Issue 49 it (2) - Europa

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Inter@lia 49 Trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea http://ec.europa.eu/translation/italian/magazine SOMMARIO Pag. CULTURALIA Fiera del Libro 2012 (Giulia Gigante) 2 Viaggio al centro della Russia (Daniele Vitali) 5 TERMINOLOGIA Punto e a capo (Anna Maria Bagnari) 12 Stakeholders (Giorgio Tron) 14 Conoscenza situazionale (Francesca Nassi) 15 IL PELO NELL’UOVO Divagazioni sulla pratica del tradurre (Domenico Cosmai) 17 Comitato di redazione: L. Boselli , R. Gallus , G. Gigante , F. Nassi , Collaboratori: A.M. Bagnari , D. Cosmai , G. Tron, D. Vitali Grafica: O. Maffia Marzo 2012

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Inter@lia

49

Trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea

http://ec.europa.eu/translation/italian/magazine

SOMMARIO

Pag.

CULTURALIA Fiera del Libro 2012 (Giulia Gigante) 2 Viaggio al centro della Russia (Daniele Vitali) 5

TERMINOLOGIA Punto e a capo (Anna Maria Bagnari) 12 Stakeholders (Giorgio Tron) 14 Conoscenza situazionale (Francesca Nassi) 15

IL PELO NELL’UOVO Divagazioni sulla pratica del tradurre (Domenico Cosmai) 17

Comitato di redazione: L. Boselli, R. Gallus, G. Gigante, F. Nassi,

Collaboratori: A.M. Bagnari, D. Cosmai, G. Tron, D. Vitali

Grafica: O. Maffia

Marzo 2012

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Culturalia - Fiera del libro

Quest’anno il consueto appunta-

mento di marzo con la Foire du

Livre di Bruxelles si presenta più

interessante del solito. Nell’am-

bito della manifestazione, che già

da qualche anno si svolge negli locali onirici del

Tour & Taxis, vi sarà, infatti, uno spazio tutto de-

dicato all’Italia. L’intento è quello di aprire uno

spaccato sulla cultura italiana contemporanea ospi-

tando, oltre ai libri, anche tutta una serie di figure

significative - scrittori, poeti, giornalisti, editori,

studiosi e disegnatori -, in una carrellata di incontri

e tavole rotonde che cercheranno di fare il punto

della situazione sull’attualità non solo letteraria,

ma anche politica del nostro paese. Tra coloro che

interverranno sono molti i nomi di spicco: da Ste-

fano Benni a Gianrico Carofi-

glio, da Michela Murgia a Mar-

cello Fois.

Il tema prescelto per la quarantaduesima edi-

zione della Foire du Livre, che avrà luogo dal

1° al 5 marzo, è “Sex, books and Rock’n Roll”

nell’ottica di una ribellione contro l’ordine costitui-

to. Forse richiamandosi alla celebre affermazione

di Dostoevskij nell’Idiota secondo cui la bellezza

salverà il mondo, gli organizzatori si appellano al

valore sovversivo della bellezza che si concretizza

nella pratica, anch’essa sovversiva, della cultura.

L’idea di partecipare al salone del libro con un

“padiglione” italiano è venuta a Filippo Segato,

LA CULTURA ITALIANA

ALLA FOIRE DU LIVRE

DI BRUXELLES

1 - 5 marzo 2012

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Culturalia - Fiera del libro

segretario della sezione brussellese della Società

Dante Alighieri, ed è stata accolta con favore, sia

dall’équipe che si occupa dell’organizzazione del-

l’evento diretta da Ana Garcia, che ha colto l’occa-

sione per riportare la Foire alla sua iniziale dimen-

sione internaziona-

le, che dall’Amba-

sciata e dall’Istituto

di Cultura italiana.

La libreria italiana

Piola ha aderito con

entusiasmo all’ini-

ziativa e gestirà lo

stand con le edizioni italiane dei libri.

A dare forma all’iniziativa ha provveduto Stefa-

nia Ricciardi, specialista di letteratura italiana con-

temporanea e traduttrice letteraria nonché assisten-

te di lingua e letteratura italiana presso l’Università

di Liegi, che ha ideato una “scaletta” che tiene

conto dei diversi aspetti della cultura italiana con-

temporanea e che dedica il dovuto spazio alla lette-

ratura nei suoi diversi aspetti, prosa, poesia, poli-

zieschi, libri per l’infanzia e graphic novel, senza

dimenticare le problematiche politiche e sociali.

Con pazienza e passione ha preso contatto con gli

scrittori, i giornalisti e gli editori riuscendo a stila-

re un programma in cui vi sono sia autori già affer-

mati e noti anche al grande pubblico sia i “nuovi

talenti” che si profilano come la prossima genera-

zione letteraria.

Quasi tutti gli scrittori che inter-

vengono alla manifestazione sono

autori le cui opere sono già state

tradotte in francese e che godono

già di una certa notorietà in

Belgio e, più in generale, nel

mondo francofono. Verranno

a presentare il loro ultimo

libro, ma anche a partecipare

a dibattiti e tavole rotonde. Numerosi sono gli ap-

puntamenti: venerdì sera avrà luogo un reading di

poesia, seguito da una tavola rotonda che offrirà

una panoramica sulla poesia contemporanea, do-

menica pomeriggio una tavola rotonda sulla situa-

zione dell’editoria italiana cui prenderanno parte,

tra gli altri, Antonio Franchini, responsabile di

Mondadori per la narrativa italiana, e Daniela di

Sora, slavista e fondatrice della casa editrice Vo-

land. Un’altra tavola rotonda, sul tema “Web e me-

dia”, cui partecipa Marino Sinibaldi, direttore di

Radio 3, affronterà un tema di

grande interesse per gli italiani

che vivono all’estero: come re-

perire le novità letterarie orien-

tandosi tra trasmissioni radiofo-

niche e blog letterari. Sempre in

ambito letterario, sabato sarà

affrontato il tema affascinante

di “Les (en)jeux de la mémoire” con Marcello

Fois, Michele Mari e Diego Marani.

Sul fronte dell’attualità si segnalano l’incontro,

intitolato “L’Italie en marche”, che si propone di

delineare la nuova fisionomia politica dell’Italia, e

una tavola rotonda sulla mafia.

Tornando alla letteratura, vi saran-

no, tra gli scrittori più noti: Stefano

Benni, Gianrico Carofiglio, Mar-

cello Fois, Simonetta Agnello

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Culturalia - Fiera del libro

Hornby, Diego Marani e tra le

“scoperte” degli ultimi anni: Michele

Mari, Andrea Molesini (che ha

vinto il Premio Campiello 2011 con

Non tutti i bastardi sono di Vienna),

Michela Murgia (segnalatasi con

Accabadora e Ave Mary), Antonio

Pennacchi (premio Strega 2010 per

Canale Mussolini) e tra i più giova-

ni Marco Mancassola, Antonio

Bajani e Giuseppe Schillaci, cui si

aggiungono due poeti come Antonel-

la Anedda e Andrea Inglese, autori

per l’infanzia e scrittori di BD. È

previsto poi un incontro in omaggio

alla memoria di Carlo Fruttero e

uno a quella di Vincenzo Consolo,

entrambi recentemente scomparsi.

Ciascuno degli autori invitati terrà

un incontro-dibattito con il pubblico

in cui presenterà la sua ultima opera,

firmerà dediche sia sulle edizioni ita-

liane che francesi dei libri e parteci-

perà ad una o più tavole rotonde.

Molto interessante si preannuncia il di-

battito, che si svolgerà venerdì 2 marzo,

provocatoriamente intitolato “Quelle lan-

gue parleraient les Martiens?”: una ri-

flessione sulla lingua intesa come strumen-

to di comunicazione, sulle infinite varianti

frutto della creazione letteraria e sulle lin-

gue nuove, “inventate”, cui prenderanno

parte la scrittrice Caroline Lamarche, Die-

go Marani e Dieter Vermandere dell’Uni-

versità di Anversa.

Nel declinare la cultura italiana nelle sue

diverse forme il programma delle iniziati-

ve proposto nell’ambito del “pavillon ita-

lien” è strutturato in maniera tale da sod-

disfare le esigenze di molti tipi diversi di

lettori, italiani e stranieri, o anche di

semplici cultori o curiosi del nostro pae-

se. Ciascuno troverà pane per i suoi den-

ti.

Giulia Gigante

Per il programma preciso, con l’indicazione del giorno e dell’ora in cui avranno luogo i diversi eventi si rimanda al sito: http://www.flb.be

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Culturalia - Russia

Viaggio al centro della Russia

Lingue, popoli e religioni lungo il Volga

La Russia è il paese più grande del mondo, con una superficie che è 57 volte quella dell’Italia, e presenta quindi una grande varietà di paesaggi: dalle metro-poli di Mosca e San Pietroburgo fino alla Grande Pianura Russa al centro della parte europea del pae-se, dalle miti temperature del Mar Nero al gelo sibe-riano, dalla tajga alla tundra, dalla steppa alle coste del Pacifico, proprio di fronte al Giappone. Conside-rata l’ampiezza delle zone dal clima inospitale, la densità della popolazione è abbastanza bassa rispetto a quella dell’Unione europea, tant’è vero che tutto il paese conta solo 2,4 volte gli abitanti dell’Italia, in buona parte concentrati nelle due grandi città (per la precisione, 11 514 330 a Mosca e 4 848 700 a «Piter»; in tutto il paese sono 142 905 208 secondo i risultati provvisori del censimento 2010).

La composizione etnica è piuttosto variegata: se i russi rappresentano la grande maggioranza della po-polazione (ossia il 79,8%) e tutti parlano la lingua russa, vi sono però decine di altre nazionalità: popoli di lingua turca come i tartari (o tatari), i baskiri, i ciuvasci, i balkari, i karaciai, i nogai, gli jakuti, gli ujguri e i tuvini, di lingua ugro-finnica come i komi, i mari, gli udmurti, i mordvini e i kareli, di lingua tungusa come gli evenki, di lingua mongolica come i calmucchi e i buriati, di lingua indo-iranica come gli osseti, o ancora di lingua caucasica come gli adighè,

i circassi, gli ingusci, gli àvari, i ceceni. Questi ulti-mi, vittime di una guerra terribile che ha lasciato profonde ferite non solo nella Repubblica dei Cece-ni, ma anche nelle zone circostanti e a Mosca (dove il terrorismo irredentista ha fatto esplodere negli ulti-mi anni numerose bombe), sono la minoranza più conosciuta. In effetti ho a volte l’impressione che nella consapevolezza occidentale i ceceni siano una stranezza, un’eccezione nel gran mare russo e russo-fono degli abitanti della Federazione.

Le cose non stanno esattamente così: la Federazione Russa è, per l’appunto, uno Stato federale, formata da un corpo principale (la Russia vera e propria, ri-partita in province o oblasti, con a capo dei governa-tori, gubernatory, ormai nominati dal potere centra-le) e da un arcipelago di repubbliche sottordinate in cui vivono i diversi popoli che ho elencato (e tanti, tanti altri). In questo la Russia di oggi rappresenta, per non usare l’abusata metafora delle matrëški, una versione in scala minore dell’Unione Sovietica, da cui ha ereditato la composizione territoriale attuale, con poche modifiche: ad es., la vecchia Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Tartara si chiama og-gi Repubblica del Tatarstan, la vecchia Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Ciuvascia è diventata la Repubblica Ciuvascia (in lingua locale Čăvaš En) e la Repubblica Socialista Sovietica Autonoma dei

Canto e danza in costume ciuvascio, col pane e il sale pronti ad essere offerti in segno di benvenuto

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Culturalia- Russia

Mari è oggi la Repubblica di Marij El. Subito dopo la caduta dell’URSS nel 1991, un impetuoso revival etnico aveva appunto cambiato i nomi delle repub-bliche a favore delle versioni in lingua locale, e ave-va iniziato un percorso di autonomia oggi interrotto: ormai i «presidenti delle repubbliche» sono stati de-classati a «capi repubblica» (in russo glavy, sing. glava: come noto, di presidente c’è solo Lui) e ven-gono anch’essi nominati da Mosca, come i governa-tori.

In compenso però, arrivati alla triste situazione so-ciolinguistica in cui la trasmissione intergenerazio-nale delle lingue minoritarie è quasi interrotta, i «piccoli popoli» della Russia stanno riconquistando una certa consapevolezza dell’importanza delle loro lingue e culture. Sapendo che appartengo a un grup-petto di amici che, a Bologna, ha fatto in questi ulti-mi 15 anni il diavolo a quattro per ridare visibilità al dialetto bolognese, che ora viene insegnato in diversi corsi volontari a giovani e giovanissimi, alcuni amici ciuvasci mi hanno invitato nella loro Repubblica per fare una specie di scambio di buone prassi. Ho subi-to accettato, perché non avevo mai visitato la «provincia» russa, ma sempre e solo le due grandi città, inoltre era l’occasione per fare qualche studio linguistico e per rivedere, anche se un po’ fugace-mente, Mosca e osservare com’era cambiata negli anni.

In effetti adesso la capita-le della Russia è tenuta piuttosto bene e pullula di ristoranti e bar: si possono vedere tante belle cose ed è possibile trascorrere un piacevole soggiorno da turista (a patto di conosce-re il russo, o almeno l’al-fabeto cirillico, oppure di avere una guida: in tante situazioni mi chiedevo come potesse cavarsela chi non sa leggere i cartelli, e in metropolitana ho anche salvato un americano che non sapeva bene in che

stazione fosse finito). Del resto la Piazza Rossa e il Cremlino, coi loro tipici colori «pastellati» alla rus-sa, sono tra i posti più famosi del mondo.

Fatta la prima ricognizione, e salutati un paio di amici di vecchia data, ho poi preso l’aereo per Kazan’ (1 143 546 abitanti), città posta sul grande fiume Volga e capitale della Repubblica dei Tartari (3 786 358 ab.). «Ma esiste davvero quel posto dal nome fiabesco?», mi chiedevano intanto gli amici italiani per posta elettronica: in effetti viene da pen-sare a «Il Deserto dei Tartari» di Dino Buzzati, ma a dire il vero i tartari, popolo musulmano di lingua tur-ca, sono tutt’altro che fiabeschi e hanno assai con-cretamente dominato la Russia per circa trecento an-ni, prima di essere sconfitti da Ivan il Terribile nel 1552.

A Kazan’ è davvero iniziata l’avventura: anziché prendere il taxi, ho aspettato l’autobus cittadino con tanto di bigliettaio (anzi, di bigliettaia: di solito sono vecchiette col grembiule che integrano la pensione). La corsa è durata un’ora, in gran parte in mezzo alla campagna, con fermate a cui salivano una o due si-gnore con borse piene di erbe e formaggi e i denti brillanti per le capsule metalliche che oggi a Mosca

non si vedono più ma che continuano a con-traddistinguere tanti sorrisi di provincia. Ar-rivato al Prospekt Po-bedy sono entrato in metropolitana: la paura di attentati è tanta, so-prattutto in una Repub-blica a maggioranza musulmana come il Ta-tarstan, e quindi ho do-vuto passare un control-lo di tenore aeroportuale per prendere il treno sot-

terraneo e, dato il mio valigione, sono stato fermato da una gentile poliziotta che si è informata dello sco-po del mio viaggio e vari altri particolari della mia

I colori pastellati di Mosca: San Basilio.

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vita privata. Un gettone di plastica ed ecco che finalmen-te le porte automatiche si so-no aperte anche per me: la metropolitana di Kazan’, a una sola linea, è nuovissima, decorata elegantemente (ricorda certe fermate della metro moscovita, ma in ver-sione orientale) e gli annunci sono in tre lingue: in russo, tartaro e inglese (a Mosca so-no solo in russo, per la dispe-razione del suddetto america-no).

Una delle fermate porta al Cremlino, la storica cittadella non rossa come la sua omolo-ga moscovita ma bianca, e molto ben restaurata, oggi sede del governo della Repubblica: lì ho ritrovato il mio amico Hèctor, ca-talano ma residente in zona e disposto a farmi da guida. All’interno del Cremlino di Kazan’ è stata costruita una grande moschea, che Hèctor mi ha su-bito proposto di visitare. Pensando a quanto sono sgraziate le moderne chiese cattoliche in Italia, non sempre in grado di reggere il paragone con le basili-che rinascimentali, sono rimasto un po’ perplesso, ma un’occhiata in alto mi ha subito fatto cambiare idea: la grande moschea di Kazan’, eretta grazie a una colletta fra la popolazione, a un po’ di fondi isti-tuzionali e a un cospicuo apporto saudita, è stata co-struita sul modello di Santa Sofia a Istambul, secon-do un’architettura tradizionale cui sono stati aggiunti i noti colori pastellati alla russa. Il risultato: un mo-numento straordinario, perfettamente integrato con l’insieme storico del Cremlino. E poi i nostrani le-ghisti dicono che i minareti stonano col paesaggio! Se vedessero la moschea di Kazan’ illuminata la not-te, magari dalla terrazza del vicino Marriott, persino

loro si accorgerebbero della differenza rispetto ai parcheggi a tortiglione che abbelliscono le sviluppate città padane. Ma tor-niamo ai tartari…

Hèctor è un’ottima guida e, co-noscendo il mio interesse per le lingue più varie, aveva organiz-zato un incontro all’università con un austero professore tarta-ro, il quale ha gentilmente ri-sposto alle nostre domande so-ciolinguistiche: per quanto il tartaro sia la seconda lingua più parlata della Federazione, è pe-rò in ritirata davanti al russo, anche per una politica poco fa-vorevole delle autorità mosco-vite. I tartari, di religione mu-sulmana, con una certa fierezza

per il loro passato di dominatori e con un nuovo slancio economico dovuto al petrolio recentemente scoperto, cercano di sostenere la propria lingua, coufficiale col russo in Tatarstan (il 52,9% degli abi-tanti è tartaro, il 39,5 russo e c’è anche un 3,3% di ciuvasci) e parlata anche in vari altri luoghi dello sterminato paese (in particolare nella Repubblica dei Baskiri, o Baškortostan: lì i tartari sono il 24,14% della popolazione, contro il 29,76 dell’«etnia titola-re» e il 36,3 dei russi), ma le iniziative delle autorità locali si scontrano spesso coi veti di Mosca. Ad e-sempio, alcuni anni fa (quando i presidenti delle Re-pubbliche erano ancora eletti dal popolo), si era de-ciso che il tartaro abbandonasse l’alfabeto cirillico per quello latino, ma poi una legge votata dalla Du-ma, il parlamento moscovita, ha stabilito che tutte le lingue della Russia debbano scriversi con lo stesso alfabeto (ovviamente lo stesso del russo, fatti salvi segni diacritici e lettere speciali per i suoni inesisten-ti in tale lingua). Questo ha bloccato le iniziative in corso in altre zone del paese, ma ha frenato solo par-zialmente i tartari: a Kazan’ i nomi delle strade, sem-pre nelle due lingue, per il tartaro usano oggi l’alfa-

La nuova e grande moschea di Kazan’, perfettamente inserita nello storico Cremlino della città.

Persino meglio di un parcheggio a nove piani!

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beto cirillico, ma i cartelli installati prima dell’apo-dittica legge centralista sono rimasti con l’alfabeto latino, e nessuno ha fretta di sostituirli... Al di là di questa lotta simbolica, non mancano le minacce gra-vi, come la decisione di Mosca di imporre un pro-gramma di studio unico in tutta la Federazione: passi per la matematica, ma immaginiamoci che effetto possa avere sui pic-coli tartari sentirsi raccontare in toni epico-eroici di quando Ivan il Ter-ribile, finalmente, liberò tutti quanti da l t r i seco lare «giogo tartaro-mongolo» (tataro-mongol’skoe igo, una delle formule più amate anche dal libro su cui studiai io all’università la storia della Russia).

In serata abbiamo preso uno dei tanti autobus che collegano fra loro le diverse repubbliche del Volga (merito dello scarso sviluppo, per ora, del traffico privato) per andare a Čeboksary (453 645 abitanti), città anch’essa posta sul grande fiume e capitale del-la Repubblica dei Ciuvasci (1 251 599 ab.). Čebo-ksary, che in ciuvascio si chiama Šupaškar (ma la p si pronuncia b perché è intervocalica) è il luogo in cui vive Hèctor, insieme alla moglie russa. I ciuvasci parlano una lingua turca ma sono di religione orto-dossa, il che li rende più facilmente assimilabili dei tartari: pur essendo ancora il 67,69% della popola-zione della Repubblica (contro il 26,53% dei russi, e c'è anche un 2,77% di tartari, ecc.), oltre il 15% di loro non parla più ciuvascio, e molti finiranno quindi probabilmente per dichiararsi russi al prossimo cen-simento. È interessante la mancata corrispondenza fra lingua e tratti somatici, dovuta al grande rimesco-lamento della storia e delle vicende personali: ci so-no ciuvasciofoni biondi e russofoni dai capelli neri e

dagli occhi orientali. Del resto, col diffondersi del russo fra tutti i popoli della Federazione e con l’im-migrazione interna dalla periferia verso la capitale, oggi a Mosca una parte rilevante della popolazione, pur parlando russo come Puškin (beh, diciamo in una versione un po’ modernizzata), ha aspetto asiati-co, con grande scorno dei leghisti locali (il più noto

dei quali si chiama Vladimir Žirino-vskij ed è a capo di un partito sedicente liberal-democratico, terza forza del paese dopo il partito di Putin e Medvedev, Edinaja Rossija o «Russia Unitaria», e dopo i comunisti).

Torniamo ai ciuvasci. Le campagne parlano ancora massicciamente la lingua, ma non appena i contadini si inurbano, trasformandosi in operai o impiegati, passano immediatamente al russo, e trasmettono ai figli solo questa lingua. Anche in questo caso, un punto critico è il sistema scolastico: se in provincia molte scuole hanno il ciuvascio come lingua d’inse-gnamento, nella capitale repubblicana Čeboksary il ciuvascio è semplicemente oggetto di studio, per una manciata di ore la settimana; troppo poco perché i russofoni lo imparino, e troppo poco perché i bambi-ni ciuvasciofoni sfuggano al sentire comune che vor-rebbe il russo lingua della modernità e il ciuvascio lingua dei nonni e dei contadini. Secondo Hèctor, che insegna sociolinguistica all’università, parlano in russo ai figli persino quei ciuvasci venuti a Čebo-ksary dalla campagna per fare gli insegnanti di ciu-vascio nelle scuole cittadine! Un mio amico ciuva-scio, arrivato in città a 5 anni, ha vissuto questo cam-bio linguistico repentino dei genitori, e solo a qua-rant’anni ha deciso di ricominciare a parlare ciuva-

Čeboksary, politica alla Achille Lauro: un deputato rivendica il generoso dono di una panchina.

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scio con loro e di parlarlo al figlio undicenne (al po-sto dell’esperanto che usa con me e in cui si rivolge-va anche al figlio, essendo sposato a una russa cono-sciuta a un congresso esperantista).

Ciò naturalmente non significa che la lingua sia ban-dita: i nomi delle strade in tutta la città sono bilingui, e lo stesso vale in autobus per i messaggi registrati che preannunciano le fermate ma, mancando il pre-stigio necessario per parlare ciuvascio in pubblico e a livello ufficiale, quando è l’autista a parlare al mi-crofono lo fa sempre solo in russo (anche se gli auti-sti in genere vengono da famiglie ciuvasciofone!). Esiste persino la Festa della Lingua Ciuvascia orga-nizzata dalle autorità ma l’iniziativa, pur lodevole, non manca di ricadute negative: poiché c’è già un ruolo ufficiale (che potremmo definire «celebrativo», o «simbolico») per il ciuvascio, la maggioranza della popolazione non si rende conto del suo costante arretramento, e preferisce sempre più il russo per gli usi pratici e quotidiani. A questo va aggiunta l’estrema difficoltà di aprire e gestire organizzazioni non governative in Russia, dati gli oneri burocratici e le severe responsabilità di legge che questo comporta: diventa così chiaro come mai siano tanto poche le iniziative dal basso per la tutela e valorizzazione della lingua. Per fortuna, c’è qual-che segnale incoraggiante, come l’idea di aprire una

scuola a Čeboksary in cui l’insegnamento avvenga in ciuvascio anziché in russo (analoghe esperienze fra le minoranze dell’Europa occidentale mostrano che questa formula è vincente: i bambini bretoni del-le scuole Diwan ad esempio imparano il bretone da madrelingua e sentono comunque il francese dal-l’ambiente extrascolastico, ma in più la loro possibi-lità di muoversi fra due lingue, preclusa ai bambini unicamente francofoni, fa sì che gli alunni della rete Diwan sappiano poi meglio il francese della media dei loro coetanei! Lo stesso fenomeno si è osservato in Spagna, fra i bambini delle scuole che usano come lingua d’insegnamento il basco).

Nei giorni successivi, un altro autobus ci ha portato a Joškar-Ola (248 688 abitanti), capitale della Repub-blica dei Mari (696 357 ab., di cui il 47,5% russi in continuo aumento, 42,9% mari in continuo calo, 6% tartari in aumento grazie alle dinamiche favore-voli dei popoli turchi, perlomeno se musulmani, e 1% ciuvasci, in calo probabilmente perché, pur se turchi, sono cristiani ortodossi). I mari, popolo di lingua ugro-finnica un tempo chiamato «ceremissi», sono considerati «gli ultimi pagani d’Europa»: infat-

ti, ferma restan-do la presenza nella Repubblica anche della reli-gione ortodossa (e islamica), il credo tradiziona-le dei mari non prevede «né cle-ro né chiese», come mi ha spie-gato fieramente il direttore del-l’Istituto di studi mari, ma solo una preghiera comune fatta nel bosco sacro; non

Čeboksary, architettura tradizionale ciuvascia.

Čeboksary, un cartellone di «pubblicità progresso» (solo in russo) invita a fare più figli per contrastare il preoccupan-

te calo demografico della Russia. La scritta dice: «Un bambino va bene ma due sono meglio!».

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so dove si trovi questo mitico luogo, ma è un fatto che la Repubblica dei Mari è ancora in gran parte ricoperta da boschi, con un paesaggio che fa pensare ai grandi romanzi della letteratura russa.

Un’altra sorpresa per me è stata l’architettura cittadi-na: la capitale di Marij El è una piccola città, ma mi sembra che si stia costruendo un potenziale turistico paragonabile a quello di Kazan’. Se però Kazan’ può puntare sui suoi monumenti storici e sui tanti palazzi Liberty (che occorrerà ristrutturare in fretta, se non si vuole che crollino definitivamente), Joškar-Ola può

contare sull’idea geniale delle autorità di costruire palazzi nuovi secondo stili architettonici tradizionali, russi ed europei, che danno alla città un’atmosfera pastiche allegra e variopinta: mentre nel dopoguerra Bruxelles ha abbattuto le maisons de maître per so-stituirle con spaventosi scatoloni invecchiati in fretta e male (e Lussemburgo sta facendo lo stesso anche oggi), Joškar-Ola diventa sempre più pastellata e at-traente, con nuove costruzioni di ogni genere che colorano la città facendo dimenticare le grigie case popolari di epoca sovietica.

Rientrato a Čeboksary, sono stato coinvolto in un’e-sperienza straordinaria, il «Festival Internazionale delle Lingue» (la denominazione esatta, trilingue, è Πĕтĕм тĕнчери Чĕлхе Фестивалĕ in ciuvascio, Международный Фестиваль Языков in russo e Internacia Lingva Festivalo in esperanto). Nato 16 anni fa per promuovere il ciuvascio e l’esperanto, il Festival è l’idea di un amico che ogni anno organiz-za una serie di manifestazioni per far conoscere la varietà linguistica del mondo alla popolazione della Repubblica. L’iniziativa, che si è allargata ad altre città russe, Mosca compresa, si svolge in varie scuo-le della città e della provincia, e si avvale della coo-

perazione dell’uni-versità. Così, una bella mattina, sono stato caricato su un autobus e, insieme a un gruppetto di stu-denti universitari stranieri (un olande-se, una greca, un te-desco e una tagika, nonché vari studenti russi e ciuvasci che ci facevano da guida), portato a una scuola inferiore di Jadrin, cittadina della cam-pagna ciuvascia.

La preside aveva riunito cinque classi composte da ragazzi di età diverse, selezionati fra gli alunni più meritevoli di varie scuole dei paraggi, e in ognuna di queste classi ciascuno di noi a rotazione doveva presentare la propria lingua. In questo modo, ho par-lato cinque volte dell’italiano: verso sera avevo un certo giramento di testa, ma mi sono sentito molto onorato per la calorosa accoglienza ricevuta, sia quella ufficiale (di preside e insegnanti), sia quella dei ragazzi. Ci si può immaginare quanto l’arrivo di un gruppo di stranieri, di cui uno che addirittura par-lava russo, abbia messo a rumore la comunità loca-le!

Joškar-Ola: il lungofiume della Malaja Kokšaga, affluente sinistro del Volga, con nuovi edifici rappresentativi e amministrativi di sapore anseatico.

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Il giorno successivo mi aspettavano gli studenti e i professori d’italiano dell’uni-versità di Čeboksary, ai quali ho invece presentato (in russo) il dialetto bolognese, mostrando loro in particolare la differenza, fonologica, fonetica, morfosintattica e lessicale, che lo separa dalla lingua ufficiale italiana. In molti erano esterrefatti, e hanno commentato: Это уже другой язык! («Ma è un’altra lingua!»). Poi di cor-sa in un’altra aula, dove il Festival prevedeva un gioco a premi: la squadra degli studenti stranieri si è battuta valorosamente, rispondendo a quasi tutte le domande sulle lingue più esotiche, ma alla fine ha vinto una delle due squadre locali. Io ero uno dei tre giurati e non credo che me la sarei cavata altrettanto bene senza il fo-gliettino delle risposte.

È poi iniziata, in una modernissima scuola di Čeboksary, una stupenda due giorni in cui ciascuno presenta-va la sua lingua agli altri. Quando non ero impegnato a spiegare l’italiano e il bolognese, correvo qua e là per ascoltare ciuvascio, tagiko e jiddisch. Avrei continuato (c’erano l’aserbaigiano, il tuvino, il bulgaro, il fang, l’olandese, la lingua dei segni, persino tre marinai in erba che illustravano il linguaggio delle bandiere sulle navi), ma era arrivato il momento di tornare a Bruxelles, via Kazan’ e Mosca.

Sono tornato dal viaggio, oltre che con tanti bei ricordi e impressioni, con una serie di preziose registrazioni della lingua ciuvascia che ho poi spedito all’università di Venezia, dove il mio amico Luciano Canepari, del cui lavoro sono fervente ammiratore fin dai tem-pi dell’esame di linguistica all’università, ha già provveduto a un’analisi fonetica che, spero, potrà servire anche agli sforzi di inse-

gnare il ciuvascio ai ragazzi che cominceran-no presto a Čeboksary.

Lo stemma della Repubblica dei Ciuvasci

Daniele Vitali

Fonte: www.lib.utexas.edu/maps/ commonwealth.html

Kazan’, edifici appena ristruttu-rati accanto a ruderi ancora in

attesa.

Joškar-Ola: un’architettura russa tradizionale ma nuova di zecca,

anzi ancora in costruzione.

Anche Joškar-Ola è pastellata: qui un palazzo dalle forme che ricorda-

no un po’ l’Italia.

Čeboksary, odonimo bilingue (prima in ciuvascio, poi in rus-

so: Prospekt Lenina)

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Terminologia - Punto e a capo

Un giorno, svariati anni fa, ricevo una telefonata da una traduttrice del Consiglio. Ero alla Commissione da pochi mesi, traducevo testi di autori senza volto per lettori dall'identità altrettanto oscura (era un po' come muoversi tra quella sorta di sagome da tirasse-gno che, oggi, schivi affiliati di Facebook dispetto-samente frappongono alla nostra curiosità di non affiliati voyeur). Il complesso iter amministrativo che dalle stanze di Bruxelles portava quei documenti sulla mia scrivania a Lussemburgo era un arcano. E ancor più arcane erano le vie che avrebbero preso quei documenti una volta data loro una voce in un'altra lingua. La collega del Consiglio voleva sa-pere perché nel tal regolamento o direttiva non aves-si tradotto "flavouring" con "aroma", ma con un al-tro termine affine di cui ora ricordo con precisione solo l'intrinseca imprecisione.

Quella telefonata non solo dissolse uno degli inter-rogativi sui misteriosi lettori delle mie traduzioni, ma mi aprì gli occhi sull'importanza del mot juste, soprattutto nei testi legislativi. Scegliendo, mettiam caso, "sostanza aromatizzante", oppure "essenza" avevo spezzato l'ordito terminologico che intreccia atti appartenenti a una stessa famiglia, rompendo l'unità di senso e incrinando così la certezza del di-ritto. Per fortuna, o meglio, per accortezza della ben più esperta collega, il mio errore era stato intercetta-to prima dell'adozione e il testo "aromatizzato" co-me si conveniva, in modo che fosse coerente con gli atti con cui era imparentato. Non hanno avuto altret-tanta fortuna i colleghi ungheresi che, più di recente, alle prese con un regolamento in materia di politica agricola, si sono fatti fuorviare non da aromi ma da

latticini, scegliendo per "skimmed milk" un tradu-cente che non corrispondeva al termine con cui que-sto prodotto è comunemente designato nella madre-patria; scelta che ha generato scontento e confusione tra gli operatori del settore, al punto da dover essere rettificata nella legislazione già adottata1.

Insomma, la ricerca del mot juste è quanto mai insi-diosa. O, faremmo meglio a dire, del terme juste: data la natura dei nostri testi, di fatto quel che siamo chiamati a perseguire non è tanto il bel periodare, quanto, come si è visto, la precisione terminologica. Strumenti che ci aiutano in questo compito non sono mai mancati. L'episodio che ho riferito si è svolto in epoca pre-TWB, quando già potevamo contare su Eurlex e internet, seppure agli albori e non ancora molto corposi, la Gazzetta ufficiale era consultabile abbastanza comodamente su carta e microfiche nella biblioteca a un passo dall'ufficio e la concordanza si inseguiva con un occhio a SdTVista e un altro a Eu-rodicautom, antenato di IATE. Se poi non se ne ve-niva a capo, invece di dibatterci ostinatamente tra, ad esempio, un "perno moncone" e un "pilastro moncone" (sempre da quelle parti siamo: dagli aro-mi e i latticini ai denti), potevamo chiedere aiuto ai terminologi, i quali, attraverso imperscrutabili vie, vuoi un glossario da loro compilato, vuoi una ricer-ca destramente condotta, vuoi un cugino dentista, scioglievano i nodi per noi, facendoci risparmiare tempo.

E oggi, dopo una fulminea uscita da quel che in pro-spettiva mi appare l'olocene della traduzione, di cosa disponiamo per puntellare i nostri testi, che ci dia garanzie sul piano terminologico? Credo che molti

Punto e a capo

1 European Commission, Directorate-General for Translation, Lawmaking in the EU multilingual environment, Studies on translation and mul-

tilinguism, 1/2010, pag. 76.

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Terminologia - Punto e a capo

colleghi converranno che sono tre gli strumenti più pratici e immediati: le memorie traduttive, Quest e internet. Smantellate le biblioteche e i servizi di ter-minologia di dipartimento, si è puntato sul rimpolpo delle banche dati (Euramis, Eurlex e IATE) e sul-l'affinamento delle capacità di ricerca in rete dei singoli traduttori. In parte una scelta giustificata dai tempi, non solo storici, ma anche quelli che scandi-scono il nostro lavoro quotidiano e che, effettiva-mente, rendono la ricerca tra scaffali meno econo-mica di quella online (ciò non toglie che un nucleo di testi specialistici cartacei a portata di mano e non in un altro edificio o a vari piani di distanza in certe circostanze sarebbe una benedizione). Per quanto riguarda la terminologia, ha subito un destino diver-so dalle biblioteche, poiché la sua organizzazione è stata lasciata in parte in mano ai singoli dipartimen-ti linguistici, che a discrezione hanno mantenuto o meno terminologi al proprio interno. Il nostro ha scelto di prescindere da questa figura, passando una delle staffette lasciateci da Daniela Murillo a un gruppo di traduttori turnanti. Peccato però che i di-partimenti senza terminologi fissi abbiano sempre stentato a stare al passo di marcia impartito da una piccola unità di terminologia, che, creata apposita-mente per coordinare centralmente l'attività su que-sto fronte, fa il proprio lavoro lanciando con soler-zia progetti (sostanzialmente riguardanti IATE) a cui tutti dovrebbero dedicarsi all'unisono. Ora è sta-to tirato il freno. Ci si è finalmente accorti, forse dal numero di traduttori turnanti e claudicanti a bordo strada, che i dipartimenti avanzavano tutt'altro che all'unisono, ed è stato deciso di rivedere il sistema.

Da quest'anno ciascun dipartimento linguistico tor-nerà ad avere un terminologo a tempo intero e due traduttori che svolgeranno la stessa mansione a me-tà tempo. Si riprende a marciare, tutti con le stesse scarpe, decisamente più comode. Salvo inattesi plot twist, fino a dicembre indosserò i panni della termi-nologa smettendo quelli della traduttrice, e altret-tanto faranno, avvicendandosi, Francesca Fabiano e Maria Elena Ponzo. Spetterà a noi quindi fare da apripista e rodare il nuovo sistema. Nuovo per mo-do di dire, perché in fondo si tratta di un ritorno al passato, seppure in forma ridimensionata quanto a

numero di risorse, che del passato riprende lo spiri-to, nel riconoscere che un servizio di traduzione come il nostro non può fare a meno di un'attività di terminologia stabile e continuativa.

Quel che dovrà essere nuova è l'impostazione del-l'attività. In questi anni di terminologia a intermit-tenza noi italiani abbiamo imparato a fare a meno del terminologo-depanneur che ci soccorre con le parole ostiche, siamo diventati sempre più autonomi nelle nostre ricerche e poco visibile è stato il lavoro condotto dal gruppo di terminologia, tutto dietro le quinte principalmente ad accudire a IATE. Già, IA-TE: creatura affetta da gigantismo, con grandi am-bizioni e dalla reputazione controversa. Se per noi non è lo strumento principe, per traduttori di altre lingue (e altre istituzioni, come ci confermano i col-leghi italiani del Consiglio) è il primo posto in cui cercare. Non stupisce che con i suoi 8,7 milioni di termini (700.000 quelli italiani), in grandissima par-te, per noi vecchie lingue, ereditati da glossari e banche date preesistenti, sia guardato con sospetto. Ma le intenzioni sono buone: offrire qualcosa in più rispetto alle altre banche dati. Se Euramis mostra il termine in un contesto, battezzato con il nome del traduttore che ha fatto quella scelta (quando non è antipaticamente oscurato), IATE vi aggiunge il per-ché di tale scelta. Con le sue schede in cui figurano termini, definizioni e fonti, questo strumento va vi-sto come il registro delle nostre scelte traduttive. Attualmente ha tre grandi difetti: ci vogliono vari click per arrivare a queste informazioni, tante sche-de incomplete e tanti doppioni (circa 11,5% per l'i-taliano, a fronte del 12,8% per l'inglese e del 3,7% per il maltese, ultimi e primi della classe)2. Si sta lavorando su tutti e tre i fronti, ma avendo IATE non solo ciclopica mole ma anche ciclopici proprie-tari, sarà un lavoro di lungo respiro.

Tra i compiti dei terminologi ci sarà dunque la cura di IATE, ma non solo e non da soli. Non solo, per-ché oltre a questo dovranno fungere da pronto inter-vento per colleghi in secca, e cercheranno anche di avvistarle prima le possibili secche, tenendo d'oc-chio i documenti che entrano in traduzione. Non da soli, perché tutti i traduttori nel momento in cui si

2 Le cifre qui riportate su IATE sono aggiornate a ottobre 2011 e ricavate da documenti reperibili nel drive P, nella cartella Terminology Coor-

dination > Presentations.

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Terminologia - Terminologia - Punto e a capo

soffermano su un termine e ne fanno l'oggetto di una ricerca sono terminologi. Il passo naturale successi-vo dovrebbe essere rendere noto e disponibile a tutti il frutto di queste ricerche, non lasciando che vada perso tra bit e post-it, ma passandolo ai terminologi in carica per farlo confluire in IATE e/o altri glossa-ri ad hoc. Quando disporremo della macro creasche-de in Word, da mesi annunciata ma ancora in fase pilota, questa operazione sarà più facile e chissà che non rischi con il tempo di diventare un riflesso... Terminologia a doppio senso, quindi: chi traduce non deve perdere di vista che non ne è solo consu-matore ma anche produttore.

Anche le poltrone più ergonomiche i primi giorni ci paiono giacigli di stoppie; abbiamo un bel tirar leve e schiacciare bottoni per addomesticarle, sotto sotto al solo scopo di scacciare il pensiero della nostra vecchia sedia tra le braccia del rigattiere. E' difficile abbandonare consolidate abitudini, cambiare metodi e cultura del lavoro, ma per l'investimento che que-sta nuova struttura comporta ci conviene trarne la massima utilità. Sono certa che così sarà. In fondo è nata nell'anno del Drago, segno di forza e vitalità, che peraltro accompagna gli anni in cui, secondo i cinesi, si registrano più nascite. E infatti non viene sola, perché a quanto pare di ristrutturazioni ne sta giusto nascendo un'altra. Ma questa è materia per altre riflessioni.

Anna M. Bagnari

STAKEHOLDER Giorgio Tron

Siamo tutti stakeholders, chi più chi meno, e magari senza saperlo:

http://pilati.blogautore.espresso.repubblica.it/questo-blog/

Per noi, il problema di questa parola è che, oltre ad avere vari, vasti e soprattutto vaghi significati, è di-ventata negli ultimi anni uno degli ingredienti essen-ziali di quel management speak che purtroppo è la (povera) materia prima di cui spesso i testi che tra-duciamo sono composti.

Ho appena finito di tradurre un documento in cui la parola stakeholder compare 35 volte. Fino a un de-cennio fa questa parola non si trovava nei nostri do-cumenti e c'è da chiedersi che cosa possa aver susci-tato quest'uso compulsivo. Le spiegazioni sono di-verse, ma anche questo è in fondo un caso di "tic" linguistico, o di moda. Niente di veramente sorpren-dente, e gli stakeholders sono senz'altro in buona compagnia. (A proposito, a quando una raccolta dei nostri "tormentoni" alla Bartezzaghi ?)

Quanto alla traduzione, il guaio è che "dobbiamo" inventare qualcosa. Nell'italiano d'uso corrente (e in verità piuttosto specialistico, in questo caso) non si è mai sentita la necessità di trovare una traduzione, a questo come a tanti altri termini che noi invece ci sforziamo di tradurre. Un po' per la difficoltà o im-possibilità della cosa, un po' per la vocazione alla subalternità, ormai solidamente affermata e pacifi-camente accettata, della nostra lingua.

Dunque andranno bene queste e altre traduzioni; ad aiutarci sarà anche il contesto. "Parti interessate", come per lo più traduciamo, può andare bene in cer-ti casi, meno bene in altri, e si potranno preferire gli attori, i soggetti (anche non "interessati") o termini con un significato più preciso, o quelli che saprà suggerirci la nostra perspicacia.

Se si può, c'è poi l'asso nella manica cui ricorre ogni buon traduttore: omettere, quando non si perde nien-te e anzi si guadagna in chiarezza e semplicità.

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Terminologia - Conoscenza situazionale

Conoscenza situazionale

(situational awareness)

In settori come l'aeronautica, le forze ar-mate o i soccorsi di emergenza, vi sono mansioni di controllo e gestione delicate che comportano rischi e conseguenze po-tenzialmente gravi. Stiamo parlando di at-tività quali il controllo del traffico aereo, la guida di un aereo, il controllo di centrali elettriche o nucleari, ma anche la sorveglianza delle frontiere e la gestione dei sistemi di sicurezza. Le tecnologie, specialmente informatiche, svolgono un ruolo fondamentale in questi settori; ma senza il fat-tore umano, senza la capacità di cogliere i potenziali elementi di rischio, di comprendere situazioni in ra-pido cambiamento, di comunicare, decidere e risol-vere i problemi, che è tipica dell'essere umano, nes-suna attività di controllo potrebbe raggiungere il suo scopo. Ecco perché nella gestione e nella descrizione di tali attività si tende a concentrare sempre di più l'attenzione sull'elemento umano.

Ma come controllare il fattore umano? Quali sono, cioè, le capacità richieste a coloro cui si affidano queste mansioni? Negli ultimi anni sono sempre più dettagliate le descrizioni delle caratteristiche psico-logiche necessarie per svolgere lavori di questo tipo, finalizzate alla selezione e all'addestramento del per-sonale incaricato dei ruoli più delicati, soprattutto nell'ambito di una squadra. Alcune espressioni sono entrate nel linguaggio quotidiano: la capacità di co-municare e l'attitudine ai rapporti interpersonali, la capacità di risolvere i problemi, la capacità decisio-nale, la resilienza ecc. Per lo più derivano da espres-sioni inglesi: problem solving, decision making, resi-lience e così via, entrate nell'uso anche non tradotte.

Da tempo gli psicologi parlano di "conoscenza si-tuazionale", espressione che traduce l'inglese situa-

tional awareness. La definizione più fortu-nata, ripresa sistematicamente negli studi sull'argomento anche in ambito italiano, è quella proposta da M.R. Endsley in Toward a theory of situation awareness in dynamic systems ("Human Factors", 37, 1, 1995): "the perception of elements in the environ-

ment within a volume of time and space, the com-prehension of their meaning, and the projection of their status in the near future". Già nel 1988 En-dsley si era occupato dell'argomento, in un saggio dal titolo Situation awareness global assessment technique (SAGAT), pubblicato nei "Proceedings of the National Aerospace and Electronics Conferen-ce" (New York, IEEE). Situational awareness è infatti un'espressione utilizzata per la prima volta nel settore dell'aeronautica militare statunitense, ripresa poi dagli studiosi di psicologia e in contesti svariati. In Italia, il calco sull'inglese si fa subito strada: Rievocazione di parole emotive e conoscen-za situazionale è, ad esempio, il titolo di un saggio del 1995 di R. Ciceri, M. Farina e I. Grazzani1. Le occorrenze dell'espressione diventano in breve tem-po talmente frequenti da rendere inutile l'introdu-zione di sinonimi, anche se una traduzione meno calcata sull'inglese quale "consapevolezza della si-tuazione" sarebbe stata forse più chiara in italiano. Studiata e approfondita dagli psicologi, la nozione si è diffusa soprattutto per le sue applicazioni prati-che: per il pilota di un aereo, un militare, ma anche un medico o chiunque debba prendere decisioni urgenti e cariche di conseguenze, è essenziale, per evitare errori, avere una conoscenza situazionale il più possibile esatta e completa. Occorre quindi per-cepire chiaramente la situazione che si sta speri-mentando nel settore di competenza, in seguito

1In Sapere e sentire. Emozioni, conoscenza e vita quotidiana, Napoli, Liguori 1995.

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Terminologia - Conoscenza situazionale

comprenderla e proiettarla nel futuro, sempre in rapporto con gli altri membri del gruppo operativo. Il punto delicato in questo processo è proprio il rap-porto con la realtà, che potrebbe essere falsato dalla carenza di informazioni, da informazioni scorrette e anche dalla scarsa consapevolezza delle situazioni passate: il mantenimento della conoscenza situazio-nale richiede quindi un aggiornamento continuo, un rapporto costante con i dati reali.

Approfondito e rielaborato dalle scienze psicologi-che, il concetto si è esteso a settori completamente diversi. Nel libro di G.P. Demuro sul Dolo leggiamo che per un'imputazione dolosa, per sostenere cioè che qualcuno abbia agito in modo doloso, requisito imprescindibile è che "il soggetto sia cosciente che nella situazione concreta concorrono le circostanze oggettive che la rendono atta a produrre detto risulta-to (corretta conoscenza situazionale)2". In altri cam-pi, la conoscenza situazionale è strettamente legata all'uso di strumenti informatici: nel settore militare, ad esempio, si parla di "sistemi di conoscenza situa-zionale", ossia di sistemi informatici che permettono di controllare unità militari sul fronte da un luogo di comando centrale; nell'ambito del controllo della navigazione aerea, si insiste sull'ausilio che gli stru-menti tecnici devono fornire a piloti e controllori per consentire loro di mantenere una corretta conoscenza situazionale. Sistemi elettronici assistono anche i responsabili della sorveglianza costiera, ai quali oc-corre una continua "conoscenza situazionale" per la gestione del traffico delle imbarcazioni, il monito-raggio di coste e porti e la protezione delle risorse naturali; lo stesso vale per la sorveglianza delle fron-tiere, che pone costanti e crescenti problemi di sicu-rezza.

Su quest'ultimo settore, il controllo di frontiera, esi-ste ormai un'ampia letteratura: i drammatici eventi degli ultimi anni hanno costretto gli Stati e l'Unione europea a concentrare attenzione e risorse (economiche e umane) sulle zone di confine terrestri e marittime, nel tentativo di combattere il contrab-bando e soprattutto la tratta di persone organizzati dalle reti criminali, ma anche di salvare la vita ai

profughi che tentano di raggiungere le nostre coste su imbarcazioni di fortuna. È in questo contesto che si sviluppa EUROSUR, il sistema europeo di sorve-glianza delle frontiere, destinato a rafforzare sempre di più la cooperazione degli Stati tra loro e con l'a-genzia Frontex. In una comunicazione del 2008 re-lativa alla "tabella di marcia" per lo sviluppo del sistema si legge che Eurosur "dovrebbe aiutare gli Stati membri a raggiungere una piena conoscenza della situazione relativa alle loro frontiere esterne e ad aumentare la capacità di reazione delle autorità di contrasto nazionali": in questo documento, situatio-nal awareness era appunto tradotto con "conoscenza della situazione", mentre nella successiva proposta di regolamento su EUROSUR (recentemente pre-sentata dalla Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio) si è optato per "conoscenza situaziona-le" proprio per la diffusione che l'espressione ha a-vuto negli ultimi anni. L'uso della nozione nel setto-re della sorveglianza delle frontiere esterne dell'U-nione europea è interessante dal punto di vista se-mantico: un termine nato in campo militare e appli-cato soprattutto alla sfera individuale (in quanto fun-zionale alla capacità del singolo individuo di reagire a situazioni critiche) è ora applicato alle autorità, alle istituzioni e agli Stati. Definita come "capacità di monitorare, individuare, identificare, localizzare e comprendere le attività transfrontaliere allo scopo di motivare le misure di controllo, combinando nuove informazioni alle conoscenze già acquisite", la co-noscenza situazionale diventa un aspetto strategico dell'azione di controllo svolta dalle autorità naziona-li e da Frontex, strettamente legata a sua volta all'u-so di sistemi di sorveglianza e di comunicazione. L'espansione semantica riflette, come sempre, l'e-volvere della realtà: la necessità di mettere in comu-ne le risorse, di coordinarsi, di creare reti sempre più strette tra coloro che hanno obiettivi comuni spinge a 'istituzionalizzare' anche attività di tipo prettamen-te umano come la conoscenza e la capacità di rea-zione. Per reagire e agire con efficacia, l'Europa de-ve 'vedere' con occhi comuni, o meglio usare gli oc-chi di tutti per ottenere una sola visione.

2 Gian Paolo Demuro, Il dolo, II. L'accertamento, Giuffré 2010, p. 62.

Francesca Nassi

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Il pelo nell’uovo

di Domenico Cosmai

I traslochi d'ufficio, vera e propria iattura, diventano

eventi prodigiosi quando riportano alla luce gioielli

sepolti in montagne di scartafacci. È così che, la set-

timana scorsa, ho rimesso le mani su un inedito di

George Steiner, il cui titolo è tutto un programma:

De la traduction comme "condition humaine". In

esso Steiner ritorna sull'assunto di fondo di After Ba-

bel, per me il più bel saggio mai scritto sul tema del-

la traduzione. Quell'assunto è, semplicemente, che

ogni atto linguistico è in sé una traduzione. Ogni

messaggio inviato da un emittente implica la neces-

sità di essere filtrato, trasposto, e quindi tradotto, da

chi lo riceve. E poco importa se questo filtraggio av-

viene nell'apparente unisono di un'unica lingua o

nella (altrettanto apparente) dissonanza di due lingue

diverse. Poco importa perché mai, avverte Steiner,

"due individui di sesso, età e origine identica o di

sensibilità comparabile intendono esattamente la

stessa cosa attraverso la stessa parola"1.

Tutto contribuisce a creare interferenza: il brusio

dell'ambiente circostante, la scarsa leggibilità di un

termine su un foglio di carta, la distanza tra chi par-

la e chi ascolta, la complessità dei concetti espressi,

la rapidità con cui si è scritto l'e-mail. Ma soprattut-

to, direi, l'individualità stessa delle coscienze, delle

esperienze di vita che nel tempo si sono andate sedi-

mentando nell'io dell'emittente e in quello del desti-

natario. Se io, pugliese, dico "pane" a un torinese, è

altamente probabile che, in mancanza di ulteriori

chiarimenti, ognuno di noi finirà per rielaborare

questa parola in una diversa immagine mentale le-

gata alla propria cultura di origine. Non parliamo

poi se ci si addentra in concetti non proprio univoci

come "democrazia", "liberismo", "laicità", e via fi-

losofeggiando.

Manco a dirlo, la disparità linguistica complica le

cose. Già nel 1943 Hjelmslev aveva dimostrato che

ogni idioma afferra la realtà e la suddivide a piaci-

mento in base a schemi propri. In inglese – come è

noto – si distingue tra dita della mano (fingers) e

del piede (toes), tra certi animali domestici (sheep,

pig, ox) e la loro carne (mutton, pork e beef), o tra

nipoti di zio (nephew / niece) e nipoti di nonno

(grandson / granddaughter). In italiano queste di-

stinzioni non esistono, ma ne esistono altre che l'in-

George Steiner

10

1 "De la traduction comme «condition humaine», Le magazine littéraire, juin 2006, p. 41.

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Il pelo nell’uovo

glese non conosce, ad esempio lo stesso verbo to be

in italiano può essere tradotto in certi casi "essere"

e in altri "stare". In arabo classico si distingue tra

un "tu" e un "voi" maschile e femminile, oltre che

tra singolare, plurale e duale, così che il presente o

il perfetto di qualsiasi verbo finisce per avere la

bellezza di 14 forme, tutte rigorosamente usate nel-

la lingua scritta e orale. Il mandarino, più conciso,

conosce un'unica forma verbale, indifferentemente

maschile, femminile, singolare, plurale, presente,

passata o futura. In compenso, ogni numerale è se-

guito da uno specificativo che cambia a seconda del

sostantivo che vi è associato: un po' come faremmo

in italiano quando diciamo "una testa d'aglio", "un

panetto di burro" o "una risma di fogli". Insomma,

si capisce perché alcuni linguisti col gusto del me-

lodramma abbiano affermato che due enunciati al-

l'apparenza equivalenti in due lingue diverse in re-

altà non avranno mai lo stesso significato, perché le

lingue in questione esprimono aspetti situazionali

differenti. La frase inglese "I have arrived" e la rus-

sa "Я пришла" esprimono un concetto analogo,

cioè che qualcuno è arrivato, ma anche tante cose

diverse: il participio passato russo ci indica che il

parlante è una donna, che è arrivata a piedi anziché

con un mezzo di trasporto e che l'azione è avvenuta

una sola volta e non è stata ripetuta, tutte cose che

al termine inglese non interessa dirci. Per giunta,

anche quando la realtà sembra spezzettata secondo

linee identiche in due sistemi linguistici e culturali,

e quindi la corrispondenza semantica tra due termi-

ni sembra acquisita, non mancano le sorprese. Su-

san Bassnett ha fatto notare che quando in italiano

si parla di "burro" e in inglese di butter - due termi-

ni di norma considerati intercambiabili - si indicano

cose del tutto diverse dal punto di vista della com-

posizione (salato nella cultura anglofona, non salato

in quella italiana), del colore (giallo per i britannici,

bianco per gli italiani), delle modalità di utilizzo e

addirittura dello status sociale riservato a questo

alimento nella cultura anglosassone e in quella ita-

liana. Il risultato, è che il concetto di burro dà in

inglese il senso della morbidezza e del sapore, men-

tre in italiano evoca l'idea di una sostanza morbida,

sì, ma grassa e pesante.

E dire che il burro non è un concetto controverso.

Ma c'è di peggio. Nel 1964 il grande guru della tra-

duzione biblica Eugene Nida dice stop alla vecchia

idea che una parola, intesa come segno ortografico,

abbia un significato fisso e immutabile. L'obiettivo,

che sarebbe pure meritorio, era far capire ai tradut-

tori alle prime armi fino a che punto il senso di un

termine complesso sia condizionato dal contesto in

cui è inserito. Per questo Nida si prende la briga di

scomporre visualmente la struttura semantica di un

termine (in questo caso spirit) basandosi su una se-

rie di caratteristiche e di dicotomie. Il risultato so-

no 11 accezioni di fondo innervate in un'impalcatu-

ra che si potrebbe ben definire l'incubo del lingui-

sta2:

Louis Hjelmslev

2 E. Nida, Toward a Science of Translating.

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Il pelo nell’uovo

Fino a che punto possiamo immaginare un utilizzo pratico di questa tecnica di scomposizione del significa-

to, tanto più che – come è lecito supporre - un traduttore esperto dovrebbe conoscere già la maggior parte

delle accezioni di spirit? Il dubbio è legittimo. Se però consideriamo il lavoro di pioniere spesso svolto da

Nida per tradurre la Bibbia in lingue quasi sconosciute, vedremo che il tentativo di ricostruire la gamma

semantica di un certo termine in una certa cultura assume un valore non solo linguistico, ma anche antropo-

logico, e allo stesso tempo può veramente aiutare il traduttore a trovare un traducente appropriato per un

termine problematico. Per cercare di convincere gli scettici ecco un esempio estremo, sì, ma non insolito, di

ambiguità, questa volta scientemente ricercata dall'autore. È la frase con cui si apre l'opera più criptica di

James Joyce, il Finnegans Wake del 1939:

riverrun, past Eve and Adam's, from swerve of shore to bend of bay, brings us by a commodius vicus of

recirculation back to Howth Castle and Environs.

Il termine iniziale riverrun ripropone in nuove forme il problema che attanagliava Nida: come rendere in

un'altra lingua tutta la serie di associazioni legate all'idea originale? Qualsiasi vocabolario ci mostrerà una

lunghissima serie di accezioni attribuibili al segno linguistico run. Nota Umberto Eco in relazione proprio

all'incipit del Finnegans Wake,

run è periodo, serie, sequela, durata, permanenza, rotta, pista, ritmo poetico, la brezza runs attraverso

gli alberi, run o scorrono o tornano o si presentano alla mente i giorni, un motivo, una idea, runs il ne-

mico che fugge, runs un traghetto che fa la spola, e in diverse frasi idiomatiche ciò che runs sgocciola,

dura, fila, sfocia, stila, conficca, trafigge, dirige o gestisce, contrabbanda, entra in collisione, incontra

per caso, cattura, travolge, trabocca, corre in tondo, gronda, va in secca o entra in piena3.

Come dire che, qualsiasi traducente si scelga alla fine, tutta una

serie di associazioni mentali legate al segno grafico originale ver-

ranno fatalmente a perdersi. Ma è poi vero che effettuare un'unica

scelta traduttiva sarebbe un'operazione limitante nei confronti del-

l'originale sul piano dei significati? Secondo il romanziere e sag-

gista francese Michel Butor, non è detto. Secondo lui,

se noi vogliamo leggere una pagina di Finnegans Wake dobbiamo prendere molte parole in modo di-

verso da quello in cui sono scritte, abbandonare una parte delle loro lettere e dei loro significati possi-

3 U. Eco, "Ostrigotta, oracapesco", in J. Joyce, Anna Livia Plurabelle, Torino, Einaudi, 1996, p. XI.

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Il pelo nell’uovo

bili. Ogni lettore fa una scelta tra quegli agglomerati di caratteri e di vocaboli secondo il senso in cui

gli si presentano. Dunque è un ritratto di me stesso che si costruisce quando lascio scorrere lo sguardo

su quelle pagine, ritratto peraltro assai vago, ma che si precisa sempre di più a mano a mano che entro

nel gioco delle metamorfosi delle parole. Finnegans Wake è così per ciascuno di noi uno strumento di

conoscenza intima4.

Dato quindi che il traduttore altri non è che un lettore, anzi il lettore per eccellenza, tradurre sarà un modo

per adattare al genio della lingua di arrivo le soluzioni che Joyce aveva elaborato in riferimento al genio

dell'inglese. Ecco alcune delle scelte fatte per rendere riverrun in italiano e in francese:

Tirando le somme, è vero che nessun traducente sarà in grado di conservare la maggior parte delle accezio-

ni legate al termine inglese run. Ma se ne aggiungeranno di altre, legate alla parola scelta nella lingua di

arrivo: pensiamo ad esempio alla forte polisemia di italiani "corso" o, in misura minore, "fluido" oppure alla

suggestione del neologismo francese courrive.

Insomma, tradurre significa operare una scelta che ne esclude altre, il che è vero non solo quando il testo di

partenza è così ambiguo, ma anche in situazioni professionali molto più agevoli. Estrarre il senso di un

messaggio non è sempre facile, ma il traduttore può aiutarsi in vario modo: anzitutto cercando di ricostruire

i processi mentali che hanno portato alla creazione del testo, cioè la sua intenzionalità, e analizzando la co-

erenza del messaggio sul piano concettuale. L'atteggiamento di chi parte dal presupposto che un testo è mal

scritto, per cui alcuni suoi elementi - quelli cioè che non si riescono a trasporre nel tessuto della traduzione

- possono essere ignorati, è sbagliato e deleterio. Un grande italiano del '900, Carlo Levi, ha scritto che le

parole sono pietre. Il primo compito del traduttore è proprio quello di rispettare le parole, soprattutto quelle

altrui.

originale inglese italiano (1) italiano (2) italiano (3) francese

riverrun filafiume corso del fiume fluidofiume courrive

(James Joyce) (Anthony Burgess) (Rodolfo Wilcock) (Luigi Schenoni) (André du Bou-chet)

4 M. Butor, "Introduction", in J. Joyce, Finnegans Wake. Fragments adaptés par André du Bouchet, Paris, Gallimard, 1962, p. 17.

Inter@lia è il periodico autogestito dei traduttori italiani della Commissione europea. La pubblicazione è aperta anche a contributi esterni. Gli arti-coli pubblicati rispecchiano l'opinione degli autori e non sono necessariamente rappresentativi delle posizioni del comitato di redazione né della Commissione.