L'etica è per le persone di Roberto Mordacci - Estratto

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Chiamati al difficile compito di definire la nostra identità, realizzando in noi, nel tempo che ci è concesso, «qualcosa che sia unico e al tempo stesso possa valere, per chiunque lo osservi, come un buon esempio di un’esistenza umana riuscita», spesso volgiamo i nostri occhi alla morale. Questa, però, non può essere una cappa asfittica che rattrappisca le nostre aspettative personali, ma deve nascere dal riferimento a un principio alto, capace di essere stimolo e guida in questo difficile compito. «Solo in questo modo l’etica rimane una ricerca personale, una sfida e un luogo di formazione di sé, invece di divenire una scusa per non pensare, per obbedire a un comando o per confondersi nel conformismo di una tradizione o di una moda».

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S P I R A G L I

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Roberto Mordacci

L’etica è per le persone

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© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2015 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)

ISBN 978-88-215-9519-6

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INTRODUZIONE

Perché un personalismo critico

Invocata da molti, la morale si nasconde. Il bisogno di etica – che non può certo essere negato – è ambiguo, forse ingannevole. In questo libro, vorrei mostrare come la morale nasca da un’esigenza del tutto naturale nella vita delle persone e suggerire una prospettiva, quella che chiamerò personalismo critico, che renda giustizia a que-sta esigenza più che alla tentazione di costruire sistemi bene organizzati di doveri e precetti.

Lo scopo primario dell’etica – l’unico che ne giustifi -chi davvero l’esistenza – è di aiutare le persone a vivere bene. La ricerca sul giusto e sul buono nasce dall’espe-rienza quotidiana dell’agire, in particolare dal bisogno di comprendere – immersi nella sfi da del vivere – che cosa meriti la nostra dedizione e in quale modo possiamo realizzare, individualmente e socialmente, un’esistenza ben riuscita. Il fatto che abbiamo una vita sola la rende infi nitamente preziosa per noi, anche perché abbiamo la consapevolezza che dipende almeno in parte dalle nostre scelte defi nire ciò che siamo. Abbiamo la percezione di poter fare molte cose, vivere vite molto diverse tra loro,

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ma sappiamo che alla fi ne ne avremo tracciata solo una, tra le molte possibili, e vorremmo che in essa si ricono-scesse sia un tratto umano di valore comune, sia una dif-ferenza personale non solo di stile o di toni, ma di unicità sostanziale, di personalità, che rechi il segno di ciò che abbiamo cercato di essere.

Le persone non hanno un’identità comune. Condi-vidono la medesima natura di persone, ma sono piena-mente se stesse solo nella misura in cui si impegnano a defi nirsi individualmente, a plasmarsi nel tempo e a rea-lizzare qualcosa che sia unico e al tempo stesso possa valere, per chiunque lo osservi, come un buon esempio di un’esistenza umana riuscita. In questa ricerca, conta forse meno identifi care dei divieti e delle regole di com-portamento uniforme di quanto valga aver compreso il principio da cui essi dipendono. Giungere alla radice dei codici morali signifi ca comprenderli criticamente e avere tra le proprie risorse personali una più libera capacità di interpretare le situazioni, le opportunità e i rischi. Solo in questo modo l’etica rimane una ricerca personale, una sfi da e un luogo di formazione di sé, invece di divenire una scusa per non pensare, per obbedire a un comando o per confondersi nel conformismo di una tradizione o di una moda.

È per questo che la sintesi di una teoria morale che propongo qui è a un tempo personalista e critica: al cen-tro di ciò che mi è apparso soprattutto rilevante nell’etica ci sono le persone, la loro complessità e la loro fragili-tà, la loro libertà e la loro responsabilità verso l’esisten-

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za propria e altrui. Questo rende necessaria un’indagi-ne sui livelli di costituzione della persona, sui tratti più caratteristici dell’esperienza di vivere come esseri umani, cioè desideranti, pratici e rifl essivi. D’altra parte, ciò che andiamo cercando non è una descrizione del “fenomeno” persona, bensì una possibile guida per pensare, rifl ette-re e scegliere: in altre parole, un criterio o un principio capace di cogliere non una presunta “essenza” dell’es-ser persona, bensì il suo compito, l’obiettivo, lo scopo che ci spinge a muoverci per compiere ciò che possiamo essere. Ora, questo principio non può che essere critico, per quanto si diceva poc’anzi: se si tratta di essere autori della nostra individuale interpretazione di che cosa com-porti vivere da persone, ciò di cui abbiamo bisogno è un principio che ci liberi da modelli precostituiti o da regole impersonali. Ci serve cogliere il punto a partire dal quale possiamo costruire un’individualità che faccia emergere ciò che di positivo gli esseri umani sono capaci di fare.

Lo sfondo di questa proposta è naturalmente costitui-to anche da un rimando alle due tradizioni che le parole evocano: quella del personalismo novecentesco, di cui traccerò un breve bilancio, e quella della fi losofi a critica, ovvero del pensiero di Kant e della sua eredità in campo morale. Anche di questa darò conto brevemente, ma nel quadro di una ripresa autonoma e distinta dal pensiero kantiano in quanto tale. Se mi si è offerta qui un’occa-sione, è stata quella di provare a dar voce e ordine a una comprensione dello scopo dell’esistenza personale che si è formata in anni di studio e insegnamento. Così, dopo

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aver chiarito in che senso l’etica è l’arte ragionata del vive-re, ho cercato di elaborare un’interpretazione dell’esser persona in linea con l’esperienza pratica. L’ordine che mi si è spontaneamente proposto è quello di una progressi-va elaborazione di livelli costitutivi della vita personale, nei quali la mia attenzione è stata costantemente fi ssa sul loro signifi cato anzitutto pratico: è nell’azione che vivia-mo ed è nell’azione che costruiamo la nostra individuali-tà personale e se c’è un modo naturale di comprenderci non può che essere quello di rilevare i differenti gradi di complessità e rifl essività di cui siamo capaci in quan-to esseri umani. In una prospettiva così eminentemente pratica, la ricerca del principio guida dell’agire si mostra come il naturale sviluppo di una comprensione di sé in vista dell’azione e non di una speculazione fi ne a se stes-sa. Il principio del rispetto per le persone mi sembra ren-da bene quanto si può dire di un criterio così generale ma così importante, che va compreso più nel suo eserci-zio che nella sua defi nizione astratta. Ed è intorno a quel principio che sembra naturale ordinare non un sistema di doveri ma una prospettiva per l’esistenza personale e persino una visione della storia e della politica, anche se qui quest’ultima è solo accennata.

Così, l’ordine del libro è il rifl esso di un modo di addentrarsi nell’etica che cerca di dar conto di questa intuizione fondamentale: l’etica è per le persone e non viceversa, così come, nel Nuovo Testamento, si dice che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Marco 2,27).

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La morale come arte ragionata del vivere

Vita, ragione e critica

Vivere non è un mestiere semplice. Non lo si impa-ra che praticandolo e non basta applicare ciecamente i consigli dei maestri o gli ordini degli istitutori per essere felici. Lo sguardo della fi losofi a – nato dallo spirito del dubbio – si leva proprio a domandare se ciò che abbia-mo appreso con l’autorità della tradizione meriti davve-ro il rispetto che ad esso si tributa, se corrisponda effet-tivamente a ciò che cerchiamo quando, nell’incertezza delle nostre scelte, invochiamo una luce, una guida. Comprendiamo presto che l’esercizio di cui abbiamo più bisogno è quello della capacità critica, dell’indagine che non fa sconti: soprattutto verso noi stessi e la nostra tendenza all’autoinganno, ad accomodare la realtà ai nostri desideri o a non riconoscere i segni dell’errore. L’esercizio della rifl essione razionale è richiesto tanto verso le verità ricevute (ma spesso non capite), le rigidi-tà dei codici e l’impersonalità delle leggi, quanto verso le convinzioni troppo sicure, l’indulgenza verso se stessi

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e il desiderio di compiacere gli altri. Per questo, la fi lo-sofi a è sempre un’indagine critica e lo è soprattutto in campo morale, nel quale ci muoviamo sempre a parti-re dall’essere già coinvolti in una tradizione, con le sue precomprensioni e le sue tensioni. Siamo cresciuti fi no alla piena capacità morale entro il tessuto di una morale già esistente e consolidata, che ci ha offerto i confi ni e i contenuti per iniziare a costruirci, ma rispetto alla qua-le abbiamo il compito di prendere posizione, di reagire con un assenso o – più spesso – con un’obiezione e con la ricerca di una via più personale, più nostra, alla vita etica.

Nascendo da quest’esigenza, l’indagine su ciò che merita veramente la nostra dedizione non può che essere radicale e spietatamente onesta. Se non altro, perché non è un lusso intellettuale, come la scienza dei corpi celesti o l’erudizione fi ne a se stessa, ma è un bisogno imme-diato, urgente soprattutto quando ci troviamo (come in realtà siamo sempre) nelle strette di una crisi, di qual-cosa cioè che richiede una nostra decisione. Il movente originario dell’etica è dunque essenzialmente pratico: è il bisogno di orientarsi non già nel pensiero (certo, anche questo è importante) ma anzitutto nell’azione, nel modo di abitare il mondo, piuttosto che nel modo di guardarlo. Trovandoci a vivere, è inevitabile chiedersi quali scopi meritino di esser perseguiti e a quali condizioni, cioè quale sia un modo giusto e buono di vivere.

In questo senso, la fi losofi a morale può essere defi nita come la rifl essione razionale pratica sul giusto e sul bene.

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Ciascuno di questi termini indica uno specifi co aspetto di un’attività intellettuale tutto sommato davvero pecu-liare: quella che pretende non solo di comprendere che cosa siano il bene e il giusto, ma addirittura di guidare l’azione reale delle persone in modo corrispondente.

L’intento pratico della fi losofi a morale può suona-re come una smentita della defi nizione spesso citata di fi losofi a come puro thèorein, come balzo rifl essivo all’in-dietro dovuto alla meraviglia, allo thauma di cui parla Aristotele nel primo libro della Metafi sica.

Gli uomini hanno cominciato a fi losofare, ora come in origine, a causa della meraviglia (thauma): mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle diffi coltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori [...] Cosicché, se gli uomi-ni hanno fi losofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fi ne di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica (Met., I, 982b)1.

Il senso del fi losofare sembra dunque essere la sola speculazione fi ne a se stessa: è questa per Aristotele la «scienza superiore a tutte le altre», che pure sono più necessarie per vivere (Met., I, 983a). Tuttavia, è lo stesso Aristotele a ricordarci che, prima ancora che a fi losofare,

1 Aristotele, Metafi sica, Bompiani, Milano 2004; nel testo, per le opere di Aristotele, rimando, com’è ormai di uso comune, alla paginazione classica dell’originale greco nell’edizione Bekker.

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gli uomini si sono trovati ad agire e a ragionare e che l’esperienza si forma a partire dalla memoria.

Mentre gli altri animali vivono con immagini sensibili e con ricordi, e poco partecipano dell’esperienza, il genere umano vive, invece, anche d’arte e di ragionamenti. Negli uomini, l’esperienza deriva dalla memoria: infatti, molti ricordi dello stesso oggetto giungono a costituire un’espe-rienza unica (Met., I, 980b).

L’arte e i ragionamenti sono intesi in generale da Ari-stotele come quel sapere che si forma intorno alle cose pratiche, nell’abilità dell’artigiano e nella competenza dell’architetto, nella maestria dei retori e nella saggezza dei politici.

Ora, la virtù della sapienza è una disposizione che si acquisisce con l’insegnamento e la rifl essione, ma che richiede anzitutto la capacità di ordinare la propria vita in modo saggio: per Aristotele, come per la cultura greca in generale, la pura speculazione non è nemme-no accessibile a chi non abbia imparato a ben regola-re le proprie passioni e non sia al tempo stesso sofòs, sapiente, e phrònimos, saggio. Qualcuno che sia soltan-to sapiente (oggi diremmo “erudito”), ma mancasse del tutto di saggezza, non costituirebbe per Aristotele un esempio di virtù. È proprio Aristotele a sancire la distin-zione (che non è una separazione) tra fi losofi a teoretica e fi losofi a pratica ma, è bene ricordarlo, la seconda non è meno fi losofi a della prima: essa nasce dal medesimo spi-

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rito di ricerca radicale e viene addirittura prima, come forma di pensiero rifl essivo nelle prassi, rispetto alla pura speculazione, che necessariamente può aprirsi solo quando i problemi più urgenti sono risolti o momenta-neamente accantonati per concedersi l’otium, la scholé, quella sosta dal vivere quotidiano che apre sulle doman-de più teoriche. Nella vita quotidiana, invece, la fi losofi a pratica, vale a dire la ricerca sul giusto e sul bene, è la più naturale e immediata risposta alla “sorpresa” (così possiamo rendere l’idea di thauma) generata da quei “problemi più semplici”, via via sempre più complessi, che l’uomo incontra vivendo.

Nell’Etica Nicomachea, Aristotele parte proprio dal-la constatazione che «il bene è ciò cui ogni cosa tende» (EN, I, 1094a)2 per ricavare la tesi per cui la “vita buo-na” è la vita secondo virtù, che è la sostanza del vivere umano in ogni momento, di cui la speculazione è soltan-to una parte. La vita etica, potremmo dire, è rifl essione interna a ogni agire, piuttosto che mera speculazione. E se non si tratta di speculazione, si tratta certamente di un’arte – come vedremo – la quale non è affatto l’antitesi del sapere (della scienza, nel linguaggio di Aristotele) ma è un sapere che resta essenzialmente innervato nella pras-si, come vaglio critico e articolazione dell’azione stessa attraverso il pensiero. In quest’ottica, la fi losofi a, prima ancora che essere l’azione stessa del pensare, è l’azione accompagnata dal pensiero. E se il pensiero si allontana

2 Aristotele, Etica Nicomachea, Bompiani, Milano 2000.

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troppo dall’azione, cioè dalla vita, esso perde del tutto il contatto con la realtà.

Di qui ricaviamo lo spunto per un chiarimento: la fi losofi a morale è azione, allo stesso titolo per il quale è rifl essione. Essa, quindi, non è affatto solo contempla-zione. Vi è una lunghissima tradizione che intende la fi losofi a (la fi losofi a tout court, non solo quella morale), come una rifl essione eminentemente pratica, vale a dire come uno stile di vita e una pratica rifl essiva, grazie alla quale il fi losofo mira ad essere qualcuno e non anzitutto o soltanto a pensare o a sapere qualcosa.

Socrate è solo uno degli esempi possibili in tal senso, ma è indubbiamente il più grande. Di lui non si conosco-no né una metafi sica né una logica né un’epistemologia, eppure egli è indiscutibilmente il più fondamentale dei fi losofi antichi. Per Socrate, la domanda più rilevante è «come devo vivere?» (Repubblica, I, 352 D)3, non «qual è il principio del reale?» o «esiste il divino?» o «dove fi ni-sce la conoscenza umana?». E quella domanda – come sappiamo dai dialoghi platonici di cui Socrate è protago-nista – non è rivolta anzitutto ai sapienti o ai legislatori o ai custodi della tradizione, bensì ai semplici cittadi-ni. Anzi, quando Socrate si rivolge a coloro che si sono proclamati sapienti – vale a dire i Sofi sti – il senso della domanda è profondamente, consapevolmente ironico:

3 Platone, Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000; per le opere di Platone, rimando nel testo alla paginazione dell’edizione classica oxoniense curata da J. Burnet.

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voi pretendete di insegnare la saggezza – li sfi da Socra-te – ma né voi né io sappiamo bene che cosa sia. E, in fondo, c’è ben poco che possiate insegnarmi, come se si trattasse di apprendere una tecnica buona per qualsiasi uso, niente più che un’abilità retorica che può convin-cere altri, forse, ma che non potrà ingannare voi stessi e me. Per questo occorre, appunto, non un insegnamento bensì una vera e propria fi losofi a.

La pratica della rifl essione è naturalmente il dato che contraddistingue l’attività che chiamiamo fi losofi a. Come lo è anche il fatto che si tratta di una rifl essio-ne razionale anche se può non essere immediatamente chiaro che cosa l’aggettivo “razionale” signifi chi in que-sto campo. Certamente non signifi ca una rifl essione che pensa la moralità come un ambito nel quale non entrino in alcun modo le emozioni. Al contrario, nessun fi losofo serio ha mai pensato che la moralità non fosse anzitutto un’esperienza legata a sentimenti, emozioni e moventi all’azione di natura non razionale. Persino quello che è considerato il fi losofo più ostile ai sentimenti, cioè Kant, su questo punto arriva a scrivere, nella Metafi sica dei costumi:

Non vi è uomo che sia privo di un qualche sentimen-to morale, in quanto una totale insensibilità verso questo sentimento segnerebbe la sua morte etica e se (per parlare in termini medici) la forza vitale etica non fosse più in grado di produrre questo sentimento, l’umanità (per leg-ge chimica, in un certo qual modo) si disperderebbe nella

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mera animalità e si mescolerebbe irrimediabilmente con la massa degli altri esseri naturali4.

A distinguere l’uomo dagli altri animali è, per Kant, un particolare modo di sentire, cioè di provare sensazio-ni che sono legate all’esperienza del bene e del male, a cominciare dalle loro forme elementari: piacere e dolo-re. Vedremo, anzi, che proprio dalle emozioni, dai senti-menti e dalle passioni non può che prendere le mosse la nostra indagine sul giusto e sul bene, su come si debba vivere e su come divenire le persone che siamo.

Il punto è che ovviamente in fi losofi a la moralità è indagata con metodo razionale, ma anche questo non comporta che ci sia un solo metodo o che ci sia accor-do su quale debba essere in assoluto il miglior metodo d’indagine razionale. Vi sono diverse tradizioni di ricer-ca morale e per ciascuna le modalità d’accesso alla verità sono differenti, anche se questo non signifi ca che non siano le medesime verità (o verità molto simili tra loro) quelle alle quali si giunge pur da diverse strade. Si tratta piuttosto di indagare in modo argomentativo, cioè esi-bendo le ragioni a favore della propria posizione e quelle contrarie, elaborando le premesse e articolando i loro nessi in modo da giustifi care, tramite un ragionamento, le conclusioni. Questo è il metodo razionale in etica: niente di più semplice, ma anche niente di più esigente in termini di onestà intellettuale e rigore.

4 I. Kant, Metafi sica dei costumi (1797), Bompiani, Milano 2006, p. 415.

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INDICE

Introduzione. Perché un personalismo critico pag. 5

1. LA MORALE COME ARTE RAGIONATA

DEL VIVERE » 9

Vita, ragione e critica » 9

Etimologie. Ethos e mores » 20

La morale come fi losofi a » 27

L’arte ragionata del vivere » 34

2. L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI BERNARD » 45

Essere una persona, avere un’individualità personale » 45

Riformare il personalismo » 55

I livelli di costituzione della persona » 68

3. SENTIMENTI MORALI E SPETTATORI

SIMPATETICI » 85

Percepire, sentire, patire » 85

Empatia, compassione, simpatia e benevolenza » 99

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4. DESIDERARE E VOLERE pag. 109

Eros e thymos » 109La volontà è una passione? » 116Valutare, anzi: volere » 126Scegliere, ovvero determinarsi in base a ragioni » 133

5. LE RAGIONI DELLA LIBERTÀ » 138

I sensi della libertà » 138Disinnescare il determinismo » 142La volontà come autonomia » 154Le ragioni come esercizio della libertà » 162

6. RISPETTARSI » 166

Dall’imperativo categorico al principio del rispetto » 166Rispetto eguale e rispetto differenziale » 173La priorità del rispetto di sé » 179L’inclusione dell’altro: rispetto passivo e rispetto attivo » 185

7. UN POSTO NELLA STORIA » 190

Avere un carattere » 190Lo sguardo cosmopolitico » 194Un senso per la storia » 199

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