reich che faceva capo a Himmler.

Heinrich avrebbe accompagnato Alfred in Austria come supervisore del VWHA, l'ufficio centrale di amministrazione ed economia delle SS, orga-nismo che aveva un incarico di supervisione dei campi; in Austria era si-tuato a Mauthausen, uno dei campi preferiti da Himmler. Franz entrò a far

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parte di una delle unità speciali di comando delle SS, e Georg fu ammesso nell'SD, il servizio informazioni controllato dal temutissimo Reinhardt Heydrich, servizio in competizione con quello omologo all'interno del mi-nistero della Guerra, comandato dall'ammiraglio Wilhelm Canaris.

Franz Ziereis, il comandante supremo di Mauthausen, ricevette con tutte

le cautele i due ragazzi provenienti da Berlino, soprattutto Alfred Tannen-berg. Arrivava dal quartier generale ed era anche un protetto di Fritz Her-mann, di cui stava per sposare la figlia, Greta. Pertanto, Ziereis non aveva dubbi che la carriera di Tannenberg sarebbe stata fulminea. Tanto Alfred quanto Heinrich erano ufficiali delle SS, ma di una categoria speciale, quella degli universitari, in chiaro contrasto col comandante Ziereis, la cui prima professione era stata quella di falegname.

Ben presto Tannenberg dimostrò di essere un ufficiale più competente di quanto Franz Ziereis avesse immaginato. Inoltre, aveva idee geniali per e-seguire gli ordini di Himmler riguardo all'eliminazione dei detenuti che non risultavano di alcuna utilità. Ma, soprattutto, sia Alfred sia Heinrich sapevano come raggiungere con i prigionieri l'obiettivo del loro Reichsfü-hrer: farli lavorare fino allo stremo per mesi e, una volta ridotti a relitti umani, sopprimerli.

La vita in quel campo, situato nel cuore della valle del Danubio e cir-condato da abeti, risultò piacevole come i due amici avevano desiderato. Il posto non poteva essere più pittoresco, con le cascine disseminate tra i pra-ti e il possente fiume che si apriva la strada tra gli alberi. Il pacifico pae-saggio contrastava con la macchina di morte rappresentata dal campo di Mauthausen, che aveva aperto "succursali" su tutto il territorio a causa del-l'enorme numero di prigionieri che vi giungevano settimana dopo settima-na.

L'organizzazione del campo di Mauthausen era simile a quella degli altri campi. Vi erano un ufficio politico, un dipartimento per la custodia dei prigionieri, un servizio sanitario, l'amministrazione e il comando della guarnigione.

Ziereis accompagnò Alfred e Heinrich durante la visita a Mauthausen, ma poi incaricò uno dei suoi uomini, il comandante Schmidt, di spiegare loro il funzionamento del campo.

«Per poterli distinguere, i prigionieri portano addosso un triangolo che indica il delitto commesso. Il verde per i delinquenti comuni, il nero per gli asociali, gli zingari, i mendicanti, i borsaioli, il rosa per gli omosessuali, il

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rosso per i detenuti politici, il giallo per quei porci di ebrei e il viola per gli obiettori di coscienza.»

«Si verificano tentativi di fuga?» domandò Heinrich. «Volete assistere a un tentativo di fuga?» si informò il comandante

Schmidt. «Non la capisco...» «Venite, voglio offrirvi uno spettacolo in diretta. Accompagnatemi alla

cava.» Heinrich e Alfred si guardarono stupiti e seguirono il comandante. Sce-

sero i centottantasei gradini di quella che era conosciuta come "la scala della morte", che separava la cava dal campo. Schmidt chiamò un kapò in-caricato della sorveglianza dei prigionieri. Questi portava un triangolo ver-de e, da quanto disse il comandante, ne aveva uccisi parecchi. Alto, robu-sto e guercio, ispirava un profondo terrore ai prigionieri, che avevano spe-rimentato la sua brutalità in parecchie occasioni.

«Hans, scegline uno tra quei miserabili» ordinò il comandante Schmidt al kapò.

Il kapò non se lo fece dire due volte e selezionò un uomo canuto, con le mani scorticate e talmente scheletrico che pareva impossibile che riuscisse ancora a muoversi. Era contrassegnato con un triangolo rosso.

«È uno sporco comunista» disse il kapò mentre lo spingeva verso il pun-to in cui si trovavano il comandante e i due nuovi ufficiali delle SS.

Il comandante Schmidt non disse una parola, gli strappò il berretto dalla testa e lo lanciò verso il reticolato. «Vallo a prendere» ordinò al prigionie-ro.

Questi si mise a tremare ed esitò un istante prima di obbedire, anche se sapeva di non avere scelta.

«Va' a prendere il berretto!» gridò Schmidt. L'uomo iniziò a camminare verso il reticolato con passo lento, fino a che

la voce imperiosa del comandante gli intimò di sbrigarsi; allora iniziò una debole corsa. Quando giunse vicino al reticolato dove era caduto il berret-to, prima che avesse avuto il tempo di chinarsi per raccoglierlo, una raffica di mitra sparata da una delle sentinelle pose fine a quel che rimaneva della sua vita.

«Certe volte il berretto cade sopra il reticolato, e allora il prigioniero ri-ceve una scarica elettrica che lo uccide. Una bocca in meno da sfamare.»

«Straordinario» commentò Heinrich. «Troppo facile» fece notare Alfred.

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«Troppo facile?» ripeté allarmato il comandante Schmidt. «Sì, è un modo troppo semplice per eliminare questi rifiuti dell'umani-

tà.» «In effetti, signore, abbiamo anche altri metodi.» «Ebbene, ce li mostri» ribatté Heinrich. Apparentemente, quella era una normalissima stanza con delle docce,

ma l'odore che impregnava le pareti rivelava subito che non era acqua quella che usciva dai tubi.

«Utilizziamo il gas Zyklon B, che è un composto a base di idrogeno, a-zoto e carbonio» spiegò il comandante Schmidt.

«E con questo lavate i prigionieri?» domandò Heinrich provocando una risata.

«Proprio così. Li portiamo qui e prima che comincino a rendersi conto che qualcosa non va sono già morti. Qui ci disfiamo di quelli appena arri-vati. Quando il comando ci invia più prigionieri di quanti ne possiamo te-nere, ce ne liberiamo subito: appena giunti al campo li portiamo a farsi una doccia dalla quale non tornano più. Il resto dei deportati non ha idea di quello che avviene qui; d'altra parte potrebbero avere la tentazione di ribel-larsi se sapessero cosa succede nelle docce. Dopo che stanno un po' di tempo a Mauthausen e non servono più, li mandiamo a Hartheim. E ci so-no anche altre docce, non meno efficaci .»

«Altre docce?» volle sapere Heinrich. «Sì, stiamo sperimentando un nuovo sistema per disfarci degli indeside-

rabili. Quando finiscono di lavorare nella cava li mandiamo a lavarsi lì, in quello stagno, alla fine della spianata. Vengono spogliati e per mezz'ora devono resistere nell'acqua gelata. La maggior parte muore, secondo il dot-tore per Problemi di circolazione.»

Nel pomeriggio la visita continuò. Schmidt li accompagnò al castello di Hartheim. Il luogo pareva magnifico e gli addetti cortesi ed efficienti. Il comandante li condusse alle antiche prigioni sotterranee chiuse da botole e inferriate. In realtà, in quei sotterranei era stata installata un'altra camera a gas, per i prigionieri provenienti da Mauthausen.

«Quando sono molto malati diciamo loro che li trasferiamo qui, in que-sto castello, che in realtà dovrebbe essere un sanatorio. Loro si fidano e ci lasciano fare. Una volta arrivati, li facciamo svestire, li fotografiamo e li portiamo qui sotto. Dopo essere stati gassati, vengono bruciati nel forno crematorio. Anche qui, come giù a Mauthausen, abbiamo una buona squa-

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dra di dentisti, per levare a questi disgraziati i denti d'oro. Inoltre, a Har-theim arrivano anche quegli esseri che rovinano la nostra società: abbiamo liquidato più di quindicimila malati di mente giunti da tutta l'Austria.»

«Straordinario» affermò Alfred. «Obbediamo unicamente agli ordini del Führer.» Tannenberg e Heinrich impararono a conoscere meglio se stessi a Mau-

thausen. Scoprirono di provare piacere a togliere la vita ad altri esseri u-mani. Alfred preferiva, come Ziereis, uccidere sparando alla nuca ai pri-gionieri. Heinrich si divertiva a tirare i berretti sui reticolati come gli aveva insegnato il comandante il primo giorno. C'erano sere in cui, con questo metodo, uccidevano decine di uomini disperati, alcuni dei quali andavano incontro alla morte come se si trattasse di una liberazione.

Strinsero amicizia anche con alcuni medici del campo che si divertivano a fare esperimenti sui prigionieri.

«La scienza progredisce grazie al fatto che qui disponiamo di materiale in abbondanza per conoscere meglio i segreti del nostro corpo» raccontava Alfred a Greta - che nel frattempo era diventata sua moglie - nelle lunghe sere d'inverno, spiegandole con dovizia di particolari come venivano ino-culati a uomini, donne e bambini anche sani alcuni virus per analizzare lo sviluppo delle malattie. Venivano anche realizzati interventi chirurgici al solo scopo di conoscere meglio i più reconditi anfratti del corpo umano.

Greta assentiva sottomessa a quanto le diceva il marito, senza mai discu-tere. A Mauthausen, e negli altri campi che con così tanta frequenza Alfred doveva visitare, non vi erano esseri umani, per lo meno non c'erano perso-ne come loro, ma solo ebrei, zingari, comunisti, omosessuali e delinquenti, dei quali la società poteva tranquillamente fare a meno. La Germania non aveva bisogno di gente simile e, se i loro corpi potevano aiutare la scienza a progredire, quelle misere vite sarebbero almeno servite a qualcosa, pen-sava Greta, guardando estasiata il marito.

«Heinrich, oggi ho parlato con Georg. Dice che Himmler è soddisfatto degli accordi che abbiamo stretto con la grande industria. Noi forniamo la manodopera e loro renderanno più grande la Germania e la nostra causa. Le fabbriche hanno bisogno di operai, e i nostri uomini sono al fronte. I-noltre, Himmler vuole che siamo pronti affinché dopo la guerra le SS siano economicamente autosufficienti. E qui abbiamo gente in esubero che può essere utile a questo scopo.»

«Andiamo, Alfred, qui la manodopera serve unicamente a trasportare

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pietre dalla cava. E poi non sono d'accordo con questa politica. Dobbiamo farla finita con loro o non risolveremo mai i problemi della Germania.»

«Potremmo utilizzare le donne...» suggerì Alfred. «Le donne? Dobbiamo sterminare loro per prime, è l'unico modo per e-

vitare che facciano figli, e che questi tornino a succhiare sangue alla Ger-mania» sostenne Heinrich. «D'accordo, ma che lo vogliamo o no, gli ordini sono ordini e dobbiamo rispettarli. Abbiamo il compito di fare una selezio-ne dei prigionieri che sono ancora in buone condizioni. Le nostre fabbriche hanno bisogno di operai e Himmler ci chiede di procurarli.»

«Ho parlato anch'io con Georg.» «Lo so, Heinrich.» «Allora saprai anche che tra un paio di giorni verrà qui con suo padre.» «Ho passato ore a organizzare tutto quanto... Ziereis non vuole errori. Il

padre di Georg è uno dei medici preferiti dal quartier generale e lo zio di Georg, che pure sarà presente, è un illustre professore di fisica. Il resto del-la delegazione è formato da civili che contano sull'appoggio del Führer e hanno interesse a conoscere gli esperimenti dei medici di Mauthausen.»

«Sai, Alfred, non vedo l'ora di rivedere Georg...» «Anch'io, Heinrich; e credo che Georg ci abbia preparato una sorpresa:

forse porterà con sé anche Franz. Non me l'ha detto chiaramente, ma sa-rebbe bello tornare a riunirci tutti e quattro.»

«L'ultima lettera di Franz era desolante: le cose non vanno bene sul fron-te russo.»

«Le cose non vanno bene da nessuna parte, io e te lo sappiamo. Ma a-desso non parliamo di politica.»

«Alfred, sai quale sia l'esperimento che vogliono mostrare al padre di Georg e ai medici di Berlino?»

«Quelle cagne sono un peso difficile da sopportare. Sono arrivate al campo gravide e non possiamo sprecare il denaro dello Stato per mantene-re quella gente. I medici vogliono vedere il livello di resistenza delle don-ne in situazioni estreme. Il dottore crede che quelle troie possano sopporta-re più di quanto si creda. Ho suggerito di farle venire qui e di farle scende-re nella cava trasportando le pietre sulla schiena. Vedremo quante ce la fa-ranno e quante si beccheranno invece le pallottole delle guardie, anche se credo sia un errore permettere loro di morire tanto facilmente. È una solu-zione troppo rapida per questa gentaglia. Credo che poi le apriranno per studiare i feti; non so bene cosa vogliano dimostrare, ma secondo il dottore questo servirà ad allargare le conoscenze scientifiche dell'umanità.»

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«E i loro figli?» domandò Heinrich. «Qualcuna è arrivata al campo con i suoi bastardelli.»

«Porteremo anche loro nella cava e poi li obbligheremo ad assistere agli interventi che praticheremo alle loro madri. Vieni, andiamo a parlare col dottore. È lui che ha sviluppato la formula delle iniezioni. Vedremo l'effet-to che fa l'ago quando entra nel cuore. E certamente a qualcuna prima fa-remo fare un bagno.»

«Quante ne useremo per gli esperimenti?» «Ne ho selezionate una cinquantina, tra ebree, zingare e prigioniere poli-

tiche. Qualcuna è già più morta che viva, per cui saranno contente di farla finita.»

La giornata era grigia, imperlata da una pioggerella fine e sferzata da un

vento gelido che s'infilava tra le fessure, ma il cattivo tempo non pareva impressionare i due ufficiali delle SS che, impazienti, controllavano l'oro-logio in attesa che il cancello del campo venisse aperto per far passare la colonna di auto provenienti da Berlino.

In piedi, allineate in fila e immobili, cinquanta donne attendevano in si-lenzio il destino che quegli ufficiali avevano riservato loro. Sapevano che era un giorno speciale perché così avevano detto i kapò del campo, che tra sghignazzi e occhiate d'intesa avevano anticipato loro che non si sarebbero dimenticate quanto sarebbe successo.

Alcune erano nel campo da due anni e lavoravano nelle fabbriche che ri-fornivano di materiali la macchina da guerra tedesca; altre si trovavano lì solo da alcuni mesi, ma sul volto di tutte erano disegnate con uguale vio-lenza la fame e la desolazione. Avevano subito ogni tipo di tortura e di a-buso da parte dei loro guardiani, che le facevano sgobbare ventiquattr'ore al giorno senza mostrare la minima comprensione per la loro stanchezza o per la loro debolezza. Quando qualcuna interrompeva il lavoro e crollava al suolo, riceveva una scarica di frustate o di bastonate da parte dei guar-diani del campo.

Ciò nonostante, erano vive in mezzo a quell'incubo in cui trascorrevano la loro esistenza, dove avevano visto morire, senza poterle soccorrere, tan-te loro compagne.

Alcune cadevano esauste a terra, dove venivano finite a calci dai più crudeli tra i kapò; altre crollavano fulminate da un attacco di cuore dopo essere giunte al limite della resistenza umana; altre ancora sparivano, le più deboli, quelle che non potevano lavorare. Di tanto in tanto qualcuno

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veniva a prelevarle e non le rivedevano più, non avrebbero mai saputo la sorte che era loro toccata. Quando lasciavano dei figli, le altre donne, fa-cendo uno sforzo sovrumano, cercavano di proteggerli come fossero i loro, fino a che questi non crescevano e venivano portati nelle baracche degli al-tri prigionieri o in un altro campo.

Le automobili raggiunsero il piazzale lentamente. Il gruppo di civili che

ne scese pareva impaziente e tutti si guardavano attorno con curiosità. Mauthausen era considerato uno dei campi di concentramento più impor-tanti del Reich, un modello da seguire.

Georg e Alfred si abbracciarono dopo essersi salutati con il braccio teso e il consueto "Heil, Hitler!".

Prima di separarsi, udirono Heinrich esclamare allegro: «Franz! Perdio, sei venuto!».

«Franz!» Alfred abbracciò immediatamente l'amico. I quattro non nascosero la felicità che provavano nel ritrovarsi, senza

badare alle occhiate critiche di Ziereis né degli altri alti ufficiali delle SS. Si sentivano sicuri, intoccabili, prescelti dal regime.

Il padre di Alfred produceva buona parte delle uniformi delle truppe; quello di Franz, che era avvocato, era diventato un efficiente diplomatico agli ordini di Adolf Hitler e un uomo della massima fiducia negli ambienti del Führer, essendo riuscito, anni prima, a convincere un buon numero di paesi a partecipare alle Olimpiadi di Berlino. Il padre di Heinrich era uno degli avvocati che avevano messo il proprio talento al servizio della co-struzione dell'ossatura legale della nuova Germania; infine, il padre di Ge-org era il medico di fiducia dei generali delle SS.

Le donne osservavano quei quattro giovani ufficiali che spiccavano sugli altri, mentre alcune, in lacrime, stringevano le mani dei loro figli, che era-no state obbligate a portare con sé sul piazzale. I bambini riuscivano a stento a reggersi in piedi, sfiniti com'erano, ma obbedivano alle loro madri consapevoli dell'orrore che avrebbero potuto provocare contrariando que-gli uomini vestiti di nero.

I quattro ufficiali dall'aria così allegra si avvicinarono per guardare le prigioniere. Disprezzo e disgusto si rifletterono negli occhi dei giovani alla vista di quelle donne che erano poco più che relitti umani.

«Che spettacolo!» esclamò Franz. «Vedrai, amico mio, come ci divertiremo! Oggi sarà un gran giorno!»

disse Heinrich.

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«D'accordo, siamo venuti a divertirci, vediamo cosa avete preparato per noi» replicò Georg incuriosito.

«Saranno momenti indimenticabili, ve lo assicuro» dichiarò Alfred. Poi Tannenberg fece un cenno ai kapò e questi cominciarono a legare

delle pietre sulle spalle delle donne, quindi ripeté: «Ci divertiremo, questo spettacolo non lo dimenticherete mai».

Le donne tremarono di paura alle parole di quegli ufficiali delle SS e u-n'espressione di puro terrore si disegnò sui loro volti.

«Sarà un giorno indimenticabile» mormorò ancora una volta Tannenberg sorridendo.

33

Clara osservava suo nonno dormire, anche se di tanto in tanto lui soc-

chiudeva gli occhi e pareva sorridere a presenze immaginarie. Era stanca, tuttavia l'apparente miglioramento del nonno le dava speran-

za. Anche se sapeva che Alfred Tannenberg non sarebbe mai più tornato a essere quello di una volta, per lo meno era ancora vivo e, date le circostan-ze, era più di quello che avrebbe potuto sperare. Decise di recarsi agli scavi per parlare con Ayed Sahadi e poi invitare a cena Picot, Fabián e Marta; avrebbe chiesto anche a Gian Maria e a Salam Najeb di unirsi a loro. Il medico era sfinito e gli avrebbe fatto bene distrarsi.

Con l'aiuto di Aliya trasportò il nonno all'interno dell'ospedale da campo e lo mise a letto. Tannenberg oppose una debole resistenza, ma le due donne si mostrarono inflessibili: doveva assolutamente riposare. Dopo a-vergli sostituito la sacca di plasma e avergli dato i medicinali prescritti dal dottor Najeb, Aliya si sedette al fianco del malato per non lasciarlo nem-meno un attimo da solo, come Clara le aveva ordinato.

Salam Najeb passò dall'ospedale prima di andare alla cena organizzata da Clara. Trovò il malato inquieto, che gridava ordini in una lingua a lui sconosciuta. Quando si avvicinò per iniettargli un sedativo, il terrore si di-pinse sul volto di Tannenberg, che cercò d'impedirglielo con il braccio che poteva muovere. Aliya e una delle guardie riuscirono a tenerlo fermo men-tre il dottor Najeb gli praticava l'iniezione. Nessuno comprendeva quel che il paziente diceva, ma capivano che li stava insultando. Quindi, crollò in un sonno agitato.

«Non si allontani da lui, Aliya, e se nota dei cambiamenti mi avvisi subi-to.»

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«Lo farò, dottore.» L'infermiera si sedette accanto a Tannenberg e tirò fuori un libro per

passare il tempo. Dall'esterno le giungevano i rumori dell'accampamento all'ora di cena. Sospirò rassegnata. L'avevano assunta per per badare al vecchio affinché gli altri potessero tirare il fiato. Decise di non pensarci e di immergersi nella lettura, per cui spense tutte le luci tranne una piccola lampada che illuminava le pagine del romanzo che teneva sulle ginocchia.

Non udì nulla, e nemmeno vide la figura che si avventò su di lei tappan-dole la bocca. L'ultima cosa che sentì fu il freddo dell'acciaio che le apriva la gola. Non poté gridare e neppure muoversi. Morì senza sapere chi l'a-vesse uccisa.

Lion Doyle si disse che era stato costretto a uccidere Aliya. Non aveva avuto scelta. Non poteva lasciare testimoni.

Rapidamente si avvicinò al letto in cui Alfred Tannenberg dormiva pro-fondamente, anche se il suo era un sonno popolato di incubi. Senza perdere tempo, gli tagliò la gola come aveva fatto con l'infermiera e quindi si assi-curò che non potesse assolutamente sopravvivere infilandogli il coltello nel ventre dal basso verso l'alto.

Il vecchio non si accorse di nulla e Lion Doyle uscì dall'ospedale in si-lenzio, con la stessa rapidità con la quale era entrato. Quella notte nessuno avrebbe badato a lui. Picot, Fabián e Marta erano con Clara. Il resto del gruppo stava terminando di fare i bagagli, dato che il giorno dopo sarebbe-ro arrivati gli elicotteri che li avrebbero riportati a Baghdad.

Lui se ne sarebbe andato, non aveva alcun motivo plausibile per rimane-re. In realtà, si rimproverava di non avere liquidato Tannenberg prima. Aveva temporeggiato, adducendo come scusa che c'erano troppe difficoltà. In parte era vero, ma era altrettanto vero che si era trovato bene in quel po-sto, integrandosi perfettamente con l'équipe di Picot. Gli dispiaceva di non essere quel che diceva di essere. Sentiva solo la mancanza di Marian e sa-peva che sarebbe stato felice se lei fosse stata lì con lui.

Si rifugiò tra le ombre della notte in attesa che scoprissero i cadaveri. Avrebbe fumato, fino a che non fosse stato dato l'allarme.

Quando terminarono di cenare, Clara decise di accompagnare il dottor Najeb all'ospedale per vedere come stava il nonno.

Camminarono l'una accanto all'altro in silenzio. La cena era stata piace-vole e tutti, senza essersi messi d'accordo, parevano avere deciso che sa-rebbe stato meglio non parlare di ciò che era accaduto nelle ultime setti-mane. Fabián li aveva distratti raccontando un mucchio di aneddoti sui

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suoi molti anni d'insegnamento. Gli uomini di guardia all'ospedale augurarono loro la buonanotte. Clara entrò per prima, seguita dal medico, e il suo urlo risuonò per tutto

l'accampamento. Fu un grido acuto, prolungato, che parve interminabile. Aliya era a terra in una pozza di sangue. Alfred Tannenberg era bianco

come la cera, con le mani contratte e aggrappate alle lenzuola intrise di sangue.

Il dottor Najeb cercò di portare via Clara dalla stanza, ma lei non smet-teva di gridare e non lo lasciava avvicinare, e quando vide entrare le guar-die si lanciò contro di loro colpendole a calci e a pugni e insultandole bru-talmente. Il medico non riuscì a impedire che Clara s'impossessasse di una delle pistole delle guardie e incominciasse a sparare all'impazzata contro di loro, colpendone due, mentre le insultava: «Bastardi! Siete degli inutili ba-stardi! Vi ucciderò tutti! Bastardi!».

Le urla di Clara risuonarono nel silenzio della notte come quelle di un animale ferito, facendo rabbrividire tutti i presenti. Picot, Fabián e Marta corsero verso l'ospedale seguiti da Gian Maria e da altri membri della spe-dizione tra cui Lion Doyle e Ante Plaskic, ma prima di loro arrivò Ayed Sahadi, che riuscì a disarmarla e a immobilizzarla.

Gian Maria la portò via dall'ospedale dopo che il dottor Najeb era riusci-to a iniettarle un potente sedativo.

Fu una lunga notte segnata da urla, rimproveri e confusione. Nessuno aveva visto niente; neppure le guardie sopravvissute alla sparatoria erano in grado di raccontare che cosa fosse accaduto. I metodi brutali di Ayed Sahadi e del comandante della guarnigione di Safran non valsero a ottenere il benché minimo indizio.

«C'è un assassino tra noi» disse Picot. «Sicuramente il killer del signor Tannenberg e di Aliya è lo stesso che

ha assassinato Samira e le due guardie e che per poco non ha ucciso Fati-ma» fece notare Marta in tono sommesso.

Lion Doyle ascoltava questi discorsi con la medesima aria compunta de-gli altri membri dell'équipe, anche se sentiva su di sé lo sguardo freddo di Ante Plaskic.

«Voglio andarmene da questo posto.» «Anch'io, Fabián» disse Yves Picot all'amico. «Per fortuna, domani par-

tiremo; per nulla al mondo sarei disposto a restare un minuto di più.» Clara non poté salutarli. Il dottor Najeb le aveva somministrato una dose

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massiccia di tranquillanti che la mantenevano in uno stato di prostrazione e apatia, mentre Fatima, nonostante fosse ancora debilitata, aveva preso in mano la situazione.

Tranne Gian Maria, tutti i partecipanti alla spedizione se n'erano andati. Lion Doyle sapeva che doveva togliere di mezzo anche Clara, ma farlo

in quelle circostanze sarebbe stato un suicidio. Si rimproverava di non avere concluso prima il proprio lavoro. Cercava

di mitigare la sensazione di sconfitta dicendosi che l'incarico era quasi im-possibile: uccidere due persone protette da guardie del corpo per ventiquat-tr'ore al giorno. In certi momenti pensava che avere eliminato Tannenberg fosse un successo per il quale avrebbero dovuto non solo pagarlo, ma pure complimentarsi con lui; Tom Martin, però, non era certo uno da pacche sulle spalle: semplicemente, si aspettava che i suoi uomini portassero a termine il loro lavoro. Lui aveva portato a termine la metà più importante, a suo parere, dato che non riusciva a immaginare che cosa potesse aver fat-to Clara perché qualcuno la volesse morta. In altre circostanze, non si sa-rebbe nemmeno posto il problema: lui era un professionista. Ma Lion Do-yle non poteva ingannare se stesso e doveva riconoscere che i mesi passati in Iraq gli avevano lasciato un'impronta difficile da cancellare. Ayed Sa-hadi aveva disposto sei uomini davanti alla porta della stanza di Clara, do-po avere ordinato di circondare la casa in modo da non lasciarne nemmeno un palmo senza vigilanza. Il Colonnello aveva annunciato il proprio arrivo e lo aveva informato dell'irritazione nell'ambiente di Saddam per l'as-sassinio di Alfred Tannenberg. Gli avevano chiesto una testa e il Colonnel-lo gliel'avrebbe consegnata a ogni costo.

Gian Maria pregava in silenzio raccomandando a Dio l'anima di Tan-

nenberg e della povera Aliya che, come la precedente infermiera, Samira, aveva trovato la morte solo per avere assistito quell'uomo durante la sua agonia. Sapeva che l'assassino avrebbe cercato di uccidere Clara e il sacer-dote non se lo sarebbe mai perdonato, se non fosse riuscito a evitarlo.

Aveva chiesto a Fatima il permesso di rimanere accanto a Clara, ma la donna gliel'aveva negato e Ayed Sahadi si era dichiarato d'accordo, poiché giudicava impossibile che il sacerdote fosse in grado di proteggere la don-na.

Il Colonnello arrivò verso sera, gettando nel panico l'accampamento mi-litare e il villaggio. Questa volta era accompagnato da un gruppo ben più numeroso, dodici tra i suoi uomini migliori, addestrati a interrogare anche i

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più coriacei avversari del regime di Saddam, soldati che con i loro metodi avrebbero fatto parlare anche le pietre.

Ahmed Husseini aveva fatto in modo che l'equipe di archeologi passasse

due giorni a Baghdad prima del trasferimento in Giordania, dove avrebbe-ro sostato ad Amman per poi tornare al proprio paese d'origine: Picot a Pa-rigi, Marta Gómez e Fabián a Madrid, e gli altri professori e studenti a Berlino, Londra e Roma. Tutti erano stati presi da una sensazione di clau-strofobia e desideravano lasciare l'Iraq il più presto possibile, ma Ahmed aveva chiesto loro di pazientare, dato che in quel momento non era facile disporre di elicotteri e non era nemmeno consigliabile rischiare la vita lun-go la frontiera giordana.

Nella hall dell'Hotel Palestine gli archeologi incontrarono alcuni giorna-listi conosciuti a Safran: secondo loro l'inizio della guerra era solo questio-ne di giorni, per lo meno stando alle informazioni delle agenzie di stampa europee. Alcuni si preparavano a partire prima dell'invasione, ma la mag-gior parte si stava organizzando per quando fosse cominciato il conflitto, facendo scorta di viveri e di bottiglie d'acqua.

Lion Doyle inviò un fax molto chiaro alla sede di Photomundi: "Torno domani. Ho con me materiale a sufficienza, anche se non esaustivo. Negli ultimi giorni è stato difficile lavorare. Comunque, la parte più importante è stata fatta".

Quella sera, Picot e il resto del gruppo di archeologi cenarono con Mi-randa e con altri giornalisti.

«Perché non vieni via anche tu?» propose Picot a Miranda. «Non sarei più io se me ne andassi ora. Non ho aspettato tutto questo

tempo per poi scappare all'ultimo minuto.» «Potresti passare qualche giorno con me a Parigi; se vuoi, puoi starci tut-

to il tempo che ti pare.» Miranda guardò Picot con un sorriso complice. Alla giornalista l'archeo-

logo piaceva, e capiva di essere ricambiata, ma tutti e due sapevano che le loro vite scorrevano in parallelo e non si sarebbero mai incrociate. Si sa-rebbero potuti fare unicamente del male. «Lascia perdere, Yves.»

«Perché? Non mi hai detto che sei libera?» «E infatti lo sono.» «Ma allora...» «Allora niente. Sei una persona stupenda, e non voglio che la nostra sia

l'avventura di una notte.»

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«Non ti sto proponendo l'avventura di una notte» protestò Picot. «Lo so, ma date le circostanze credo che sia difficile aspirare a qualcosa

di più.» «Per favore, Miranda, concediti una possibilità, e concedila anche a

me!» «Quando me ne andrò da questa maledetta guerra che sta per comincia-

re, verrò a trovarti a Parigi, o dovunque tu sarai, e allora a mente fredda ri-deremo delle cose che stiamo dicendo adesso, ci berremo un bicchiere in-sieme e poi ognuno proseguirà per la propria strada, da amici o... da quel che sarà.»

Picot non insistette. Sapeva che Miranda sarebbe rimasta a Baghdad e provò una sensazione di inquietudine pensando ai pericoli che di sicuro a-vrebbe corso.

Ahmed Husseini, che aveva cenato con loro, beveva un whisky dopo l'altro. Fabián cercava di calmare quella persona che era solo l'ombra del-l'uomo di un tempo. Da sicuro ed elegante direttore del dipartimento di Scavi archeologici, ora appariva trasandato, con il volto segnato da pro-fonde occhiaie e dall'angoscia, e si muoveva da un posto all'altro come se temesse per la propria vita.

«Andrà a Safran?» gli chiese Marta Gómez. «Non lo so, il dottor Najeb non mi ha permesso di parlare con Clara,

spero di riuscirci domani. Farò quello che vuole lei; andrò lì se potrò esser-le di qualche aiuto.»

«Ma è sua moglie! Come può non esserle d'aiuto in un momento come questo?» protestò Marta.

«Non lo so, professoressa, non lo so... Tutto quel che è successo è terri-bile, e adesso la guerra... Non riesco a immaginare ciò che accadrà... A o-gni modo Clara deve tornare a Baghdad, non credo che possa rimanere da sola per molto tempo.»

Fabián fece un cenno a Marta perché non insistesse e spostò la conver-sazione sulla mostra che avrebbero organizzato. «È un buon risultato aver convinto le autorità irachene a permetterci di allestire un'esposizione con i reperti rinvenuti a Safran.»

«Sì, il professor Picot ha già firmato i documenti» confermò Ahmed. «E lei quando si unirà a noi?» domandò Fabián. «Io? Non lo so, dipende da Clara, io vorrei partire subito, domani stesso,

se potessi farlo... Ma non è facile lasciare l'Iraq e adesso che Tannenberg è morto, non mi lasceranno certo andare via...»

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Lo squillo del cellulare di Ahmed interruppe la chiacchierata. Lui non si allontanò dal gruppo, ma ascoltò in silenzio la voce che dall'altro capo del telefono pareva dargli ordini. Ahmed Husseini assentiva senza aprire boc-ca con un'espressione ogni istante più tesa.

«Chi l'ha chiamata?» domandò Marta senza preoccuparsi di sembrare indiscreta.

«Era... il Colonnello, forse voi non sapete chi sia; be', è un tizio molto importante...»

«Il Colonnello? Certo che lo conosciamo, era a Safran. È arrivato con un gruppo di investigatori dopo l'assassinio di Samira e delle due guardie» ri-cordò Fabián.

«Pareva un personaggio terribile» mormorò Marta. «Domani partirò all'alba per Safran insieme a una delegazione di perso-

nalità del mio paese per assistere ai funerali di Tannenberg. A Palazzo vo-gliono che venga sepolto in pompa magna. Mi hanno ordinato di andarci, di stare accanto a Clara, e di convincerla a fare poi ritorno a Baghdad.»

«Mi pare la cosa più sensata» disse Lion Doyle. «E di noi, che ne sarà?» domandò Picot con aria preoccupata. «Voi partirete con gli elicotteri dopodomani, all'alba, il programma non

è cambiato. Karim, il mio aiutante, è nipote del Colonnello e farà in modo che non abbiate alcun problema; lui vi accompagnerà alla base, se io non sarò di ritorno in tempo. Ma credo che rientrerò domani stesso, se possibile con Clara.» Ahmed Husseini decise di lasciare la tavola e si congedò. Non riusciva più a restare lì seduto e il troppo alcol cominciava a fargli effetto: gli girava la testa, aveva la nausea e gli bruciavano gli occhi. Sapeva che la cosa migliore sarebbe stata cercare di riposare, se ci fosse riuscito.

Anche Picot era stanco ma non aveva voglia di andare a letto, per cui propose agli altri di bere ancora un bicchiere al bar, e quasi tutti accettaro-no; in realtà, solo Ante Plaskic si accomiatò per andarsene a dormire.

«Che tipo strambo» disse Miranda mentre Ante attraversava la hall verso gli ascensori.

«Lo è davvero» assicurò Picot. «Però non ha fatto niente di sospetto» lo difese Marta. «Hai ragione, ma è anche vero che per tutti questi mesi si è mostrato as-

sai distante e non ha fatto il benché minimo tentativo di essere gentile» re-plicò Picot.

«Ha lavorato bene, è sempre stato educato, ha fatto tutto quello che gli abbiamo chiesto... Mi pare ingiusto accusarlo di essere poco socievole, so-

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prattutto perché era consapevole di non piacere al gruppo» insistette Marta. «D'accordo, ma non si può negare che sia un tipo strano» concluse Picot. Rimasero al bar fino a tardi e parlarono della guerra, certi che stesse per

scoppiare. Nessuno sapeva quando sarebbe successo, poteva essere di lì ad alcuni giorni o un mese, ma non c'era dubbio che Bush avrebbe invaso l'I-raq.

Tre elicotteri si posarono sulla terra giallastra, a pochi metri da ciò che

rimaneva dell'accampamento degli archeologi. Clara, accanto al Colonnello, attendeva con aria assente che i rappresen-

tanti del regime terminassero di scendere dai velivoli: alcuni generali e due ministri, oltre a un certo numero di persone vicine al clan di Saddam.

Tutti le strinsero la mano e le espressero le loro condoglianze, sottoline-ando che l'Iraq aveva perduto uno dei suoi migliori amici e alleati. Lei li ascoltava distrattamente e faceva fatica a capire quello che dicevano, poi-ché era incapace di concentrarsi su qualcosa che non fosse quel dolore che la straziava al punto d'impedirle di respirare.

Non riusciva a togliersi dalla testa l'immagine di suo nonno sgozzato. Chi lo aveva ucciso aveva cercato non solo di eliminarlo ma anche di ven-dicare chissà quale offesa. Non si era mai sentita così disperata, nemmeno quando i suoi genitori erano morti in un incidente imprevedibile e fatale. Non riusciva a sopportare l'evidenza della morte di suo nonno e non poteva trovare conforto in nessuna delle parole che stava ascoltando, neppure in quelle sinceramente dispiaciute di Fatima, che l'aveva stretta tra le braccia come quando era bambina, nel tentativo di restituirle la serenità perduta.

Ahmed si avvicinò a Clara e la baciò con tenerezza sulla guancia, poi la prese per un braccio e la condusse verso casa.

Lei non oppose resistenza. Non le importava che Ahmed fosse lì, sebbe-ne Fatima gliene avesse preannunciato l'arrivo, insistendo affinché si fa-cesse accompagnare dal marito, per lo meno per salvare le apparenze in un momento simile.

All'interno della casa Fatima servì tè e dolci agli uomini in attesa che si formasse il corteo per accompagnare Alfred Tannenberg al luogo della se-poltura.

In un primo momento Clara aveva deciso di chiedere al Colonnello un elicottero che la portasse insieme alla bara al Cairo, ma poi aveva pensato che per suo nonno un luogo valeva l'altro: lei lo conosceva bene e sapeva che lui non amava nessun posto in particolare. Lei, invece, credeva nel va-

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lore dei simboli, per cui decise di dargli sepoltura accanto alle rovine del tempio dove con tanta ansia aveva cercato quelle tavolette che erano state la sua l'ossessione.

Non rimase con gli uomini, ma si chiuse nella camera ardente. Fatima aveva lavato e preparato il cadavere dell'uomo a cui era stata fe-

dele per quarant'anni, e l'aveva fatto con il rispetto e da reverenza che gli aveva sempre dimostrato quando era vivo.

Clara prese la mano inerte del nonno e scoppiò in un pianto disperato. «Nonno... nonno... perché? Perché ti hanno fatto questo? Dio mio, aiutami a trovare l'assassino! Nonno, non mi lasciare... non mi lasciare, per favo-re...»

Dei leggeri colpi alla porta le annunciarono la presenza di Fatima, che entrò per dirle che era arrivato il momento di portare via la bara.

Clara si mise a piangere ancora più forte e abbracciò il corpo senza vita gridando tutta la sua disperazione.

Con l'aiuto di Ahmed, la governante la allontanò mentre il Colonnello chiudeva il feretro e, aiutato da altri, lo trasportava dalla casa verso l'auto che l'avrebbe condotto a un centinaio di metri di distanza, dove, nella terra gialla, era già stata scavata la fossa in cui Tannenberg avrebbe riposato per l'eternità.

Il dottor Najeb si avvicinò a Clara e le offrì un tranquillante, che lei ri-fiutò. Voleva uscire da quell'oscurità in cui viveva da quando, due giorni prima, avevano assassinato suo nonno, anche se avrebbe rischiato di essere sopraffatta dal dolore. Il medico non insistette.

In Iraq le mattine di marzo sono calde, e quella non faceva eccezione. Tutti gli uomini e le donne di Safran, oltre ai soldati della guarnigione e al-le autorità delle città e dei villaggi vicini, si ammassarono intorno al luogo dov'era stata preparata la tomba di Alfred Tannenberg.

La gente del posto osservava con curiosità i generali e i ministri giunti da Baghdad, e qualcuno mormorava che all'ultimo minuto sarebbe potuto arrivare addirittura Saddam.

Non ci furono funzioni religiose, né cattolica né musulmana, e nessuno pronunciò un'orazione funebre per il defunto. Clara aveva espresso il desi-derio che suo nonno venisse sepolto senz'altra solennità che il dolore di chi lo aveva amato, e lei sapeva bene che di tutte le persone lì riunite solo lei e Fatima gli avevano voluto bene veramente. Quando gli uomini calarono la cassa e la depositarono nella sabbia riarsa, l'urlo di Clara ruppe l'aria lim-pida del mattino. Ahmed la trattenne con forza ma non riuscì a evitare che

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la moglie tentasse di lanciarsi nella fossa che si stava coprendo di terra. Fu la mano ferma del Colonnello a impedirle di compiere quel gesto. Lei gri-dava e piangeva senza pudore, fino a che, dopo che la bara fu coperta di terra, l'allontanarono da quel luogo.

Il ritorno a casa avvenne in silenzio. Il Colonnello raggiunse la stanza che era servita da ufficio ad Alfred

Tannenberg per parlare a Clara e ad Ahmed. «Sei in condizioni di potermi ascoltare?» domandò alla donna in tono affettuoso.

«Sì, sì...» rispose lei asciugandosi le lacrime che le scorrevano sul volto. «E allora dammi retta, e considerami come il padre che non hai, dato che

tuo nonno per te era tutto. Ahmed mi ha detto che sei al corrente degli af-fari di tuo nonno; se è così, capirai che non possiamo fermare l'operazione che è stata messa in moto. Tuo marito sarà a capo di tutto, e tu dovrai par-tire; secondo me, è meglio che ti allontani dall'Iraq il prima possibile. Cre-do che dovresti trasferirti nella tua casa al Cairo. Lì sarai al sicuro finché tutto sarà finito, poi potrai occuparti della mostra che il professor Picot sta organizzando. Non so che cosa succederà da qui a un mese, né se saremo ancora vivi, ma ho fiducia in quell'uomo. Ascolta i suoi consigli e collabo-ra all'allestimento dell'esposizione.»

«Non voglio andarmene» mormorò Clara. «Bambina mia, la guerra sta per cominciare. È assurdo che resti qui, a

meno che tu non desideri morire. Sono sicuro che tuo nonno non avrebbe voluto che ti ammazzassero.»

«Voglio fermarmi ancora per qualche giorno.» «Va bene, ma devi partire dall'Iraq prima del 20 marzo. In tutti i casi non

mi è possibile lasciare qui molti soldati, dato che tutti gli uomini disponibi-li, compresi quelli del villaggio, saranno chiamati a compiere il loro dove-re per la patria.»

«Clara, torna con me a Baghdad» le propose Ahmed. «Rimarrò ancora qualche giorno... Tornerò il 17 o il 18...» «Se ritardi, non potrai più andartene» disse il Colonnello. Quando gli elicotteri partirono Clara si sentì più leggera. La delegazione

di Baghdad era rimasta solo cinque ore a Safran, ma lei sentiva un pressan-te bisogno di restare sola, di non essere costretta a parlare né ad ascoltare nessuno, di cercare di ritrovare la serenità per affrontare la vita senza il nonno.

Gian Maria si era tenuto a debita distanza durante la sepoltura e per tutto

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il tempo in cui erano stati presenti i rappresentanti del governo di Saddam. Era riuscito a parlare per qualche minuto con Ahmed, a cui aveva assicura-to che avrebbe avuto cura di Clara e l'avrebbe convinta a tornare quanto prima a Baghdad.

Ahmed gli aveva detto di chiamarlo quando avessero avuto bisogno di un mezzo che li trasportasse nella capitale o direttamente alla frontiera con la Giordania. Il comandante del contingente di soldati diede disposizioni di iniziare a smantellare l'accampamento. L'ordine era di tornare in caserma.

Il capo del villaggio non si decideva ad avvicinarsi alla casa per chiedere a Clara se gli uomini dovessero continuare a lavorare o fossero liberi di tornare alle loro precedenti occupazioni, sapendo che alcuni avevano già ricevuto l'ordine di mobilitazione.

Clara lo incontrò in compagnia di Fatima, Ayed Sahadi e del dottor Na-jeb, ai quali il Colonnello aveva dato l'incarico di starle accanto. Destando la sorpresa di Fatima e del dottor Najeb, lei annunciò al capo del villaggio che gli scavi sarebbero proseguiti ancora per alcuni giorni e che erano ne-cessari tutti gli uomini disponibili; era intenzionata a raddoppiare il salario se avessero accettato di lavorare giorno e notte.

Quando l'uomo se ne fu andato, Ayed Sahadi le chiese preoccupato se non sarebbe stato più opportuno desistere. «Resteremo per alcuni giorni, forse dieci, e in questo periodo si lavorerà senza sosta; non è detto che non riusciamo a trovare ciò che cerco.»

Gli uomini non si azzardarono a contrariarla, considerato il suo stato d'animo. Ayed Sahadi le assicurò che avrebbero lavorato con il massimo impegno, però l'avvertì che avrebbe avuto a disposizione meno operai di quelli su cui aveva potuto contare fino a quel momento, poiché, come ave-va anticipato il capo del villaggio, molti erano già stati richiamati alle ar-mi. Ma tutto ciò non parve importare a Clara, la quale ci tenne a sotto-lineare che, di sicuro, lei avrebbe continuato a lavorare.

Lion Doyle non riusciva a prendere sonno. Era preoccupato all'idea di

doversi trattenere in Iraq. Al ritorno da Safran, Ahmed gli aveva detto che il Colonnello voleva

che Clara partisse per Baghdad ma che lei aveva insistito per fermarsi an-cora alcuni giorni, e Doyle si domandava se valesse la pena di correre dei rischi trattenendosi in quella città in stato di guerra o se fosse meglio eli-minare la donna quando lei avesse raggiunto Picot in qualche capitale eu-ropea, dove non sarebbe stato difficile rintracciarla. Entrare in Iraq era sta-

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to facile, ma andarsene una volta che fosse cominciata quella stramaledetta guerra sarebbe stato un altro paio di maniche; quindi o partiva con l'équipe di archeologi o non sapeva come e quando avrebbe potuto farlo, e soprat-tutto non aveva certezze di riuscire a portare a termine l'altra metà del suo incarico.

Per restare aveva bisogno di una scusa, ma quello, pensò, non era un problema: sarebbe bastato dire che non voleva interrompere il lavoro in un momento in cui gli inviati speciali assicuravano che la guerra era immi-nente. Decise di telefonare a Londra, al direttore di Photomundi, e spiegar-gli che cosa era successo nelle ultime ore. Senz'altro aveva ricevuto il fax, che a quell'ora doveva già essere nelle mani di Tom Martin, ma sarebbe stato meglio parlargli di persona e fugare ogni dubbio intorno alla morte di Alfred Tannenberg. Inoltre, non si sarebbe compromesso sollecitando i-struzioni; che fosse Tom Martin a decidere se sarebbe dovuto rimanere o tornare.

Ante Plaskic aveva deciso di non partire. Il croato aveva ascoltato le conversazioni durante la cena, per cui ora sapeva che Clara sarebbe arriva-ta presto a Baghdad, e lui doveva assicurarsi che la donna tornasse con quelle maledette tavolette che cercavano da mesi; a quel punto lui avrebbe dovuto sottrargliele e farle uscire dall'Iraq. Era determinato a portare a termine quell'incarico per il quale veniva pagato così generosamente.

Plaskic si domandava chi aveva assassinato Tannenberg, e non poteva togliersi dalla testa l'idea che l'uomo che aveva ucciso il vecchio e l'infer-miera fosse quel fotografo, Lion Doyle, nonostante sospettasse anche del caposquadra, Ayed Sahadi. Ragionando, pensò che era più probabile che il responsabile fosse quest'ultimo, ma d'altra parte chiunque poteva essere stato assoldato per compiere la vendetta contro il potente Alfred Tannen-berg.

Era improbabile che Clara riuscisse a trovare le tavolette, ma lui non po-teva correre rischi, per cui sarebbe rimasto. A Picot avrebbe detto che ave-va incontrato degli amici e che sarebbe tornato di lì a qualche giorno; non era importante che il professore gli credesse.

34

Tom Martin finì di leggere il fax che il direttore di Photomundi gli aveva

inviato quella mattina. Non aveva potuto farlo prima in quanto era appena arrivato da Parigi, dove aveva passato la giornata in riunioni con colleghi

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del settore. La sua segretaria gli aveva annunciato l'arrivo del fax e per quel motivo si era recato immediatamente in ufficio. Decise di chiamare subito il direttore di Photomundi.

Lo squillo del telefono strappò l'uomo a un sonno profondo. «Sì?» «Sono io.» «Io chi...? Ah, mi scusi, sono ancora addormentato. Ma che ora è?» «Le due del mattino.» «E lei comincia a lavorare così presto?» domandò di malumore il diret-

tore dell'agenzia fotografica. «Prima, molto prima, in effetti lavoro ventiquattr'ore al giorno. Mi dica,

ha ricevuto qualche altra comunicazione dal suo collaboratore a Ba-ghdad?»

«No.» «Nemmeno una telefonata?» «No.» «Allora salti giù dal letto e vada in ufficio, sono certo che lui si metterà

nuovamente in contatto con lei.» «Sì, ma non a quest'ora...» protestò. «Non perda tempo, né il suo né il mio, e faccia quel che le dico. Sto a-

spettando delle notizie e so che arriveranno questa notte stessa.» Il direttore di Photomundi borbottò qualcosa tra i denti prima di fare ciò

che Tom Martin gli ordinava. Non gli poteva dire di no perché lui era un cliente fisso, uno dei migliori, quindi se gli chiedeva di alzarsi alle due del mattino e di andare subito in ufficio, non gli restava che obbedire. E ciò nonostante Lion Doyle avesse il suo numero di cellulare, e di conseguenza potesse contattarlo in qualsiasi momento, incluso quando se ne stava pla-cidamente a letto. Dunque si alzò e si infilò sotto la doccia per svegliarsi. Sarebbe andato in ufficio ad attendere la chiamata di quel maledetto Do-yle.

Si stava sistemando la cravatta, quando suonò il telefono. La voce di Lion Doyle era inconfondibile e lui accese il registratore per poter conse-gnare a Tom Martin il nastro con la conversazione.

«Mi fa piacere sentirla. Ha ricevuto il fax?» «Sì, certo. Come sta?» «Ero sorpreso del fatto che non mi avesse ancora chiamato. Ho una gran

voglia di tornare, soprattutto dopo quanto è avvenuto negli ultimi giorni: sono stati terribili. È stato assassinato il nonno di Clara Tannenberg, sì, l'archeologa che cofinanziava la spedizione del professor Picot. Suo nonno

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era vecchio e malato e nessuno si spiega come possa essere stato ucciso: aveva delle guardie del corpo che lo piantonavano ventiquattr'ore su venti-quattro. Ma anche così, qualcuno è riuscito a eludere la sorveglianza e ha tagliato la gola a lui e all'infermiera che lo vegliava. Può immaginare la si-tuazione, anche se ora fortunatamente siamo a Baghdad, pronti a partire oggi stesso, a meno che lei non voglia che mi fermi per fare un reportage speciale. In ogni caso, anche se non serviranno a niente, ho scattato delle foto sulla tragedia di Safran, non si sa mai...»

Il direttore di Photomundi gli assicurò che avrebbe fatto un giro di tele-fonate a riviste e quotidiani per sapere se valeva la pena che si fermasse. Più tardi l'avrebbe richiamato, doveva solo fare in modo di lasciare libera la linea.

Alle tre in punto Tom Martin ricevette nel suo ufficio il nastro registrato con la conversazione tra Lion Doyle e il direttore di Photomundi, che uno dei suoi uomini era andato a prelevare a casa di questi. Sorrise nell'ascolta-re le ciniche spiegazioni del suo uomo. "Lion è un attore consumato" pen-sò il presidente della Global Group.

Eliminando Alfred Tannenberg, Lion aveva per lo meno portato a termi-ne metà del suo incarico, senza dubbio la parte più difficile, per cui, pensò Martin, i suoi clienti potevano dirsi soddisfatti; avrebbe dovuto consultarli immediatamente per sapere se rinunciavano all'idea di far uccidere Clara Tannenberg, o se la sua morte era assolutamente imprescindibile.

Non gli rimaneva altro da fare che chiamare il signor Burton, nonostante fossero le tre e dieci del mattino.

Il professor Hausser dormiva con il sonno leggero di chi si è già lasciato

alle spalle la gioventù e la maturità. Si svegliò immediatamente appena sentì il suono di uno dei cellulari che teneva permanentemente in funzione. Accese la luce e lo afferrò. «Sì?»

«Il signor Burton?» «Sono io.» «Sono Martin...» Hans Hausser sentì una contrazione alla bocca dello stomaco mentre

guardava l'orologio. «Mi dica.» «L'incarico è stato portato a termine o, meglio, una parte di esso, ma era

senz'altro la più importante. L'obiettivo principale è stato eliminato.» «Ne è sicuro?» «Sicurissimo.»

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«Ha delle prove?» «Certamente.» «E che è successo con... con l'altra parte del lavoro?» «Fare quel che mi ha chiesto è stato un vero miracolo. Lei sa qual è la si-

tuazione da quelle parti, no?» «Certo, ma quando pensa di poter concludere?» «La chiamo anche per questo. Forse si potrebbe finire il lavoro anche qui

in Europa. Laggiù è più difficile e, date le circostanze, i rischi sono enor-mi, ma se lei lo desidera ci possiamo provare. Dipende da lei. Se è dispo-sto ad aspettare qualche tempo, le possibilità di riuscita saranno maggiori.»

Il professore respirò profondamente per prendere tempo, senza sapere bene cosa dire. Non poteva assumersi la responsabilità di una simile deci-sione, doveva consultarsi con i suoi amici. «La richiamerò tra pochi minu-ti.»

«D'accordo, aspetterò, ma deve darmi una risposta entro le sei del matti-no.»

«L'avrà molto prima.» Carlo Cipriani stava leggendo. Aveva partecipato a una cena con dei

vecchi amici medici come lui, e una volta a casa si era messo tranquilla-mente a leggere nel silenzio della notte. Nell'udire il suono del telefono ebbe un sussulto e rispose immediatamente.

«Carlo...» «Hans?» «Sì, amico mio, sono io.» «Che succede?» domandò spaventato il medico. «È andato. Non c'è più.» «Cioè? Cosa vorresti dire?» «È morto. Lui è morto. Mi hanno appena chiamato per comunicarmelo,

e ci sono le prove.» «Ma... ne sei davvero sicuro, Hans?» «Ne sono sicuro. Proprio così.» Rimasero in silenzio senza sapere cosa dire, cercando nel proprio animo

una particolare sensazione che invece non trovavano, dopo avere atteso quell'istante per tutta la vita.

«Il mostro è morto» mormorò Carlo Cipriani. «Sì, ce l'abbiamo fatta. Sai una cosa, mi sento come svuotato» disse

Hausser con una voce priva di emozione.

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«E tuttavia...» «E tuttavia dovevamo farlo, altrimenti non avremmo potuto concludere i

nostri giorni in pace.» «Hai chiamato Bruno e Mercedes?» «No, ho preferito parlare prima con te. Dobbiamo prendere subito una

decisione riguardo a sua nipote.» «È ancora viva?» domandò Carlo Cipriani. «Sì, e le difficoltà per portare a termine la prima parte dell'incarico sono

state enormi: ora manca solo lei. Mi hanno chiesto se devono procedere subito o se invece possiamo aspettare che se ne occupino qui in Europa, dove, pare, lei si trasferirà.»

«Dove?» «Non lo so, ma se ne andrà da quel posto.» «Hans, cosa credi che dobbiamo fare?» «Mah, potremmo anche lasciare le cose come stanno o...» «Mercedes non si accontenterà» disse tristemente il medico. «E noi, Carlo? Noi ci accontenteremo?» «Ritieni che la nostra coscienza si senta a posto?» «La mia è a posto, te l'assicuro, amico mio» rispose senza tentennamenti

il professor Hausser. «Hai ragione. Credo di essere ancora scioccato...» «Lo stesso vale per me» disse Hausser. «Forse dovremmo lasciare a loro la decisione riguardo al luogo dove

completare il... lavoro» soggiunse Cipriani, pensando che Mercedes non avrebbe accettato che la vendetta non fosse totale.

«Sono d'accordo.» «A ogni modo digli che devono assolutamente concludere.» «Non possiamo rinunciare, abbiamo atteso tutta la vita, e oggi Dio ha

voluto regalarci la notizia della fine del mostro.» «Dio non è mai stato dalla nostra parte, Hans, mai; lì non c'era, non c'è

stato in tutti questi anni. Mercedes ha ragione: se esiste, ci ha abbandona-ti.»

Rimasero in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri, cercando di far fronte a un passato che non riuscivano a cancellare.

«Telefonerò prima a Bruno e poi a Mercedes; se ci saranno novità, ti ri-chiamerò.»

«Ci conto, Hans... questa sarà una notte lunga, molto lunga.» «Io andrò a dormire tranquillo, Carlo.»

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«Buonanotte, Hans.» Deborah si svegliò di soprassalto allo squillo del telefono e scese dal let-

to. «Deborah, stai tranquilla, è solo il telefono» le disse suo marito. «Ma sono le tre del mattino. Deve essere capitata una disgrazia...» Bruno Müller si alzò e andò in salotto a rispondere. Deborah lo seguì

impaurita, tremando per il freddo e l'angoscia. «Chi parla?» domandò con voce ferma. «Bruno... sono Hans...» «Hans, che cos'è successo?» chiese Bruno allarmato. «Il mostro è morto.» «Dio mio!» esclamò il musicista. «Dio non ha avuto niente a che fare con quello che è accaduto, siamo

stati noi.» Bruno Müller sentì una vampata di calore percorrergli il corpo e poi una

sorta di gelo s'impossessò delle sue viscere. Il suo volto rifletteva mille emozioni e lui pareva sul punto di svenire.

«Bruno! Bruno! Che succede?» chiese Deborah spaventata. «Lasciami solo, Deborah, torna in camera.» «Ma, Bruno...» protestò lei. «Fa' quel che ti dico!» urlò il mite musicista. Hans Hausser ascoltava la conversazione attraverso l'apparecchio telefo-

nico. Conosceva tutte le emozioni che in quel momento avevano invaso l'animo del suo amico.

«Hans, ne sei sicuro?» chiese spaventato Bruno. «Lo sono, il mostro non esiste più, per lui è finita.» «Ce l'abbiamo fatta, e alla fine abbiamo vinto noi... ora potrò morire in

pace.» Hans Hausser assentì in silenzio a quelle parole. Mercedes dormiva profondamente. Aveva preso un sonnifero, dato che

negli ultimi mesi riusciva a riposare solo per poche ore. Il telefono squillò diverse volte prima che lei lo udisse e potesse rispon-

dere. «Sì...» «Mercedes?» «Sì.»

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A Hans Hausser parve che la voce dell'amica gli giungesse dall'oltre-tomba. Il tono impastato e la difficoltà ad articolare le parole lo preoccupa-rono. «Stai bene?»

«Chi parla?» riuscì a dire Mercedes, che a fatica cercava di svegliarsi del tutto.

«Sono Hans...» «Hans? Hans... Dio mio, cos'è successo?» «Buone notizie, è per questo che ti chiamo a quest'ora, anche se hai il

sonno pesante.» «Hans... dimmi.» «Il mostro è morto.» La donna lanciò un grido che parve un ululato. Un grido dolente che le

veniva dal profondo. Prese il bicchiere dal comodino e bevve un sorso d'acqua, cercando di diradare la nebbia in cui si trovava. Poi, a fatica, riu-scì a sedersi sul letto e a posare i piedi per terra.

«Mercedes, ti senti bene?» «Ero... ero profondamente addormentata, ho preso una pastiglia perché

non riesco a dormire e... Hans, è vero?» «Sì, è vero, è morto, e ci sono le prove.» «Com'è successo? Quando?» lo pressò Mercedes. «Lo hanno già sepolto.» «Ha sofferto?» «Non lo so, ancora non conosco i dettagli.» «Spero che abbia sofferto, che all'ultimo minuto abbia capito perché mo-

riva. E lei? La nipote...» «È viva.» «Perché? Non ci dev'essere perdono per nessuno dei suoi discendenti»

disse Mercedes in tono quasi isterico. «Non c'è perdono, è giusto, bisogna fare le cose per bene. A quanto pare

ci sono state delle difficoltà per portare a termine la prima parte del lavoro e ci hanno chiesto se devono concluderlo subito laggiù o se possono prov-vedere qui, in Europa, dove è previsto il suo arrivo.»

«E noi come facciamo a sapere cos'è meglio?» rispose furiosa Mercedes. «Ci avevano spiegato che per garantire un lavoro ben fatto sarebbe oc-

corso del tempo, forse alcuni mesi; e così è stato, sono passati dei mesi. E ora che facciamo?»

«Devono procedere secondo gli accordi: che rispettino il contratto il prima possibile.»

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«Allora...» «Hans, ne sei sicuro? Sul serio il mostro non c'è più?» «Sono sicuro, Mercedes, fidati.» La donna si mise a piangere e i suoi singhiozzi emozionarono a tal punto

il suo vecchio amico, che anche lui non riuscì a trattenere le lacrime. «Mercedes, non piangere, per l'amor di Dio, calmati. Devi essere forte,

non piangere...»

35 «Mercedes, non piangere; per favore, piccola mia, non piangere.» La bambina, aggrappata alla mano di sua madre e tremante per il freddo

e per la fame, a malapena si reggeva in piedi. La guardia le aveva dato uno spintone perché non se ne stava tranquilla in fila come le altre prigioniere con i loro figli. Caduta per terra, aveva sbattuto la testolina nel fango, ma si era subito rialzata poiché la madre l'aveva tirata su, terrorizzata. Nei campi, i prigionieri cercavano di confondersi con il grigio del cielo per non richiamare l'attenzione delle SS, dei kapò o di qualsiasi altra persona pron-ta a farli soffrire.

Sua madre le stringeva la mano mentre la pregava, angosciata e con un filo di voce, di non piangere. La guardia che l'aveva spinta era stata distrat-ta da altri bambini che erano usciti dalla fila, e in quei preziosi secondi Mercedes cercò di trattenere le lacrime, come le chiedeva sua madre.

Vide un gruppo di ufficiali delle SS che abbracciavano altri ufficiali ap-pena scesi da automobili scure. Gli uomini parevano contenti, e uno di essi stava dicendo a un altro che quello sarebbe stato un giorno memorabile. Per qualche istante Mercedes pensò a cosa avrebbero potuto fare quegli uomini di tanto speciale perché quella diventasse una giornata indimen-ticabile, e di nuovo rabbrividì.

Uno dei kapò, di nome Gustav, venne verso di loro e ordinò che i bam-bini si mettessero in fila davanti alle loro madri. I più piccoli facevano re-sistenza ad abbandonare la mano della mamma, ma una delle guardie delle SS si avvicinò con una frusta e cominciò a colpirli, per cui furono le stesse madri a supplicare i figli di lasciarle immediatamente.

«Ascoltate!» gridò un ufficiale delle SS in un tono di voce che spaventò i piccoli. «Da Berlino è giunta una delegazione scientifica per esaminarvi. Darete un contributo alla scienza e in questo modo vi renderete utili. Scen-derete tutte nella cava, dove vi aspetta un regalo che dovrete portare su su-

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bito. I vostri bastardi rimarranno qui, abbiamo un regalino anche per loro.» Alfred rise alle parole del suo collega delle SS, e Georg si informò sulla

durata della prova. «Vedremo di cosa sono capaci queste cagne» gli rispo-se.

Mercedes ingoiava le proprie lacrime e sua madre le sorrideva, cercando di tranquillizzarla mentre cominciava a scendere nella cava. Chantal era al-l'ottavo mese di gravidanza; da sette l'avevano destinata a uno dei comandi di Mauthausen e lei stessa si meravigliava di essere sopravvissuta fino a quel momento. Era convinta di avere ereditato la forza dai suoi genitori, contadini come lo erano stati i nonni e, per quel che ne sapeva, tutti i suoi avi. Altre donne nelle sue stesse condizioni non ce l'avevano fatta, incapaci di resistere alle torture e al lavoro sfiancante. Alcune erano scomparse do-po essere state chiamate in infermeria per un controllo della gravidanza. Ma lei era addirittura più magra di prima di rimanere incinta, e il suo ven-tre appena gonfio passava inosservato.

Era stata arrestata dalla Gestapo nella Francia di Vichy mentre tentava di scappare con la figlia. L'avevano deportata in Austria su un treno di pri-gionieri, dove l'avevano rinchiusa in un vagone dal quale nessuno era potu-to scendere né di notte né di giorno; lì, ammucchiata insieme a centinaia di altri prigionieri, si era detta che finché era viva poteva continuare a spera-re. Suo marito era spagnolo e, come lei, aveva collaboralo con la Resisten-za. Era rimasto ucciso durante uno scontro a fuoco con la Gestapo nel pie-no centro di Parigi, mentre cercava di sfuggire a un posto di blocco. Lei era rimasta sola prima di sapere di essere incinta. Aveva cercato di scappa-re in Spagna e di rifugiarsi presso la famiglia di suo marito, decimata dalla guerra civile. Aveva pensato di andare a Barcellona a cercare sua madre, certa che l'avrebbe aiutata. I capi della Resistenza avevano accettato di ac-compagnarla fino alla frontiera, ma al confine era stata arrestata.

Una volta nel campo, l'avevano fatta spogliare come tutte le altre prigio-niere e le avevano dato gli indumenti che avrebbe dovuto portare, su cui era cucito un triangolo rosso in mezzo al quale c'era la lettera F. Il triango-lo rosso indicava che era una prigioniera politica, la lettera F la sua nazio-nalità.

Solo dopo parecchie settimane aveva scoperto di essere incinta. Fino al-lora aveva creduto che l'assenza del ciclo fosse stata causata dalla paura, dalle percosse, dalla mancanza di cibo o dalla stanchezza. Quando si era resa conto che sarebbe diventata madre un'altra volta, si era messa a pian-gere sconsolata, incolpandosi del fatto che quel figlio sarebbe stato un pri-

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gioniero fin dal suo primo giorno di vita. Poi la disperazione aveva lasciato il passo alla speranza e alla voglia di vivere, poiché la gravidanza le dava nuova forza: doveva rimanere in vita per la creatura che stava per nascere e per Mercedes; tutti e due avevano bisogno di lei, non c'era nessun altro che avrebbe potuto badare a loro. Aveva fatto imparare a memoria a Mercedes l'indirizzo della nonna di Barcellona, nel caso che almeno lei, un giorno, fosse uscita viva da lì.

«Perché questi bastardi non scendono anche loro a prendere le pietre?» domandò Georg.

«È un'idea, ma per loro abbiamo riservato un'altra sorpresa. Faranno il bagno, e vedremo se sopravvivranno» rispose Heinrich sghignazzando.

«Andiamo giù a vedere come si comportano le cagne» propose Alfred. L'allegro gruppo di ufficiali e civili scese alcuni gradini della scala della

morte per vedere meglio ciò che stava avvenendo in fondo alla cava, dove le donne si muovevano con estrema difficoltà a causa del peso delle pietre caricato sulle spalle. Alcuni soldati le spingevano mentre ordinavano loro di non separarsi, ma molte non riuscivano a sopportare lo sforzo e cadeva-no al suolo schiacciate dai sassi. Delle cinquanta donne, quindici persero la vita per i calci dei soldati che, non soddisfatti, le colpivano con dei bastoni perché si rimettessero in piedi e risalissero i centottantasei scalini che con-ducevano dalla cava alla spianata del campo.

Chantal riusciva appena a respirare; solo il pensiero di Mercedes e il de-siderio di vedere nascere suo figlio le consentivano di trovare le forze nel più profondo dell'anima. Procedeva china, trascinando i piedi mentre cer-cava di trattenere la nausea e, nonostante avesse un'espressione sofferente, sorrideva dentro di sé perché riusciva ad andare avanti.

Uno, due, tre... D'un tratto alzò lo sguardo e vide con orrore che le guar-die stavano spingendo i bambini verso la cava.

Poteva appena distinguere Mercedes, ma sapeva che era spaventata, sul punto di piangere. Si tirò su, per farsi vedere da sua figlia, per trasmetterle quella forza che anche a lei mancava. Temeva ciò che le SS potevano e-scogitare e non riusciva a capire perché spingessero i bambini nella loro direzione.

L'idea era venuta in mente al capitano Alfred Tannenberg ed era stata applaudita dai suoi amici. I bambini avrebbero dovuto dare delle bastonate sulle natiche delle donne come se si fosse trattato di bestie da soma.

«Loro sono delle mule» disse Alfred ridendo «e voi i conducenti. Dovete essere severi: se qualcuna inciampa e cade, la dovete colpire più forte, non

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importa se è vostra madre; se non lo farete, caricheremo voi con le pietre e vi prenderemo a frustate finché non sarete arrivati su.»

I piccoli erano terrorizzati ma cercavano di non piangere, sapendo che altrimenti sarebbero stati castigati. Ciascuno prese il bastone che gli veniva dato, e tutti scesero la scala impauriti. Le donne, che a gran fatica stavano risalendo, li guardarono con ansia, fino a che ebbero compreso il crudele gioco ideato da quelle menti perverse delle SS.

«Chi non picchia la mula verrà castigato» gridava Alfred Tannenberg tra le risate dei suoi amici e degli altri invitati a quello spettacolo.

«Forza, forza! Cominciamo!» incitavano i kapò. I bambini guardavano angosciati le loro madri senza trovare il coraggio

di alzare i bastoni. «Mercedes, colpiscimi, per l'amor di Dio. Figlia mia, non ti preoccupa-

re!» Chantal implorava sua figlia. D'improvviso una donna crollò a terra con il volto nel fango. Uno dei

kapò le si avvicinò e la colpì, ma Alfred lo fermò e cercò la figlia della prigioniera.

«Ehi, tu! Vieni qui!» ordinò a una bambina dalla magrezza spettrale. La bambina, di circa otto anni, non aveva nemmeno la forza di tenere il

bastone in mano e si avvicinò spaventata, fermandosi a pochi passi dall'uf-ficiale delle SS.

«È tua madre?» le domandò il capitano Tannenberg. La piccola assentì in silenzio. «E allora comincia a bastonare la mula perché si rialzi. Dài, forza!» Ci fu qualche secondo di silenzio. La piccina non si muoveva. Non ave-

va capito bene che cosa avesse detto quell'uomo poiché era sorda e non sa-peva leggere rapidamente sulle labbra di chi parlava.

Il capitano Tannenberg si irritò nel vederla immobile e prese il bastone, con cui cominciò a picchiare senza pietà la donna prostrata nel fango. La piccola lo guardò con orrore e si gettò al suolo accanto alla madre, mentre gli altri ufficiali delle SS scoppiavano a ridere.

D'un tratto, un ragazzino che poteva avere qualche anno più della picco-la si avvicinò per cercare di aiutare la donna e la bambina a rialzarsi.

Tannenberg lo guardò con gli occhi fuori delle orbite per la rabbia. «Come osi! Bastardo!» Estrasse la pistola dalla fondina e sparò alla bam-bina dopo avere allontanato il bambino con una pedata; questi rimase steso sul terzo scalino mentre la madre aveva appena le forze per gemere.

La donna tentò di avvicinarsi strisciando al corpo inerte della figlia, ma

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Tannenberg le assestò un calcio in faccia e la ridusse a un ammasso di car-ne sanguinante. Il ragazzo cercò di alzarsi ma non ci riuscì, poiché l'uffi-ciale riprese a colpirlo fino a fargli perdere i sensi; rimase disteso lì, accan-to al corpo della madre e della sorella, entrambe morte.

«Forza, mule! Muoviamoci! Chi non fa in fretta finirà come questa qui, e voi, incitate le mule, o farete la fine di questo disgraziato. Sua madre era una maledetta comunista, una troia italiana, ma ora abbiamo fatto giustizia. Quella schifosa aveva partorito quell'essere che chiamava figlia. Era forse una bambina? Era un mostro!» gridava Tannenberg eccitato dallo spet-tacolo.

Mercedes cominciò a tremare terrorizzata nel vedere il suo amico Carlo steso immobile a terra. Carlo era più grande di lei e si era sempre mostrato compassionevole e dolce; le aveva ripetuto più volte di non avere paura.

Gli uomini delle SS gridavano ai piccoli di bastonare le donne, e a Mer-cedes sfuggì una lacrima. Non voleva picchiare sua madre e si guardò at-torno disperata: nessuno dei suoi amici aveva sollevato il bastone. Sentì una mano sul braccio. Era la mano di Hans, che con lo sguardo la incitava a camminare.

«Mercedes, per favore, non ti fermare; agita il bastone ma senza picchia-re tua madre.»

«No, no...» gemette la bambina. Una donna incinta gridò mentre cadeva disperata a terra. Stava aborten-

do, lì, su quelle scale, travolta dal dolore e dalla sofferenza. La signora Müller era un'ebrea austriaca, professoressa di pianoforte. Si era nascosta in casa di alcuni amici, ma qualcuno l'aveva denunciata e da quattro mesi stava in quell'inferno insieme al suo piccolo Bruno.

Il capitano Tannenberg le si avvicinò e la guardò con freddezza. Poi fece un cenno a uno dei medici del campo. «Dottore, ritiene che i feti degli e-brei siano come gli altri? Dovremmo accertarlo, non credo che questa scro-fa possa servire ad altro.»

Tutti rimasero in silenzio e in attesa. Il medico si avvicinò e, con un bi-sturi, aprì il ventre della donna mentre lei urlava dal dolore; poi ebbe un ultimo sussulto e smise di gridare. Era morta. Gli altri medici si erano av-vicinati incuriositi per assistere a quel parto cesareo improvvisato ed ese-guito senz'alcuna anestesia.

Il piccolo Bruno scoppiò a piangere disperato; cercò di allontanarsi, ma un kapò lo obbligò con la forza a osservare la carneficina commessa su sua madre.

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Alcuni bambini cominciarono a vomitare, incapaci di sopportare quella scena infernale, mentre le persone in visita da Berlino applaudivano entu-siaste.

Dopo avere salito cinque gradini, Chantal incespicò e cadde; un filo di sangue le scendeva da un angolo della bocca.

Il capitano Tannenberg spinse Mercedes verso sua madre. «Colpiscila! Dài! Non è una donna, è un animale! È solo una mula! Fai quel che ti di-co!»

Mercedes era paralizzata dall'orrore. Non era in grado di emettere alcun suono e guardava con gli occhi terrorizzati l'uomo che la stava spingendo.

«Picchia la mula! Fa' quel che ti ordino!» gridò il capitano Tannenberg sempre più infuriato.

Chantal non poteva parlare, sentiva che la vita stava scivolando via e che era incapace di proteggere sua figlia e quel bambino che stava per nascere. Cercò di stendere una mano verso Mercedes, che si mise in ginocchio ac-canto a lei scoppiando in singhiozzi.

Il capitano Tannenberg si avvicinò a Chantal e le diede un calcio nel ventre che le fece perdere i sensi mentre il sangue cominciava a scorrerle tra le gambe. Poi alzò la frusta per colpirla, ma non ci riuscì perché piccoli denti affilati si erano chiusi sul suo polso con una forza insospettata, pro-vocando una risata negli spettatori giunti da Berlino.

Mercedes stava mordendo a sangue la mano del capitano. Aveva solo cinque anni ed era pelle e ossa, ma in qualche modo aveva trovato le ener-gie e il coraggio per affrontare quel macellaio.

Il capitano Tannenberg la prese e la scaraventò a terra. Era su tutte le fu-rie per essere stato attaccato da quella piccola cenciosa e stava per spararle, quando spostò la pistola verso il ventre di Chantal. Mirò al suo corpo come se fosse stato un bersaglio e lasciò partire uno sparo al centro e quattro tut-t'attorno; poi sfoderò il pugnale d'ordinanza delle SS e sventrò la donna come se si fosse trattato di un animale, strappandole dalle viscere il cada-vere del suo bambino che non sarebbe mai nato. Infine, lanciò in faccia a Mercedes ciò che rimaneva di quella creaturina.

Le urla della bambina erano agghiaccianti, ma il capitano Tannenberg non aveva ancora finito con lei; la sollevò con una mano sola e la scara-ventò giù per le scale. Il corpo della piccina andò a sbattere contro le pietre di granito, e la testa iniziò a sanguinare.

Il piccolo Hans Hausser scese di corsa gli scalini nel tentativo di soccor-rerla, sordo ai gemiti angosciati di sua madre che temeva la rappresaglia di

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quel capitano delle SS. Uno dei kapò lo prese al volo e gli impedì di raggiungere il corpo inerte

di Mercedes. «Tu, ebreo! Vuoi fare la sua stessa fine?» Il kapò diede una bastonata al piccolo Hans sotto lo sguardo indifferente

del capitano Tannenberg e dei suoi amici, che seguivano attenti le fatiche delle donne che cercavano di raggiungere la cima delle scale.

Delle cinquanta che erano partite, ne erano arrivate solo sedici; le altre erano inciampate e cadute giù per le scale o, disperate, si erano scagliate contro le sentinelle, sperando che sparassero loro come avevano sentito di-re che facevano con gli uomini.

La signora Hausser fu una delle poche a riuscire a raggiungere la spiana-ta del campo, ma non si ingannava, sapeva bene che nonostante questo non avrebbe avuto salva la vita. Guardò indietro per cercare suo figlio e scop-piò in lacrime vedendo che uno dei kapò lo stava bastonando.

Marlene Hausser trovò ancora le forze per gridare, sperando disperata-mente che suo figlio la potesse udire. «Hans, devi vivere! Figlio mio, non te ne dimenticare! Vivi! Vivi!»

Una sentinella la scaraventò a terra e la prima cosa che lei vide, quando riuscì ad aprire gli occhi, furono gli stivali lucidi di un ufficiale delle SS.

«Questa donna soffre di cuore, dobbiamo operarla d'urgenza» disse un giovane biondo dall'aspetto angelico e vestito con quell'odiosa uniforme nera.

Uno dei kapò la sollevò da terra e, a spintoni, la portò in infermeria con il resto delle donne. I medici giunti da Berlino e i loro colleghi di Mau-thausen erano pronti per operare le sopravvissute di malattie delle quali nessuna di loro in realtà soffriva.

«Vogliamo anche sprecare l'anestesia?» domandò uno degli infermieri lì presenti.

«Diamogliene quanto basta perché non si agitino troppo; non mi piace operare mentre gridano» rispose un medico.

Misero Marlene Hausser su una barella e le legarono gambe e braccia. La donna sentì una puntura e poco dopo venne sopraffatta dal torpore; non riusciva a tenere gli occhi aperti, ma udiva quanto dicevano attorno a lei. Riuscì solo a gridare quando le affondarono il bisturi nel petto per aprirle la cassa toracica. Il dolore era insopportabile e piangeva disperata de-siderando di morire.

Anche così, si sforzò di articolare una preghiera per Hans. Se Dio esiste-va, non avrebbe dovuto infierire sul figlio e gli avrebbe permesso di vive-

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re. Prima di esalare l'ultimo respiro sentì che le stavano strappando il cuore. Il cadavere di Marlene Hausser venne squartato da quegli uomini che si

facevano chiamare medici e che desideravano esplorare i più reconditi an-fratti del corpo umano.

Una dopo l'altra, le sedici sopravvissute alla scala della morte vennero operate di malattie inesistenti. Cuore, cervello, fegato, reni... gli organi vi-tali venivano sezionati in piccoli pezzi mentre i medici dissertavano sulle loro conoscenze.

Quegli uomini si divertirono anche con i cadaveri delle donne decedute sulla scala della morte. Tagliarono la testa alla piccola italiana sorda, per poter studiare meglio l'apparato uditivo della poveretta.

Intanto i kapò, dietro ordine del capitano Tannenberg, avevano costretto i bambini e le bambine a spogliarsi e a lavarsi. Una cisterna piena di fango, con l'acqua gelida che cadeva sulle povere testoline di quelle creature ri-maste orfane, fu l'ultimo spettacolo con cui Tannenberg ossequiò i suoi o-spiti berlinesi.

Molti bambini morirono congelati e altri collassarono; solo una mezza dozzina sopravvisse, ma alcuni si spensero poche ore dopo.

Quella sera gli uomini giunti da Berlino gustarono un'abbondante cena e nessuno accennò alla notizia più eclatante: e cioè che la Germania stava perdendo la guerra. Si comportarono come se il loro esercito fosse ancora un colosso che radeva al suolo tutto ciò che trovava sul suo cammino in Europa. Solo più tardi, quando Alfred Tannenberg rimase solo con Georg, Heinrich e Franz, poté esternare la sua preoccupazione. Parlarono di cose che non avrebbero mai rivelato a nessun altro, e cominciarono a ipotizzare le possibili vie di fuga per quando Hitler avesse perso la guerra.

«Vi avviserò io» assicurò Georg agli amici. «Voglio che tu e Heinrich stiate pronti» aggiunse rivolto ad Alfred. «A Franz dico fin da subito che deve chiedere il trasferimento al quartier generale. L'influenza di suo padre e quella dei miei genitori sarà sufficiente per ottenerlo. Non deve tornare al fronte.»

«Sei così sicuro che perderemo la guerra?» domandò inquieto Alfred. «L'abbiamo già persa e spero che tu non creda alla propaganda di Goeb-

bels. I nostri soldati hanno cominciato a disertare. Hitler non è più quello di una volta. Non è in grado di capire ciò che sta succedendo e la gente che gli sta attorno ha troppa paura per dirglielo. Cerchiamo di essere pratici e affrontiamo la realtà: gli Alleati vorranno affibbiare un duro castigo alla

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Germania e a pagare saranno gli uomini che sono stati fedeli al Führer, di conseguenza dobbiamo organizzarci una via di fuga. Conoscete mio zio, è uno scienziato. Prima della guerra un collega americano l'aveva invitato ad andare negli Stati Uniti nella sua università, come ricercatore nei laboratori segreti del governo. Mio zio da mesi lavora a una bomba che potrebbe por-re fine alla guerra, ma credo che non farà in tempo a metterla a punto. Però siamo fortunati, perché il suo collega americano è riuscito a mettersi in contatto con lui e gli ha offerto di farlo scappare dalla Germania. Nel suo paese c'è gente potente disposta a mostrarsi generosa e a perdonare gli scienziati che vogliono collaborare con gli Stati Uniti. Mio zio è spaventa-to e me ne ha parlato. L'ho convinto a tenere i contatti col suo amico, e ora ci potrà essere molto utile per fuggire.»

«Ma, Georg, non credo che possa fare qualcosa anche per noi» affermò Heinrich.

«Dobbiamo cominciare a prepararci da soli una via di fuga» lo interrup-pe Alfred.

«Avremo bisogno di una nuova identità...» disse Franz. «Me ne sono già occupato; da mesi ho fatto preparare documenti falsi da

alcuni miei amici specialisti» replicò Georg sorridendo. «Il bello di lavora-re nei servizi segreti è che uno conosce persone molto interessanti e dalle qualità insospettate. Vi fornirò nuove identità, contateci. La cosa più im-portante è che siate pronti a scappare quando ve lo dirò. Tu, Franz, sei sta-to al fronte e quindi saprai tutto. Per quanto riguarda Heinrich e Alfred, penserò io a informarli sulla situazione, anche se Alfred non riesce a crede-re che la Germania possa essere sconfitta. Ma finirà così, quindi dovete te-nete pronti i bagagli.»

«Da parte nostra non ci sono problemi» assicurò Heinrich, parlando an-che a nome di Alfred.

«Mi prenderò un permesso in modo che nessuno possa richiamarmi al fronte, e domani, quando torneremo a Berlino, chiederò il trasferimento» commentò Franz.

«Bene» concluse Georg «ora concentriamoci su quello che potremo fare quando ce ne andremo dalla Germania...»

Mercedes stava delirando. Carlo, Hans e Bruno la guardavano spaventati

temendo che non ce l'avrebbe fatta. Loro erano sopravvissuti per miracolo, distesi sugli stessi gelidi scalini sui quali erano cadute le loro madri, basto-nati dalle guardie che li credevano morti. Poi, quando gli importanti ospiti

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provenienti da Berlino si erano spostati in infermeria per assistere agli in-terventi dal vivo, più nessuno era parso interessarsi ai cadaveri che giace-vano sulla scala della morte, né tanto meno a quei bambini feriti, più morti che vivi.

Quando Hans si era avvicinato per prestare aiuto a Mercedes, una delle sentinelle l'aveva colpito e gli aveva fatto perdere i sensi. Ma anche così lui aveva potuto udire sua madre che gli urlava di vivere.

Una squadra di prigionieri era stata obbligata a pulire la scala della mor-te e questi erano riusciti in qualche modo a sollevare i bambini e a portarli in una delle baracche. Li avevano adagiati su una branda e un medico po-lacco, di nome Lechw, aveva cercato di rianimarli usando dei pezzi di stracci imbevuti d'acqua coi quali aveva lavato via il sangue.

La bambina era quella che stava peggio. Aveva perso conoscenza e il prigioniero polacco bestemmiava tra i denti perché non aveva farmaci per curarla. Sapeva che i maschi sarebbero rimasti lì, nella baracca degli uo-mini, dato che avevano perduto le loro madri, ma lei sarebbe stata uccisa o sarebbe sparita in infermeria, un luogo da cui ben pochi riuscivano a uscire vivi.

Lechw aveva ricucito la testa di Mercedes con l'ago e il filo con cui i prigionieri si rammendavano i vestiti. Un russo aveva tirato fuori una bot-tiglia con un fondo di vodka e l'aveva consegnata al medico per disinfetta-re la ferita della piccola. Lei gemeva e si contorceva dal dolore, ma non accennava a riprendere conoscenza.

Uno dei deportati aveva espresso agli altri la sua preoccupazione riguar-do alle possibili conseguenze nel caso in cui la bambina fosse stata scoper-ta. «Se la troveranno, potrebbero farle qualsiasi cosa, e a noi pure...»

«Cosa suggerisci? Dovremmo consegnarla al kapò? Quel figlio di putta-na di Gustav sarebbe capace di strangolarla con le sue mani. Dubito che la portino alla baracca delle donne da cui sono arrivati questi bambini...» a-veva risposto il medico.

«In realtà, non si capisce se è un maschio o una femmina, con i capelli così rasati» aveva detto un altro dei prigionieri.

«Ma siete pazzi! Se la scoprono ci daranno un sacco di legnate!» aveva replicato uno già avanti negli anni.

«Io non la voglio consegnare, voi fate quel che volete» aveva risposto Lechw, mentre le ripuliva la testa dal sangue.

Quella bambina gli ricordava la sua, della quale non sapeva più nulla. Alcuni amici gli avevano assicurato che avrebbero protetto sua moglie e

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sua figlia, ma lui non aveva modo di sapere se fossero riusciti a mantenere la promessa. Poteva essere che la sua piccolina si trovasse in un luogo co-me Mauthausen? Se così fosse stato, pregava Dio che qualcuno avesse pie-tà di lei, la stessa che lui provava per quella bambina che giaceva inco-sciente e in pericolo di vita.

«Per favore, non consegnatela.» Gli uomini avevano guardato il ragazzo che ore prima aveva cercato di

proteggere la madre e la sorella sulla scala della morte. «Come ti chiami?» gli aveva chiesto Lechw. «Carlo Cipriani, signore.» «Bene, Carlo, devi aiutarci a fare in modo che non la scoprano. Non fa-

tevi notare, è difficile sfuggire ai kapò, ma non impossibile» aveva spiega-to il medico.

«Sì, signore, faremo così, non è vero?» aveva detto Carlo rivolto ai suoi amici Bruno e Hans.

Loro avevano assentito: per niente al mondo avrebbero fatto la spia su Mercedes. Poi si erano seduti sul pavimento, accanto alla branda dov'era adagiata la bambina, in attesa che riprendesse i sensi. Anche loro erano malconci, ma la ferita più profonda era quella dell'anima. Avevano assisti-to, totalmente impotenti, al brutale assassinio delle loro madri.

Quella notte Mercedes rimase in coma. Secondo il medico polacco, fu un miracolo che il mattino dopo riprendesse conoscenza.

Carlo strinse la manina di Mercedes appena la vide aprire gli occhi. L'a-veva vegliata tutta la notte insieme a Hans e a Bruno. I tre avevano prega-to, chiedendo a un Dio che non conoscevano che avesse pietà della loro amica. Il medico disse loro che Dio li aveva ascoltati, strappandola dall'o-scurità.

Quando i kapò andarono nella baracca e ordinarono agli uomini di met-tersi in fila, non fecero caso a quei ragazzini feriti che si stringevano im-pauriti in un angolo.

Avevano nascosto Mercedes così bene che a fatica si poteva distinguere, e nessuno si avvicinò alla branda per vedere quel piccolo fagotto immobi-le.

Quando furono nuovamente soli, Hans incitò Mercedes a bere un po' d'acqua. La bambina lo guardò riconoscente; le faceva male la testa, aveva le vertigini, ma soprattutto aveva paura, una paura profonda che si era an-nidata in lei. Avvertiva sulle labbra il sapore del sangue del fratellino mor-to che quell'uomo delle SS le aveva tirato in faccia.

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«Dobbiamo ucciderlo» sussurrò Carlo ai suoi tre amici. Loro potevano muoversi a malapena a causa delle botte ricevute e delle

ferite, però cercarono di avvicinarsi per ascoltare le parole che il ragazzo sussurrava.

«Uccidere?» domandò Mercedes. «Dobbiamo ucciderlo, lui ha ammazzato le nostre madri» insistette Car-

lo. «E anche i nostri fratellini... che non potranno più nascere» sussurrò

Mercedes con gli occhi gonfi per il pianto. Hans, Bruno e Carlo non si lasciarono sfuggire una lacrima, nonostante

il dolore terribile che attanagliava le loro anime. «Mia madre diceva che quando uno desidera tanto una cosa questa si re-

alizza» mormorò Hans timidamente. «Io voglio ucciderlo» ribadì Carlo. «E io pure» disse Bruno. «Anch'io» affermò Mercedes. «D'accordo» disse per ultimo Hans «ma quando?» «Appena potremo» rispose Bruno. «Qui sarà difficile» constatò Hans tristemente. «Quando andremo via... Non resteremo ancora per molto» affermò Bru-

no. «Mi pare impossibile, non credo che usciremo vivi da qui» disse Hans. «Mia madre era sicura che gli Alleati stessero per vincere, lei lo sapeva»

insistette Bruno. «E chi sono gli Alleati?» chiese Mercedes. «Quelli che sono contro Hitler» rispose Hans. «Dobbiamo giurarlo» propose Carlo. Misero le loro mani sopra quella di Mercedes e chiusero gli occhi, co-

scienti della solennità del momento. «Giuriamo di uccidere quest'uomo malvagio che ha ammazzato le nostre

madri e i nostri fratelli.» I bambini ripeterono le parole di Carlo e suggellarono con lo sguardo

quel giuramento che li avrebbe legati per il resto della vita. Mantennero le mani giunte, stringendole per dare più forza alla promessa e farsi animo.

Trascorsero il resto della giornata a immaginare il momento in cui a-vrebbero ucciso quel mostro, discutendo su come realizzare il loro proget-to. Quando la sera gli uomini giunsero alla baracca, trovarono i ragazzini intirizziti dal freddo, affamati, ma con una luce negli occhi che non seppe-

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ro spiegarsi se non per la febbre, conseguenza delle percosse subite. Il medico polacco li visitò e sul suo viso si disegnò la preoccupazione.

Una delle ferite alla testa di Mercedes si era infettata. La lavò di nuovo con il fondo della vodka del prigioniero russo. «Abbiamo assolutamente biso-gno di medicinali» sentenziò alla fine.

«Non ti affannare, non possiamo far nulla» replicò un altro prigioniero polacco, un ingegnere minerario.

«Non voglio arrendermi! Sono un medico e lotterò per la vita di questi ragazzini fino a che mi resterà fiato!»

«State calmi» intervenne un altro polacco. «Questo qua» disse indicando il russo «conosce gli addetti alle pulizie dell'infermeria, magari può chie-dere loro che ci procurino qualcosa.»

«Ma io ne ho bisogno adesso» si lamentò il medico. «Dacci tempo» lo esortò l'amico. Albeggiava quando Lechw sentì qualcuno che gli afferrava il braccio. Si

era addormentato mentre stava vegliando il sonno dei ragazzini. Il suo a-mico polacco e il russo gli consegnarono un fagotto, dopodiché ciascuno tornò alla propria branda.

Il medico aprì con cura l'involto e dovette reprimere un grido di gioia quando vide il contenuto. Bende, disinfettante e analgesici costituivano il miglior bottino che potesse immaginare.

Si alzò facendo attenzione a non svegliare nessuno e osservò il sonno inquieto dei quattro bambini. Rimosse il pezzo di stoffa con cui aveva av-volto la testa di Mercedes e le disinfettò di nuovo la ferita. La bambina si svegliò e lui le fece segno di non gridare e di sopportare il dolore. La pic-cola morse la coperta con cui si proteggeva e, pallida come la morte, rima-se zitta mentre Lechw si concentrava sulla medicazione. Poi accettò il bic-chiere d'acqua e le due pillole che questi le porse.

Anche Hans, Bruno e Carlo ricevettero le cure del medico, che ripulì le lacerazioni che ricoprivano i loro piccoli corpi. Somministrò loro un anal-gesico per alleviare il dolore a cui si erano quasi abituati.

«Ho sentito che uno dei kapò diceva che la guerra va male» affermò un comunista spagnolo mentre osservava il medico polacco che si occupava dei ragazzi.

«E ci credi?» gli chiese Lechw. «Sì, ci credo. Lo stava raccontando a un altro kapò, che aveva sentito i

commenti di un ufficiale giunto da Berlino. E un amico che fa le pulizie nella sala dove c'è la radio sostiene che i tedeschi sono nervosi, ascoltano

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in continuazione la BBC e alcuni iniziano a domandarsi che ne sarà di loro se la Germania perderà la guerra.»

«Speriamo che Dio ti stia ascoltando!» esclamò il polacco. «Dio? Che c'entra Dio? Se Dio esistesse non avrebbe permesso certe

mostruosità. Io non ho mai creduto in Dio, ma mia madre sì e sono certo che stia pregando affinché un giorno io possa tornare a casa. Se usciremo di qui non sarà stato Dio a tirarci fuori, ma gli Alleati. Tu credi in Dio?» chiese lo spagnolo in un tono non privo di ironia.

«Io sì, altrimenti non avrei potuto sopportare tutto questo. Lui mi sta aiu-tando a sopravvivere.»

«E perché non ha dato una mano alle madri di questi poveri disgraziati?» gli domandò lo spagnolo indicando i bambini.

Mercedes ascoltava la conversazione senza perderne una sola parola, fa-cendo un grande sforzo per capire quanto dicevano i due uomini. Parlava-no di Dio. Quando viveva a Parigi, sua madre a volte la portava in chiesa, al Sacré-Cœur, perché abitavano lì vicino. Non rimanevano mai a lungo: sua madre entrava, si faceva il segno della croce, pareva mormorare qual-cosa e poi se ne andavano. Sua madre le diceva che si recavano in chiesa per chiedere a Dio di proteggere il suo papà. Ma lui era scomparso e loro erano dovute fuggire, e Dio non aveva fatto nulla per evitarlo.

Ripensò alle parole dello spagnolo e in silenzio gli diede ragione. No, a Mauthausen Dio non esisteva, su questo non c'erano dubbi. Chiuse gli oc-chi e iniziò a piangere facendo in modo di non farsi sentire.

Finché fosse rimasta lì, in quella baracca, si sarebbe dovuta comportare come un maschio e, soprattutto, avrebbe dovuto cercare di passare inosser-vata. Se l'avessero scoperta ne avrebbero pagato tutti le conseguenze, e per nulla al mondo avrebbe fatto qualcosa che potesse mettere in pericolo i suoi amici.

Alfred Tannenberg era nervoso. La telefonata di Georg che gli intimava

di raggiungerlo a Berlino al più presto insieme a Heinrich era arrivata solo una settimana dopo la loro visita a Mauthausen.

Georg non gli aveva dato alcuna spiegazione, salvo che li avrebbe aspet-tati nel suo ufficio il giorno dopo, la mattina presto.

Il comandante Ziereis aveva insistito per sapere il motivo di quella par-tenza improvvisa, ma Tannenberg non gli aveva dato soddisfazione: sareb-be andato a Berlino per ordine dell'ufficio centrale della sicurezza del Reich, con il suo amico Heinrich.

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Viaggiarono buona parte della notte e giunsero a Berlino quando stava per albeggiare. Heinrich propose di andare ciascuno a casa dei propri geni-tori, per abbracciarli e darsi una rinfrescata prima di presentarsi all'ufficio dell'SD, e ad Alfred parve una buona idea. Aveva voglia di rivedere suo padre e di ascoltare le chiacchiere di sua madre, sapendo già che si sarebbe lamentata per la sua magrezza.

Alle otto in punto del mattino i due ufficiali si presentarono nell'ufficio di Georg, dove trovarono pure Franz. Dopo il saluto hitleriano, i quattro amici si abbracciarono.

«Siamo stati sconfitti, è questione di giorni e tutto sarà finito» esordì Georg. «I russi hanno sfondato le nostre postazioni. Hitler è fuori di sé, ma ha perso la guerra e in Germania non comanda più nessuno. Dobbiamo an-darcene.»

«E Himmler?» domandò Alfred. «A Himmler ho detto che farò un viaggio in Svizzera per incontrare al-

cuni nostri agenti. In vista della piega che stava prendendo la guerra, da mesi li ho convinti della necessità di prepararci a ciò che sarebbe potuto accadere. Per questo, in previsione della caduta del Reich, in vari paesi po-tremo contare su alcune persone in grado di organizzarci la fuga.» Georg estrasse da un cassetto tre cartelline e ne diede una a ciascuno dei suoi a-mici.

Loro le aprirono ed esaminarono i nuovi documenti. «Tu, Heinrich, andrai a Lisbona, e da lì in Spagna. Abbiamo buoni amici

nell'ambiente del generale Franco. Ti chiamerai Enrique Gómez Thomson. Tuo padre è spagnolo, tua madre inglese, per questo non parli la lingua, perché sei sempre vissuto fuori dalla Spagna. Lì c'è il numero di uno dei miei uomini migliori, un agente che da tempo ha organizzato l'infrastrut-tura necessaria ad accogliere alcuni amici nel caso avessimo perso la guer-ra. È un vecchio compagno di università, Eduard Kleen.»

Heinrich annuì, senza staccare lo sguardo da quei documenti che l'a-vrebbero trasformato in un altro uomo. «Come arriverò a Lisbona?»

«Partirai domani in aereo, sempre che gli Alleati non lo abbattano» ri-spose Georg ridendo. «Ufficialmente sei destinato alla nostra ambasciata portoghese, con la nomina di aiutante dell'addetto militare. Ma appena fini-rà la guerra, lascerai Lisbona. Ti metterai in contatto con il nostro amico Eduard Kleen, che avrà già preparato il tuo viaggio in Spagna. Andrai a Madrid, poi ti dirà lui. Eduard ha fatto un buon lavoro, questi sono autenti-ci documenti spagnoli, di amici franchisti... non c'è nulla che non si possa

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ottenere grazie a una bella mazzetta di banconote.» «E io andrò in Brasile...» commentò Franz mentre leggeva i dati del

nuovo passaporto. «Sì. Dobbiamo rifugiarci in posti dove non ci possano trovare, dove ci

siano amici collaborativi e governi disposti a chiudere un occhio e a non indagare sulla nostra vera identità. Il Brasile è un buon asilo. Lì c'è un altro dei miei uomini migliori. È un bon vivant e, come Eduard, da mesi sta pre-parando dei nascondigli per persone importanti che non hanno intenzione di trascorrere il resto dei loro giorni in galera.»

«Io non parlo portoghese» obiettò Franz. «E io cosa posso farci? È una buona destinazione, Franz, non ti lamenta-

re. Il problema è che non possiamo andare tutti nello stesso posto. Non a-vrebbe senso, sarebbe una follia.»

«Georg ha ragione» intervenne Alfred, che si sentiva soddisfatto della sua nuova identità. Sarebbe diventato uno svizzero di Zurigo, ma la sua destinazione finale sarebbe stata Il Cairo.

«E tu, Georg?» domandò Franz. «Io partirò domani stesso. Prima farò scalo in Svizzera con mio zio, e da

lì i nostri amici americani ci porteranno nel loro meraviglioso paese. I miei se ne sono andati oggi, e rimarranno in Svizzera con una falsa identità. Quanto ai vostri genitori, voglio che parliate con loro e al massimo tra due ore mi diciate cosa intendono fare. Posso trovare loro rifugio in Svizzera e procurare loro documenti falsi, ma dobbiamo agire subito: domani non sa-rò più qui e non mi fido di nessuno. Tornate a casa e discutetene con i vo-stri familiari, ma che siano discreti. Se qualcuno lo venisse a sapere, ci fu-cilerebbero. Vi aspetto qui fra due ore.»

«Ma Himmler non accetterà che tu sparisca...» commentò Franz. «Ma io non sparirò. Mi incaricherò di controllare i nascondigli che han-

no scelto i nostri agenti. E poi abbiamo amici anche negli Stati Uniti, più di quanti immaginiate.»

Alfred Tannenberg attendeva impaziente la risposta di suo padre. Questi

era rimasto in silenzio, perso nei propri pensieri, senza fare caso ai lamenti angosciati di sua moglie.

«Padre, per favore, ve ne dovete andare» insistette Alfred. «Lo faremo, figliolo, ma non voglio allontanarmi troppo dalla Germania.

Anche se abbiamo perso la guerra, questo è il nostro paese.» «Papà, non c'è tempo...»

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«E sia, prepariamoci.» Né Franz né Heinrich faticarono a convincere i loro genitori: erano di-

sposti a passare la frontiera e a trasferirsi in Svizzera, da dove avrebbero seguito gli avvenimenti. Da parecchio tempo il loro denaro era al sicuro nelle banche svizzere, quindi non avrebbero avuto problemi a vivere in quel paese vicino.

Georg dimostrò ottime doti organizzative, perché quando due ore dopo i suoi amici entrarono nel suo ufficio aveva già i visti firmati per ciascun membro della famiglia. Sarebbero partiti quella sera stessa, perché, insi-steva, la guerra stava per finire.

Poi li invitò a pranzo a casa sua. «Bene, adesso dobbiamo affrontare la seconda questione, e cioè cosa fa-

remo quando saremo lontano da qui.» «Ci sposeremo» affermò senza esitazioni Franz. «Sposarci?» domandò Heinrich. «Sì, ho parlato con Alfred, ed è la decisione più intelligente. Prenderemo

in moglie qualche donna del paese in cui risiederemo. Lui non può farlo, perché è già sposato con Greta, ma per noi è la soluzione migliore.»

«Forse per voi, io non ho alcuna intenzione di farlo» disse Georg, e i suoi amici non fecero commenti.

«Ho un piano da proporvi.» Le parole di Alfred scatenarono la curiosità degli amici. Tutti conosce-

vano la sua intelligenza e la sua capacità di improvvisazione nelle circo-stanze più difficili, come aveva dimostrato più volte.

«I nostri genitori sono ricchi, dunque non dovremo preoccuparci, ma forse non sarà comunque facile trovare i soldi per vivere. So che abbiamo messo del denaro da parte in questi anni, però non è detto che riusciremo a prelevarlo tutto. E poi non sappiamo per quanto tempo dovremo restare nascosti, né con quanto impegno i vincitori ci perseguiteranno. Siamo uffi-ciali delle SS e i nostri nomi sono noti. Non siamo gente qualunque e nemmeno i nostri genitori lo sono. Anche loro, immagino, dovranno resta-re in Svizzera più a lungo di quanto credano. Temo che se i nostri nemici inizieranno a cercare i responsabili di... quanto è accaduto qui, qualcuno potrebbe sospettare che anche noi abbiamo la nostra parte di responsabili-tà. Questo per dirvi che secondo me sarebbe opportuno intraprendere un'at-tività che ci possa fruttare parecchi soldi.»

Lo ascoltavano incuriositi sapendo che l'idea di Alfred li avrebbe sicu-

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ramente sorpresi. «Ci dedicheremo all'arte, all'antiquariato, alla nostra professione. Non

siamo forse archeologi?» «Dai, Alfred, di che si tratta?» gli domandò Franz impaziente. «La mia destinazione è Il Cairo, quella di Georg Boston, tu vai in Brasi-

le e Heinrich in Spagna: è perfetto!» Alfred sembrava parlare più a se stes-so che ai suoi amici.

«Spiegati» lo incalzò Georg. «Ho ancora le tavolette che prendemmo ai vecchi a Carran, oltre ad altri

oggetti che ci siamo portati via. Vi ricordate?» «Sì, certo» disse Heinrich. «Bene... dunque, venderemo antichità, oggetti unici che costituiscono il

sogno di qualsiasi collezionista. Il Medio Oriente è pieno di reperti antichi di oltre duemila anni.»

«E dove li troveremo?» domandò Franz. «Vedo che all'università non ti sei applicato molto. Non ricordi nessuna

lezione sui profanatori di tombe? I paesi mediorientali hanno governi cor-rotti, è solo una questione di soldi: soldi per scavare dove e come voglia-mo, soldi per tenerci quello che troviamo, soldi per comprare addirittura i pezzi che si trovano nei musei e dei quali in quei paesi non importa a nes-suno, perché non sanno nemmeno quello che possiedono. Vi assicuro che c'è gente al mondo disposta a pagare qualsiasi cifra per le antichità con cui noi li alletteremo. Quindi, io potrei organizzare le operazioni dal Cairo, mi muoverò in Siria, in Cisgiordania, in Iran, in Palestina... Recupererò la ma-teria prima, che poi voi venderete; tu, Georg, ti incaricherai del mercato americano, Heinrich di quello europeo e Franz di quello latinoamericano. Naturalmente avremo bisogno di coperture, ma ci penseremo quando sarà il momento.»

Alfred Tannenberg parlava con tanto entusiasmo che i suoi amici ne ri-masero contagiati. I quattro uomini lasciarono volare l'immaginazione fa-cendo piani per l'immediato futuro.

«Potremmo avviare un'impresa di import-export, con uffici nelle zone in cui ci trasferiremo» propose Heinrich.

«Tu, Georg, che andrai a vivere a Boston, dovresti incaricarti di creare un'associazione culturale o una fondazione per promuovere l'arte» suggerì Alfred. «Ci servirà come copertura, abbiamo bisogno di un ente insospet-tabile che finanzi le spedizioni archeologiche, i cui frutti naturalmente sa-ranno nostri. Venderemo poi i reperti trovati al migliore acquirente.»

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«Le fondazioni sono imprese senza fine di luicro» affermò Franz. «La nostra sarà diversa, anche se nessuno se ne renderà conto» replicò

Alfred. «Assomiglierà a noi: la sostanza non corrisponderà all'apparenza.» «Ma non è facile creare una fondazione senza l'appoggio di banche e u-

niversità; inoltre io non so come funzionano le cose negli Stati Uniti» fece notare Georg preoccupato.

«Vedrai che gli americani pagheranno bene tuo zio, lo introdurranno immediatamente nei circoli accademici, lo metteranno a lavorare a progetti segreti... conoscerete gente importante. Starà a te approfittare della strada aperta da tuo zio. Non pretendo certo di istituire subito la fondazione, pri-ma sarà necessario che ciascuno di noi si inserisca nella società in cui do-vrà vivere. Se riusciremo a non dare nell'occhio e a non farci scoprire, allo-ra inizieremo a mettere in moto il nostro piano. Intanto, io farò incetta di materiale del quale potremo disporre quando arriverà il momento giusto. Quanto all'impresa di import-export, mi pare una buona idea: in Europa sa-rà tutto da ricostruire dopo che abbiamo raso al suolo le città, e tu hai ap-pena detto che negli Stati Uniti abbiamo più amici di quanti immaginiamo. La pace ci renderà ricchi» concluse Alfred ridendo.

«Venderemo le tavolette di Carran?» volle sapere Georg. «No. Non ho ancora rinunciato all'idea di recuperare le altre tavolette

scritte da quel tale Shamas. Se ci riuscissimo, sarebbe una scoperta rivolu-zionaria per il mondo dell'archeologia, che ci renderebbe immensamente ricchi. Ma non dobbiamo essere precipitosi. Io mi incaricherò di continua-re gli scavi a Carran, di cercare nella sabbia del deserto per trovare questa Genesi raccontata a Shamas da Abramo. Che cosa sapeva Abramo della Creazione? La sua versione è la stessa della Bibbia? Vi assicuro che andrò avanti e non mi fermerò finché non avrò dissotterrato le tavolette, e che questo ritrovamento avrà una risonanza mondiale.»

«Non ci conviene dare troppo nell'occhio» ribatté Georg inquieto. «Stai tranquillo, ricorda che tra qualche giorno avremo un'altra identità.

E poi troveremo sempre qualcuno che ci garantisca una copertura. Non ve l'ho mai rivelato, ma il mio sogno più grande è trovare quelle tavolette...»

«Voi non avete dovuto sorbirvi per tutti questi anni la storia delle tavo-lette di Carran!» si lamentò Heinrich rivolto a Georg e Franz. «Non c'è sta-to un solo giorno in cui non me ne abbia parlato, è la sua ossessione!»

«Bene, a questo punto mi sembra importante trovare il modo di tenerci in contatto tra noi per poter organizzare con calma i dettagli dell'operazio-ne. Quanto alle tavolette di Carran... le dividerò con voi, certo, ma lasciate

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che sia io a incaricarmi di trovarle e di decidere cosa farne» pretese Alfred. «Per me va bene» concesse Heinrich. «Che ne sarà del Führer?» «Spero che adesso non ti metta a fare il sentimentale, eh, Franz? Che ce

ne importa? Non possiamo stare dietro ai perdenti. Aveva una grande idea per la Germania ma non ha saputo vincere la guerra, dunque sarebbe as-surdo uscirne sconfitti insieme a lui» fu la risposta cinica di Georg.

«Ma dove si trova adesso?» insistette Franz. «Pare che l'abbiano convinto a nascondersi in un bunker... non so, e

nemmeno m'importa: io me ne andrò da qui esattamente come voi. Credete che lui si preoccupi di noi? Salviamoci la pelle, è l'unica cosa che conta. Lui ce l'ha già un posto nella storia.»

Si salutarono sapendo che sarebbe passato molto tempo prima che potes-sero rivedersi, ma si giurarono lealtà sino alla fine dei loro giorni, esaltati al pensiero dell'operazione ideata da Alfred. Avrebbero rubato dalle visce-re del Medio Oriente i tesori più preziosi; non era importante di chi fosse-ro, li avrebbero venduti al miglior offerente e sapevano che avrebbero sempre trovato collezionisti privi di scrupoli e ansiosi di possedere reperti unici, fuori dalla portata dei comuni mortali.

A Mauthausen la primavera non arrivava mai. Faceva freddo e i prigio-

nieri, più morti che vivi, osservavano il nervosismo delle guardie, convinti che stesse per accadere qualcosa. Negli ultimi giorni le sentinelle si erano fatte ancora più brutali e sparavano all'impazzata.

Alfred Tannenberg osservava il campo dalla finestra dell'ufficio di Zie-reis. La notte era stata gelida e le guardie si fregavano la mani, inquiete. Alfred e Heinrich erano arrivati un'ora prima a Mauthausen e si erano pre-cipitati nell'ufficio di Ziereis per mostrargli i nuovi documenti e le destina-zioni. Il comandante del campo li aveva ascoltati incuriosito, senza azzar-darsi a fare domande che quegli uomini così bene raccomandati avrebbero sicuramente schivato. Avrebbe provveduto ad accertarsi con i propri mezzi del perché due ufficiali fossero stati richiesti per missioni fuori dall'Au-stria.

Appena si accomiatarono da Ziereis, Heinrich e Alfred si diressero alle proprie abitazioni, situate fuori dal campo, nell'incantevole paese che gli dava il nome, Mauthausen.

In poco meno di due ore Heinrich aveva preparato i bagagli e raccolto i suoi effetti personali dalla casa in cui era vissuto negli ultimi anni sotto le

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cure di Fräulein Heines. Alla governante era sfuggita una lacrima quando aveva saputo che quell'educato ufficiale delle SS se ne sarebbe andato e quasi certamente non sarebbe tornato mai più, ma aveva capito che non era il momento di cedere ai sentimentalismi e l'aveva aiutato a riporre le sue cose in due valigie e un baule. Poi, al momento dell'addio, lui le infilò in tasca alcune banconote che, le disse, le avrebbero fatto comodo fino a che non avesse trovato un'altra casa dove prestare servizio.

Un quarto d'ora più tardi Heinrich bussava energicamente alla porta di Tannenberg. Quando l'amico aprì, Heinrich si accorse subito che era capi-tato qualcosa. Sapeva che sua moglie Greta aspettava un figlio, ma manca-va ancora un paio di mesi al parto. «Che succede?» gli domandò, senza na-scondere la preoccupazione.

«Greta... sta male, molto male. Ho fatto chiamare il medico. Spero che non perda nostro figlio, non glielo perdonerei...»

«Su, non dire così! Lasciamela salutare...» «Accomodati, ma non entrare in camera sua, la cameriera sta cercando

di aiutarla...» «Allora non mi tratterrò, è ora di partire. Ricorda che Georg domani ci

vuole lontano da qui.» «Non ti preoccupare, torna a Berlino e prendi l'aereo per Lisbona, io... io

vedrò che cosa posso fare, ma per ora non ho altra scelta che restare qui.» «Georg ci ha raccomandato di andarcene al più presto!» «Georg non ha una moglie incinta. In questo momento non posso parti-

re.» «Devi passare la frontiera domani notte» insistette Heinrich. «Non so se ce la farò, ma tu vai, fammi questo favore; non sarò tranquil-

lo fino a che non vi saprò tutti in salvo.» Si abbracciarono. Li univano non solo l'infanzia e gli anni dell'universi-

tà, ma soprattutto le esperienze vissute insieme a Mauthausen, che li ave-vano segnati per sempre. Avevano fatto del dolore altrui il loro svago, tan-to da perdere il conto dei prigionieri che avevano torturato e assassinato.

«Ci rivedremo» assicurò Alfred. «Di questo sono sicuro» replicò Heinrich. Il medico tardò ad arrivare e, quando giunse, Alfred gli disse che avreb-

be pagato caro quel ritardo... Greta lanciava urla di dolore e la cameriera non era stata in grado di calmarla.

Per un'ora Alfred attese in cucina bevendo acquavite mentre il medico lottava per salvare la vita del figlio suo e di Greta. Non pregò chiedendo

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aiuto a Dio poiché non era credente, ma mise a punto un piano per andar-sene quanto prima dall'Austria, giacché quella notte non avrebbe potuto farlo come aveva previsto Georg.

Quando vide il medico sulla soglia, e dietro di lui la cameriera in lacri-me, capì che era successo qualcosa. Si alzò dalla sedia e si avvicinò al dot-tore, in attesa che lui parlasse.

«Mi dispiace, è stato impossibile salvare la bambina, e sua moglie... be', le condizioni della signora Tannenberg sono assai delicate. Dovrebbe por-tarla in ospedale, ha perso molto sangue; se rimane qui, non credo che ce la farà.»

«La bambina? Era una bambina?» riuscì a chiedere, rosso dall'ira. «Sì, una femmina.» Alfred Tannenberg schiaffeggiò il medico e questi non reagì. Non a-

vrebbe mai osato affrontare un ufficiale delle SS e tanto meno un uomo come quello, il cui sguardo rivelava una crudeltà illimitata. Non si azzardò nemmeno a muoversi, sicché rimase in piedi, con il volto rosso per le per-cosse e la vergogna, afflitto da un insopportabile dolore all'orecchio.

«Chiami un'ambulanza, subito!» gridò Tannenberg. «E lei» aggiunse ri-volto alla cameriera «rimanga accanto a mia moglie!»

La donna uscì in fretta dalla cucina, temendo che il padrone picchiasse anche lei. Greta gemeva semincosciente invocando la figlia perduta.

L'ambulanza arrivò un'ora dopo e nel frattempo Greta era entrata in un profondo stato d'incoscienza che a Tannenberg parve assai simile alla mor-te. Quando giunsero all'ospedale era già deceduta e l'unica cosa che pote-rono fare fu certificarne la morte.

Tannenberg manifestò più collera che dolore, una reazione che medici e infermiere attribuirono alla perdita della moglie, benché in realtà il capita-no delle SS fosse furioso per le ore preziose sottratte alla sua fuga pianifi-cata.

Adesso avrebbe dovuto avvisare i genitori di Greta e attendere che arri-vassero per il funerale, cosa che avrebbe ritardato la partenza ancora di un paio di giorni, mentre Georg aveva insistito sul fatto che il tempo non gio-cava a loro favore. Almeno, pensò, Heinrich e Franz avrebbero seguito il piano previsto. Lui sarebbe dovuto rimanere fino al funerale di Greta, al-trimenti avrebbe dovuto affrontare l'ira del potente Fritz Hermann e avreb-be rischiato di inimicarsi Himmler, e finché la Germania non fosse stata definitivamente sconfitta erano quelli gli uomini che muovevano le fila del Reich ormai agonizzante.

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Alfred riportò a casa il cadavere della moglie e chiese alla cameriera di vestire il corpo di Greta. Non era troppo dispiaciuto per la sua morte, ben-ché fosse stata una moglie entusiasta e leale, che non l'aveva mai deluso e si era sottomessa a ogni suo capriccio senza fare domande né protestare. Avevano tardato anni prima di concepire un figlio - anzi, una figlia, come aveva detto il dottore - e Greta ne era stata immensamente felice. Anche a lui aveva finito per piacere l'idea di avere una discendenza ed era emozio-nato che Greta avesse una creatura in grembo. La immaginava bionda, con la pelle bianchissima e gli occhi azzurri, sorridente e felice.

Il comandante di Mauthausen si mostrò sollecito quando venne a sapere della morte di Greta e gli domandò notizie riguardo alla sua missione fuori dall'Austria. Tannenberg si limitò a informarlo che il suocero, Fritz Her-mann, stava per arrivare e bisognava disporre tutto il necessario per onora-re uno degli uomini più vicini a Himmler.

Ziereis recepì il messaggio e non insistette, però gli fece una confidenza. «In queste ultime ore ho ricevuto una telefonata da Berlino. La Croce Ros-sa insiste affinché Himmler permetta ad alcuni suoi rappresentanti di visi-tare Mauthausen. Da mesi stanno cercando di entrare nei campi. Certi ami-ci mi hanno assicurato che il nostro Reichsführer sta tentando di negoziare una via d'uscita con gli Alleati. Temo che tutto sia perduto... I russi hanno già occupato parte della Germania e gli Alleati stanno per invadere l'Au-stria... ma immagino che lei sappia già tutto, o mi sbaglio?»

Tannenberg non replicò e rimase in piedi in silenzio guardando fisso il comandante del campo.

«È un peccato che lei se ne vada; attendiamo un contingente delle SS che ci aiuti a evacuare il campo; dobbiamo disfarci di alcuni prigionieri. Questo dovrà sembrare... be', solo un campo di prigionia. Il castello di Hartheim verrà trasformato subito in un orfanotrofio. Ed è necessario can-cellare qualsiasi traccia delle camere a gas, dei forni crematori... insomma, ci attende un duro lavoro e mi spiace che lei non possa darci una mano, perché non abbiamo molto tempo per fare quanto ci hanno ordinato.»

Il comandante non riuscì a riscuotere Alfred Tannenberg dal silenzio in cui si era rinchiuso. Non era difficile rendersi conto che per lui nulla di quanto raccontava Ziereis aveva più importanza.

Il signor Hermann e sua moglie piansero sconsolati la perdita della figlia Greta e della nipote mai nata. Ora che il Reich stava per crollare, a Tan-nenberg parve che il suo influente suocero non fosse altro che un uomo qualunque. Non gli disse che stava progettando di fuggire, ma solo che gli

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avevano affidato una missione per far sì che, qualsiasi cosa accadesse, le SS sopravvivessero e un giorno potessero restituire alla Germania il suo antico splendore,

Fritz Hermann lo ascoltava asciugandosi le lacrime. Quando i suoi suoceri, distrutti, si accomiatarono da lui per tornare a

Berlino, Tannenberg sospirò sollevato. Finalmente avrebbe potuto orga-nizzare la fuga, poiché era evidente che non c'era più tempo da perdere.

Ripose i documenti che gli aveva procurato Georg in una cartella di pel-le; poi, con una piccola valigia in cui custodiva le tavolette di Carran e qualche indumento, e due borse, una piena di dollari e l'altra di anelli, oro-logi e gioielli sottratti ai prigionieri che arrivavano al campo, si accinse a lasciare Mauthausen per sempre.

Un'auto con un soldato alla guida lo aspettava sulla porta di casa. Uscì senza neppure salutare la cameriera, così come non degnò di uno sguardo il soldato che l'avrebbe portato in Svizzera.

Quando arrivarono alla frontiera sospirò di sollievo. Appena giunto a Zurigo avrebbe cercato i suoi genitori, ma non si sarebbe trattenuto molto in quel paese. Una volta stabiliti i contatti con le persone che gli aveva se-gnalato Georg, avrebbe subito raggiunto Il Cairo. Però prima, a Zurigo, a-vrebbe dovuto assumere la nuova identità che gli aveva fornito l'amico.

I suoi genitori risiedevano in un albergo discreto vicino al centro della città, che in quei giorni era piena di spie provenienti da ogni parte del mondo in cerca di informazioni, ma soprattutto era il posto migliore per poter seguire la fine del Terzo Reich.

Sua madre lo abbracciò, finalmente sollevata, e suo padre non seppe na-scondere l'emozione che provava vedendolo. La madre scoppiò in lacrime quando Alfred annunciò loro la morte di Greta e la perdita della bambina.

«Quanto tempo ti fermerai?» gli domandò suo padre. «A Berlino ci hai detto solo che ci saremmo visti qui e che ti avevano incaricato di una mis-sione delicata.»

«Non mi fermerò più di un paio di giorni, il tempo necessario per trovare un volo che mi porti a Lisbona o a Casablanca, e da lì al Cairo.»

«Al Cairo? E per quale motivo devi andare in Egitto?» «Papà, non sarò mica io a doverti spiegare che ormai abbiamo perso la

guerra.» «Non dire una cosa simile! La Germania ce la può ancora fare! Hitler

non si arrenderà mai!» «Dài, papà, hai accettato di venire in Svizzera perché eri consapevole

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della situazione.» «Mi hai convinto che era meglio attendere qui la fine del conflitto, ma

ciò non significa che abbiamo già perso.» «Pensa pure quello che vuoi, ma prima accetterai la realtà, tanto meglio

sarà per tutta la famiglia. So che vorresti tornare in Germania quando la guerra sarà finita, ma al tuo posto ci rinuncerei. Gli Alleati prenderanno tutti quelli che abbiano avuto un ruolo di rilievo accanto a Hitler e li pro-cesseranno. Per questo me ne vado al Cairo; mollo tutto e comincerò una nuova vita, non posso più fare altro per la Germania.»

Una gran tristezza s'impadronì di Tannenberg, che guardava incredulo il figlio.

«Non ci rivedremo più?» gli chiese sua madre. «Purtroppo credo che sarà così. Dobbiamo separarci. Non posso portarvi

con me. Datemi retta, rimanete qui, in Svizzera. Papà, qui avete denaro a sufficienza per vivere agiatamente il resto della vostra vita. Se tornaste in Germania, una volta finita la guerra perdereste tutto.»

«Rimarrai in contatto con noi?» gli domandò sua madre. «Sì, cercherò di farvi sapere come sto e di avere notizie vostre e della

famiglia, ma non so come né quando ci riuscirò. Cambierò nome e avrò una nuova identità, per cui non mi sarà facile mettermi in contatto con voi regolarmente, ma lo farò appena possibile, quando sarò certo di non corre-re rischi e di non mettere a repentaglio la vostra sicurezza.»

Sua madre ricominciò a piangere mentre suo padre, in piedi, andava su e giù per la stanza, riflettendo sulle parole del figlio. «Ho parlato con i geni-tori di Georg e con quelli di Heinrich. La famiglia di Franz è già a Gine-vra» gli disse.

«Lo so, Georg ha predisposto ogni cosa meticolosamente. Qui starete bene, ci sono molti tedeschi, molti amici che come noi sanno che il Reich è finito. Se fossi in te, papà, comincerei a pensare a una qualche attività che ti consenta di mettere radici in Svizzera e di tenerti occupato. E inizierei anche a dire in giro che sei rimasto deluso da Hitler, che ha portato la Ger-mania alla rovina, che ti ha ingannato.»

«Ma sarebbe un'infamia!» «È semplicemente accettare la realtà. Tra qualche mese Hitler sarà come

un appestato: gli Alleati lo processeranno e lo faranno impiccare. Prende-ranno tutti i suoi collaboratori e riserveranno loro lo stesso trattamento, per cui mi sembra che sia giunto il momento di prenderne le distanze.»

«Pensavo che nelle SS ti avessero inculcato il senso dell'onore» protestò

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il padre. «Nelle SS mi hanno insegnato soprattutto a sopravvivere, ed è proprio

ciò che intendo mettere in pratica.» «Cosa farai al Cairo, figlio mio?» gli domandò con tenerezza la madre. «Appena possibile mi sposerò.» «Dio mio! Ma non sono nemmeno tre giorni che sei rimasto vedovo!» «Lo so, mamma, ma non serve a nulla portare il lutto. Smetterò di essere

Alfred Tannenberg e inizierò una nuova vita, e per questo ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a costruire questa mia nuova identità.»

«Non ti chiamerai più Tannenberg? Ti vergogni del tuo cognome?» gli domandò il padre, livido.

«No, non mi vergogno di essere un Tannenberg, ma non voglio essere fucilato per questo motivo. Poiché non sappiamo cosa succederà dopo la caduta del Reich, la cosa migliore è passare inosservati, e un ufficiale delle SS ben difficilmente può riuscirci.»

«Figlio mio» insistette la madre «dicci cosa farai al Cairo, di cosa hai bi-sogno, chiedici quello che vuoi...»

«Mi serve del denaro. Franchi svizzeri, dollari, quel che riuscite a darmi. Per quel che riguarda il mio futuro... ebbene, ho fatto un accordo con Heinrich, Georg e Franz: appena possibile fonderemo un'impresa di im-port-export, possibilmente di oggetti antichi. Ma questo per ora è solo un progetto, innanzitutto dovrò arrivare al Cairo, prendere contatto con chi mi ha indicato Georg e cercare di passare inosservato sino alla fine della guer-ra. Non so ancora con precisione cosa farò, ci penserò quando sarò là, ma sono sicuro che il modo migliore per cambiare vita sia trovare una famiglia che mi accolga e che mi protegga. Perciò, appena possibile, mi sposerò.»

Quella sera cenò con i genitori e le sorelle e con la famiglia di Heinrich e di Georg. Tutti mostrarono gli stessi timori riguardo alle decisioni prese dai rispettivi figli, anche se il padre e la madre di Georg erano un po' più tranquilli sapendo il figlio in viaggio con lo zio verso gli Stati Uniti.

Facevano fatica ad ammettere di essere degli esuli e parlavano di tornare in patria una volta che la guerra fosse finita; si dicevano convinti che gli Alleati non avrebbero processato i civili, perché avrebbero dovuto mettere alla sbarra buona parte dei tedeschi.

«Invece vedrete che i futuri capi del nostro paese saranno proprio quei prigionieri politici che oggi sono detenuti nei campi, a meno che qualcuno sia tanto lungimirante da eliminarli prima» commentò Alfred.

Due giorni dopo Alfred Tannenberg si congedava dai genitori. Dentro di

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sé sapeva che era per sempre. Non poteva tirarsi indietro e tanto meno tor-nare in Germania, per cui qualunque fosse stato il loro destino le loro stra-de si separavano in modo definitivo.

Quando l'aereo atterrò al Cairo Alfred avvertì come un pugno nello sto-maco. In quel momento iniziava la sua nuova vita e non riusciva a vedere nient'altro che incertezze. Aveva viaggiato con un passaporto autentico, così come gli aveva raccomandato Georg. I documenti falsi gli sarebbero tornati utili quando il suo istinto gli avesse fatto subodorare il pericolo, e cioè quando fosse stato ufficiale che la Germania aveva perso la guerra, il che sarebbe avvenuto nel giro di settimane o forse anche solo di giorni.

Un taxi lo portò in un hotel di fiducia vicino all'ambasciata statunitense. Dentro di sé sorrise pensando a quanto si trovasse vicino ai nemici, che mai avrebbero sospettato che un ufficiale delle SS alloggiava accanto a lo-ro.

L'hotel puzzava di vecchio e gli ospiti erano per lo più europei: rifugiati, spie, diplomatici, avventurieri. Consegnò il passaporto all'impiegato alla reception.

«Vediamo un po', signor Tannenberg, mi è rimasta solo una doppia, e se la vuole dovrà pagare per due persone» gli disse l'uomo, sapendo in antici-po che quel tedesco alto e dallo sguardo d'acciaio non avrebbe esitato a sborsare il doppio.

Alfred Tannenberg assentì, consapevole che quelle erano le regole del gioco e che non gli sarebbe servito a nulla protestare e ancor meno dare del ladro a quell'ometto serafico. «Va bene, e poi aspetto un'altra persona» dis-se bluffando.

«Ah, sì? E quando arriverà?» chiese l'impiegato alla reception. «La informerò quando sarà il momento» rispose Tannenberg con aria

indifferente. La stanza non era molto spaziosa, ma dalla finestra si vedeva il Nilo.

L'arredamento consisteva in un grande letto, un comodino con una lampa-da, un sofà che poteva diventare a sua volta un letto, un tavolo, due sedie e un armadio. Una porta dava su un piccolo bagno. Tannenberg si disse che quella sarebbe stata la sua casa provvisoria fino a che non fosse entrato in contatto con un agente di Georg, un altro ufficiale delle SS, incaricato di trovare dei nascondigli per quei camerati che, conoscendo la sorte che sa-rebbe toccata alla Germania, avevano trovato il modo di tagliare la corda in tempo.

In realtà, erano tutti partiti da Berlino con la benedizione dei loro capi.

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Georg con il pretesto di supervisionare gli agenti all'estero, Franz per unir-si ad altre SS nell'America del Sud, Heinrich per prendere parte alla rap-presentanza diplomatica tedesca in Portogallo e lui per andare a lavorare con il gruppo di agenti distaccati al Cairo. Tutti avevano ufficialmente una copertura, oltre ai documenti falsi per assumere in qualsiasi momento una nuova identità.

Decise di essere prudente per cui, dopo avere studiato una cartina del Cairo, uscì per recarsi nel luogo dove, secondo Georg, avrebbe dovuto in-contrare il suo contatto. Camminò per un'ora, constatando che la città era piena di europei. Lo colpì il traffico caotico: i tassisti attraversavano gli in-croci senza rispettare le precedenze, gli automobilisti parevano tenere la mano perennemente schiacciata sul clacson e i pedoni schivavano indiffe-renti i pericoli della strada.

Sorrise soddisfatto quando vide l'insegna del ristorante Kebabgy. Spinse la porta ed entrò. Un cameriere in uniforme gli si avvicinò sollecito rivol-gendoglisi in inglese.

Alfred Tannenberg parlava l'inglese con disinvoltura, ma fu sorpreso che lo facesse pure quel cameriere del Cairo. Questi interpretò la perplessità del nuovo cliente come una difficoltà a comprendere quella lingua e gli chiese quale parlasse.

«Francese, tedesco, italiano, spagnolo...?» «Tedesco» decise Tannenberg. «Ah, benvenuto! Ha prenotato?» «No, non ne ho avuto il tempo, sono appena arrivato e... insomma, un

amico mi ha detto che questo è uno dei migliori ristoranti della città.» «Grazie signore, e... potrebbe dirmi chi è il suo amico?» «Certo, ma è probabile che lei non conosca il suo nome, è... un tedesco,

come me...» «Tra i nostri clienti ci sono molti europei... Ma adesso si accomodi pure,

le troverò un tavolo.» La sala era gremita ed era rimasto libero solo un tavolino in un angolo

appartato, dove il cameriere lo accompagnò. Alfred cenò con appetito, osservando gli alni avventori del ristorante;

senza dubbio la clientela era assai eterogenea. Quando fece ritorno in hotel si disse che il giorno seguente sarebbe uscito di nuovo per cercare il suo contatto. Georg gli aveva dato un indirizzo vicino al bazar di Khan el-Khalili, un luogo in cui i vecchi artigiani del Cairo creavano e conservava-no i loro tesori.

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Si svegliò poco prima dell'alba e si sentì pieno di vita. Avrebbe voluto continuare a scoprire la città, visitare le piramidi, spingersi fino ad Ales-sandria, ma si disse che quelle escursioni potevano attendere.

Khan el-Khalili era una città dentro la città: le strade erano strette, labi-rintiche, e si susseguivano una uguale all'altra; un forte odore di spezie gli stuzzicò l'appetito. Camminò per un po' senza riuscire a trovare l'indirizzo cui era diretto, finché non si decise a domandare a un tizio che, seduto da-vanti alla porta del suo piccolo negozio, fumava una lunga sigaretta aro-matica. L'uomo gli spiegò gentilmente quale direzione prendere e, mentre lui si allontanava, aggiunse che sicuramente non si sarebbe perduto, dato che al Cairo tutti conoscevano la bottega di Yasir Mubak.

L'edificio a tre piani pareva più protetto rispetto alle altre case della zo-na. Un cartello indicava che lì aveva sede una ditta di import-export, oltre a un negozio che prometteva pezzi d'antiquariato autentici.

Quando aprì la porta, Alfred si sorprese nel trovarsi in una bottega piena zeppa di oggetti variopinti. Non vi era un solo centimetro dove non fosse posato qualcosa, e gli fu sufficiente una prima rapida occhiata per rendersi conto che quei pezzi d'antiquariato non erano altro che cianfrusaglie e imi-tazioni.

Un ragazzo dall'aspetto perbene gli si fece incontro. «In cosa posso aiu-tarla?»

«Sto cercando il signor Mubak.» «La sta aspettando?» «No, in realtà non sapeva che sarei arrivato oggi, ma gli dica che vengo

da parte del signor Wolter.» Il giovane lo squadrò titubante, poi gli indicò una sedia su cui aspettare,

mentre lui s'infilava su per una scala che portava ai piani superiori. Tannenberg attese più di un quarto d'ora, sicuro di essere osservato, pri-

ma che Yasir Mubak scendesse le scale e gli si avvicinasse sorridente. «Prego, venga, gli amici del signor Wolter sono sempre i benvenuti.

Vuole accomodarsi nel mio ufficio?» Alfred seguì l'uomo sulla scala fino al primo piano, dove una porta dava

su una stanza ampia, arredata all'occidentale, dalla quale di accedeva all'uf-ficio di Mubak. Udì il rumore di voci e di macchine per scrivere, anche se non riuscì a capire da dove provenisse, e intuì che in quel luogo lavorava più di una persona.

«Bene, signor... mi ha forse detto il suo nome?» «No, non ancora. Sono Alfred Tannenberg e ho una certa urgenza di ve-

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dere il signor Wolter.» «Certo, certo... Farò avere un messaggio al signor Wolter avvisandolo

che desidera incontrarlo. Sarà lui a mettersi in contatto con lei. Vuole che gli trasmetta anche un messaggio o che gli faccia avere qualcosa in parti-colare?»

Tannenberg tirò fuori una busta sigillata e la diede a Yasir Mubak. «La consegni da parte mia al signor Wolter, e gli dica che sono all'Hotel Na-zionale.»

«Sarà fatto... in che altro posso esserle utile?» Alfred stava per rispondere quando la porta dell'ufficio si aprì e apparve

una donna bruna, vagamente somigliante a Yasir Mubak e come lui vestita all'occidentale. Indossava un sobrio tailleur grigio, una camicia bianca, scarpe nere col tacco e aveva i capelli raccolti in uno chignon.

«Mi dispiace! Pensavo che fossi solo...» «Entra pure, Alia, ti presento il signor Tannenberg. È mia sorella, e mi

dà un grande aiuto in ufficio.» Alfred Tannenberg si alzò e batté i tacchi piegando il capo. Non si az-

zardò a darle la mano, perché, nonostante la ragazza paresse essere occi-dentalizzata, poteva essere ritenuta un'offesa che un uomo la toccasse. «Si-gnora...»

«Molto piacere, signor Tannenberg» le rispose Alia in un discreto tede-sco.

«Lei parla la mia lingua!» «Sì, ho vissuto alcuni anni ad Amburgo, insieme alla mia sorella più

piccola che si è sposata con un uomo d'affari del suo paese.» «Mio cognato ha una fabbrica tessile e comprava da noi il cotone; co-

nobbe mia sorella e... si innamorarono, si sposarono e hanno vissuto feli-cemente ad Amburgo fino a due anni fa. La guerra li ha poi obbligati a la-sciare la Germania e ora vivono qui» spiegò Yasir.

«Ho trascorso lunghi periodi ad Amburgo per dare una mano a mia so-rella con i suoi quattro figli vivacissimi» spiegò a sua volta Alia.

Yasir Mubak invitò Tannenberg a prendere un tè e lui accettò, senza smettere di guardare Alia. La donna non era affatto appariscente, ma aveva qualcosa di speciale e su di lui esercitava una sorta di magnetismo. Duran-te l'ora in cui rimase nell'ufficio di Mubak, continuò a osservarla con la coda dell'occhio. Calcolò che la donna avesse all'incirca una trentina d'anni e fosse in buona salute. Fu in quel momento che prese la decisione. A-vrebbe sposato Alia Mubak, se l'agente delle SS gli avesse confermato che

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quella era una famiglia di cui fidarsi. D'altronde, così doveva essere, dato che l'ufficio di Mubak era il luogo d'incontro delle spie delle SS che arri-vavano dalla Germania.

Quella sera stessa Alfred ricevette la visita del signor Wolter, in realtà il comandante delle SS Helmut Wolter.

Avevano più o meno la stessa età e parevano fratelli gemelli. Wolter era biondo, con gli occhi azzurro acciaio e la pelle chiara, ora abbronzata dal sole. Alto, dal fisico atletico, era il modello d'ufficiale che Himmler voleva nelle SS.

Il comandante lo mise al corrente della situazione in Egitto. Come in al-tri paesi della zona, gli egiziani simpatizzavano per la causa hitleriana e il loro odio nei confronti degli ebrei era paragonabile a quello dei tedeschi. Lì erano al sicuro e non avevano nulla da temere. Durante quegli anni lui e gli altri agenti avevano creato una solida organizzazione. Ora che pareva che la guerra fosse persa, si sarebbero dedicati a proteggere i connazionali in attesa che la situazione in Germania cambiasse. Le SS, disse, non si sa-rebbero mai arrese.

Ma al di là del discorso patriottico, che Alfred suppose Wolter fosse ob-bligato a fare, provò simpatia per quell'agente che viveva già da cinque anni al Cairo, che aveva viaggiato per tutto il Medio Oriente per studiarne il territorio e che aveva comprato il silenzio di parecchie persone.

«C'è da fidarsi di Yasir Mubak?» domandò Alfred. «Sì, naturalmente. È cognato di un industriale tedesco, nazista quanto

noi, che ha reso grandi servigi al Reich. Tutta la sua famiglia simpatizza per la nostra causa e ci hanno offerto il loro aiuto in modo incondizionato. Possiamo fidarci di Yasir come di noi stessi» lo rassicurò il comandante Wolter.

«Lavora per noi?» «Collabora con noi, ci fornisce parecchie utili informazioni. Yasir ha

una rete di agenti sparsi in tutto il Medio Oriente. È un commerciante e per fare il suo mestiere è necessario essere ben informati. La sua collaborazio-ne è gratuita, non ha mai accettato denaro.»

«Non mi piacciono gli uomini che non si fanno pagare per il loro lavo-ro» disse Tannenberg.

«Il fatto è che lui non lavora per noi, lavora con noi. È differente, capi-tano.»

«E la sua famiglia?» «Yasir è sposato, ha cinque o sei figli, parecchi fratelli e sorelle, dei ge-

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nitori già anziani e una lunga schiera di zii, cugini e altri parenti. Se gli an-drà a genio, un giorno o l'altro la inviterà nel suo santuario familiare, e le assicuro che sarà un'esperienza unica.»

«Ho conosciuto sua sorella Alia.» «Certo, Alia! È una donna particolare, la zitella della famiglia. Aiuta

Yasir in ufficio, dato che parla inglese e tedesco. L'ha imparato ad Ambur-go, dove è stata a fare la balia ai quattro figli di sua sorella.»

«Zitella?» «Ha trent'anni e in Egitto se una donna arriva a questa età senza sposarsi

difficilmente riuscirà a trovare marito, a meno che la sua famiglia non le dia una dote straordinaria. Ma lei non sembra preoccupata di rimanere so-la. E poi è anche un po' strana, non si veste come le altre donne musulma-ne e per questo motivo non è ben vista, anche se nessuno si azzarda a dire qualcosa perché Yasir è in ottimi rapporti con alcuni esponenti del gover-no.»

Alfred Tannenberg ascoltò attentamente le informazioni sulla famiglia Mubak che il comandante Wolter gli stava fornendo, poi i due parlarono dell'immediato futuro e del ruolo che Alfred avrebbe potuto svolgere nel servizio segreto delle SS in Egitto.

Nei giorni seguenti, il capitano Tannenberg fu occupato a organizzare il suo piano d'azione. Le notizie che giungevano dalla Germania lasciavano ormai poco spazio alla speranza; gli Alleati erano sempre più vicini alla vittoria e la comunità internazionale, che in quei giorni riempiva i migliori hotel del Cairo, non aveva dubbi: con la sconfitta della Germania sarebbe cominciata una nuova era.

Un pomeriggio m cui Alfred fece visita a Yasir nella casa di Khan el-Khalili, gli fece apertamente due proposte. «Yasir, amico mio, scusami se quel che sto per dire può offenderti, ma vorrei che tu mi dessi il permesso di corteggiare tua sorella Alia. Le mie intenzioni sono chiare e limpide: se lei lo desidera e la vostra famiglia ci dà la benedizione, per me sarebbe un onore che accettasse di diventare mia moglie.»

Yasir rimase di stucco. Non riusciva a capire perché quell'uomo, così af-fascinante e con un notevole patrimonio personale, si interessasse alla sua amata sorella. Alia non era bella, pensava, e la sua unica prerogativa era la conoscenza dell'inglese e del tedesco, oltre della dattilografia. Lui dubitava che potesse essere una buona moglie e in famiglia si erano già rassegnati a vederla zitella, e invece, d'un tratto, quel tedesco gli chiedeva il permesso di corteggiarla. Perché?, si domandò.

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«Non farò un solo passo senza il tuo permesso» gli disse Tannenberg vedendo il volto dubbioso dell'interlocutore.

«Ne parlerò con mio padre: solo lui può darti il permesso. Se mio padre prenderà in considerazione la tua proposta, te lo farò sapere.»

Ma Yasir ebbe subito un'altra sorpresa. «Bene, amico mio, adesso però mi piacerebbe parlare d'affari. Ho inten-

zione di avviare un'azienda di oggetti d'antiquariato e di reperti antichi, e vorrei anche finanziare degli scavi archeologici. Sai già che sono un ar-cheologo o, meglio, lo ero prima della guerra.»

Durante quel periodo passato al Cairo, Tannenberg aveva cercato di va-lutare che tipo d'uomo fosse Yasir Mubak, ed era giunto alla conclusione che l'unica cosa che gli importasse veramente era guadagnare il più possi-bile. Con l'aiuto di Yasir poteva concretizzare alcune delle sue idee, e in particolare realizzare l'obiettivo comune con i suoi tre camerati: saccheg-giare i tesori archeologici d'Oriente e metterli in vendita. Era sicuro di ave-re trovato in Yasir il socio giusto per l'impresa.

Dopo cinque ore, durante le quali Yasir chiese di non essere disturbato per nessuna ragione, giunsero a un accordo per avviare un'azienda espres-samente dedicata al commercio di oggetti antichi. Yasir avrebbe continua-to con i suoi affari e sarebbe diventato socio nell'impresa di Tannenberg. I contatti dell'uno insieme alle idee dell'altro li avrebbero potuti rendere an-cora più ricchi di quanto già fossero. Inoltre, avevano qualcosa in comune: erano tutti e due senza scrupoli.

La risposta del padre di Alia e Yasir gli giunse una settimana dopo per mezzo di un biglietto in cui lo si invitava a pranzo il venerdì successivo.

Alfred Tannenberg sorrise soddisfatto. Le cose non sarebbero potute an-dare meglio: stava per dar vita alla sua nuova società e presto si sarebbe sposato. Le nozze con Alia avrebbero portato parecchi vantaggi, tra cui quello di entrare a far parte del clan Mubak e quindi di mettersi sotto la protezione di una delle più importanti famiglie d'Egitto; e di protezione, ora che la guerra stava finendo, aveva assolutamente bisogno. Allo stesso tempo, essere socio di Yasir gli avrebbe aperto le porte dell'intero Medio Oriente, dove avrebbero potuto diffidare di uno straniero ma non certo di un membro della rispettata famiglia Mubak.

Il fatto di trovarsi in un momento storico particolare come quello bellico gli permise di convincere il padre di Alia a non ritardare troppo le nozze, anche se dovette rassegnarsi a far comunque passare alcuni mesi.

Il giorno in cui il comandante Wolter gli telefonò per informarlo del sui-

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cidio di Hitler, Alfred si sorprese nel rendersi conto che in realtà non glie-ne importava nulla e che la sua unica preoccupazione era la situazione che avrebbero dovuto affrontare le SS residenti in Egitto o in altre località del Medio Oriente. Ma il comandante Wolter gli ricordò che avrebbero co-munque messo in atto i piani previsti e che sarebbero entrati in clandestini-tà; per farlo avevano documenti falsi e denaro a sufficienza. La guerra era finita e gli Alleati si erano trovati di fronte all'inferno in terra quando erano entrati nei campi di concentramento e di sterminio disseminati in Germa-nia, Austria e Polonia... in tutti quei paesi che erano stati calpestati dagli stivali di Adolf Hitler.

«Senza quei maledetti americani non avrebbero mai vinto» si lamentò il comandante Wolter.

«Abbiamo cominciato a perdere la guerra in Russia, Hitler si era sbaglia-to sul conto di Stalin» gli fece notare Alfred.

«Mi chiedo perché l'America non abbia cercato di mettersi d'accordo con Hitler» insistette Wolter.

Alfred Tannenberg discusse con Yasir e con Wolter se fosse il caso di assumere la nuova identità. Il comandante era favorevole, mentre Yasir so-steneva che nessuno sarebbe andato a cercarlo in Egitto. Inoltre, a suo pa-dre non sarebbe piaciuto che una delle sue figlie si sposasse con un uomo con una falsa identità. L'argomentazione convinse Alfred a continuare a chiamarsi Tannenberg. Sapeva di correre dei rischi, ma era d'accordo con Yasir che in Egitto sarebbe potuto sopravvivere.

Un anno dopo la fine della guerra, Alfred Tannenberg si era sposato con Alia Mubak e, soprattutto, gli affari stavano andando a gonfie vele. Era riuscito a mettersi in contatto con Georg, il quale, grazie all'intercessione dello zio, aveva iniziato una nuova vita negli Stati Uniti. Heinrich risiede-va a Madrid, con una nuova identità e protetto dal regime di Francisco Franco, e Franz era felicissimo di stare in Brasile, dove la rete delle SS a-veva dimostrato di saper efficacemente proteggere i suoi affiliati. Era chia-ro che sarebbe dovuto passare ancora un po' di tempo prima che i loro pro-getti di sottrarre e commerciare arte antica, così com'erano stati concepiti, potessero essere realizzati, ma Tannenberg aveva già cominciato a recupe-rare alcuni reperti da immettere sul mercato al momento opportuno.

Yasir lo presentò alle persone giuste, ladri di tombe che conoscevano la Valle dei Re come la palma della loro mano. Ma fu proprio lui, Tannen-berg, che sfruttando le sue conoscenze in storia antica fece un piano detta-gliato per finanziare scavi in Siria, Giordania e Iraq e soprattutto mise par-

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ticolare impegno nel dirigere personalmente un'équipe che lavorava a Car-ran.

Sognava ancora di trovare le tavolette scritte da Shamas, che racconta-vano le storie narrate dal patriarca Abramo.

Alfred contagiò Alia con la sua passione per le tavolette della Bibbia e convinse Yasir dell'importanza dell'impresa.

Quell'impresa costituiva la sua ossessione, lo scopo principale della sua vita; era convinto che, il giorno in cui avesse messo insieme tutte le tavo-lette, sarebbe entrato nella storia passando per la porta principale e che a nessuno sarebbe più importato del suo passato. Non si pentiva dei suoi tra-scorsi a Mauthausen, al contrario, ma era cosciente del fatto che gli Alleati volevano vedere processati tutti quelli che avevano lavorato nei campi di concentramento. Lo cercavano, ma senza un grande impegno e, come ave-va detto Yasir, nessuno si sarebbe spinto fino in Egitto.

In quel paese, e più tardi in Siria e in Iraq, trovò un rifugio sicuro come molti altri suoi camerati. Del processo di Norimberga venne a sapere men-tre aveva ripreso gli scavi a Carran, sognando di trovare le tavolette sulla creazione del mondo. E proprio lì, a Carran, Alia concepì suo figlio Hel-mut, mentre le tracce di Alfred Tannenberg si perdevano nelle sabbie dei deserti del Medio Oriente.

36

«Mercedes, per favore, non piangere...» Le parole di Bruno non riusci-

vano a fare breccia nel cuore dell'amica, che non poteva trattenere le la-crime.

Carlo le offrì un bicchiere d'acqua e Hans estrasse dalla tasca della giac-ca un fazzoletto bianco immacolato e glielo porse.

A quell'ora della sera a Barcellona il rumore della strada filtrava dalle fi-nestre della casa di Mercedes. L'idea di riunirsi tutti e quattro era stata di Hans e in poche ore erano atterrati sul suolo spagnolo, preoccupati, tra l'al-tro, dello shock emotivo del quale Mercedes era caduta vittima dopo avere appreso della morte di Alfred Tannenberg.

«Mi dispiace, mi dispiace tanto...» si scusò Mercedes. «Non riesco a trattenermi, non ho smesso di piangere da quando mi avete chiamata.»

«Mercedes, per favore, calmati» insistette Carlo. «Sai, mi sembra un miracolo che siamo riusciti a uccidere il mostro. Ho

sempre pensato che un giorno ce l'avremmo fatta, ma a volte perdevo la

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speranza e...» «Dài, dobbiamo essere contenti, abbiamo onorato il giuramento e siamo

sopravvissuti a lui» disse Bruno cercando di trovare parole consolatorie. «Ricordo ancora il giorno in cui arrivarono gli americani a Mauthau-

sen...» disse Carlo. «Tu eri nascosta in quella baracca con noi. Eri vestita da maschio, e quel buon medico polacco ti aveva salvato la vita e aveva convinto tutti a tenerti lì.»

«Se ti avessero scoperta...» intervenne Hans. «Non so che cosa ne sarebbe stato di noi, ma sicuramente quelle bestie

l'avrebbero fatta pagare al medico e a tutti gli uomini della baracca» rifletté Bruno.

«Allora eri una vera dura e non piangevi mai» cercò di sdrammatizzare Carlo.

Mercedes si asciugò le lacrime con il fazzoletto di Hans e bevve un sor-so d'acqua. «Perdonatemi... vado... vado a lavarmi la faccia, torno subito.»

Quando la donna fu uscita dalla sala, i tre amici si guardarono senza na-scondere l'angoscia che provavano.

«Mi domando com'è possibile che il mostro sia potuto vivere tutti questi anni in Medio Oriente senza che nessuno lo abbia denunciato» si lamentò Bruno.

«Molti nazisti si rifugiarono in Siria, in Egitto, in Iraq, proprio come in Brasile, in Paraguay e in altri paesi latinoamericani. Il caso di Tannenberg non è unico, ci sono ancora diversi nazisti che vivono tranquillamente la vecchiaia senza che nessuno si curi di loro» spiegò Hans.

«Non dimenticate che il gran muftì di Gerusalemme era un convinto al-leato di Hitler e che gli arabi appoggiavano il regime nazista, dunque per-ché sorprendersi?» fece notare Carlo.

«Com'è possibile che non siamo riusciti a scovarlo in tutti questi anni?» si domandò Bruno.

«Perché trovare un uomo è un'impresa più facile in un paese democrati-co che in una dittatura o in un sistema feudale» rispose Carlo.

Quando Mercedes tornò in sala era più tranquilla, malgrado gli occhi an-cora arrossati dal pianto. «Non vi ho ancora ringraziati per essere venuti» disse loro abbozzando un sorriso.

«Avevamo bisogno di vederci, di stare uniti» affermò Hans. «Dio, quanta strada abbiamo fatto!» esclamò Mercedes. «Sì, ma ne è valsa la pena. Tutti questi anni di sofferenze, di incubi, alla

fine hanno avuto l'unica compensazione possibile: la vendetta» disse Bru-

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no. «La vendetta, sì, la vendetta... nemmeno per un solo istante, in tutti que-

sti anni, ho avuto dubbi sul compimento della nostra promessa» replicò Mercedes con gli occhi di nuovo gonfi di lacrime. «Ciò che abbiamo vis-suto... quello era... era l'inferno; per questo sono convinta che se Dio esiste e ci castigherà non potrà mai essere peggio di Mauthausen.»

«Hai parlato con Tom Martin?» domandò Carlo a Hans per cercare di distrarre Mercedes.

«Sì, e gli ho chiesto di terminare il lavoro al più presto. Mi ha assicurato che il suo uomo manterrà la parola data, e ha ribadito le enormi difficoltà che ha dovuto affrontare per portare a compimento la prima parte dell'inca-rico. Pensa che io non possa capire cosa significhi infiltrarsi in Iraq e ucci-dere un uomo protetto da Saddam» rispose Hans.

«Ci è voluto un bel po' di tempo per assolvere quel compito» commentò Bruno.

«Sì, per questo ci è costato tanto, ma alla fine c'è riuscito» disse Hans. «La Global Group non è un'agenzia di volgari assassini, se lo fosse sicu-ramente non avrebbero ucciso Tannenberg. Comunque, ho insistito perché concludessero la seconda parte del lavoro. Eliminare Clara Tannenberg dovrebbe essere più facile.»

«Magari risulterà più complicato, invece. Tutti i giornali sembrano sicuri che Bush darà l'ordine di attaccare l'Iraq da un momento all'altro e, se così fosse e la guerra iniziasse, per l'uomo di Tom Martin non sarà semplice portare a termine il lavoro» fece notare Carlo con un'espressione preoccu-pata.

«Ma non sappiamo se alla fine la guerra ci sarà, per quanto i giornali so-stengano che è imminente» ribatté Bruno.

«Ci sarà di certo; l'amministrazione americana ha già deciso. C'è troppa carne al fuoco» commentò Carlo.

«Sai? Mi ha sempre stupito il fatto che tu sia comunista» gli disse Hans. Carlo rìse, anche se con una vena di amarezza. «Mia madre fu deportata

a Mauthausen perché era comunista; be', in realtà era mio padre a esserlo. Lui morì prima di arrivare al campo e mia madre... mia madre lo adorava e fece propria la sua ideologia, poiché era anche quella dei suoi genitori. Io cos'altro avrei potuto essere? E poi continuo a credere che ci siano valori nell'ideologia comunista, malgrado gli orrori della Cortina di Ferro, con Stalin e i gulag.»

«Comunque, a prescindere dalle ragioni che lo muovono, Bush sta per

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liberare il mondo da un miserabile, un assassino, perché Saddam non è al-tro che questo» commentò Hans.

«Ma prima che riescano a far fuori Saddam, moriranno tantissimi inno-centi, e ciò, amico mio, è moralmente inaccettabile, anche se io non sarò mai antiamericano, dato che dobbiamo la vita agli americani» intervenne Bruno.

«E quanti innocenti morirono per liberare noi?» ribatté Hans. «Se gli Stati Uniti non avessero sacrificato migliaia di uomini, noi saremmo morti a Mauthausen.»

«Avete ragione tutti e due» sentenziò Mercedes. Rimasero in silenzio, persi nei propri pensieri. La loro visione della real-

tà era sempre stata influenzata dall'orrore di Mauthausen. Carlo si alzò dalla poltrona in cui era seduto, batté le mani e in un tono

di voce che cercava di essere allegro propose ai suoi amici di festeggiare a pranzo. «Sei la nostra anfitriona, dunque stupiscici. Ma fa' in modo che sia un pranzo memorabile. Ce lo siamo guadagnato, da cinquant'anni aspet-tiamo questo momento.»

I quattro amici erano coscienti di dover fare uno sforzo per riprendersi dalle emozioni delle ultime ore. Mercedes promise che sarebbe stato il mi-glior pranzo che avrebbero potuto sognare.

Nessuno di loro aveva dimenticato che cosa significasse avere fame. Da molti anni si erano lasciati alle spalle le sofferenze di Mauthausen, ma nel più profondo delle loro anime non avevano cancellato il dolore e la fame.

37

Gian Maria stava pulendo con cura una tavoletta su cui si distinguevano

appena dei segni cuneiformi, quando un operaio entrò gridando nella stan-za in cui il sacerdote lavorava.

«Venga, signore! Venga! C'è un'altra sala! È caduto un muro!» esclamò l'uomo in tono concitato, in preda a una grande agitazione.

«Che è successo? Di quale muro sta parlando?» domandò il sacerdote mentre lo seguiva quasi correndo in direzione degli scavi.

Ayed Sahadi, molto nervoso, dava ordini al gruppo di operai che fortui-tamente avevano trovato la nuova stanza.

«Cos'è successo?» chiese Gian Maria al caposquadra. «Un operaio ha colpito il muro con una picconata e quello è crollato; ab-

biamo rinvenuto un'altra stanza con alcuni resti di tavolette. Ho mandato a

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chiamare la signora Clara.» In quel momento, l'archeologa stava arrivando di corsa seguita da Fati-

ma. «Cos'avete trovato?» chiese. «Una nuova stanza e altre tavolette» rispose Gian Maria. Clara ordinò agli operai di puntellare il locale e di raccogliere tutte le ta-

volette. Gian Maria si sedette per terra a dare un'occhiata ai nuovi reperti. Gli dolevano gli occhi per lo sforzo di decifrare segni sbiaditi dal tempo, ma sapeva che prima o poi Clara gli avrebbe chiesto di esaminare le tavo-lette ritrovate.

Non trovò nulla che attirasse la sua attenzione e iniziò ad allinearle con cura affinché gli operai le trasportassero nell'accampamento, dove negli ul-timi giorni avevano raggruppato in un contenitore i reperti che Picot non aveva portato con sé.

Pensò che era stata una fortuna che Ante Plaskic fosse tornato. Ahmed Husseini aveva telefonato a Clara per dirle che il croato, all'ultimo momen-to, aveva deciso di rimanere in Iraq e di farsi riportare a Safran ignorando l'opinione di Picot, il quale, seccato, gli aveva fatto sapere che non si sa-rebbe curato del suo destino.

Ante Plaskic aveva convinto Ahmed a facilitargli il ritorno a Safran, no-nostante questi gli avesse assicurato che Clara non si sarebbe trattenuta per più di una settimana. Ma lui aveva insistito tanto che, malgrado la situa-zione caotica di Baghdad, era riuscito a procurargli un passaggio su un eli-cottero militare. Da quando era giunto, non si era risparmiato.

«Quante tavolette ci sono?» domandò Clara a Gian Maria, facendo sus-sultare il sacerdote, concentrato a classificarle sotto lo sguardo attento di Ante Plaskic.

«Che spavento mi hai fatto prendere!» esclamò Gian Maria. «C'è qualcosa di interessante?» insistette Clara. «Non so. Alcune sono frammenti di transazioni commerciali, altre sem-

brano preghiere, ma non ho avuto il tempo di esaminarle a fondo. A ogni modo, domani le riporremo con gli altri reperti, perché immagino che vor-rai portarle a Baghdad.»

«Sì, ma... be', se tu potessi esaminarle con attenzione, nel caso...» «Clara! Credi ancora che troveremo le tavolette che cercava tuo nonno?» «Sono qui! Devono essere qui!» rispose Clara irritata. «Va bene, non ti arrabbiare. Ma almeno sii realista: quasi tutti gli operai

se ne sono andati. Ayed fa tutto quello che può, ma gli uomini sono sul piede di partenza. L'esercito li reclama, e altri... be', sai come succede, pre-

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feriscono tornare a casa loro, sembra che sentano la guerra imminente.» «Ci restano due giorni, Gian Maria, solo due, dopodiché Ahmed ci por-

terà via da qui. Il ministero considera ormai conclusi gli scavi.» Ante Plaskic assisteva in silenzio alla conversazione. In realtà non inter-

veniva mai nei loro discorsi. Clara era troppo nervosa e scossa dopo l'assassinio del nonno per preoc-

cuparsi di qualcosa che non fosse la sua ossessione di trovare le tavolette di Shamas, quindi poco le importava che il croato fosse tornato, né si era chiesta il motivo per cui l'aveva fatto. L'aveva accolto con indifferenza, perché in realtà non aveva bisogno di lui.

Il suo rapporto con Gian Maria era diverso. Ormai si era affezionata al sacerdote; provava per lui un affetto simile a quello che si prova per un bambino. Gian Maria le stava sempre vicino, disposto ad aiutarla, e lo rin-graziava a modo suo, senza fare ricorso alle parole.

Erano trascorsi solo pochi giorni da quando Picot e il gruppo di archeo-logi se n'erano andati, ma a Clara pareva un'eternità. Dove prima c'era un accampamento sempre pieno di vita ora non c'era più nulla, se non magaz-zini vuoti e una calma permanente. Il tempo si era di nuovo fermato in quel luogo sperduto nel Sud dell'Iraq.

Quasi non c'erano più operai, poiché l'esercito stava mobilitando tutti gli uomini. Quelli che erano rimasti la guardavano in modo differente o, al-meno, questo era quanto percepiva Clara, sicura che la scomparsa di suo nonno avesse scalfito la considerazione degli uomini nei suoi confronti.

Solo la presenza di Ayed Sahadi garantiva un certo ordine e spronava gli operai a lavorare.

Clara sapeva che l'invasione sarebbe avvenuta il 20 marzo e che lei se ne sarebbe dovuta andare dall'Iraq al più tardi il 19, ma sentiva che qualcosa la tratteneva in quella terra arida, benché fosse cosciente che rimanendo sarebbe potuta morire. Gli aerei da guerra non distinguono gli amici dai nemici, i traditori da chi è leale.

L'orologio segnava le cinque del mattino quando il suono del cellulare la svegliò. Si spaventò nell'udire la voce concitata di Ahmed.

«Clara...» «Dio mio, Ahmed, che succede?» «Clara, devi tornare adesso.» «C'è... c'è qualche novità?» «Sono preoccupato.» «Sei esaurito.»

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«Mettila come vuoi, ma non dovresti rimandare ulteriormente la parten-za. Ieri sera ho parlato con Picot; è entusiasta del progetto dell'esposizio-ne.»

«Dove si trova?» «A Parigi.» «Parigi?» Clara sospirò. «Dice che ha iniziato a organizzare la mostra e vuole sapere quando li

raggiungerai.» «Dove?» «Non so, credo nel luogo dell'inaugurazione, ma non gli ho chiesto dove

si terrà.» «E tu, Ahmed, ci andrai?» «Vorrei accompagnarti» rispose Ahmed con prudenza. Sapeva che il

ministero degli Interni registrava tutte le conversazioni e, dopo l'assassimo di Alfred Tannenberg, a Palazzo avevano ordinato un'inchiesta dettagliata. Nell'ambiente di Saddam avevano l'ossessione per il tradimento e suppo-nevano che l'assassino di Tannenberg appartenesse alla cerchia dell'anzia-no.

«Sono le cinque del mattino, se non hai altro da dirmi...» «Sì, che devi tornare, oggi è il 17 marzo...» «Lo so, rimarrò fino al 19, oggi abbiamo trovato un'altra stanza e diverse

dozzine di tavolette.» «No, Clara, non puoi trattenerti oltre. Devi tornare a Baghdad, a casa

tua. L'esercito richiamerà tutti gli uomini, non ci sarà praticamente nessuno ad aiutarti.»

«Ancora due giorni, Ahmed.» «No, Clara; oggi manderò un elicottero...» «Aspetta almeno domani, Ahmed.» «E sia. Domani all'alba.» Gian Maria non aveva dormito. Era rimasto sveglio per classificare le ul-

time tavolette prima che gli operai le imballassero per depositarle nel con-tenitore destinato a Baghdad. Gli dolevano gli occhi per lo sforzo di deci-frare i segni sfumati incisi nell'argilla. Aveva davanti a sé ancora alcune tavolette da esaminare, quando ne prese una a caso. Il sacerdote ebbe un sussulto e per poco la tavoletta non gli cadde rompendosi in mille pezzi. Sulla parte superiore appariva il nome di Shamas. Sentì accelerare il respi-ro e iniziò a leggere passando il dito sulle linee regolari dei segni cunei-

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formi. "In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e

le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. "Dio disse: 'Sia la luce!'. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buo-

na e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno."

Le lacrime solcarono il volto del sacerdote. Si sentiva profondamente commosso e provò il desiderio di inginocchiarsi e di rendere grazie a Dio. Strinse a sé quel pezzetto di argilla pieno di segni incisi più di tremila anni prima da uno scriba, al quale il patriarca Abramo aveva dettato la storia della Creazione affinché gli uomini sapessero la Verità.

Su quella tavoletta di argilla erano impresse le parole di Abramo, ispira-te da Dio, che molti secoli più tardi sarebbero state raccolte nel libro per eccellenza, la Bibbia.

Gian Maria continuò a leggere a fatica, tanto grande era l'emozione che provava.

"Dio disse: 'Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque'. Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno."

Continuò a leggere senza rendersi conto di farlo a voce alta. Si sentiva vicino a Dio come non gli era mai capitato prima. E capì che, oltre a quella tavoletta, nel mucchio ancora da classificare ne avrebbe trovate altre con la firma di Shamas.

Iniziò a cercare, ansioso, soffermandosi sulla parte superiore delle tavo-lette, dove gli scribi ponevano il proprio nome. Per primo trovò un fram-mento di tavoletta, poi altri, e così riuscì a mettere insieme, tra frammenti e tavolette intere, otto pezzi di argilla con il nome di Shamas.

Il sacerdote pregava, rideva e piangeva al tempo stesso, tale era il tumul-to di emozioni che lo invadeva a mano a mano che trovava le tavolette di argilla in quel mucchio scoperto qualche ora prima.

Sapeva di dover avvisare Clara, ma sentiva il bisogno di gustarsi in soli-tudine quel momento, per lui carico di spiritualità. Quello era un miracolo, si diceva, e ringraziava Dio per avergli permesso di trovare quella terracot-ta su cui era impressa la traccia divina.

Tentava di decifrare quei segni incisi con cura dallo stilo di Shamas e si sforzava di immaginare chi potesse essere stato quello scriba, come avesse conosciuto il patriarca Abramo e perché questi gli avesse raccontato la sto-

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ria della Creazione. Si poneva domande anche sullo strano percorso compiuto da quell'uo-

mo: le prime tavolette erano state scritte a Carran, poiché era stato lì che il nonno di Clara aveva trovato le due in cui si diceva che il patriarca Abra-mo gli avrebbe raccontato la Genesi. Tuttavia, in seguito Shamas aveva la-sciato la propria impronta anche a Safran, in quel tempio presso Ur, dove avevano trovato frammenti con disposizioni legali, comunicati ufficiali, e-lenchi di piante, poesie...

In alcune appariva il nome di Shamas, in altre quello di altri scribi. La stanza in cui erano stati rinvenuti gli ultimi reperti non era enorme,

anzi, era piuttosto piccola e priva di decorazioni, solo le scanalature alle pareti dove un tempo c'erano state le mensole sulle quali gli scribi colloca-vano le tavolette. Clara aveva detto che quella sembrava la camera di un uomo, per le dimensioni ridotte dello spazio e per il contenuto particolare delle tavolette; lì avevano trovato solo frammenti di poemi, la qual cosa suggeriva che quel luogo non faceva parte del tempio, ma era forse la stan-za di lavoro dell'um-mi-a, il maestro.

Gian Maria pensò a quanto fosse cambiata la sua vita negli ultimi mesi. Si era lasciato alle spalle la sicurezza del Vaticano, quella confortevole routine condivisa con altri sacerdoti, la tranquillità dello spirito. Non ricor-dava più l'ultima volta in cui aveva fatto un sonno tranquillo, perché fin da prima di lasciare Roma in cerca di Clara tutte le sue notti erano state po-polate di incubi e turbate dalla paura di non. riuscire a fermare la mano de-cisa a perpetrare un crimine.

Gli occhi gli si riempirono di nuovo di lacrime mentre leggeva le parole che lo trasportavano all'istante in cui Dio creò uomo: "E Dio disse: 'Fac-ciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra'.

"Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: 'Siate fecondi e moltiplica-tevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra'.

"E Dio disse: 'Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo'."

La luce filtrava dalla finestra quando Gian Maria si rese conto che Ante

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Plaskic lo stava osservando. Non si era accorto del croato, concentrato com'era nella lettura delle tavolette. «Ante, non immagini cos'ho trovato!»

«Dimmelo» rispose secco il croato. «Il nonno di Clara aveva ragione. Lui ha sempre creduto che il patriarca

Abramo ci avesse tramandato la storia della Creazione, ed eccola qua, le tavolette esistono, guarda...»

Il croato si avvicinò a Gian Maria e prese una tavoletta. Gli pareva in-credibile che gli uomini potessero uccidere per quel pezzo d'argilla, eppure era proprio così, e sarebbe toccato a luì farlo se qualcuno avesse tentato di impedirgli di impadronirsene. «Quante sono?» domandò.

«Ne ho trovate otto. Ringrazio Dio per avermi dato quest'opportunità» rispose allegro il sacerdote.

«Dobbiamo imballarle per bene, perché non subiscano alcun danno. Se vuoi ti aiuto» si offrì il croato.

«No, prima dobbiamo avvertire Clara. So che nulla la potrà ripagare del-la perdita del nonno, ma almeno avrà realizzato il suo sogno. Questo è un miracolo!»

In quel momento Ayed Sahadi entrò nel magazzino e scrutò attentamen-te i due uomini. «Cosa succede?» domandò loro in tono diffidente.

«Ayed, abbiamo trovato le tavolette!» esclamò Gian Maria, contento come un bambino.

«Le tavolette? Quali tavolette?» chiese Ayed. «La Bibbia d'argilla! Il signor Tannenberg e Clara avevano ragione. Il

patriarca Abramo ha spiegato a uno scriba la sua idea sulle origini del mondo. È una scoperta rivoluzionaria, una grande testimonianza della sto-ria dell'umanità» gli spiegò sempre più emozionato Gian Maria.

Il caposquadra si avvicinò al tavolo su cui erano allineate le otto tavolet-te, tre delle quali ricostruite dal sacerdote per renderle leggibili. Lì non si sarebbero potute restaurare, quello era un lavoro da esperti, e Gian Maria sperava che Clara gli permettesse di portare le tavolette a Roma, per essere esaminate da scienziati del Vaticano, che probabilmente le avrebbero rico-struite grazie alle avanzatissime tecniche di cui potevano disporre.

Quella era stata la notte più importante della sua vita, pensò Gian Maria, che continuava a pregare fra sé senza smettere di parlare con Ayed Sahadi e Ante Plaskic.

Il caposquadra chiese al sacerdote di recarsi a casa di Clara. Non voleva lasciare il croato da solo con le tavolette. Lui accettò senza indugi; uscì e si avviò con passo spedito all'abitazione di Clara. La trovò già vestita, che

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beveva una tazza di tè con Fatima. «Vedo che ti sei alzato presto» lo salutò. «Clara, la Bibbia d'argilla esiste» riuscì a dire emozionato. «Certo che esiste! Ne sono sicura, in fondo posseggo due tavolette che

lo dimostrano.» «Ce l'abbiamo, abbiamo la Bibbia d'argilla, l'abbiamo trovata.» Clara lo guardò stupita, senza capire. Gian Maria diceva spesso cose che

la sconcertavano. «Erano lì, in quella stanza che è stata portata alla luce ieri; sono otto, ot-

to tavolette lunghe ventiquattro centimetri. Sono... sono la Bibbia d'argil-la!»

Clara Tannenberg si era alzata in piedi, presa da un'agitazione incontrol-labile. «Ma cosa dici? Dove sono? Dimmi che cosa abbiamo trovato!»

Gian Maria la prese per mano e la condusse fuori. Si diressero al magaz-zino, mentre il sacerdote le raccontava i fatti della notte precedente.

Ayed Sahadi e Ante Plaskic erano visibilmente tesi. I due uomini si mi-suravano con lo sguardo, ma Clara non ci fece caso. Si avvicinò al tavolo su cui erano collocate le otto tavolette.

Ne afferrò una cercando il nome dello scriba e sentì una vampata di e-mozione notando sulla parte superiore i caratteri cuneiformi con il nome di Shamas. Poi iniziò a leggere in silenzio quei segni incisi sull'argilla più di tremila anni fa.

Non riuscì a trattenere le lacrime e Gian Maria fu contagiato dall'emo-zione di Clara. Piangevano e ridevano allo stesso tempo, mentre controlla-vano a una a una le tavolette, toccandole per essere sicuri che effettiva-mente si trovassero lì e non fossero frutto di un sogno. Poi le imballarono con cura e Clara insistette per tenerle con sé.

«Le metterò nel contenitore insieme con le altre. Non me ne voglio sepa-rare nemmeno per un istante.»

«Dovremmo metterle sotto scorta» suggerì Ayed Sahadi. «Ayed, mi hai sotto gli occhi ventiquattr'ore al giorno, dunque se le ta-

volette saranno con me staranno al sicuro.» Ayed Sahadi si strinse nelle spalle; non aveva voglia di discutere con

quella donna testarda dalla quale sperava di potersi separare quanto prima. Se non fosse stato il Colonnello a obbligarlo a proteggerla a prezzo della vita, se ne sarebbe già andato lasciandola al suo destino.

«Quando partiremo da qui?» domandò Ante Plaskic. «È appena arrivato e se ne vuole già andare?» ribatté Clara.

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«Be', pensavo di poterle essere utile, per questo sono tornato» si scusò il croato.

«Voglio che gli operai ripuliscano ancora un po' la zona in cui sono state trovate le tavolette; forse ce ne andremo dopodomani.»

«No, ce ne andremo questo pomeriggio. Ho appena parlato con il Co-lonnello: ci manderà un elicottero per tornare oggi stesso a Baghdad.»

«Ma non possiamo partire adesso! Dobbiamo cercare ancora!» esclamò Clara disperata.

«Lei sa che non c'è più tempo. Non sfidi la sorte e non metta in pericolo la vita degli altri!» gridò Ayed Sahadi sotto lo sguardo stupito di Clara.

«Non alzi la voce con me!» protestò lei. «Non ho alzato la voce, e se l'ho fatto... be', io ho degli ordini da esegui-

re. Preparatevi, ce ne andremo questo pomeriggio.»

38 L'uomo dormiva profondamente nella quiete del suo studio. Aveva ap-

pena terminato una lunga riunione e aveva deciso di riposare un poco, per-ciò aveva detto al suo segretario di non passargli telefonate e di non di-sturbarlo fino a che lui non l'avesse avvisato.

Lo squillo della linea interna lo scosse dal sonno. Aprì gli occhi furioso. Avrebbe licenziato tutti gli impiegati della segreteria per aver osato disob-bedirgli. Non tollerava che i suoi ordini non venissero eseguiti alla lettera. Si udì nuovamente il suono e la voce timorosa del segretario ruppe il silen-zio.

«Signor Wagner, è urgente...» Lui si alzò dal divano e si sedette alla scrivania. Schiacciò il pulsante

che comunicava con la segreteria. Con un ruggito domandò il motivo per cui lo stavano disturbando.

«È il signor Brown, signore; dice che è molto urgente, che deve comuni-carle qualcosa e non può aspettare.»

George Wagner sollevò la cornetta pronto a mandare all'inferno l'uomo che aveva manipolato come un burattino negli ultimi quarant'anni. «Parla» disse a Robert Brown.

«Non puoi immaginare cos'è successo! L'hanno trovata! Esiste!» gridò Brown

«Ma cosa dici? Spiegati, non blaterare sciocchezze!» Robert Brown deglutì, cercando di tranquillizzarsi, mentre Ralph Barry,

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accanto a lui, ingollò un bicchiere di whisky tutto d'un fiato. «La Bibbia d'argilla... esiste... l'hanno trovata. Otto tavolette con la Genesi, firmate da Shamas...» riuscì a dire alla fine.

George Wagner strinse i braccioli della poltrona, cercando di non far tra-sparire alcuna emozione. «Spiegati meglio» insistette.

«Ho appena ricevuto una telefonata in cui mi hanno comunicato che ieri a Safran hanno scoperto un'altra ala del tempio. Apparentemente si trattava di una piccola stanza, forse appartenuta a uno scriba. Hanno rinvenuto al-cune decine di tavolette e si sono accorti solo poche ore fa che tra esse c'è la Bibbia d'argilla» concluse Robert Brown.

George Wagner era emozionato. Pochi giorni prima Alfred Tannenberg era stato ucciso e ora veniva alla luce la Bibbia d'argilla... Il destino aveva voluto burlarsi del suo amico negandogli ciò a cui più teneva al mondo, quella che era stata la ragione della sua esistenza.

«Dove sono le tavolette?» domandò. «A Safran... be', forse a quest'ora saranno già arrivate a Baghdad. Hanno

convinto Clara a tornare, ma il nostro uomo è con lei, e appena possibile si impadronirà del materiale, anche se la situazione è assai delicata.»

«Voglio che s'impossessi delle tavolette; quando le avrà in mano, lo tire-remo fuori da lì. Chiama Paul Dukais, informalo che l'incarico ha la priori-tà, che deve anteporre le tavolette a qualsiasi altra cosa, incluso il resto del-l'operazione.»

«Ma... non sono ancora riuscito a parlare con il nostro uomo, sono stati degli amici a farmi pervenire il messaggio» commentò Robert Brown.

«Non si saranno sbagliati?» domandò diffidente George Wagner. «No, non c'è alcun errore, te l'assicuro. La Bibbia d'argilla esiste.» «Cosa sappiamo di Ahmed Husseini?» «Ha avuto le stesse istruzioni del nostro uomo: impossessarsi delle tavo-

lette. Non preoccuparti, ce la faremo» disse Brown. «Invece mi preoccupo, anche se, naturalmente, vi farò tagliare la testa se

non riuscirete a recuperarle.» Robert Brown rimase qualche secondo in silenzio. Sapeva che George

Wagner non minacciava invano. «Adesso chiamo Paul Dukais...» assicurò. «Fallo.» «E se Clara Tannenberg opponesse resistenza...?» «Clara è un granello di sabbia nella nostra vita» fu la risposta del Mento-

re.

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Il Colonnello era appena giunto alla Casa Gialla e sentiva ancora la pre-senza di Alfred Tannenberg in quello studio che era stato del suo amico e in cui ora si trovava a parlare con Clara.

Ahmed Husseini aveva assistito nervoso al colloquio, temendo la rea-zione della moglie. «Mia cara, la cosa migliore è che tu mi dia le tavolette; io le porterò fuori dall'Iraq e farò sì che siano conservate in un luogo sicu-ro.»

«Ma se mi hai appena detto che domani stesso io dovrò lasciare il pae-se... perché non posso portarle con me?»

Il militare era troppo preoccupato dalla situazione per fare sfoggio delle sue doti diplomatiche. «Clara, tuo nonno aveva alcuni soci, e sai cosa ac-cadrà con l'inizio della guerra... Dài, non essere testarda, non complicare il nostro lavoro.»

«Queste tavolette non hanno nulla a che vedere con gli affari di mio nonno. Sono mie, e di nessun altro.»

«I soci di tuo nonno non la pensano così. Dammele e riceverai la tua par-te quando sarà il momento.»

«No, non sono in vendita, non lo saranno mai» replicò Clara in un tono di voce carico di sfida.

«Per favore, non rendere le cose difficili!» la supplicò Ahmed. «Non è mia intenzione, semplicemente non ve le darò. Mio nonno mi ha

spiegato dettagliatamente in che cosa consistevano i suoi affari, e mi ha as-sicurato che queste tavolette, la Bibbia d'argilla, sarebbero state mie, dun-que non fanno parte dell'accordo.»

Il Colonnello si alzò e si avvicinò a Clara. Lei gli lesse negli occhi che era disposto a tutto pur di avere le tavolette. La paura la fece rabbrividire. Guardò Ahmed, ma nell'espressione del marito c'erano solo angoscia e ras-segnazione. Dov'era l'uomo di cui si era innamorata? Capì che doveva gua-dagnare tempo, altrimenti avrebbe potuto perdere tutto, anche la vita. «Se gliele consegno, mi promette che non ne farete nulla fino a quando avrò parlato con i soci di mio nonno?» chiese cambiando tono di voce.

«Naturalmente... I soci di tuo nonno sono uomini ragionevoli. Non vo-gliono coinvolgerti. Sarebbe una buona idea che non discutessi con loro. Ma ora non farmi perdere altro tempo. Mancano solo due giorni prima del-l'attacco e dobbiamo andarcene da questo paese, tutti... per me sarà più complicato scappare, ma ci riuscirò.»

«Va bene, domani le consegnerò le tavolette...» «Non domani, adesso: le voglio adesso, Clara.»

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Lei comprese che non poteva fare altro che consegnargliele, poiché il Colonnello non se ne sarebbe mai andato senza. «D'accordo» rispose stan-camente «mi aspetti qui.» Uscì dallo studio e salì a due a due i gradini ver-so la sua camera. Fatima stava disfacendo i bagagli. «Va' in camera tua e prendi qualche vestito, ce ne andiamo!» ordinò alla sua vecchia gover-nante.

«Ma, dove? Che succede?» chiese la donna allarmata. «Vogliono portarmi via la Bibbia d'argilla. Dobbiamo fuggire subito,

non posso obbligarti ad accompagnarmi, perché se mi prendono mi am-mazzeranno... ma ti chiedo di portarmi in fretta i vestiti.»

«E Gian Maria e l'altro uomo, Ante Plaskic? Sono nelle stanze degli o-spiti... Loro possono aiutarti... li vado a chiamare...»

«No! Fa' quel che ti ho detto! Presto!» Clara prese una borsa e la riempì di indumenti scelti a caso; ci infilò an-

che la cassetta in cui custodiva le tavolette. Aveva paura che sarebbero fi-nite in pezzi, ma avrebbe corso il rischio; avrebbe fatto di tutto pur di non consegnarle al Colonnello, altrimenti non le avrebbe mai più riviste.

Fatima tornò di corsa con i vestiti che la padrona le aveva chiesto. In un attimo Clara si infilò sopra gli abiti che aveva una tunica nera e si

coprì la testa con un velo nero che le arrivava quasi ai piedi. «Vieni?» domandò poi a Fatima. «Sì, io non ti lascio» rispose timorosa la donna. Ayed Sahadi si trovava sul pianerottolo tra le due rampe di scale, in atte-

sa di vedere apparire la donna. Il Colonnello gli aveva ordinato di vigilare il passaggio e lui si era appostato lì, da dove poteva tenere d'occhio la por-ta di Clara.

Fatima represse un grido di spavento nel vedere l'uomo del Colonnello appoggiato alla parete che fumava uno dei suoi inconfondibili sigari egi-ziani.

Clara fissò lo sguardo su Ayed Sahadi soppesando una sua possibile rea-zione. «Cosa ci fa lei qui?» gli chiese in tono alterato.

«Ordini del Colonnello» rispose lui alzando le spalle. «Il Colonnello non si fida di me» affermò Clara. «Crede che abbia delle buone ragioni?» le domandò in tono ironico

l'uomo che negli ultimi mesi era stato la sua ombra. «Vuole la Bibbia d'argilla» replicò Clara. «La vogliono i soci di suo nonno, fa parte dell'operazione» disse Ayed

Sahadi.

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«No, non è vero. Lei sa meglio di tutti quanto abbiamo lavorato per tro-varle; queste tavolette non sono solo un tesoro archeologico, sono il sogno di mio nonno.»

«Non si metta nei guai: se non gliele consegnerà lei, gliele prenderanno, dunque agisca in modo intelligente.»

«Quanto vuole per aiutarmi?» La proposta di Clara lo sorprese. Non pensava che lei avrebbe tentato di

corromperlo, poiché sapeva che tradire il Colonnello equivaleva a firmare la propria condanna a morte. «La mia vita non ha prezzo» rispose Ayed Sahadi molto serio.

«Sono convinta che non sia così. Mi dica quanto vuole per aiutarmi a uscire di qui.»

«Da questa casa?» «Dall'Iraq.» «Lei possiede un passaporto egiziano, può andarsene quando vuole; e

poi ha il permesso del Colonnello.» «Non mi serve a nulla il suo permesso, se non gli consegno le tavolette.

Duecentocinquantamila dollari sono sufficienti?» La cupidigia si rifletté sul sorriso nervoso di Ayed Sahadi. L'uomo sen-

tiva scorrergli nel sangue la tentazione del denaro, pur sapendo che accet-tando avrebbe tradito. «Io guadagnerò comunque molto denaro. Da tanti anni lavoro per il Colonnello e conosco le regole del gioco.»

«Allora conosce anche le regole della domanda e dell'offerta. Io devo uscire dall'Iraq e lei mi può aiutare. Quanto vuole? Decida una cifra, gliela pagherò.»

«Può pagarmi mezzo milione di dollari?» «Posso pagarle mezzo milione di dollari in Egitto o in Svizzera, in qual-

siasi luogo fuori dall'Iraq. Qui non posso disporre di quella somma.» «E come posso essere sicuro che lei rispetterà gli accordi?» «Se non lo farò, lei potrà uccidermi o consegnarmi al Colonnello, il che

sarebbe lo stesso.» «Posso consegnarla anche ora.» «Allora lo faccia o accetti la mia offerta, ma non c'è più tempo da perde-

re.» Sahadi non ebbe modo di rispondere. Il rumore di una porta che si apriva

li distrasse entrambi. Gian Maria era uscito dalla stanza e li osservava inquieto. «Ma che suc-

cede?» domandò senza capire perché Clara indossasse quegli indumenti.

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«È molto semplice: il Colonnello vuole la Bibbia d'argilla e io non gliela voglio dare; così sto chiedendo ad Ayed Sahadi di aiutarmi a fuggire.»

Gian Maria li guardò spaventato, senza capire sino in fondo il significato delle parole di Clara.

Rimasero in silenzio qualche secondo incrociando gli sguardi, finché Sahadi abbozzò una smorfia e con un cenno indicò di andare tutti in came-ra di Gian Maria.

Una volta lì, Sahadi si mise a passeggiare nervoso per la stanza mentre meditava il modo di guadagnarsi il mezzo milione di dollari che Clara gli offriva senza rischiare la vita. Giunse alla conclusione che era come gioca-re d'azzardo, o tutto o niente: se avesse aiutato Clara, avrebbe potuto per-dere la vita o guadagnare più soldi di quanti ne avesse mai sognati. «Se il Colonnello ci trova, ci ucciderà» mormorò infine.

«Sì, lo farà» replicò Clara. «Lei conosce questa casa meglio di me, sa che è controllata da guardie.» «Posso uscire facendomi passare per Fatima, nessuno baderà a me.» «Va bene: vada in cucina, prenda un cesto ed esca dalla porta posteriore

come se dovesse andare a fare la spesa. Fatima resterà in camera sua e lei, Gian Maria, pure.»

«Ma Clara dove andrà?» domandò Gian Maria terrorizzato. «Credo che l'unico luogo in cui possa essere al sicuro, almeno per qual-

che ora, sia l'Hotel Palestine» dichiarò Ayed Sahadi. «Lei è matto! L'albergo è pieno di giornalisti e molti conoscono Clara!»

sbottò Gian Maria, sempre più spaventato. «Appunto, deve trovare qualcuno su cui poter contare, forse quella gior-

nalista che piaceva tanto al professor Picot. Può chiederle di nasconderla fino a che io verrò a prenderla. Ma non dovrà uscire dalla sua stanza.»

«Come posso fidarmi di quella donna?» gli domandò Clara. «La giornalista ci tiene al professor Picot e lui non vorrebbe venire a sa-

pere che a lei, Clara, è successo qualcosa perché le è stato rifiutato un aiu-to; questo incrinerebbe i loro rapporti. Dunque, anche se non nutre una particolare simpatia nei suoi confronti, le darà una mano.»

«Caspita, abbiamo uno psicologo!» commentò sarcastica Clara. «Non perdiamo tempo, se ne vada. Nasconda il volto. Fatima la aiuterà a

sistemarsi il velo come lo portano le donne sciite. E lasci quella borsa che ha in mano: è troppo grande. Dovrà nascondere le tavolette da un'altra par-te. Cerchi qualcosa di più piccolo...»

«Non ci stanno...» protestò Clara.

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«Abbiamo un carrello per la spesa» ricordò Fatima. «Forse è della misu-ra giusta.»

«Buona idea!» esclamò Clara «Ti accompagno» propose Gian Maria. «Se lo levi dalla testa! Vuole farci ammazzare tutti? Se ne vada, Clara. E

voi, fate come vi ho detto. Tra poco qui si scatenerà l'inferno. Il Colonnello vorrà interrogarvi, e chi avrà la peggio sarà lei, Fatima...»

«Lei viene con me!» affermò Clara. «No, non può. Abbiamo un'unica opportunità, non se la faccia scappare.

Adesso tutto dipende da Fatima. Il Colonnello ordinerà di farla torturare, sicuro che lei sappia dov'è scappata la sua padrona. Se lei parlerà, saremo tutti morti... a meno che...»

«A meno che?» domandò Gian Maria. «... Gli si faccia credere che Clara se n'è andata senza dire nulla, o che

qualcuno l'ha rapita e si è portato via anche le tavolette...» disse Ayed Sa-hadi pensando ad alta voce.

«Ma i soldati sosterranno di avere visto uscire una donna che assomi-gliava a Fatima, dunque il sequestro non sembrerà plausibile» commentò Clara, sfiduciata.

«Bene, allora giochiamo il tutto per tutto. Cercate di uscire insieme, se le guardie non vi fermeranno. Andate all'Hotel Palestine, ci vedremo lì. E lei, Gian Maria, si chiuda in camera e faccia finta di dormire. Dov'è il croato?» domandò Ayed Sahadi.

«In una stanza al piano di sotto, vicino alla porta che dà sul garage» lo informò Fatima.

«Meglio così. Speriamo che non si accorga di nulla.» Le due donne si diressero silenziosamente verso la cucina. Cercavano di

non far rumore e quasi trattenevano il respiro. Gian Maria, angosciato, si rifugiò in camera sua, si inginocchiò e iniziò a pregare chiedendo a Dio di aiutarle. Solo Lui avrebbe potuto salvarle, questo lo sapeva.

Clara svuotò il contenuto della borsa nel carrello per la spesa, sisteman-do le tavolette con cura per evitare che rimanessero danneggiate. Poi ab-bracciò Fatima e nel farlo sentì che l'amava come la madre che aveva avu-to appena il tempo di conoscere.

Aprirono la porta della cucina che dava sul giardino posteriore e si dires-sero con passo deciso ma tranquillo verso il cancello esterno. Nessuno ba-dò a loro. Quando furono in strada, Clara mormorò a Fatima di non accele-rare l'andatura. Proseguirono con calma, in silenzio, lasciandosi alle spalle

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la Casa Gialla. Ayed Sahadi si stava accendendo un'altra sigaretta, quando Ahmed Hus-

seini apparve ai piedi della scala e gli domandò nervoso di Clara. «Non mi sono mosso di qui, dunque sarà ancora in camera sua» rispose

Sahadi aspirando il fumo. Ahmed Husseini salì gli scalini con passo rapido, si avvicinò alla porta

della stanza che era stata anche sua e bussò. Non ci fu risposta. «Clara, a-primi!» Si voltò verso Sahadi, che era rimasto impassibile appoggiato al muro, e di nuovo gli chiese della moglie.

«Le ho già detto che non mi sono mosso dalla postazione che mi ha in-dicato il Colonnello. Io non l'ho vista uscire, per cui dovrebbe essere anco-ra lì.»

Ahmed Husseini aprì la porta ed entrò nella stanza. Fatima aveva dispo-sto dei fiori in un vaso sul cassettone; il loro odore mischiato al profumo di Clara impregnava la stanza, provocandogli una fitta di nostalgia. «Clara...» sussurrò aspettandosi di vedere apparire sua moglie tra le ombre che ini-ziavano a spegnere il pomeriggio. Tuttavia, dovette arrendersi all'evidenza che lei non si trovava lì. Uscì dalla stanza e con un'espressione preoccupa-ta tornò a interrogare Sahadi.

«Ma non è in camera sua?» Ayed Sahadi cercò di assumere un tono di voce allarmato.

«Non c'è, e lei deve averla vista uscire...» «No, gliel'assicuro. Qui non è volata una mosca da quando il Colonnello

mi ha messo di guardia. Deve essere lì...» «Non c'è!» ripeté Ahmed. Ayed Sahadi si diresse alla stanza e aprì la porta. Entrò come se real-

mente credesse di trovarvi Clara. «Dobbiamo avvertire subito il Colonnello!» gridò Ahmed Husseini. «Aspetti... potrebbe essere in qualche altra stanza della casa» replicò

Ayed Sahadi. Si misero a cercare dappertutto, senza trovare traccia né di Clara né di

Fatima. Due donne della servitù dissero di avere visto uscire Fatima con un'altra donna, forse una cugina, vestita come una sciita.

Quando tornarono in sala, il Colonnello parlava al cellulare e dal tono non era difficile capire che stava discutendo con qualcuno.

Vedendo i due uomini soli, il Colonnello non fece fatica a immaginare che Clara fosse scomparsa. «Dov'è?» domandò loro in un tono di voce

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freddo come il ghiaccio. «In camera sua non c'è» rispose Ahmed. Il Colonnello rivolse la domanda a Sahadi, nella cui voce questa volta si

percepì la delusione. «Non lo so. Mi sono piazzato tra le due rampe di scale e sono rimasto lì

fino all'arrivo di Ahmed. Dunque, se ne deve essere andata prima che lei mi ordinasse di sorvegliarla. Io non mi sono mosso da lì.»

«L'abbiamo cercata per tutta la casa» disse Ahmed, temendo la reazione del Colonnello.

«Siamo stati degli stupidi!» gridò il Colonnello. «Clara è astuta come suo nonno e ci ha beffati!» Uscì dalla sala abbaiando ordini ai soldati di guardia alla casa.

Un minuto dopo le cameriere venivano interrogate. Uno degli uomini del Colonnello fece uscire dalla stanza Gian Maria e quasi a spintoni lo condusse in sala, dove Ante Plaskic stava già rispondendo alle domande del Colonnello.

«Lei l'ha aiutata a scappare!» urlò il militare. «Le assicuro di no» disse il croato senza mostrare timore. «Sì, invece sì, e confesserà! E lei lo stesso» gridò il Colonnello rivol-

gendosi a Gian Maria. «Cos'è successo?» domandò questi chiedendo perdono a Dio per le men-

zogne. «Dov'è Clara Tannenberg? Deve saperlo! Clara non muoveva un passo

senza di lei! Mi dica dov'è!» «Ma... io... io non so... Clara... Clara...» Gian Maria si sentiva travolto

dagli eventi. Uno dei soldati si avvicinò al Colonnello e gli sussurrò qualcosa sotto-

voce. Le due cameriere non sapevano nulla. Avevano visto uscire Fatima con

un'altra donna e pensavano che fosse una sua parente. Avevano con sé un carrello per la spesa e quindi loro non si erano insospettite.

«Dunque si è vestita come le donne sciite... Bisogna cercare nelle case dei parenti di Fatima» ordinò il Colonnello.

Gian Maria venne picchiato dagli uomini del militare. Il sacerdote pensò che non avrebbe sopportato l'interrogatorio e si raccomandò un'altra volta a Dio, chiedendogli la forza di non tradire Clara. Non lo fece, anche se ave-va perso due denti e gli sanguinava un orecchio quando ebbero finito con lui.

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Ante Plaskic non era in uno stato migliore dopo essere passato tra le mani dei soldati. La fortuna, pensava il croato, era dalla sua parte, perché sarebbe stato normale che l'uomo lo facesse a pezzi, mentre si era limitato a picchiarlo.

«Non sanno nulla» affermò Ayed Sahadi. «E tu come puoi esserne certo?» gli domandò il Colonnello. «Perché se è fuggita, come sembra, non l'avrà detto a nessuno. Lei ci co-

nosce, sa che siamo in grado di far parlare qualsiasi uomo, per cui non avrà corso il rischio di confidarsi.»

Il Colonnello rifletté sulle parole di Ayed Sahadi e assentì. Il suo uomo di fiducia aveva ragione. Clara sapeva che lui avrebbe interrogato tutti in quella casa e che se fosse stato necessario li avrebbe fatti uccidere, quindi non poteva permettersi il lusso di confidare il proprio piano a nessuno. «Hai ragione, Ayed... Bene, lasciate stare quei due. Voglio che gli uomini vigilino la casa» ordinò. «Ce ne torniamo al quartier generale, a organiz-zare la caccia. La piccola Tannenberg pagherà caro per avermi sfidato.»

«Colonnello, mancano solo due giorni, non dovremmo concentrarci su altre questioni?» chiese Ahmed Husseini, facendo uno sforzo per apparire tranquillo davanti al militare.

«Vuoi salvarla? Be', toglitelo dalla testa. Non permetto a nessuno di prendermi in giro!»

«Tra due giorni gli americani e gli inglesi cominceranno a bombardare l'Iraq; si dà il caso che abbiamo un lavoro da fare. Mike Fernández mi ha telefonato questa mattina. È preoccupato, e molto; teme che la morte di Tannenberg comprometta l'operazione» aggiunse Ahmed Husseini.

«Quel berretto verde si preoccupa troppo: noi faremo il nostro lavoro, lui faccia il suo» replicò il Colonnello.

«Signore, insisto a dire che la donna non dovrebbe essere una priorità. La cosa più importante è l'operazione. L'incarico che siamo chiamati a por-tare a termine è delicato e i nostri uomini devono essere pronti ad agire nel momento in cui inizieranno i bombardamenti. Non possiamo permetterci distrazioni. In ogni caso, Clara non può andare molto lontano...»

«Ascolta, Ahmed, io posso occuparmi della piccola Tannenberg e del-l'operazione, mentre tu mi sembri incapace anche solo di tenere d'occhio una donna. I nostri amici di Washington vogliono la Bibbia d'argilla, è la parte più importante dell'affare, per cui l'avranno. Desidero vederti tra mezz'ora nel mio ufficio; chiama mio nipote e fa' in modo che ci sia anche lui.»

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Quando il Colonnello se ne andò, Ahmed Husseini aiutò Gian Maria a sedersi su una poltrona. Poi chiese a una delle cameriere di andare a pren-dere dall'armadietto dei medicinali qualcosa per medicare le ferite del sa-cerdote.

Ante Plaskic era ancora a terra, immobile. Husseini cercò di dargli una mano a rimettersi in piedi, ma il croato era in condizioni peggiori di Gian Maria e riusciva appena a muoversi, per cui non insistette.

I due soldati di guardia nella stanza osservavano impassibili senza fare nulla per prestare soccorso. Erano gli stessi che avevano appena interroga-to il sacerdote e il croato e a loro non importava nulla che quei due vives-sero o morissero. Svolgevano unicamente il loro compito, che era quello di obbedire al Colonnello.

Ayed Sahadi si fece carico della situazione e ordinò ai due uomini di se-tacciare la casa e di assicurarsi che tutte le porte esterne fossero vigilate, come aveva detto il Colonnello.

«Gian Maria, dov'è Clara?» domandò Ahmed. «Non lo so...» rispose il sacerdote in un soffio. «Clara si fida di lei» insistette Ahmed. «Sì, ma non so dove sia, non l'ho più vista da quando siamo arrivati in

questa casa. Io... anch'io vorrei trovarla. Sono preoccupato per quanto po-trebbe accaderle. Il Colonnello... è un uomo terribile.»

Ahmed Husseini si strinse nelle spalle con espressione stanca. Una sen-sazione di nausea gli opprimeva la bocca dello stomaco. «Non voglio che succeda qualcosa a Clara; se sa dov'è me lo dica, se vuole aiutarla. È mia moglie...»

«Non so dove sia, sono preoccupato per lei» ripeté il sacerdote, cercando lo sguardo di Ayed Sahadi.

«Adesso devo andare, il Colonnello mi aspetta nel suo studio» disse Husseini. «Venga anche lei, Ayed; non c'è più tempo. La servitù vi darà una mano. Andatevene quanto prima... se potete, lasciate l'Iraq oggi stesso. Chiamerò il mio ufficio affinché vi venga rilasciato un pass che vi permet-ta di evitare i controlli, sempre che decidiate di lasciare il paese per via ter-ra. Se fossi in voi, comunque, mi metterei in viaggio quanto prima.»

Gian Maria annuì alle parole di Ahmed Husseini. Riusciva appena a muoversi, ma sapeva che era l'unica cosa da fare. «Andrò all'Hotel Palesti-ne» riuscì a dire.

«Al Palestine? E perché mai?» domandò Ahmed. «Perché lì si trova la maggioranza degli stranieri e forse potrò unirmi a

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qualcuno di loro, magari mi aiuteranno...» «Cercherò di farvi avere un'auto che vi porti fino alla frontiera con la

Giordania, anche se non sono sicuro di riuscirci, date le circostanze» af-fermò Ahmed.

«Se non ci sono alternative, le chiederò aiuto, ma preferirei non dover ricorrere a lei. Non conviene indispettire il Colonnello» replicò Gian Ma-ria.

«Andate al Palestine, lì starete meglio che qui. Seguite il consiglio del signor Husseini: lasciate l'Iraq quanto prima» disse Sahadi, scambiando uno sguardo significativo con Gian Maria che non sfuggì ad Ante Plaskic. Prima di uscire dalla stanza, si avvicinò al sacerdote e lo avvertì sottovoce: «Non dica a quell'uomo dov'è Clara. Non mi fido di lui, non è quel che sembra».

Gian Maria non rispose. Quando Ahmed Husseini e Ayed Sahadi se ne furono andati, nella casa

scese il silenzio; solo dal giardino giungeva l'eco di qualche parola scam-biata dai soldati.

Passò più di mezz'ora prima che Ante e Gian Maria potessero muoversi, mentre le due cameriere cercavano di aiutarli, benché, nervose per la situa-zione, non sapessero che cosa fare.

Ante Plaskic chiese loro di portargli un analgesico mentre si puliva dal volto le tracce di sangue. Trascorse del tempo prima che riuscissero ad al-zarsi e a parlare.

Clara e Fatima entrarono nell'Hotel Palestine con passo svelto senza che

nessuno chiedesse loro dov'erano dirette. Fortunatamente c'era una certa confusione nella hall, dove un gruppo di giornalisti stava scaricando l'at-trezzatura da una jeep, mentre altri accorrevano premurosi a dare una ma-no.

Alla reception appresero che Miranda si trovava nella sua stanza, la 501, e che sarebbe stata avvisata subito. Clara attese che il centralinista la con-tattasse al telefono e poi chiese di parlare direttamente con lei, malgrado l'uomo insistesse a voler sapere il suo nome per comunicarlo alla cliente.

«Buongiorno, Miranda, sono un'amica del professor Picot, ci siamo co-nosciute a Safran, posso salire da lei?»

Miranda riconobbe la voce di Clara. Si stupì che la donna non dicesse apertamente chi fosse e che utilizzasse l'artificio di nominare Picot, ma la invitò a salire. Due minuti più tardi, quando aprì la porta della stanza, si

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trovò davanti due donne sciite coperte di nero dalla testa ai piedi. Le fece accomodare e chiuse la porta, curiosa di sapere che cosa fosse successo.

«Grazie, ci ha salvato la vita» le disse Clara mentre si scostava il velo dalla faccia e indicava a Fatima con un gesto di sedersi sull'unica sedia della stanza.

«Sapevo che era lei, ho riconosciuto la sua voce. Ma che succede?» «Devo lasciare l'Iraq, ho trovato la Bibbia d'argilla e vogliono portarme-

la via.» «La Bibbia d'argilla! Allora esiste? Dio mio, Yves non ci crederà!» A Clara non sfuggì il fatto che Miranda si riferisse a Picot con il nome di

battesimo. Ayed Sahadi aveva visto bene: tra la giornalista e il professore c'era qualcosa di più che una semplice simpatia, dunque lei l'avrebbe aiuta-ta per fargli un favore.

«Mi darà una mano?» «A fare cosa?» «Gliel'ho detto, devo andarmene da qui.» «Per prima cosa, mi racconti cos'è successo e chi le vuole portare via la

Bibbia d'argilla. Ce l'ha qui? Me la fa vedere?» Clara infilò la mano nel carrello per la spesa ed estrasse con cura un

pacchetto avvolto in vari teli. Lo posò sul letto di Miranda e iniziò ad a-prirlo fino a lasciare allo scoperto le otto tavolette d'argilla. In un altro pacchetto più piccolo c'erano le due tavolette che il nonno aveva trovato a Carran.

Miranda fu entusiasta di quei pezzetti di terracotta incisi con segni a lei incomprensibili. Quelle tavolette erano esattamente come quelle che l'ave-vano estasiata al Louvre, dove suo padre la portava quando era piccola e le spiegava che gli uomini avevano imparato a scrivere sull'argilla.

Con voce pacata Clara lesse il contenuto delle tavolette e Miranda non poté fare a meno di emozionarsi.

«Come le avete trovate?» chiese. «È stato Gian Maria... be', in realtà abbiamo scoperto un'altra stanza nel

tempio con alcune dozzine di tavolette, di cui parecchie rotte. Gian Maria ha iniziato a classificarle e ha scoperto che tra le altre c'erano queste.»

«Chi vuole portargliele via?» volle sapere la giornalista. «Tutti... mio marito, la gente di Saddam, il Colonnello... credono che

appartengano all'Iraq» rispose come per giustificarsi. «Ed è vero, appartengono all'Iraq» fu la risposta seria di Miranda. «Pensa che il mio paese sia nelle condizioni di conservarle? Crede che a

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Saddam importino? Lei sa bene quanto me che ci sarà la guerra, dunque l'ultima preoccupazione dei nostri governanti è l'archeologia.»

Miranda non pareva molto convinta della spiegazione di Clara; intuiva che c'era qualcosa che lei non le aveva detto. «Chiami Picot...» le suggerì.

«Tutte le comunicazioni sono controllate. Se lo contatto e gli dico ciò che ho trovato, mi localizzeranno e mi porteranno via la Bibbia d'argilla.»

«Ma che cosa vuole...?» «Portarla fuori dall'Iraq e mostrarla al mondo» mentì Clara «far sì che

sia parte dell'esposizione che il professor Picot ha intenzione di organizza-re. Lei sa che mio marito ha ottenuto un permesso per portare fuori dall'I-raq alcuni reperti trovati a Safran. Io voglio che in questa mostra ci sia an-che la Bibbia d'argilla, desidero che il mondo conosca la più straordinaria scoperta archeologica degli ultimi cinquant'anni. La Bibbia d'argilla co-stringerà a rivedere molte teorie storiche e archeologiche. Allo stesso tem-po, provocherà una grande emozione tra i cristiani, poiché è la prova evi-dente dell'esistenza del patriarca Abramo, e del fatto che dobbiamo a lui ciò che sappiamo della Genesi, così com'è descritta nella Bibbia.»

Le due donne si guardarono in silenzio. Diffidavano l'una dell'altra, forse perché tra loro c'era una rivalità di cui non erano pienamente coscienti, causata da Yves Picot. Inoltre, Clara sapeva che la giornalista la conside-rava una protetta dal regime di Saddam, e pertanto non si fidava di lei.

«Non capisco perché non le consentano di portare fuori dal paese quelle tavolette; in fondo suo marito ha ottenuto il nullaosta per trasferire all'este-ro più di venti reperti trovati nel tempio, oltre a non so quante tavolette.»

«Queste tavolette hanno un enorme valore religioso, per non parlare del-l'importanza storica e archeologica. Lei non capisce, ma non sono reperti qualunque: è la Bibbia, la prima Bibbia scritta dall'uomo, ispirata da Dio al patriarca Abramo. Crede che il regime permetterà che escano dall'Iraq? Sono reperti preziosissimi, potrebbero addirittura diventare merce di scambio se le cose si mettessero male per Saddam... Per favore, Miranda, mi aiuti!»

«Mi sta chiedendo di portare fuori dall'Iraq queste tavolette?» «Sì... e anche me...» «E Gian Maria?» «È rimasto alla Casa Gialla, con Ante Plaskic.» «Perché? Perché non sono qui anche loro?» «Perché sono dovuta fuggire. Ayed Sahadi mi ha aiutato, ma se qualcu-

no lo venisse a sapere lo ucciderebbero, come ucciderebbero noi. Gian Ma-

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ria mi raggiungerà appena possibile.» «E il croato?» «Lui non sa nulla, non gli ho detto niente.» «E il caposquadra?» «È disposto ad aiutarmi per denaro, molto denaro, anche se potrebbe tra-

dirmi per un migliore offerente.» «E suo marito?» «Mio marito non sa che sono qui. Non credo che mi denuncerebbe, ma

non voglio correre rischi, né farne correre a lui. Ci stiamo separando, da mesi ciascuno ha scelto la sua strada.»

«Ma io non posso fare nulla» protestò Miranda. «Può permettermi di rimanere qui con Fatima. Nessuno verrà a cercarci

nella sua stanza. Non la disturberemo, dormiremo per terra. Ayed Sahadi ha promesso di venirci a prendere, e se non venisse... be', ci verrà in mente qualcosa.»

«La cercheranno.» «No, nessuno crederà che sono ancora a Baghdad, mi penseranno in fuga

verso qualche frontiera; dato che sono con Fatima, ci cercheranno nella zona che confina con l'Iran, poiché dall'altra parte vivono alcuni suoi pa-renti.»

Miranda accese una sigaretta e si avvicinò alla finestra. Aveva bisogno di riflettere. Sapeva che Clara non le stava dicendo tutta la verità, anche se capiva che era spaventata, e pure Fatima. C'era qualcosa che non quadrava e il suo istinto le suggeriva che se avesse aiutato quella donna si sarebbe potuta mettere nei guai. E poi, non era d'accordo sul fatto che portasse via la Bibbia d'argilla dall'Iraq. Quelle tavolette erano patrimonio degli irache-ni e solo con il loro permesso sarebbero potute uscire dal paese. Era vero che L'Iraq si trovava sull'orlo di un conflitto, che tutti parlavano dell'immi-nente ordine di attacco del presidente Bush, ma c'erano ancora speranze, c'era ancora battaglia nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove paesi potenti come la Russia, la Francia e la Germania si opponevano all'a-zione bellica.

Clara era consapevole dei dubbi della giornalista e le suggerì una solu-zione. «Almeno ci permetta di stare qui fino all'arrivo di Ayed Sahadi. Poi ce ne andremo, non le creeremo alcun problema. Di notte, con il coprifuo-co, ci arresterebbero.»

«Mi piacerebbe sapere che cos'ha fatto per indurre il suo amico Saddam a volerla arrestare» domandò Miranda.

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«Non ho fatto nulla, davvero. Se riesco a uscire dall'Iraq, potrà rendersi conto che non l'ho ingannata, poiché presenterò insieme al professor Picot questa scoperta al mondo intero.»

«Rimanete per questa notte; non c'è molto spazio, ma ci arrangeremo. Ne riparliamo domani. Adesso devo uscire, i miei colleghi mi stanno a-spettando.»

Quando Miranda ebbe chiuso la porta della stanza, Clara provò un senso di sollievo. Era riuscita a vincere la resistenza della giornalista, anche se sapeva che lei non aveva ancora deciso fino a che punto l'avrebbe aiutata. Ma era sicura che non l'avrebbe denunciata, e in fondo questo era tutto ciò di cui aveva bisogno fino a che Ayed Sahadi si fosse messo in contatto con lei o fosse venuto a prenderla.

Nell'ufficio del Colonnello, al quartier generale dei servizi segreti, l'atti-

vità era più intensa del solito. Il militare gridava con qualcuno al telefono, mentre un soldato entrava e usciva ripetutamente depositando sul tavolo del Colonnello carte e documenti, che un altro soldato riponeva in alcune cartelline per poi introdurle in sacchi di plastica nera.

Ahmed Husseini stava sorseggiando un whisky e Ayed Sahadi fumava uno dei suoi sigari aromatici; entrambi in attesa che il Colonnello finisse la conversazione telefonica.

Quando finalmente la terminò i due uomini attesero, trepidanti. «Non vogliono lasciarmi andare: a Palazzo preferiscono che rimanga

qui, a Baghdad. Ho detto all'assistente del presidente che sono un soldato e desidero aggregarmi alla mia unità, che si trova a Bassora, e nel frattempo valutare personalmente la situazione sulla frontiera con il Kuwait. Non so se mi permetteranno di farlo» spiegò loro senza nascondere il proprio di-sappunto.

«Dovrebbe trovarsi alla frontiera dopodomani; Mike Fernández l'aspet-terà nel luogo convenuto per farla uscire dall'Iraq e accompagnarla in Egit-to. Al Cairo dovrà stabilire un contatto con Haydar Annasir, che come lei sa è una delle menti dell'organizzazione di Tannenberg. Sarà lui a darle i documenti e il denaro necessari per vivere tranquillamente il resto della sua vita con una nuova identità» gli spiegò stancamente Ahmed Husseini.

«Lo so, lo so... vuoi suggerirmi tu quel che devo fare? Se non ce ne an-diamo di qui prima del 20, forse non potremo farlo mai più» si lamentò il Colonnello.

«Io devo restare» replicò Ahmed.

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«Tu sei obbligato! Devi coordinare l'operazione, ma a te gli yankee non faranno nulla, gli amici di Tannenberg ce l'hanno assicurato» replicò il Co-lonnello.

«Chissà cosa succederà» disse Ahmed. «Niente! Non succederà niente! Ti porteranno fuori di qui, con Ayed.

Lui rimarrà con te e insieme farete in modo che l'operazione vada a buon fine. Gli uomini di Tannenberg sono già pronti, non puoi esitare; se coglie-ranno segnali di debolezza, andrà tutto a rotoli. Tannenberg non c'è più, dunque devono poter contare su qualcuno: tu sei il marito della nipote, sei il capofamiglia, comportati come tale!» Il tono del Colonnello era alterato.

«Dove sarà Clara?» si domandò Ahmed Husseini a voce alta. «La stiamo cercando. Ho allertato tutti i posti di blocco. Per questo dob-

biamo essere prudenti e non allarmare il Palazzo» disse Ayed Sahadi. «Tua moglie è molto furba, ma non abbastanza da sfuggirmi» aggiunse

il Colonnello. «Se vuole, Colonnello, possiamo rivedere nuovamente i dettagli dell'o-

perazione. Devo incontrarmi con alcuni uomini per dare loro nuove istru-zioni...» intervenne Ayed Sahadi.

«D'accordo» rispose il Colonnello. Miranda durante la cena era distratta. Non poteva smettere di pensare a

Clara. Fu tentata di chiamare Picot a Parigi, o quell'archeologa, Marta Gómez, per chiedere loro cosa fare, ma se i telefoni erano sotto controllo avrebbe rischiato di fare arrestare Clara, e magari sarebbe finita nei guai anche lei per averla aiutata a nascondersi.

«Non stai bene?» «No, sono solo molto stanca.» Il cameraman francese si strinse nelle spalle alla risposta di Miranda. Era

chiaro che la donna non aveva fatto attenzione ai discorsi durante la cena e che le sopracciglia aggrottate erano un segno evidente che qualcosa la pre-occupava.

«Bene, ti dirò quello che disse Lauren Bacall a Humphrey Bogart: "Se hai bisogno di me, fammi un fischio...".»

«Grazie, Jean, ma sto bene. È che comincio a essere snervata, siamo qui da troppo tempo in attesa che gli americani decidano di attaccare; non ne posso più.»

«Tanto vale che ti armi di pazienza, sempre che tu non decida di andar-tene» replicò il francese.

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«No, non me ne voglio andare, ma vorrei che accadesse qualcosa, anche se dev'essere la guerra.»

«Come sempre, sei politicamente scorretta» disse una giornalista inglese che aveva già incontrato in un'altra occasione.

«Lo so, Margaret, lo so, ma siete tutti stanchi quanto me, e scommetto che anche voi non vedete l'ora che accada qualcosa.»

La discussione si protrasse fino a mezzanotte e conclusero la serata in un locale situato nei pressi di viale Baladiya.

Tornata in albergo, Miranda rifiutò di unirsi agli altri per l'ultimo bic-chiere e si diresse in camera sua, ansiosa di sapere se Clara fosse ancora lì.

Aprì piano la porta e trovò le due donne rannicchiate accanto alla parete, coperte con il copriletto. Sia Clara sia Fatima dormivano profondamente, e sui loro volti vide riflesse la stanchezza e la disperazione.

Si svestì senza fare rumore e fu sul punto di chiedere loro di dividere il letto con lei. Poi pensò che sarebbe stato inutile svegliarle, poiché il letto era troppo piccolo per tutte e tre.

«Dov'è Clara?» Gian Maria si aspettava che Ante Plaskic gli facesse quella domanda ed

era preparato a mentire. «Non ne ho idea, magari sapessi dove posso tro-varla. Sono in pena per lei.»

«Lei non se ne sarebbe mai andata senza salutarti» insistette il croato. «Credi che se sapessi dov'è non te lo direi? Lo avrei rivelato anche a

quegli uomini che ci hanno picchiati... Io... io non sono abituato alla vio-lenza, e se avessi saputo...»

«Avresti taciuto, ne sono sicuro» tagliò corto Plaskic. «Caspita, ma tu sei sempre così sicuro di tutto?» «Sì, so di cosa è capace un uomo.» «Io sono un sacerdote.» «Proprio per questo. In guerra, il sacerdote del mio villaggio aiutava la

gente. Un giorno arrivò una pattuglia di paramilitari in cerca di un uomo, un capo delle nostre milizie. L'aveva nascosto in chiesa, ma non lo disse; lo torturarono davanti a tutto il villaggio, lo spellarono vivo, ma lui non parlò. Il suo sacrificio non servì a nulla: trovarono l'uomo e lo uccisero do-po aver raso al suolo il villaggio.»

Gian Maria non poté nascondere il raccapriccio che gli aveva provocato il racconto del croato e facendo uno sforzo si avvicinò a lui e gli appoggiò una mano sulla spalla.

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«Non cerco compassione» disse Ante Plaskic. «Tutti abbiamo bisogno di pietà e compassione» replicò il sacerdote. «Io no.» Era ormai notte ed entrambi parevano essersi ripresi a sufficienza per la-

sciare la Casa Gialla. Le due cameriere li avevano aiutati a preparare l'esi-guo bagaglio. Una di loro gli aveva detto di avere un cugino che viveva poco distante e, se l'avessero pagato bene, li avrebbe potuti portare in auto all'Hotel Palestine. Ante e Gian Maria avevano accettato e adesso atten-devano che la donna tornasse con il cugino.

«Perché non ti fidi di me?» domandò il croato. «Cosa te lo fa pensare?» «Nessuno si fida di me. Non c'era bisogno di un genio per accorgersi che

a Safran io ero di troppo; cercavano tutti di schivarmi, appena potevano.» «Se così fosse stato, di certo il professor Picot non ti avrebbe ammesso

nella squadra e Clara non ti avrebbe permesso di restare.» «Ma io sono talmente insignificante che, malgrado il disagio che provo-

cavo, nessuno badava a me. Se scomparivo dalla vista, smettevano di pen-sare a me; in realtà, passavo le giornate rinchiuso nel magazzino.»

«Vedo che ti autocompatisci.» «Ti sbagli, sono realistico. Io non piacevo a loro, loro non piacevano a

me.» «E allora perché hai accettato l'incarico?» «Tutti abbiamo bisogno di lavorare.» Finalmente la cameriera tornò con il cugino, che li aiutò a salire in auto.

Non impiegarono più di un quarto d'ora a raggiungere il Palestine. C'era ancora gente che tirava tardi tra la hall e il bar. L'impiegato assicurò loro di non avere camere libere; solo dopo molte insistenze, e avere accettato qualche dollaro che gli era stato consegnato con discrezione, spiegò che c'erano due stanze a disposizione, ma in pessime condizioni perché dove-vano essere ristrutturate e, a causa delle circostanze, non era stato ancora possibile iniziare i lavori.

Aveva detto la verità. Le stanze in cui li accompagnò non avevano sem-plicemente bisogno di una mano di vernice; anche la moquette aveva co-nosciuto tempi migliori e i bagni non erano propriamente puliti.

«Dovrete adattarvi. Vi porterò qualche coperta.» Gian Maria volle sapere se Miranda e il resto dei giornalisti che erano

stati a Safran fossero ancora alloggiati lì. L'impiegato rispose di sì. «Bene, magari domani qualcuno sarà disposto a dividere la sua stanza

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con noi...» disse il sacerdote con un barlume di speranza. Miranda dormiva profondamente quando alcuni colpi insistenti alla por-

ta la riportarono alla realtà. Si alzò di scatto e mentre si dirigeva verso l'u-scio inciampò su Clara, che stava ancora dormendo accanto a Fatima.

«Chi è?» chiese a voce bassa e la risposta la sorprese. «Gian Maria; per favore, mi apra, faccia presto.» Il sacerdote entrò nella

stanza guardandosi alle spalle, per paura che qualcuno lo seguisse. «Sono qui? Grazie al cielo!» disse vedendo le due sagome rannicchiate per terra.

«Spero che lei sia in grado di darmi una spiegazione su quello che sta accadendo» lo aggredì la giornalista.

«Se la trovano la uccideranno» rispose Gian Maria guardando in dire-zione di Clara, che in quel momento pareva essersi risvegliata dal sonno.

«Perché?» insistette Miranda. «Perché ha trovato la Bibbia d'argilla e vogliono portargliela via» spiegò

Gian Maria. «Quelle tavolette non le appartengono, sono degli iracheni» replicò Mi-

randa. «Non ci aiuterà?» domandò Clara, ormai completamente sveglia. «Lei vuole trafugare da questo paese qualcosa che non le appartiene.

Non posso giustificare un furto, anche se siamo alla vigilia di una guerra.» «La Bibbia è mia!» rispose Clara con la voce carica di angoscia. «La Bibbia d'argilla è dell'Iraq, per quanto l'abbia trovata lei. E poi non

mi sta dicendo tutta la verità. Lei e suo nonno siete sempre stati protetti dal regime di Saddam, tant'è che suo marito non ha avuto difficoltà a ottenere il benestare affinché il professor Picot potesse portare via dall'Iraq buona parte dei reperti rinvenuti a Safran. Allora, perché vi dovrebbero negare il permesso di fare uscire dal paese le tavolette? Sì, lo so che sono una sco-perta straordinaria, ma ciò non significa che non si possa avere l'autorizza-zione per presentarle al mondo intero nella mostra che Picot allestirà. Non ho capito neanche perché la stiano inseguendo e tanto meno per quale ra-gione una donna del regime dica di essere in pericolo di vita. L'unica spie-gazione plausibile è che lei voglia tenersi ciò che non le appartiene, e que-sto la rende una ladra, qui come in qualsiasi altro paese del mondo. Dun-que vorrei che domani trovasse un altro posto in cui nascondersi. Non vo-glio avere nulla a che vedere con un furto, e dubito che il professor Picot approverebbe il suo comportamento.»

Le parole di Miranda fecero a Clara l'effetto di una secchiata di acqua

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fredda. Fatima, che si era svegliata e osservava la scena seduta per terra, si coprì il volto con le mani.

«E lei, Gian Maria... mi stupisce il suo comportamento. È un sacerdote e non reagisce di fronte a un furto; non solo, ma vuole aiutare il ladro, in questo caso la ladra. Semplicemente, non la capisco» continuò Miranda.

Le parole della giornalista fecero riflettere il sacerdote, che mai aveva dubitato che le tavolette appartenessero a Clara. Dopo qualche secondo di perplessità, rispose a Miranda: «Ha ragione, almeno in parte. Ma credo che le cose non siano come sembrano e come lei le sta descrivendo. Mi guardi negli occhi».

Miranda accese la luce della lampada sul comodino e poté vedere il vol-to massacrato del sacerdote e una mano livida. «Cosa le è successo?» do-mandò allarmata.

«Il Colonnello voleva sapere dove fosse Clara» rispose il sacerdote. «Il Colonnello?» «Non so se ha avuto il tempo di conoscerlo a Safran. È un uomo molto

potente, e vuole le tavolette, ma non per l'Iraq, le vuole per realizzare un affare. Suppongo che Clara possa darci una spiegazione migliore, ma quando ero alla Casa Gialla ho sentito parlare di certi amici di Washington e della guerra, che inizierà domani.»

«La guerra comincerà domani? E quel Colonnello come lo sa? Non ci capisco più niente» disse Miranda.

«È molto complicato da spiegare» intervenne Clara. «Il Colonnello vuo-le la Bibbia d'argilla per venderla; per questo mi perseguita per portarmela via. Io non voglio rubarla, voglio solo farla conoscere al mondo e lasciarla in un luogo sicuro fino alla fine della guerra, quando potrò tornare in I-raq.» Clara aveva elaborato in fretta quella scusa per placare la diffidenza di Miranda.

«Insomma, abbiamo un Colonnello corrotto che vuole le tavolette... Be-ne, allora lo denunci e le consegni alle autorità. Per esempio a suo marito... che io sappia è il direttore del dipartimento di Scavi archeologici, non è così?»

«Non posso» rispose Clara. «Anche suo marito è corrotto? Andiamo, Clara!» «Pensi quello che vuole. Capisco che non mi voglia aiutare, ma ci per-

metta di restare fino a che non farà giorno. Se usciamo ora per strada, ci ar-resteranno. Ayed Sahadi ci ha promesso di tirarci fuori da qui ed è stato lui a suggerirci di rifugiarci in questo albergo. Ma non si preoccupi, all'alba ce

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ne andremo, glielo prometto.» Miranda rimase a guardare Clara senza sapere cosa fare Non si fidava di

lei, in realtà quella donna non le piaceva. Il suo istinto le diceva che non era sincera, che dietro quelle parole disperate si nascondeva un'impostura. «Appena farà giorno, d'accordo» decise infine.

«Per favore, aiuti Gian Maria» la pregò Clara con voce supplichevole. «Non ho bisogno di aiuto, non preoccupatevi» rispose il sacerdote. «E invece sì. Devi lasciare l'Iraq domani stesso, prima che inizino i

bombardamenti. Non sappiamo quanto durerà la guerra. Vattene, se resti qui ti uccideranno. È stato il Colonnello a permetterti di venire?» domandò Clara.

«Ha ordinato ai suoi uomini che picchiassero Ante Plaskic e me e che ci interrogassero. Ayed Sahadi l'ha persuaso a lasciarci stare, assicurandogli che non ci avresti mai detto dove saresti andata. Questo è sembrato con-vincerlo. Tuo marito dava l'impressione di essere disperato; anche se è un alleato del Colonnello, credo che voglia aiutarti.»

«No, non vuole aiutarmi, vuole la Bibbia d'argilla.» «Ahmed non è un uomo cattivo, Clara» replicò Gian Maria. «Devi farmi il favore di andartene. Per me non sarà facile partire, potrei

tardare qualche giorno o addirittura mesi, ma tu devi fuggire subito; se re-sterai, non farai che aumentare la mia angoscia» affermò Clara.

«Molto commovente!» li interruppe Miranda. «Ma voi siete... Non capi-sco, Gian Maria, non capisco ciò che sta facendo.»

«Non posso spiegarglielo, ma le assicuro che sto agendo in pace con la mia coscienza, e sono convinto di non fare nulla di male. Io... io credo che Clara non voglia appropriarsi delle tavolette, che un giorno le restituirà. Lei sa che non sono sue, ma in queste circostanze... Miranda, a volte è tan-to difficile dare delle risposte...»

«Finora, né lei né Clara mi avete dato una spiegazione soddisfacente e io non voglio avere nulla a che fare con questo furto. Quanto al fatto che do-mani scoppierà la guerra, ne siete proprio sicuri?»

«In realtà inizierà il 20, quindi c'è ancora un giorno di tempo perché Gian Maria lasci l'Iraq» affermò Clara.

«Come può essere sicura della data?» chiese la giornalista. «L'ha detto il Colonnello...» «Ma che io sappia il Colonnello fa parte dell'esercito di Saddam, non

degli Stati Uniti, dunque dubito che possa conoscere la data in cui Bush ordinerà di attaccare, a meno che...»

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«In che mondo vive, Miranda?» le domandò Clara amaramente. «E lei?» «In uno in cui alcuni uomini decidono della vita di altri per denaro, per

realizzare affari redditizi. Con questa guerra molti faranno soldi a palate» fu la risposta secca di Clara.

«L'unica cosa che so è che se ci sarà una guerra moriranno tantissimi in-nocenti, e senza alcun motivo» replicò Miranda furiosa.

«Senza motivo? Si sbaglia, gliel'ho appena detto: moriranno perché certi uomini ci guadagneranno sopra, e parecchio, e in più aumenteranno il pro-prio potere. Ecco la ragione di questa guerra, la ragione di tutte le guerre. Né lei né io possiamo fermarle; è la storia, Miranda, la storia dell'umanità. Se ho imparato qualcosa con l'archeologia è che gran parte delle città che riportiamo alla luce sono state distrutte da una guerra o abbandonate dopo una battaglia. Ci sono cose che non si possono cambiare.» Clara parlava con severità, lasciando intendere che provava commiserazione per quelli come Miranda, che parevano non capire la realtà che li circondava.

«Sa, noi due siamo sempre state su fronti differenti. Sono le persone come lei a essere responsabili delle disgrazie dei propri simili» disse la giornalista senza nascondere il disprezzo che provava per l'archeologa.

«Per favore!» cercò di intervenire Gian Maria. «Questa discussione è as-surda, siamo tutti nervosi...»

«Nervosi? Ma ha sentito quello che dice Clara? A questa donna non im-porta di niente e di nessuno, a parte se stessa e la realizzazione dei propri obiettivi. A me sembra... un mostro.»

L'affermazione di Miranda fu come una frustata che lasciò tutti attoniti. Mancavano ancora alcune ore all'alba e la tensione nella stanza iniziava a essere insopportabile.

Clara non fece caso a Miranda e si avvicinò a Gian Maria. «Te ne andrai come ti ho chiesto?»

«E tu? Voglio aiutarti...» «Credi che potremmo partire insieme? Quanto tempo pensi che impie-

gherebbe il Colonnello a trovarci? Ho solo un'opportunità, e non posso giocarmela.»

«Io non voglio che ti accada qualcosa per causa mia, voglio proteggerti» protestò Gian Maria.

Alcuni colpi secchi alla porta li fecero trasalire e restare in silenzio. Mi-randa fece loro un cenno affinché si nascondessero in bagno, poi aprì.

Ayed Sahadi pareva nervoso ed entrò richiudendo l'uscio dietro di sé

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senza dire una parola. Dopo qualche istante domandò: «Dove sono?». «A chi si riferisce?» «Non ho tempo da perdere! Dov'è Clara?» Spinse la porta del bagno e

sorrise. Gian Maria, Clara e Fatima erano schiacciati contro la parete. Sul volto

di Fatima si rifletteva la paura, su quello di Gian Maria la preoccupazione, su quello di Clara la sfida.

«Uscite, ce ne andiamo» ordinò a Clara e a Fatima. «Voglio venire con voi» intervenne Gian Maria. «Saresti d'impiccio» disse Clara. «Perché non lo aiuta ad andarsene?» domandò Ayed a Miranda. «E come? Da quanto mi hanno appena detto, domani scoppierà la guer-

ra, dunque cercare di raggiungere la frontiera sarebbe un suicidio.» Ayed Sahadi guardò Clara con un'espressione di muto rimprovero. Per-

ché aveva rivelato alla giornalista che stava per scoppiare la guerra? «Allo-ra rimanga qui» disse poi rivolto al sacerdote. «Gli americani sanno che questo è l'hotel dei giornalisti, dunque non lo bombarderanno.»

«Voglio venire con voi» insistette Gian Maria. «Non credo possa esserci utile...» replicò Ayed pensando a voce alta. «Gian Maria, non puoi venire. La mia vita è in pericolo.» L'affermazione di Clara pareva non dare adito a dubbi, ma Ayed Sahadi

continuava a meditare sull'opportunità di trarre profitto dalla presenza del sacerdote.

«Dove le porterà?» domandò Gian Maria. «Non glielo dirò. Se il Colonnello decidesse di interrogarla di nuovo

magari non sarebbe magnanimo come l'ultima volta» rispose Ayed. «Sotto tortura potrebbe confessare che Clara è venuta via con lei» disse

Miranda. «Ma non potrà rivelare dove siamo diretti. Andiamo, copritevi il volto e

seguite le mie istruzioni. Ci sono uomini dei servizi segreti dappertutto» spiegò Ayed Sahadi.

«E come usciremo da qui?» chiese Clara. «In un tappeto, o meglio, in due. C'è un camion davanti alla porta di ser-

vizio che sta aspettando di caricare alcuni tappeti: uscirete così dall'hotel. Ci ritroveremo più tardi. Adesso raggiungiamo l'ascensore di servizio.»

Uscirono dalla stanza lasciando soli Miranda e Gian Maria. La giornali-sta pareva sollevata, mentre il sacerdote aveva un'aria desolata.

«Vuole qualcosa da bere?» gli domandò Miranda.

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«Non bevo» rispose lui in un sussurro. «Nemmeno io; ho delle bottiglie perché aiutano a comprare qualche fa-

vore. Ma questa notte credo che berrò qualcosa.» Aprì una bottiglia di bourbon che teneva nell'armadio e se ne versò due

dita. Si portò il bicchiere alle labbra e bevve, sentendo il liquido bruciarle la gola e un secondo dopo scaldarle lo stomaco. «Cosa significa Clara per lei?» domandò all'improvviso al sacerdote.

Gian Maria la guardò senza sapere cosa rispondere. Non poteva dirle la verità. «Non è come pensa; ho un obbligo morale nei suoi confronti, tutto qui.»

«Un obbligo morale? Perché?» «Perché sono un sacerdote, per questo, Miranda. A volte Dio ci mette in

situazioni che non avremmo mai creduto possibili. Mi spiace non poterle dare altre risposte.»

Miranda accettò la spiegazione di Gian Maria. Sapeva che non la ingan-nava e poteva avvertire la sua sofferenza interiore. «Davvero domani scoppierà la guerra?» gli domandò.

«Così hanno detto il Colonnello e Ahmed.» «Oggi è il 19...» «Domani inizieranno i bombardamenti.» «Come fanno a saperlo?» «Non ne ho idea, ho sentito che parlavano di alcuni uomini di Washin-

gton, ma non so altro. Avevano appena finito di malmenarmi...» «Lo vedo... e dov'è Ante Plaskic?» «In camera sua. Con lui si sono accaniti di più, abbiamo fatto fatica a

rimetterci in piedi e a venire fin qui.» «Chi vi ha accompagnati?» «Il cugino di una cameriera di Clara.» «E adesso che intenzioni ha?» «Io? Non lo so. Sento che... sto per crollare. Non posso andarmene dal-

l'Iraq senza sapere che Clara è al sicuro.» «Ma si deve nascondere, e non si potrà mettere in contatto con lei.» Dei colpi alla porta interruppero la conversazione. Miranda e Gian Maria

rimasero in silenzio, come per assicurarsi che si trattasse di un errore. Poi udirono altri colpi e una voce che ordinava loro di aprire.

Clara era pallida e Fatima tremava. Ayed, invece, pareva furioso. «È impossibile uscire da qui! Il Colonnel-

lo non si fida di nessuno, l'hotel è circondato. Hanno notato il camion e i

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soldati lo stanno piantonando. Non ci hanno scoperti perché l'autista non sa nulla, se non che doveva trasportare un carico. Devono restare qui.»

«Qui? No, qui no. Cercatevi un altro posto, di certo non rimarrete in ca-mera mia» replicò Miranda.

«Allora esca e dica ai soldati di arrestarle» la sfidò Ayed. «O le ospiterà qui fino a che avrò la possibilità di portarle via, oppure le arresteranno.»

«Non possono rimanere nella mia stanza!» ripeté lei. «Venite nella mia» propose Gian Maria. «È riuscito ad avere una stanza? A che piano?» domandò Ayed Sahadi. «Al quarto. È un posto orribile, con un solo letto, e la doccia non fun-

ziona, ma ci arrangeremo.» «E Ante Plaskic?» volle sapere Clara. «È al primo piano.» «Potrebbe vederla, non mi stupirei se venisse in camera sua» disse A-

yed. «Può darsi, ma non lo lascerò entrare.» «E gli addetti alle pulizie? Cosa diranno quando vedranno due donne

sciite che non sono registrate all'hotel?» domandò Miranda. «Sentite, la situazione è quella che è, dunque dovremo improvvisare. Se

lei non permette che rimangano qui, andranno nella stanza di Gian Maria. Speriamo che il Colonnello non faccia perquisire l'hotel. Adesso ci mostri dove andare.»

Uscirono seguiti da Gian Maria. Miranda si versò altre due dita di bour-bon, lo bevve d'un fiato e si sdraiò. Era sfinita, aveva bisogno di dormire ma non ci riusciva. Non smetteva di pensare alla notizia che nel giro di po-che ore sarebbe scoppiata la guerra. Come facevano a saperlo Clara e A-yed?

Lo squillo del telefono la fece trasalire. I suoi colleghi la aspettavano per fare colazione e uscire a fare qualche ripresa per le strade di Baghdad. Un quarto d'ora più tardi, con i capelli ancora bagnati dalla doccia, scese nella hall.

Trascorse il resto della giornata in preda al nervosismo, senza sapere che cosa fare: doveva dire ai colleghi che la guerra stava per cominciare o a-vrebbe fatto meglio a tenerlo per sé?

Chiamò il suo capo a Londra e questi le assicurò che molte voci soste-nevano che il conflitto era imminente. Quando gli chiese se avesse infor-mazioni più precise, lui scoppiò a ridere.

«Se sapessi quando bombarderanno, sai che esclusiva? Due giorni fa il

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presidente Bush ha mandato un ultimatum a Saddam; sai bene che stanno evacuando le ambasciate e spingendo gli stranieri ad andarsene, per cui po-trebbero attaccare da un momento all'altro, ma non sappiamo quando. Ti chiamerò, anche se immagino che lo farai prima tu, appena scoppierà la guerra.»

Miranda non fece nulla per avere notizie di Clara e di Gian Maria. Sape-va che erano nell'albergo ed era preoccupata per quello che sarebbe potuto succedere, ma al tempo stesso era determinata a non diventare complice di un furto; perché era quello che Clara stava compiendo: il furto della Bibbia d'argilla.

Quella notte Miranda fece le ore piccole con i colleghi, sicura che il ru-more delle bombe non avrebbe tardato a farsi sentire. Quando all'improv-viso il cielo iniziò a illuminarsi con raffiche di fuoco e un frastuono assor-dante rimbombò nell'aria, provò paura. Era il 20 marzo, e la guerra era cominciata.

Qualche ora più tardi, attraverso le rispettive redazioni, i giornalisti di-staccati a Baghdad seppero che le forze della coalizione erano entrate in Iraq. Il dado era stato tratto.

39

Mike Fernández guardò impaziente l'orologio. Le truppe americane e

britanniche avevano iniziato l'invasione via terra dell'Iraq; alla stessa ora sarebbe dovuta cominciare l'operazione che aveva preparato minuziosa-mente insieme a Tannenberg nel corso dell'anno. L'ex colonnello dei ber-retti verdi si disse che nulla sarebbe andato storto, che neppure la morte di Alfred Tannenberg avrebbe mandato all'aria i programmi. C'era parecchio denaro in gioco; gli uomini sapevano che avrebbero guadagnato un sacco di soldi se avessero recuperato il bottino e si fossero trovati nel luogo pre-stabilito. In poche ore se ne sarebbero andati dall'Iraq.

A Baghdad, in quello stesso istante, un gruppo di uomini in uniforme militare aspettava il segnale del suo capo per lasciare il magazzino in cui si era nascosto qualche ora prima.

Tutti avevano servito per anni Alfred Tannenberg. L'omicidio dell'uomo al quale avevano obbedito li aveva gettali nello sconforto, ma il genero di Tannenberg aveva assicurato che non ci sarebbero stati cambiamenti nel-l'operazione e, ben più importante, che tutti avrebbero guadagnato in base agli obiettivi raggiunti. Ora era lui il capo della famiglia Tannenberg e si

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aspettava da loro la stessa professionalità e la stessa lealtà che avevano sempre dimostrato al suocero.

Il denaro che avrebbero intascato avrebbe assicurato loro un futuro senza problemi, dunque non avevano esitato ad accettare di portare a termine l'incarico. Ciò che avrebbero fatto dopo, nessuno lo poteva sapere. Sareb-bero stati leali fino al momento di passare la frontiera con il Kuwait e con-segnare il bottino a quell'ufficiale americano, un tipo in gamba, che sapeva comandare e farsi obbedire.

Lo squillo del cellulare del capo fece loro capire che era giunto il mo-mento.

Questi rispose e ascoltò l'ordine che aspettavano per dare inizio all'ope-razione. «Andiamo» disse poi.

Si alzarono in piedi e controllarono ancora una volta le armi, si infilaro-no il passamontagna per coprirsi il volto e, grazie alla divisa nera, si con-fusero con le ombre della notte mentre salivano sull'automezzo militare che li attendeva.

Le bombe e le batterie antiaeree illuminavano il cielo di Baghdad e le si-rene scatenavano la paura dei cittadini barricati in casa. Incrociarono altri veicoli militari senza dare nell'occhio e finalmente giunsero all'entrata po-steriore del Museo nazionale di Baghdad. In pochi secondi erano dentro.

Alcune delle guardie che vigilavano il museo se n'erano andate ore pri-ma, altri avevano insistito per lavorare quella notte. Il rumore delle bombe e i black-out non sembravano spaventarli. Avevano scollegato tutti gli al-larmi e il museo era rimasto in balia del proprio destino.

Gli uomini con i passamontagna, muniti di sacchi di plastica, passarono silenziosi di piano in piano raccogliendo con cura gli oggetti indicati negli elenchi che avevano con sé. Il loro capo si assicurava che non venissero danneggiati e prestava attenzione che nessuno cedesse alla tentazione di farli scivolare fuori dalle borse di plastica.

In meno di un quarto d'ora avevano recuperato pannelli di marmo fine-mente scolpiti, armi, attrezzi, brocche di terracotta, tavolette, statue e scul-ture in basalto, arenaria, diorite e alabastro, in oro e argento, oggetti di le-gno, sigilli cilindrici... I reperti sottratti erano talmente numerosi che quasi non riuscivano a trasportarli.

Poi, con la stessa rapidità con cui erano entrati, gli uomini si allontana-rono dal museo. Nessun abitante di Baghdad avrebbe pensato che quella notte stessero derubando il loro patrimonio artistico, erano troppo intenti a pregare sperando di sopravvivere.

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Ahmed Husseini aspettava impaziente nell'oscurità del suo studio. Al suono del cellulare sentì il cuore accelerare i battiti.

«Fatto, ce ne andiamo» gli annunciò il capo del commando. «È andato tutto bene?» «Sì, non ci sono stati contrattempi.» Due minuti più tardi un secondo uomo gli diede un'altra notizia: aveva

appena lasciato con la sua squadra il museo di Mosul. Come a Baghdad, non avevano avuto difficoltà a entrare e a uscire dall'edificio a tempo di record. Era stato un vantaggio sapere in anticipo che cosa avrebbero dovu-to portare via. La lista preparata da Ahmed Husseini evitava agli uomini di caricarsi di oggetti non indispensabili.

Il direttore del dipartimento di Scavi archeologici aveva dato mostra del-la sua conoscenza dell'arte quando aveva elaborato gli elenchi degli oggetti da recuperare.

Altre chiamate, da Kairah, Tikrit e Bassora, si susseguirono di lì a breve. Il commando di Alfred Tannenberg aveva percorso il paese in lungo e in largo portando a termine la missione con successo: le loro sacche contene-vano l'anima dell'Iraq, la sua storia; in realtà, erano carichi di gran parte della storia dell'umanità.

Ahmed Husseini si accese una sigaretta. Accanto a lui, il nipote del Co-lonnello parlava a un altro telefono per informare suo zio del successo del-l'operazione, anche se in realtà non si sarebbe conclusa fino a che ogni commando non fosse giunto alla propria destinazione in Kuwait, in Siria, in Giordania.

Le luci dello studio erano rimaste spente. Erano soli al ministero o, al-meno, era ciò che credevano. Il Colonnello aveva ordinato loro di non muoversi da lì per coordinare le operazioni, per cui avevano accostato le persiane e chiuso le finestre per evitare di trasformarsi in bersaglio per le bombe che cadevano ovunque.

Come e quando sarebbero usciti dall'Iraq? Il Colonnello aveva assicurato ad Ahmed che il suo uomo migliore, Ayed Sahadi, li avrebbe tirati fuori al momento opportuno, ma Ayed non si era ancora messo in contatto con lo-ro e magari in quel momento era impegnato a combattere con la sua unità o era partito con il Colonnello per Bassora, e da lì avrebbe raggiunto il Kuwait.

Da quando era morto Alfred Tannenberg, Husseini non si fidava più del Colonnello; in realtà, non si fidava più di nessuno, perché sapeva che non gli avrebbero riconosciuto la stessa autorità che aveva avuto il nonno di

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Clara. Se l'avessero dovuto sacrificare, l'avrebbero fatto senza esitazioni. Ma sarebbero passate ancora molte ore prima di sapere se l'avrebbero ab-bandonato al suo destino o se effettivamente Ayed sarebbe andato a pren-derlo.

Paul Dukais accese una sigaretta. Aveva appena ricevuto una telefonata

da Mike Fernández che gli confermava il successo dell'operazione. «Noi abbiamo fatto l'impossibile, adesso tocca a lei compiere solo u-

n'impresa difficile» scherzò l'ex berretto verde. «Spero di non fare figuracce» replicò Dukais con ironia. «Voi avete ese-

guito un buon lavoro.» «È vero.» «Qualche ferito?» «Alcune squadre sono state costrette a difendersi, ma nulla di grave, si-

gnore.» «Bene, appena torni a casa, la tua missione è terminata.» «Voglio prima assicurarmi che il carico giunga nel luogo stabilito.» «D'accordo.» Il presidente della Planet Security si fregò le mani soddisfatto. Non era

suo l'affare dei reperti antichi, ma consegnare il prezioso carico al destina-tario gli avrebbe reso grandi benefici, oltre a una percentuale del due per cento sul valore complessivo degli oggetti venduti.

Robert Brown e Ralph Barry stavano preparando la riunione annuale del patronato della fondazione quando Paul Dukais comunicò loro la buona notizia. I due uomini brindarono immediatamente servendosi un doppio whisky. Se di fronte a una notizia come quella il Mentore George Wagner non sorrideva, era perché quell'uomo non si emozionava mai, per niente e per nessuno.

«Dimmi, Paul, e adesso?» domandò Robert Brown. «Adesso il carico verrà debitamente imballato e ha qualche giorno, spero

non più di due o tre, giungerà a destinazione. Una parte andrà direttamente in Spagna, un'altra in Brasile e un'altra qui negli Stati Uniti. Alfred non è più tra noi, ma Haydar Annasir, il suo braccio destro, ha un elenco detta-gliato con la destinazione di ciascun lotto. Se non ci saranno contrattempi, e non vedo perché ci dovrebbero essere, l'operazione potrà considerarsi conclusa.»

«Che ne è di Ahmed Husseini e di Clara?» «Mike dice che Clara è scomparsa, e con lei le tavolette, anche se prima

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o poi la troveremo. Nessuno può sparire per sempre con un tesoro archeo-logico. Quanto al buon Ahmed, potrà lasciare l'Iraq appena arriveranno i nostri uomini, è questione di giorni.»

«Sei sicuro che riusciranno a farlo espatriare? Era un uomo del regi-me...»

«Ahmed era un uomo di Tannenberg, e quindi vicino a Saddam, ma non giudichiamolo male...» rispose cinico Dukais.

«Naturalmente apprezzo le sue conoscenze e la sua statura intellettuale» disse Robert Brown.

«Quanto a Clara, non ti preoccupare, la troveremo; oltre al Colonnello, le ho messo alle costole un tizio molto speciale che la sta cercando. Le è stato vicino durante gli ultimi mesi. Se qualcuno può rintracciarla, questo è lui.»

«Si trova a Baghdad?» «Il mio uomo? Sì, è rimasto là insieme a Clara. Ti assicuro che la trove-

rà.» «Quello che mi preme è la Bibbia d'argilla...» Paul Dukais ridacchiò. «Se rintracciamo Clara, troveremo le tavolette;

non potrà resistere alla nostra offerta.» Clara si trovava rinchiusa nella stanzetta dell'albergo da alcuni giorni.

Temeva che in qualsiasi momento si aprisse la porta e il Colonnello entras-se per ucciderla.

Non aveva più visto Miranda, anche se sapeva da Gian Maria che aveva chiesto di lei. Almeno la giornalista aveva mantenuto il segreto sul suo na-scondiglio.

Da parte sua, Gian Maria schivava quotidianamente le domande di Ante Plaskic su Clara. Il croato non si fidava di lui e il sacerdote aveva finito per diffidare di Plaskic a causa delle sue insistenti domande sulla nipote di Tannenberg. Fortunatamente, la confusione creata dalla guerra dava respi-ro a Gian Maria. Era già tanto pensare a sopravvivere.

«Ayed non è tornato» si lamentò Clara. «Non preoccuparti, in qualche modo usciremo da qui» la consolò il sa-

cerdote. «Ma, come? Non ti rendi conto che siamo in mezzo a una guerra? Se

vincono gli americani mi arresteranno, e se vince Saddam non me ne potrò comunque andare.»

«Confida nel Signore. Grazie a lui ci siamo salvati fino a ora.»

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Clara non voleva ferire i sentimenti di Gian Maria dicendogli che lei confidava non nel Signore, ma solo nelle proprie forze, così si limitò ad annuire in silenzio.

La preoccupavano le condizioni di Fatima. La donna non mangiava qua-si più e stava dimagrendo a vista d'occhio. Non si lamentava, ma il suo volto rifletteva una grande sofferenza. Clara insisteva perché le raccontas-se che cosa la turbasse oltre all'angoscia dell'incertezza, ma Fatima non ri-spondeva e le accarezzava il viso mentre gli occhi le si riempivano di la-crime.

Ascoltava la radio, la BBC e altre emittenti che riusciva a captare tramite le onde corte, ma era Gian Maria a darle le informazioni più fresche, quelle che i corrispondenti di Baghdad trasmettevano alle loro redazioni.

Il 2 aprile Gian Maria entrò nella stanza annunciando che le truppe sta-tunitensi erano arrivate alla periferia di Baghdad e il giorno dopo disse che gli americani tenevano sotto controllo l'aeroporto internazionale della città, a sud.

«Dov'è Ayed Sahadi? Per quale ragione non è tornato?» domandò Clara. Gian Maria non aveva risposte. Aveva composto varie volte i numeri di

telefono di Ayed, e se all'inizio aveva risposto una voce rauca, negli ultimi giorni gli squilli suonavano a vuoto.

«Mi avrà tradita?» «Se l'avesse fatto ci avrebbero arrestati» le fece notare Gian Maria. «Allora, perché non è venuto o, almeno, non ci ha avvisati?» «Non avrà potuto, magari il Colonnello lo tiene sotto controllo.» Una sera Gian Maria giunse nella stanza accompagnato da Miranda. «Il suo amico croato fa molte domande su di lei» disse la giornalista a

Clara. «Lo so, ma Ayed Sahadi mi aveva avvertita, mi aveva detto di non fi-

darmi di lui.» «Sa che lei è qui, era impossibile mantenere il segreto» affermò Miran-

da. «Chi gliel'ha detto?» domandò Clara. «In realtà, l'hotel è pieno di iracheni. Molti miei colleghi hanno accolto i

loro interpreti, altri degli amici, e gli stessi impiegati dell'hotel hanno dato rifugio ai familiari, sapendo che qui hanno qualche possibilità di sopravvi-vere. Gli americani e gli inglesi sono al corrente che i giornalisti alloggia-no nell'edificio, per questo nessuno dell'hotel si è sorpreso della sua pre-senza. Non c'era bisogno che Gian Maria dispensasse mance per far sì che

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chiudessero un occhio su di lei e su Fatima. Ma prima o poi era inevitabile che il suo amico Ante Plaskic se ne accorgesse. Mi ha appena abbordato per chiedermi di lei e, quando gli ho detto che non sapevo nulla, mi ha ri-sposto che era sicuro che lei si trovasse qui, rifugiata nella stanza del prete. Gli ho mentito, gli ho detto che Gian Maria aveva nascosto dei conoscenti, ma immagino che non l'abbia bevuta... nemmeno io ci avrei creduto. Vole-vo solo avvisarvi di prestare attenzione.»

«Cosa possiamo fare?» domandò Gian Maria a Miranda. «Non lo so. Non capisco perché non vi fidiate di Plaskic; comunque lui

insiste nel volervi incontrare, quindi credo che capiterà qui da un momento all'altro per verificare se ho mentito, se effettivamente in questa camera ci sono degli sconosciuti o se c'è Clara.»

«Allora devo andarmene» affermò Clara. «Non puoi farlo. Ti prenderanno!» esclamò spaventato Gian Maria. «Sono stanca di rimanere chiusa in questa stanza» dichiarò Clara. «Si calmi!» le ordinò Miranda. «Facendo l'isterica non otterrà nulla.» «Allora le permetta di nascondersi in camera sua» la implorò Gian Ma-

ria. «No, mi dispiace, le ho già spiegato che non condivido quello che state

architettando.» «Non abbiamo fatto nulla di male» si difese Gian Maria. «A parte rubare» fu la risposta pungente di Miranda. «Io non ho rubato!» protestò Clara. «Gli scavi li hanno pagati il profes-

sor Picot e mio nonno, anzi, la maggior parte delle attrezzature e degli in-vestimenti è stata a carico di mio nonno. Ho già detto che restituirò queste tavolette il giorno in cui l'Iraq tornerà a essere un paese pacificato. Gian Maria mi ha riferito che è stato saccheggiato il Museo nazionale, per cui a chi dovrei consegnare le tavolette? A Saddam?»

Miranda rimase in silenzio, turbata dalla reazione di Clara. «D'accordo, andate in camera mia, ma giusto il tempo perché il suo amico croato si convinca che lei non è qui. Tenga la chiave e salga, io me ne vado, i miei colleghi mi stanno aspettando; nel caso non lo sapesse, ci sono già unità americane in alcuni quartieri periferici di Baghdad. Da un momento all'al-tro occuperanno il centro della città.»

«Stia attenta» le disse Gian Maria. Miranda gli sorrise e uscì dalla stanza senza salutare. Quando la giornalista tornò, qualche ora più tardi, trovò Clara e Fatima

sedute sul letto di camera sua. «Hanno iniziato a distruggere le statue del

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vostro amico Saddam» disse loro a mo' di saluto. «Chi?» «Gli iracheni.» «Li avranno pagati» commentò Clara, mentre Fatima scoppiava in la-

crime. «La scena è stata filmata dalle televisioni di mezzo mondo. Ah! Gli ame-

ricani hanno praticamente il controllo della città. Questo 9 aprile passerà alla storia» disse Miranda in tono sarcastico.

«Non so proprio che fare...» mormorò Clara sottovoce. «Non è facile darle un consiglio» replicò Miranda. «Dov'è Saddam?» domandò all'improvviso Fatima, sorprendendo le due

donne. «Nessuno lo sa, suppongo si sia nascosto. Ufficialmente la guerra l'han-

no già vinta le truppe della coalizione, ma in giro ci sono dei cecchini e al-cune unità dell'esercito iracheno che non si sono ancora arrese» rispose Miranda.

«Ma chi comanda adesso in Iraq?» insistette Fatima. «In questo momento, nessuno. Baghdad è una città in stato d'assedio in

cui i vincitori non hanno ancora il controllo della situazione e i perdenti non si sono ancora arresi del tutto, anche se molti iracheni sono usciti in strada per salutare i soldati americani. In situazioni come questa è difficile capire ciò che sta accadendo, c'è una gran confusione» spiegò la giornali-sta.

«Le frontiere sono aperte?» domandò Clara. «Non so, suppongo di no. Immagino che parecchi iracheni cercheranno

di fuggire di nascosto nei paesi vicini.» «E lei fino a quando resterà in Iraq?» volle sapere Clara. «Fino a che il mio capo me lo permetterà. Quando questa guerra non fa-

rà più notizia me ne andrò, ma non so se accadrà tra una settimana o un mese.»

Gian Maria sapeva di non essere riuscito a convincere Ante Plaskic ri-

guardo a Clara. Aveva avuto una lunga conversazione con il croato, in cui gli aveva detto una bugia dietro l'altra.

«Ma, come puoi pensare che Clara sia in camera mia!» lo aveva rimpro-verato. «Ho ospitato due persone che ho conosciuto quando lavoravo qui per un'organizzazione non governativa. Mi hanno chiesto aiuto perché quest'hotel è ormai l'unico luogo sicuro in tutta Baghdad.»

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Poi l'aveva invitato a controllare la sua camera, pensando che ad Ante Plaskic sarebbe bastato, anche se non era difficile capire che non sarebbe stato così.

«Non credi che sia giunto il momento di andarcene?» «Mi pare difficile uscire adesso dall'Iraq. Per prima cosa dovremo atten-

dere che ripristinino le comunicazioni e poi procurarci un'auto che ci porti alla frontiera... non so, mi sembra pericoloso.»

«Chiediamo a Miranda, ho sentito dire da alcuni giornalisti che appena gli americani avranno vinto la guerra se ne andranno» aveva insistito il croato.

«Bene, allora potremmo provare a partire con loro, anche se io forse ri-marrò a dare una mano. Qui la gente avrà bisogno di aiuto, gli effetti della guerra sono terribili. Ci sono intere famiglie distrutte, bambini che hanno perso i genitori, uomini e donne mutilati... Sono un sacerdote, Ante, e qui potrò rendermi utile» si era giustificato Gian Maria.

Il 15 aprile le forze della coalizione considerarono la guerra terminata e vinta. Baghdad era nel caos e gli iracheni si lamentavano degli espropri subiti. Il Museo nazionale era stato raso al suolo, come altri musei irache-ni, e molti connazionali si sentivano oltraggiati nell'orgoglio patriottico.

Ahmed Husseini era oppresso dal senso di colpa per il tradimento che lui stesso aveva organizzato. Ayed Sahadi gli aveva spiegato che i pezzi rubati si trovavano ormai fuori dall'Iraq, in luoghi sicuri, e che molto presto en-trambi sarebbero stati immensamente ricchi. Dovevano semplicemente a-spettare che arrivasse il loro contatto. Paul Dukais aveva già pianificato tutto: uno dei suoi uomini sarebbe andato a prenderli con i permessi neces-sari per farli uscire dal paese senza che nessuno facesse domande indiscre-te.

Ayed Sahadi non era nemmeno disposto a rinunciare ai soldi di Clara. Non era andato a cercarla in albergo, sapendo che lì sarebbe stata più al si-curo che in qualsiasi altro luogo in cui lui l'avrebbe potuta portare, tenendo conto che il Colonnello aveva occhi e orecchie dappertutto. Aveva corso un rischio inutile la notte in cui era andato a prenderla, dunque aveva deci-so di lasciarla al suo destino fino a che la situazione non fosse stata più calma. Adesso il Colonnello era in salvo: aveva attraversato la frontiera con il Kuwait, dove, grazie a un passaporto falso, aveva assunto un'altra identità. In quel momento riposava in un lussuoso albergo del Cairo.

Quando Ayed Sahadi entrò nella hall dell'Hotel Palestine, riconobbe Mi-randa in un capannello di giornalisti che stavano discutendo animatamente

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con alcuni ufficiali americani. Attese che la donna si allontanasse dal gruppo, poi le si avvicinò. «Mi-

randa...» «Ayed! Credevo che fosse scomparso per sempre. I suoi amici erano in

pensiero...» «Lo immagino, ma se fossi venuto avrei messo in pericolo la vostra vita;

e poi sapevo che con Gian Maria la nostra amica era in buone mani.» «Stupendo! Lei è di quelli che scaricano il barile sugli altri» protestò Mi-

randa, facendo sorridere Ayed. «Bene, mi dica dove sono.» «Sono in camera mia. Il croato continua a domandare di Clara, ma lei

non vuole farsi trovare, quindi ho dovuto nasconderla.» «Non si preoccupi, sono venuto a prenderla.» «E dove andrete, se posso saperlo?» «Prima in Giordania, poi in Egitto. La signora Clara ha una bellissima

casa al Cairo, e lì l'aspetta la fortuna di suo nonno. Non gliel'ha detto?» «E come arriverete in Giordania?» «Ci porteranno degli amici.» «E Gian Maria?» Ayed Sahadi si strinse nelle spalle. Non aveva intenzione di portare con

sé il sacerdote. Non faceva parte del patto con Clara, dunque per quel che lo riguardava Gian Maria poteva andarsene anche all'inferno.

Miranda lo accompagnò subito in camera sua, impaziente di non avere più niente a che fare con Clara.

Questa ascoltò in silenzio le spiegazioni di Ayed Sahadi. «Mi occuperò io della sua incolumità» le assicurò. «Altrimenti non prenderà nemmeno un dollaro» lo minacciò Clara. «Lo so.» «Voglio venire con voi» li interruppe Gian Maria. Clara guardò Ayed e non gli diede il tempo di ribattere. «Verrà con noi.

Fa parte del patto.» «Allora dovrà darmi di più, e poi bisognerà vedere se gli uomini incari-

cati di farci uscire dal paese vorranno farsi carico di una persona in più.» «Lui viene con me» dichiarò Clara indicando Gian Maria. «E che ne sarà del suo amico Ante Plaskic?» domandò Miranda. «Ce lo saluti lei» rispose Ayed Sahadi. «Molto divertente!» esclamò Miranda. Quando uscirono dall'hotel nessuno parve far caso ad Ayed Sahadi e alle

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due donne vestite di nero dalla testa ai piedi. Tuttavia i tre, seguiti da Gian Maria, non si accorsero che Ante Plaskic era in agguato in un angolo della hall.

Al croato non sfuggì che Clara teneva stretta a sé una borsa, dove di cer-to dovevano essere state riposte le tavolette, la Bibbia d'argilla. Avrebbe semplicemente dovuto pedinarla e portargliele via con le buone o con le cattive, anche a costo di uccidere Ayed Sahadi.

Ma le sue intenzioni furono subito frustrate. I due uomini e le due donne salirono su un'auto che scomparve nel caos cittadino. Aveva di nuovo per-so Clara e adesso avrebbe dovuto cercarla fuori dall'Iraq, ma lui sapeva dove: presto o tardi la donna si sarebbe incontrata con Yves Picot, dunque si trattava di arrivare prima di lei e aspettare.

Alla stessa conclusione di Ante Plaskic era giunto molto tempo prima Lion Doyle, determinato a portare a buon fine la seconda parte del suo in-carico: l'eliminazione di Clara. Il professor Picot era il suo filo di Arianna.

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Roma era bella, come sempre. Gian Maria pensava a come fosse potuto

vivere così a lungo lontano dalla sua città. In quel momento si rese conto di quanto gli fosse mancata la piacevole quotidianità: le preghiere del mat-tino, la lettura tranquilla...

Entrò in clinica e si diresse nello studio di suo padre. Maria, la segretaria del dottor Carlo Cipriani, lo salutò con affetto.

«Gian Maria, che gioia!» «Grazie, Maria.» «Si accomodi, si accomodi. Suo padre non è occupato in questo momen-

to, ma non mi aveva avvertito del suo arrivo...» «Voglio fargli una sorpresa; non lo avvisi, per favore.» Bussò dolcemente alla porta per annunciarsi ed entrò. Carlo Cipriani rimase di stucco quando vide suo figlio. Si alzò a fatica,

senza sapere cosa fare o dire. Gian Maria lo guardava senza batter ciglio, immobile in mezzo alla stanza. Carlo notò che era dimagrito e aveva la pelle bruciata dall'aria e dal sole. Non pareva più il giovane dall'aspetto malaticcio e cagionevole che era sempre stato; adesso era un uomo diver-so, che lo stava soppesando con lo sguardo. «Figlio mio!» esclamò ti-moroso, e subito dopo gli andò incontro per abbracciarlo, emozionato.

Il sacerdote rispose all'abbraccio del padre e questi si sentì sollevato.

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«Siediti, adesso telefono ai tuoi fratelli. Antonino e Lara erano molto preoccupati per te. Il tuo superiore non ci dava notizie, se non che stavi bene, ma non ha mai voluto dirci dove fossi finito. Perché te ne sei andato, figlio mio?»

«Per evitare che tu commettessi un crimine, papà.» Carlo Cipriani sentì in quell'istante tutto il peso della propria esistenza

sulle spalle e, incurvandosi, andò a sedersi in poltrona. «Conosci la mia storia, non l'ho mai nascosta né a te né ai tuoi fratelli. Come osi giudicar-mi? Ho implorato il tuo perdono e il perdono di Dio.»

«Tannenberg è morto, assassinato. Ma suppongo che tu lo sappia già.» «Lo so, e non pretenderai...» «Che tu chieda perdono? Non hai appena detto di essere stato al confes-

sionale cercando il perdono per questo crimine?» «Figlio mio!» «Ho fatto il possibile per evitarti questo peso sulla coscienza, ma ho fal-

lito. Ti assicuro che avrei dato la vita affinché tu non dannassi la tua.» «Mi dispiace per il dolore che ti ho causato, ma non credo che Dio mi

condannerà per aver... desiderato la morte del mostro.» «Anche la vita del mostro apparteneva a Dio, e solo Lui poteva toglier-

gliela.» «Vedo che non mi hai perdonato.» «Ti penti, papà?» «No.» La voce di Carlo Cipriani risuonò forte e decisa, senza esitazioni,

mentre guardava negli occhi il figlio. «Cos'hai ottenuto, papà?» «Di fare giustizia, la giustizia che ci venne negata quando eravamo ra-

gazzi indifesi e quel mostro ci chiedeva di frustare le nostre madri, dicendo che erano delle bestie da soma. L'ho vista morire senza poter fare nulla, come mia sorella. Non hai il diritto di giudicarmi.»

«Sono un sacerdote e tuo figlio, e ti voglio bene, papà.» Gian Maria si avvicinò al vecchio e lo abbracciò, mentre entrambi scoppiavano in lacri-me.

«Dove sei stato, figliolo?» «In Iraq, in un piccolo villaggio chiamato Safran, per cercare di impedire

che uccidessero Alfred Tannenberg. E per proteggere Clara.» «Lui non esitò ad assassinare mia sorella. Era sorda e non poteva udire

gli ordini del mostro. La fece a pezzi.» «Clara deve pagare per la morte di tua sorella?» domandò Gian Maria

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molto serio, allontanandosi da suo padre. Il medico non rispose. Si alzò dalla poltrona e gli diede le spalle, ini-

ziando a camminare su e giù per lo studio senza guardare il figlio. «Lei è innocente, non ha fatto alcun male» lo supplicò. «Gian Maria, tu non capisci. Sei un sacerdote, mentre io sono solo un

uomo, magari ai tuoi occhi il peggiore degli uomini. Non giudicarmi, fi-gliolo, cerca solo di perdonarmi.»

«A chi stai chiedendo perdono, a tuo figlio o al sacerdote?» «A tutti e due, figlio mio.» Carlo Cipriani rimase in silenzio nella speranza che Gian Maria lo ab-

bracciasse di nuovo, ma questi lasciò lo studio senza salutarlo, rimprove-randosi per l'ira che gli aveva inondato il cuore.

«Dov'è Clara?» La voce di Enrique giungeva distorta dalle interferenze,

sebbene stessero utilizzando una linea telefonica di massima sicurezza. George Wagner rispose irritato: «A Parigi con il professor Picot. Ma non

preoccuparti, ho appena avuto una conversazione con Paul Dukais e lui mi ha assicurato che un uomo infiltrato nell'ambiente di Picot riuscirà a mette-re le mani sulle tavolette».

«Dovrebbe già esserne in possesso» protestò Enrique Gómez dalla quie-te della sua casa sivigliana.

«Infatti ho detto a Dukais di non pagarlo se non ci consegna la Bibbia d'argilla. Pare che quell'uomo sia appena tornato dall'Iraq e si sia messo di nuovo in contatto con Picot, dunque saprà in qualsiasi momento dove si trovano le tavolette.»

«Organizza una squadra...» gli propose Enrique. «È la stessa cosa che mi ha suggerito Frankie. Lo faremo a tempo debi-

to. Per quel che ne so, il professor Picot deve allestire una mostra con i re-perti che hanno rinvenuto a Safran e presentare alla comunità scientifica e al pubblico la Bibbia d'argilla. Per ora è al sicuro nella cassaforte di una banca. Le tavolette saranno custodite lì finché non inaugureranno la mo-stra, dunque dovremo aspettare quel momento. Fino allora ci sarà utile mantenerci in contatto con l'uomo di Dukais, che faceva già parte del gruppo che scavò in Iraq con il professore; lui potrà tenerci informati sui movimenti di Clara Tannenberg e di Yves Picot.»

«E il marito?» «Ahmed? Gli abbiamo chiesto di non perdere di vista Clara, ma pare che

siano praticamente separati e la donna non si fida più di lui, perché sa che

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lavora per noi; quindi non so quanto possa esserci utile.» «Andiamo, George... Ahmed ci è stato straordinariamente d'aiuto. Se

non fosse stato per lui, l'operazione non sarebbe riuscita.» «L'aveva pianificata Alfred» ribatté George quasi in un sussurro. «Ma è stato lui a eseguirla, con l'ausilio del Colonnello, dunque ricono-

sciamo i loro meriti.» «Si metteranno in tasca un sacco di soldi, ma ora, amico mio, la priorità

è impadronirci della Bibbia d'argilla. Ho un acquirente davvero speciale, qualcuno disposto a pagare parecchi milioni di dollari per avere la prova che Abramo sia esistito e che attraverso di lui si è diffusa la Genesi.»

«Cerchiamo di essere prudenti, George; sarebbe una pazzia mettere le tavolette sul mercato.»

«Aspetteremo, te lo prometto, ma ti assicuro che chi vuole la Bibbia d'argilla non ha affatto intenzione di esibirla né di esporla in un museo.»

«I tuoi uomini della fondazione Mondo Antico hanno fatto l'inventario del materiale?» domandò Enrique.

«Se ne stanno occupando, con l'aiuto di Ahmed.» «Anch'io ho bisogno di una mano per gli oggetti che mi hanno spedito.» «Come pure Frankie; non ti preoccupare, l'ho già detto a Robert Brown e

a Ralph Barry, se ne incaricheranno loro. Comunque, se vuoi accelerare i tempi, Ahmed potrebbe raggiungerti a Siviglia.»

«Come la mettiamo con Clara?» «Ci sta dando un sacco di problemi, con questa sua sfida... È un cattivo

esempio...» «Hai ragione, amico.» Yves Picot ascoltava in silenzio il suo interlocutore che, all'altro capo

del telefono, pareva non avere fretta di terminare la conversazione. Da ol-tre dieci minuti il professore non riusciva a proferire parola, concentrato solo su quello che gli dicevano. Quando finalmente riagganciò, sospirò sollevato. Clara faceva pressione affinché la mostra con gli oggetti del tempio di Safran si facesse quanto prima, incurante delle difficoltà che comportava una simile operazione. Ma Clara Tannenberg insisteva sul fat-to che non ci mettevano sufficiente impegno. I reperti erano imballati, le fotografie di Lion Doyle pronte, ciascuno degli archeologi coinvolti nella missione aveva scritto un testo sulle diverse tematiche degli scavi e sugli oggetti ritrovati e, oltretutto, possedevano la Bibbia d'argilla. Clara aveva bisogno di presentare al mondo quelle tavolette che le scottavano tra le

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mani, poiché sapeva che ogni giorno aumentava il pericolo che gliele por-tassero via, anche se si trovavano nella cassaforte di una banca.

Clara non gli aveva quindi permesso di prendersi un meritato riposo e, da quando si era trasferita a Parigi, gli faceva continue pressioni.

Meno male, pensò, che Marta Gómez era la quintessenza dell'efficienza e poi condivideva con Clara la stessa smania di mettere in moto l'organiz-zazione della mostra. In poche settimane aveva mobilitato fondazioni e u-niversità, ottenendo sostegno e denaro. In realtà, anche lui aveva smosso le acque chiamando alcuni amici influenti del mondo accademico e della fi-nanza, i quali erano stati allettati dall'anticipazione che nell'esposizione si sarebbe fatta conoscere al mondo una grande scoperta.

Stando a ciò che gli aveva riferito Fabián, Marta era riuscita a far sì che la prima destinazione fosse Madrid. Lui avrebbe preferito che l'inaugura-zione si facesse a Parigi, al Louvre, ma avrebbero dovuto aspettare dei me-si. Il Louvre programmava con grande anticipo tutte le esposizioni e le manifestazioni straordinarie.

Fabián gli aveva annunciato che una banca spagnola e due grandi azien-de avevano accettato di finanziare l'organizzazione della mostra. Questo senza contare che anche autorità accademiche dell'università Complutense, così come i funzionari del ministero dell'Istruzione e della Cultura, si erano mostrate entusiaste. Era una grande opportunità per Madrid: sarebbe stata la prima capitale in cui avrebbe avuto luogo l'esposizione, ospitata dal Mu-seo archeologico nazionale; poi la mostra itinerante si sarebbe spostata a Parigi, Berlino, Amsterdam, Londra e New York.

Picot avrebbe chiamato Clara per darle le buone notizie, anche se era praticamente sicuro che se ne fosse già occupata Marta. Le due donne pa-revano avere stretto un rapporto grazie all'impegno che stavano profon-dendo per inaugurare al più presto l'esposizione.

I quattro amici si erano riuniti a Bonn. Hans Hausser aveva chiesto agli

altri di raggiungerlo nella sua città perché negli ultimi giorni non si era sentito bene. Mercedes era preoccupata per l'estrema magrezza di Hans e per il pallore del suo volto.

«Sono stato a Londra, come d'accordo, a trovare Tom Martin. Gli ho detto che non l'avremmo pagato finché il lavoro non fosse stato concluso. Gliel'avevo già anticipato al telefono, ma almeno così non potrà dubitare che faccio sul serio.»

«E lui cosa ti ha risposto?» domandò Mercedes.

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«Che il prezzo è aumentato perché il suo uomo ha impiegato più tempo del previsto a compiere la missione, date le enormi difficoltà che compor-tava. Ma io gli ho risposto che non gli daremo un soldo in più se non ri-spetterà il contratto. Abbiamo discusso, ma poi siamo giunti a un accordo. Se il suo uomo risolverà il problema nei prossimi giorni, gli daremo un e-xtra, in caso contrario, prenderà quanto è stato stipulato.»

«Dov'è Clara Tannenberg?» chiese Bruno Müller. «Fino a qualche giorno fa era a Parigi, adesso si trova a Madrid per or-

ganizzare una mostra dei reperti rinvenuti nel tempio riportato alla luce a Safran» rispose Hans Hausser. «Non so come abbiano fatto, data la situa-zione in Iraq.»

Carlo Cipriani pareva triste e assente, parlava appena e lasciava vagare lo sguardo senza soffermarlo sugli amici.

«Cosa ti preoccupa, Carlo?» gli domandò Hans. «Niente... in realtà, penso che forse dovremmo lasciar perdere. Alfred

Tannenberg è morto, abbiamo ottemperato al nostro giuramento.» «No!» gridò Mercedes. «Non possiamo tirarci indietro! Giurammo che

avremmo ammazzato lui e i suoi discendenti. Clara Tannenberg è la sua unica nipote, l'ultima Tannenberg, e deve morire.»

Bruno Müller e Hans Hausser abbassarono il capo, sapendo che nessuno avrebbe convinto Mercedes del contrario.

«Lo faremo, ma capisco quello che intende dire Carlo. Quella donna è innocente...»

«Innocente? Innocenti erano mia madre, le vostre madri e i nostri fratel-li. Innocenti erano tutti quelli che si trovavano a Mauthausen. No, lei non è innocente, lei è frutto del seme del mostro. Se volete tirarvi indietro, dite-melo... io vado avanti, non mi importa se mi lascerete sola» replicò Mer-cedes con rabbia.

«Per favore, non discutiamo! Faremo ciò che abbiamo stabilito, ma la ri-flessione di Carlo merita di essere tenuta in considerazione» la interruppe Bruno.

«Clara Tannenberg morirà, che lo vogliate o no, ve l'assicuro» affermò Mercedes.

Loro capirono che niente avrebbe potuto impedire la morte della giovane donna.

Ante Plaskic estraeva i libri dalle casse e li collocava con cura sugli scaf-

fali vuoti, sotto lo sguardo attento di una guardia del Museo archeologico.

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Pensò che Yves Picot in realtà era un sentimentale, poiché, nonostante Clara si fosse mostrata reticente ad accettare la sua collaborazione per l'al-lestimento della mostra, il professore aveva sostenuto che non sarebbe sta-to giusto escludere lui né nessuno di coloro che avevano lavorato a Safran. La professoressa Gómez aveva appoggiato la decisione di Picot.

Così, da due settimane Ante Plaskic si trovava a Madrid facendo un po' di tutto. Picot l'aveva messo agli ordini di Marta Gómez, e lei aveva credu-to come il professore alla sua versione, secondo la quale era orgoglioso di poter partecipare all'organizzazione della mostra, frutto dei mesi trascorsi in Iraq.

Fabián e Marta erano riusciti a far pubblicare un catalogo in tempo re-cord: un libro di duecento pagine sul tempio di Safran. Picot era sicuro che le vendite sarebbero state notevoli.

Plaskic osservò di sottecchi Lion Doyle. Non era sorpreso che avesse deciso di partecipare all'organizzazione della mostra. Lion, a differenza di lui, ispirava simpatia in tutti coloro che lo credevano un fotografo. Ma An-te era sicuro che non fosse chi diceva di essere, proprio come Ayed Sahadi.

Da stralci di conversazioni ascoltate per caso, aveva saputo che Sahadi era riuscito a portare Clara sana e salva fuori dall'Iraq insieme al marito, Ahmed Husseini, e li aveva accompagnati al Cairo, dove apparentemente lei aveva deciso di rimanere fino a che la situazione a Baghdad non si fos-se placata. Sembrava che, al Cairo, Clara avesse rotto definitivamente con il marito, dato che Ahmed Husseini non si trovava a Madrid, anche se qualcuno sosteneva che sarebbe arrivato per l'inaugurazione della mostra.

Mentre allineava i libri, Ante Plaskic si disse che non avrebbe potuto fal-lire di nuovo.

L'uomo della Planet Security, la società che l'aveva contattato per im-possessarsi della Bibbia d'argilla, glielo aveva detto chiaramente: doveva impadronirsi immediatamente delle tavolette, per questo avrebbe potuto contare sull'aiuto di una squadra di esperti in furti che avrebbe atteso un segnale per intervenire al momento opportuno.

Durante le ultime settimane quasi non era uscito dal Museo archeologi-co, quindi ormai conosceva bene l'edificio e, cosa ancora più importante, i lavoratori e i guardiani del museo si erano abituati al suo andirivieni. Ante era riuscito a entrare in confidenza con le guardie responsabili della sala in cui si trovavano il sistema d'allarme e i monitor collegati alle telecamere posizionate in ogni angolo del museo.

Aveva ordinato agli uomini del commando di familiarizzare con il posto,

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ma senza dare nell'occhio, cosicché quasi tutti si erano fatti passare per semplici turisti. Non avrebbero avuto molto tempo per prendere le tavolet-te, e andarsene sarebbe stato complicato. Il suo piano consisteva nel rubare la Bibbia d'argilla prima che aprissero la sala in cui sarebbe stata esposta; se non avessero agito prima di allora, sarebbe stato quasi impossibile riu-scire a sottrarre le tavolette, perché non sapeva quanto tempo le avrebbero lasciate in mostra. Picot aveva ordinato di farne delle copie accurate, e questo poteva significare che dopo l'inaugurazione avrebbero potuto la-sciare al museo i duplicati e rimettere gli originali in cassaforte. Plaskic non poteva correre un rischio simile.

Lo preoccupava non essere riuscito a farsi rivelare quando avrebbero trasferito la Bibbia d'argilla, che si trovava in una banca, al Museo archeo-logico. Marta gli aveva detto che l'esistenza delle tavolette era stata mante-nuta segreta e che fino al giorno dell'inaugurazione non avrebbero reso pubblica la scoperta alla stampa.

Clara non aveva nemmeno permesso che le tavolette fossero portate a Roma per essere analizzate dagli esperti del Vaticano. Gian Maria aveva insistito che il migliore avallo della scoperta sarebbe stato un riconosci-mento dell'autenticità della Bibbia d'argilla da parte della Santa Sede, ma la Tannenberg aveva risposto che il Vaticano non avrebbe potuto fare altro che arrendersi all'evidenza.

Mancavano due giorni all'inaugurazione, e i responsabili del museo ave-vano attrezzato una sala dotandola di mezzi di sicurezza straordinari che avrebbero impedito alle tavolette di correre il benché minimo pericolo.

Clara e Picot, insieme a Fabián e a Marta, si erano incaricati personal-mente di allestire la sala, dalle luci, ai pannelli, alla vetrina in cui avrebbe-ro esposto le tavolette, sebbene queste sarebbero state collocate al loro po-sto solo un'ora prima che si aprissero le porte del museo.

«Nervosa?» domandò Yves Picot a Clara. «Sì, un po', ci è costato tanto arrivare fino qui... Sai, mi manca mio non-

no; non meritava di morire così, né che lo privassero di questo momento.» «Non hai ancora idea di chi abbia potuto assassinarlo?» Clara fece segno di no con il capo mentre cercava di trattenere le lacri-

me. «Su, parliamo d'altro» la consolò Picot posandole la mano sulla spalla. «Disturbo?» Yves Picot si allontanò da Clara e fissò Miranda senza sapere cosa dire.

La giornalista era riuscita a entrare nel museo quando mancavano solo al-

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cune ore all'inaugurazione. Clara si avvicinò a Miranda e le diede un bacio sulla guancia, mentre le

diceva di essere contenta di rivederla. Poi uscì dalla sala, lasciandola sola con Picot.

«Non mi sembri molto felice di vedermi...» disse la giornalista all'attoni-to professore.

«Ti ho cercata senza successo, immagino che te l'abbiano detto al gior-nale» rispose lui un po' indispettito.

«Lo so, ma mi sono dovuta fermare in Iraq più del previsto, sai com'è la situazione là...»

«E come hai saputo della mostra?» «Andiamo, professore, sono una giornalista e leggo i quotidiani! A Lon-

dra assicurano che verrà esposta una scoperta straordinaria.» «Sì, la Bibbia d'argilla...» «Lo so, Clara e io abbiamo avuto uno scontro di opinioni in proposito.» «Perché?» «Perché a mio parere quelle tavolette sono state rubate; voglio dire che

appartengono all'Iraq e non sarebbero dovute uscire dal paese senza per-messo.»

«E chi avrebbe potuto darlo? Ti ricordo che la guerra era già iniziata.» «Suo marito si chiama Ahmed Husseini, no? In fondo, era il direttore del

dipartimento di Scavi archeologici.» «Per favore, Miranda, non fare l'ingenua! Comunque non abbiamo in-

tenzione di tenerci le tavolette. Quando la situazione in Iraq sarà più tran-quilla le restituiremo. Nel frattempo rimarranno al Louvre, che è il museo più importante per quanto riguarda la raccolta di arte mesopotamica.»

Fabián li interruppe, nervoso. «Yves, hanno appena telefonato dalla ban-ca; il camion blindato sta arrivando.»

«Andiamogli incontro. Accompagnaci, Miranda.» Una volta depositate le tavolette, Clara chiuse a chiave la vetrina e strin-

se emozionata il braccio a Gian Maria; poi si voltò verso Picot, Fabián e Marta, e sorrise.

Il responsabile della sicurezza del museo tornò a spiegare le misure stra-ordinarie che avevano adottato in quella sala e Clara parve soddisfatta di quanto sentiva.

«Sei molto bella» si complimentò Fabián. Lei, grata, gli diede un bacio sulla fronte. Il tailleur rosso fuoco illumi-

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nava il suo volto abbronzato, su cui risaltava lo sguardo azzurro acciaio. Dieci minuti più tardi le porte del museo furono aperte per fare entrare i

membri del governo spagnolo, la vicepremier e due ministri, oltre ad auto-rità accademiche giunte da ogni parte del mondo per assistere all'inaugura-zione di una mostra che prometteva di essere straordinaria.

Archeologi e professori europei e americani esaltavano gli oggetti espo-sti nelle teche in diverse sale del museo. Intanto, la professoressa Gómez e Fabián Tudela spiegavano alle autorità spagnole le particolarità dei reperti.

I camerieri, carichi di vassoi stracolmi di bevande e tartine, passavano tra gli invitati a cui la visione di tanta bellezza pareva avere stuzzicato l'appetito.

Picot e Clara avevano deciso che solo un'ora più tardi avrebbero mostra-to agli invitati e alla stampa, con una cerimonia solenne, la sala in cui si trovava la Bibbia d'argilla.

Gli invitati discutevano tra loro, avanzando ipotesi sulla rivelazione sor-prendente che avevano promesso per quel sabato pomeriggio.

Ante Plaskic individuò gli uomini della squadra della Planet Security sparpagliati per il museo; alcuni camuffati da camerieri, altri da guardie di sorveglianza, altri ancora da invitati. Non gli sfuggì nemmeno che Lion Doyle, malgrado il sorriso stampato perennemente in volto, pareva molto teso.

Da com'era stato organizzato il piano, non avevano altra scelta che cer-care di impossessarsi delle tavolette prima che si aprissero le porte della sala in cui erano esposte. Avrebbero corso un grosso rischio, ma era l'unica opportunità per trafugare la Bibbia d'argilla. Ripassò mentalmente le seve-re misure di sicurezza che avrebbero dovuto superare e si diresse verso la sala in cui erano installati i sistemi d'allarme. Aveva dieci minuti per pren-dere le tavolette e abbandonare il museo.

«Signore e signori, un minuto di silenzio, per favore» chiese Yves Picot. «Vi prego di terminare la visita in queste sale, perché tra quindici minuti vi chiederò di accompagnarmi in una sala speciale in cui abbiamo depositato un tesoro archeologico di valore inestimabile, la cui scoperta avrà enormi ripercussioni non solo nella comunità accademica ma anche nella società civile e religiosa. Venite con noi, per favore.»

Il professor Yves Picot, Marta Gómez e Fabián Tudela stavano spiegan-do alla vicepremier l'importanza della scoperta della Bibbia d'argilla; un po' più indietro li seguiva Clara, insieme a un ministro e al rettore dell'uni-versità di Madrid.

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Una donna elegantemente vestita, con un tailleur di Chanel, e un volto bello e sereno nonostante l'età, si avvicinò a Clara. Le sorrise e lei ricam-biò. Poi, come se qualcuno le avesse dato una spinta, la sconosciuta si scontrò con Clara. Nel separarsi, quest'ultima fece una smorfia di dolore, mentre l'altra si scusava e continuava a camminare con un sorriso stampato sul volto.

Clara stava spiegando al rettore che ciò che avrebbero visto consisteva in alcune tavolette con un contenuto straordinario quando, all'improvviso, si portò la mano al petto e cadde a terra, lasciando sgomenti quanti la circon-davano.

Yves Picot e Fabián si inginocchiarono accanto a lei cercando di far rea-gire il corpo inerte di Clara, che apriva e chiudeva gli occhi come in preda a un incubo.

Fabián urlò di chiamare un medico e un'ambulanza, mentre Miranda in-tuì che stava per accadere qualcosa di strano. Ante Plaskic fece un cenno agli uomini della squadra, e questi capirono di dover sfruttare l'opportunità che veniva loro offerta.

Uno degli invitati disse di essere un medico e si avvicinò per visitare Clara. Quando scoprì un minuscolo puntino all'altezza del cuore, gridò: «Presto, un'ambulanza! Sta morendo!».

Due guardie della sicurezza, seguite da un elegante invitato, si diressero verso la sala in cui era custodita la Bibbia d'argilla.

Ante corse nella piccola stanza in cui i monitor mostravano ogni angolo del museo. Entrò senza bussare e sparò due colpi alla guardia che control-lava gli schermi. Allontanò il corpo dell'uomo e chiuse la porta deciso a non fare entrare nessuno. Scollegò tutti gli allarmi del museo e riuscì a ve-dere nitidamente i suoi compagni entrare nella sala della Bibbia e sparare alla guardia con una pistola col silenziatore, prima che questa potesse rea-gire.

Il croato sorrise. La missione stava per essere compiuta. Senza di lui, l'operazione non si sarebbe potuta realizzare in quelle circostanze.

Poi fissò lo sguardo su un altro monitor, dove era inquadrata Clara tra le braccia di Picot; Fabián e le guardie facevano strada verso l'uscita.

Non seppe perché, ma la sua attenzione si appuntò sulla figura di una donna in là negli anni che appariva su un altro monitor. Non pareva fare caso a ciò che stava accadendo, in realtà era l'unica a non mostrare la mi-nima preoccupazione mentre si faceva lentamente strada verso l'uscita.

Si domandò che cosa avesse in mano quella donna, poiché pareva regge-

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re un oggetto che lui non riusciva a distinguere. Mercedes Barreda varcò l'uscita del museo e respirò l'aria tiepida della

primavera di Madrid. Le era sempre piaciuta l'armonia del quartiere Sala-manca, in cui si trovava il Museo archeologico. Iniziò a camminare senza meta, tranquilla e intimamente soddisfatta per quanto aveva fatto. Non ba-dò ai due uomini eleganti che salivano su un'auto che li aspettava. L'unica cosa che le importava era disfarsi del punteruolo che aveva infilato nel cuore di Clara. Non avrebbe lasciato impronte perché portava finissimi guanti di pelle, per cui le sarebbe bastato gettarlo in un tombino. Ma non in quel quartiere, da un'altra parte, lontano da lì.

Camminò per un'ora, poi fermò un taxi e chiese di essere portata all'Ho-tel Ritz, in cui alloggiava.

Aveva intenzione di tornare a Barcellona, ma all'improvviso cambiò ide-a; non aveva motivo di fuggire, nessuno la stava cercando, nessuno l'a-vrebbe collegata alla morte di Clara Tannenberg. Ciò nonostante, si cam-biò d'abito e uscì di nuovo, diretta alla stazione. Gettò il punteruolo in un tombino vicino al Museo del Prado. Mentre faceva ritorno all'hotel pensò a quanto fosse stato facile sbarazzarsi di Clara.

Non aveva avuto dubbi sul modo in cui l'avrebbe uccisa. Quando era a-dolescente e viveva a Barcellona, sua nonna le aveva raccontato dell'assas-sinio di Isabella d'Austria. Un uomo si era avvicinato all'imperatrice e l'a-veva colpita con un punteruolo; lei era caduta fulminata all'istante, con ap-pena qualche goccia di sangue che le macchiava il vestito.

Da quando aveva iniziato a sognare di uccidere Clara, aveva sempre vi-sualizzato il momento in cui le avrebbe conficcato il punteruolo nel cuore. Non era stato facile trovare l'arma. L'aveva cercata nei negozi dei rigattieri, e pure tra i ferri utilizzati dagli operai della sua impresa. Era stato tra il materiale di scarto che aveva scoperto l'oggetto tanto cercato, e l'aveva pu-lito e lucidato come se si trattasse di un'opera d'arte.

Tornata in albergo, aprì il frigobar, prese una bottiglia di champagne e festeggiò versandosene una coppa. Per la prima volta dopo molti anni si sentiva veramente soddisfatta.

Lion Doyle era furioso. Clara Tannenberg era morta, ma non l'aveva uc-

cisa lui e questo poteva significare che non avrebbe riscosso il saldo del suo onorario. Pensò che l'assassino fosse un professionista; non immagina-va chi altrimenti avrebbe potuto avere il coraggio e il sangue freddo di as-sassinare la donna davanti a centinaia di persone. Le avevano conficcato

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qualcosa nel cuore, un oggetto sottile e allungato che le aveva trapassato l'organo vitale. Ma chi poteva essere stato?

Lui aveva progettato di ucciderla quella notte. Sapeva che alloggiava a casa di Marta Gómez e che nessuno avrebbe avuto dei sospetti se si fosse presentato lì. L'avrebbero fatto entrare e lui avrebbe messo la parola fine alla vita di Clara Tannenberg. Aveva previsto che forse sarebbe dovuta morire anche la professoressa Gómez, ma questo rappresentava solo un in-conveniente in più. Ormai però non avrebbe potuto dire a Tom Martin di avere portato a termine l'incarico che gli aveva assegnato. Lo irritava veder piangere Gian Maria, il quale, distrutto, usciva dal museo accompagnato da Miranda e diretto verso l'ospedale, dove avevano portato il cadavere di Clara per certificarne la morte e per l'autopsia.

George Wagner era appena uscito da una riunione quando la segretaria

gli passò una telefonata urgente di Paul Dukais. «Fatto, missione compiuta» gli disse questi. «Avete preso tutto?» «Sì, abbiamo quello che volevi. A proposito... la nipote del tuo amico ha

avuto un incidente. Qualcuno l'ha assassinata.» «Quando arriverà il pacco?» «È in viaggio, arriverà domani.» Wagner non fece commenti. Nemmeno Enrique Gómez né Frank Dos

Santos reagirono alla notizia dell'assassinio di Clara. Non gliene importa-va, e poi loro non avevano avuto alcuna responsabilità nell'accaduto.

La loro unica preoccupazione era mettere sul mercato gli oggetti della rapina perpetrata nei musei iracheni. George aveva proposto di riunirsi ec-cezionalmente per festeggiare la riuscita dell'operazione e il recupero della Bibbia d'argilla. Non vedeva l'ora di tenerla tra le mani prima di conse-gnarla al compratore.

Lion Doyle telefonò a Tom Martin da una cabina. «Hanno ucciso Clara

Tannenberg» gli disse. «Chi è stato?» «Non lo so» rispose afflitto. «Vieni qui, dobbiamo parlare.» In ospedale, Yves Picot andava avanti e indietro nella sala d'attesa, inca-

pace di dire una parola. Nemmeno Miranda, Fabián e Marta avevano vo-

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glia di parlare e Gian Maria non faceva che piangere. Due ispettori della polizia aspettavano, come loro, il risultato dell'autop-

sia. L'ispettore García gli aveva chiesto, una volta apprese le informazioni in ospedale, di accompagnarlo al commissariato per cercare di far luce sul caso.

Il medico legale uscì dalla sala in cui avevano fatto l'autopsia a Clara. «C'è un parente della signora Tannenberg?»

Picot e Fabián si guardarono, senza sapere cosa rispondere. Fu Marta a prendere in mano la situazione. «Noi siamo suoi amici, non

ha nessun altro qui. Abbiamo cercato di metterci in contatto con il marito, ma finora non l'abbiamo rintracciato.»

«Ebbene, la signora Tannenberg è stata uccisa con un oggetto appuntito, uno stiletto o un punteruolo... qualcosa di affilato e di allungato che le ha trafitto il cuore. Mi dispiace.»

Il medico fornì loro qualche dettaglio sul risultato dell'autopsia e poi consegnò il referto all'ispettore García. «Ispettore, mi fermerò in ospedale ancora per un po'; se avesse bisogno di qualche chiarimento, mi chiami pu-re» disse alla fine.

L'ispettore García, un uomo di mezza età, annuì. Quel caso sarebbe stato più complicato di quanto a prima vista poteva sembrare e doveva essere ri-solto rapidamente. La stampa stava chiamando il ministero per avere in-formazioni. La vicenda avrebbe fatto clamore: un'archeologa irachena as-sassinata nel Museo archeologico nazionale di Madrid all'inaugurazione di una mostra a cui erano state invitate autorità politiche e accademiche, e in cui era stato annunciato che sarebbe stata svelata una grande scoperta, che a sua volta era stata rubata sotto gli occhi di duecento invitati, inclusi la vi-cepremier e due ministri.

Immaginava i titoli dei giornali del giorno dopo, non solo della stampa spagnola; anche i mezzi di comunicazione di tutto il mondo avrebbero dato eco alla notìzia. Aveva già ricevuto due telefonate dai suoi superiori che insistevano per sapere se avesse trovato qualche pista sull'assassino e so-prattutto sul movente del crimine, che pareva essere collegato al furto del misterioso tesoro. La vicepremier era stata irremovibile: voleva risposte immediate.

Ed era proprio quello che si riproponeva di ottenere interrogando i colle-ghi dell'archeologa.

Al commissariato faceva caldo, dunque García aprì la finestra per lasciar entrare un po' d'aria fresca, mentre invitava Picot e gli altri a sedersi. Il

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giovane sacerdote era distrutto e non riusciva a trattenere le lacrime; si stringeva a Marta come un bambino impaurito.

La notte prometteva di essere lunga, poiché tutti sarebbero stati sottopo-sti a un interrogatorio per cercare di sciogliere due interrogativi: chi aveva ucciso Clara Tannenberg e perché.

L'assistente dell'ispettore aveva un televisore in ufficio e in quel momen-to trasmetteva il notiziario delle nove. Rimasero tutti in silenzio, vedendo sfilare le immagini di quel pomeriggio che non avrebbero dimenticato per tutta la vita.

Il giornalista annunciò che, oltre all'assassinio dell'archeologa irachena, era stato commesso un clamoroso furto al Museo archeologico nazionale: alcune tavolette di inestimabile valore alle quali era stato dato il nome di "Bibbia d'argilla". Si trattava della scoperta sensazionale che quel giorno avrebbe dovuto essere mostrata alla stampa e al mondo.

Yves Picot batté un pugno sul tavolo e Fabián imprecò. Avevano ucciso Clara per portare via la Bibbia d'argilla, disse Picot, e né Fabián né Marta né Miranda ebbero il minimo dubbio sul movente dell'assassinio.

Il grido di Gian Maria li spaventò. Il sacerdote guardava la televisione e una maschera d'orrore era affiorata sul suo volto infantile. Sullo schermo Clara camminava accanto al ministro ed era circondata da altre persone; d'improvviso era parsa inciampare, ma poi aveva riacquistato l'equilibrio, finché, qualche secondo dopo, era caduta al suolo.

Ciò che vedevano gli occhi di Gian Maria non potevano scorgerlo quelli dell'ispettore Garda, né di Picot o di Marta. In mezzo alla confusione, per una frazione di secondo, il sacerdote aveva individuato il profilo di una donna che conosceva bene. Mercedes Barreda, la bambina di Mauthausen, quella che aveva sofferto insieme a suo padre la crudeltà senza limiti della follia di Hitler.

Gian Maria capì in quel momento che era stata Mercedes ad assassinare Clara e provò un dolore acuto al petto, un riflesso del dolore dell'anima. Non poteva denunciarla, si disse, perché sarebbe stato come denunciare suo padre, ma se fosse rimasto in silenzio sarebbe stato complice di un o-micidio.

L'ispettore García gli domandò che cosa avesse attirato la sua attenzione e lui, con un filo di voce, assicurò di non avere visto nulla, di essersi sem-plicemente sentito male nel rivedere quella scena.

Yves Picot, Marta Gómez e Fabián Tudela gli credettero, ma l'atteggia-mento di Gian Maria aveva seminato il dubbio nell'animo dell'ispettore

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García e anche in quello di Miranda. Il poliziotto era sicuro che il sacerdo-te avesse visto qualcosa o qualcuno che gli aveva strappato quel grido d'angoscia, e Miranda si ripropose di procurarsi il video per visionarlo nei dettagli e trovare un indizio che spiegasse la reazione del sacerdote.

Yves Picot descrisse alla polizia con abbondanza di particolari le otto ta-volette che chiamavano la Bibbia d'argilla e ne sottolineò soprattutto il va-lore religioso, oltre a quello archeologico.

L'ispettore García ascoltò la storia straordinaria vissuta dai tre archeolo-gi e dalla giornalista negli ultimi mesi in Iraq. Da Gian Maria ottenne ap-pena qualche parola. I suoi superiori continuavano a fargli pressioni: do-vevano dare qualche informazione ai media. La notizia era sconvolgente: un furto e un assassinio nello stesso momento parevano poco plausibili.

L'ispettore chiese più volte a Picot e ai colleghi di ripetere il racconto degli avvenimenti delle ultime ore: chi avessero visto, chi sapesse dell'esi-stenza delle tavolette, di chi sospettassero. Inoltre, fece loro stendere un e-lenco di tutte le persone che fossero direttamente entrate in contatto con la Bibbia d'argilla. Uscirono dal commissariato esausti, convinti che in qual-che angolo, in un dettaglio che non riuscivano a scorgere, ci fosse il ban-dolo di quel filo d'Arianna.

"Che ne sarà di me dopo quanto è successo?" pensò il sacerdote dispera-to mentre, a notte fonda, tornava in albergo accompagnato da Miranda e Picot.

Carlo Cipriani salì sul taxi. Era sfinito, anche se il volo da Barcellona

era durato appena due ore. Gli era dispiaciuto lasciare Mercedes, Hans e Bruno. Loro avevano cer-

cato di convincerlo che il legame che li univa andava al di là della vita e della morte. Avevano ragione: salvo i suoi figli, non amava nessuno quan-to i suoi amici, per i quali avrebbe sacrificato tutto ciò che aveva, ma pen-sava che fosse giunto il momento di ritrovare la pace, e ci sarebbe riuscito solo prendendo le distanze da loro. Non aveva fatto alcun rimprovero a Mercedes, e nemmeno Hans e Bruno. Lei non aveva raccontato che cos'a-veva fatto, non ce n'era stato bisogno; loro l'avevano capito solo guardan-dola.

Mercedes aveva detto che negli ultimi giorni dormiva serena, in pace con se stessa. Bruno non aveva saputo spiegare come si sentiva e Hans era scoppiato in lacrime.

Ora, di ritorno a Roma, Carlo Cipriani diceva a se stesso che doveva af-

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frontare in modo diverso ciò che restava della propria vita. Si diresse verso piazza San Pietro, in direzione del Vaticano.

Quando entrò nella basilica sentì la pace della penombra. In quello stesso istante anche l'ispettore García, accompagnato da un sa-

cerdote, si trovava all'interno della chiesa in cerca di Gian Maria. Aveva convinto i propri capi a lasciargli seguire una pista personale e aveva otte-nuto il permesso di recarsi a Roma per parlare di nuovo con quel prete.

L'ispettore García non prestò attenzione all'uomo che con passo strasci-cato si dirigeva al confessionale, dove il sacerdote che lo accompagnava gli aveva indicato Gian Maria.

Carlo Cipriani però lo precedette e, mentre si inginocchiava, riuscì a in-travedere la smorfia amara sul volto del figlio e si rese conto che sembrava improvvisamente invecchiato.

«Sia lodato Gesù Cristo.» «Sempre sia lodato.» «Padre, sono colpevole della morte di due persone. Chissà se Dio vorrà

perdonarmi, e se lo farà anche mio figlio!» «Sei pentito?» «Sì, padre.» «Allora, che Dio ti perdoni, e che perdoni me per non essere capace di

perdonarti.» L'ispettore García vide l'uomo allontanarsi con gli occhi gonfi di lacri-

me. Pareva che gli mancasse l'aria e fosse sul punto di svenire. «Si sente male?» gli chiese.

«No, non si preoccupi» rispose Cipriani continuando a camminare senza voltarsi indietro.

Gian Maria uscì dal confessionale e strinse la mano al poliziotto. «Scusi se sono venuto fin qui a disturbarla. Ho chiesto ai suoi superiori

il permesso di poterla incontrare. Mi piacerebbe parlare ancora un po' con lei. Non è obbligato, se non vuole...» gli disse l'ispettore.

Gian Maria lo guardò senza rispondere e s'incamminò accanto a lui, mentre osservava suo padre che cadeva in ginocchio davanti alla Pietà di Michelangelo e nascondeva il volto fra le mani. Provò un senso di pietà per lui e per se stesso. Anche quel giorno a Roma pioveva.

FINE