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Itinerario italiano

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CORRADO ALVARO ITINERARIO ITALIANO L'ACQUA I miei avevano preparato tutto per lasciare la casa paterna e si pu dire che comi nciassero la loro vita comune e la famiglia con questa promessa. La casa stessa, ora che ci ripenso, era stata impiantata tutta con questo scopo, e c'era ogni c osa che sarebbe servita a un grande viaggio: due bauli con le robe sempre pronte , e poi cassoni, e cestoni; tutto quanto ricorda i viaggi, la facilit del carico; le serrature e le chiavi a posto. C'era anche una riserva di funi e di cinghie. Un giorno si ruppe il divano e fu buttato via; gli ultimi di noi che vennero al mondo non lo conobbero che di fama, e al suo posto entr in casa un enorme baule verde e nero, alto come un armadio. Noi, l'uno dietro l'altro, ci davano il volo , guardando dove ci posassimo, sempre con l'idea di quel viaggio dei nostri vecc hi. Questi preparativi per una partenza tanto certa durarono quasi trent'anni. C redo che a un certo punto i miei non sapessero pi che cosa volesse dire partire, se non un desiderio, e il piacere di figurarsi quel giorno. Tra le ragioni che e ssi mettevano a questa progettata partenza ve n'era una: "In paese non c' l'acqua ; una bella cosa l'acqua in casa". Dunque, il nostro paese pensava all'acqua da centinaia d'anni; ci pensavano i ra gazzi che si contendevano il dominio d'un rigagnolo fino a che si mettevano d'ac cordo a esplorarlo per tutta la sua lunghezza, notando le diverse increspature d ell'acqua, vedendovi in miniatura un paesaggio grandioso di gorghi, cascate, e i banchi di sabbia del fondo; anche le donne avevano il loro ruscello, dove attin gevano l'acqua per bere: esso saltava gi da una roccia a picco in una valle, la s i vedeva spuntare in alto, l'acqua, sulla pietra grigia, ed era un baleno, prima che cadesse col suo assiduo rumore che riempiva la valle. Ma l'estate era pi dif ficile empire gli orci; il ruscello diventava un filo che scendeva per una canna forata in tutti i suoi nodi, e quando la siccit era grande colava un filo prezio so e faceva nella giara un interminabile e mai stanco discorso. All'odore delle piante marcite, della pietra muscosa, che faceva cos profonda la primavera, succe deva l'estate quello dei mirti scaldati dal sole; e le voci dei ranocchi negli a cquitrini. In quel tempo si cercavano le altre fonti ai piedi delle montagne che sono tante , disposte a quinte per la valle, e lontane. Gente andava vagabonda qua e l, perc h i luoghi delle sorgenti cambiano d'anno in anno. Sono quelli i tempi della sete improvvisa e inesauribile, e l'uomo tutto un groviglio di radici assetate; tutt a la terra sospira all'acqua, la ricordano le grosse piante e i cardi d'un verde ramarro che hanno trovato una linfa sotterranea che li gonfia. Per tutta la con trada si scoprono le vestigia pi antiche dell'acqua, come se anch'essa fosse un p opolo migrante; una vasca, un abbeveratoio, un condotto scavato nella pietra e i nverdito di vecchie ingrommature, o composto d'embrici messe assieme a canale e saldate con la creta. Vasche e abbeveratoi sono interrati, vi crescono migliaia di piccole piante di semi indistinti, perch dove fu l'acqua rimane sempre non so qual memoria, e il colore della terra, il folto di piante che vi accorrono da og ni parte tradiscono quell'antica presenza. Questa l'archeologia dei paesi asseta ti. Talvolta si sente in una valle la presenza umida e calda di qualcuno fuggito , ed ancora l'acqua. L'occhio di chi ha osservato queste cose le riconosce alla prima, e da lontano le scorge come le donne alla fonte. Mio padre si disfece della vigna e dell'orto che lo tenevano ancora legato alla terra, e cos non aveva pi niente a cui pensare, perch anche noi avevamo trovato mon do. Allora si mise a esplorare con diligenza la terra intorno, pensando sempre a ll'acqua, la pi buona, la pi fresca, la pi pura. Oh! le soste ai piedi dei monti, quando tra mille rumori, brusii, vocalizzi, si sente quel fruscio che si confonde col chiacchierio del grillo, e non ; e il rumo re dei boschi nel brivido serale, quando il vento arriva, e fa come un'aerea cas cata. Di solito, per le fonti, qualcuno passato prima di tutti, un viandante, un vetturale, un pastore, una donna, e hanno lasciato la loro traccia: questa mano ignota ha posto una foglia che serva da canale per l'acqua, in modo che la vena si raccolga e si getti ben distinta dalla terra: una foglia d'oleandro, di cast agno, di noce, e l'acqua, con bella ubbidienza, si conforma alla foglia, vi ripe

te una immagine di foglia liquida sopra, e con le stesse increspature e le venat ure a raggiera. L'acqua vi acquista un sapor vegetale, un odore amaro, l'odore d ella foglia, come se questa si liberasse d'un'essenza. Noi figlioli, quando tornavamo, accompagnavamo talvolta queste esplorazioni. Spe sso ci seguiva un asino con gli orci pronti. Ma anche quando non ci andavamo per ch stavamo lontani, nella citt dove c' tanta acqua, io lo immaginavo mio padre. E s pesso, poi, m' accaduto in montagna di cercare una sorgente. Ecco, rivedevo mio p adre che si chinava carponi per bere, come adorando la montagna enorme e umana; ecco le improvvise rotture di qualche argine, e l'acqua che invadeva i campi, ec co il rumore del mulino, ecco tra le piante del bosco la gente a cavallo che lev a e abbassa la testa per non battere contro i rami bassi, ecco la donna che fugg e davanti a un satiro che la insegue. Ma ecco, all'improvviso, presso una fonte che nessuno conosce, una donna seduta che aspetta di veder pieno il suo orcetto, e l'acqua vi scende frettolosa, che una gioia ascoltarla. E i passi recenti sul terreno umido, attorno alla fonte, l'orma d'un piede nudo e d'un altro ferrato, e la voce, quella voce dell'acqua che non si ha cuore d'abbandonarla, col suo d iscorso che seguita tutta la notte, come qualcosa di perduto e d'inascoltato. Ec co, nel cavo della vasca formata in breve dall'acqua, il fondo sabbioso diggi tan to finemente lavorato e raccolto, profondo e opaco come il mare, traversato da p iccole correnti che descrivono labili continenti, e fanno danzare senza riposo i granelli pi leggeri e lucenti. Queste cose le vedevo, le rivedo ancora. C'era la voce degli uccelli notturni che si appollaiavano, il vento che cessava di botto , si sentiva il vuoto e il silenzio della sua fuga, lo scalpiccio delle cavalcat ure che sembravano prossime, se non che il canto del mulattiere diceva che era l ontano lontano. E l'impressione di aver bevuto l'acqua spremuta dalla montagna, diventare una vena del mondo, una propaggine arborea, e il diventar madido come un vaso di creta, che si tornava indietro all'improvviso a fermarsi per ascoltar la e accostarvi ancora le labbra. Gli occhi vi si specchiavano profondi. Nell'ab itato le donne con gli orci madidi venivano da tutte le parti dove c' acqua, madi de anche loro, e offrivano da bere a chi volesse. Era la religione dell'acqua. Noi siamo di quel popolo che in guerra chiamava: Ac qua Acqua, e questo grido di certe notti se lo ricordano ancora quelli che ci st avano di fronte. Chi ci vuol riconoscere, ci guardi in viaggio se ci affacciamo al finestrino per osservare un getto d'acqua, un torrente, un rivo. L'acqua corr e, l'acqua la vita. A mano a mano che non doveva pi pensare ai figli gi tutti lontani, usc anche mia ma dre ad accompagnare il marito in queste esplorazioni. Ella era poco abituata a t rovarsi nei campi, e in trent'anni di matrimonio era stata sempre fra quattro mu ra, dove aveva finito col formarsi dei paesaggi nelle macchie del muro e nel mis tero cavernoso degli angoli, o nei giardini dei vasi di fiori. Mio padre tendeva l'orecchio per sentire la presenza dell'acqua, correva in punta di piedi, quasi , per sorprenderla. Concedeva alla donna di bere prima e si metteva dietro a lei come per aspettare il suo turno, allo stesso modo di chi aspetta la Comunione. Si sentiva l'odore delle radici profonde, quell'odore sotterraneo e caldo dove f econdano i semi e le piante. Erano come due ragazzi, e anche la sera, davanti al la batteria degli orci d'ogni forma, era la stessa cerimonia. "L'acqua buona." A llora pensavano che quando sarebbero stati in citt avrebbero avuto un rubinetto p er loro. Tutti, fra noi, pensavano all'acqua, e facevano i confronti fra quelle dei paesi visitati, quella di Napoli e quella di Roma. Quando noi partivamo per una nuova citt, ci dicevano: "Troverete l'acqua buona". Ed ecco che un giorno il Governo ha fatto l'acquedotto anche al nostro paese. I miei ebbero l'acqua in casa, che bastava aprire il rubinetto per vederla bella c orrente e chiara, e tanto impetuosa che faceva mille bollicine nel bicchiere. Gl i orci non servirono pi, e rotti fecero da vasi per fiori. Nessuno si ricord pi del rivo nella valle, n delle fonti solitarie, n delle avventure delle vene montane. I ragazzi sguazzavano coi pieducci rosa nella pozza dell'acqua in piazza; nessun o pens pi alla montagna, e la notte, quando il vento portava il rumore della casca ta del mulino e della segheria, non ci si ricordava pi della sete. Nessuno pi cerc le sorgenti, n le donne andarono pi in fila indiana al rio, tremando se due occhi lucidi stavano appiattati dietro alla siepe. Da principio non potevano passare d

avanti alla fontana senza chinarsi a bere, come per non mandar perduta tanta gra zia di Dio. Ma l'acqua tanta, e chi la pu bere tutta? Poi si abituarono, ma disse ro ancora, per decantare il loro paese: "Abbiamo l'acqua". Quanto ai miei vecchi , non pensarono pi, forse, a partire. I figli lontani vi tornano di rado, e tutto quel fuggire stata una vana immaginazione. Qualcuno di noi che aspetta quel via ggio ha per detto: "Non abbiamo pi tanta fretta, perch abbiamo l'acqua". La notte l'acqua si lamenta compressa nei tubi e vuole uscire. E pensare che noi abbiamo cercato mondo anche per l'acqua. VEDUTE DI ROMA I Si sta formando in Italia una capitale. Per chi vive a Roma da pi di dieci anni, un'emozione quotidiana vederla crescere e complicarsi, prodotto di cento fatti s ociali e psicologici, di cento spostamenti; ormai a quel punto in cui basta ogni lieve suggestione per creare una moda, un rapido atteggiamento e un fuggevole a spetto, di quegli aspetti che avvertono come il tempo passa, e le idee cambiano e i costumi. Proprio questa impressione, d'una vita che corre, che ci logora, ch e c'invecchia da un giorno all'altro, proprio questo il fascino delle citt. Ci si lega a questa citt per nulla affettuosa, per nulla cordiale, che di tutti e di nessuno, che ci tiene ospiti anche se ci stiamo tutta la vita; e resta sempr e quella citt indifferente cui approdammo impauriti nella prima giovinezza. Nessu n aspetto di essa familiare, e intanto la vita italiana vi si trapianta con tutt i i suoi caratteri; essa ha una natura ricca e adorna, eppure somiglia a una ant inatura: campi e ville sono cose uscite dalla fantasia d'un artista, disposti in un ordine anche l dove sembra che la stessa vicenda degli anni e dei cataclismi storici l'abbiano disposti. Essa gi tutta in quella fantasia di Fontana di Trevi, dove la pietra imita l'albero, la roccia, la rovina, e l'acqua ubbidisce alla g eometria. Imparentandosi con l'arte tali elementi, ne nata una natura sui generi s, un'antinatura. Non vi sono citt del mondo dove la natura, e il bisogno di essa , che cosa tutta italiana averla sempre presente, sia cos vicina e urgente: alcuni alberi a Roma hanno una storia, sono venerati come monumenti, e i giornali ne riportano spesso gli acciacchi e gli accidenti, come di personaggi; una spalliera di rose d'una villa ha fama, di primavera, come un museo aperto per pochi giorni. Eppure non accade di consider are natura queste cose, che costituiscono un piacere simile a quello della lettu ra d'un testo antico, dove la natura chiusa in un ordine rigoroso, che piuttosto un simbolo e una composizione. una citt difficile, e anche se non suggerisce il pensiero di quante mai orme l'hanno calcata, basterebbero i suoi aspetti esterni ad avvertirvi che siete ospiti. Io me la ricordo venti anni fa, e allora era soltanto lo scheletro della citt d'o ggi, la mummia rimasta dai secoli. Tutta la simulazione degli elementi diversi d ella natura, le grotte che diventano nicchie, le fontane che divengono boschi, i l continuo appello all'albero in quegli alberi impietriti che sono le colonne e gli obelischi, e l'acqua che sgorga da montagne di pietra squadrata, e il ritmo, la voce dell'acqua, e sul selciato turchino e duro l'ombra cavernosa di certe c hiese, erano tutte finzioni, e lo sono, della natura: sono natura esse stesse; m a vi si prova la nostalgia continua della vera natura. Il problema dell'architet tura di Roma era di seguitare in questa finzione di scenari. Come al re Mida in oro, qui le cose si trasformano in pietra. Pi su di Roma, le citt comunali e signo rili sono di dura pietra, la natura scomparsa anche come ricordo, e la vita citt adina tutta chiusa nei suoi ideali e nella sua intelligenza esatta; poche fontan e sciolgono la crudezza del sasso, la colonna si richiude nel portico; sono le c itt politiche, della ragione e, dell'intelligenza esatta. Roma altra cosa. l'inte lligenza e la primitivit italiane fermate fra due climi, due civilt, due mondi, du e punti cardinali, settentrione e mezzogiorno. Il sud vi si pietrificato come in un profondo strato geologico, il nord vi si libera dai geli. Qui si concretano per l'ultima volta i sogni e i gusti della civilt mediterranea. Anche nell'Europa settentrionale, e in genere in tutte le grandi capitali moderne, la tendenza a introdurre la natura nella vita urbana un segno caratteristico; ma quella una na tura allo stato bruto, un ricordo druidico, dei boschi e delle foreste celtiche e germaniche. A Roma una natura rielaborata, predisposta, umanizzata, di mille s

ottili parentele con le cose dello spirito e le finzioni dell'arte, ci che , infin e, il senso dell'arte italiana. Bisognava vederla Roma quindici o venti anni fa. A tratti, appena l'urbanistica diventava un po' pi ambiziosa, la logica della citt prendeva il sopravvento. I pal azzi e i monumenti pel Cinquantenario dell'Unit ubbidivano in qualche modo a tale logica, per quanto con un compiacimento quasi babilonese. Ma chi non si ricorda come da tanti discutibili monumenti si levassero nel cielo di Roma le nuove app arizioni? Accanto a quelle della Madonna della colonna di piazza di Spagna, del San Paolo della Colonna Antonina, del San Pietro della Colonna Traiana, delle st ele e delle croci degli obelischi, quasi vaganti sui tetti, in quella luce, in q uelle notti, con quella luna, apparve la donna alata della quadriga del Palazzo di Giustizia, il Garibaldi del Gianicolo, le quadrighe e i cavalli del Vittorian o; e poi pi tardi la Croce della torre capitolina, le sommit dei monumenti tratti alla luce. Ecco una delle pi belle scenografie di Roma che ricompariva quasi per caso. C'era la dura moralit degli importati, pei quali lo scopo dell'emigrazione il den aro comunque acquistato; il feudalesimo provinciale trionfava a Roma; e le inizi ative moderne, che in altre citt dell'Italia settentrionale avevano acquistato im portanza e perfezione, a Roma facevano sorridere di compassione. Vivere a Roma e ra un privilegio, era anche un mistero; nessuno si fidava di quello che vi si in traprendeva, la citt contava poco per il mondo dello spirito, niente per gli affa ri. Era un grande pettegolezzo politico. Chi di politica non si occupasse era un disadatto. Una vita dura, che faceva tutt'uno col selciato incomodo, e per estr ema consolazione il sole e il cielo, anch'essi cos netti, superiori e implacabili : uno splendido scenario per i piaceri e le malattie privilegiati. Vi si trovava poi una vita tutta esteriore e di comparsa, non esisteva intimit delle case, mob iliate di trespoli dozzinali e spiritati. Pareva una citt di paccottiglia, e cred o che anche il commercio locale, ad eccezione di qualche negozio di lusso, assor bisse le peggiori merci d'Italia. Roma era tutta e soltanto in quello che mostra va. Una lunga domenica nella provincia italiana. Vita sociale non esisteva, altr o che quella dei nobili. Dopo dieci anni ci si accorgeva di non avervi amici. Ba stavano, per la parata d'una vita sociale, le comparse al teatro, alle corse, ai quattro o cinque convegni annuali, ed era aspirazione e trionfo di ognuno ritro varsi nelle lunghe liste dei cronisti mondani. Qualunque altra citt di provincia aveva pi consistenza di questa dove si finiva tanto facilmente a fare la macchiet ta di marciapiede, dove erano tollerate le pi ingenue stranezze del vestire, dove sulle pagine dei giornali satirici si acquistava una celebrit a buon mercato, di cui il resto d'Italia non capiva niente. E poi c'era il Corso, la domenica, che le grosse famiglie dei mestieri pi seri e fondati, osti e affittacamere, popolav ano di lunghe file di carrozzelle su e gi. E tutto questo finito, e questa citt ch e si tanto odiata, pur rimanendovi, come la rappresentante della piattezza, dell 'opportunismo pi ostile, divenuta una capitale. Mi sono domandato spesso, a leggere i libri dei viaggiatori, come e quando, e at traverso quali contingenze nato lo spirito e l'unit delle capitali. un fatto che ha della natura: lo stesso che domandarsi quando e come il mare si ritirato di q ualche metro da una spiaggia. Molte cose legano alla terra, ma una cosa come questa, di cui siamo semplici spe ttatori, che nella nostra giornata occupa appena lo spazio d'una rapida impressi one, una curiosa tirannia della nostra esistenza, il nostro spettacolo quotidian o, il nostro stesso crescere. Per esempio, non ricordo come accadde che, una cer ta domenica, la citt cominci a spopolarsi, a cercare le vie dei campi e del mare; o quando le osterie cominciarono a chiudersi la domenica, un fatto da far epoca nella cronistoria di Roma. Perch non soltanto il piccone o l'architetto a fare un a capitale. Una strada nuova fra i vecchi quartieri, un monumento rimesso in luc e, costituiscono certo un fatto decisivo, stabiliscono un nuovo tema e un nuovo panorama. Di queste cose la stessa citt s'impadronisce allo stesso modo d'un terr eno che uniforma alla sua natura la vegetazione; Roma riforma da s i suoi scenari e i suoi aspetti, adatta la realt nuova al suo colore, solo che si ubbidisca all a sua struttura; da s ho detto, cio con la sua luce, con le sue prospettive sepolt e entro di s, come il seme d'una pianta e la forma d'un frutto sono sepolti nella

natura d'un albero. Per esempio, la veduta nuova d'un monumento liberato mi fac eva l per l rimpiangere lo scenario scomparso; a rivederlo a distanza di tempo, mi accorgevo che ne risultava una nuova scena quasi naturale, formata dai mille el ementi, incalcolabili a chiunque, che sono nell'anima della citt. II Quando comincia la grande stagione del sole, Roma vive per poco tempo una vita a ssociata. Ma non ne ha altrimenti & gusto n il bisogno. Una certa solitudine prop ria della Citt. I grandi convegni sono quelli delle belle giornate, di dovunque s i venga; si fa presto a prendere l'abitudine di villa Borghese, del Pincio, dell e grandi piazze e delle belle strade. Ci che stare insieme, ma in una solitudine comune, e in quella grande cerimonia della passeggiata che fece parlare tanto l' Ottocento. Ma fra le tante cose, una mutata in questi venti anni nell'aspetto de lle strade di Roma: un tempo le strade erano selciate dei selci romani e avevano colore di azzurro; il fondo della strada oggi di asfalto nero lucido, lo stesso che in ogni altra metropoli moderna; su questo nero si levano gli edifici giall i e rosa, crescono le fontane, le colonne, i campanili, gli obelischi; sono due mondi diversi; il mondo di ieri sull'asfalto lucido diventa pi remoto, prende l'a spetto d'uno di quei frammenti antichi che si murano sulle facciate dei palazzi moderni. L'asfalto al posto del vecchio lastricato ha contribuito a segnare una nuova epoca dell'aspetto di Roma. Lo scenario romano, che era sempre apparso pro vvisorio, e in cui un capriccio degli anni poteva aggiungere qualche cosa, fissa to per sempre. Venti anni fa, noi avevamo una certa intimit con la Barcaccia o il Tritone; venti anni hanno scavato una distanza di secoli, la citt familiare si d istaccata e allontanata, sembra che dica: Ora tocca a voi, e basta con le confid enze. In vent'anni s' veduta la citt crescere del doppio, il campo dell'osteria fu ori di porta diventato un quartiere, la gente pi diversa venuta ad abitarci. Meri dionali? Settentrionali? Ricordo il giorno che per la prima volta da quando sono a Roma, sentii parlare di affari e di cifre, in autobus, nel pi schietto accento genovese; la voce era alacre, e apriva il panorama del mare di Liguria. Meridionali e settentrionali hanno portato a Roma il loro paesaggio interiore; i meridionali il loro bisogno di espansione e di avventura, i settentrionali il l oro senso della vita stabilita e sociale. Quel tanto di vita socievole di certi quartieri a Roma settentrionale. Quel tanto di trepido, mobile, avventuroso, ott imista e talvolta disadorno, che ricorda remotamente la provincia, e quella prov incia nostalgica propria delle grandi citt, meridionale. Ed anche meridionale, pe r contrasto, anche quel tanto di estremamente lussuoso e visibilmente ricco. Arr ivano dalla provincia certe automobili che sembrano sirene e tritoni d'alluminio o di lacca. Meridionali, settentrionali: veduti da Roma, non s'immagina come ce rti limiti si confondano, e che malizioso piacere sia aver capito come questi du e termini che separarono per tanti anni l'Italia abbiano in effetti uno scarso v alore: sar che abbiamo imparato a conoscerei, c' in tutti lo stesso senso di vita, la stessa qualit di assalto alla fortuna e all'avvenire, lo stesso piacere di co mparire, la stessa ambizione d'essere. Non si cresce di seicentomila persone in vent'anni senza che una citt lo lasci ve dere, anche se antichissima. Salta agli occhi, al confronto della vecchiaia e no bilt di Roma, una novit di agglomerati umani, un lusso che si preoccupa delle appa renze, quasi che la chiarezza dell'aria, la luce, il sole, impongono lo stesso n itore delle citt estive; e certi modi bruschi, e l'apparizione in fiocchi delle d onne: tutti caratteri che sono propri delle citt di nuova formazione, di civilt mo lto giovani; ed questo il nuovo aspetto di Roma. La quale, scenografica com', tut ta grandiosamente esteriore, e fatta per significare la pompa e il trionfo, infl uisce a suo modo sugli animi. Chi conosce certe descrizioni della socievolezza r omana dell'Ottocento, si ricorder d'una certa maliziosa e bonaria familiarit, e il gran discorrere delle "relazioni" del tale o della tale; un'atmosfera amorosa c he fu sempre di Roma, pi o meno ovattata, e pi o meno acre, se si deve credere anc he a certi scrittori di salire, a cominciare da quelli latini. Il convegno di ta nta gente nuova a Roma nei nostri anni ha trapiantato alcune attitudini sociali. Il socievole non mai stato il forte di Roma: il suo carattere la convivenza, il tatto, la duttilit; la sua forma le grandi manifestazioni pubbliche. strano dirl o per l'unica citt vitale tra le grandi citt antiche: il gusto dei ricevimenti che

si diffuso ultimamente a Roma, d'una modernit anche troppo spinta, in appartamen ti anche troppo inappuntabili; sembra di vivere tra le pagine d'una rivista di m ode o nella scena d'un film. Non ho rimpianti per le vecchie cose se non a tempo e a luogo; questa specie di tabula rasa che si vede in giro, nelle abitudini de lle persone, questo voler essere, voler apparire, a costo di strafare, mi pare i l vero fermento della vita dei nostri giorni. Certo, la tradizione, il carattere , la personalit, sono le qualit pi preziose del mondo, le pi vive, le meglio capaci di irraggiare e fecondare la vita. Spogliarsi di tutto e accettare le novit pi cro ccanti, proprio un segno d'oggi, indica una capacit di rinnovarsi, un grandioso f enomeno che a un certo punto dovr pure tradursi in termini suoi, in un modo d'ess ere, di vivere, di pensare. Credo di aver capito la causa che isola qui tanto le persone e per cui Roma cono scer forse sempre pochissimi ritrovi pubblici e una certa sterilit di contatti uma ni; e sarebbe il sentimento degli aspetti e delle ore di Roma che formano un pae saggio interiore dell'uomo, in cui esso si appaga e si confonde. Andiamo a veder e il giallo lunare di villa Medici nel verde cupo del parco; o la piazzetta dove cresce l'erba a San Giovanni e Paolo, dove il sole si accuccia tutto il giorno suscitando il vecchio tepore dei mattoni del campanile; e chiss come sono diafani gli angeli ambigui sul Ponte Sant'Angelo, nel cielo serale di panno azzurro. Co nosco le ore di Roma, da quelle estive quando la troppa luce scava come vecchi c ranii le facciate delle cattedrali, a quelle invernali quando la tramontana riprende a scialbare i tmpani delle chiese, riducendo il tra vertino a un bianco d'avorio, mentre la parte inferiore scura e nell'ombra ricor da la cava originaria. Questi sono gli aspetti che accompagnano chi vive da molt i anni a Roma, come altrettanti convegni in una citt incompiuta e perci familiare, dove sui frontoni delle chiese un angelo aspetta da secoli il suo compagno di s immetria dall'altro lato - una citt con mille trascuratezze nella sua costruzione , dimenticanze, negligenze, raschiature, come quelle del tessitore persiano che non fa mai perfetti i suoi tappeti per non lasciarvi dentro imprigionata l'anima sua. Aver fatto di Roma un paese fissato, definito, nei limiti delle grandi strade nu ove, allontanato e isolato in qualche modo dalla intimit degli uomini, significa aver dato il segnale a una nuova vita, meno affettuosa, meno contemplativa, meno nostalgica. questo il punto del distacco da un'epoca. III Dalla mia finestra volta a mezzogiorno, potevo leggere le ore all'orologio di Pi azza Colonna; vedevo il Santo della Colonna Antonina quasi vagante sui tetti, e il frontone dell'Acqua Paola, sul Gianicolo, che mi piaceva come una grotta d'un a natura artificiale, la natura di Roma. E queste cose mi davano l'idea d'una vi ta chiusa nella memoria, compiuta e indifferente a tutti i pensieri e le passion i degli uomini, i quali rinascevano intorno ad esse con la tenacia delle piante. Tutto mi pareva uno spazio deserto, ma pieno di fatti gi accaduti. Capivo cos l'i solamento degli alberi e degli uomini. Guardando le ore sull'orologio della piaz za, e la cima della colonna, e la fontana con la sua grotta, sentivo che il mio cuore voleva uscire quasi da una prigione, da me stesso, da un passato, e incarn arsi in qualche cosa che vincesse il tempo. Qualche volta mi sorprendevo a dirmi : "Io voglio, io voglio"; e non sapevo che cosa volessi. Via Sistina, al tempo del mio primo arrivo, somigliava a una grande sala, specia lmente la notte quando la luce delle lampade ingrandiva l'ombra dei cornicioni d egli edifizi smisuratamente, e illuminava ogni dettaglio delle facciate settecen tesche con le loro decorazioni, formando uno di quegli aspetti tanto frequenti a Roma, in cui l'esterno ha la stessa architettura di un interno, e una sala somi glia a una piazza, e una piazza a una sala. La finestra della mia stanza era inv asa la notte da quelle lampade, la luce si diffondeva dentro come d'un giorno so speso in una lunga incertezza. Pi tardi, quando ebbi dormito i primi lunghi sonni romani, svegliandomi di buon'ora vedevo tra le persiane chiuse spuntare l'alba. Dal mio letto sentivo nascere il giorno. Sorprendevo la luce immobile nella mia stanza, penetrata a mia insaputa e quasi confusa col riflesso delle lampade not turne impallidite dalla veglia; si adagiava presso di me come accanto a un malat o: era una luce cinerea quale a volte copre Roma a chi la guardi dall'alto, col

colore di strade molto calpestate e di pietra sbiancata dal vento e dal sole. A un tratto udivo la campanella di qualche chiesa, poi un'altra e un'altra. Sul pr incipio mi levavo per sorprendere la strada in quell'ora. Veniva fuori un'umanit speciale, vestita come veste la gente devota in tutti i paesi, scialli e veli ne ri, che ridavano alla citt l'aspetto di certe piccole citt antiche e piene di chie se, in cui sembra che la gente non abbia altra occupazione che rispondere alla c ampanella delle preghiere. E quest'ora pareva la memoria della Roma d'un secolo prima. Quella pure l'ora dei poveri vecchi, degli storpi e dei nani. Poi, al pri mo squillo del tranvai, appariva gente vestita bene, col cartoccio della spesa. Nei giorni delle cerimonie in Vaticano, passavano, in carrozze e automobili, per sone vestite da sera, donne col velo, e tutti con un'espressione freddolosa. La voce della strada si levava a mano a mano pi sicura, la citt si svegliava, seno nch il ricordo di paese persisteva con la voce dell'ombrellaio, d'inverno, col su o tono uggioso e quasi direi umido. A mano a mano che passavano gli anni, una vo ce si aggiungeva a quel coro, e divenne comune il fracasso delle automobili che stentavano ad avviarsi, come se la citt intera non riuscisse a riprendere il suo chiasso diurno. La strada dove abitavo allora era una specie di paese: ci conosc evamo quasi tutti, e tutti avevamo abitudini familiari. Si vedevano calare i cestini dagli ultimi piani per la posta e per carretto delle v erdure. Poi la strada mut, si fondarono i primi negozi di mode, le sale da t, e i vecchi abitatori vi stavano come gente annidata che qualcuno tentasse di sloggia re. A notte alta, la strada risuonava come una chiesa o una sala deserta: si sen tivano le voci di coloro che nelle notti chiare andavano fino ai cancelli del Pi ncio per vedere Roma notturna dall'alto e le linee oscure dei cornicioni dei pal azzi che si rivelavano come i suoi temi nudi disegnati in una specie di spolveri o sospeso sulla citt che giaceva in basso, colore d'oro vecchio. Nella notte risu onavano le voci di costoro, e cos io conobbi i litigi sulla letteratura e sull'ar te, le invettive pronte e sveglie, le canzoni di moda; e i contrattempi, le prom esse non mantenute, i benefizi sfumati, le illusioni perdute, i tradimenti compi uti, descritti da voci sonore. La notte, a Roma, d l'impressione d'essere molto i ntelligenti, di pensare profondamente e di poter agire facilmente l'indomani. Poco prima di mezzogiorno, invadeva la mia strada una folla di donne che avevano l'aria d'essersi levate allora dal letto, molto imbellettate. L'aria diventava fatua, il sole splendeva sui belletti e sulle occhiaie tinte di azzurro e lustre , l'aria s'impregnava del profumo di quei cosmetici; improvvisamente la citt dive ntava misteriosa d'un mistero frivolo: i fiori dei fiorai acquistavano per contr asto semplicit e innocenza. Luccicavano le macchine; la boria di quelle donne che vi salivano o ne scendevano pomposamente faceva di quella strada un asilo di su perbie senza ragione, quasi che stare in quell'ambiente, in quel sole, in quella luce, fosse privilegio tutto personale e privato. Di botto queste cose cessavan o. La strada vecchiotta si popolava di gente modesta che andava a scaldarsi al s ole del Pincio; passava di l tutta Roma accorsa dai quartieri pi lontani, i mariti , le mogli, i figli, gli amori della gente e fin della pi povera e disadorna, con le loro scarpe pazienti, i vestiti che al sole mostravano il lucido della vecch iaia e la dignit di chi li indossava. Dalle finestre di fronte alla mia, nelle be lle giornate, le donne, mezzo apparecchiate, si affacciavano sulla strada come t emendo di non arrivare a partecipare in tempo a una rappresentazione. Io aspettavo le sei di sera, quando la citt acquistava un colore elegiaco, era pe rcorsa da una speranza di non si sa che giorni, non si sapeva che festa notturna preparasse, fino all'ora in cui d'incanto si faceva deserta, saliva dal Corso u n odore di stalla, le vetture andavano a sghimbescio e vuote, la citt si raggrinz iva nella prima sera, come se invecchiasse. Erano quelle le ore delle allegrie i mprovvise, delle folli speranze, degli abbattimenti, degl'incontri; la cenere de l tramonto copriva tutto come se un cataclisma si fosse scatenato. Si tornava a casa stanchi, e infelici, sentendo che il tempo era passato, era finito un giorn o, al modo d'una girandola, e non si faceva in tempo a pensarvi che era un'ombra , un'illusione perduta. IV Rione Ponte un quartiere di Roma, e la sua insegna il Ponte Sant'Angelo con le d ue statue di Pietro e Paolo. uno dei pi antichi di Roma, fu sempre popolato anche

quando Roma cadente si ridusse a ventimila abitanti. Nel Cinquecento fece parte del centro di Roma; vi si trovavano le banche, e alle sue strade sono rimasti i nomi di Banchi Nuovi, Banchi Vecchi, Arco dei Banchi. Vi abitarono Raffaello e il Celimi, l'Aretino e il Caro. Vi tenne il suo banco Agostino Chigi, il maggior finanziere del Rinascimento, quello che eresse in onore della bella Porzia la V illa Farnesina. Poi i palazzi e i palazzetti furono soverchiati dalla vita popolare. Il Rinascim ento era crollato come crolla un impero, e questo quartiere, che del Rinasciment o porta ancora il nome, schierato lungo il Tevere e pi basso dell'argine del fium e, parve coprirsi della stessa patina che rende tristi e bui i quadri del Seicen to; come in quei quadri, una folla mai prima entrata nell'arte sbuc da ogni parte e anim con la sua presenza greve e popolana le raffigurazioni stesse dove prima era stata una schiera di cavalieri simili a eroi e di donne simili a dee. La pit tura del Seicento si riemp di popolo coi panni della fatica quotidiana; si sent od ore di porti, di avventure, di traffico. La stessa folla invase i quartieri di c erte citt italiane di dove avevano sgomberato i cavalieri, i banchieri, le cortig iane, i letterati. Cos il Rione Ponte. Qui come se il Tevere in una sua crescita avesse lasciato il suo limo che ridiviene polvere al sole e alla tramontana. Spesso nella densit del popolo italiano si sente la presenza d'un secolo: a Roma si sente il Settecento tra via Sistina e Trinit dei Monti, il primo Ottocento nel Corso, i primi anni dell'Unit nei quartieri di tipo piemontese di via XX Settemb re, e poi di Prati e di Corso Vittorio, gli ultimi trent'anni tra Porta Pinciana e i Quartieri Sebastiani. Non soltanto nell'aspetto, ma negli atteggiamenti del la vita. una delle tante sorprese e variet del popolo italiano. Si sentono a Roma le diverse epoche di immigrazione: i nuclei formatisi sotto diverse spinte e di rezioni conservano caratteri che si direbbero prognatici. Questo specifico di og ni grande capitale, caratteristico di Roma. Al Rione Ponte ancora un colore di s ubito dopo il Rinascimento, un rione da Caravaggio, il gran "picaro" della pittu ra italiana. Io porto spesso al Rione Ponte i forestieri che mi chiedono qualcos a di inedito a Roma. il ventre della citt, come il ventre d'un grosso animale, d' un cetaceo. l'humus di Roma, e si stende oltre, fino a Parione e Piazza Navona, e di qua fino a Trastevere; la polvere di Roma, cos mordente e acre nei giorni as ciutti di tramontana, spirante, come la sabbia d'un deserto, dalle sue rovine ch e una droga di Roma, polvere di morte e polline di fecondazione; il colore d'una vita popolare la cui fama troppo sciatta al confronto. Bisogna distinguere tra Roma e Roma. Varrebbe la pena di assodare come sia nata l'immagine che circola comunemente sul romano d'oggi. una reputazione di gente f acile, festaiola, parassita e alquanto cinica, con uno spirito realistico fino a l crudo (che il lato migliore di quest'immagine) quale negli ultimi anni hanno d iffuso in tutta Italia tre o quattro giornali umoristici di mentalit prettamente romana e che ha acquistato cittadinanza in tutta la Penisola. curioso che propri o questo umorismo romano sia divenuto universalmente italiano. Comunque, Roma un potentissimo reagente, avventurosa come tutte le capitali della terra, e perci s pesso fatale a chi si fida delle apparenze. Come tutte le capitali, citt che ha u na sua maleducazione e una sua volgarit; ha pure una sguaiatezza che ritroverete nel fondo ai Berlino o di Parigi: ho notato che un certo rictus della bocca stor ta nella parlata di gente infima comune in quattro o cinque capitali del mondo; lo si ritrova anche in certi tipi dei film americani. E ha naturalmente, Roma, poca intimit, essendo un grandioso scenario che le ha vi ste tutte, luogo di convegno di genti che qui inseguono la fortuna. Il suo aspet to fatto per le esaltazioni improvvise e i disinganni atroci, il suo lastricato il deserto di tutte le capitali. Le persone sono ancora sdegnose, grandi e popol ari, come dice il Novellino antico. Ma quando avremo detto queste e cento altre cose verissime, non avremo toccato i l fondo del carattere popolare romano. Dico popolare e non di importazione. Si s a che gl'importati sono dappertutto gli stessi. vero che tale carattere bisogner cercarlo in tre o quattro rioni e starvi molto vicino per non prendere abbagli. Allora, il modulo d'un carattere fermo, originale, rispunta come a ritrovarlo in uno scavo. Ho una profonda venerazione pei caratteri popolari, da noi come altrove: sono de

positali di vecchi segreti, e una costante osservazione di essi rivela fatti e a ttitudini antichi e che servono a spiegare le nazioni. Il popolo lento a muovers i, direi che non muta pi presto di quanto non muti un paesaggio. Da qualche anno sono abituato al Rione Ponte, conosco le voci delle sue ore che sono diverse da quelle della Roma settecentesca dove prima abitavo standoci come in un libro di Stendhal o di D'Annunzio. Qui, la prima notte che vi dormii accadde un fatto di sangue: una donna fer l'amante. Poi, per molti mesi, non accaddero fatti del gene re. Una scena fu d'una donna che affront per istrada una ragazza che le occhieggi ava il marito; le disse papale papale di badare ai fatti suoi se non ne voleva b uscare. La ragazza da allora fil ben dritta. Bisognava sentire il tono di quell'i nvettiva pubblica, franca e precisa. Mi accorsi di essere entrato in un vero mon do, come in un paese. Senza volerlo, venivo a sapere tutto di tutto il quartiere , vita e morte, dolori e gioie. Sovrattutto i dolori. Ma un'altra scena fu strepitosa. Passava per un vicolo una donna matura e molto bella a modo suo: portava un ragazzo per mano, e la accompagnava un uomo. Non so come e dietro quale avvertimento, tutte le donne del vicolo furono alla finestr a simultaneamente, come in una scena di teatro, e puntando, tutte, il dito verso la donna che passava, inveirono contro di lei. Si capiva dalle grida che la pas sante doveva aver destato pi d'una preoccupazione nel cuore di quelle donne. S'in travedeva attraverso le finestre aperte una cura meticolosa e un povero lusso in torno al letto maritale. La donna insolentita pass superba senza alzare il capo, senza dire una parola sotto quella frana di vituperii; e cos il suo uomo. Lev la t esta soltanto quando fu sotto l'Arco dei Banchi, e con una calma enorme, senza v eleno, anzi con una certa comprensione delle debolezze umane, ricambi il pi rovent e di quegli improperii. Sotto l'Arco c' una Madonna, spesso infiorata, sempre con una lampada, due o tre volte l'anno con un altarino parato. Credevo questa imma gine dimenticata da una Roma per cartolina, e mi accorsi poi che son rari quelli che vi passano senza scoprirsi. Perci di notte non si prova nessuna preoccupazio ne a traversare l'Arco, sfiorati da qualcuno di quegli individui misteriosi che fanno la posta sulla strada con un fischio lungo sordo e notturno. Ho ritrovato cos il senso di molte immagini sacre negli angoli bui e tristi delle citt, fatto d i cui un moderno difficilmente si rende conto. Con tutta questa violenza del sangue, mi stup, un giorno di carnevale, di vedere una turba di ragazzi che, issando certe grandi corna bovine e caprine su un bast one, si presentavano in corteo sghignazzante sulla soglia di certe botteghe dove pure la padrona e il padrone sono tali da tenere in riguardo i giovani pi intrap rendenti e maneschi del rione. Niente, non accadde nulla. E non da dire che foss e ambiguo il significato di quei gran corni. Non si pu mai misurare come reagisce l'animo d'un popolano, e poi d'un italiano, e poi d'un romano. come l'acqua che punta, scompare, riappare, dilaga dove meno si aspetta. Le sue vie sono misteri ose. "Gente di cuore", significa a Roma gente di coraggio e insieme umana; insom ma, generosa. E in questo quartiere che s' divisi i vecchi palazzi e li ha ridott i a s, che sciorina la biancheria grondante su un portale elegante come una pagin a del Caro, che ha chiuso con pezzi di carta i vetri rotti di un'altana del Rina scimento, si capisce che cosa significhi tale frase. Sono sentimenti tanto profondi e antichi da parere indecifrabili, il culto della giovinezza, della bellezza, dell'infanzia, del coraggio e della forza, e la gio ia d'un'ora di semplice ghiottoneria o di festa, che risponde all'ariostesco "pe r un buon giorno non temo un mal mese", sono fatti d'un vecchio costume e d'una vecchia moralit; l'amore dei ragazzi che diventa tirannia; soltanto a Roma succed e che voi cediate il posto a una donna in un tranvai, e la donna pesante e traba llante vi fa accomodare la sua ragazzina, o il suo maschietto. Mor in questo quar tiere l'anno scorso un povero giovane. L'intero quartiere sottoscrisse per fargl i un bel funerale e non mandarlo via come un abbandonato; i bottegai pi brutali s borsarono di belle somme; ne andava dell'onore di tutto il quartiere. La serva d i un ultimo piano custod gelosamente una pianticella che colui aveva curato in un vaso, e la guarda ancora come una creatura. Accade spesso, a entrare in un nego zio, di vedere una popolana con un foglietto raccogliere i soldarelli di chi vuo le sottoscrivere per evenienze simili. Vorrei dire ancora delle grida e delle voci di questo quartiere, la lunga nenia

degli stracciaroli, e le frasi con cui si raccomandano dai carretti le frutta e gli ortaggi: "Neppure il colore mi pagate", oppure, alla gente che passa senza f ermarsi: "Che fessi che siete"; e il giornalaio che certe mattine strilla il suo foglio e sveglia tutti all'alba perch c' una notizia che riguarda esclusivamente il Rione Ponte. V Siccome era domenica, erano salite anche certe ragazze a visitare la stanza del Tasso nel convento di Sant'Onofrio, la stanza dove mor il Poeta, aperta a tutti i l 25 aprile, e vi si tiene una conferenza, e due guardie in alta uniforme vigila no dandosi il turno per fare una fumatina in un angolo. Erano ragazze del popolo , in pantofole, che si tenevano per mano, e ridevano curiose come ridono le mode lle che entrano per la prima volta nello studio dei pittori. Esse non sapevano null'altro che di trovarsi nella stanza di un grand'uomo, e pa reva che costui fosse vivo, e fosse uscito, e loro ne profittassero per rovistar e fra le sue cose. Si specchiarono ad una per volta nello specchio del Poeta, un vetro nero in una cornice tonda di noce, e si sorrisero l dentro. Lo specchio fa ceva pallidi, vi si vedeva il bianco degli occhi e dei denti come in un'acqua os cura stagnante. Qua specchi il Tasso il suo inguaribile pallore. Nessuna di quest e ragazze esit nel guardarvisi dentro, e dopo un poco la guardia si curv con loro specchiando il suo pennacchio. L presso, il Crocifisso di legno dello stesso colo re della maschera del Poeta ricavata sul suo letto di morte, quel suo viso d'uom o sfortunato, destinato a non aver piet mai, se non oggi, in questa sua stanza pi ena d'un silenzio secolare, dove difficile parlare ad alta voce, e dove l'eco de lla sua voce sospesa nell'aria come una nota che risuona alta nel sonno. Aveva l a fronte liscia, infantile, come si vede in alcuni uomini che hanno penato, dove addensata tutta la loro innocenza di fronte al destino. Piccoli occhi a mandorl a, annebbiati dalla creta mortuaria. Il viso cancellato dalla rassegnazione e da lla "malinconia" con i lineamenti chiari e indifferenti. Nient'altro di espressi vo che la bocca grande, carnosa, che si adatt a chiedere tutta la vita. il ritrat to della tristezza e della solitudine. difficile vedere una immagine d'uomo che serbi con maggior tenacia i lineamenti infantili. La stanza del Tasso d per due balconi su un giardinetto, e sulla vicina salita di Sant'Onofrio dove le donne vivono coi ragazzi sulla strada, e i muri quest'anno sono coperti di scritte inneggiami a una certa Marcella che deve essere il rich iamo di questa primavera. Dalle due finestre si vede il Borgo; la Cupola di Mich elangelo vicina, tra le case e gli alberi non si scorge il timpano della basilic a, n il piano su cui eretta: azzurra e aerea collina fra questi colli. Si vede il Campidoglio appena velato dal bianco del monumento a Re Vittorio. Di qua la cit t dov apparire al Poeta come appare ancor oggi, grigia e silenziosa, come una citt di scavo. Di qua egli sospir la sua corona. La stanza quadrata, con una mano di calcina ai muri, nuda, chiara, e la luce v' c ome un'onda immobile di oblio. Forse erano come questi i mattoni di cotto sull'i mpiantito, e i riquadri azzurri fra i travicelli, e il piccolo chiostro con la M adonna leonardesca in fondo. Vecchie corone d'alloro appassiscono eternamente su i muri del chiostro. Una corona di alloro sul capo della immagine del Poeta si d isfa come una treccia. Eppure qui sorride la nostra adolescenza, il nostro viso di allora liscio e imbe rbe si affaccia nello specchio nero del Poeta. Ad essa sorrisero prime, lecite e santificate, le bellezze di Clorinda e di Erminia, e quella tizianesca di Sofro nia. Ritroviamo queste illusioni e queste prime creature che amammo, in questa s tanza su cui pass la tempesta, cresciute con noi, invecchiate con noi. Eccolo, da poeta ispirato che era, in cappa e spada, Pro fide, ai suoi anni amari, come un sogno che l'esperienza ha sfatato e legato. "Sono quasi scacciato dal seno della Chiesa." una giornata oscura e piena di nubi volanti. Pure un chiarore diffuso e traspare nte invade immobile la stanza. Ci ritroviamo qui come in una sua ottava. Una cop pa nera, di creta, presso lo specchio, anche essa come contenesse un'acqua stagn ante nella sua cavit lucida. "Negare una tazza d'argento a me" diceva "che n'ho t anto bisogno e tanta voglia?" Non ha lasciato altro, insieme con qualche brandel lo di stoffa. In guerra, nei bagagli dei nostri compagni morti, non si trovavano

che cose come queste da restituire. Le due stanze che precedono questa dimora, furono adattate a un museo di manoscr itti e di opere del Poeta. In capo alle scale stato posto da poco un frammento d i affresco rappresentante il Poeta in piedi, leggero e incantato, agile come una spada, con un foglio tra le mani, come forse sogn di essere. Le due stanze del m useo sono della stessa forma della sua stanza. Sulle pareti una simbolica fiamma stampata tutt'intorno fra corone stampate, e una vetrina fa da zoccolo alle par eti. Qui sono i suoi libri e i suoi manoscritti. Un quaderno su un tavolo si cop re lentamente di firme. Non pi di cento pagine dal 1923, e l'ultima firma quella del brigadiere oggi di servizio. Piacevano, al Tasso, le pagine ben tracciate, ben squadrate, nitide, ampie, marg inate. Qui si manifesta con una tenacia dolorosa il suo amor della gloria, di qu esta passione antica che si manifest in lui magnificamente. Aveva caratteri nitid i, agili, magri, come doveva esser lui a vederlo, tracciati col compiacimento, l a cura, l'ordine d'un buon allievo della gloria. Le pagine autografe della Gerus alemme hanno un aspetto di esercito in marcia, ariose con un po' di pompa, e sul le ordinate file degli n e degli r, sulle panciute a ed e svettano l alte come l e lance dell'esercito di Goffredo, le s lunghe e snodate come gli sciabolatori d i Argante, le t tagliate alte come bandierine di squadra e le p poggiano su un l ungo svolazzo come se galoppassero su una lunga scia di polvere. Tutti quei gran e grandi che si trovano nella Gerusalemme, e ve ne sono tanti, s ono pomposi e panciuti, e uno stesso impeto assiste l'ottava in riga dalla prima all'ultima pagina. Come tutti i poeti, vedeva il suo libro, nell'atto di scrive rlo, gi stampato. Si lamentava delle cattive edizioni che gli amareggiavano l'ama ra vita. Se le faceva per suo conto nell'atto di scrivere. V' un suo frontespizio dell'Aminta che sembra quello d'una edizione aldina, col nome in maiuscoletto, l'iscrizione disposta a epigrafe, e perfino un disegno d'impresa editoriale, fat to a penna rozzamente, con un senso di decorazione popolare che era poi il fondo del suo animo; e sotto: Ferrara XXIII - novembre - 1577. L'angoscia colp pi tardi la sua ferma mano. "Il maggior di tutti gli altri mali" s criveva, "e 'l pi spiacevole mi par la frenesia; perch sempre son perturbato da pe nsieri noiosi e da molte immaginazioni e da molti fantasmi." La calligrafia divien larga, ritorta, con una volont di grandezza che la sua pove ra penna smarrita ricerca tra geroglifici disorientati, ripentimenti, vergogne. Vagano qua e l come alfieri in un esercito in rotta le sue iniziali alte e sicure . Una pausa, e con la mano dei ricordi traccia il principio del sonetto: "Deh, n uvoletta in cui mi apparve amore". Ambizioni, assalti vani, improvvise speranze: "Mi fu predetto che quest'anno nel quale finirei il quadragesimo secondo avrei molti beni e molte grazie dai principi". Vede i beni piovere attorno a lui, ma g irano vorticosamente e come ridendo attorno ai suoi occhi, principi, stampatori, amici. Il suo morbus imaginatus gli impediva ogni contatto, e nell'atto stesso in cui un "gentiluomo par suo" si drizzava in piedi, la sua bocca chiedeva piet: "Le sarei pi obbligato (alla duchessa Eleonora) se mi donasse un rubino ed una pe rla legata in oro; perch se avvenisse mai ch'io dovessi prender moglie non mi man cherebbe con la sua grazia anella da sposarla". Una grande corona d'alloro della Citt di Roma, fresca e cupa, ai piedi del monume nto del Poeta nella chiesa. Egli l, alto, ispirato, vestito di gala, con una pesa nte spada accanto. Nel chiostro al pianterreno, dove egli cammin cadente, presso il cancello di ferro, un uomo si guarda intorno. Il campanello suona a strappi n el corridoio. Una mano tende fra le sbarre del cancello una scodella di latta. L 'uomo si guarda attorno compassionevole, mangia vergognoso. VI La prima cosa che si vedeva affacciandosi alla finestra, era un pezzo della facc iata di San Pietro, e precisamente un campanile laterale, ma non come si vede co munemente, ma diventato enorme, al modo che accade affacciandosi una mattina da una finestra in alta montagna, e la montagna che era una linea lontana sull'oriz zonte si presenta vicina come veduta attraverso una lente d'ingrandimento. Tutta quella parte della basilica si presentava coi suoi cornicioni, finestroni, con uno strano senso di vuoto e di deserto, come accade spesso a guardare l'architet tura di vaste proporzioni, specialmente a Roma, dove tutto ricorda il lavoro del

la fabbrica, quasi che l'uomo col berrettino di carta e il secchio della calce p er chiudere le commessure della pietra enorme, fosse andato via da poco. Questo accade, forse, per via delle molte superfici lisce. Sotto la finestra da cui ci eravamo affacciati, si vedeva una corte interna, le finestre dell'edificio di fr onte, pi basso, orlate di pietra; e nessuna voce; un silenzio che faceva pensare subito all'assenza delle donne e dei ragazzi, un silenzio estatico da uomini sol itari. E sotto c'era un orto, prospero, lucido di cavoli, di cipolle, di insalat a, con certi fiori semplici e senza odore, orto da convento, dove il mondo veget ale anch'esso denso e polputo, e una rosa che si sfogli a pie' d'un muro ricorda il sangue rappreso. Si mise a suonare una di quelle campane di San Pietro, vicina come quell'archite ttura, e copr tutto come l'onda di un oceano, facendo forza contro i muri, corren do per le sale dell'appartamento in cui ci trovavamo, impetuosa come il vento, e quasi che noi ci trovassimo in un elemento nuovo, quello in cui volano i piccio ni sotto la scossa delle campane dai cornicioni alti; sotto questo colpo parevan o allentarsi le serrature e i cardini, spalancarsi le porte: allora i mobili del l'appartamento presero un aspetto fedele e giubilante, i quadri religiosi, i tav oli dorati, le immagini dei santi, i libri, la poltrona dorata su una predella, che era il tronetto del Cardinale. Ci trovavamo nell'appartamento d'un Cardinale di Santa Romana Chiesa alle sette del mattino. Avevamo ancora nella mente l'ingresso al palazzo, coi preti che sbucavano fuori e si radunavano come gente in costume d'altri tempi, e i ciclisti che andavano a l lavoro tagliando la piazza in pendio e il binario lucido del tranvai, e il rum ore freddo delle fontane; e poi la porta dell'appartamento nel chiostro, col nom e inciso su una targhetta d'ottone come su una porta borghese; poi il cameriere in sparato bianco e giacca nera, e le voci tranquille e sommesse di saluto nell' ingresso dominato da un'immagine della Madonna, il cameriere faceva sovente una smorfia nervosa, e pareva che ammiccasse storcendo gli occhi e il viso, ci che si mescol poi a tutte le impressioni della mattinata, come se fosse uno spiritello innocuo e tenuto in dominio. Fra quel mobilio solenne e modesto nel medesimo tem po, in cui predominava lo stile del Settecento come l'ultimo cui si sia fermata l'immagine della solennit e della maest, al limite dei secoli coi pantaloni lunghi e il cappello a cencio, dei mobili senz'oro e familiari, disadorni e intimi, de l grande avvento borghese, entr il Cardinale vestito di porpora. Ho veduto anch'io qualche mattina giubilante, e questa fu una; come se il mondo si fosse scordato di tante cose inutili e cattive. E se ci penso, tutte le matti ne giubilanti sono state quelle d'un rito, anche se il rito fu soltanto di indos sare un abito nuovo da ragazzo in un mattino di festa, o di essersi sentito augu rare, ancora non bene sveglio, a dieci o dodici anni, "cento di questi giorni" a ll'alba d'un compleanno, dalla voce improvvisa del padre. Ancora rivedevo i cicl isti tagliare la piazza in pendio e i binari lucidi freddi del tranvai, e i pret i passare il colonnato nell'infinita prospettiva della storia; ma era come il fa tto di un altro mondo. Sapevo che gli assilli e le cure che avevo lasciato fuori mi aspettavano come guardie che si sarebbero messe alle mie calcagna appena fos si uscito. Era anche quell'enorme campana che allentava i chiavistelli e gli sti piti e i sensi. Aveva finito di vibrare come se fosse cessato un vento, e al suo posto scocc l'ora dallo stesso campanile, senza fretta, che ricordava soltanto i l tempo immortale come la morte. Poich si sarebbe assistito alla messa nella cappella privata del Cardinale, non s apevo come sarebbe accaduto; il Cardinale parlava con noi bonariamente, e parlav a di anni di vita, di cose familiari di ciascuno, di cose del mondo. Non potevo levarmi dalla mente l'immagine d'una casa mattutina aperta mentre si spazza e si ripulisce ogni angolo sotto la luce casta. Il Cardinale aveva sul viso il rifle sso di quella porpora che una volta per tutte sul viso del ritratto dell'Innocen zo X di Velasquez, e mi pareva che a furia di parlare latino il suo linguaggio f osse tornato a un colore primitivo, quando l'italiano e il latino erano ancora c onfusi in una ganga, sotto il cretoso strato del dialetto. Questa semplicit e pri mitivit della lingua che si ritrova molto spesso tra gli ecclesiastici, dava il v ero senso a quella porpora, ricordava il popolo; e anche quel viso purpureo era

un viso di popolano, soltanto che negli occhi la vecchia esperienza del popolo e ra mescolata a una sottile e maliziosa esperienza. In ognuno dei suoi gesti e de i suoi atti pareva che egli sentisse l'importanza del costume che indossava, pie no di significato in ogni elemento e colore che lo componeva, e l'uomo che era l sotto celato lo reggeva come si regge il peso d'una responsabilit. E proprio ques to, tra la porpora e l'oro, dava qualcosa di pronto e di guerriero a quel viso a ntico. Ricordo che tra le espressioni di cui si serviva, egli ricorreva spesso a questa esclamazione: "Se' matto!" frase che io aspettavo con divertimento. I su oi giudizi sulle cose del mondo erano d'una saggezza popolare e rude, quella che in qualche vecchio testo di lingua italiana si sposa a una tradizione realistic a e ferma, umile e vissuta. Devo dire di non aver mai ascoltato una messa come quella, di non averne colto m ai cos bene il contenuto drammatico, di non aver mai avvertito cos potente quel so ffio creatore di quando il celebrante afferma: "Questo il Corpo, questo il Sangu e". In quel momento quell'uomo aveva un'altra voce, essa gli usciva da tutto l'e ssere, piegava a quel mistero tutte le sue forze, e in questo che il fondamento del Cristianesimo, aveva il tono dell'implorazione e del comando, un tono volont ario. Avevo gi notato, nella sua voce, quel tono. Siccome lo assisteva un prete, lo si sentiva volargli intorno a servirlo con una sollecitudine da angelo, con l a bugia d'argento e il messale e le ampolle, come se lo consolasse d'un cos treme ndo e impari mistero che gli faceva piegare il capo canuto nella pi profonda umil iazione. Era presente un comunicando, e il Cardinale si volt a parlargli come se parlasse a centinaia di persone, in tutta la pompa dei suoi paramenti e con tutt e le sue insegne. Fu allora che il sapore di quella lingua che avevamo udito poc 'anzi, mescolata alla cadenza d'un dialetto intorno a Roma, d'un rude italiano d a vecchio libro, di reminiscenze latine, s'impast in un linguaggio unico e potent e, e questo linguaggio era messo al servizio d'un giovinetto qualunque, si muove va per lui, suscitava per lui tutti i misteri, confidava tutti i segreti, apriva tutta un'esperienza, affidava tutto un potere a lui solo. E c'era non so che to no fraterno. Tutta la mattina fu piena dell'aroma del vino nel calice d'argento, dei parament i che sanno di vecchio incenso, dell'odore mielato della cera, di tutti gl'infin iti tenuissimi odori d'una mattina religiosa. Poi, nella sala da pranzo, vi si a ggiunse l'odore del latte, del caff, della cioccolata, dei biscotti e dei dolci, e ancora l'odore d'un vino leggero e amaro che si versava da una bottiglia, con un senso di digiuno che si rompe, di sensi che si dischiudono, e il latte ricord a i pascoli verdi, e il cioccolato i mori e i missionari. Il Cardinale si fece s ervire in una ciotola grande, di quelle che davano a noi ragazzi nelle case camp estri dell'infanzia, e torn al suo parlare semplice e al "se' matto!" interessand osi ai fatti del nostro mondo come chi si fa raccontare i costumi degli eschimes i, quasi che tutto fosse uno scherzo e una commedia di cui egli conoscesse la fi ne. Certo, la sapeva pi lunga di noi. Vennero fuori i nomi di due o tre persone n emiche non di lui ma dei suoi ideali e della sua disciplina, e ne parl come si pa rla d'un nemico tra familiari, con un'eco di certe terribili minacce e maledizio ni che si leggono nei Vangeli accanto alla misericordia e mansuetudine. Mentre eravamo sul pi vivo del discorso, cominci la sua mattinata. Il cameriere ve nne ad annunziare non so che generale d'un Ordine. Lo immaginavo nella sala col tronetto, ad aspettare, vestito di nero. Affari di Stato. E proprio in quel punt o fin la chiara festa di quel mattino. La voce del Cardinale non era pi quella. Gi aveva il tono del comando. GLI ETRUSCHI E LA CIVILT POPOLARE Lo scoprimento del Colle Capitolino ha messo a nudo la roccia dalla parte setten trionale; di lass, da un giardinetto pubblico, si pu guardare lo strapiombo, e que lla storia della nostra terza elementare, dei lunghi assedi e della Rupe Tarpea, vera verissima: torna, a guardarvi, quella nostra prima fantasia intatta, con l e domande sorprese che avremmo fatte allora. Ecco restituita agli uomini una gra nde favola. Ai piedi della rocca crescono i cipressi e il verde. A guardare dal Teatro Marcelle, vengono a mente altre alture come questa, una roccia di questa stessa natura, questo stesso senso; i luoghi delle citt etrusche; un angolo, alla fine, che attesta del primo nucleo di Roma, proprio quello di cui Roma si volle

disfare fin nella tradizione: un angolo etrusco. L'altura guardata dalla rupe, il colore della terra, il fiume vicino, il respiro del mare; questa l'Etruria spenta e distrutta che si riaffaccia a Roma tra le s ue innumerevoli memorie, un aspetto singolare della Roma di oggi, e uno dei pi in teressanti delle ultime scoperte. Abituati come siamo a considerare le citt etrus che finite e sterili per sempre, ritrovare la loro radice qui, con tutto quanto Roma e a Rinascimento vi hanno saputo fondare, si avverte ancor meglio lo stacco fra una civilt originaria tutta provinciale e paesana, come dovette essere quell a di Roma primitiva, e come quella della media Italia, e quella propriamente rom ana, sottile, inquieta, cosmopolita, con quel tanto di misterioso che sorge su u na Italia de' cui inizi parlano tanto familiari e quieti gli Etruschi. Quel colo re, quella roccia, quella disposizione del colle, radice etrusca; altrove la ste ssa cosa solitudine, silenzio, morte esterna; qui continuit, attestazione delle o rigini rustiche e terriere come ve ne sono alla radice delle antiche nobilt, ma i n un quadro trionfante. Tornano alla niente Veio e Cerveteri che questo paesaggi o stesso hanno in un'aria remota, e dove la pietra di questa natura divenuta una memoria di luoghi inabitabili. Si potrebbe seguitare a fantasticare di questi l uoghi sparsi per le alture del Lazio, com'erano allora quando furono vivi: caste lla e comunit di emigrati cercanti tutta la stessa natura e lo stesso color della terra con un istinto di colonie del mondo animale, Roma o Ruma non diversa da a ltre castella sulle alture; usi, costumi, tradizioni, e fin gli oggetti d'uso im portati dai luoghi di origine, mercanti che portavano a queste comunit cose per a dornare la vita, il ricordo delle terre d'origine; e qui tutti contenti di se st essi. Spiriti grossi, senza inquietudini, media delle civilt antiche, ma in cui t utto rifuggiva dalle astrazioni; una vita provinciale arrivata alla sua limitata perfezione, a non si sa che incanto primitivo, di una vita paesana che si fosse fermata proprio al punto in cui s'inizia quella che noi chiamiamo civilt. Ce li possiamo figurare. Direi anzi che una stretta parentela lega la provincia italiana del Centro con il senso della vita etrusca, la quale doveva essere piut tosto una forma di vita e una mentalit che una civilt. Tutta la letteratura che sa di popolo, da Bologna a Roma, ha sapore di Etruria, la sua stessa licenza e la sua giocosit; , accanto alle civilt perfette, il limite della civilt terriera e popolare, l'espressione cui si pu riportare molta vita del l'Italia centrale, specie popolare. E non detto che anche questo non fosse un ve rtice. L'Etruria il paesanismo italiano arrivato a una espressione perfetta; la minuta civilt popolare nella grande civilt nazionale. Facevano tombe al modo degli Egizi, ma senza l'aspirazione delle piramidi che implica una civilt inumana, ben s come case sotto monticelli di terra, nella pietra; avevano i loro dii come i Gr eci, ma traducevano i temi della Grecia sulla creta; la loro vita risuona di anf ore e vasi di terracotta come tutta la vita popolare italiana. Una civilt di prov incia, buona per vivere fino a che si in vita, e per non lasciare nella storia a ltro attestato che di una operosit giunta al culmine delle aspirazioni nient'altr o che umane. Ed ecco che in un paesaggio tanto tranquillo e remoto, fra uomini c os ragionevoli, nascevano le aspirazioni di Roma al divino. L'Etruria mor coi suoi ultimi uomini ventruti, coricati sulle tombe in una rassegnazione e pienezza bu ddistica, uomo e donna sotto lo stesso lenzuolo, a sorridere, levati sul cubito, della fine; avevano avuto i loro dii magri e sottili, un Marte succinto con un elmo troppo grande e quasi infantile, le sue scalze dee in atto di modeste passa nti; aveva empito di favole licenziose l'antichit per la carnalit delle sue donne. Sembra di leggere Boccaccio. Rimase una eredit, ai Latini, etrusca: l'assenza di favole e di miti troppo grevi nella loro storia; i miti e i simboli nella stori a dei popoli antichi segnano troppo limitatamente la loro strada e impegnano l'a vvenire. Veio alle porte di Roma, e a vederne il luogo si capisce che guerra dovette esse re la sua con Roma, da castello a castello, da famiglia a famiglia, da trib a tri b. A un certo punto della campagna, a settentrione, sulla via di Bracciano, una s trada si sprofonda umida per una valle, rasenta un fortilizio medievale e un vil laggio; sembra una via segreta come il meato attraverso cui gli antichi immagina vano l'ingresso nel mondo dei morti. Forse le vie degl'Inferi erano quelle dei p aesi morti. Un mulino scroscia nella valle presso una chiusa e, come nei vecchi

stucchi romani, l'albero, la casa rustica, il campo, hanno uno stile fuori del t empo, quello stile popolare che spesso tutt'uno con lo stile arcaico, riconoscib ile in tutti i paesi, nella letteratura come nella pittura antica. Fuori del mul ino sono pochi uomini, i bovi che aspettano il carico; l'acqua scivola sotto una passerella di legno, e cade nella valle: ha una vita di migliaia di anni, si di rebbe che parli una lingua. Poi, uscendo su uno spiazzo, compatta e grigia come l'acciaio una strada selciata appare, e si conficca come un'arma entro un colle erboso. Dopo pochi passi un recinto di filo di ferro chiude la necropoli. diffic ile vedere pi misere rovine di queste; non c' un solo rudere in piedi, e come in u na pianta sono visibili le fondamenta d'un tempio. A sedersi sul muricciolo, il fondamento del tempio di Apollo, si vede da vicino lo spolverio minuto e lento d i questa terra, come se fosse una frana immane, e non che lo smuoversi lento di poca terra sotto di noi; non c' neppure quello che rende quasi allettante il suol o delle necropoli etrusche, in cui l'occhio cerca distrattamente il frammentio m inuto dei cocci, dei vetri dai colori iridati, e i neri nerissimi rottami di vas i; niente altro che polvere, e il colore di quella polvere, le lastre di pietra della strada e delle fondamenta sconnesse, come passi fatti incerti. Ma la voce dell'acqua l sotto, il fiume che sprofonda tra una vegetazione di fior i d'un altro regno, e il ponte naturale di pietra che lo scavalca, come in certi paesaggi dell'America aborigena. Appunto questa religione dei fiumi, nata da ne cessit pratiche, dovette esser legata, come accade, a significati occulti e relig iosi; il fiume era la difesa, la linfa e il bagno, e lungo il fiume erano le vie dissimulate fra le rocce. C'era della trib e della citt, miscuglio che d un colore stretto a quella vita. Direi che l'archeologia di Veio tutta in questo fiume ch e la circonda. A primavera il prato lungo il fiume pieno di fiori, una ricca fio ritura di orchidee selvatiche, che a strapparle mostrano i loro tuberi sotterran ei come attributi sessuali (l'orchidea un fiore maschile), quelli stessi che acc ompagnano la vita etrusca e il transito suo. Cerveteri oggi un paese, con la sua bella fontana in mezzo alla piazza, la vita minuta delle donne e dei ragazzi, l'odore del mosto e del vino dei vicoli; l'ost eria per chi scende a caccia, vecchio svago etrusco. Di qui si vede il mare, des erto come la terra che intorno; il mare che si vede nel fondo delle pianure, dei deserti, della maremma; sta nel fondo rattrappito, come se si ritirasse, vecchi a strada su cui passano le navi, ma di altro mondo e di altri porti. A occidente del paese la necropoli: di qui il paese nuovo si confonde col vecchio colore de lla muraglia di tufo su cui costrutto. La terra incredibilmente molle, minuta polvere; sulla via di accesso che si stan no costruendo gli operai affiorano rottami di orci; un uomo sta lavando certi bcc heri di fresco scavati in una tomba. L sotto si circondava ognuno di questa roba, e gli antiquari ne vendono per raccogliere la cenere delle sigarette. Penso che se di qui a molti secoli le cose del nostro tempo e della nostra vita divenisse ro rare e preziose, non le tombe somiglierebbero pi a questi depositi etruschi, m a i grandi magazzini; allo stesso modo si presentano questi numerosi vasi, che d anno l'idea della merc moderna a serie. Abituati come siamo a considerare le cose antiche tutte come prodotti tipici e unici, ecco qui merci della vita d'ogni gi orno; e non questa una delle ultime ragioni del potere che i resti della vita et rusca hanno su di noi. Romani e Greci ci hanno lasciato quasi soltanto grandi at testati, segni d'una vita eternamente pubblica, solenne, alta; la loro folla que lla del coro dei drammi e delle tragedie, e apparve soltanto come volont colletti va sulla via della volont individuale; un mondo di eroi e di privilegiali; ma que sti Etruschi, i cui nomi maggiori che ci sono pervenuti hanno un suono di casati italiani di vecchio ceppo, di cui non rimane che il disegno delle citt e degli e difizi, hanno portato nella nostra fantasia il colore d'un popolo, la forma dell a casa nelle loro tombe, e tutta questa merc d'uso quotidiano: coppe, orci, brocc he, lampade, fibbie, strumenti per misurare il tempo, situle, ciste; il ricordo perenne dell'acqua necessaria, del vino, dell'olio; la visione d'un mercato di p iccole cose comuni, il sentimento della gente piccola coi suoi angoli di casa, l e sue abitudini, i suoi bisogni. Quasi consci della loro fine, fondarono le citt dei morti che furono in tutto la riproduzione delle loro case. Nei Romani la stessa morte con le tombe lungo le s

trade d il senso del lungo cammino; si avvicendava essa alla vita, simile a una t appa, come le poste dei suoi cursori; ma questi paesani con la memoria dei sepol cri orientali fondavano necropoli che dovevano sopravvivere sotto la terra cui p otevano correre le invasioni e l'aratro solcare senza disturbarli. La necropoli di Cerveteri ha addirittura la pianta d'una citt: una strada nel mezzo con la tra ccia delle ruote dei carri, e solo pi tardi, quando ci si accorge che una citt di sepolcri, le strade che si spartiscono in certi angoli, con qualche pianta di ro se in fiore ai crocicchi (caste e frigide rose delle citt morte), portano alla st essa pace e allo stesso silenzio, solo allora come se si vacillasse al bivio d'u n viaggio ultraterreno. Ognuno di questi luoghi una casa; se si scoprissero dell a terra che li copre come capanne, con le sue zolle erbose, si rivelerebbe una c itt di case basse, con le loro porte, quella umile e quella ampia di grandi e ric che famiglie. lo stesso che affacciarsi alle soglie delle casupole di certi vill aggi: qui una stanza comune, per starvi, mangiare, dormire; alle due pareti oppo ste due lettini di pietra separati dalla colonna che regge il soffitto, e nel me zzo, come se qualcuno si dovesse destare ancora da una sete notturna, un riposti glio coi vasi del vino, dell'acqua, e il piatto delle pietanze. Piccola casa mod esta, senza servit, senza decorazioni, scavata tutta in un blocco di tufo. Quella del sepolcro pi grande riproduce il palazzo. C' la scala esterna, e a mette re i piedi sugli scalini, di quanti mai passi risuonano; il corridoio d'ingresso col muricciolo su cui sono posati i vasi dei viveri; come in certe case rustich e si passa per la dispensa e per la cucina; e poi la stanza centrale: intorno in torno pel muro i cubicoli della famiglia; nel mezzo, sulla parete centrale, quel li del padrone e della padrona. In queste grandi case, divenute sepolcreti, il l etto dei capi della famiglia uno solo comune, non come nelle piccole sepolture d ove i letti sono separati quasi che uomo e donna avessero troppo faticato insiem e nella loro vita. Qui stanno insieme su un letto scolpito nel tufo e lavorato d i stucchi; vi riprodotto il letto loro di ferro o di rame, il materasso, i due c uscini un poco in disordine per avervi vegliato un poco, lo scalino per salirvi, il tavolino da notte accanto. Sullo scalino sono posate le scarpine della signo ra, la signora ha appeso al muro una collana che si tolta or ora, appeso dalla s ua parete il ritratto di suo padre, e sul tavolino da notte il rotolo d'un libro letto a met prima di prender sonno. Intorno, per le pareti e per le colonne semp lici e squadrate che reggono il soffitto a travicelli scolpiti nella pietra, com e se sopra vi fosse un primo piano, le immagini della vita dell'uomo, l'arco del cacciatore, il bastone, il carniere, la spada, lo scudo, l'elmo; e per la signo ra, la spatola della cucina la faina, domestica come il gatto, e infine il famos o flauto che suonava per la caccia, per il pranzo e per la danza, per segnare il ritmo di chi rimenava la pasta e di chi vibrava i colpi di sferza delle punizio ni. In terra, all'ingiro, letti di pietra inclinati pei servi che vi erano depos ti a dormire anch'essi l'ultimo sonno. Ma quei lettucci delle famiglie piccole e modeste! Quello dell'uomo liscio e sco modo. Quello della donna con un cuscino di pietra pi inclinato, e le due sponde r ialzate ai lati, letto d'un'infanzia eterna, letto premuroso come se qualcuno lo avesse rincalzato, per contenere meglio la donna che, si sa, inquieta. PORTE DELL'ALTRO MONDO Siamo andati a vedere la Montagna Spaccata che si trova quattro chilometri e mez zo a sud di Orbetello, sulla Via Aurelia. veramente una montagna spaccata, cio un poggio alto una sessantina di metri e tagliato in due dalla cima alla base. Vi si entra per un passaggio basso, e un corridoio stretto dal macigno. Macigni fra l'una e l'altra parete formano la volta del corridoio, fin dove l'antro diventa spazioso e la spaccatura raggiunge la cima. Nell'antro le pietre cadute formano come una assemblea, una luce verde scende dagli alberi che crescono sulla rotta cima del colle e si affacciano sul crepaccio; si vede il cielo, s'odono cantare gli uccelli sulla superficie della terra. E mentre le voci trascorrenti lass ris uonano dolci nella caverna, una voce che si leva quaggi si perde sorda e spenta. Il suolo coperto di foglie secche cadute dagli alberi gi per lo spacco. Le pietre radunate nell'antro sono incise dalla luce e dai raggi del sole che a certe ore penetrano come in una camera oscura e v'imprimono la forma dello schermo attrav erso cui passano. La luce agisce sulla pietra come un corrosivo su una lastra fo

tografica. Cupe e morte sono le altre pietre nell'ombra perenne. Non vi cresce u n filo d'erba e non v' traccia di vita. Questo un luogo antico, naturalmente; ed un luogo etrusco. Era forse un passaggi o per sbucare al coperto da una parte all'altra del colle. Ma, e forse meglio, f u un luogo di riunione per qualche rito. Gente di passaggio sull'Aurelia scende verso questa parte, pel viale dei giovani cipressi, perch la Montagna Spaccata co mincia ad avere i suoi visitatori. La misteriosa caverna pi accessibile oggi a ge nte che arriva da trecento chilometri lontano che non anticamente alla gente etr usca della citt di Cossa che viveva sul colle accanto. Lo spazio era un fatto che contava per gli antichi nella stessa misura che esso non conta per noi. I racco nti prolungavano le distanze, e il mistero che la potenza delle distanze. E poi, i luoghi sacri hanno il potere di creare intorno a s una zona di lontananza. Dappertutto, nel mondo antico, si trovano luoghi come questi, latebre, lustri, r ecessi, spechi. E mi piace immaginare gli antichi ai quali le distanze appaiono enormi, anche quelle pi familiari, come ragazzi ai quali gli angoli tra le stesse mura domestiche sembrano da esplorare o inesplorati; in essi trovano riparo nel le ore dei sogni e delle fantasticherie, fino a credere d'essere addirittura inv isibili nascondendosi sotto un tavolo. Non altrimenti l'uomo antico, e ancor ogg i l'uomo primitivo, vedeva le distanze che lo separavano da alcuni luoghi della terra; tutti e due, l'antico e il primitivo, sedentari non soltanto perch forniti di mezzi di trasporto lenti, ma perch, dovendosi muovere non per altro che per b isogno, poco avvezzi ai viaggi. Ma soprattutto il fanciullesco amore del nascond iglio accomuna l'antico e il primitivo; e il fatto di vietarsi alcune strade per ch spiranti mistero appena vi cresca un ciuffo d'alberi o vi sia una grotta. Oltr e l'orizzonte dove si ferma lo sguardo, essi mettono una favola. Basta, per ques to, sentire come in molti luoghi dell'Oriente e del Mediterraneo la gente fantas tica ancora di luoghi lontani, e come d'altra parte appaiono misteriosi i vianda nti, i pellegrini, i pastori, che per l'appunto fanno molto cammino. Ma, forse, non si tratta soltanto di abitudine ai viaggi, quanto d'un potere fan tastico proprio dell'infanzia degli uomini e dei popoli, d'una facolt di animare ogni aspetto singolare della terra e di scorgervi un divieto sul quale nessuno c erca di procurarsi una testimonianza dei propri occhi. Noi stessi, andando a vis itare tali luoghi, torniamo insensibilmente all'infanzia nostra e del mondo, ent riamo in detti luoghi come un tempo della nostra fanciullezza scendevamo nella stanza pi remota e oscura della casa come in un mondo animato d'una vita oc culta che ci sbigottiva. Per un poco vi crediamo ancora, tanto questo sentimento radicato nell'animo umano, e risponde naturalmente a un suo bisogno. Un luogo dove questo potere fantastico degli antichi si manifesta con tutta la s ua ingenuit e forza, l'Antro detto della Sibilla a Cuma. Qui la Sibilla dava i su oi responsi, qui era il passaggio per gl'Inferi, qui le rive del sotterraneo fiu me dei morti cui la Sibilla era guardiana. Questo luogo esercit su tutto il mondo antico un'importanza tanto grande da fornire poi per tutti i secoli avvenire e alla stessa nuova religione un'immagine plastica del mondo ultraterreno. Il paes aggio intorno, tra il lago Lucrino e il monte, non ha nulla di singolare se non la solitudine che propria di luoghi carichi di tanto significato, una solitudine rimasta incantata nei suoi molti secoli, e che fa pensare se non sia proprio un a coincidenza singolare che tali luoghi non siano mai popolati, quasi nascondigl i e bracci morti della natura. C' quel pallore, sulla terra, sul lago, sul colle, e poi su ogni aspetto intorno per un lungo tratto, che fa del paesaggio una mem oria. La porta non un cos grande ingresso quale si potrebbe immaginare da una fan tasia moderna avvezza alla scenografia della letteratura e del cinema; appena un passaggio, un meato, e di l comincia il gran viaggio. Tutto intorno alla porta, centinaia di biglietti da visita coi nomi dei visitatori, evocano nomi diversi d 'ogni terra. I biglietti, l'uno sull'altro, sembrano foglie cadute del grande al bero della vita. Stetti a guardare come i due uomini che ci dovevano servire da guida si cavavano i pantaloni per guadare la corrente sotterranea; un gesto simile, non guardabil e e da farsi in segreto, compiuto sotto gli occhi dei visitatori, nonch ridicolo poteva apparire grave e terribile; forse come a vedere qualcuno che si appresta ad eseguire una tortura. Era un gesto professionale; forse quegli uomini, di pad

re in figlio, avevano portato sulle spalle per lunga tradizione i visitatori del l'antro. E poi, come i due uomini portavano i pantaloni ripiegati sul braccio, q uasi che in una vita anteriore avessero avvolto intorno al braccio un mantello. I napoletani hanno a volte atteggiamenti da farvi rimanere a bocca aperta pel mo do con cui nobilitano o rendono naturali certi atti di cui chiunque altro si ver gognerebbe. I due traghettatori sono le migliori guide per una visita come questa: caricando vi sulle spalle per passare il fiume sotterraneo, vi fanno sentire di aver porta to mezza umanit sulle spalle, e di tutte le razze ed et; vi adattano con un gesto, una parola, uno scrollo; hanno una vecchia conoscenza del carico umano, con man o sicura fanno sentire una scienza della meccanica del corpo umano. Si vedono al lontanarsi col carico sulle spalle, per l'acqua di cui non si scorge il fondo, n ella grotta bassa e oscura al lume della lampada ad acetilene. Si sentono le lor o parole morte sull'altra riva, si scorge qualcuno posato laggi che aspetta, che forse ha un vago terrore di essere lasciato solo mentre quelli tornano indietro a traghettare altri. Laggi un amico, vi parla, come se la consuetudine di questa vita si perpetuasse nel sogno di quell'altra; tra due sogni: e le parole si spen gono nella profondit, e si vede soltanto una bocca muoversi come nella visione d' un mondo senza pi suono. Da quanto tempo si compie lo stesso lavoro in quest'antro? incalcolabile. E torn ano a mente i mille e mille biglietti bianchi che attestano il passaggio da quel la porta; messi insieme, l'uno sull'altro come l'ala d'un grande e fatale uccell o bianco inchiodata sulla soglia. Poi i due portatori, seri e attenti, dimostran o come erano dati i responsi della Sibilla; lo fanno con poche parole: uno indic a un tettuccio di pietra sulle rive incassate del fiume su cui i passi infiniti hanno improntata la pietra, ed il lettuccio della Sibilla: vi si sdraia come la Sibilla, sul letto di pietra e sul cuscino di pietra, mentre l'altro si affaccia da un pertugio che comunica con la stanza accanto e mostra il viso di chi atten de la sorte. Fanno queste cose con poche parole: appaiono e dispaiono animando l 'antro e rappresentando l'antica favola del mondo in cui discesero Enea e Virgil io e Dante. Sembra un gioco di ragazzi, e una rappresentazione popolare. Ma solt anto perci tutto ancora vivo. E non dimenticher come i due uomini prendono il prez zo del traghetto, e con quali augurii per la strada che ci aspettava. E come a u n certo punto passati al di l dal fiume letale, ci fermarono in una cella, davant i a un muro interrato, dicendo che il passaggio era interrotto, ma che di l si tr ovava l'altro mondo. Quanto era distante tutto questo? Come erano lontane le riv e del fiume? Come era grande il giaciglio della Sibilla? Mi parve tutto grande e breve nello stesso tempo, una misura difficile, la misura delle favole e della vita antica. LA FIERA DELL'IMPRUNETA Quel giorno, d'ottobre, la Toscana usciva da un temporale d'autunno, il cielo er a grigio e azzurro, e l'azzurro degli ulivi e degli olmi cui si appoggiavano le viti, e il colore finito delle viti autunnali, facevano di tutta la regione del Chianti un grande specchio del cielo e delle chiare nubi al limite dell'orizzont e. Tutto azzurro e grigio, d'un color minerale, in cui i cipressi venivano avant i neri tra quella chiarezza di colori metallica, e l'aria limpida e i campi eran o tenuti a guardia da cotesti cipressi come gente accorsa sulla soglia d'un camp o e d'un casolare. La piazza dell'Impruneta, per chi non la conosca, ha una sing olarit: che vi si accede dal ciglio d'un colle; la piazza si stende in pendio, la ggi il famoso campanile con la chiesa raccolta fra due ali di case; sul fondo, di etro il campanile e la chiesa, il monte delle Sante Marie, una collina sormontat a da una croce di legno con le braccia assai larghe; questa collina ripete l'imm agine della chiesa e forma con essa una sola architettura. Il ciglio del colle, prima che arrivassimo sulla piazza, era irto delle stanghe dei carrettini; dall'altro lato della strada da un muricciolo si affacciavano le teste pi attente di asini e di muli: coi loro nitriti c'introducevano alla fiera , e per un poco non si sentiva altro. Ma poi, affacciandoci sull'altro versante del colle, si vide la piazza e tutta quella folla. Un torchio gigantesco, rimast o in mezzo alla piazza dalla festa dell'uva del giorno avanti, pareva un monumen to naturale, posto com'era nel paese pi prospero del Chianti, e nel centro di que

lle famose vigne. C'era una gran folla, gente venuta da Firenze, borghesi e popo lani, contadini e fattori dei dintorni con le loro donne. I soli colori accesi c he si vedessero erano i fazzoletti turchini e rossi annodati al collo di certi c ontadini. La piazza in pendio grande e sembra grandissima, appunto per la disposizione dei suoi piani; i movimenti della folla, come di un selciato disposto a onde, le da vano una pi grandiosa dimensione. Guardandosi indietro per la piazza in salita, s i scorgevano tutte le cose, gli uomini, gli edifizi, gli animali, come su una ri balta inclinata; in certi angoli che parevano piccoli palcoscenici, nelle terraz ze delle trattorie, gente mangiava ai tavoli apparecchiati; sembravano in un int erno lontano; non so come, il ritmo delle braccia che portavano i cibi alla bocc a dominava quella scena, era il movimento gigantesco e multiplo di quella folla. Una folla silenziosa o quasi, tra cui le donne si aggiravano col viso smarrito e col tremore e il pallore che prende le donne, quali che siano, quando si trova no in una di queste feste, come se sentissero potente e selvaggia la forza dell' uomo. Era forse questo che dava un sottile senso d'inquietudine e di vicina cata strofe, un tremore di attesa, una vibrazione come alla presenza di forze occulte , e ad aggirarsi in un mondo in cui i contatti erano facili, come accade nelle f este, pareva d'impastarsi in un elemento umano, senza ripugnanze e senza pensier i. proprio questo che d ad altre feste popolari, sotto altri cieli, quell'ebbrezz a per cui la folla grida, canta, balla, in un'esaltazione collettiva, in cui la felicit, i dolori, le speranze, acquistano un unico senso, e i tripudi e i deliqu i mistici hanno gli stessi moventi. Qui tutto pareva calmo, semplice, lieto; le grida dei venditori che richiamavano l'attenzione sulle loro merci e incitavano a mangiare e a bere, suonavano come sferze su quella folla, con quel tanto di co nturbante che hanno le voci umane in un'accolta di persone. Dicono della sessual it che si scatena nelle feste. Non proprio questo: la gioia di confondersi, in un freno rotto, il piacere di rimpastarsi in una materia vivente, l'abolizione di ogni antipatia nel ritrovarsi e nel fondersi in una solidariet di natura animale. Altrove questo diventa facilmente esaltazione. Qui, tra un popolo civilissimo, quell'enorme festino, quella gioia del mangiare e del bere, parevano la celebraz ione estrema di un rito perduto, ma vivo nella memoria profonda degl'istinti. Er a facile ricordare la suprema indifferenza etrusca fra i beni della terra, il se nso di pace beata e di pienezza, quella del ventre pieno che li stende sui loro lettucci e li avvicina alla contemplazione. Si sa quanto son parchi i toscani, e come sono parsimoniosi; la loro parsimonia che per l'appunto d un valore tanto pi grande alle cose; alla fiera dell'Impruneta le cose del vivere vi sono profuse come in una scommessa annuale, con la larghe zza cautelosa del popolo, col rispetto che ha il popolo per le cose necessarie a lla vita, che da questo rispetto escono quasi consacrate e che sono il segreto d ella vita antica popolare, il pi aperto contrasto con lo sfascio di merci della c ivilt moderna. La piazza era piena di venditori soliti, quelli che portano alle f iere gli elementari manufatti dell'industria, rimasta per queste cose sempre all o stesso gusto e allo stesso colore. Ma lungo le fiancate della chiesa e sino alla fine del paese, c' il banchetto pi s traordinario che si possa vedere. Vi si tengono banchi di cibi, vini, sacchi di pane, e accanto a questi banchi le tavole apparecchiate e le comitive che mangia no col dispensiere allato. come la conclusione dell'anno, il vino divenuto pi sod o e gi vecchio, la porchetta tenerissima, i polli buoni dopo le covate estive: ma bisogna vedere i tagli diligenti, i modi gelosi e solenni di presentarli, un pa radiso delle gole semplici, o di quelle sciupate ai mangiari raffinati, un ritor no alle manipolazioni originali, un vero museo dell'arte regionale nella cucina: le soppressate sembrano di alabastro, il taglio della porchetta crocchia sotto il coltello, e gli aromi dell'erbe necessarie a queste cose hanno l'alito delle case al tempo dei raccolti estivi. E questa non che l'introduzione alla grande s cena che Callot non ha forse veduto o non riuscito ad annotare, e che gli avrebb e dato uno di quei temi come la scena degl'impiccati o le sue folle di straccion i. Voglio dire, il viale dei polli arrosto. Da una parte e dall'altra della strada, per un buon tratto di cento metri, due f ile di rosticcieri improvvisati manovrano ciascuno quattro o cinque girarrosti;

ai lunghi schidioni sono infilati una dozzina di polli, ben gialli, e sono cinqu anta polli che si rosolano insieme sul rettangolo della brace in terra, e, tutti insieme, quasi un migliaio su tutta la strada. Il rosticciere ne regolava i movimenti con attenzione girando lentamente la ruot a che mette in movimento gli schidioni, gl'inservienti infilzavano intorno ad al tri spiedi la nuova mandata, e da una parte all'altra era tutta una sinfonia di giallo che andava dal rosso di Siena degli animali gi a puntino al giallo zaffera no di quelli da rosolare. Le braci, sotto, volatizzavano e diffondevano l'odore dell'arrosto, le donne spargevano il sale da una gran cartata, altre l'olio, e i l rosticciere badava che il fuoco li colorisse bene; e solo quando la mandata er a in ordine gridava le lodi della sua cottura, osservandone i colori con l'occhi o attento di un pittore. Le carni rosolate trascoloravano in breve per tutte le gradazioni del giallo, e bastava un attimo perch si notasse un colore troppo bruc iato e risecchito come di certi polli di cartone che si servono ai finti pranzi delle commedie. Si poteva stare un pezzo a osservare la sapienza di quella cottu ra, e le scene dei venditori allineati coi loro apparecchi e i fuochi uno accant o all'altro. Un apparecchio girava di qua, l'altro di l, tutti in un medesimo len tissimo ondeggiamento ma in diverse direzioni, e questa abbondanza era muta. A levare gli occhi si