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Jenny Ruggeri L'etica della vita e la “Buona Morte” (Eutanasia) Edizioni Customer Care Service

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Jenny RuggeriL'etica della vita e la 

“Buona Morte”

(Eutanasia)

Edizioni Customer Care Service

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Impaginato da Mauro Zanardi. - I revisione novembre 2005

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Sono venuto sull’orlo dell’eternità

da cui nulla può svanire; nessuna speranza né felicità

né la visione d’un volto intravisto tra le lacrime.

Oh, immergi la mia vuota vita in quell’oceano,

tuffala nel suo abisso più profondo.

Lasciamo per una volta sola sentire

Quella dolce carezza perduta nella totalità

dell’universo.

Tagore – GITANIANLI LXXXVII

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INTRODUZIONE

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Bioetica è un termine composto che deriva dalle parole

greche bios (vita) ed ethiké (etica) originariamente formulato da

Potter1 per indicare una concezione esclusivamente etica,

ispirata alla logica intrinseca delle leggi naturali.

Il dibattito bioetico, tuttavia, nasce ad un crocevia

storico precedente tale formulazione.

E’, infatti, dalle ceneri della seconda guerra mondiale col suo

carico di morti ma, soprattutto, con l’uso, lacerante per le

coscienze, della bomba atomica, dagli interrogativi tragici posti

dall’epilogo del nazismo con la conoscenza delle nefandezze

perpetrate in un parossismo crescente, dal collasso di molte

certezze ma dalla appena assaporata o riassaporata libertà di

opinioni senza timore di repressione, che ebbe origine e si

affermò in maniera via via sempre più ampia ed articolata la

riflessione che portò alla “Dichiarazione Universale dei Diritti

dell’Uomo”, pubblicata dall’ONU il 10 dicembre 1948. Prime

codificazioni di grande significato culturale ed etico di tali

diritti possono considerarsi codici deontologici: il Codice di

Norimberga (1946) e Codice di Edita Medica (Ginevra, 1948).

1 POTTER V.R., Bioethics: bridge to the future, Prentice Hall Inc., EnglewoodCliffs (New Jersey), 1971.

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Oggi, la bioetica comprende un’area interdisciplinare di studi

in cui si possono identificare, secondo l’“Encyclopedia of

Bioethics”2, quattro importanti e complessi campi:

il primo è quello che spazia nei problemi etici inerenti

all’esercizio di tutte quelle professioni legate alla

salvaguardia della salute, a partire dalla deontologia

professionale che regola l’attività di tutti gli operatori

sanitari;

il secondo si estende alla ricerca biomedica ambientale e

comprende le scoperte scientifiche (ed i riflessi possibili di

queste sulla collettività) siano esse connesse o meno con

eventuali applicazioni pratiche;

il terzo esamina le implicazioni di una vasta gamma di

problemi sociali, come quelli, oltre che della salute pubblica,

del lavoro, dello sviluppo e della politica;

il quarto include problematiche che coinvolgono anche la

vita animale e vegetale e riguarda essenzialmente le scelte

per il futuro del nostro pianeta.

2 REICH W., defining the field of Bioethics, in Encyclopedia of Bioethics, W. Reich ed., Washington, 1978.

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Così, infatti, per esempio, problemi squisitamente di etica

medica, quali la sterilizzazione o l’aborto, non possono essere

adeguatamente discussi se non nel contesto più ampio delle

prospettive demografiche e ambientali, essendo integralmente

correlati all’ecologia, la genetica, la sociologia, la religione, la

politica e la giurisprudenza.

Ed ecco che studiosi, ricercatori e professionisti altamente

qualificati in questi settori, sono chiamati dalla “Bioetica” a

partecipare con la loro differente competenza e metodologia a

rispondere a domande come queste:

“Cosa dovrebbe essere fatto? Chi dovrebbe decidere? Quali

politiche dovrebbero guidare le società in questi campi?”.

Per ciascun tema, allo scienziato è richiesta la presentazione

di accurati dati sul cosiddetto “state of the art”, dando un

quadro chiaro e dettagliato degli esiti delle ricerche.

Il “medico” contribuisce offrendo schemi concettuali che

spiegano le conseguenze di ogni possibile intervento

terapeutico e identificano i termini della responsabilità

professionale.

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Il “sociologo” delinea gli aspetti relativi sia al

comportamento degli individui e alle politiche che li guidano,

che all’entroterra che ha ispirato queste scelte.

Il “giurista” interviene, non offrendo una mera storia delle

leggi statutarie, ma elicitando una sistematica presentazione dei

principi legali che guidano le diverse giurisprudenze,

illustrandoli attraverso precedenti sentenze che rappresentano

per ciascuna di esse delle pietre miliari.

Il “filosofo” ed il “teologo”, infine, si occupano

sistematicamente di riassumere e prospettare gli aspetti etici di

ciascun tema dibattuto, dando spiegazione delle motivazioni di

essi, in termini di “costi e benefici, diritti e responsabilità, ruoli

ed impegni”.

Il progredire della ricerca scientifica prospetta sempre

frontiere nuove, aggiungibili a ragione delle acquisite spesso

inimmaginabili capacità strumentali e non, di manipolazione

degli esseri viventi in generale e, con maggiore e crescente

conflittualità, dell’uomo.

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In questo contesto è, dunque, compito della bioetica quello di

esaminare e valutare, attraverso un dibattito sistematico, che si

avvale delle competenze indicate, le ripercussioni, non solo

positive, ma anche a volte oscuramente negative che il

progresso scientifico e tecnologico ha.

Un compito che la bioetica tenta di svolgere guardando sia

all’individuo sia al genere umano nel suo complesso, sia

all’umanità del presente sia a quella delle generazioni future.

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CAPITOLO PRIMO

QUALE ETICA PER LA BIOETICA?

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Secondo Engelhardt3, “la bioetica è filosofia impegnata

nell’aiutare una cultura a chiarire le proprie visioni della realtà e

dei valori”.

Essa è l’etica relativa ai fenomeni della vita organica: della

generazione, dello sviluppo-maturità-vecchiaia, della salute,

della malattia e della morte.

In quanto tale, la bioetica non è disciplina che possa porsi

come autonoma ed indipendente, ma sotto il suo nome si

muovono fuochi di interesse legati al progresso della scienza e

della tecnica.

Tuttavia, un adeguato approfondimento di tali problematiche

riporta pur sempre alle questioni e agli atteggiamenti

fondamentali, concernenti l’uomo in quanto anima e corpo,

spirito e materia e, se si preferisce, “organismo capace di azioni

e interazioni significanti e simboliche, eccedenti il campo di

indagine della biologia”.

La bioetica è, quindi, un elemento centrale dell’auto-

comprensione e dell’autotrasformazione della cultura stessa che

si compenetra con la tecnologia biologica e medica, nel

tentativo di comprendere il senso della vita tout-court.3 ENGELHARDT H.T., Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano,

1991, pagg. 16 e ss.- 10 -

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Il progresso delle scienze, minando la consolidata

concezione dell’uomo centro dell’universo, sgretola, nel

contempo, le radici religiose del consenso etico e metafisico e

del senso rassicurante che tale prospettiva assoluta offriva.

Inoltre, lo sviluppo di una concezione evoluzionistica delle

origini dell’uomo implica l’accettazione dell’esistenza di

processi moralmente ciechi, dinanzi ai quali l’individuo deve

porsi libero da pregiudizi e da condizionamenti, interessato

unicamente all’argomentazione razionale che gli permetta di

raggiungere un’idea-guida da seguire, nel tentativo di chiarire e

conoscere la realtà.

Ruolo della bioetica, secondo questa prospettiva, è quello di

fornire una comprensione della condizione umana attraverso un

rigoroso esame delle idee, dei valori e dei concetti che

sostituiscono il senso delle attività umane.

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“In tale ambito”, dice il Viafora4, deve operare il filosofo

come un geografo della realtà umana, richiamando l’attenzione

sul terreno delle idee e dei valori; richiamando l’attenzione su

aspetti trascurati, relazioni dimenticate e contraddizioni;

aiutando a valutare criticamente gli assunti concettuali e

valutativi, impliciti in azioni e scelte particolari”.

Ciò pone le basi di una universalizzabilità della bioetica per

la quale è valido quanto affermato da W. Frankena5, secondo il

quale “i predicati morali e di valori sono tali che se

appartengono ad un’azione o ad un oggetto, appartengono

anche a qualsiasi altra azione od oggetto che abbia le medesime

proprietà”.

Lo statuto epistemologico della bioetica si articola, come nel

campo etico generale, in due livelli: i criteri e le norme.

4 VIAFORA C., Fondamenti di bioetica, Casa Editrice Ambrosiana, Milano, 1989, pagg. 15 e ss.

5 FRANKENA W.K., Etica, Edizioni Comunità, Milano, 1981, pag. 80.- 12 -

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I criteri, che pure hanno una funzione orientativa

fondamentale, si collocano sul piano dei fini da realizzare, dei

valori da rispettare: in caso di conflitti andrà stabilita una scala

di priorità tra essi stessi, con l’esplicita o implicita assunzione

di un criterio fondamentale a cui fare riferimento in ultima

istanza.

“Le norme, e citiamo ancora testualmente dal Viafora6, in cui

immediatamente si esprime il sapere etico non sono mai “norme

atomiche”, slegate cioè le une dalle altre e prive di riferimenti

reciproci; esse, invece, costituiscono sempre, anche se il più

delle volte in maniera irriflessa, una specie di sistema

normativo organico e coerente all’interno di un processo

deduttivo di tipo logico formale”.

Ciò, comunque, non definisce un carattere di rigidità

astorica, ma mantiene chiari riferimenti all’antropologia e alla

sociologia, basandosi su un sapere che deve essere pubblico

anche se non necessariamente universalmente compreso e

condiviso.

6 VIAFORA C., op. cit., pag. 19.- 13 -

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E’, pertanto, evidente come in una società eterogenea e

pluralista si scontrano costumi e concezioni di condotte

derivanti da comunità distinte e contrapposte.

Per esse, il prezzo del vivere sta nella ricerca di un corpo di

regole e disposizioni unificanti, di fronte al porsi dei problemi

bioetici, riconoscendo, nel contempo, l’opportunità di

soddisfare sia le condizioni necessarie sia quelle sufficienti alla

morale.

E la morale, in questo senso, deve essere distinta dalla

morale intesa come regole consuetudinarie di tabù e di

rettitudine morale, proprio come la scienza, intesa come

insieme di asserzioni sistematiche sul mondo, deve essere

distinta dai complessi di opinioni non controllate.

Interessante in proposito la posizione di Evandro Agazzi7,

secondo il quale la “teorizzazione etica deve essere ‘assistita’ e

magari ‘integrata’ da una base di conoscenze scientifiche senza

le quali il discorso morale rischia di non potersi configurare, o

addirittura di instradarsi su percorsi fallaci”.

7 AGAZZI E., Il luogo dell’etica in bioetica, in Quale etica per la bioetica?, Franco Angeli Libri, Milano, 1990.

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Esiste, però, il rischio che l’intervento del giudizio

scientifico-tecnologico venga inteso come un surrogato più

moderno, preciso ed avanzato del giudizio morale.

Consideriamo, infatti, come per ciascuno degli ambiti

tematici di cui la bioetica si occupa (sia esso l’ingegneria

genetica, l’eugenica, l’aborto o l’eutanasia) spesso la

presentazione dei dettagli di procedimenti sperimentali

ineccepibili e di risultati scientificamente probanti è talmente

incombente da dare l’impressione che il problema sia solo

legato al rischio dell’insuccesso del procedere e che, una volta

risolti i problemi tecnici ancora aperti, non ci siano più ragioni

di dubbi o perplessità.

E, allora, se possiamo recitare che “il sonno della ragione

genera mostri”, del pari e parafrasando possiamo pure dire che

“il sogno della ragione genera mostri”, laddove nell’ultima

affermazione è implicito l’uso che della ragione e della scienza,

sua figlia prediletta, se ne può fare.

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Esiste infatti, a nostro avviso, sempre un momento nel

progresso delle acquisizioni della ricerca scientifica e

tecnologica, in cui si pone inevitabilmente un interrogativo

etico-morale che segna la divaricazione tra l’imperativo posto

dalla “esigenza di conoscere” ed i “rischi del conoscere”.

Ed ecco, in proposito, quello che, ancora secondo Agazzi8, è

uno dei ruoli fondamentali della bioetica, per la quale “le

competenze disciplinari specifiche non vengono invocate

soltanto al fine di una descrizione esatta della situazione di

fatto, ma al fine di esprimere una serie di valutazioni su di essa,

ossia di formulare, al riguardo, dei giudizi di valore”.

Da ciò si evince che una delle caratteristiche fondamentali di

tutti i problemi che vengono discussi in bioetica è il fatto che

essi (i problemi) scaturiscono dall’ammissione di un principio

comune: “non è lecito realizzare tutti i possibili”9.

Tale affermazione ci riporta ad una delle dimensioni basilari

dell’etica, per cui non c’è morale laddove non ci sia distinzione

fra bene e male, fra giusto e ingiusto, fra lecito e illecito.

8 AGAZZI E., op. cit., pag. 12.9 AGAZZI E., op. cit., pag. 15.

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Queste partizioni, proprio perché riguardano l’agire umano,

non possono evitare di discriminare quei “possibili” che

debbono essere realizzati da quelli che non debbono esserlo e,

infine, da quelli che è lecito realizzare.

Ma, osserva Mori10, alcuni dei problemi bioetici più dibattuti

non sono affatto problemi nuovi, ma sono proprio problemi

“classici”, come quelli dell’aborto e dell’eutanasia.

E’ proprio dall’insoddisfazione per le risposte date dall’etica

tradizionale a tali problemi, soprattutto per quanto riguarda il

dibattito dell’aborto, che ha avuto origine la bioetica.

Non si può quindi, secondo il Mori, affermare che “la mera

tecnologia è in grado di per sé di suscitare controversie etiche

così profonde come quelle oggi dibattute. Piuttosto è vero che

la tecnologia ampliando la possibilità d’azione contribuisce

potentemente a mutare le circostanze, per cui nella nuova

situazione storica gli individui si interrogano sulla validità dei

valori e dei principi etici tradizionali”11.

10 MORI M., Per un chiarimento delle diverse prospettive etiche sottese alla bioetica, in Quale etica per la bioetica?, Franco Angeli Libri, Milano, 1990, pagg. 37 e ss.

11 MORI M., op. cit., pag. 41.- 17 -

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Di fatto, nell’esplicitarsi del dibattito sui temi della bioetica,

si fronteggiano due diversi insiemi di principi etici.

Secondo Mori12, “alcuni invocano un solo grande principio e

cioè quello che ingiunge il dovere di massimizzare la felicità o

il benessere degli individui coinvolti (i senzienti)...”.

Emerge così con chiarezza che l’ordine sociale perseguito da

questo tipo di etica è quello per cui lo scopo ultimo della vita

(umana) è il vivere bene (etica della qualità della vita, E.Q.V.),

sia esso inteso in termini di benessere o di soddisfazione delle

preferenze (utilitarismo) o di rispetto delle scelte autonome

dell’individuo (etica deontologica).

In questa visione del problema, si inseriscono le osservazioni

del Lecaldano13, secondo il quale “i principio etici da accettare

sono in primo luogo quelli che non pretendono di potersi

sottrarre in un punto o in un altro dell’argomentazione al

tribunale della ragione e dell’esperienza”.

12 Ibidem.13 LECALDANO E., Analisi filosofica, utilitarismo e razionalità pratica,

Il Mulino, Milano 1986, pag. 62.- 18 -

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Partendo da questi presupposti, egli giunse ad affermare che

solo un’etica utilitaristica può essere adeguata al ruolo decisivo

che hanno, nella costituzione della presa di posizione morale,

l’argomentazione razionale e le informazioni empiriche.

Nell’etica utilitaristica la funzione razionale centrale è la

“funzione calcolante”, per la quale di fronte a diverse

alternative di azione, la scelta moralmente obbligante è vero

quella tra di esse in grado di “massimizzare la felicità” e

“minimizzare il dolore” del maggior numero di individui,

identificando strumenti che assicurino che il calcolo dei costi e

dei benefici avvenga nel modo più imparziale possibile.

Viene a tale scopo escogitata la figura dello spettatore

simpatetico imparziale che esprime la prospettiva in cui

bisognerebbe porsi per valutare quali scelte si impongono

moralmente astraendo da considerazioni soggettive, interessate

ed egoistiche.

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Ma, come osservava Engelhardt14, al massimo “l’appello

all’osservatore disinteressato eliminerebbe quelle concezioni

morali che implicano contraddizioni logiche formali, o si

fondano su argomenti formalmente fallaci... D’altra parte, come

può un giudice morale essere davvero imparziale e non

partigiano di alcun punto di vista?”.

Prendiamo ad esempio il problema, in campo medico della

ricerca applicata in terapia.

Esiste un gruppo di pazienti che potrebbe essere curato

secondo un protocollo sperimentale, che appunto come tale non

offre garanzie di risultati positivi, ma solo ipotesi (sia pure

fondate su validi presupposti scientifici) e che invece prospetta,

come sospettabili o anche certi, effetti collaterali nocivi.

Contro gli interessi dei suddetti pazienti stanno gli interessi

di tutti i pazienti futuri affetti dalla medesima patologia e che

potrebbero essere gli effettivi beneficiari della sperimentazione.

Quale, a questo punto, la scelta etica corretta?

14 ENGELHARDT H.T., op. cit., pag. 41.- 20 -

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Una risposta possibile, nell’ambito dell’etica utilitaristica è

quella che precisa che nel calcolare la utilità-felicità e la sua

massimizzazione, c’è da considerare la conseguenza che si

provoca a lungo termine e che, perciò, considera giuste quelle

azioni che sono conformi a “norme” che possono essere

sostenute in base a motivi utilitaristici.

Questo allargamento dalla considerazione del semplice

“atto” alla “norma” fa acquisire all’utilitarismo una prospettiva

che il Viafora definisce “non solo tattica ma strategica”.

Tuttavia, come osserva Peter Kemp15, “le norme servono la

vita nella misura in cui non vengono trasformate in qualcosa di

assoluto e intoccabile. Esse divengono oppressive se vengono

difese a dispetto del fatto che sono radicalmente mutate le

condizioni che avevano determinato la loro formulazione”.

Le tesi utilitaristiche, in tale ottica, devono acquisire la

coerenza di un sistema basato su un criterio di valutazione

semplice e flessibile, nell’indubbia valorizzazione della

responsabilità dei singoli e dei compiti di discernimento della

coscienza individuale.

15 KEMP P., Un’etica per il mondo vivente, in Quale etica per la bioetica?, Agazzi ed. Franco Angeli Libri, Milano, 1990, pagg. 112 e ss.

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E se il chirurgo deve certo valutare rischi e benefici quando

si tratta della salute (o della vita) del malato per il quale si pone

il problema dell’opportunità dell’intervento, diverso è che

debba pure valutare l’opportunità dell’intervento in costi e

benefici economici e/o sociali.

Ciò, infatti, può indurre l’aberrazione di una

“monetizzazione” della vita umana, in ragione dell’età, della

professione, della ricchezza o povertà.

Pertanto, il criterio di valutazione resta legato al peso

oggettivo di beni (come salute, ricchezza, realizzazione,

successo, ecc.) rigorosamente calcolati al di là di ogni ossequio

rigido alle norme (etica della responsabilità) alla ricerca mai

negoziabile della qualità della vita.

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Analoga ricerca di “qualità della vita” si realizza nell’etica

deontologica che si fonda su principi tra loro indipendenti

(essere equi, dire la verità, ricambiare i benefici ricevuti, ecc.)

per i quali David Ross16 ha introdotto la nozione di “doveri

prima facie”, cioè di doveri che vincolano e che ammettono

eccezioni solo a condizione che vi siano altri doveri più forti d

rispettare.

I vari principi, infatti, non sono articolati gerarchicamente:

pertanto, in determinate situazioni, essi potrebbero trovarsi tra

loro in conflitto creando una sorta di corto circuito.

Quindi, sempre secondo Ross, non esistendo una precisa

gerarchia fissata a priori, spetta all’individuo stabilire l’ordine

di precedenza o la sospensione dell’uno in favore dell’altro, a

seconda delle varie circostanze in cui si viene a trovare.

Rimane, tuttavia, una difficoltà fondamentale nello stabilire

l’obiettività delle valutazioni: la necessità di identificare degli

standards mediante i quali edificare una gerarchia.

16 ROSS D., The right and the good, Clarendon Press Oxford (GB), 1930, citato da Mori nel saggio Sulla distinzione tra eutanasia e sospensione delle terapie in Oltre l’eutanasia e l’accanimento terapeutico, Savoldi V., ed. EDB, Bologna, 1991, pag. 125.

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Tali standards, e citiamo ancora Engelhardt, possono essere

cercati, o basandosi nel contenuto del pensiero morale (cioè

nelle intuizioni), o sulla forma del ragionamento morale (p.e.,

nell’idea di imparzialità o razionalità) o in qualche realtà

oggettiva esterna (p.e., le conseguenze delle azioni o la struttura

della realtà).

Tra i sostenitori di quest’ultima argomentazione lo

Schueller17 secondo il quale “tutte le azioni dovrebbero essere

giudicate in base alle loro conseguenze” ed il soggetto agente

(la persona) è investito della responsabilità morale dell’azione

che compie.

Tale concezione teologica rimanda all’identificazione del

soggetto non solo quale “agente” ma anche quale giudice.

Un giudice che, tuttavia, certo sarebbe (potrebbe essere)

imparziale ma non oltre il limite della scelta che si impone nel

preferire certe conseguenze rispetto ad altre.

17 SCHUELLER B., Tipi di fondazione delle norme morali, Concilium, 1976, pagg. 87 e ss.

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Contro questa posizione, quella dei sostenitori

dell’argomentazione più strettamente deontologica, per la quale

non tutte le azioni sono determinate, dal punto di vista morale,

esclusivamente dalle loro conseguenze, ma debbono piuttosto

essere stimate “moralmente” giuste.

Secondo l’opinione del Viafora, entrambe le posizioni

presentano evidentemente dei limiti ovviabili attraverso una

loro reciproca implicazione e utilizzazione concertata.

Se, infatti, “ogni formulazione dell’eticità della scelta in

funzione delle conseguenze presupporrà il riferimento a un

criterio ulteriore di natura deontologica, in base al quale

stabilire che cosa si debba intendere per “bene”, “benessere”,

“felicità” e “qualità della vita”, si eviteranno i limiti estremi

derivanti da un rigorismo moralistico (che assolutizzando la

norma finisce per trasformarsi in fariseismo) e da un

opportunismo preoccupato di trarre il maggior bene possibile

delle conseguenze dell’agire18.

18 VIAFORA C., op. cit., pagg. 33 e ss.- 25 -

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Una possibile composizione della conflittualità delle

posizioni potrebbe essere fornita da una impostazione pluralista

che, ammettendo principi e valori ugualmente rispettabili ma

diversi, spingesse alla ricerca di un “minimo comune

denominatore” di valori e principi che sono implicitamente o

esplicitamente ammessi nei differenti approcci, producendo una

base “minimale”, ma in ogni caso utile e significativamente

adatta alla elaborazione di criteri concreti di giudizio, di guida e

di regolamentazione.

Il secondo passo, a questo punto, consiste in un lavoro di

mediazione, rispetto ai valori e ai principi che costituiscono il

background del problema, e di valutazione di tutte le possibili

sfaccettature di esso.

A fronte delle teorie fin qui esposte e, rispetto ad esse

radicalmente diversa, è l’etica che prevede un principio assoluto

e cioèche non ammette eccezioni e che è identificabile con il

Principio della Sacralità della Vita (P.S.V.).

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Tale principio, che non è immediatamente auto-evidente ha,

tuttavia, una forte credibilità intuitiva, ove si accetti

l’affermazione che i processi vitali sono caratterizzati da

un’intrinseca teologia, ingiungendo, quindi, il rispetto assoluto

del finalismo intrinseco dell’organismo nel suo complesso e del

processo riproduttivo.

In questa struttura etica, che è stata da Mori definita Etica

della Sacralità della vita (E.S.V.), il PSV sta all’apice della

gerarchia di valori, essendo quello che ha la priorità rispetto ai

“doveri prima facie”.

Appare ovvio come ESV e EQV siano inconciliabili, poiché

propongono un tipo di “ordine sociale” diverso.

Anzi, i fautori più intransigenti di ESV considerano la loro

“l’unica lingua morale”, “le posizioni ad essa non conformi,

semplicemente immorali”.

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Infatti, poiché lo scopo ultimo di EQV è quello di garantire

un adeguato livello di qualità della vita, le regole del “gioco

morale” possono e forse devono essere cambiate dall’uomo

tutte le volte che il cambiamento consenta di raggiungere

meglio tale fine: in questo senso, l’uomo è importante in sé e

direttamente, in quanto è un essere autocosciente che ha la

capacità di scegliere.

Lo scopo ultimo di ESV non è, invece, affatto la qualità della

vita, ma il rispetto dell’ordine morale indipendente dalla

volontà dell’uomo: pertanto, le regole morali (dipendenti da

PSV) non possono essere mutate.

In questa prospettiva, l’uomo non è importante in sé, ma lo è,

indirettamente, in quanto posto al vertice dell’ordine morale.

Come ammette il Tettamanzi19, ESV prende in

considerazione gli interventi dell’uomo sulla vita umana con un

metodo non di pura e semplice riflessione razionale o filosofica,

ma di una riflessione critica sviluppata da una ragione

illuminata dalla fede.

19 TETTAMANZI D., Bioetica, nuove frontiere per l’uomo, Edizioni PIEMME, Casale Mofnerrato, 1990.

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“Ma,egli ammonisce, non si deve poi temere che la

riflessione teologica possa attentare alla autonomia della

riflessione filosofica della bioetica... poiché una lettura

completa dell’uomo, in quanto uomo, conduce la ragione a

ritrovarne il fondamento primo e la significazione ultima nel

suo rapporto con l’Assoluto. In questo senso la teologia morale

può risultare benefica, nella misura in cui richiama alla bioetica

il fondamento stesso dell’etica”.

Ed in realtà, ESV ha il vantaggio rispetto ad EQV di offrire

una soluzione alla dicotomia tra etica descrittiva ed etica

normativa.

Infatti, in EQV il ruolo del bioetico appare quello di colui

che è addetto ad esaminare e presentare all’individuo le diverse

possibili soluzioni, lasciandogli poi la facoltà di scegliere la

soluzione che ritiene più valida.

ESV, nella concezione finalistica del mondo, che la

contraddistingue, prevede, invece, una procedura di metodo per

cui, partendo dalla descrizione scientifica del problema, lo si

esamina in una prospettiva antropologica (nel senso più ampio e

completo del termine) e si risponde, quindi, ai quesiti che esso

pone, nel rispetto assoluto di PSV.

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In questa dimensione etica si pone la filosofia dello

Sgreccia20 con la teoria del “personalismo ontologicamente

fondato” che identifica con forza nell’uomo “l’unico essere in

cui la vita diventa capace di ‘riflessione’ su di sé, di

autodeterminazione; l’unico vivente che ha la capacità di

cogliere e scoprire il senso delle cose e di dare senso alle sue

espressioni e al suo linguaggio cosciente... In ogni uomo, in

ogni persona umana, il mondo tutto si ricapitola e prende senso,

ma il cosmo nello stesso tempo è travalicato e trasceso”.

Quest’ordine, nel quale il credente vede espressa la volontà

stessa di Dio, contiene le leggi in base alle quali dedurre la retta

attuazione dei comportamenti, in conformità alle leggi naturali.

“E’, infatti”, sempre secondo lo Sgreccia, la natura con le sue

leggi la misura etica dell’agire dell’uomo: e solo così la realtà

viene rispettata nella sua fondazione ontologica e viene messa

al sicuro da ogni soggettivismo immanentista”.

E’ questo un pericolo che Sgreccia avverte aleggiare nella

società contemporanea, come testimonia il brano di Saint-John

Perse che significativamente riporta e che recita:

20 SGRECCIA E., Manuale di bioetica, Vita e Pensiero Editrice, Milano, 1988, pagg. 96 e ss.

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« Le vrai drame du siècle est dans l’écart qu’on laisse

crointre entre l’homme temporel et l’homme intemporel ».

Contro tale condizione Sgreccia afferma che :

“Al di dentro e al di là delle causalità o casualità

combinatorie, dovranno essere postulati due passaggi metafisici

irrinunciabili per la logica tour-court e per la spiegazione della

realtà: della realtà vivente e dell’uomo in particolare.

Il primo messaggio metafisico è costituito dal “principio

della creazione”, il secondo è costituito dal “principio della

spiritualità dell’uomo”.

La casualità che esplica la sua attività nella realtà mondana

contingente, richiede una causa intelligente che spieghi il

passaggio dal non-essere all’essere, dalla non-esistenza

all’esistenza di tutta la realtà intramondana, che si presenta,

appunto, come contingente, cioè non tale da esaurire in sé la

pienezza dell’essere o dell’esistenza.

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La causa prima e sussistente dovrà possedere in sé la

spiegazione e la pienezza dell’essere; dovrà essere capace di

donare esistenza distinta dalla propria (quella esistenza

contingente non paragonabile con quella sussistente); dovrà

essere definibile come capace di intelligenza finalistica ed

ordinatrice”.

L’esistenza umana si presenta, dunque, secondo lo Streccia,

come unione di corporeità e spiritualità, manifestantesi in

attività di carattere biologico e corporeo spiegabili con la

vitalità vegetativo-sensoriale, ma anche attraverso delle attività

di carattere immateriale, tali cioè che, anche se provocate dalla

sensibilità, si esplicano ad un livello superiore, immateriale

appunto.

Tale livello, secondo il filosofo, è quello della “intellezione

delle idee universali, della capacità di riflessione, della libertà (e

quindi dell’amore, in senso spirituale ed altruistico)”.

Queste attività non si spiegano se non con un principio, una

fonte di energia di ordine superiore, non legata alla materia e,

perciò, spirituale.

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Appare chiaro, dalle parole citate, la forte adesione al

Pensiero di San Tommado d’Aquino che, nella Summa

Theologica, negando le aporie del dualismo, afferma che

l’anima è forma sostanziale del corpo, e fornisce ad esso la

compaginazione ontologica di umanità dal principio spirituale.

“Idem ipse homo est qui percipit se intelligere et sentire;

sentire autem non est sine corpore”21.

Nella definizione dell’essenza della persona insieme come

corporeità e spiritualità, si evidenzia il nesso tra le attività

sensoriali e l’autocoscienza spirituale dell’uomo.

La materia, unita sostanzialmente al principio spirituale

dell’intelligenza è plasmata dal principio spirituale, come da un

influsso sostanziale e vitale: il corpo si costituisce così quale

vivente strumento dell’intelligenza.

Da ciò deriva quella concezione del “corpo soggetto” che

differenziandosi nettamente da una concezione meramente

oggettiva è strumentale della corporeità, caratterizza il pensiero

cristiano.

21 SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologica I, q. 75 e 76.- 33 -

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Ma tale concezione suscita, all’interno della bioetica, non

poche problematiche, soprattutto per ciò che riguarda l’aborto,

la fecondazione, l’eutanasia ed il trapianto d’organi.

Il problema che si pone è, infatti, come considerare il corpo

nel momento in cui il nesso con la spiritualità, o, se vogliamo il

suo darsi come soggettività, non si manifesta o non si manifesta

più?

Per lo Sgreccia, che possiamo senz’altro considerare come il

rappresentante ufficiale del pensiero cattolico, il nesso tra

spirito e corpo si dà come indissolubile dal primo momento

della vita, il concepimento, sino al momento della morte

cerebrale totale, che viene proprio in virtù di quel nesso,

nettamente distinta dalla morte delle sole funzioni cerebrali

superiori.

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CAPITOLO SECONDO

L’UOMO E LA MALATTIA

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Il corpo, dunque, è da concepire essenzialmente come

“linguaggio orientato” per cui il significato delle azioni e dei

gesti è leggibile e valutabile solo alla luce della totalità della

persona.

Da questa percezione di “unitotalità” derivano importanti

conseguenze sul piano etico, poiché appare chiaro che

accostarsi al “corpo” dell’altro corrisponde ad “indagare la

persona nella sua totalità unificata”.

Ma, se la persona è, nello spirito, attività esistenziale ricca di

pensiero, di libertà, di autodeterminazione, nel corpo è anche

limite spazio-temporale, portando con sé e su di sé, insieme alle

stimmate della gioia, della salute e della vita, quelle del dolore,

della malattia e della morte.

E poiché il corpo rispetto alla persona è “coessenziale”, ne è

il fondamento unico, nel quale e per mezzo del quale la persona

si realizza ed entra nel tempo e nello spazio, si esprime e si

manifesta, costruisce ed esprime gli altri valori, compresa la

libertà e compreso il proprio progetto futuro, appare evidente

come esso rappresenti l’anello fragile della costruzione

armonica dell’uomo.

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Dice il Viafora22: “Il corpo è fragile e delicato: legato al

tempo e allo spazio, inserisce la persona nel respiro cosmico

della natura, ma lo sottomette anche a tutte le forze che

attraversano il mondo fisico e biologico. Ha fame e sete, ha

bisogno di silenzio e di riposo; è esposto irrimediabilmente

all’invecchiamento e alla morte; è lacerato dalla malattia”.

E prendiamo, appunto, in esame quella particolare esperienza

umana che è la malattia.

Per meglio comprendere il significato di essa bisogna,

innanzitutto ripensare il concetto di salute in termini di

equilibrio dinamico all’interno del corpo, fra i diversi organi e

le loro funzioni integrate, fra il corpo e la psiche a livello

individuale e tra l’individuo e l’ambiente, sia biofisico che

sociale.

Da ciò non deriva, certo, che la singola malattia sia, nella sua

genesi, da attribuire alla concomitante o sequenziale alterazione

delle varie componenti, ma che esse, piuttosto, rappresentano le

dimensioni fondative delle scelte etiche in materia di “malattia”.

22 VIAFORA C., op. cit., pag. 44.- 37 -

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“Ogni medico”, dice Sgreccia23, “sa intuitivamente che

avvicinandosi al corpo del malato in realtà si avvicina alla sua

persona e che il corpo del malato non è propriamente ‘oggetto’

dell’intervento medico o chirurgico, ma è ‘soggetto’”.

Tale percezione è importante che sia sempre presente poiché

l’organizzazione sanitaria e tecnologica attuale, insieme con la

progressiva superspecializzazione del sapere medico, portano

allo sfumarsi della visione globale del malato e della sua storia

personale e, al tempo stesso, alterano il configurarsi del

rapporto medico-paziente e della conseguente assunzione di

responsabilità, attraverso il dipanarsi del dialogo diagnostico-

terapeutico.

Il vissuto della malattia, per la persona che la subisce, si

frantuma in una molteplicità di interventi che, spesso,

acquistano un carattere di minacciosa incomprensibilità.

I consulti con specialisti diversi negano al malato la

sicurezza della dualità del rapporto col “proprio medico”.

23 SGRECCIA E., op. cit., p. 85.- 38 -

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Come afferma Yudin24, “il modello tradizionale della

relazione paternalistica paziente-medico è stato gradualmente

sostituito da un altro modello basato sulla autonomia del

paziente”.

In questa transizione è avvenuta, certo, una redistribuzione

delle responsabilità, ma, sicuramente, quel rapporto intimo e

fiduciario che legava il malato al medico e che, spesso andava

al di là della questione “malattia” si è in gran parte

frammentato, sino a perdere la sua originaria connotazione.

Così, mentre l’organizzazione medico-ospedaliera isola il

paziente, talvolta perfino lo aliena, si moltiplicano gli interventi

terapeutici al di là dei quali è, troppe volte difficile riconoscere

l’antica e confortante relazione amicale.

24 YUDIN B., Bioetica, etica medica e teoria etica, in Quale etica per la bioetica?, Franco Angeli Libri, Milano, 1990, pag. 25.

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L’impiego infatti sempre più sofisticato di vari mezzi

diagnostici, che hanno la caratteristica della standardizzazione,

tassatività e “memorizzazione nella macchina del dato”, a volte

prevaricano l’umanità del malato, estraniando il medico, nella

fascinazione dell’eccezionalità della particolarità e

dell’interesse del “caso”, in ossequio alla legge circolare in

tema di tecnologia e cioè che l’uomo costruisce il mezzo

tecnico, ma il mezzo tecnico cambia l’uomo.

Ci sono poi altri aspetti che intervengono oggi fortemente ad

influenzare il rapporto medico paziente.

Essi riguardano le ideologie presenti nella società e riflesse

nelle leggi, il modello di gestione offerto nei vari stati in

relazione alla libertà del medico e del cittadino, le dinamiche

economiche che si instaurano all’interno della spesa sanitaria ed

il computo costi-benefici.

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In tale situazione, il medico si trova anche conteso tra due

appartenenze: l’appartenenza al malato, cui è legato da un

contratto che non ha solo valore morale ma anche rilevanza

giuridica e l’appartenenza alla società, cosiddetta dei servizi,

che lo garantisce considerandolo suo funzionario ma al tempo

stesso lo grava di obblighi di osservanza di disposizioni, regole,

leggi, ecc.

Anche il medico, dunque, si ritrova nel rischio di perdita

dell’identità di ruolo.

Tutto ciò ripropone, come afferma Engelhardt, il tema della

“qualità della vita” e della sua ambigua valenza: la qualità per la

persona che la vive e la qualità per coloro che hanno a che fare

con quella vita.

Ambiguità che si rivela nel momento in cui e nella

percezione per la quale ciò che può essere sentito dagli “altri”

come una qualità della vita del tutto inaccettabile, può essere

accettabile per la persona che la vive.

Ancora, il corpo nella malattia non è più vissuto come un

mezzo espressivo, ma come un oggetto che sfugge al controllo

e diviene pesantezza ostile.

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Van der Bruggen25, definisce la malattia come

„disintegrazione del corpo“ che porta il malato a concentrarsi

sui suoi bisogni fondamentali, sino a perdere il senso della

propria integralità.

“La malattia”, egli dice, “reifica il corpo umano. Esse malato

significa sperimentare dei cambiamenti ma subendoli: l’uomo

non ha presa sulla malattia, le si sottomette o reagisce, resiste o

cede: vive la contraddizione tra essere-persona e essere-corpo”.

Nel contempo, alla disintegrazione del corpo si aggiunge la

disintegrazione del tempo e dello spazio, perché l’uomo si

ripiega su se stesso lasciandosi assorbire dal presente e

limitando il suo spazio ad un mondo assolutamente circoscritto.

Fondamentale è, quindi, fornire alla persona un aiuto a

ricostruire l’integralità minacciata, nella consapevolezza che, se

è vero che l’uomo è il suo corpo, è altrettanto vero che egli si

avverte ed è “un di più” del suo corpo.

Ed infatti, come afferma Sartre, “... il corpo diviene sostanza

della malattia, ciò che è distrutto da essa, ciò attraverso cui si

estende questa forma distruttrice”.

25 VAN DER BRUGGEN H., Il malato protagonista sconosciuto, Roma, 1980, pag. 119.

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Ma vi è quel di più nell’uomo che può ancora rivendicare

una sua capacità di libertà (intesa come autodeterminazione) e

la sua capacità di decisione (intesa come adesione ad una

gerarchia di valori liberamente scelti e vissuti).

Ed ecco che al medico, secondo Rogers26, il malato chiede

essenzialmente una profonda comprensione empatica del suo

mondo, tale da poter percepire la realtà come lui, il malato, la

vede e la sente, senza essere, tuttavia, travolto dai suoi

sentimenti, sì da potergli togliere il peso di sopportare da solo le

sue paure e le sue preoccupazioni.

E citiamo ancora Sartre, che di questo sentimento dà, con

estrema sintesi, una descrizione molto intensa: “... gli altri me

l’hanno fatta conoscere, gli altri possono diagnosticarla: è

presente per gli altri anche quando io non ne ho coscienza. E’

quindi nella sua natura profonda un puro e semplice essere per

gli altri”.

E “gli altri” non sono solo i medici ma anche e con pari peso

i familiari, gli amici, tutti coloro i quali sono, insomma, legati al

malato da rapporti affettivi.

26 ROGERS C., La terapia centrata sul cliente, Polmonari A. e Rombanti I ed., Firenze, 1970, pagg. 68 e ss.

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Pure ad essi, infatti, è eticamente demandata l’assunzione di

responsabilità nei confronti del malato, fosse pure per essere i

“riceventi”, come afferma Salvino Leone27, di messaggi

formulati attraverso un codice verbale o non verbale, emessi dal

soggetto che soffre.

In risposta a questi messaggi bisogna soprattutto non essere

invadenti, “non presentarsi a chi soffre con la presuntuosa

sicurezza di chi vuole e sa rivolgergli il problema, non

ingolfarlo di parole, non riversargli esortazioni moralistiche,

non ricolmarlo di battute fuori luogo”.

Si tratta cioè di realizzare una presenza partecipativa, tale da

permettere al malato di lasciare emergere il suo “io” e di

offrirgli ascolto ed accoglienza.

Come osserva Paolo Cattorini28, nel rapporto malato (e,

lateralmente ad esso, famiglia) – medico, i medici di

deontologia identificano fondamentalmente tre principi

generali:

a) il principio dell’autonomia: rispetta la libertà dell’altro;

27 LEONE S., Oltre il dolore: la qualità della vita alla luce di una rinnovata teologia della soffernza, EDI OFTES, Palermo, 1992.

28 CATTORINI P., I principi dell’etica biomedica e le teorie etiche, in Quale etica per la bioetica?, Franco Angeli Libri, Milano, 1990, pagg. 67 e ss.

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b) il principio di “non-maleficence” associato a quello di

“beneficence”: previeni o togli il male e promuovi il bene

dell’altro;

c) il principio di giustizia: valuta la moralità sociale delle

tue azioni.

Il primo principio si fonda sul rispetto delle opzioni personali

e sul diritto alla riservatezza, avvertendo come irrinunciabile il

consenso informato ad azioni conoscitive e/o curative.

Il secondo principio riporta alla connotazione della “totalità”

della persona, nel suo valore antropologico e nella promozione

di esso.

Il terzo principio sottolinea la valenza sociale della regola

della giustizia e solidarietà, per cui a ciascun individuo

dovrebbero essere offerte le medesime chances di vedere

soddisfatti i bisogni fondamentali, la cui privazione costituisce

un danno importante per la dignità individuale.

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Queste regole fondamentali si ergono a protezione del

medico e del malato poiché, come osserva Engelhardt29, “pochi

pazienti si affidano senza riserve all’assistenza del medico. Di

solito si rifiuta qualcosa, si tiene qualcosa per sé. ... Allo stesso

modo, anche molti medici non si impegnano totalmente. Ci

sono sempre dei limiti alla dedizione degli esseri finiti... Gli

individui devono quindi comunicare e considerare ciò che ogni

parte desidera, per giungere ad un accordo... In breve, il

consenso libero ed informato ha il suo attuale significato morale

a causa delle difficoltà concettuali (vale a dire, l’incapacità

della ragione di stabilire autoritativamente una particolare

visione concreta della vira moralmente buona) e dei problemi

storici (vale a dire il collasso storico, sia della speranza cristiana

nella conversione di tutti a una particolare visione concreta

della vita moralmente buona, sia della speranza illuministica in

un argomento razionale generale, per fondare una simile visione

concreta”.

29 ENGELHARDT H.T., op. cit., pagg. 287 e ss.- 46 -

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Alla base della pratica del “consenso libero ed informato”

sta, dunque certamente la buona qualità del rapporto medico-

paziente, data la necessità del primo di informare l’altro

trasformandolo, “da straniero in terra straniera”, in ospite

residente nel mondo delle aspettative e degli interventi medici.

Spesso accade, infatti, che il malato non sappia (o non

voglia) accettare un’etichetta diagnostica che, comunque,

trasformerà la sua vita e che comporterà dei mutamenti anche

radicali.

In tal senso, il lavoro informativo ed esplicativo del medico

sarà tanto più agevole quanto la sua visione della vita, sempre

deontologicamente ispirata, sarà simile a quella dell’individuo

che avrà dinnanzi.

Tuttavia una volta assolto, in piena coscienza, questo ruolo,

egli dovrà imperativamente, secondo Engelhardt, rispettare

l’“autonomia” della scelta del malato.

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Diversa è invece al riguardo, l’opinione di Sgreccia30 che

afferma: “... lo stesso principio di libertà-responsabilità del

paziente, se viene delimitato dal principio di sostegno alla vita,

che è valore precedente e superiore alla libertà e che chiama la

responsabilità primaria, limita a sua volta la libertà e la

responsabilità del medico, il quale non può trasformare la cura

in costrizione in tutti gli altri casi in cui non è in questione la

vita”.

In questa chiave di lettura, il problema del “consenso libero

ed informato” appare in una prospettiva etica direi quasi

opposta.

Certo, c’è un consenso implicito, da parte dell’ammalato nel

momento in cui si affida al medico, affinché quest’ultimo

“operi per la cura ed il recupero della salute”.

Certo, ciò implica il dovere per il medico di informare il

paziente sull’andamento delle terapie e sul verificarsi di

qualsivoglia evenienza, reiterando il rinnovo del consenso.

Tuttavia è chiaro che le scelte del medico dovranno sempre

essere in favore della vita.

30 SGRECCIA E., op. cit., pag. 126.- 48 -

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CAPITOLO TERZO

LA MORTE

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Come documenta ampiamente l’analisi storica di Philip

Aries31 l’uomo occidentale ha sperimentato, in piena sintonia

con il mutare del tessuto sociale nel quale l’evento “morte” si

manifestava, vari modi di rapportarsi ad essa.

Nel mondo arcaico, per esempio, la tribù, come

magistralmente ci descrive Levi-Strauss32, si faceva carico

dell’individuo fin dalla nascita moltiplicando i riti di passaggio

fra le varie età ed i vari ruoli, integrandolo a differenti livelli

sociali, assistendolo in caso di malattia ed insegnandogli a

morire.

Nella nostra società, invece, in cui la morte è considerata

tribù, i “morenti”, come giustamente osserva Elias33, sono

“posti dietro le quinte della vita sociale per sottrarli alla vita dei

vivi”.

La morte è divenuta una realtà per molti aspetti più solitaria e

più meccanica, poiché ingenera una paura tale per cui

l’isolamento e l’abbandono cominciano sempre più spesso assai

prima del commiato.

31 ARUES P., L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi, Laterza, Bari, 1980.

32 LEVI-STRAUSS C., Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano, 1960.33 ELIAS N., La solitudine del morente, Bologna, 1985, pag. 43.

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Come dice Sgreccia, “da una parte la si ignora e la si

bandisce dalla coscienza, dalla cultura, dalla vita e, soprattutto,

la si esclude come un criterio veritativo e valutativo

dell’esistenza quotidiana; d’altro canto la si anticipa per

sfuggire al suo urto frontale con la coscienza”34.

Sempre Aries, riassume in quattro figure fondamentali lo

sviluppo, nel tempo del sentimento della morte.

La prima, è la “Morte Addomesticata” che si identifica

nell’atteggiamento dell’uomo medioevale per il quale essa è un

evento naturale e quindi scevro di qualsivoglia tonalità

drammatica: il solo grande timore è nella possibilità che essa

sorprenda l’uomo all’improvviso.

Altrimenti, l’agonia è contrassegnata da gesti carichi di un

forte simbolismo, a cominciare dalla porta di casa che rimane

aperte per permettere a chiunque di fermarsi presso il morente a

riprova di un profondo senso di “comunità” e al tempo stesso di

un forte sentimento religioso.

34 SGRECCIA E., op. cit., pag. 466.- 51 -

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Nel Rinascimento, invece, la morte è considerata come

perdita e dissoluzione della propria realtà individuale (Morte di

sé): essa diventa, quindi, un evento fortemente drammatico

identificabile con la massima violenza esercitabile sull’uomo

che viene traumaticamente sottratto al godimento della vita.

La morte si veste così di aspetti cupi e paurosi, cui

contribuiscono certamente, sotto il profilo storico, le guerre, le

pestilenze e, con esse, le orrende visioni dei cadaveri

abbandonati.

Alla fine del 1700 si afferma un nuovo sentimento della

morte, nato dall’idea che “se la vita è troppo spesso sofferenza e

allora ben venga la morte della carne attraverso la quale trova

pace lo spirito”.

E’ la “Morte di te”, in cui la rottura con la vita è compensata

con la ricostruzione nell’aldilà, mentre per i viventi si sofferma

la religione del ricordo, eternando la relazione affettiva che lega

gli scomparsi ai viventi.

Nella nostra epoca, lo scenario della morte si è dissolto e la

morte è divenuta l’innominabile (la Morte espulsa).

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“La morte”, dice infatti Aries35, è stata dissezionata tagliata

in passi tanto piccoli da rendere impossibile sapere qual è il

passo della morte reale... Tutte queste piccole morti silenziose

hanno sostituito il grande atto drammatico della morte e

nessuno ha più la forza o la pazienza di attendere un momento

che ha perso parte del suo significato”.

La censura della morte tocca il linguaggio (perifrasi ed

eufemismi), entra nella psicologia (la morte è da dimenticare),

penetra il costume sociale è un fatto privato che quasi non

coinvolge neppure la famiglia.

Si muore soli: ma anche il morente tende ad essere

espropriato della propria morte.

Tuttavia osserva il Tettamanzi, la morte si ribella, costituisce

un’aperta sfida ai quadri razionali ed effecientisti sui quali si è

costruita l’intera società occidentale.

La morte, infatti, non è programmabile e la sua

imprevedibilità suona ad irrisione della razionalità: “così in una

società protesa verso la categoria successo, la morte è, appunto,

l’insuccesso, il clamoroso e totale insuccesso”36.

35 ARIES P., Storia della morte in occidente, Milano, 1976.36 TETTAMANZI D., op. cit., pag. 426.- 53 -

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Bisogna, dunque, riappropriarsi del nesso irriducibile che

esiste tra morte e vita.

La morte, infatti, è una dimensione costitutiva della vita; è un

aspetto dell’esperienza umana nel mondo e ne attraversa l’intera

sua storia.

Il morire non si riduce all’evento terminale, nel quale la vita

si conclude, ma è, più profondamente, una modalità

dell’esistere che segna di sé le diverse fasi in cui la vita si

dispiega.

Ogni giorno viviamo e, al tempo stesso, moriamo nella

continua separazione da ciò che siamo stati, dalle esperienze

che abbiamo fatte e di cui possiamo conservare solo la

memoria.

Solo la consapevolezza realistica di questa unità indissolubile

rende l’uomo capace di mediare concretamente possibilità e

limiti, rompendo il sogno dell’immortalità e accogliendo il

proprio “essere-per-la-morte” che, nell’antichità, spesso

permeava il pensiero dei filosofi.

Da Platone la morte era considerata priva di negatività: essa

non annienta, ma libera; non pone termine, ma completa; non

significa dolore, ma festa.

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Gli stoici vedevano la morte misteriosamente integrata

nell’ordine dell’universo: il male e la sofferenza non sono parte

della vita del saggio, ma se quanto di doloroso può avvenire

dall’esterno, fosse tanto intenso da indurre alterazioni profonde

nel sentimento della vita, allora, l’uomo anteriormente libero

dispone di una possibilità ultima di manifestare la propria

indipendenza, attraverso l’eutanasia.

Il cristianesimo, con la sua rinuncia alla elusione edonistica

della sofferenza, spinge l’uomo ad aprire la sua anima,

attraverso Cristo, alla potenza di Dio e a consegnarsi alla Sua

misericordia.

Il cristianesimo dovrebbe anelare questo momento come

ritorno alla “beatitudine” della contemplazione di Dio e quindi,

se anche ciò accadesse attraverso la sofferenza, la dovrebbe

sopportare con gioia, in quanto strumento di partecipazione alla

immortalità.

In questa chiave di lettura, Leibiniz della “Teodicea”, elabora

una “giustificazione” di Dio di fronte allo scandalo umano della

sofferenza in tutte le sue forme: per il filosofo, infatti, il dolore,

se inserito nel progetto di Dio, si rivela salutare e buono.

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Oggi, come osserva il Doucet37, nelle discussioni sulla morte

e sul morire, due forti correnti di opinione si fronteggiano:

quelli che sono per la libera scelta innalzando la bandiera della

“qualità” della vita, quelli che sono per la vita si richiamano alla

“sacralità” di essa.

E, nel confronto delle due concezioni e delle motivazioni che

le animano, il momento più divaricante è, al tempo stesso,

lacerante e quello che nasce dalla osservazione del dolore,

spesso prolungato, come preludio di una morte ormai

ineluttabile.

Riguardo, comunque, al tema della morte, va anche secondo

la nostra opinione, aperta una parentesi sulla questione della

definizione del “giudizio di morte”.

Secondo la comune accezione, la morte è definita dalla

cumulativa e definitiva cessazione delle attività del cosiddetto

“tripode vitale del Bichat”, inteso come complessivo di sistema

respiratorio, sistema cardio-circolatorio e sistema nervoso

centrale.

37 DOUCET H., Al fiume del silenzio, SETI, Torino, 1992, pagg. 14 e ss.- 56 -

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Oggi, invece, si riconosce quasi unanimemente che la morte

clinica dell’individuo può essere lecitamente definita

dall’accertamento del permanere (per almeno dodici ore) dello

stato di “morte cerebrale totale”.

Questa è definita dall’assenza di qualsivoglia forma di

attività del tronco cerebrale e va ben al di là della morte

neocorticale (o sindrome apallica) che corrisponde alla

scomparsa della coscienza e alla perdita delle ordinarie

manifestazioni della vita personale.

Tale distinzione è di importanza notevole perché, come

d’altro canto è abbastanza noto esistono casi di

elettroencefalogramma silente, indicante la impossibilità di un

recupero delle funzioni di coscienza e di relazione, con

mantenimento del battito cardiaco e del respiro (sia pure

assistiti) che si prolungano per mesi, anche facendo ricorso alle

sole cure ordinarie (quindi senza alcun accanimento

terapeutico).

In conclusione, lo sviluppo scientifico ha cambiato tante

opinioni sull’uomo e sul mondo e, certamente, continuerà a

cambiarle ancora, per cui la morte sarà ridefinita

continuamente, così come tanti altri fenomeni.

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Morire oggi è però, certamente, per molti aspetti più

solitario, più meccanico, più disumanizzato e disumanizzante

che nel passato per cui, forse è giunto il momento di cominciare

ad appropriarsi del “senso della morte”, riappropriandosi del

“senso della vita”.

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CAPITOLO QUARTO

L’EUNATASIA

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4.1 Storia di una parola

Il tema dell’eutanasia ha, in realtà, una storia molto antica38.

Già nella cultura greco-romana era presente una riconosciuta

“libertà di andar via”, che permetteva ai malati di por fine alla

loro vita anche con l’aiuto degli altri (familiari, amici, servi).

La combinazione di tolleranza ed indifferenza, che

permetteva tali pratiche, ebbe fine con il nascere ed il

propagarsi del cristianesimo.

La carità cristiana, infatti, spingeva verso la sopportazione

della sofferenza vedendo anzi nella sublimazione di essa un

mezzo per avvicinarsi a Dio ed il sesto comandamento (quinto

nel cattolicesimo romano e nelle tradizioni luterane) proibiva

assolutamente l’auto o etero-soppressione della vita.

38 GRUMAN G.J., Death and dying: euthanasia and sustaining life. Historical perspectives, in Encyclopedya of Bioethics, W. Reich ed., Washington, 1978, pagg. 261 e ss.

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Nel Rinascimento poi, la scienza ufficiale, con forte

connotazione religiosa, affermava la teoria secondo la quale

ogni uomo è dotato “di un certo ammontare di sostanza vitale”:

se questa sarà stata utilizzata, nel corso della vita, con ritegno,

la morte naturale e benigna; se sarà stata consumata da una

attività innaturale e disordinata, la morte sarà una lenta,

dolorosa agonia.

Nel contempo la pratica dell’alchimia, originata e tramandata

dalla cultura dell’antico Egitto, faceva penetrare nella società

l’ambiziosa richiesta di “prolungamento della vita” attraverso il

dominio dell’uomo sulla natura.

In questo clima, si inserisce la figura di Francis Bacon che

secolarizza ed esalta la visione di “prolongevity”,

subordinandola alla ricerca sperimentale biomedica, unica

capace di controllare i processi corporei ed intravedendo in

questi ultimi e nel loro “esaurimento” la richiesta di morte da

assecondare, usando i “segreti della natura per fare arrivare i

pazienti moribondi ad una morte più umana”.

Dello stesso periodo storico è l’assunzione da parte di un

governo, nella persona di Thomas More, di una posizione in

favore dell’eutanasia.

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Nell’Utopia il More, infatti, sostiene che “i pazienti con

pene, con malattie senza speranza dovrebbero essere consigliati

da preti e magistrati di avvicinarsi ad una rapida morte, o con il

suicidio o per intervento delle autorità”.

In questa visione particolare aveva grande influenza la

concezione che il prolungamento della vita avrebbe dovuto

essere incoraggiato solo se fosse stato possibile permettere,

contemporaneamente, un adeguato “vigore produttivo”.

In tal modo, comincia ad inserirsi nel tema della vita e della

morte dibattuto tra scienza e religione, la strategia del

socialmente ed economicamente vantaggioso.

Nell’età dell’Illuminismo, invece, il progresso incredibile

della scienza medica sembra far cadere l’interesse al tema

dell’eutanasia.

In realtà, il godimento dei successi ottenuti in quell’epoca,

nella terapia e con la sperimentazione delle prime tecniche di

rianimazione, aprì nuovi orizzonti di risoluzione di situazioni

fino ad allora considerate disperate.

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E sta in tale realtà la motivazione della definizione data dal

Bichat, alle soglie del 1800, della morte quale “limite

invalicabile all’opera di opposizione della medicina alle forze di

decadimento e di caduta, insite nell’uomo”.

Oggi, Adriano Bompiani39, presidente della Commissione

Nazionale di Bioetica, scrive che: “In senso letterale, la parola

eutanasia significa morte buona, dolce, dunque senza dolore.

Ma, nel linguaggio comune e popolare, è la morte pietosa cioè

quella che potrebbe essere data a chi è affetto da malattia

inguaribile e dolorosa, prossimo ormai alla fine, per

abbreviargli le sofferenze”.

In questa definizione è, in maniera chiara, evidenziata la

caratteristica della volontarietà che, se è evidente nella scelta

commissiva (o attiva) è pure presente nella scelta omissiva (o

passiva).

39 BOMPIANI A., Assistenza integrale, in Oltre l’eutanasia e l’accanimento, Savoldi V. ed., EDB, Bologna, 1991.

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Il tema dell’eutanasia costituisce, evidentemente, oggi più

che mai un drammatico crocevia nel quale si incontrano –

scontrano interrogativi etici (valore della vita significato della

sofferenza, dignità del morire) e scientifico – medici (doveri del

medico e diritti del malato, a fronte dei progressi compiuti nel

campo delle tecniche di rianimazione, delle ricerche

farmacologiche e delle pratiche dei trapianti).

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4.2 L’eutanasia oggi: i termini di un dibattito

Come osserva il Viafora, punto nodale del dibattito di oggi è

il ruolo del medico “che rischia di trovarsi solo di fronte alla

scelta, comunque colpevolizzato, sia che tenti di prolungare la

vita sia che non si opponga al processo del morire, quando non

intervenga attivamente ad abbreviare la vita qualora non venisse

richiesto”40.

La medicina, però, ed è questa l’opinione del Mori,

“presuppone l’esistenza di una teologia intrinseca, propria

dell’organismo e la assume come inviolabile”41.

Pertanto, anche quando la vita del paziente è ridotta a uno

stato vegetativo, il medico si dovrebbe sentire obbligato a

rispettare la vita e non a domandarsi perché una tale vita

dovrebbe mai essere protetta e mantenuta.

Il porsi un tale interrogativo implica, invece, il riconoscere la

liceità dell’eccezione al principio assoluto e quindi il

riconoscimento della possibilità di un mutamento di posizione

etica.

40 VIAFORA C., op. cit., pag. 273.41 MORI M., op. cit., pag. 62.- 65 -

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Ecco così che, a fronte del problema “eutanasia”, sta il

comune bisogno di trovare delle regole dalle quali lasciarsi

guidare, piuttosto che seguire la rischiosa via della formazione

di una coscienza morale che sappia fare “opera di discernimento

e si orienti in modo creativo, nelle situazioni inedite del nostro

tempo”42.

Se, infatti, fino a non molti anni fa la posizione secondo la

quale il dovere del medico di fare il possibile per prolungare la

vita del paziente sembrava essere auto-evidente, oggi, come

afferma sempre il Mori, “il vitalismo è eticamente

inaccettabile” poiché le tecniche sono diventate talmente grandi

che l’intervento volto al prolungamento della vita può anche

sfociare in un accanimento terapeutico che sottintende il fatto

che la condizione di vita, così artificialmente mantenuta, possa

risultare talmente misera da farla ritenere inutile.

Di fatto, mentre la nostra cultura è ossessionata dalla

negazione della morte, per tanti il morire a causa del

rallentamento dei processi patologici operato dalla scienza

medica, acquista una diversa ampiezza, sia in senso temporale

che di contenuti, riguardo alla cosiddetta “Fase Terminale”.

42 MORI M., op. cit., pagg. 63 e ss.- 66 -

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Ed ecco che, proprio da questa nuova dimensione, il senso

pressante che manifesta, a volte, la richiesta di eutanasia da

parte del malato (o, ed è un caso ancora diverso per le sue

implicanze etiche, da parte dei familiari) pone per il medico il

problema sia di stabilire quando ogni possibile terapia sarebbe

un mero “accanimento” sia di “decodificare” il reale significato

della domanda di eutanasia.

Dottrina giuridica e medico legale concordano, afferma il

Bompiani43, nel riconoscere la validità del principio “voluntas

aegrati suprema lex” che non consente al medico di andare

contro la volontà “informata” del paziente né coartarla.

Il medico, quindi, una volta formulato il giudizio, in piena

onestà e oggettività, che è iniziata la fase terminale,

doverosamente dovrebbe sospendere (o astenersi) dalle terapie

sproporzionate alle circostanze cliniche che configurerebbero

l’accanimento terapeutico, se espressamente richiesto dal

malato, la cui posizione sarebbe peraltro eticamente accettabile.

All’opposto, non si dovrebbe il medico sottrarre ad ogni

sforzo terapeutico ad oltranza, se ciò venisse domandato dal

malato, pur correttamente informato della situazione reale.

43 BOMPIANI A., op. cit., pag. 20.- 67 -

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La seconda opzione trova il pieno accordo delle parti,

essendo in essa la difesa della vita considerata come bene sacro

ed inviolabile.

Riguardo al primo caso, si pongono, invece, degli

interrogativi cui ancora oggi è ambiguo rispondere.

Leggiamo infatti nel Codice Italiano di Deontologia Medica,

art. 40: “... In nessun caso anche se richiesto dal paziente o dai

suoi familiari, “il medico) deve attuare mezzi atti ad abbreviare

la vita di un malato. Tuttavia, nel caso di malattia a prognosi

sicuramente infausta, il medico può limitare la propria opera

alla assistenza morale e alla prescrizione ed esecuzione della

terapia atta a risparmiare al malato inutili sofferenze. La

decisione di porre termine all’uso dei mezzi di sopravvivenza

artificiale, nei casi di coma irreversibile tenuto conto del parere

dei familiari, sarà assunta in funzione delle conoscenze mediche

del momento”.

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Ora, come osserva Sgreccia44, “il punto più delicato

dell’articolo è rappresentato dall’ultimo comma, dove non è

detto che la sospensione dei mezzi di sopravvivenza artificiale

venga attuata quando sia sopravvenuta la morte clinica, ma si

lascia una dizione aperta alle conoscenze mediche del momento

nella valutazione del coma irreversibile e alla condizione della

volontà dei parenti”.

Ma va precisato che, per cure normali, pure per pazienti in

coma irreversibile, come per malati in fase terminale, si

intendono, oltre all’impiego dei mezzi tecnici necessari, anche

l’idratazione e l’alimentazione (artificiali o meno), l’aspirazione

dei secreti bronchiali, la detersione delle ulcere da decubito e,

ovviamente, l’uso dei farmaci analgesici.

44 SGRECCIA E., op. cit., pag. 493.- 69 -

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4.3 Il versante laico

Nel 1974, “THE HUMANIST” pubblicò il “Manifesto

dell’eutanasia” con la firma di quaranta personalità del mondo

della cultura e tra questi anche tre premi nobel (Monod,

Pauling, Thompson).

In esso si legge:

“Affermiamo che è immorale accettare e imporre la

sofferenza.

Crediamo nel valore e nella dignità dell’individuo, ciò indica

che non si lasci libero di decidere ragionevolmente della sua

sorte.

Non può esservi eutanasia umanitaria, all’infuori di quella

che provoca una morte rapida ed indolore ed è considerata

come un beneficio dell’interessato.

E’ crudele e barbaro esigere che una persona venga

mantenuta in vita contro il suo volere e che lei si rifiuti

l’auspicata liberazione, quando la sua vita ha perduto qualsiasi

bellezza, significato, prospettiva di avvenire.

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La sofferenza inutile è un male che dovrebbe essere evitato

nella società civilizzata...”45.

Dieci anni più tardi, nel 1984, un nuovo Manifesto aggiunse

al precedente la sottolineatura del “rispetto per le condizioni

della morte”, rispetto che include la ricerca di una migliore

qualità della vita terminale e il netto rifiuto di qualsiasi

accanimento terapeutico.

Il movimento a favore dell’eutanasia oggi non si limita ad un

atteggiamento di comprensione umanitaria, ma mira

all’ottenimento della legalizzazione.

Va pure osservato che l’opinione pubblica viene

sensibilizzata, dai mass-media e dai dibattiti pubblici, a

sopportare questa richiesta di legittimazione, soprattutto nei

paesi più fortemente industrializzati(i cosiddetti paesi avanzati)

per cui sarebbe abbastanza semplice correlare questo

atteggiamento con il mito e l’adesione all’utilitarismo

produttivistico.

45 LAMB D., Il confine della vita, Bologna, 1987,pag. 143.- 71 -

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A riprova di ciò, il primo paese nel quale, in seguito a

specifiche pressioni dell’opinione pubblica e a concomitanti

battaglie giudiziarie, è stata approvata una normativa giuridica

in tal senso, è stato lo Stato della California nel 1986 seguito da

altri sei stati dell’Unione.

Il Natural Death Act (legge sulla morte naturale) è, infatti,

come chiarisce Sgreccia46, un “dispositivo di legge che, in

concreto, riconosce ad ogni adulto il diritto di disporre per la

non applicazione e per la interruzione delle ‘terapie di

sostentamento vitale’, nel caso versi all’estremo delle

condizioni esistenziali”.

Tale disposizione si realizza attraverso i “living wills”.

Questi sono “testamenti biologici”, sottoscritti dall’autore in

presenza di due testimoni (non familiari né a qualsivoglia titolo

eventuali eredi né medici curanti) e nei quali “in piena

coscienza e lucidità” si esprime la volontà eutanasica nei

termini già detti.

46 SGRECCIA E., op. cit., pag. 494.- 72 -

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In Europa, il Cantone di Zurigo (Svizzera) ha approvato con

referendum, il 27 settembre 1977 una legge analoga, mentre il

29 aprile 1991 è stata depositata al Parlamento Europeo la

“Proposta di risoluzione sull’assistenza ai pazienti terminali”

dell’on. Leon Schwartzenberg47 nella quale si legge:

“... mancando qualsiasi terapia curativa e dopo il fallimento

delle cure palliative correttamente impartite sul piano tanto

psicologico quanto medico e ogni qualvolta il malato

pienamente cosciente chieda, in modo insistente e continuo, che

sia fatta cessare un’esistenza ormai priva per lui di qualsiasi

dignità ed un collegio di medici, costituito all’uopo, constati

l’impossibilità di dispensare nuove cure specifiche, detta

richiesta deve essere soddisfatta senza che, in tale modo, sia

pregiudicato il rispetto della vita umana”.

E’ del tutto evidente che, attraverso questa formulazione si

sollecita la legalizzazione della cosiddetta “eutanasia attiva”, sia

pure in contesto estremamente complesso ed articolato in cui si

fa ampio ed incisivo richiamo all’obbligo di tentare di guarire il

paziente (senza sconfinare nell’accanimento terapeutico) e alla

indispensabilità delle “cure palliative”.

47 Da Notizie di Politeia, Bibliotechne, Milano, 1991, pagg. 3 e ss.- 73 -

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Ancora più recente (è, infatti, del 9 febbraio 1993) è

l’approvazione, in Olanda, di una legge che modifica la

certificazione, da parte del medico curante, dell’avvenuto

decesso per cause naturali di un paziente.

Secondo tale legge “il medico che è intervenuto per

abbreviare la vita di un malato terminale può, a giudizio

dell’ufficiale competente, non essere accusato di omicidio

presso il Tribunale, e quindi non essere perseguito”48.

Il medico è, però, tenuto a compilare (e trasmettere

all’ufficio comunale competente) un dettagliato questionario in

cui sono contenute tutte le domande atte a chiarire la storia

clinica, le terapie messe in atto, il supporto psicologico e

informativo offerto, il consulto assunto, la richiesta lucida

reiterata e volontaria di eutanasia da parte del paziente e

l’intervento attivo finale in risposta alla domanda.

48 Da Gli inganni della morte dolce, Famiglia Oggi, Roma, aprile 1993, pag. 11.

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4.4 Eutanasia? La domanda eutanasica e il diritto di

morire

Nonostante la limpidezza dei contenuti ideologici e la

tensione etica sottintesa in queste dichiarazioni, la domanda di

morte, e l’assenso ad essa, rimangono secondo noi fortemente

ambivalenti.

Va, infatti, considerato come, spesso, la richiesta nasca da

una sofferenza fisica talmente intesa da pervadere, in ogni suo

anfratto, la coscienza.

In tale condizione, il malato, come osserva il Verspieren49,

perde gradualmente il rapporto con gli altri per concentrarsi

esclusivamente sul proprio dolore e, nelle fasi di stasi,

sull’angoscia-terrore d sentirlo ricomparire, giungendo così fino

a perdere il desiderio di vivere.

Contro questo “status” la terapia del dolore ha a disposizione

enormi risorse che possono essere minutamente calibrate.

49 VERSPIEREN P., Eutanasia? Dall’accanimento terapeutico all’accompagnamento dei morenti, ed. Paoline, Cinisello Balsamo (M), 1985, pagg. 108 e ss.

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Sicuramente, se il malato saprà che la sensazione dolorosa

potrà essere prevenuta e, quindi, non ricomparirà, non solo ne

trarrà un ovvio sollievo, ma avrà delle chances maggiori per far

fronte ad un altro tipo di sofferenza: quella emozionale e

morale, legata al doversi confrontare con la realtà di una serie di

perdite connesse con la morte che avanza.

Il malato, infatti, si trova, gradualmente, costretto a

rinunciare ai propri ruoli sociali e familiari e alle responsabilità

ad essi legate, ricavandone un forte senso di alterazione

dell’identità personale, mentre si fa strada la consapevolezza

della dipendenza dall’altro contro il mito dell’autonomia che,

nella società moderna, è sinonimo di dignità della persona.

Ed ecco che, “decodificare la domanda di morte”, in questa

situazione, può significare identificare in essa una estrema

domanda di “amore convincente”.

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Come dice Elisabeth Kubler-Ross50, “per il malato grave, la

cosa più angosciante è affrontare il suo destino solo e

soprattutto solitario: se, infatti, si è sempre soli nella sofferenza

e nell’affrontare la morte, quello che è intollerabilmente penoso

è l’essere solitari, abbandonati”.

Il ruolo della famiglia diviene, così, anche terapeutico,

contribuendo a rompere il circolo vizioso entro il quale il

malato si sente costretto, e veicolando un messaggio di

conferma del suo valore di “persona”.

Resta, tuttavia, il caso di malati che desiderano veramente di

essere aiutati a morire e che rivendicano il diritto di “decidere”,

nell’estremo tentativo di affermare il proprio controllo sul

destino, dominando la morte.

Questo comportamento, secondo Engelhardt, rispecchia una

opinione filosofica della vita per la quale essa non è un bene in

sé, ma, piuttosto assume valore attraverso i beni che consente di

realizzare.

50 KUBLER-ROSS E., La morte e il morire, Cittadella Editrice, Assisi, 1976, pagg. 17 e ss.

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L’aggrapparsi ostinatamente alla vita ad ogni costo

indicherebbe quindi altrettanta mancanza di integrità morale,

che la scelta del suicidio come facile fuga dai doveri e dai

fastidi della vita.

Hans Jonas51, nel suo saggio Il diritto di morire, pone un

interrogativo:

“Come la mettiamo se la morte di un uomo viene sottoposta

al controllo umano?

Se la sua volontà (qualora sia quella di morire) non è forse

la sola che in tale circostanza debba essere ascoltata?”.

Il diritto di morire, secondo questo filosofo, infatti, non può

scontrarsi restando sconfitto con la tecnologia medica moderna

che “anche quando non può più provocare la guarigione, ma

neanche offrire una proroga di vita degna di essere vissuta è,

tuttavia, in grado di procrastinare la fine oltre il punto in cui la

vita ha ancora valore per il paziente stesso, anzi, oltre il punto

in cui questo è ancora in grado di darle un valore”.

Certamente, la morte non può mai essere una “scelta

influenzata”.

51 JONAS H., Il diritto di morire, Il Melangolo, Genova, 1991, pagg. 10 e ss.

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Però, se la vita può avere (e deve, forse) i suoi patrocinatori,

questi devono tacere dinanzi alla scelta contro la sofferenza, che

si realizza nel desiderio di minimizzare le pene, anche quando

questa scelta coincide con un’accelerazione della fine.

Questa posizione sembra echeggiare le parole di Seneca nel

dialogo Sulla tristezza della vita:

“... il bene non sta nel vivere, ma nel vivere bene: il saggio

perciò vive finché deve, non finché può... egli penserà sempre

alla qualità della vita non alla quantità”.

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4.5 Il versante cattolico: sacralità della vita e sacralità

della morte

Se le posizioni di Jonas e di Engelhardt, nonché quelle dei

firmatari dei Manifesti citati concordano nel considerare lecita

l’eutanasia, nel momento in cui la qualità della vita non sia più

accettabile e la vita non appaia più “degna” di essere vissuta, su

un altro versante, direi opposto, si colloca la Chiesa Cattolica.

Pur concordando, infatti, con le posizioni laiche sul deciso

“no” all’accanimento terapeutico e sul massimo rispetto per la

qualità della vita, la dottrina cattolica non ammette la liceità

dell’eutanasia, sia essa intesa come l’omissione delle cure

necessarie alla sopravvivenza che come atto stesso del

procurare la morte.

A riprova di ciò, riportiamo alcuni passi della “Dichiarazione

sull’eutanasia” della Congregazione per la dottrina della fede

(del 5 maggio 1980)52, commentandoli brevemente:

52 TETTAMANZI D., Chiesa e bioetica, Editrice Massimo, Milano, 1988, pagg. 73 e ss.

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1. “... l’eutanasia si situa a livello delle intenzioni e dei

metodi usati...” – già in questa breve frase, appare evidente

come la Chiesa non ammetta distinzioni tra eutanasia attiva

o passiva, volendo così precisare che non vi è minore colpa

nel secondo caso, poiché ciò che importa è “l’intenzione”

dell’atto eutanasico.

2. “... è necessario ribadire, con tutta fermezza, che niente e

nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano

innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto,

vecchio, ammalato o agonizzante” – in nessun caso, quindi,

l’eutanasia è lecita, né per sé né per l’altro, comunque

“quest’altro” si configuri: si esclude pertanto, risolutamente

l’eutanasia neonatale, per i nati fortemente handicappati,

l’eutanasia per gli anziani malati di Alzheimer... e per tutte

quelle cosiddette “non persone”, secondo la considerazione

di Engelhardt.

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3. “... Nessuno inoltre può chiedere questo gesto omicida

per se sesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né

può consentirvi esplicitamente o implicitamente...” – si

esclude anche che l’eutanasia possa configurarsi come

“suicidio razionale assistito” e possa così essere considerata

se non letica moralmente, perlomeno non punibile

legalmente.

4. “... E’, però, molto importante oggi proteggere, nel

momento della morte, la dignità della persona umana e la

concezione cristiana della vita, contro un tecnicismo che

rischia di divenire abusivo...” – dunque, a fianco del “no”

deciso all’eutanasia, un “no” altrettanto deciso

all’accanimento terapeutico, visto un negativo come

offensivo della dignità della persona.

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5. “... In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere con il

consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla

medicina più avanzata, anche se sono allo stadio

sperimentale e non sono esenti da qualche rischio:

accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio di

generosità per il bene dell’umanità... E’ anche lecito

interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati

deludono le speranze riposte in essi.

Ma nel prendere tale decisione si dovrà tenere conto del

giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari, nonché

del parere di medici veramente competenti...” – ed in ciò è

implicito come il principio della sacralità della vita: sulla

sperimentazione, infatti, la Chiesa prende posizione netta in

difesa dell’autonomia e del rispetto della “persona”: punto

focale di tutta la bioetica cattolica.

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6. “... E’ sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che

la medicina può offrire.

Non si può quindi, imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere

a un tipo di cura che per quanto già in uso, tuttavia non è

ancora esente da pericoli o è troppo oneroso.

Il suo rifiuto non equivale al suicidio: significa piuttosto o

semplice accettazione della condizione umana, o desiderio

di evitare la messa in opera di un dispositivo medico

sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure

volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o

alla collettività.

Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi

usati,k è lecito in coscienza prendere la decisione di

rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un

prolungamento precario e penoso della vita...

Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non

avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo...” – e

qui è ribadita con chiarezza la distinzione tra mezzi ordinari

e straordinari, estremamente importante per mantenere la

distanza tra due atteggiamenti che potrebbero, a prima vista,

identificarsi: l’omissione illecita delle cure (detta eutanasia

passiva, anche se nel documento volutamente non si

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riprende la differenza) e la sospensione delle cure lecita,

anzi doverosa (e che è il no all’accanimento terapeutico).

La distinzione sta nel modo diverso in cui “le cure” sono

intese: nel primo cure ordinarie (necessarie alla

sopravvivenza: ossigeno, idratazione, nutrizione per flebo),

nel secondo cure straordinarie (interventi chirurgici o altri

che siano rivolti ad una terapia ormai senza speranze).

Ecco quindi che per il cattolico non ci sono dubbi circa la

liceità morale di alleviare le sofferenze, con la

somministrazione di analgesici e narcotici, anche se l’uso di

essi comporta una fine più rapida.

In questo senso si muovevano già gli insegnamenti di Pio

XII53:

53 Dagli Atti del IX Congresso della Società Italiana di Anestesiologia (24 febbraio 1957).

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“Voi ci domandate: la soppressione del dolore e della

coscienza, mediante narcotici, quando ciò è richiesto da

un’indicazione medica, è consentita dalla religione e dalla

morale, al medico e al paziente, anche quando si avvicina la

morte e si prevede che l’uso dei narcotici accorcerà la vita?

Bisogna rispondere; se non ci sono mezzi e, se nelle circostanze

concrete, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri

morali e religiosi, sì”.

Che cosa distingue, c’è da chiedersi, la somministrazione,

anche in alte dosi, di analgesici che, usati per alleviare il dolore,

possono però al tempo stesso accelerare la fine, da un atto

eutanasico attraverso la stessa somministrazione?

Non c’è qui il rischio di un’altra identificazione, addirittura

con l’eutanasia attiva?

La posizione della Chiesa è, anche qui, molto chiara: la

distinzione è nella “intenzione” che non è quella dell’atto

eutanasico, ma solo l’altra, giustificabilissima, dell’alleviare il

dolore.

La morte, insomma, sopraggiunge per di più, ed è,

sottolineiamolo, sempre una morte inevitabile e a brevissima

scadenza.

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Dunque, come afferma Sgreccia54, la Chiesa si richiama

chiaramente alla condizione che “rispettare l’uomo nella sua

fase finale vuol dire rispettare l’incontro dell’uomo con Dio, il

suo ritorno al creatore, escludendo ogni altro potere da parte

dell’uomo, sia escludendo il potere di anticipare questa morte,

sia escludendo il potere di impedire quest’incontro, con una

forma di tirannia biologica”.

Certo, la morte è un “evento inevitabile”, ma essa a

differenza che nell’animale, nell’uomo è chiamata a divenire un

fatto da assumere e da vivere.

In questo senso, dice il Tettamanzi55, “morire con dignità

umana significa affrontare la morte come parte integrante e

irrinunciabile dell’esistenza dell’uomo, come momento

riassuntivo e perfezionativo dell’intera vita umana: per questo

la morte esige d’essere vissuta, accettata e partecipata, in

consapevolezza e libertà responsabile”.

54 SGRECCIA E., op. cit., pag. 471.55 TETTAMANZI D., op. cit., pag. 461.- 87 -

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Indice generaleINTRODUZIONE......................................................................1

CAPITOLO 1: QUALE ETICA PER LA BIOETICA?............9

CAPITOLO 2: L’UOMO E LA MALATTIA.........................35

CAPITOLO 3: LA MORTE....................................................49

CAPITOLO 4: L’EUNATASIA..............................................59

4.1 Storia di una parola.......................................................60

4.2 L’eutanasia oggi: i termini di un dibattito.....................65

4.3 Il versante laico.............................................................70

4.4 Eutanasia? La domanda eutanasica e il diritto di morire

.............................................................................................75

4.5 Il versante cattolico: sacralità della vita e sacralità della

morte....................................................................................80

BIBLIOGRAFIA.....................................................................89

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Jenny Ruggeri (1966) nasce a Messina e conseguiti gli studi nella città natale, dove si laurea in Lettere Moderne presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, si trasferisce a Bergamo per insegnare nelle scuole bergamasche. Dopo dieci anni di insegnamento matura l'idea di fare qualcosa di diverso dalla docenza. Ha studiato e studia gli eruditi grammatici (Plinio, Fulgenzio, etc. ) i lirici (Catullo, Orazio, Properzio) ed i narratori (Petronio ed Apuleio). Nel tempo libero si diletta a scrivere racconti e novelle. Collabora con alcune testate giornalistiche ed è proprietaria dal 2003 di un giornale a tutela e difesa del consumatore (Customer Care Service).

Il contesto di bioetica ed eutanasia è quello di valutare ed esaminare attraverso un dibattito sistematico le ripercussioni, non solo positive, ma anche a volte oscuratamente negative che il progresso scientifico e tecnologico ha. Infatti il compito che la bioetica ha e che tenta di svolgere, guarda sempre all'individuo collocato nel genere umano nel suo complesso, dividendo le figure di filosofo e teologo. Questi si occupano di dividere, riassumere e prospettare sistematicamente tutti i temi dibattuti in questo studio, dando spiegazione delle motivazioni di essi, in termini di "costi e benefici, diritti e responsabilità, ruoli ed impegni".

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