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LETTERATURE - 1 ISSN 2283-5873 SR Scienze e Ricerche MENSILE - SUPPL.EMENTO 1 AL N. 6 - APRILE 2015

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ISSN 2283-5873

SRScienze e RicercheMENSILE - SUPPL.EMENTO 1 AL N. 6 - APRILE 2015

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Letterature 1 Sommario

GIULIA TOTI, MARCO BARTOLUCCI, FEDERICO BATINILettura e decadimento cognitivo pag. 5FILOMENA MONTELLAIl ciocco di Giovanni Pascoli: un’indagine “astronomica” pag. 10ENRICO ACQUARO

I Fenici di Grazia Deledda via internet pag. 14ROSALIA CAVALIERICosì ascoltano i sordi. Riflessioni attorno ad alcune testimonianzeautobiografiche dei non udenti pag. 17ALBERTO SMALDONEStorie criminali: modelli di narrazione del Gangster-movie pag. 26SILVIA CAMILOTTISaperi e sapori d’altrove: le scrittrici (si) raccontano pag. 31PATRIZIA TORRICELLIDonne. E le parole per parlarne pag. 35ALESSANDRA CALANCHICronache di uno strano amore: gli americani e la bomba atomicanei Tranquillized Fifties pag. 38ROSSELLA GIANGRANDE La parola “lacerata” in Paul Auster pag. 48ANIDA SOKOLLingua e identità nazionale in Bosnia-Erzegovina. Dal multiculturalismoall’esclusivismo linguistico pag. 56DOMENICO RUSSOMa quanti e quali derivati hanno le parole più usate? Qualche dato sullefamiglie etimo-morfologiche del lessico italiano pag. 63VINCENZO CROSIOScienza e poesia pag. 67FAUSTA GENZIANA LE PIANECristina da Pizzano: la poetessa delle vedove... pag. 71CRISTINA TIRINZONIElsa Morante pag. 74ROBERTO SCIARRONELo scoppio della Grande Guerra attraverso “La Voce” di Prezzolini pag. 76FEDERICA CASINILe case della vita di Emma Bovary pag. 85VINCENZA ROSIELLOLa scienza dipinta dei PreRaffaelliti pag. 90ROBERTO TOSCANO L’eredità di Leonardo da Vinci pag. 96ANDREA CANDELASulla definizione di morte pag. 97FAUSTA GENZIANA LE PIANEPortavo un canto di gioia nelle tasche pag. 98CLAUDIA CAMICIAGli Stati Generali di filosofia per bambini pag. 99GIAN PAOLO CAPRETTINI

Il giorno del lievito pag. 100DANIELA FABRIZI INTERVISTA ANNA MANNADonne di luna e di scure pag. 103

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ISSN 2283-5873 Scienze e RicercheSupplemento 1 al n. 6, aprile 2015

Coordinamento• Scienze matematiche, fisiche e naturali:

Vincenzo Brandolini, Claudio Cassardo, Alberto Facchini, Savino Longo, Paola Magnaghi-Delfino, Giuseppe Morello, Annamaria Muoio, Andrea Natali, Marcello Pelillo, Marco Rigoli, Carmela Saturnino, Roberto Scan-done, Franco Taggi, Benedetto Tirozzi, Pietro Ursino

• Scienze biologiche e della salute: Riccardo N. Barbagallo, Cesario Bellantuono, Antonio Brunetti, Davide Festi, Maurizio Giuliani, Caterina La Porta, Alessandra Mazzeo, Antonio Miceli, Letizia Polito, Marco Zaffanello, Nicola Zambrano

• Scienze dell’ingegneria e dell’architettura: Orazio Carpenzano, Federico Cheli, Massimo Guarnieri, Giuliana Guaz-zaroni, Giovanna La Fianza, Angela Giovanna Leuzzi, Luciano Mescia, Maria Ines Pascariello, Vincenzo Sapienza, Maria Grazia Turco, Silvano Vergura

• Scienze dell’uomo, filosofiche, storiche e letterarie: Enrico Acquaro, Angelo Ariemma, Carlo Beltrame, Marta Bertolaso, Ser-gio Bonetti, Emanuele Ferrari, Antonio Lucio Giannone, Domenico Ien-na, Rosa Lombardi, Gianna Marrone, Stefania Giulia Mazzone, Antonella Nuzzaci, Claudio Palumbo, Francesco Randazzo, Luca Refrigeri, Franco Riva, Mariagrazia Russo, Domenico Russo, Domenico Tafuri, Alessandro Teatini, Patrizia Torricelli, Agnese Visconti

• Scienze giuridiche, economiche e sociali: Giovanni Borriello, Marco Cilento, Luigi Colaianni, Riccardo Gallo, Ago-stina Latino, Elisa Pintus, Erica Varese, Alberto Virgilio, Maria Rosaria Viviano

• Coordinamento LetteratureAngelo Ariemma (Centro di documentazione europea Altiero Spinelli), Claudia Camicia (Gruppo di Servizio per la Letteratura Giovanile), Ange-lo Gambella (SISAEM, Società Internazionale per lo Studio dell’Adriati-co nell’Età Medievale), Anna Manna, Trinis Antonietta Messina Fajardo (Università degli Studi di Enna Kore), Judit Papp (Università degli Studi di Napoli L’Orientale), Vincenza Rosiello (Centro Europeo di Studi Ros-settiani), Domenico Russo (Università degli Studi G. D’Annunzio Chieti Pescara)

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scientifica (solitamente in italiano).• ricerche e articoli scientifici (in italiano, in inglese o in altre lingue).

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SUPPL. 1, N. 6 - APRILE 2015

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SCIENZE E RICERCHE • N. 6 • APRILE 2015 • SUPPLEMENTO 1 | LETTERATURE

Lettura e decadimento cognitivoGIULIA TOTI, MARCO BARTOLUCCI, FEDERICO BATINI

Università degli Studi di Perugia

scendente del numero dei lettori, dopo il forte sviluppo degli anni 70-80. In quegli anni la crescita del numero di soggetti che hanno superato l’istruzione di base, per i noti fenomeni socio-economici, ha prodotto una crescita rilevante, crescita che è proseguita, seppure in modo molto più lento, sino alla fine del decennio scorso. Dal 2010 in poi ha avuto inizio la “crisi” invertendo il segno: da un progressivo aumento si

passa al segno “meno” ed ha inizio la diminuzione sempre più evidente. Os-servando i numeri si può evidenziare come la crisi della lettura sia da attri-buire soprattutto a una diminuzione dei “lettori deboli”1 (da 11,5 milioni del 2013 a 10,7 del 2014, pari a una variazione an-nua del -6,8%). I lettori deboli sono, ovviamente, la componente della popo-lazione che più facilmente può trasformarsi in “non lettori”. I “lettori forti”2, sono invece il 14,3% dei lettori, e costituiscono una categoria sostanzialmente

stabile nel tempo. Si conferma il divario di genere seppure i lettori siano in calo in modo complessivo. Sono meno della metà della popolazione: il 48% delle donne e solo il 34,5% degli uomini coloro che hanno letto almeno un libro nel cor-so dell’anno. Nonostante tali dati la lettura si sta configu-rando come pratica legata non esclusivamente ai tradizionali

1 I lettori deboli, secondo le rilevazioni Istat, sono coloro che leggono da uno a tre libri nell’arco di un anno.2 I lettori forti sono coloro che leggono in media almeno un libro al mese.

I vantaggi della lettura sono stati, per decenni, rubri-cati come interni al sistema di istruzione.

Le ricerche degli ultimi venti anni, specie fuori dall’Italia, hanno portato in evidenza una serie di effetti della lettura circa lo sviluppo e/o il manteni-

mento di alcune competenze e di alcune funzioni e processi cognitivi. Il desiderio di indagare gli effetti della lettura in gruppi-target già colpiti da decadimento cognitivo ha dato avvio ad un’ampia ricerca, tuttora in corso, nella quale si cerca di in-dagare come attraverso la lettura ad alta voce di fiction narrativa sia pos-sibile influenzare positi-vamente il funzionamento della memoria di lavoro, la capacità di recupero di materiale mnestico episo-dico e autobiografico, in casi di deterioramento co-gnitivo. Tale lavoro mira a promuovere non solo un avvicinamento al libro ma anche ad incentivare il rapporto con la lettura considerata come strumento di crescita e di cambiamento, riconoscendone l’aspetto preventivo/curativo e annoveran-dola tra le attività utilizzate nel sostegno, nella terapia e in contesti di sofferenza e solitudine.

1. ITALIANI E LETTURA

La lettura, oggi, in Italia, è in forte calo, come conferma l’ultimo rapporto Istat, uscito il 15 gennaio 2015, nel quale si evidenzia, osservando longitudinalmente, una parabola di-

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ci troviamo si può definire il “secolo dell’invecchiamento”. L’aumento della vita media da un lato ha un significato posi-tivo, in quanto sinonimo di maggior benessere e di migliori condizioni di vita, paradossalmente dall’altro lato aumenta lo squilibrio che si va creando nei sistemi di welfare (specie nella definizione e nei costi che comporta la costruzione di sistemi pensionistici sostenibili con la proporzione attuale e futura tra popolazione attiva e anziani che si modifica a tutto vantaggio dell’incremento di questi ultimi).

Ciò richiede, allora, una ristrutturazione profonda della società occidentale, che valorizzi gli anziani, non solo come cittadini che giustamente godono e godranno la propria pen-sione, frutto del proprio lavoro, ma anche come soggetti attivi e partecipi della società. Oggi non è infrequente ve-dere anziani che arrivano agli 80 e 90 anni con capacità di adattamento, riflessione e abilità fisiche e cognitive ancora rilevanti. Possono essere certamente depositi di esperienze e significati, preziosi. Nella modificazione delle componen-ti della popolazione, tuttavia, assistiamo ancora a fenomeni di marginalizzazione degli anziani medesimi con istituzio-nalizzazioni anche precoci che, alfine, comportano una con-trazione dei tempi di deterioramento dell’autonomia e delle capacità cognitive.

4. DETERIORAMENTO COGNITIVO E TRATTAMENTI

NON FARMACOLOGICI: LA LETTURA

Negli ultimi anni i trattamenti non-farmacologici nell’am-bito di patologie degenerative hanno riscontrato un maggior consenso in ambito sanitario, rispetto al passato, tuttavia, pur con la presenza di evidenze ormai piuttosto chiare alcuni ap-procci rimangono confinati agli esperimenti, alle ricerche, a isolate esperienze, non ricorsive. La lettura costituisce, senza dubbio, uno strumento utile, in molti sensi, al rallentamento delle patologie degenerative, eppure non risulta ancora così diffusa. L’uso della narrazione e della lettura come strumen-to terapeutico è stato ampiamente dibattuto nel 20esimo se-colo. Inizialmente il termine era utilizzato a proposito delle librerie che lavoravano congiuntamente alle professioni me-diche, poi è diventato di maggior utilizzo nelle cosiddette “professioni di aiuto”, mentre ancor più recentemente è di-venuto importante per la psicologia.

La parola “Biblioterapia” può indicare sia il “trattamen-to effettuato tramite i libri”, sia il “processo di interazione dinamica tra la personalità del lettore e la letteratura che av-viene sotto la guida di un aiutante addestrato”. Potremmo utilizzare la definizione del termine, data da Rosa Mininno, fondatrice del primo sito internet italiano dedicato totalmen-te all’argomento. Per Biblioterapia si intende quindi “la te-rapia attraverso la lettura come strumento di promozione e crescita culturale personale e collettiva, come strumento di auto-aiuto, di acquisizione di conoscenze e promozione di consapevolezza in situazioni di disagio psicologico e sociale oltre che come tecnica psicoeducativa e cognitiva in ambito psicoterapeutico”.

vantaggi che apporta in termini di alfabetizzazione e in ter-mini culturali, ma anche come elemento in grado di facilita-re processi di sviluppo a livello cognitivo ed emotivo nelle persone. La sua rilevanza emerge anche in quei contesti nei quali prevale la dimensione della “mancanza” o del “deterio-ramento” anziché quella dello sviluppo potenziale. Ascoltare un racconto ad alta voce favorisce processi di crescita e di apprendimento non solo sul piano cognitivo, ma anche nel versante emozionale.

2. LETTURA E ANZIANI

Con la crescita, il libro diventa strumento prezioso e, poi, in particolar modo nella fase della vecchiaia, esso andrà a costituire un potente antidoto alle sensazioni di vuoto, di so-litudine, di inutilità causati dalla diminuzione di impegni e, a volte, da presenze saltuarie degli affetti. La lettura è in grado di stimolare funzioni mnemoniche e potrà dare valore a una fase di vita esseniziale per l’elaborazione del vissuto, per i bilanci, per trarre, dal passato, una dimensione comunque prospettica. In questo senso, la lettura ad alta voce, può e deve diventare un’attività familiare, riconosciuta come op-portunità del tutto particolare per la condivisione di pensieri e sentimenti, all’interno di tempi e spazi di vita comuni. In un certo modo questo può costituire un proseguimento dell’an-tica tradizione dei cantastorie, coltivata nel tempo da indivi-dui, popolazioni e differenti generazioni. La lettura ad alta voce è fonte di conoscenze e informazioni indispensabili per tutte le età e in tutte le condizioni fisiche, psichiche e sociali.

In tal senso si è provveduto alla costruzione di occasioni di lettura, organizzate in training narrativi, appositamente ideati, con anziani istituzionalizzati nelle RSA, già affetti da patologie che comportano un decadimento cognitivo a livel-lo medio- grave e grave. Su tali basi si è strutturato il lavoro di ricerca, nel tentativo di individuare un training efficace, adatto alla particolarità della popolazione bersaglio.

3. “NUOVI ANZIANI…”

L’anziano in questo senso è una persona che, indipenden-temente dall’età e dal livello di scolarizzazione e di decadi-mento cognitivo raggiunto, ha il diritto e, spesso, le risorse per essere protagonista del proprio personale invecchiamen-to. Oggi l’anziano non ricalca l’immagine stereotipata di an-ziano declinante, inattivo, passivo. Si profila invece un’im-magine di anziano attivo, desideroso di nuove esperienze, felice di esistere, di rinnovarsi, capace di un giudizio critico e di muovere proposte migliorative della propria condizio-ne. Un’ anziano che, attraverso l’ascolto e l’interazione dà voce ai propri desideri e ai propri bisogni, è un anziano at-tento al proprio benessere, che si prende cura della propria mente, del proprio corpo e della propria anima. La senilità è un argomento estremamente attuale ed emerge in tutta la sua complessità. L’Italia tra il 2011 e il 2012 si colloca al secondo posto, dopo la Germania, nella graduatoria relativa all’indice di vecchiaia di 27 paesi europei. Il periodo in cui

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al processamento narrativo sono molteplici: come dice Maar (Maar, 2005): ogni rete che supporta il linguaggio, la memo-ria, e anche la percezione è probabile che giuochi un ruolo fondamentale nella comprensione e interpretazione delle sto-rie lette o ascoltate. La piattaforma teorica che ne emerge risulta interessante per la ricerca futura (Rubin & Greenberg, 2003), specie per la prevenzione e il trattamento dei disturbi derivanti da deterioramento cognitivo in soggetti anziani.

6. LA RICERCA

Constatando allora che la comprensione di storie attiva aree cerebrali che sono funzionalmente sovrapposte ed in-tersecate a quelle deputate alla memoria episodica e autobio-grafi ca, si è dato avvio alla ricerca, attraverso alcune iniziali esperienze pilota presso l’RSA “Ninci” e l’Rsa “Pionta” di Arezzo (gestite dalla cooperativa Koiné), procedendo poi in una ulteriore Rsa di Perugia e poi nella provincia della città umbra.

Poiché in letteratura sono presenti, ancora, dati discordanti al riguardo, si è voluto valutare l’effi cacia di un ciclo di trai-ning narrativo di 55-60 sessioni con gli anziani istituzionaliz-zati. I risultati hanno potuto dimostrare come un trattamen-to specifi co e intensivo, rispetto a trattamenti più generici, possa rallentare la progressione della patologia e mantenere invariato non solo il quadro cognitivo ma anche le abilità funzionali. Tutti gli indicatori di cui disponiamo, mostrano una stretta correlazione tra la lettura dei libri e l’incremen-to della qualità della vita e del benessere complessivo della persona e delle comunità, come è emerso anche dalle ricer-

5. EFFETTI DI LETTURA…

Laddove la lettura dei libri è maggiormente praticata è pa-rimenti diffusa quella dei giornali, si va più spesso al cinema o al teatro, si ascolta più musica e si frequentano di più i mu-sei. Si è potuto constatare come in tali circostanze si riscontri un tasso di reddito più elevato, una società più coesa, mag-giori capacità di innovazione e sviluppo, un incremento di attenzione rivolto alla difesa della legalità, una diminuzione della criminalità, della corruzione nonché della discrimina-zione nei confronti delle donne.

Dal punto di vista psicologico la narrazione è un proces-so prettamente umano (Nelson,2003) che viene costruito ed opera a diversi livelli cognitivi. Una storia è la rappresenta-zione di eventi, che sono guidati da comportamenti intenzio-nali di personaggi con obiettivi unici, in ambienti immaginati che possono rimandare al mondo reale (Marr, 2004). Di con-seguenza, processare un elemento di narrazione da parte del cervello umano diventa qualcosa di più complesso del mero processamento linguistico.

La lettura è in grado di facilitare lo sviluppo di una mag-giore capacità di comprendere gli altri e di identifi carsi con loro (Oatley, 2006; Mar 2009). La lettura sviluppa la fa-coltà umana del “pensiero narrativo”, l’intelligenza emotiva, la consapevolezza di sé (e/o del proprio disagio) portando, gradualmente, la persona ad una ristrutturazione del Sé. La lettura permette di sviluppare processi empatici e quindi di mentalizing ovvero comprendere le intenzioni, gli obietti-vi, le emozioni e altri stati mentali dei personaggi (Frith & Frith, 2003). Le regioni cerebrali che sembrano contribuire

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Il libro come “spazio di vita conversazionale” (secondo un’espressione utilizzata all’interno del gruppo di ricerca) è risul-tato essere un ottimo ponte tra anziani e giovani, tra i quali si è instaurata già dal-le prime fasi una relazione progressivamente più reci-procamente soddisfacente.

Gli studenti coinvolti nella ricerca hanno impara-to a rapportarsi con gli an-ziani e ad ascoltare le loro esigenze, sperimentando l’empatia e imparando a sintonizzarsi con un mondo estremamente distante da loro. Molti tra gli studenti partecipanti hanno dovu-to imparare a lavorare in gruppo, condividendo ogni aspetto dell’attività, con il fine di portare a termine nel miglior modo possibile gli obiettivi della ricerca, scontrandosi con propri li-miti e difficoltà che hanno richiesto una gestione, a volte impegnativa, per lo staff di ricerca-didattico. Dal punto di vista della formazione universitaria hanno avuto concretamente la possibilità di avere a che fare con situazioni affron-tate, sino a quel momento, soltanto a livello teorico af-facciandosi al mondo della

professione e iniziando a individuare i limiti e le risorse della professionalità sviluppata sino a quel momento ed essendo in grado di riflettere sulle competenze che andavano svilup-pando.

Un esempio può essere costituito dalla gestione della fru-strazione: lavorando con “utenti difficili” gli studenti hanno imparato a gestire lo stress e la fatica dovuti a momenti di non ascolto da parte dell’intero gruppo con il quale stavano lavorando, in alcuni momenti. I momenti di gratificazione, dovuti ai miglioramenti, a richieste di attenzione e di affetto da parte degli anziani, insieme al loro continuo esternare in trasparenza e semplicità il loro vissuto, hanno invece deter-minato una retroazione positiva in termini di motivazione sugli studenti stessi. A questo punto è importante sottolinea-re come l’utenza analizzata nella ricerca, comprenda anziani non autonomi, e nemmeno semi-autosufficienti o comunque

che stesse. In alcuni specifici domini di memoria abbiamo, inoltre, riscontrato significativi miglioramenti (non soltanto dunque un rallentamento, ma proprio il recupero di alcune abilità). Il training è stato condotto attraverso l’utilizzo di studenti universitari3 che hanno partecipato a tutte le fasi: dalla costruzione del quadro teorico, sino alla formulazio-ne delle ipotesi, all’individuazione degli strumenti di misu-razione, sino al training narrativo stesso, del quale, insieme agli anziani, sono stati protagonisti e, poi, all’elaborazione finale dei risultati della prima sperimentazione.

3 Allievi dei corsi di Metodologia della ricerca in educazione, dell’osservazione, della valutazione (Scienze dell’educazione) e di Pedagogia Sperimentale (Scienze e Tecniche psicologiche dei processi mentali) tenuti da Federico Batini presso il Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali e della Formazione.

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BIBLIOGRAFIA

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Batini F., Giusti S. (a cura di), (2013), Imparare dalla lettu-ra, “I Quaderni della Ricerca”, 05, Torino, Loescher

Frith, Uta and Christopher D. Frith, (2003), “Development and neurophysiology of mentalizing”, Philosophical Tran-sactions of the Royal Society of London, Series B: Biologi-cal Sciences 358.1431: 459-473

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con un buono stato cognitivo, ma soggetti fortemente dete-riorati.

7. DIREZIONI FUTURE

Risulta interessante proporre come future piste di ricerca lo stesso tipo di intervento con soggetti ancora con buono stato di salute complessivo. Cosa sarebbe successo in sogget-ti ancora non così deteriorati? Quanto la lettura riuscirebbe a ritardare un eventuale decadimento cognitivo? Potrebbe a questo punto aprirsi una nuova strada che consideri l’inter-vento narrativo non più solo come trattamento non farmaco-logico aggiuntivo, da proporre nelle fasi avanzate o molto avanzate della patologia, ma anche come pratica di vita e come efficace strumento di prevenzione. Ridurre al minimo le conseguenze delle malattie croniche attraverso una dia-gnosi precoce ed un efficace processo di prevenzione, insie-me alla strutturazione di ambienti fisici e sociali che favo-riscano la salute e la partecipazione delle persone anziane, costituiscono tappe essenziali ed irrinunciabili per un invec-chiamento positivo e attivo, libero, autonomo e lontano da schemi precostituiti e fissi, privo di finalità da raggiungere che limiterebbero l’apertura dell’anziano attivo a un conti-nuo miglioramento delle proprie condizioni, anche attraver-so abilità di gestione e compensazione di alcune, inevitabili, perdite. La riflessione sulle possibilità non soltanto di ral-lentare il decadimento, ma di favorire un qualche recupero e “apprendimento”, nelle performances cognitive (e non solo) della terza età, apre scenari importanti circa il contributo che la lettura ad alta voce possa dare all’invecchiamento attivo della popolazione.

E’ necessario, perciò, promuovere adeguati programmi di prevenzione rivolti alle persone di tutte le fasce d’età4, ol-tre al potenziamento dell’attività di ricerca, indirizzata alla comprensione più dettagliata dei meccanismi responsabili dei benefici indotti da un training narrativo e del migliora-mento della qualità della vita. Le ricerche sinora condotte non vogliono costituire un punto di arrivo, bensì un punto di partenza. Altri esperimenti tesi a confermare quanto rilevato e specificare alcune dimensioni sono in corso. È possibile concludere dunque, pur con la cautela dettata da una ricerca che non si considera terminata, che i training di lettura paio-no produrre un incremento, in gruppi di anziani fortemente deteriorati, delle prestazioni, nelle prove di memoria ed in abilità vicine a quelle direttamente esercitate. Questo sugge-risce che training narrativi adeguatamente progettati possano essere una buona soluzione per supportare i meccanismi co-gnitivi che declinano con l’avanzare dell’età e costituire un potente strumento preventivo.

4 Lo stesso gruppo di ricerca sta lavorando, inoltre, all’estensione della ricerca ad altre categorie di svantaggio non soltanto legato all’anagrafe ma a particolari condizioni rispetto all’accesso alle informazioni, conoscenze, possibilità di sviluppo (ad esempio neet e drop-out).

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L’astronomia, o meglio, le bellezze del cielo hanno da sempre affascinato i poeti italiani.

In particolare nelle liriche del poeta Gio-vanni Pascoli la presenza degli oggetti astro-nomici assume una fortissima valenza lirica

e conoscitiva. L’analisi del componimento Il cioc-co, presente nella raccolta dei Canti di Castelvec-chio, intende dimostrare appunto questo collega-mento con l’astronomia e l’essenza delle cose e non la loro fenomenica.

Nei Canti di Castelvecchio1 dei sessantanove componimenti pubblicati nel 1903 le stelle e le co-stellazioni sono presenti in dodici poesie2, la luna in nove3, il sole in quindici4.

Il titolo della raccolta crea un collegamento con i “Canti” leopardiani, suggerendo così, secon-do l’interpretazione del critico Giuseppe Nava5, l’ambizione ad una poesia più elevata6. E a tal pro-posito la lirica analizzata ben si addice all’idea di poesia dai toni più aulici rispetto alle liriche del-

1 Castelvecchio è la frazione di Barga, in Media Valle del Serchio, nel quale Pascoli aveva acquistato una casa in cui soggiornò molto a lungo, dedicandosi alla poesia e agli studi di letteratura classica.2 Le ciaramelle; Canto primo e Canto secondo de Il ciocco; Il ritorno delle bestie; Il Gelsomino notturno; L’imbrunire; La mia sera; Commiato; Il sogno della vergine; Ov’è?; Ritratto; Il bolide; canto IV del Diario autunnale.3 La poesia; Canto primo e Canto secondo de Il ciocco; La squilletta di Caprona; Il ritorno delle bestie; L’usignolo e i suoi rivali; Il poeta solitario; Mendico; La servetta di monte; lirica IV del Diario autunnale.4 L’Allodola; Canto primo e Canto secondo de Il ciocco; Il croco; La vite; Il fringuello cielo; La canzone dell’ulivo; Passeri a sera; La guazza; Primo canto; La fonte di Castelvecchio; In viaggio; Il mendico; Il ritratto; La cavalla storna; lirica n. VIII del Diario autunnale. 5 G. PASCOLI, Canti di Castelvecchio, a cura di Giuseppe Nava, Milano 1983.6 A proposito di astronomia si ricordi che il giovane Leopardi nel 1813 compose una magistrale Storia della Astronomia dalla sua origine sino all’anno 1811, ripresa poi da Margherita Hack in Storia dell’astronomia. Dalle origini al duemila e oltre.

la prima raccolta, Myricae. Il ciocco, infatti, è un poemetto in cui sono presenti oltre le stelle, anche il sole e la luna, e addirittura l’universo. Il componimento, scritto nel dialetto garfagnino, è composto da due canti, nominati rispettiva-mente Canto primo e Canto secondo, ciascuno di 264 ver-

si; il primo è tutto in endecasillabi sciolti; il secondo alterna gli sciolti con endecasillabi rimati (vv. 107-220 in terzine, con schema delle rime ABA–BCB e con un endecasillabo conclusivo ogni sei terzine; vv. 221-248 con schema delle rime in quartine, ABAB). La partizione interna è la stessa nei due canti: infatti, i vv. 1-104 introducono l’argomento; i vv. 105-106 fungono da raccordo per la parte centrale, costituita dai vv. 107-220, che può essere a sua volta suddivisa in sei gruppi di diciannove versi ciascuno, rappresentanti nel Can-to primo i ritratti e i discorsi dei contadini, nel Canto secondo una riflessione cosmica; i vv. 221-248 sono dedicati all’ana-lisi della sorte comune di formiche e uomini; i vv. 249-264 concludono i canti, riportando i discorsi o le massime di Zi Meo, che attraverso il poeta illumina l’oscurità.

L’idea del poemetto venne illustrata dallo stesso autore in tre lettere all’amico Alfredo Caselli: in quella del 26 luglio

Il ciocco di Giovanni Pascoli: un’indagine “astronomica” FILOMENA MONTELLADocente di lettere

Giovanni Pascoli

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di sistemi solari nella Galassia. A tal proposito è ben chiaro che le vicende autobiografiche dell’autore, in particolare la morte del padre, caratterizzano la sua poesia, ma con conno-tazioni di portata universale.

In un crescendo di immagini catastrofiche il poeta immagi-na la fine dei mondi, per affermare subito dopo la possibilità di una loro risurrezione, grazie all’urto di due astri spenti, alla trasformazione del moto in calore e alla conseguente produzione di una nebulosa, che riproduca il processo di for-mazione del nostro Sistema solare. In questo passo il Pascoli segue come fonte l’Astronomia popolare7 dello scienziato e divulgatore francese Camillo Flammarion, sostenitore di netta impronta spiritualistica e lirico descrittore del mondo celeste.

Il Canto secondo si apre con una descrizione della gra-vitazione universale, l’“eterno assillo”: «Era novembre. Già dormiva ognuno, / sopra le nuove spoglie di granturco. / Non c’era un lume. Ma brillava il cielo / d’un infinito riscin-tillamento. / E la Terra fuggiva in una corsa / vertiginosa per la molle strada, / e rotolava8 tutta in sé attratta / per la puntu-ra dell’eterno assillo». I vv. 9-10 alludono, chiaramente, al moto di traslazione della Terra col Sole nello spazio.

Segue una descrizione metaforica e decisamente mitolo-gica di alcune costellazioni: «E rotolando per fuggir lo stra-le / d’acuto fuoco che le ruma in cuore, / ella esalava per lo spazio freddo / ansimando il suo grave alito9 azzurro. / Così, nel denso fiato della corsa / ella vedeva l’iridi degli astri sguazzare, / e nella cava ombra del Cosmo / ella vedeva brividi da squame / verdi di draghi, e svincoli da fruste / rosse d’aurighi, e lampi dalle freccie de’ sagittari, e sprazzi dalle gemme / delle corone, e guizzi dalle corde / delle auree lire; e gli occhi dei leoni / vigili e i sonnolenti occhi dell’orse10». Si noti come il cosmo, l’ordine dell’universo, sia considerato un vuoto nero (cava ombra). Le costellazioni sono descritte come da sempre la mitologia ci ha trasmesso le figure celesti: il cielo si presenta come quello degli Antichi, popolato da mostri, animali, eroi ed oggetti che traggono la loro origi-ne da racconti la cui data di nascita si perde nella notte dei tempi. Il critico Giovanni Getto, a tal proposito, afferma: «È questo il modo nuovo, autenticamente pascoliano, di avverti-re la realtà cosmica: il geocentrismo»11.

Ai vv. 27-34 Pascoli descrive poeticamente il Sistema so-lare: «Noi scambiavamo rade le ginocchia / sotto le stelle. Ad ogni nostro passo / trenta miglia la terra era trascorsa, / coi duri monti e le maree sonore. / E seco noi riconduceva al Sole12, / e intorno al Sole essa vedea rotare / gli altri prigioni, come lei, nel cielo, / di quella fiamma, che con sé li mena».

7 L’opera fu pubblicata a Milano nel 1887.8 Si tratta del moto di rotazione della Terra.9 Nella visione antropomorfa della Terra in fuga è l’atmosfera che, come dice il Flammarion «riflette la luce del giorno, e si tinge di qull’azzurro che sembra formar sopra di noi una volta celeste».10 Si tratta della vista delle costellazioni, che in alcune prose Pascoli chiama “mostri celesti”: Dragone, Auriga, Sagittario, Corona, Lira, Leone, Orsa Maggiore e Minore. 11 G. Getto, Carducci e Pascoli, 1957.12 È il moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole.

1902 Pascoli afferma che questo tipo di componimento, quasi didascalico, è «un genere nuovo, tra l’eroico e il familiare»; in quella del 1 agosto 1902 scrive che è pronto a pubblicare Il ciocco; infine, nella lettera del 17 ottobre 1902 afferma che nella lirica è presente un’«illusione alla vita universale che continua dopo la fine dell’esistenza individuale». Quest’ul-tima considerazione rappresenta in nuce il tema della lirica analizzata; in particolare, Pascoli riflette sul fatto che la terra sia piccola come un granello di sabbia a confronto dell’infi-nita grandezza e moltitudine degli astri: si tratta di una visio-ne personale che il poeta cerca di trasmettere agli altri.

Fonte primaria del Ciocco è sicuramente La ginestra di Leopardi (vv. 202-236) nel collegamento fra l’umanità e le formiche, minacciati entrambi da una natura insensibile ai mali dell’uomo. E fra gli elementi della natura maggiormen-te analizzati da Pascoli ci sono gli elementi del cielo.

Nel Canto primo, una veglia intorno al fuoco, in cui i con-tadini alla presenza del poeta e dello zio Meo, traggono spun-to dall’arsione di un ciocco, nido di formiche, per ragionare sul modus vivendi di questi insetti, il poeta afferma: «Non c’era nella notte altro splendore / che di lontane costellazio-ni», quando cioè il cielo non era turbato dalla luce se non quella delle miriade stelle della “Grand’Orsa”. Compagne di viaggio della vita dell’uomo, le stelle osservano in silenzio dall’alto le sofferenze degli esseri viventi, uomini o formiche che siano. La bellezza delle stelle non consola, tuttavia, il cuore triste dell’uomo, consapevole del suo male di vivere: nulla può distoglierlo dal suo triste destino, anche se in alto brillano astri splendenti e affascinanti.

Ai vv. 96-98, il sole, con un’immagine molto delicata e romantica, viene descritto come «facea passare i fili suoi tra i licci / d’una tela che ordiva un vecchio ragno». La metafo-ra è suggestiva e pittorica, rispecchiante lo stile simbolico del poeta romagnolo, che trasforma gli oggetti più comuni in simboli, carichi di significato.

La luna, invece, ai vv. 180-182, è presentata come per-sonificata: accompagna l’uomo nel suo cammino, ma è pur sempre «sola, che passa, e risplende sui secchielli, / e il poggio rende un odorin che accora». La luna, come anche nell’idillio leopardiano Alla luna, appare sentimentalmente distante dalla vita dell’uomo: osserva imperturbabile dinan-zi alla solitudine dell’individuo. Di qui quel sentimento di smarrita solitudine che nessuno ancora prima di Pascoli ave-va saputo consegnare alla poesia.

Nel Canto secondo il poeta, dopo la veglia, è indotto, at-traverso la contemplazione del cielo notturno e del balenio di stelle cadenti, a una serie di riflessioni sul futuro del no-stro pianeta e dell’intero universo. Si susseguono, in questo modo, le ipotesi sulla morte della Terra, per assorbimento dei suoi elementi vitali, acqua ed aria, in seguito al raffredda-mento del globo, o per collisione con un corpo celeste, o an-cora per il surriscaldamento prodotto dall’incontro con una cometa: ipotesi di morte a cui il disperato bisogno di soprav-vivenza dell’uomo, come specie o come materia cosmica, se come individuo non è possibile, contrappone altrettante ipo-tesi di vita, dal rinascere della vita sulla luna alla molteplicità

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diale. Che senso ha vivere, allora, se tutto sarà distrutto? La risposta di Pascoli, è ben noto, è vivere nella semplicità del nido e delle piccole cose e in essi scopre le relazioni più ingegnose.

I vv. 132-140 mostrano paesaggi lunari dove qualche forma di vita, nella figura del “selenita”, potrebbe comparire: «Ma forse allora ondeg-gerà nel Mar / del nettare18 l’azzurra acqua, e la vita / verzicherà su l’Ap-pennin lunare. / La vecchia tomba rivivrà, fiorita / di ninfèe grandi, e più di noi sereno / vedrà la luce il primo Selenita. / Poi, la placida not-te, quando il Seno / dell’iridi19 ed il Lago alto e selvaggio / dei sogni trema sotto il Sol terreno».

Ai vv. 160-163 il poeta pensa alla Via Lattea20: «Io guardo là dove biancheggia un denso / sciame di mondi, quanti atomi a volo / sono in un raggio: alla Galassia: e pen-so: / O Sole, eterno tu non sei - né solo! - », dove nel colore bianco del latte (il riferimento mitologico è al latte di Era, mentre allattava Eracle) è evidente uno “sciame di mondi”. Questo passo può essere collegato ad un’altra lirica presente nei Canti di Castelvecchio, Il bolide, in cui è presente la rievocazione di una gio-vanile fantasia di morte, che si tra-sforma, per effetto dell’apparizione di un bolide o meteora, in una sorta di estasi cosmica, che si conclude con il senso della propria piccolezza e del proprio smarrimento in un uni-verso, ormai non più antropocentrico, anzi definitivamente privo di centro. Si tratta di un motivo nuovo della poesia cosmica di Pascoli, che si distacca dai modelli ottocenteschi, ancora legati alla corrispondenza rassicurante tra microco-smo e macrocosmo: in questo modo, rifiuta il Classicismo e il Romanticismo.

Segue un lungo passo pieno di nomi di stelle e di co-stellazioni e con riferimenti alle comete. Sono citati Sirio, «occhio del Cane che veglia sopra il limitar di Dio»!21; Atair22, Algol, Vega, Aldebaran23, il Cigno, l’Auriga, la

18 Ramo del Mare della Tranquillità.19 Il golfo settentrionale del Mare delle Piogge.20 La visione della Galassia ritorna di continuo nella poesia cosmica del Pascoli. Si vedano i vv. 1-9 de La morte del Papa e i vv. 81-83 de La pecorella smarrita in Nuovi Poemetti.21 Sirio, “occhio” della costellazione del Cane, è per l’uomo ciò che è il lumicino per il fanciullo.22 Meglio nota come Altair.23 Il Flammarion scriveva: «Gli astri risusciteranno dalle proprie ceneri. L’incontro degli antichi frammenti fa scaturire nuove fiamme, e la tras-

Il sole è considerata una fiamma che trascina gli altri pianeti: è qui presente un’immagine assai poetica della teoria elio-centrica.

Sono citati anche alcuni nomi di stelle: «lontan lontano son per tutto il cielo / altri lumi che stanno, ombre che vanno, / che per meglio vedere alzano in vano / verso le solitarie Nebulose / l’ardor di Mira e il folgorio di Vega13». Vengono descritte anche una cometa: «Ed incrociò con la sua via la strada / d’un mondo infranto, e nella strada ardeva, / come brillante nuvola di fuoco, / la polvere del suo lungo passag-gio14. / Ma niuno sa donde venisse, e quanto / lontane plaghe già battesse il carro15 / che senza più l’auriga ora sfavilla / passando rotto per le vie del Sole», e le stelle cadenti, le Le-onini, «Né sa che cosa carreggiasse intorno / ad uno scono-sciuto astro di vita, allora forse di su lui cantando / i viatori per la via tranquilla; / quando urtò, forviò, si spezzò, corse / in fumo e fiamme per gli eterei borri, / precipitando contro il nostro Sole, / versando il suo tesoro oltresolare16: /stelle; che accese in un attimo e spente, / rigano il cielo d’un pensier di luce». Pascoli produce e scrive una poesia analitica: il suo sguardo si fissa su tanti particolari, che sono descritti in un crescendo sempre più lirico.

La riflessione sulla fine dell’Universo è così espressa: «Là, dove i mondi sembrano con lenti / passi, come concorde im-mensa mandra, / pascere il fior dell’etere pian piano, / beati della eternità serena; / pieno è di crolli17, e per le vie, battute / da stelle in fuga, come rossa nube / fuma la densa polvere del cielo; / e una mischia incessante arde tra il fumo / delle rovine, come se Titani / aeriformi, agli angoli del Cosmo, / l’un l’altro ardendo di ferir, lo spazio / fendessero con grandi astri divelti. / Ma verrà tempo che sia pace, e i mondi, / fatti più densi dal cader dei mondi, / stringan le vene e succhino d’intorno / e in sé serrino ogni atomo di vita: / quando sarà tra mondo e mondo il Vuoto / gelido oscuro tacito perenne; / e il Tutto si confonderà nel Nulla, / come il bronzo nel cavo della forma; e più la morte non sarà. Ma il vento / freddo che sibilando odo staccare / le foglie secche, non sarà più forse, / quando si spiccherà l’ultima foglia? / E nel silenzio tutto avrà riposo / dalle sue morti; e ciò sarà la morte». Il Tutto, quindi, si trasformerà in Nulla e l’ordine ritornerà nel caos primor-

13 Come il bimbo in ombra (la Terra) alza la lanterna (il Sole), così gli altri pianeti di altri sistemi sembrano alzare i loro soli (Mira, Vega), per meglio vedere le Nebulose.14 A tal proposito Flammarion scrive: «La Terra incontra gli sciami di materia meteorica più direttamente al mattino che alla sera, e durante il secondo più che nel primo semestre […] Le epoche più notevoli sono la notte del 10 agosto e il mattino del 14 novembre» (novembre, v. 5, è il tempo scelto per questa poesia). Pascoli segue la teoria secondo cui gli aeroliti proverrebbero da un mondo distrutto.15 Si tratta di una metafora corrente per il sole.16 Sono le stelle cadenti, che hanno origine appunto da un mondo ester-no al nostro Sistema solare.17 Il Flammarion riferiva: «Supponiamo per un istante… che la nostra vista… acquisti una potenza soprannaturale… tosto scompare l’apparente immobilità che regna nella volta dei cieli. Le stelle innumerevoli sono tras-cinate come turbini di polvere in direzioni opposte… dappertutto regna il movimento… Come la polvere delle nostre strade, i turbini di stelle si sollevano lungo le strade del cielo… miriadi di soli ardenti, lanciati in tutte le direzioni dell’immensità»

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mistero, l’inconoscibile, verso cui l’anima si protende ansio-sa, tesa a captare i messaggi enigmatici che ne provengono, non traducibili in nessun sistema logicamente codificato. Si tratta, quindi, di un componimento intriso completamente di spiritualismo e di panteismo.

La poetica del Pascoli è legata al suo modo di vedere il mistero come una realtà che ci avvolge. Questo mistero, tut-tavia, non sono riusciti a svelarlo né la filosofia né la scienza; solo il poeta, tramite improvvise intuizioni, può scoprire il segreto della vita universale, come un mago o un veggente, dopo aver messo a nudo il trucco.

Grande Orsa; il Leone «dond’arde il fuoco in che si muta un astro», le Pleiadi, i due Carri, Corona, «indifferenti al tacito disastro»24, le girovaghe Comete, le Nebulose oscure, «granai del cielo, ogni cui grano è un mondo»25. Nella lirica appare evidente che il poeta crede nella vita che rinasce dalla morte, come è testimoniato dal ciclo delle stagioni, secondo un ordine preciso del cosmo. Tuttavia in Pascoli l’angoscia della dissoluzione individuale sembra prevalere sulla pro-spettiva consolatoria della continuazione della vita univer-sale. Da qui la presenza di pathos che serpeggia fra i versi.

L’analisi “astronomica” della lirica sottolinea come il po-eta sia interessato all’indagine degli astri, ma abbia, comun-que, una sfiducia nella scienza come strumento di conoscen-za e di ordinamento del mondo: come per tanti della sua epo-ca che vivono la stessa crisi, anche per lui, al di là dei confini limitati raggiunti dall’indagine scientifica, si apre l’ignoto, il

formazione del moto in calore riproduce altre nebulose e nuovi mondi».24 A tal proposito si rimanda alla concezione della natura matrigna di Leopardi.25 Sono le nebulose oscure in senso proprio? O il poeta allude generica-mente alle nebulose stellari? Nel primo caso esse sarebbero letteralmente i semi di futuri mondi; nel secondo, conterrebbero nei loro ammassi stellari infiniti mondi.

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ENRICO ACQUAROPresidente del Centro internazionale per gli

studi fenicio-punici e romani

La rilettura delle opere di Grazia Deledda utili alla redazione del sito www.fenici.unibo e il loro inserimen-to avvenuto nel mese di luglio 2014 fra le fonti di letteratura italiana hanno coinciso con la ripresa su internet di antiche e nuove polemiche sulla cultu-ra nuragica e la frequentazione fenicia della Sardegna. Polemiche che trovano in http://monteprama.blogspot.it/ una cronaca vivace, ma non banale, che fa riferimento soprattutto alle ricerche condotte e da condursi nel Sinis. Un breve richiamo bibliografico, presen-te per lo più anche nel blog di Monte Prama, può essere utile per percorrere un’antologica storia delle ricerche anti-che e nuove sull’area dei giganti, dagli studi che hanno visto fra gli altri come

protagonisti negli ultimi anni Carlo Tronchetti1, Massimo Pittau2, Marco Rendeli3 e Cinzia Olianas4.

Ma torniamo ai Fenici di Grazia De-

1 C. Tronchetti – F. Mallegni – F. Bartoli, Gli inumati di Monte Prama, in Quaderni della Soprintendenza archeologica per le province di Cagliari e Oristano, 8 (1991), 119-31; C. Tronchetti, Le tombe e gli eroi. Considerazioni sulla statuaria di Monte Prama, in P. Bernar-dini - R. Zucca (edd.), Il Mediterraneo di Her-akles. Studi e ricerche. Parte prima. atti del Convegno di Studi (Sassari, 26 marzo - Orista-no, 27-28 marzo 2004) (= Collana del Dipar-timento di Storia dell’Università degli Studi di Sassari, 29), Roma 2005, 145-67; A. Bedini – C. Tronchetti – G. Ugas – R. Zucca, Giganti di Pietra. Monte Prama. L’Heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo, Ca-gliari 2012; C. Tronchetti, La statuaria di Mon-te Prama nel contesto delle relazioni tra Fenici e Sardi, in P. Bernardini - M. Perra (edd.), I Nu-ragici, i Fenici e gli altri. Sardegna e Mediter-raneo tra Bronzo Finale e Prima Età del Ferro. Atti del I Congresso internazionale in occasione del venticinquennale del Museo Genna Maria di Villanovaforru, 14-15 dicembre 2007, Sassa-ri 2012, 181-92: 2 M. Pittau, Il Sardus Pater e i guerrieri di Monte Prama, Sassari 2008.3 M. Rendeli, Monte ‘e Prama: 4875 punti in-terrogativi, in International Congres of Classi-cal Archaeology. Meeting between Cultures in the Ancient Mediterranean. Roma 2008 (= Bol-lettino di Archeologia on line, volume speciale 8/87/ 11), 2010, 58 – 72.4 C. Olianas, Lo scaraboide dalla Tomba 25 di Monte Prama. Confronti e considerazioni, in Kubaba, 3 (2012), 39-52.

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Sadurru, che poi vuol dire Saturnino) e viveva con la moglie ancor giovane e la figlia Greca. Qua e là per la pianura sorgeva qualche altra capanna e viveva qualche altro pastore. Donde veniva-no quei primi sardi, con le loro donne piccole e brune, e con le gregge ancora selvatiche? Forse i padri loro erano ve-nuti anch’essi dalle coste d’oriente, con barche di predoni; e dico anch’essi per-ché, di tanto in tanto, sul mare argenteo disegnavasi l’ala rossastra di qualche vela fenicia, sbarcava un gruppo d’uo-mini pallidi, vestiti di corte tuniche grigie, coi sandali ai piedi e in testa un berretto a cono. E si spandevano sulla pianura come un turbine e incendiava-no le capanne, predavano ciò che pote-vano, sgozzavano le pecore e banchet-tavano sotto gli alberi. Sadur nutriva un odio feroce contro questi sgraditi visi-tatori, che l’avevano più volte rovinato. Spesso s’era salvato con le donne e il gregge sulle montagne, ritornando alla pianura quando le vele rosse sparivano lentamente all’orizzonte, nei violacei crepuscoli marini; ma ora vedeva avvi-cinarsi con dolore l’estrema vecchiaia e sentiva tristemente svanir le sue forze. Chi avrebbe salvato oltre le sue donne e le sue gregge? Egli sedeva melanconi-camente sul limitare dell’ovile, e guar-

ricorre descrivendo paesaggi, tessuti e volti, ora lieti ora adirati, della sua terra e, in qualche raro caso, di fiori «bor-ghesi» di Roma che animano visi sardi presi da forte emozione»5.

Ma dove la Deledda sposa mirabil-mente la sua sardità con la storia fenicia è ne La nascita delle leoneddas (Una vecchia leggenda musicale) riportata nella versione benemerita di liberliber delle Leggende sarde alle pagine 23-24 e che qui si riporta per intero: «Poco distante dalla riva del mare un antico pastore pascolava le sue gregge. Era in un tempo lontanissimo, in una prima-vera quasi preistorica; ma il paesaggio era quale ancora si ammira adesso, una fresca pianura verde, chiusa da monta-gne quasi nere sul cielo d’un azzurro chiaro, e lambita dal mare; la capanna del pastore era eguale alle odierne ca-panne dei pastori sardi; e lo stesso era il pastore, vecchio ma ancora possente, coi lunghi capelli e la lunga barba gial-la, gli occhi neri circondati di rughe, e vestito di rozzi pannilani e di pelli. Il vecchio si chiamava Sadur, (ed io non so l’etimologia di tal nome, ma riten-go che da questo provenga il moderno

5 http://www.fenici.unibo.it/Fonti/autori%20letterat%20italiana/graziadeledda.htm.

ledda. Così si notava nelle breve nota introduttiva alle citazioni raccolte: «I Fenici di Grazia Deledda emergono dalla più antica realtà sarda, spesso filtrata attraverso una cultura biblica e popolare, così come il Sardus Pater (cfr. da ultimo, P. Bernardini, Il culto del Sardus Pater ad Antas e i culti a di-vinità salutari e soterologiche, in P.G. Spanu [ed.], Insulae Christi. Il Cristia-nesimo primitivo in Sardegna, Corsica e Baleari, Oristano 2002, pp. 17 – 28; M. Pittau, Il Sardus Pater e i guerrieri di Monte Prama, Sassari 2008), il riso sardonico (cfr. fra gli altri S. Ribichini, Il riso sardonico. Storia di un prover-bio antico, Sassari 2003), Amsicora (fi-gura storica da sempre all’attenzione di scrittori di storia patria della Sardegna: cfr. fra gli altri, S. Atzeni, Ampsicora tra mito e realtà. Sotto ogni leggen-da c’è sempre nascosta una verità, Cagliari 2002 e, da ultimo, S. Angei, Studio su Amsicora ovvero quando ad Amsicora venne la sincope della “o”, in monteprama.blogspot.it, 5 luglio 2014) e il cedro del Libano (cfr. da ultimo, De Riva, Desde la muralla de Media a los cedros del Líbano: unos apuntes de ge-ografía del Próximo Oriente Antiguo, in Geographia antiqua, 18. 2009, pp. 217-26). Al colore porpora la Scrittrice

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dava inquieto la linea chiara del mare. Da qualche tempo, però, anzi da qualche anno, nessuna disgrazia aveva turbato la vita di quei primi pastori sardi. Solo, dall’interno dell’iso-la, giungeva, di quando in quando, qualche negoziante pri-mitivo. Recava frumento, legumi, pannilani, frutta secche, armille e altri gioielli di bronzo: in cambio riceveva lana, miele, formaggio, unghie di pecora, e ripartiva. Le donne macinavano il frumento fra due pietre, cuocevano le focacce, cucivano le vesti.

Sadur guardava le gregge, e fissava gli occhi nel mare. Nonostante la pace di quegli ultimi anni, non si sentiva tranquillo. I suoi occhi si indebolivano, i suoi denti ferini si muovevano entro le gengive, le sue mani cominciavano a tremare. Ciò era ben triste. Il suo unico conforto, spesso, era di suonare certi flauti di canna, molto rozzi e primitivi. Ne veniva fuori una melodia monotona, ma flebile, soave, che si smarriva come un lamento nel gran silenzio della pianura. Quando suonava i suoi flauti di canna, Sadur dimenticava ogni sua tristezza; gli occhi suoi si raddolcivano, su tutta la sua selvaggia fisionomia si spandeva un’espressione di tene-rezza e di bontà. Al suono melanconico del suo flauto, Sadur sentiva il cuore empirsi di care ricordanze, tutto gli sem-brava dolce, sognava di maritar Greca con qualche giovine gagliardo, di lasciar lei e la madre sotto una forte protezio-ne, e di morir tranquillo, sotto una quercia, al sole di aprile. Egli aveva parecchi flauti, più o meno sottili, e ogni volta che suonava li provava tutti, ad uno ad uno. Ciascuno aveva un suono particolare, e Sadur sapeva trarne diverse melodie. Ora, nell’ultimo anno della sua vita, gli accadde questo fatto. Era di maggio: un giorno egli se ne stava vicino al mare, quando con terrore scorse le vele fenicie a poca distanza dal-la costa. Tutto tremante corse dalle sue donne e disse loro: «Ahimè, succede ciò che io da vari anni temevo. Non c’è che un mezzo per salvarci. Fuggite voi due con buona parte della greggia; avviatevi al nascondiglio che sapete. Io rimarrò qui con quindici o venti pecore: crederanno ch’io viva qui solo e si indugeranno a banchettare. Intanto voi potrete salvarvi, e, dopo la loro partenza, ci riuniremo» Le donne partirono, piangendo, spingendo verso i monti il grosso della greggia; e il vecchio rimase. Finse d’esser quasi cieco e si mise a suo-nare. I fenici lo trovarono così, in apparenza tranquillo, e cre-dettero ch’egli vivesse solo con le poche pecore smarrite nel prato vicino. Com’egli aveva preveduto, essi s’indugiarono laggiù: frugarono la capanna, la distrussero per accender il fuoco coi rami dei quali era formata, sgozzarono le pecore e banchettarono. Alcuni di loro volevano legare e bastonare Sadur, ma il capo della spedizione, ch’era un giovine pal-lido dai lunghi capelli nerissimi, unti d’olio profumato, vi si oppose. Solo, finito il banchetto, comandò al vecchio di suonare. Sadur prese i suoi flauti e suonò. Il giovine capo si mise ad ascoltarlo attentamente, pensieroso e quasi triste. Ad un tratto parve preso da un capriccio strano, e comandò a Sadur di suonare tutti assieme i suoi flauti. “Come farò?”, disse il vecchio. “Accomodati, altrimenti ti farò bastonare.” Allora il vecchio cercò certe erbe filamentose e unì in fila i suoi flauti, formando la prima delle leoneddas sarde. Prova e

riprova, gli riuscì di suonare abilmente una melodia melan-conica, armoniosa, discretamente sonora. Presi dalla sonno-lenza dei meriggi primaverili, dopo il pasto abbondante, i fenici ascoltavano sdraiati sull’erba, e una grande dolcezza li invadeva a quel suono. Il giovine capo, specialmente, pareva incantato. A poco a poco si addormentò, e gli parve di non aver mai gustato un sonno così delizioso, in luogo più ameno di quello. Svegliandosi, disse al vecchio di chiedergli tutto ciò che desiderava; glielo avrebbe accordato, se era in suo potere. Sadur tremò, poi disse: “Ebbene, senti. Io ho moglie e una figlia vergine: se le incontri, non toccarle”. “Tu puoi farle tornar qui”, disse il capo, “non sarete più molestati.” In-tanto fece ricostruir la capanna e attese che il vecchio, andato in cerca delle sue donne, fosse di ritorno. Desiderava sentire ancora il suono dei flauti riuniti e di addormentarsi ancora una volta sull’erba. Sadur e le donne e le gregge tornarono, e il vecchio suonò ancora, e il giovine si addormentò. Allo svegliarsi vide Greca, e il luogo gli parve ancora più ameno. “Vuoi tu darmi la fanciulla?”, chiese al vecchio. “La sposerò e resterò qui coi miei compagni.” Così si formò in Sardegna una delle prime colonie fenicie, ed il vecchio Sadur continuò a suonare, tutti assieme, i suoi flauti di canna».

Grazia Deledda con i flauti di canne scioglie mirabilmente in una fiaba che ha tutta la parvenza di un contu sardo quel luogo comune, quel binomio inscindibile mercanti/pirati, che dall’antichità sino a Salgari e D’Annunzio6 arriva spesso ai nostri giorni sui Fenici barbari pirati del Mediterranei7. La fiaba, per restare nell’ambito della letteratura dei primi del novecento, sembra richiamare l’uso che si faceva di alcune conchiglie pescate nelle prime dune di Scheveningen «che servon a fare un cemento particolare», come nota Edmondo De Amicis8, e come documenta in Sardegna l’archeologia di Tharros punica9: il contu della Deledda serve da particolare “cemento” della storia.

6 Si veda per entrambi gli autori i brani già indicizzati in www.fenici.unibo.7 Cfr. fra gli altri C. Raccuia, Pirati e Barbari. Rappresentazioni di feni-cio-punici nella Sicilia greca, in M. Congiu - C. Miccichè - S. Modeo - L. Santagati (edd.), Greci e Punici in Sicilia tra V e IV secolo a. C. IV Convegno di Studi. Caltanissetta, 6-7 ottobre 2007, Caltanissetta – Roma 2008, 173 – 91.8 Cfr. http://www.liberliber.it/mediateca/libri/d/de_amicis/olanda/pdf/de_amicis_olanda.pdf, L’Aja, 216.9 Cfr. M.L. Amadori, Tharros - XX. Indagini minero-petrografiche sugli intonaci di finitura, in Rivista di studi fenici, 22.2 (1996), 209-14.

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(storie di malattia raccontate dal paziente al suo medico), una modalità di affrontare la malattia dove il racconto di un’e-sperienza rappresenta per la persona l’occasione per riflette sulla propria condizione e per elaborarla, e nel contempo una forma di comunicazione attraverso cui la stessa cerca di farsi ‘ascoltare’ e di farsi comprendere nelle sue necessità e nei suoi bisogni, ben oltre gli aspetti scientifici e la dimensione clinica di uno stato patologico.

1. SENTIRE CON GLI OCCHI: ASPETTI

ANTROPOLOGICI DELLA SORDITÀ

Vorrei cominciare citando un brano tratto da uno scritto autobiografico di Daniele Regolo, oggi giovane imprendito-re, divenuto sordo a tre anni:

È davvero tremendo sentirsi tagliati fuori dal mondo, dalle sue parole e, dunque, dai suoi concetti, dato che questi, generalmente, si esprimono proprio con le parole. La gente parla, parla, e tu non capisci, non solo i singoli vocaboli ma frasi intere. Ti devi aggrappare alle loro labbra, e siccome neanche quelle bastano, per come corrono veloci, ti affidi

a tutto ciò ti possa essere d’aiuto: alle smorfie, al gesticolare, alle teste che annuiscono, ai menti che si ritraggono, alle sopracciglia che si inarcano. Devi capire tutto senza capire niente. È come voler comprendere l’oggetto di un quadro ostinandosi a fissare la sua cornice. E i tuoi occhi, che diventano orecchie,

Così ascoltano i sordi. Riflessioni attorno ad alcune testimonianze autobiografiche dei non udentiROSALIA CAVALIERIDipartimento di Scienze cognitive, della formazione e degli studi culturali, Università degli Studi di Messina

PREMESSA

In genere siamo abituati a comprendere situazioni patologiche come la sordità, l’autismo o l’afasia af-fidandoci alla sola letteratura scientifica e ai reso-conti degli specialisti, senza ascoltare la viva voce di coloro che vivono sulla loro pelle una condizio-

ne tutt’altro che facile – e, nel caso specifico della sordità, un deficit ‘nascosto’– subendo peraltro le imposizioni e le scelte degli udenti che spesso, preoccupati di ‘normalizzare’ e di rendere il sordo quanto più possibile ‘udente’ non si curano delle sue reali e peculiari esigenze. Queste pagine prendono in esame il tema della sordità partendo dai racconti personali dei sordi e dalle concrete difficoltà di comunicazione e di interazione legate alla loro patologia. L’obiettivo è tentare di comprendere e di spiegare cosa significhi essere sordo e quali siano le implicazioni linguistiche e cognitive di questa particolare modalità di esistenza, attraverso le testimonianze di coloro che vivono una condizione caratterizzata dall’im-possibilità di ascoltare e perciò di articolare spontaneamente i suoni del parlato.

Partendo dal presupposto che una patologia è sempre in-corporata in una persona, l’approccio che abbiamo adot-tato per affrontare il tema della sordità si avvicina alla «scien-za romantica» o per-sonalistica teorizzata e praticata dal neuro-scienziato Aleksandr Romanovič Lurija (1976) – un modo di fare scienza com-plementare a quello classico – e presenta delle analogie con la ‘medicina narrativa’

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In genere si parla di ‘sordità’ in senso stretto quando si è in presenza di un deficit uditivo neurosensoriale grave e/o profondo, di una perdita importante dell’udito (quantitativa e qualitativa), e specialmente dell’ascolto dei suoni lingui-stici, ovvero delle parole di una lingua e in particolare di una larga parte delle frequenze della voce di conversazione (un soggetto è normoudente quando ha una soglia uditiva uguale o inferiore a 20 dB, una soglia superiore è indice di riduzione dell’udito: dai 70 dB in su si parla di sordità gra-ve, oltre i 90 dB di sordità profonda). In tutti gli altri casi, in genere si utilizza l’espressione ‘ipoacusia’ (cfr. Martini, 2004; Trevisi, Prosser, 2004). Nelle sordità neurosensoriali gravi e profonde anche le protesi acustiche moderne (ormai sempre più evolute e adattate alla perdita individuale, e di-rette peraltro a minimizzare gli effetti delle interferenze del rumore ambientale) – in grado di amplificare i segnali sonori in termini di intensità, sì da poter potenziare la percezione di quelle informazioni acustiche necessarie per favorire in sede di rieducazione logopedica l’apprendimento del linguaggio orale –, possono fare ben poco. E questo anche per la forte amplificazione che le forme di sordità più severa richiedono e per la distorsione acustica che le protesi possono recare (specialmente negli ambienti rumorosi), compromettendo l’identificazione delle caratteristiche fonetiche necessarie al riconoscimento del linguaggio (cfr. Prosser, 2004)2. In un saggio a carattere autobiografico, Renato Pigliacampo, scrit-tore e psicologo sordo dalla fanciullezza, oralizzato, racconta così le sensazioni e le aspettative legate alla protesizzazione:

[…] Mio Dio, che casino! Non avevo idea di cosa si-gnificasse udire così. Sentivo per tutto il corpo, fortissime vibrazioni, fastidiose, indecifrabili. “Questo è ascoltare?”, pensavo preoccupato. […] Questo udire mi aveva deluso. Gli esperti dicevano che iniziare a sentire le vibrazioni tat-tili avrebbe favorito il riconoscimento delle parole. Ci spe-ravo. La mia percezione tattile era straordinaria. Io tuttavia pensavo che il “coso” mi facilitasse l’ascolto della voce, per guidarla nell’impostazione della parola quando ero a lavoro con la logopedista; credevo che quell’aggeggio mi avrebbe permesso di udire la musica, il canto, la voce dei bambini […]. Ma ora ero triste perché non avevo certezza delle pa-role e delle musiche, e nemmeno col “coso” che mi avevano inserito nell’orecchio destro […]. La protesi acustica non fa ascoltare la parola nella bellezza della sua tonalità all’orec-chio ferito […]. Pensavo “Ma come fanno gli udenti a capir-si con questi rimbombi e boati? Che era quello che sentivo, appunto, attraverso la protesi” (1996: 25-26, 43).

2 Nei casi di sordità neurosensoriale severa in cui il soggetto non può trarre alcun beneficio dalle protesi tradizionali è possibile ricorrere, già da alcuni decenni, agli impianti cocleari, dispositivi impiantabili chirurgi-camente nell’orecchio interno e tali da ‘sostituirne’ la parte danneggiata. A differenza delle protesi acustiche che amplificano il segnale sonoro fa-vorendo la funzionalità cocleare residua, l’impianto cocleare converte il suono meccanico in impulso elettrico, simulando le funzioni naturali della coclea (la struttura dell’orecchio interno contenente i recettori acustici) e stimolando il nervo acustico (per ulteriori chiarimenti cfr. Martini, Giarbi-ni, Trevisi, 2004).

si spalancano, e le tue pupille ricordano quelle di un visionario. Non esiste rilassamento, esiste solo una perenne tensione lacerante, uno spremere i globi oculari per ritrovarsi con pochi elementi in mano chiamando a rapporto tutte le rimanenti facoltà del cervello per osservare, dedurre, arrivare al medesimo punto – la comprensione – inoltrandosi per una strada tutta diversa (Regolo, 2001: 34).

Niente di più eloquente di una testimonianza diretta che ci permette di ‘spiare’ la vita interiore dei sordi, di farci un’idea più chiara di cosa può significare nascere sordo o diventarlo in tenera età, prima cioè della completa acquisizione del lin-guaggio: una condizione che riguarda tutti i sordi prelingui-stici. Ci aiuta cioè a comprendere la rilevanza linguistica, co-gnitiva e sociale di una patologia sensoriale che interferisce proprio con lo sviluppo dell’attività che più ci rende umani: comunicare verbalmente con i nostri simili, con conseguen-ze sulla dimensione relazionale, sulla possibilità di integrarsi nella società e sull’apprendimento. La sordità colpisce, in-fatti, il senso attraverso il quale appena nati (anzi già nell’e-poca fetale, dal momento che tutto l’apparato neurologico collegato all’orecchio interno entra in funzione a partire dal quinto mese di vita intrauterina – cfr. Tomatis, 1977: 338) ascoltiamo i suoni che ci circondano, quelli del parlato in particolare, e acquisiamo informazioni uditive sull’ambiente, specialmente quelle veicolate dai suoni acuti, i più stimolanti per la nostra corteccia cerebrale.

Come ha osservato Alfred Tomatis, medico, psicologo dell’ascolto e fondatore dell’audio-psico-fonologia1, la fun-zione uditiva dell’orecchio è secondaria rispetto al compito principale di fornire energia al cervello, di stimolare cioè la corteccia esattamente come fa una dinamo: «i suoni agiscono sul corpo: se sono gravi senza fornirgli nessuna carica, se sono acuti attivando la corteccia per permettergli di pensare» (cfr. Tomatis, 1977: 290). Pertanto, la funzione dell’ascolto non coinvolge solo l’orecchio ma, tramite il vestibolo, impe-gna tutto il sistema nervoso, sollecitando così il corpo nel suo complesso (ibidem: 321). L’isolamento dai suoni della voce umana causato dalla sordità influisce, com’è ovvio, anche sulla qualità globale della vita di una persona.

Il brutto della sordità – osserva sempre Daniele Regolo – è che taglia fuori dalla vita in un modo così netto ed umiliante che, appena te ne accorgi, sei tu stesso a non voler essere un peso per chi ti è vicino [...]. Quel senso di impotenza, di volere e non potere, è alla lunga, per chi la vita la adora, dilaniante [...]. Adeguarsi al mondo circostante per la paura [...] di essere escluso comporta un mutamento della propria personalità, uno svilimento di questa, un degrado talvolta pe-noso verso il non-essere-umano (2001: 42).

1 Si tratta di una disciplina e di una metodica terapeutica che, appro-fondendo lo studio degli aspetti fisiologici e psicologici dell’udito e del linguaggio, si fonda sulla centralità della funzione uditiva in tutti gli aspetti della maturazione dell’individuo, fin dalla primissime fasi dello sviluppo ontogenetico (cfr. Tomatis, 1963, 1972, 1977, 1987).

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siamo esposti nel corso di tutta la nostra vita. Da qui anche la difficoltà di formulare inferenze, di trarre cioè nuove cono-scenze a partire da informazioni già acquisite.

I sordi – afferma ancora Daniele Regolo – sono meno esposti a quell’“apprendimento occasionale”, apparentemen-te inutile, indispensabile in realtà per affinare le lame della conoscenza. Quella mescolanza di informazioni – le più di-sparate – che si acquisiscono senza rendersene conto tra i banchi di scuola, o chiacchierando come capita, è la fonte eterna del sapere. Pilucca qua, pilucca là, il cervello cresce senza imposizioni o forzature, e si sviluppa con armonia in-sieme all’ambiente stesso. Io che ne ho sentito la mancanza posso confermare senza esitazioni che imparare la vita in questo modo non è il modo migliore, bensì l’unico (2001: 46-47).

Essere sordo profondo non significa tuttavia vivere in un mondo silenzioso: i sordi affermano di avere i loro rumori personali, inspiegabili per chi può sentire, e grazie all’im-maginazione si rappresentano peraltro i rumori sotto forma di immagini:

Immagino suoni sotto forma di colori – osserva Emma-nuelle Laborit, attrice e scrittrice francese sorda congenita –. Per quanto mi riguarda, il silenzio è a colori, non è mai in bianco e nero. Anche i rumori degli udenti sono sotto forma di immagini, per me, di sensazioni. L’onda che si frange sulla riva, calma e dolce, è una sensazione di serenità, di tranquil-lità. Quella che si drizza e galoppa facendo la gobba come un gatto, è la collera. Il vento sono i miei capelli che palpitano all’aria, la freschezza o la dolcezza sulla mia pelle. La luce è importante, amo il giorno, non la notte (1994: 25-26).

Per le persone sorde, il silenzio è l’assenza di comunica-zione, il buio insomma:

Il mio silenzio non è il vostro silenzio. Il mio silenzio sa-rebbe un po’ come avere gli occhi chiusi, le mani paralizza-te, il corpo insensibile, la pelle inerte. Un silenzio del corpo (ibidem: 239).

E guarda caso il segno silenzio in LIS si produce attraverso il gesto di mettere le mani nelle tasche, che equivale a smet-tere di segnare, un segno tipico della cultura sorda (cfr. Ro-meo, 2004: XVI). E poi i sordi in genere riescono a sentire le frequenze gravi. Va quindi sfatata l’idea comune che attribu-isce l’ascolto alle sole orecchie. Hannah Merker, bibiotecaria americana divenuta sorda a 39 anni in seguito a un incidente sulla neve, pur avendo ben chiara l’idea del silenzio – al-meno nel significato attribuito a questa parola dagli udenti – proprio perché sorda postlinguistica, nel libro in cui rac-conta la sua storia, a proposito del termine ‘ascoltare’ e del suo significato non manca di osservare l’uso ristretto che in genere ne facciamo, riferendoci soltanto all’esperienza udi-tiva, al cogliere cioè il suono di qualcosa. Ma la sua vicenda di persona privata improvvisamente della facoltà dell’ascolto uditivo le ha insegnato che esistono modi diversi di ascolta-

Stento ancora, dopo venticinque anni che li indosso – af-ferma Daniele Regolo, riferendosi ai dispositivi acustici – a considerarli come una seconda epidermide. Sono sempre stati, per me, qualcosa che mi avrebbe potuto separare dallo stesso mondo al quale mi legavano. Esiste con essi un rap-porto di amore e odio, perché sono il simbolo del mio han-dicap (2001: 51).

Il termine sordità è comunque molto vago rispetto alla grande varietà di modi in cui questo disagio si esprime (tan-ti quanti sono i sordi), in relazione all’età di insorgenza, al grado e al tipo di deficit uditivo, alle cause che l’hanno deter-minato, alla famiglia d’origine (sorda o udente), al percorso rieducativo perseguito e, più in generale, alla storia biogra-fica di ciascun sordo. La sordità, dunque, non è una condi-zione omogenea né dal punto di vista clinico, né dal punto di vista della storia biografica (cfr. Cavalieri, Chiricò, 2005: 110-118).

I sordi sono perciò quelle persone che hanno una riduzione dell’udito tale da impedire la percezione del parlato e quindi l’acquisizione spontanea del linguaggio verbale: strumento primario per condividere conoscenze, esperienze, sensazio-ni, emozioni, per scambiarsi informazioni, per rendere più efficiente l’apprendimento, per accedere a un’educazione e, insomma, alla socialità in tutti i suoi aspetti. Se pensiamo che il linguaggio dà forma ai concetti e ai pensieri, consentendoci di operare astrazioni, di formulare ipotesi, di persuadere, di comprendere le ragioni degli altri, di fare le battute di spirito o i conti della spesa, di sussurrare parole dolci o di ordina-re un caffè al bar, insomma di verbalizzare potenzialmente qualsiasi contenuto pensabile e di ragionare linguisticamen-te, si può comprendere come il cervello del sordo corra il gra-ve rischio di svilupparsi con maggiori difficoltà, con conse-guenze anche sullo sviluppo della mente linguistica specifica dell’animale umano e dell’identità sociale di una persona. Ciò vuol dire che la sordità, oltre a ‘ferire’ l’individuo sul piano fisico, interferendo sull’acquisizione, sulla produzione e sulla comprensione spontanea del linguaggio parlato, osta-cola i processi d’interazione, le relazioni sociali, e i processi di apprendimento più in generale, come emerge ancora una volta dalle loro parole:

Ho studiato la storia sui libri, ma sui libri non basta, e ho studiato l’economia sugli appunti, ma l’economia va anche ascoltata. Mi sono impegnato, ma non l’ho fatto certamente nel modo più proficuo, in quel modo, cioè, che fa assimilare la materia per un periodo sufficientemente lungo (Regolo, 2001 : 41).

Le difficoltà di accesso al linguaggio parlato implicano poi una povertà di nozioni enciclopediche personali: i sordi ven-gono infatti esclusi da tutte quelle situazioni di apprendimen-to occasionale, gratuito e senza sforzo, legate all’ascolto e alla potenza invasiva del suono (che si impone a prescindere dal nostro livello di attenzione e si propaga in tutte le direzio-ni), e più in generale a ciò che ci viene detto dagli altri, cui

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a loro volta vibrazioni [...]. Sento con i piedi, con tutto il corpo, se mi stendo per terra. E immagino il rumore, l’ho sempre immaginato. È con il corpo che percepisco la musica. I piedi nudi a contatto del pavimento, appesi alle vibrazioni, è così che la vedo, a colori. [...]. La musica è un linguaggio al di là delle parole, universale. È l’arte più bella che esista, riesce a far vibrare fisicamente il corpo umano (ibidem: 35-36).

Mia mamma racconta che spesso le chiedevo che mi pren-desse in braccio. In questo modo potevo “sentire le vibrazio-ni” appoggiando il mio corpo al suo petto, e quindi arrivare a capire delle parole attraverso la “via ossea”, canale di ascolto molto importante, anzi fondamentale, come ho potuto spe-rimentare di recente provando una grandissima emozione, quando ho ascoltato la musica con il corpo, sdraiata su un pianoforte a coda in uno straordinario laboratorio di musico-terapia [...] (Martina Gerosa, 2006, oggi architetto, divenuta sorda a tre anni).

Questo perché «l’essere umano è e rimane il primo ‘stru-mento musicale’. Egli vibra e convibra in ogni sua parte nell’accogliere le onde sonore e nel farle proprie, riproducen-dole» (Cremaschi Trovesi, 2001: 153). E sono proprio i sordi a insegnarcelo. D’altro canto, se l’ascolto penetrasse soltanto attraverso le orecchie per i sordi sarebbe piuttosto difficile sopravvivere. Ecco perché bisogna distinguere la ricezione uditiva, propria dell’orecchio, specializzata nella percezione delle frequenze a partire dai 125-250-500 Hz, dalla ricezione acustica, inerente invece alla rilevazione vibro-tattile delle frequenze gravi o medio-gravi (si pensi all’ascolto in cuffia, che comporta una trasmissione tattile e ossea propagantesi dall’orecchio al corpo). Tutti i sordi prelingustici hanno co-munque residui uditivi sulle frequenze al di sotto dei 250 Hz (sicché qualsiasi persona non udente può udire i suoni gravi prodotti dalla metà sinistra di un pianforte) e possono inoltre percepire tattilmente tutti i suoni fino a 500 Hz. La ricezione acustica è la sola accessibile a una persona completamen-te sorda e permette di recepire le frequenze gravi o suoni bassi (i ‘fondamentali’), quello cioè che siamo soliti definire ‘sentire le vibrazioni’. La percezione delle vibrazioni sonore attraverso la sola via acustica implica una produzione vocale caratterizzata dalle sonorità fondamentali, una voce gutturale insomma, frutto della vibrazione delle cavità risonanti del corpo situate in basso: nell’addome, nel petto e nella gola (a differenza di una voce acuta o ‘di testa’) (cfr. Cremaschi Trovesi, 2001: 23, 26-27; Martini, Schindler, 2004: 13; Schindler, 2004: 21).

Mi sento gridare. Sento le vibrazioni delle corde vocali. Se emetto un suono acuto, le corde non vibrano per nulla. Ma quando ricorro al suono grave, quando grido, sento le vibra-zioni…(Laborit, 1994: 434).

Emmanuelle Laborit descrive, come riportato sopra, la sua felicità nell’andare ai concerti e afferma di sentire la musica

re, e questo vale per i sordi e per gli udenti, mostrando nel contempo anche a noi ‘normodotati’, quasi paradossalmente, che la sordità è una straordinaria scuola di ascolto:

[...] l’ascolto non è un corso a cui ti devi iscrivere, un nuo-vo trucchetto che magicamente trasformerà la tua vita sociale e professionale. È una cosa che accade quanto ti prendi il tempo per guardarti attorno, per restartene immobile la sera, per meravigliarti della mattina. Ascoltare significa essere co-sciente, osservare, attendere con pazienza il successivo se-gnale di comunicazione. E ancora, come chiunque abbia dif-ficoltà di parola o udito può spiegare, ascoltare non sempre si riferisce a una comunicazione uditiva. Allora come possiamo definire l’“ascoltare” perché possa includere tutti gli eventi che si verificano quando una persona sorda o con un deficit uditivo parla con un amico, passeggia da sola su una spiag-gia, occupa il suo posto nel mondo in un qualsiasi giorno specifico? Le orecchie di una persona così non colgono mol-te cose. Ma quella meraviglia che è il corpo umano sembra voler volare al di là di questo vuoto. Quando tutta l’energia sonora della Terra è ricevuta come un sussurro, o forse non la si riceve per niente, altri sensi si affinano e afferrano gli in-dizi di comunicazione che abbiamo dimenticato, nella fretta di vivere. Ascoltare diviene un atto visuale, tattile, intuitivo. Ascoltare… forse… è solo una mente consapevole… (1992: 20-21).

I dizionari definiscono la parola “ascoltare” cioe l’atto di prestare attenzione con l’orecchio; sentire attenzionale, pre-stare orecchio a; cercare di cogliere il suono di qualcosa. Sembra che con la lingua abbiamo ristretto il significato di una parola dalle sottili diramazioni, che interessano la vita di tutti, ogni giorno, in ogni momento. Abbiamo definito “ascoltare” in termini strettamente uditivi (ibidem: 19).

Oltre ad ‘ascoltare’ e a comunicare con gli altri sensi, con la vista in particolare, il sordo profondo può ancora sentire le vibrazioni prodotte dalla musica, i rombi dei motori, i mar-telli pneumatici, lo sbattere di una porta, le sirene, i fischi, e altri rumori intensi e/o forti e avere una certa sensibilità per ogni tipo di vibrazioni – condotte per via ossea e perce-pite per via tattile, specialmente attraverso le estremità –, e quest’ultima può funzionare come una sorta di senso acces-sorio.

La mamma dice – racconta Emmanuelle Laborit – : Ti ab-biamo creduta “normale”, perché giravi la testa quando un uscio sbatteva. Non sapevamo che avvertivi la vibrazione attraverso il pavimento sul quale giocavi e attraverso gli spo-stamenti d’aria. Allo stesso modo, quando tuo padre metteva un disco, attaccavi a ballare, nel tuo recinto, dondolandoti e agitando le gambe e le braccia (1994: 15).

Sono stata fortunata, da bambina, ad avere la musica [...]. Io l’adoro. Avverto le vibrazioni. Anche lo spettacolo mi col-pisce. Gli effetti di luce, l’ambiente, la gente nella sala sono

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no determinare un ritardo nello sviluppo del linguaggio e addirittura comprometterlo irreversibilmente se la mancata esposizione alla lingua si protrae oltre il periodo formativo determinante per la strutturazione del linguaggio. E questo a dimostrazione del fatto che lo sviluppo del linguaggio e di una mente linguistica, facoltà specie-specifiche dell’anima-le umano, dipendono, sì, da vincoli biologici ma richiedono anche immancabilmente l’attivazione del contesto sociale e culturale.

2. I SORDI E IL LINGUAGGIO

Ma cosa vuol dire più precisamente ‘essere sordo’? E fino a che punto – e in che modo – la sordità ostacola la comuni-cazione verbale? Anzitutto occorre chiarire che esistono nu-merosi pregiudizi sui sordi e sulla loro condizione. A partire dal mondo classico e per molti secoli in avanti, il sordo è stato (ed è ancora) chiamato ‘sordomuto’: un termine impro-prio, perché – senza cogliere il nesso inscindibile e tutt’altro che scontato tra l’udito e il linguaggio3 – presuppone che le persone nate sorde o divenute tali nei primissimi anni di vita siano incapaci di parlare per effetto di due disabilità: una le-sione dell’orecchio e un cattivo funzionamento dell’apparato fono-articolatorio. In realtà il mutismo è un effetto della sor-dità: non potendo percepire i suoni verbali prodotti nell’am-biente circostante e non potendo controllare le loro proprie produzioni orali attraverso l’ascolto e l’autoascolto, i sordi non mostrano alcuna inclinazione naturale a produrre la voce articolata, pur essendo dotati di un apparato fonatorio integro e identico a quello di ogni persona normale (se così non fosse non esisterebbero del resto i sordi ‘oralizzati’, ricondizionati cioè attraverso la terapia logopedica all’uso del linguaggio parlato dopo un lungo training acustico-articolatorio artifi-ciale includente anche la capacità di lettura labiale necessaria per la comprensione del parlato e le abilità di scrittura e di lettura).

Mi stupisce sempre questo termine: “sordomuta” – affer-ma Emmanuelle Laborit. Muto sta a indicare chi non ha l’uso della parola. La gente mi vede come una che è privata della favella! È assurdo. Io ce l’ho. Mi esprimo con le mani, e anche con la bocca. Faccio segni e parlo francese. Usare la lingua dei segni non vuol dire che si è muti. Sono in grado di parlare, gridare, ridere, piangere, dalla gola mi escono suoni. Non mi hanno tagliato la lingua! Ho una voce particolare, tutto qui (1994: 237).

I sordi perciò diventano muti a causa della sordità, proprio perché la capacità di articolare i suoni del parlato è attivata

3 Tale nesso fu colto per la verità da Aristotele nell’Historia animalium (HA) ma andò perduto nei secoli successivi a causa di una parziale incom-prensione delle sue affermazioni: i sordi sono incapaci di produrre non già i suoni, cioè la voce, bensì la voce articolata significativa – la voce in quanto veicolo della diálektos – a causa del mancato esercizio dell’ascolto: e solo in questo senso sarebbero privi di linguaggio (HA, IV, 9, 536a, 536b; cfr. anche Lo Piparo, 1988).

con i piedi e con tutto il corpo (1994: 35) e Roberta Paoli, sorda dalla prima infanzia, è la prima ballerina non udente che abbia mai calcato il palcoscenico della Scala di Mila-no come mimo-danzatore (cfr. Luma, 2005). Esempi della capacità dei sordi di ascoltare la musica si possono rilevare anche nella filmografia dedicata alla sordità, in particolare in alcune scene di Figli di un dio minore (di Randa Haines, 1986), di Goodbye Mr. Holland (di Stephen Herek, 1995) e di Dove siete. Io sono qui (di Liliana Cavani, 1993). Senza contare poi il noto caso di un paziente illustre, Beethoven, che, a dispetto di una sordità progressiva (iniziata quando aveva 28 anni) che lo rese totalmente sordo all’età di 50 anni, continuò, seppur con grande sofferenza, a comporre musica, a dirigere l’orchestra e a suonare il pianforte.

Indubbiamente, se la maggior parte degli individui fosse nella condizione di scegliere preferirebbe perdere l’udito piuttosto che la vista. A ben guardare però la sordità pre-linguistica può essere molto più problematica della cecità, specialmente nel caso in cui il sordo non sia messo nella con-dizione di apprendere una lingua entro il “periodo critico” per l’acquisizione del linguaggio, ovvero entro una precisa “finestra” formativa che non va oltre la pubertà (cfr. Lenne-berg, 1967: 143 ss.; Pinker, 1994: 30). I ciechi del resto, pur disponendo di ridotte capacità senso-motorie, acquisiscono il linguaggio senza problemi e senza lacune, anzi tendono a elaborare descrizioni iperverbali per vicariare il loro deficit visivo, a usare cioè sofisticate descrizioni verbali al posto delle immagini visive e ad affidarsi al linguaggio in misura maggiore rispetto agli udenti, così da evitare ritardi lingui-stici e/o cognitivi e serie compromissioni della capacità di interazione con gli altri umani (cfr. Marotta, Meini, Donati, 2013: 27; Sacks 1989: 37). A questo riguardo non può es-serci testimonianza più convincente di quella di Helen Kel-ler, la più nota cieco-sorda della letteratura, che lamentava l’impossibilità di percepire i suoni del linguaggio più di ogni altra cosa:

Sono del tutto sorda e cieca. I guai della sordità sono più profondi e più complessi, se non più gravi, di quelli della cecità. La sordità è la sventura peggiore. Significa, infatti, la perdita dello stimolo più importante: il suono della voce, che trasmette il linguaggio, smuove il pensiero, mantiene nella compagnia intellettuale degli uomini […] Ho scoperto che la sordità è una menomazione ben più grave della cecità (da una lettera del 31 marzo 1910 al dott. J. Kerr Love, cit. in Ackerman, 1990: 209-10).

Il problema dell’età critica, se investe difficilmente gli udenti (che, in genere, acquisiscono le competenze linguisti-che entro i primi cinque anni di vita), diventa invece decisivo per i sordi: l’impossibilità di ascoltare la lingua parlata dai genitori, udenti nella stragrande maggioranza dei casi (90-95%), e le difficoltà di accesso alla loro lingua naturale, la lingua dei segni (una lingua visivo-gestuale poco conosciuta e poco usata dalla maggioranza udente e non sempre cono-sciuta dai sordi, e specialmente dai bambini sordi), posso-

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Anche Margherita, coetanea di Heidi, è stata appena messa nel suo lettino per il sonnellino; si gira supina ed emette dei piccoli suoni some “bababababa” e “nuhnuhnuhnunh” fino a quando prende sonno (Michnick Golinkoff, Hirsh-Pasek, 1999: 65).

Analogie a parte, ciò che distingue veramente queste due bambine è il fatto che Heidi è sorda, figlia di sordi segnanti, mentre Margherita è udente, figlia di udenti.

Verso gli 8-9 mesi, le produzioni sillabiche (e ugualmente quelle gestuali nel caso dei bambini sordi come Heidi) diven-tano più complesse perché composte da sillabe variate, tat-te, da-de, ni-ne, ecc., generando un balbettio paralinguistico. Come nella composizione di un puzzle, durante la fase della lallazione i bambini cominciano a prendere dimestichezza con le ‘tessere’ del linguaggio, esercitandosi a comporle più volte. A questo punto, il bambino è pronto a pronunciare le prime parole (che nel primo anno di vita vengono impiegate come ‘olofrasi’, cioè come termini in cui si concentra il va-lore di una frase) e a partire da questo momento lo sviluppo delle sue capacità fonologiche e articolatorie si perfezionerà e interagirà con le nuove acquisizioni lessicali e grammati-cali – attraverso uno sviluppo morfologico e sintattico siste-matico e rapido – fino ad arrivare intorno ai cinque anni a una competenza strutturale complessa.

In questa fase fondamentale dell’acquisizione del linguag-gio la produzione vocale dei bambini sordi si differenzia tut-tavia significativamente da quella dei bambini udenti: non potendo sentire la lallazione orale che cominciano a produr-re, i bambini sordi non possono controllare l’esercizio del-la produzione dei suoni della loro lingua per adattarli alle loro esigenze comunicative. Il deficit acustico, impedendo al bambino sordo questi primi sviluppi, in particolare lo spe-cializzarsi delle capacità di percezione e di articolazione dei suoni, gli preclude il successivo processo di acquisizione del linguaggio verbale nei suoi aspetti di produzione e di com-prensione. Lo sviluppo spontaneo della facoltà del linguag-gio necessita perciò di un input che nelle società umane è costituito dall’ascolto delle persone che ci parlano (o che ci ‘segnano’) sin dai primi istanti di vita, dall’immersione, in-somma, in una comunità che utilizza una particolare lingua (sullo sviluppo del linguaggio cfr.: Pinker, 1994: 256-258; Michnick Golinkoff, Hirsh-Pasek, 1999: 65 ss.; Aglioti, Fab-bro, 2006: 30-34; Cacciari, 2001: 39-42).

Essere sordi, tuttavia, non vuol dire essere privi della fa-coltà del linguaggio: semplicemente essa non può attivarsi in modo naturale, almeno per quanto concerne la modalità ora-le, a causa, come s’è detto, del deficit uditivo. Questa facoltà, che permette a ogni bambino di acquisire spontaneamente qualsiasi lingua a cui venga esposto, sia essa cinese, inglese, italiana (il che significa che il linguaggio ha proprietà uni-versali), senza ricorrere a un addestramento specifico, negli esseri umani normodotati si incarna nel linguaggio orale: un tratto universale o specie-specifico della linguisticità umana. Non a caso, Noam Chomsky già negli anni Sessanta parlava di un «dispositivo innato del linguaggio» (LAD: Language

dall’ascolto: del resto noi parliamo soltanto perché sentiamo gli altri che ci parlano. La voce riproduce, infatti, solo ciò che l’orecchio è in grado di sentire: insomma «l’uomo parla nella misura in cui sente e sente meglio i suoni parlati» (To-matis, 1977: 192); e l’orecchio, prosegue Tomatis, è la via regia che conduce al linguaggio. Noi perciò parliamo con il nostro orecchio, che è per l’appunto l’organo del linguaggio per eccellenza.

I bambini che nascono sordi, o che tali diventano nella fase prelinguistica, non possono essere esposti ai suoni della loro lingua per il semplice motivo che non li sentono e il ‘vederli’ articolati sulle labbra non corrisponde a un’esperienza fono-logica, bensì visiva. Non potendo udire il linguaggio parlato, e la loro stessa voce, non possono usare l’udito come stru-mento di controllo dei suoni linguistici che emettono durante la fase della lallazione o del balbettio (dal sesto-settimo mese fino al nono-decimo circa). Nei primi mesi di vita, infatti, anche questi bambini, come quelli udenti, producono voca-lizzi e più avanti emettono suoni linguistici (combinazioni di consonante e vocale), ma la loro lallazione, che inizia pe-raltro qualche mese più tardi, è significativamente diversa da quella prodotta dai bambini udenti: è povera e incoerente (producono una ridotta gamma consonantica e un minor nu-mero di sequenze multisillabiche) proprio per la mancanza di feedback acustico, per l’impossibilità cioè di ascoltare e di imitare i suoni dell’ambiente e di autocontrollare la loro attività fono-articolatoria.

In condizioni normali, nel periodo della lallazione i bambi-ni, sulla base di ciò che sentono, diventano parlanti della loro lingua, imparando gradualmente a imitare i modelli intona-zionali degli adulti e i particolari suoni della lingua parlata a cui sono esposti, rispettandone le restrizioni e le preferenze fonologiche. In questa fase dello sviluppo linguistico (intor-no agli 8-9 mesi), c’è una notevole diminuzione del numero e della varietà dei suoni discriminati e prodotti dal bambino nei primi mesi di vita (i vocalizzi emessi dai bambini nei primi 6-7 mesi sono abbastanza simili nelle varie lingue e includono tutta la gamma di suoni pronunciabili dall’uomo). Ancorché sia privo di intenzioni comunicative, questo alle-namento motorio dà al bambino il piacere di ascoltarsi, pre-parandolo alla successiva produzione delle prime parole. Du-rante questo stadio dello sviluppo linguistico vengono perciò prodotti suoni ripetitivi, sillabe e sequenze di sillabe uguali, in maniera sempre più precisa, come ba, ba-ba, ma, ma-ma, ga-ga-ga, di-di. Questa fase della lallazione orale è presen-te, come s’è detto, anche nei bambini sordi (che in qualche modo esercitano i loro organi fonatori) e se questi bambini sono esposti dalla nascita a una lingua dei segni (come acca-de ai figli di sordi segnanti) produrranno anche un balbettio gestuale, attraverso movimenti delle mani che assomigliano ai segni di una lingua dei segni.

Heidi è una bambina di sei mesi, è distesa sul suo lettino, dove suo padre l’ha messa per un sonnellino. La piccola tiene le mani in alto e fa dei piccoli gesti mentre ride tra sé e sé. Passano alcuni minuti e Heidi si addormenta.

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In circostanze normali, come s’è detto, tutti i bambini im-parano a parlare una lingua, quella o quelle a cui vengono esposti nell’infanzia. Ovviamente possiamo apprendere le lingue da adulti, ma al prezzo di un grande sforzo, e qua-si certamente è impossibile farlo se non abbiamo acquisito un’altra lingua nell’infanzia e cioè entro il “periodo critico” cui abbiamo già fatto cenno. La necessità di essere esposti ad almeno una lingua nell’infanzia, in particolare nei primi anni di vita e non oltre il periodo della pubertà (in cui la plasticità cerebrale, almeno relativamente all’acquisizione del linguaggio, è più spiccata), mette in luce, ben al di là della componente biologica che fa del linguaggio una sorta di ‘meccanismo a tempo’, l’importanza del contesto sociale e relazionale per lo sviluppo di questa facoltà. È chiaro, per-tanto, che il più grande dramma per una persona sorda è non avere la possibilità di apprendere una lingua, il rischio cioè di non essere esposto ad alcun linguaggio, di essere escluso da ogni tipo di istruzione e lacianto in balia di se stesso, com’è accaduto per moltissimi secoli, cioè almeno fino alla fine del Settecento con l’istituzione delle prime scuole pubbliche per sordi in Francia grazie a Charles Michel De L’Épée (per una storia della sordità cfr. Chiricò, 2014; per una breve storia delle lingue dei segni cfr. Russo Cardona, Volterra 2007: 15-45).

Se è vero che la facoltà del linguaggio è una sorta di ‘istin-to’, un pezzo della nostra attrezzatura biologica, è altrettanto vero che essa, sia in condizioni normali sia, e ancora di più, in presenza di un deficit sensoriale, ha bisogno di un ambien-te sociale e linguistico adeguato per potersi attivare sponta-neamente: ha bisogno, in altre parole, del contatto con altre persone che parlano e/o segnano, di un dialogo stimolante, ricco di intenti comunicativi e di reciprocità. Una prova del carattere fondamentalmente relazionale e sociale del lin-guaggio ci è fornita dai drammatici casi di enfants sauvages, o bambini ferini: quei bambini che per ragioni diverse sono stati abbandonati, reclusi o emarginati (in alcuni casi allevati da animali, in altri casi sopravvissuti per autosostentamento, in altri ancora allevati in isolamento) e che sono vissuti fuo-ri dal consorzio sociale almeno fino alla pubertà e talvolta, quando sono riusciti a sopravvivere, anche oltre. Ci limitia-mo a citare il primo caso documentato in letteratura, e anche il più noto, quello di Victor, il ragazzo selvaggio ritrovato nei boschi dell’Aveyron, in Francia, nel 1798, all’età di circa dodici anni, affidato alle cure di Jean Marc Itard, il medico francese che si occupò della sua rieducazione e che vi scris-se ben due Mémoires (1802-1807). Nonostante il successivo reinserimento nella società civile e i ripetuti tentativi di adde-stramento linguistico, e pur essendo fisicamente in grado di articolare le parole, Victor, come la stragrande maggioranza degli enfants sauvages documentati in letteratura, non riuscì a sviluppare il linguaggio e con esso una mente linguistica, e continuò a esprimersi solo attraverso una pantomima (cfr. Itard 1802-1807; per una panoramica sui casi di ‘ragazzi sel-vaggi’ cfr. Ludovico, 2006; per una rassegna completa cfr. feralchildren.com).

Casi come questo dimostrano le conseguenze cui può an-

Acquisition Device), sottolineando come il linguaggio sia troppo complesso per essere appreso tramite l’osservazio-ne delle sue regolarità, in poco tempo e in modo spontaneo (Chomsky, 1965). I bambini, perciò, devono averne quella conoscenza innata che permette loro di svilupparlo in base all’esposizione a fattori esterni: è la predisposizione biologi-ca che il neuroscienziato Steven Pinker chiama l’“istinto del linguaggio” (Pinker, 1994).

Anche se la facoltà del linguaggio è parzialmente cultu-rale, dal momento che la lingua che parliamo è un prodotto sociale e convenzionale trasmesso dalla comunità in cui vi-viamo, la capacità di acquisizione linguistica è una dotazione biologica (ecco perché le lingue vengono definite ‘storico-naturali’). Le lingue umane da almeno 40.000 anni, con la diffusione di homo sapiens sapiens (ma probabilmente già 120.000 anni fa), sono orali e in condizioni di normalità non si conoscono eccezioni né tra quelle in uso né tra quelle estinte: l’universo del suono costituisce l’ambiente naturale delle lingue e l’oralità è il loro tratto primario. Il discorso cambia, ovviamente, in presenza di circostanze ecceziona-li come la sordità. E l’esistenza, di lingue dei segni, lingue semioticamente e semanticamente equiparabili alle lingue parlate, che sfruttano la modalità visivo-gestuale integra nel sordo (studiate scientificamente a partire dagli anni Sessan-ta del secolo scorso grazie alle prime ricerche linguistiche di William Stokoe sull’ASL, American sign language – cfr. 1960) ci fornisce al riguardo una prova dell’indipendenza della facoltà del linguaggio dall’apparato fonatorio e quin-di dalla dimensione orale. D’altro canto, già Ferdinand de Saussure aveva osservato che l’aspetto fonico delle lingue è un fatto accidentale: «non il linguaggio parlato è naturale per l’uomo, ma la facoltà di costruire una lingua [...]» (1916: 19-20). E questa lingua, in condizioni di sordità, può essere fatta di segni visivo-gestuali anziché di parole articolate.

Del resto la ricerca scientifica ha mostrato che l’esposi-zione dei bambini sordi alla lingua dei segni sin dalla più tenera età – la loro lingua naturale fatta di gesti articolatori prodotti con le mani e con il corpo (‘articolatori manuali e non manuali’), organizzati grammaticalmente nello spazio, e ‘ascoltati’ con gli occhi – permette lo sviluppo della pie-na competenza linguistica e rende più semplice, più rapida e soprattutto più completa l’acquisizione delle conoscenze e la trasmissione dei contenuti culturali, facilitando il successi-vo apprendimento della lingua orale e scritta (cfr. Cavalieri, Chiricò, 2005: 179-180, 257; Nicolai, 2003: 84-86; Caselli et al., 2006: 163 ss.). E gli studi sulle rappresentazioni cerebrali della lingua dei segni in segnanti nativi, a partire dalle ricer-che di Ursula Bellugi e colleghi, confermano che, nonostante si tratti di una lingua visivo-spaziale e benché l’emisfero de-stro sia specializzato nelle percezioni sincrone, e special-mente in quella del mondo visivo-spaziale, essa risulta ela-borata fondamentalmente dall’emisfero sinistro: l’emisfero linguistico nella maggior parte degli umani. L’esposizione a una lingua parlata non sarebbe perciò indispensabile per lo sviluppo della specializzazione emisferica (cfr. Bellugi, Klima, 1983; 2001; Neville et al., 1998).

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mondo delle parole vocali, sarò sempre un bambino senza speranza perché non accettato nella mia identità (1996: 15).

La mia intelligenza è emarginata, non per il fatto che mi verrebbe insegnata la lingua dei segni, ma per il semplice motivo di non essere mai stato esposto […] ad essa sin dalla prima infanzia (1996: 40). […] Era sbalorditivo com’io fossi in grado di parlare con questa lingua di segni, che veniva dalla nostra vista, senza che tale lingua mi fosse insegnata dalla logopedisa. Mi pareva di assistere a un miracolo, ad una nuova via per trasmettere ciò che avevo nella ente e nel cuore (ibidem: 49).

«Eppure, in nome di un mal riposto senso dell’integra-zione, ancora oggi continuiamo a pretendere dai sordi che essi non siano muti, che essi siano come noi, che essi siano come vorremmo che fossero e come li abbiamo convinti che debbano essere: degli automi parlanti. Continuiamo, cioè, a pretendere che essi si sottopongano a una rieducazione solo orale, che essi passino anni in uno studio logopedico a produrre suoni che mai potranno dare vita a una lingua» (Chiricò, 2014: 18). Rispettare le persone sorde per quello che sono, comprenderle nel loro ‘essere’ sorde, evitando di renderle quanto più possibile simili a noi udenti, è un gesto di civiltà e di integrazione vera e autentica: la strada migliore per ‘ascoltarli’. Riconoscere il loro diritto di avere la ‘loro’ lingua, quella dei segni, come prima lingua e di accedervi precocemente non significa peraltro, come spesso si crede, negare l’importanza dell’apprendimento della lingua verbale (labiolettura, abilità di lettura e di scrittura, e oralizzazione ove possibile), essenziale per accedere pienamente all’istru-zione e per integrarsi con la maggioranza udente. Significa bensì garantire la libertà di espressione e di accesso alle co-noscenze attraverso la modalità più congeniale ai sordi, sen-za alcun ritardo e percorrendo la via per loro più agevole.

La mia vera cultura – scrive Emmanuelle Laborit – è la lingua dei segni. […] Il segno, questa danza delle parole nel-lo spazio, è la mia sensibilità, la mia poesia, il mio intimo, il mio stile vero. […] Mi servo della lingua degli udenti, la mia seconda lingua, per esprimere la mia assoluta certezza che la lingua dei segni è la nostra prima lingua, la nostra, quella che ci consente di essere esseri umani ‘comunicativi’ (1994: 10-11).

Prima ancora di essere espressione della comunità e della cultura sorda, la lingua dei segni «è un bisogno dell’animo» (Regolo, 2001: 93), una realtà visiva che i sordi hanno in-cisa dentro, un modo di essere che incarna la loro peculiare forma di rappresentazione della realtà esterna e interna: una realtà fatta prevalentemente di immagini e di rappresentazio-ni visive. Dar ‘voce’ ai sordi, ascoltando la loro esperienza, il modo in cui vivono questa particolare forma di esistenza, può dunque fornirci uno strumento sicuramente più efficace per aiutarli a vivere questa condizione nel modo per loro più naturale, sconfiggendo nel contempo quell’ignoranza che

dare incontro una persona che non abbia mai acquisito il linguaggio o che ne sia stata esposta troppo tardi, rendendo evidente che se un bambino non è immerso precocemente in un contesto sociale e linguistico, un contesto cioè di relazioni interpersonali, entro l’età critica, non riuscirà – anche se si sottoporrà a un intenso programma di rieducazione succes-sivamente – ad acquisire una serie di abilità cognitive, e il suo linguaggio rimarrà sempre carente, specialmente negli aspetti morfologici e sintattici. Ciò vuol dire altresì che l’e-sperienza linguistica può modificare in modo considerevole lo sviluppo cerebrale: se è deficitaria può causare infatti un ritardo nella maturazione del cervello, impedendo il norma-le sviluppo dell’emisfero sinistro (l’emisfero del linguaggio nella stragrande maggioranza degli umani) e un’adeguata specializzazione emisferica.

Un altro pregiudizio tende a credere che i sordi siano per-sone ottuse o poco dotate intellettivamente: ne è la prova il fatto che ancora oggi molti insegnanti si stupiscano che il loro alunno sordo sia intelligente. Quest’equivoco nasce dal-la convinzione che essere privi della parola significhi essere privi di una mente che ragiona: non a caso il termine ingle-se dumb (‘muto’) sta a indicare, oltre a chi non può parlare perché affetto da mutismo, anche una persona stupida o in-tellettualmente torpida. Il sordo di fatto non ha né un ritardo cognitivo, né un danno neurologico, ma solo un deficit senso-riale, che tuttavia, se non viene affrontato tempestivamente e con competenza, può avere conseguenze profondamente gravi sullo sviluppo dell’individuo, rallentando e/o com-promettendo irreversibilmente i processi di acquisizione del linguaggio, i processi di apprendimento e lo sviluppo psico-sociale. Solo in questo caso si può parlare di un ritardo co-gnitivo ed emotivo.

“Non capisco proprio che cosa succeda – diceva la mam-ma rivolgendosi a Renato Pigliacampo, all’uscita da un con-trollo dall’audiometrista –: quando ti parlo capisci tutto”, aveva detto perplessa. “E adesso risulti del tutto sordo!”. “Vero mamma” le avevo risposto, “ti capisco perché sono intelligente, io! …” (1996: 24-25).

Se la sordità compromette l’acquisizione spontanea delle lingue verbali lasciando inalterata la facoltà di sviluppare la competenza linguistica nella modalità visivo-gestuale, a condizione di essere esposti precocemente alla lingua dei se-gni (come dimostrano peraltro le ricerche psicolinguistiche condotte su bambini sordi figli di sordi; cfr. gli studi citati in Nicolai, 2003: 81-87; Caselli et al. 2006: 163 ss.), perché allora negare ai sordi la possibilità (che è poi anche un diritto sancito dalla nostra Costituzione) di acquisire la lingua che incarna più naturalmente il loro istinto linguistico? Sarebbe, del resto – e lo è stato – come negare la loro identità, la mo-dalità ‘altra’ della loro esistenza:

Se non accetterai il mio silenzio io resterò solo – scrive Re-nato Pigliacampo, ormai adulto, rivolgendosi a quella che era stata la sua logopedista – perché, anche se mi conducessi nel

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rende gli udenti ‘sordi’ alle esigenze di chi è realmente ta-gliato fuori da un mondo fatto per i parlanti:

La lingua – ogni lingua – deve generare, in chi la apprende e in chi la utilizza, gioia. Ho detto tante volte che la lingua vocale non è mia. Adottando il modo di comunicare della gente che ode, mi accorgo che non sono io. E invece volevo essere io con la mia parola di segni, col mio linguaggio di tutto il corpo (Pigliacampo, 1996: 50).

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LA “MAFIA”, UN FATTORE CULTURALE

La semplificazione del giornalismo porta a riassumere in-numerevoli organizzazioni criminali all’interno della parola “mafia”; tale termine esprime una tipica struttura gerarchi-ca che cerca di trarre profitto attraverso il monopolio della violenza attraverso attività non contemplate e accettate della Stato1. Qualsiasi impresa è retta da una configurazione cul-turale che permea la mission aziendale motivando il perso-nale e garantendo attività piena ed esercizio delle funzioni. Asserire che un gruppo criminale è strettamente connesso a

1 D. Breschi, R. Chinnici, A. Di Pasquale, G. Galante, M. Ganci, S. Lipari, G. Lo Cascio, U. Marchetta, A. Sorgi, L’immaginario mafioso. La rappresentazione sociale della mafia, Edizioni Dedalo spa, Bari, 1986.

INTRODUZIONE

Obiettivo di tale lavoro è indaga-re i modelli di rappresentazione finzionale dell’organizzazione criminale nel contesto del cinema di consumo. Tale testo cerca di

evidenziare la messa in scena di determinati topoi narrativi appartenenti all’universo fenomenologi-co della crescita spirituale e materiale dei contesti criminali. Elementi diegetici quali l’iniziazione, la famiglia, la prova di sangue e il legame fraterno si configurano come norme valoriali appartenenti a una costituzione di percorso illegale nelle fondamenta immaginali del gangster-movie. Primo passaggio fondamentale è evidenziare come le organizzazioni criminale siano legittimate da una cultura orizzonta-le appartenente a determinate situazioni territoriali dove la consuetudine vive e vince sulla legalità e sulle regole. Secondo passaggio è interrogare l’in-dustria cinematografica italiana cercando di rintrac-ciare determinate opere che mostrano una narrazione tipica del gangster-movie attinente a un modello di riferimento universale: Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola. Og-getto d’indagine è rilevare il viaggio dell’antieroe criminale nell’universo immaginario delle organizzazioni anti-stato costatando come tale narrazione crei un legame immaginale tra il mondo intellegibile cui il racconto è diretto e l’universo immaginifico appartenente alla collettività italiana. I topoi narrativi che saranno evidenziati nel corso della rassegna si configurano come ipotesi di ricerca che saranno applicate in determinati casi di studio: Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola, Scarface (1983) di Brian de Palma, Romanzo Criminale (2005) di Michele Placido e Gomorra (2008) di Matteo Garrone. La situazione di ricerca è la messa in scena cinematografica intesa come costruzione di modelli di rap-presentazione attraverso il medium Cinema.

Storie criminali: modelli di narrazione del Gangster-movie ALBERTO SMALDONE

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espressione5. Nel tentativo di stereo tipizzare “lo spirito cri-minale”, il cinema tende a raccontare la scalata di un singo-lo individuo che motivato da elementi differenti (ricchezza, famiglia, onore) arriva all’apice del successo criminale per poi decadere ed estinguersi. Il genere filmico del Gangster-movie nasce negli anni ‘30 del XX secolo negli USA, quando il cinema certifica la propria natura di macchina che racconta storie, valorizzando il polo narrativo e creando un sistema industriale di produzione e distribuzione seriale di contenuti culturali. In questo contesto vengono prodotti alcuni capo-lavori del genere come Scarface-lo sfregiato (1932) e altri. Tali opere però trovano dei freni inibitori nella stesura del codice Hayes, il cui obiettivo era eliminare determinate rap-presentazione che potessero turbare lo spettatore come mor-te, sesso, omosessualità e criminalità. Il gangster movie trova il suo successo nel cinema moderno e d’autore degli anni ’70 con opere memorabili come Il Padrino, Mean Streets, il remake di Scarface di De Palma, Gli Intoccabili e Quei bra-vi ragazzi. Senza freni di natura legale, la rappresentazione cinematografica può raccontare la tragicità del percorso cri-minale coltivando temi importanti come la famiglia, l’onore ma anche la disillusione e la distruzione individuale connes-sa al potere. In Italia il genere riscontra successo soprattut-to grazie a Romanzo Criminale(2005) di Michele Placido e Gomorra(2008) di Matteo Garrone. Il genere del Gangster-movie ruota attorno a determinati topoi narrativi: il legame di sangue, l’iniziazione, la scalata, la caduta.

- il legame di sangue, vuole evidenziare il rapporto natu-rale, simbiotico e omeostatico tra l’antieroe protagonista e la famiglia di riferimento per la quale egli opera

- l’iniziazione, è la prova fondamentale che l’antieroe deve affrontare per essere accettato dalla famiglia e introiettare lo “spirito di mafia”

- la scalata, indica il successo dell’antieroe nel mondo cri-minale che regala ricchezza e profitti.

- la caduta, è elemento diegetico portante della tragicità del racconto poiché il protagonista sviluppa un percorso for-mativo di Hamartia, sfidando la nemesis e cadendo per aver messo in discussione l’autorità statale.

Tali tipi universali di scrittura evidenziano i canoni narrati-vi fondamentali del G-movie funzionali nel raccontare storie di criminalità ma non si configurano come una tassonomia da applicare in maniera maniacale, basti pensare a Gomorra.

UN MODELLO DI RIFERIMENTO

“Il Padrino”(1972) di Francis Ford Coppola è sicuramente un modello di riferimento universale per qualsiasi opera di rappresentazione delle organizzazioni criminali. Tale pelli-cola è diventata nel tempo opera di culto, sia per chi volesse cimentarsi con produzioni culturali similari nel concettua-lizzare lo spirito criminale, sia per le innumerevoli citazioni nella cultura popolare da parte di scrittori e per l’affetto dei

5 S. Bernardi , L’avventura del cinematografo, storia di un’arte e di un linguaggio. Marsilio, Venezia,2007

un sistema valoriale non è eresia o fantapolitica ma si cerca di interrogare il rapporto tra fine e mezzo che trova valore ermeneutico nello stretto legame con la terra di appartenenza e la famiglia. Ritornando alla parola “mafia”, essa nel dialet-to toscano significa “miseria”, uno stato di povertà assoluta; nella Sicilia il termine era adoperato per dipingere ragazze dalla forte sensualità e dalla bellezza accecante2. Da tale si-gnificante è possibile creare un primo legame d’identifica-zione connesso con l’adorazione di tale attività. La “mafia” si configura storicamente come un sistema di consorteria, in altre parole la consorte svolge un’attività funzionale al be-nessere collettivo. Grandi mafiosi erano grandi latifondisti che consentivano a persone umili e non altamente alfabetiz-zate, di lavorare la propria terra e ricavarne un salario. Inol-tre, il proprietario dei latifondi doveva essere sempre apprez-zato e ringraziato, soprattutto nei giorni di festa, con doni derivanti dalla produzione agricola quotidiana: i cosiddetti complimenti3. L’elemento valoriale fondamentale è riscon-trabile nel torto che aveva come destinatario il latifondista; l’elemento risanatore non consisteva nel ricorrere all’autorità dello Stato, alla chiamata alla Polizia, ma nel comportarsi da uomo d’onore e risolvere il problema con il tributo del sangue. La mafia è un fattore culturale nel momento in cui essa è sedimentata e rinvigorita dal codice d’onore, dal dise-gno immaginifico dell’uomo d’onore che deve farsi giustizia personale ed essere etichettato come “senza attributi” nel ri-volgersi all’autorità legale. Lo spargimento di sangue è ele-mento di giustizia tribale, appartenente alla terra come fonte di ricchezza. Altro fattore culturale importante è la famiglia e il successo orizzontale; secondo Putnam esistono due tipi di acquisizione culturale: orizzontale e verticale4. Le fami-glie dell’Italia meridionale presentano una convenzionaliz-zazione culturale orizzontale. Cioè il successo del singolo è funzionale al progredire della famiglia, i guadagni personali sono inseriti nella rendita collettiva per il bene del gruppo d’origine; anche un figlio che studia al di fuori del contesto di appartenenza, una volta terminato il percorso formativo, ha l’obbligo morale di tornare alla fonte e far aumentare i profit-ti dell’azienda di famiglia. Tale praticità culturale evidenzia lo “spirito di mafia”, una tensione constante dell’identità del singolo di trovare valore nel gruppo familiare e nel contesto di appartenenza. L’industria cinematografica come riesce a sintetizzare in una messa in scena narrativa tale spiritualità?

IL GANGSTER-MOVIE

Il cinema è paragonabile a un palazzo retto da due pilasti fondamentali: attrazione e narrazione. Nel percorso diacro-nico della settima arte, tali tendenze s’incrociano, separano, aspirano all’indipendenza, decretano lo statuto di una for-ma d’arte che cambia, nel tempo, tecnologia e modalità di

2 S. Di Piazza, Mafia, linguaggio ed identità, Studio e ricerca, Pio La Torre, 2010.3 Ibidem4 H. Putnam, Rappresentazione e realtà, Garzanti, Milano, 1993.

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un’industria culturale che produce modelli di rappresenta-zione differenti tesi a diventare fenomeni di costume tramite la riappropriazione del gusto nella realtà quotidiana. Basti pensare a Roberto Saviano che in Gomorra descrive l’abbi-gliamento e l’arredamento dei Boss della camorra derivanti dalla pellicola di Scarface, evidenziando come il camorrista diventi una rappresentazione divina dell’uomo che ostenta la superiorità di spirito mediante l’abbigliamento e beni di con-sumo solleticando l’invidia e l’ammirazione dei giovani e de-gli uomini comuni. Altro tema fondamentale che guida l’in-tera narrazione e lo stato di disillusione connesso al denaro e al successo. Tony Montana è una superstar del mondo cri-minale; proprio come un divo egli è consumato dal successo, lasciato nella penombra della propria ricchezza da solo, dro-gato e triste nella speranza che la morte bussi alla porta. Con Scarface De Palma racconta la ferita che nasce e si cicatrizza all’interno della società americana, narra di gangster che di-ventano nuovi idoli per i consumatori e il cambiamento di prospettiva del sogno americano nel raggiungere il successo a colpi di pistola e non attraverso la fatica. Dal punto di vista dell’enunciazione testuale, anche Scarface presenta criteri di affabulazione standard descritti in precedenza, anche se con notevoli differenze rispetto al Padrino. Il legame di san-gue è in riferimento alla comunità cubana con la quale Tony Montana arriva a Miami e all’amico fraterno “Manny” che lo accompagnerà dentro il tunnel più buio del suo percorso criminale; anche la famiglia biologica è presente nel raccon-to ma Tony incontra la resistenza della madre nel respingere il figlio, perché corrotto e criminale, e le attenzione della so-rella Gina dedita a fuggire dallo stile di vita conservatore e protettivo della madre svelando le preoccupazioni morbose e paranoiche di Tony. Il rito d’iniziazione è diviso in due fasi: la prima fase è ambientata nel campo di raccoglimento dei profughi dove Tony uccide per commissione un politico importante connesso a Castro. Tale atto è funzionale nella liberazione di Tony e del gruppo di appartenenza attraver-so documenti ufficiali e la conseguente entrata nella società americana. La seconda fase d’iniziazione è una missione af-fidata a Tony e al proprio gruppo riguardante una transazione di coca con i colombiani; la missione si rivelerà una trappola ma Tony riuscirà a cavarsela ed entrare nella famiglia cri-minale di Frank Lopez; tale atto è propedeutico alla costru-zione del gangster sia come etica che come estetica, ovvero nell’atto di esecuzione e nel portamento esteriore. La scalata avviene con un elemento diegetico importante: ovvero l’eli-minazione di Frank Lopez e del commissario di polizia e la presa del potere di Tony. Egli compie un ammutinamento al gran capo nel momento in cui Frank decide di assassinare Tony perché risulta essere troppo eccentrico e dannoso per gli affari. Con la presa del trono, Tony instaura un legame economico con Alejandro Sosa diventando uno dei boss più importanti di Miami. La caduta, infine, è uno spazio narrati-vo importante che presenta due facce della stessa medaglia: la salvezza e l’annientamento fisico. Parlare di salvezza non è ossimorico in Scarface, perché Tony Montana decreta la propria morte nel momento in cui egli rifiuta di assassinare

gruppi di fan che si sono sviluppati attorno a tale racconto. Il Padrino è struttura predominante dell’enunciazione del cri-mine e, il testo, trova il realizzarsi della stereotipizzazione dei topoi descritti in precedenza. Innanzitutto, il legame di sangue è elemento diegetico portante della narrazione, per-ché i racconti intrecciati dei membri della famiglia Corleone trovano un punto d’intersezione nello spazio affettivo e me-taforico della famiglia. Essa è la fattoria dentro cui lavorare e portar profitto e , allo stesso tempo, il focolare domestico dove re-incontrarsi e trovare ristoro. L’iniziazione è il climax della narrazione; essa distribuisce il ruolo del protagonista all’interno dei membri della famiglia, ovvero identificando in Michael Corleone l’erede e l’eroe destinato a raccoglie-re il trono del padre. Il personaggio di Michael è introdotto come un alone di positività all’interno di un sistema corrotto, in quanto egli si allontana dalla vita illegale dei Corleone scegliendo l’onore e la gloria di una vita militare al servi-zio dello Stato. Solo che, nel momento di perturbazione e pericolo (l’attentato alla vita di Don Vito, il padre), egli è richiamato nella famiglia e sceglie di compiere una missione di vendetta che si configura come il rito iniziatico per entrare nella famiglia. Il protocollo spartano della famiglia Corleone si compie nel momento in cui Michael (Mike, chiamato af-fettuosamente dai familiari) uccide a sangue freddo il bosso di una famiglia importante (Sollozzo) e il capitano della po-lizia, referente del legame tra Stato e anti-Stato. Tale evento provocherà l’allontanamento di Mike e il ribaltamento della funzione segnica del personaggio che accetterà il lato oscu-ro della famiglia verso la quale adempiere. Egli prenderà il posto del padre defunto a capo dell’organizzazione dove ini-zierà la scalata criminale al vertice della mafia a New York City. Il tema della scalata evidenzia la presa di posizione di Mike nel volere immettere un regime di monopolio econo-mico eliminando i concorrenti; per questo egli ordinerà di fare piazza pulita eliminando coloro che avevano instaurato rapporti negoziabili con la precedente guida della famiglia. Infine, la caduta non riguarda la perdita della vita di Mike ma l’allontanamento della moglie e della “sua” famiglia tesa ad abbandonare il trono di cadaveri che Mike ha costruito per la ricchezza del proprio gruppo e la memoria del padre. Il film nel finale presenta il contrasto tra due tipi di famiglia: en-trambi microcosmi appartenenti a elementi esistenziali dif-ferenti, la prima evidenzia il rapporto di sangue di Mike, la tribù di appartenenza da onorare, la seconda è la famiglia che si è costruito in vita ma non più importante della tradizione, della memoria collettiva da santificare.

LA CICATRICE DI UNA SOCIETÀ

Altra rappresentazione finzionale della criminalità e del mondo interpretante dell’illegalità è certamente Scarface (1982) remake di Brian De Palma. Tale pellicola presenta due temi importanti: il divismo del gangster e la disillusione della ricchezza. Il primo elemento vuole evidenziare come il criminale diventa un fenomeno di consumo per le masse; proprio come il divismo cinematografico: l’illegalità diventa

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è elemento portante della narrazione, in quanto i protagonisti da bambini emettono un patto tra loro nel momento in cui uno dei membri viene ferito ad una gamba. Nasce l’epopea de “Il Libano”, “Il Freddo”, “Il Dandi” e “Il Grana” in fun-zione della famiglia, un gruppo di bambini alla ricerca del successo. Nel legame di sangue è insita anche l’iniziazio-ne, dove metafora diegetica diventa la ferita alla gamba del “Libano” che si configura come un biglietto da timbrare per l’ascesa nella criminalità. Il legame è elemento importante e funzionale nella diramazione degli atti criminali, non sarà mai scalfito nel tempo, solo un membro della banda, “Il Fred-do”, cercherà di redimersi mediante l’incontro con Roberta ma tale atto risulterà invano perché il patto d’infanzia equi-vale ad un contratto Faustiano che non può essere sciolto. La scalata avviene nel momento in cui i ragazzi decidono di reinventarsi nel mercato in forma monopolista eliminan-do i competitor e stringendo alleanze con Cosa Nostra, ot-tenendo protezione da “gli uomini dello Stato” in funzione di determinate missioni ufficiose da parte della Nazione. La caduta si manifesta in due atti: l’eliminazione del “Libano” e l’incarcerazione del resto della banda. Il primo atto vede la soppressione della mente della banda per un debito di gio-co non onorato; l’elemento tribale supera il patto d’onore di spirito di criminalità e tutto ciò evidenzia come la banda sia un gruppo di scalmanati alla ricerca ossessionata del potere dove le pulsioni e l’istinto vincono sulla ragione e l’organiz-

un politico di prestigio (teso ad annientare l’impero econo-mico del socio Sosa) perché la morte avrebbe avvolto anche un bambino, figlio del politico. Tony decide di lasciarlo in vita preservando il bambino metafora dell’ innocenza di una Nazione. Tal evento però è funzionale nell’adempiere all’an-nientamento fisico del protagonista il cui corpo da Divo inat-taccabile diventa un bersaglio ricoperto da proiettili. L’unico atto benevolo e positivo di un personaggio negativo porta alla distruzione del suo impero.

IL CASO ITALIANO : ROMANZO CRIMINALE

Romanzo Criminale (2005) è la trasposizione cinemato-grafica dell’omonimo romanzo a cura di Michele Placido. La storia racconta i meccanismi d’infatuazione di una banda tri-bale di Roma verso il potere sacro, entità metafisica asimme-trica divenuta il vello d’oro dell’intera narrazione. La diegesi ruota attorno al potere inserito in un contesto Italiano che sto-ricamente attraversa momenti che segnano una forte cicatri-ce nella memoria italiana, come il caso Aldo Moro e la strage di Bologna, In questo contesto il potere esplode nelle sua radicalizzazione e viene inseguito da una banda di ragazzi che, giocando con il fuoco finiscono per bruciarsi. L’affabu-lazione standard è presente in tale racconto che evidenzia la psicologia dei personaggi appartenenti alla banda ricercando un equilibrio omeostatico con il potere. Il legame di sangue

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sto solo per il peccato universale che si materializza nella quotidianità degli eventi.

CONCLUSIONI

Il gangster movie si configura come in filone narrativo del-la fiction molto importante ed invita a riflettere sulla crimi-nalità nelle sue fasi e modalità. Il problema di tale messa in scena del crimine è il presupposto d’identificazione. Molte malelingue evidenziano come il malessere di tale racconto sia la presa di posizione del killer di turno suscitando ammi-razione e attrazione. Gli integrati possono rispondere attra-verso il meccanismo della sospensione dell’incredulità ov-vero il lasciarsi trasportare dal racconto e scindere la dimen-sione individuale- intellegibile con la sfera re-intepretativa finzionale della storia, tralasciando l’identificazione solo nel testo narrativo e mai al di là del testo. Tale pratica di visione richiede competenza di discernimento che s’insegna median-te un’educazione ai media da intraprendere nel percorso di formazione scolastica dove insegnare educazione alla comu-nicazione a scuola non sarebbe niente di sbagliato. Pertanto è opportuno osservare l’evoluzione del racconto criminale anche nel fenomeno della serializzazione televisiva per svi-luppare una discussione e argomentazione su un fenomeno importante e dannoso cercando anche lo spiraglio per ipote-tiche soluzioni per riaccendere la speranza.

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zazione. Dopo l’eliminazione de “Il Libano” la banda inizie-rà a perdere la bussola, il non riuscire più a individuare un leader porterà al sacrificio della banda nel contesto economi-co globale. Il secondo atto evidenzia la carcerazione del re-sto dei membri attraverso “Il Sorcio” diventato collaboratore di giustizia che riuscirà a fermare e incarcerare “Il Freddo”. Quest’ultimo decide di confessare dopo la morte dell’amata per mano della giustizia tribale dei clan scatenando un rego-lamento di conti interno; discrasie intestine che porteranno alla morte anche “Il Dandi” per mano di un criminale asseta-to di vendetta. Il film evidenzia come in un contesto italiano dove il potere è frammentato e serializzato attraverso gruppi più disparati tra Stato e Anti-stato, un gruppo di ragazzi tenta di rincorrere una fetta di quel potere pagando un prezzo al-tissimo perché i frammenti tendono a ricongiungersi alla fine in un unico puzzle.

“GOMORRA”: AL DI FUORI DAGLI STANDARD

I topoi narrativi descritti in precedenza compongono un format, modello standard di narrazione riscontrabile in sto-rie di criminali per un pubblico mainstream. Tale habitus non vuole essere una formula da applicare meticolosamen-te per il genere finzionale del gangster movie, ma la fiction nella sua natura di costante ermeneutica è in grado di ricon-tenstualizzare ed interpretare fenomeni differenti secondo modalità di racconto non del tutto omogenee. E’ il caso di Gomorra (2008) film di Matteo Garrone, trasposizione ci-nematografica dell’inchiesta di Roberto Saviano. Gomorra non è un classico racconto manicheo di bene vs male, di personaggi che rincorrono un potere, della dissoluzione di uno spazio per mano di una minaccia maggiore. Gomorra presenta storie di una Storia; ovvero la camorra è elemento archi testuale che fa da contesto ad innumerevoli personaggi che vivono quel determinato luogo. L’approccio di Gomor-ra è etologista e Darwiniano. Nel primo caso, Garrone e Sa-viano sviluppano un modello di osservazione dell’etologia; studiare gli animali nell’ambiente naturale e primordiale. Cosi come un leone abita una savana, un camorrista vive ed esercita influenza in un territorio dominato dal consenso puro verso le consuetudini dell’antistato. All’osservazione dell’etologia si associa il modello della selezione natura-le di Darwin; dove sopravvive chi riesce ad adattarsi a un determinato luogo e creare determinate condizioni affinché si possa rimanere a lungo. Ecco che i bambini imparano da subito linguaggio e modalità di uccisioni, il giocattolo fondamentale diventa la pistola e l’atto di socializzazione e identificazione al gruppo di gioco è “u piezz” (“l’omici-dio” tradotto dal dialetto all’italiano). La messa in scena di Gomorra è un’osservazione globale di un contesto che si configura come un girone dell’inferno, Scampia, che presen-ta i personaggi che abitano in quel posto e le tradizioni ed abitudini che sono esercitate. Garrone è Virgilio che prende lo spettatore Dante per accompagnarlo in un percorso di de-cadimento morale, concettuale e fisico-materiale. Gomorra non emette salvezza, non c’è spazio per la speranza, c’è po-

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Saperi e sapori d’altrove: le scrittrici (si) raccontano SILVIA CAMILOTTIIULM - Libera Università di Lingue e Comunicazione

un modo per «abbattere muri di incomprensione» (11), per riscoprire la propria infanzia, per contrastare stereotipi, per sperimentare mescolanze. Ma non solo. Infatti il cibo diven-ta anche il motivo per riflettere su una vasta molteplicità di tematiche: dalla guerra in Jugoslavia nel racconto di Božidar Stanišić (“La coccinella di Omero”), al tema della morte nel testo di Clementina Sandra Ammendola (“Il Mao è morto”), alle difficoltà di una donna nell’abbandonare il proprio pae-se per andare in Italia a fare lavoro di cura nel testo di Mihai Mircea Butcovan (“Di sarmale, involtini, amiche e brassi-ca”), alla distanza che si crea con la propria famiglia dopo un distacco ventennale (“Il caffè” di Tahar Lamri). In questi racconti il cibo diventa anche una strategia per raccontare vicende legate alla storia di persone di differenti parti del mondo, che sono poi quelle di provenienza degli immigrati. Ciò permette ai lettori italiani di aprire delle finestre su sto-rie a rischio di oblio, la cui ricostruzione aiuta a comprende-re le ragioni che hanno spinto milioni di persone a lasciare le loro terre e a stabilire di conseguenza una maggiore empatia nei loro confronti. In Mondopentola, tematiche “serie”, per così dire, sono controbilanciate, in un vero e proprio equi-librio di sapori, da note vivaci ed allegre, dai profumi dei cibi che vengono preparati e gustati nei racconti, dal senso di comunità e appartenenza che la cucina ha la potenzialità di creare e che non si mostra nel suo lato più opprimente nei confronti delle donne, anzi. Il cibo diventa, al contrario, occasione per invitare ad una paritaria mescolanza, come l’apertura dell’antologia peraltro precisa:

«Amo le contaminazioni. Senza mescolanze non esiste-rebbe alcuna forma di vita perché non ci sarebbero né acqua da bere, né aria da respirare, né fuoco per scaldarci e cu-cinare. Tutti questi elementi sono nient’altro che abbracci tra atomi, una fratellanza tra sostanze diverse, la contami-nazione di elementi puri che da soli non riescono a dare for-ma all’essenziale, perché il miracolo della vita è dovuto al meticciato. Senza contaminazioni l’Italia non avrebbe il suo amatissimo piatto nazionale, gli spaghetti al pomodoro» (9)

Nella produzione letteraria, oramai ven-tennale, di autori immigrati in Italia da differenti paesi del mondo, le donne sono risultate sin da subito attive pro-tagoniste, contribuendo a sfatare molti

degli stereotipi gender- e race- oriented che solitamente emergono quando la sfera del femminile si intreccia con quella dell’immigrazione. Il tema culinario si presterebbe, a un primo sguardo, a rafforzare alcuni luoghi comuni che vedrebbero le donne, soprattutto straniere, schiacciate entro la sfera del domestico; tuttavia, nonostante questo piccolo contributo si soffermi sulla questione del cibo nelle opere di “autrici d’altrove,” l’obiettivo è sottolineare i tanti altri significati che si celano dietro alla scelta di raccontare sulla pagina scritta le proprie tradizioni alimentari: la presenza di questo tema consente infatti di sviluppare alcune riflessioni sul significato del cibo nella migrazione, esperienza che lo può trasformare in occasione di incontro e convivialità, in strumento per mantenere viva la memoria della propria ter-ra, ma anche possibilità di sperimentazione e mescolamento di tradizioni culinarie differenti. Il successo del ricettario ar-tusiano nel mondo, ad esempio, dimostra come gli emigranti italiani abbiano cercato di mantenere le proprie tradizioni culinarie altrove e processi affini si verificano anche con i migranti odierni in Italia. Come talvolta accade, un fenome-no di natura sociale (in tal caso le migrazioni e le abitudini che porta con sé) si riverbera anche in letteratura e proprio di questo daremo qualche esempio.

Laila Wadia, scrittrice di origini indiane che vive a Trieste da molti anni, ha riunito, sotto il segno della forchetta, rac-conti di autrici e autori immigrati in Italia da diverse parti del mondo in un’antologia dal titolo Mondopentola. L’idea che anche il cibo e la sua preparazione possano trasformar-si in momento di condivisione, in occasione di ricordo, in tentativo di sconfiggere il vuoto di sensazioni, odori e atmo-sfere appartenenti al passato di ciascuno attraversa l’intero testo. Nell’antologia leggiamo come il cibo possa diventare

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L’atteggiamento che mostriamo verso i cibi è indicatore del modo in cui pensiamo all’identità e alle differenze. Certi cibi si possono ergere a simboli di un’appartenenza e con-trapporli ad altri. Montanari, per citare un ulteriore esempio, fa riferimento allo “scontro” tra polenta e cous cous: ci si può arroccare dietro a questi cibi-simbolo, usandoli come armi, oppure “offrire e condividere”, intenderli come occa-sioni di reciproca conoscenza e integrazione.

Sul cibo come fattore costitutivo dell’identità, soprattutto in un contesto di migrazione, si sofferma anche una scrittrice italiana, Marinette Pendola, che vorrei citare perché autrice di opere legate all’esperienza degli italiani emigrati in Tuni-sia e alla cui cucina dedica ampio spazio, intesa come labo-ratorio di sperimentazione e di mescolamento di differenti tradizioni culinarie: «Interrogarsi sull’alimentazione degli italiani di Tunisia significa calarsi in una rete sottile di scam-bi e contaminazioni, ma anche cogliere il nucleo profondo che ne esprime l’identità assieme a tutti gli adattamenti che sono stati necessari per mantenerne la specificità. Ripensare agli italotunisini e alla loro collocazione nella società colo-niale permette di cogliere immediatamente il rapporto stret-tissimo con l’alimentazione come tratto caratterizzante. Di fatto, l’alimentazione connota gli italotunisini, in particolare i siciliani, più di qualsiasi altro tratto specifico, come potreb-be essere, ad esempio, la religione […] Considerare la pre-senza degli italiani in Tunisia da una prospettiva alimentare significa non soltanto fissare l’attenzione sugli adattamenti, sui cambiamenti e le specificità di una comunità, ma anche cogliere il rapporto fra cibo e contaminazioni, fra ciò che

che, come ci spiega lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari, è un piatto che rappresenta appieno gli intrecci della storia: la pasta lunga ha origini nel Medio Oriente ara-bo ed è arrivata in Europa nel Medioevo, mentre il pomo-doro arriva dall’America, connubio che si è trasformato nel piatto italiano più tipico.

Quello del cibo è un concetto fortemente legato anche al tema dell’identità: studiare la storia dell’alimentazione, così come la letteratura che ne parla, rappresenta una straordina-ria occasione per comprendere gli intrecci che sostanziano le società attuali e per mostrare come tradizione e identità non siano nozioni chiuse e immodificabili, ma nascano dall’in-contro e dal mescolamento. Il già citato storico Massimo Montanari mostra come il cibo sia spesso associato all’i-dentità, ma con connotazioni di chiusura, di conservazione, di difesa da presunte minacce esterne. Invece, è proprio la storia dell’alimentazione a insegnarci che «le tradizioni ali-mentari non restano mai uguali a se stesse, ma cambiano nel tempo, modificandosi al contatto con tradizioni diverse. Le identità, le tradizioni, si inventano, nel senso letterale della parola: si trovano, si costruiscono» (195). Un esempio già citato sono gli spaghetti al pomodoro, ma potremmo ag-giungere anche le patate fritte, la cui genesi smantella una visione chiusa e ferma di tradizione e identità: «Le patate fritte sono una perfetta metafora di ciò che accade nella sto-ria dell’alimentazione quando culture diverse si incontrano, si confrontano, si mescolano. Il prodotto è nuovo, viene da fuori e da lontano. Il modo di trattarlo è antico, ha radici profonde nella cultura “ospitante”» (58).

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e abbattere la diffidenza verso il “diverso”, come il raccon-to “Spaghetti allo scoglio,” ancora di Laila Wadia, presente nella raccolta Il burattinaio e altre storie extra-italiane, mo-stra. Una coppia, lui italiano e lei tibetana, invitano a cena la sorella di lui con il marito, con i quali non vi è un rapporto molto sereno. Visto il tradizionalismo dei due ospiti, il prota-gonista maschile vieta alla moglie di cucinare i “suoi” piatti, che non incontrerebbero il gusto dei due. Opta per un piatto unico di spaghetti allo scoglio che però, per errore, esce ter-ribilmente salato, praticamente immangiabile. La moglie ti-betana, allora, esasperata per la pessima riuscita della cena in cui avrebbe voluto cucinare le sue pietanze, si rifugia in cu-cina per mangiare i “suoi” ravioli, i momo: «“Cosa mangi?” Niente, una schifezza tibetana, risponde Ayjis con la bocca ancora piena. Ramona ammira la sottile sfoglia di pasta, ri-

è stato accolto, e ciò che è rimasto nella cucina locale a testimonianza di un’influenza molto più profonda di quanto potrebbe apparire di pri-mo acchito» (98).

Anche la protagonista indiana del racconto “La calandraca” di Laila Wadia, nella già citata antologia Mondopentola, attribuisce al cibo un profondo valore affettivo e identita-rio, quando afferma di essersi senti-ta meno sola proprio grazie al nego-zio triestino che vendeva i sapori di tante parti del mondo, compresa la sua: «Oggi è uno dei giorni più tristi da quando mi trovo a Trieste. No, non è morto nessuno. È successo di peggio: il negozio Gerbini ha chiu-so i battenti. Come posso spiegarvi cos’era per me questo negozio? Non una semplice bottega stretta e lun-ga straripante di alimenti esotici, in fondo a Via Battisti, non un salumi-ficio dove non ti sentivi mai rispon-dere “volentieri” (sinonimo triesti-no per “no, mi dispiace ma non ce l’abbiamo”), ma un luogo magico dove si poteva trovare di tutto, dal ricercatissimo jamon, prosciutto crudo iberico tagliato a mano, al ri-nomato formaggio di Pago, e anche un indirizzo sicuro per fare scorte di hatwa turco o sciroppo d’acero ca-nadese in cui affogare gustose pan-cakes. Era il mio rifugio. Il rifugio della mia anima quando essa veniva sopraffatta dal mal di patria, quan-do il mio corpo reclamava i sapori della mia India natia, quando le mie papille gustative imploravano una tregua dai carboidrati raffinati e da-gli oli extra vergini spremuti a freddo» (131).

La protagonista del racconto sottolinea anche la bellezza che i tanti cibi affiancati sugli scaffali del negozio trasmetto-no, invitando alla convivenza e alla mescolanza prive di ge-rarchie: «Solo in questo luogo ho visto pane azimut abbrac-ciare ceci palestinesi, sughi indiani non scostarsi dal vicino sugo pachistano, tapioca e manioca del terzo mondo stare in prima fila, sopra confezioni di cibi frankenstein made in Usa» (133).

Si tratta di una bella metafora che indica come l’alimen-tazione, con la sua storia passata di intrecci e scambi (non sempre pacifici) ci racconta, per voce di donna, il nostro pre-sente e anticipa un futuro che non potrà cancellare e ignorare le sempre più strette interconnessioni tra individui e società.

Il cibo è anche occasione per contrastare luoghi comuni

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di questa cena a cui siete calorosamente invitati da tredici scrittori dai quattro angoli della terra. Ognuno ha portato una pietanza per condividere sapori e saperi delle terre d’o-rigine, arricchendoli con gli ingredienti della nuova patria, condendo il tutto con la fantasia per provare che alla fine sia-mo tutti ingredienti indispensabili del grande piatto dell’u-manità» (11).

BIBLIOGRAFIA

Massimo Montanari, Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, Laterza, 2010

Marinette Pendola, Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Editoriale Umbra, 2007

Laila Wadia, Il burattinaio e altre storie extra-italiane, Cosmo Iannone editore, 2004

Laila Wadia, (a cura di) Mondopentola, Cosmo Iannone editore, 2007

esce ad intravedere il ripieno di carne e verdure. “Ne posso assaggiare una?” Avviso mia sorella che non le piaceranno. Sono gusti diversi, forti. L’autorizzo a sputare fuori il momo se non è di suo gradimento. Ramona imita Ayjis, mettendo in bocca un raviolo dopo l’altro in rapida successione senza fermarsi a deglutire. Poi si lecca le dita e esclama: “Ma che buoni! Mi devi dare la ricetta. Aldo! Vieni ad assaggiare una specialità tibetana”» (110).

Infine, sul filo dell’ironia scorre “Il matrimonio di Ravi”, racconto antologizzato ne Il burattinaio e altre storie extra-italiane, in cui la famiglia indiana, che si appresta a ricevere il figlio che arriva dall’Italia con la giovane moglie, pensa bene di eliminare tutti gli ingredienti indiani dalla cucina, per italianizzarla. La nuora però non risponderà alle aspettative della italiana tipo, ma esibirà la sua patente di indianità, an-che dal punto di vista culinario. Il racconto si sofferma sugli immaginari sia degli indiani nei confronti dell’Italia che vi-ceversa, svelando una serie di equivoci che hanno il pregio di far sorridere e soprattutto riflettere, ricorrendo anche al cibo come elemento rappresentativo delle rispettive culture e identità.

In conclusione, restiamo ancora nel segno della scrittrice indiana curatrice del volume Mondopentola, da cui traiamo il seguente passaggio chiarificatore del senso del suo testo e, più in generale, del cibo: «A me piace pensare che que-sto piatto ibrido non funga solo da balsamo anti-nostalgia, ma che contenga i germogli della voglia di creare un nuovo mondo in cui si possono mediare lo ieri e l’oggi per dare vita al domani. Ed è proprio questo l’intento di Mondopentola,

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Donne. E le parole per parlarne PATRIZIA TORRICELLI

Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne, Università degli Studi di Messina

viduale e collettivo che ne derivano – e che costitui-scono i cosiddetti valori in cui crediamo e dai quali ci facciamo quotidianamente condizionare l’esistenza trasformandoli in stereotipi di pensiero.

Vediamo, allora, di capi-re quale mentalità traspare dalla somma di parole con le cui immagini si declina oggi l’idea di un mondo femminile e qual è la loro storia, a ritroso nel tempo, poiché le nostre parole, prima di essere italiane erano latine - e indoeu-ropee prima ancora - e da queste ideologie storiche le nostre, moderne, sono nate e si sono sviluppate, cam-biandole o conservandole.

Femminicidio, usata a emblema di una tragica situazione dei nostri giorni – alla quale le cronache ci hanno tristemente abituato nonostante i numerosi appelli di civiltà - è parola dotta, coniata su l’it. femmina aggiunto al lat. caedo secondo una prassi derivativa usuale in italiano, sul modello di omi-cidio, uxoricidio e significa “uccisione di donne”. A dire il vero dovrebbe significare “uccisione di femmine”, ma l’ac-cezione sarebbe inesatta per il genere d’immagine mentale che femmina e donna, rispettivamente, richiamano oggi.

L’italiano femmina infatti è la continuazione del latino femina. In latino la parola evoca una qualità imprescindibile dell’essere femminile - che è il seno per l’allattamento - per-

Le parole con cui si parla delle cose sono importanti

per almeno due ragioni. La prima, è che esse rivelano la mentalità di chi ne parla. Quindi, ci avvertono che bi-sogna tener conto di ciò che dicono per conoscerla. La seconda è che, per la stessa ragione, ci ammoniscono di non prender troppo sul serio ciò che dicono, per-ché ogni mentalità è frutto di una cultura e la cultura è figlia solo degli uomini, del loro pensiero e della storia.

Parliamo della prima ra-gione d’importanza.

Le parole sono segni usati per comunicare. Esse assolvono questo compito usando una dinamica semiotica per la quale una serie di suoni – tecnicamente detta signi-ficante - provoca nella mente l’insorgenza di un’immagine del mondo esperito, detta idea, e racchiusa linguisticamente in quello che si chiama normalmente un significato. Perciò, le parole – opportunamente lette, usando le tecniche della linguistica - ci rivelano qual è l’idea delle cose riferite che i parlanti hanno in mente quando le usano per parlare del mondo in cui vivono.

La somma delle idee che si hanno in mente costituisce – schematizzando un po’ l’esposizione - quella che si chiama una mentalità: ossia, l’immagine del mondo che è nella te-sta di ognuno di noi, con le regole di comportamento indi-

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ché essa appartiene formalmente alla stessa serie lessicale di fecundus, detto di ciò che è ben nutrito, e di filius, il cui significato etimologico è “colui che viene allattato”. La stes-sa forma, nel gr. antico, aveva il significato di “nutrice” oltre a quello generico di essere femminile. Questo era l’aspetto della donna che risaltava, fra le immagini mentali suscitate dalla parola, sia per gli antichi Greci che per i Romani, quan-do parlavano della donna usando tale termine.

In italiano femmina e femminile hanno perso memoria les-sicale dell’antica idea di nutrimento al seno, ma conserva-no un’accezione legata al genere specifico opposto a quello maschile. La donna diventa femmina quando sono messi in risalto i suoi attributi di sesso. È questo l’ascendente imma-ginifico che determina le implicazioni sessuali di ogni genere – anche negative, come in certi ambiti religiosi medievali, per i conflitti della tentazione - poi assunte dalla parola in conformità alla rappresentazione ideale della sessualità, ma-schile e femminile, che si è sviluppata durante i secoli della nostra storia.

Il francese, per esempio, ha fatto del latino femina la sua parola per donna: femme, che non cela alcun pudore o reti-cenza espressiva nei confronti degli attributi femminili della donna rispetto all’uomo. Indice di un trascorso linguistico che ha seguito altri cammini culturali, oggi appena visibili nella parola, diventata un termine generico del francese comune.

Diversa la dimensione di donna. La sua forma linguistica ci mostra che essa è la versione italiana del lat. domina. La parola, in latino, è stata coniata prendendo spunto da domus che significa “casa”. L’immagine evocata è dunque quella della padrona di casa che affianca in veste femminile il do-minus maschile. La manzoniana Donna Prassede esemplifica perfettamente la continuazione di questa immaginazione di ruolo più che di persona. Nel tempo, naturalmente, la parola si è prestata ad altre accezioni complementari. Ma la sua ori-ginaria dimensione ideale è dimostrata dal fatto che deve, in questi casi, essere accompagnata da specifiche apposizioni: donna di servizio, donna di malaffare, donna di strada, pri-madonna.

Anche madonna (mea domina) fa trasparire, la stessa idea di rispetto, declinata nel senso di donna d’alta condizione, sia in versione laica – come le madonne fiorentine del Due-gento – che in versione religiosa, come Signora del cielo già nella stessa epoca.

Il francese madame ne è la versione in questa lingua. Così come rammenta una simile immagine di donna il greco an-tico damar che usa lo stesso etimo di “casa”, detta in gr. domos, per indicare la padrona della casa, in questo caso la sposa legittima rispetto alle concubine: ossia le donne che dividevano il letto del padrone, dal lat. cum-cubare. Le altre mogli, insomma, nell’accezione moderna di poligamia.

Moglie, è il termine per indicare la consorte di un uomo, la sua sposa. Figura femminile per eccellenza, evidentemen-te, se già in latino il termine mulier era l’appellativo stesso

per donna, così chiamata, appunto, genericamente; mentre la condizione sociale e legale della moglie era espressa da uxor parola che non ha continuato a esistere in italiano se non nei latinismi dotti: uxoricidio, o more uxorio.

Nel mondo ideale latino mulier è il contrario femminile di vir - che significa “uomo” - ma che non si è replicato in ita-liano se non nell’aggettivo virile con le stesse connotazioni d’immagine. Mentre uomo continua il latino homo il quale a sua volta continua l’i.e. *hom- che ha la stessa etimologia del lat. humus il cui significato è “terra”. Così, l’uomo è con-cepito, fin dalla cultura indoeuropea della preistoria, come “il terrestre” o “colui che sta sulla terra”. Un’idea forse primige-nia dell’uomo fra gli esseri viventi, se pensiamo al racconto biblico della creazione del mondo e dell’argilla con cui que-sto rappresentante della nostra specie è stato fatto.

Ma torniamo alla moglie e al latino mulier che la parola italiana ripete, implicandone le accezioni sessuali ma rele-gandole in un ambiente domestico e nella dimensione sociale della legalità. Scegliendo per la “moglie” la parola latina che indicava la donna in senso lato, l’italiano dimostra di aver in-consapevolmente obbedito a un dettato culturale storico che ha fatto della moglie la figura femminile più rappresentativa, la donna accreditata dalla nostra società, quindi la donna per definizione rispetto a ogni altra.

Compagna, oggi simbolo di un femminismo gratificante, era nel lat. tardo cum-panem, e si applicava a chi “condi-videva il pane” con qualcuno, accontentandosi di un poco, compensato forse dai sentimenti. Il pane non s’intravede più e sono rimasti sottintesi solo i sentimenti, nella parola mo-derna.

Sposa, coniuge, consorte sono termini meno consueti. Risentono della loro origine latina e della provenienza dal diritto romano. Sposa è la voce italiana di lat. sponsa che è sostantivo del verbo spondeo “impegnarsi, promettere”. Per i Romani la nostra sposa era piuttosto la fidanzata, la promessa sposa. Oggi, dalla parola traspare l’immagine di una donna nel periodo delle nozze.

Coniuge è, come il lat. coniux, sostantivo derivato dal ver-bo coniungo “congiungo” che ha dato forma linguistica all’i-dea di congiunto/i per parentela e coniuge per matrimonio.

Consorte viene dal lat. cum-sortem, che significava “colei che condivide lo stesso patrimonio” perché per i Romani fra la sorte e le risorse non c’era molta differenza.

Una curiosità: Etaira, cioè un’etera, era Aspasia per Pe-ricle nell’Atene del V secolo a.C. definita da una parola che è la variante al femminile di etairos, il cui significato era “compagno d’armi, amico”. Donna colta, influente, Aspasia esercitava una professione che nel mondo classico era prati-cata sia da ragazzi che da fanciulle e perfettamente tollerata. Perciò “compagna, amica” con termini perfettamente in linea con la visione del mondo che tale cultura possedeva. Equipa-rando la battaglia e l’amore, evidentemente, una coincidenza plausibile in una società, quella greca classica, che con la guerra si cimentava frequentemente.

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quando la sua immagine ha dovuto trovar posto nel sistema d’idee già posseduto dagli uomini che le hanno dato il nome.

I quali, per farlo coerentemente a tali idee – cioè per ri-spondere alla domanda: che cos’è - hanno dovuto pensare a quali di esse assomigliasse di più e hanno dovuto cercare il materiale linguistico per rappresentarla fra quello già im-piegato, e riusarlo, così che fosse più semplice riconoscere subito che cos’era la cosa nuova, dal loro punto di vista.

Ecco perché la cosiddetta etimologia – ricerca dell’origine delle parole, che abbiamo sommariamente esemplificato con i termini citati - ci racconta questo percorso di scoperta del-le cose da parte degli uomini restituendoci le tracce lasciate nella lingua.

Ma è solo una scoperta mentale, guidata e controllata dalle idee che già si possiedono, cioè dalla cultura che abbiamo appreso e della quale abbiamo imparato a condividere il pun-to di vista.

Dunque, tutti i significati, palesi o reconditi, sono idee che la nostra cultura ci ha messo in mente, e la loro realtà è solo apparente, perché è solo una realtà supposta essere tale da una cultura che la immagina in questa maniera, adottando il proprio punto di vista.

E arriviamo, così, alla seconda ragione d’importanza delle parole: il loro ammonimento a non prenderle troppo sul serio.

La mentalità è – lo abbiamo già detto - una serie d’idee, diventate reali per la mente umana e affidate alle parole: in-nocenti, queste ultime, rispetto alla realtà - di cui sono segni assolutamente arbitrari e inconsapevoli - colpevoli rispetto alla cultura.

Perché finché esistono e continuano a essere usate, rispet-tando esattamente le idee che le hanno autorizzate, continua-no a esercitare sui parlanti il loro potere coercitivo che ne condiziona i comportamenti mostrando loro immagini della realtà che sembrano vere, mentre non lo sono, probabilmen-te, nell’ontologia del mondo. Ma l’immaginario che evo-cano richiama una gamma di altre immagini complementari – con altre parole a loro sostegno – la cui pressione emotiva, se le parole sono vissute come una verità senza rimedio, può provocare derive individuali e sociali incontrollabili. Come, appunto, il femminicidio: l’uccisione della femminilità ses-sualmente implicita nell’idea di donna dotata di un seno, comunque tale idea sia vissuta nell’immaginario maschile e nella storia.

Occorre, allora, sapere esattamente che cosa sono le paro-le, per renderle innocue. Esse sono parvenze foniche d’idee che nascono solo dalla mente degli esseri umani e soltanto qui, nella loro mente, esistono. Figlie della storia, del pen-siero, della cultura. Perciò affidate all’intelligenza umana che della storia, del pensiero e della cultura è la sola artefice. E affidate al suo costante esercizio, in modo che ci possano in futuro parlare di un mondo sempre umanamente e cultu-ralmente migliore.

Signora, è oggi un termine che esprime deferenza gene-rica. La sua immagine mentale è quasi irriconoscibile nel-la moderna espressione di cortesia formale che la parola è diventata. All’origine, infatti, l’idea che veniva in mente ai parlanti era di una persona anziana cui si doveva rispetto per l’età e l’esperienza: senior “anziano” è il termine latino da cui deriva la forma al femminile seniora poi signora. Quali viaggi nella storia la parola abbia fatto per arrivare fino a noi carica di un’immagine così diversa – la Francia dei baroni medievali o la Spagna del Cinquecento con la sua opulenza verbale pre-barocca – poco conta qui. La signora di oggi è una donna di alta condizione sociale, educata e raffinata e, nello stesso tempo, è qualunque persona di genere femmini-le verso cui si voglia usare semplicemente un appellativo di cortesia, segno di buona educazione. Ogni altra connotazio-ne si è persa.

Curiosamente, il Senato della Repubblica, con i suoi limiti di età impliciti nell’etimologia della parola, derivata dal lat. Senior - così come il Senato Romano antico - oggi rispecchia ancora nel suo nome l’antica immagine che la parola signora sottintende per la sua origine. Ma presto l’idea resterà solo nella storia linguistica del termine, celata dietro una semplice etichetta.

Madre, è l’unica parola presente in tutte le lingue indo-europee rimasta immutata o quasi nella forma linguistica fin dalle più lontane origini. Testimonianza di una cultura che si perde nella preistoria dell’umanità per via d’un ruolo ge-netico insostituibile in natura, qualunque sia il posto che la società poi assegna alla figura della madre e qualunque sia l’immagine materna che ogni figlio ha concepito dentro di sé.

Donne, mogli, madonne, signore o femmine, le raffigu-razioni delle donne trasmesse dalle parole appartengono a un variegato universo d’immagini che le culture hanno elabora-to, nel corso della storia, sul loro essere - o meglio, sul loro apparire - siccome donne, nella società. Immagini che sono diventate le idee attraverso il cui filtro mentale ci accostiamo alla loro conoscenza. Idee che rappresentano, insieme alle parole da cui sono espresse, la nostra comune mentalità al riguardo.

Torniamo allora, brevemente al discorso d’inizio, per ri-flettere sulla mentalità e sulla lingua che la esprime con i significanti e i significati delle parole, aggiungendo, ora, solo un piccolo particolare.

Fra il significante e l’idea – quindi fra il significante e il significato che tale idea rappresenta - non c’è alcuna moti-vazione reciproca, nessun legame vero. Le parole che usia-mo per parlare del mondo reale non sono affatto imposte dal mondo reale di cui parlano.

La mela non si chiama così perché il suo colore è identico alla m, il suo sapore alla e, i suoi semi alla l e la polpa alla a o viceversa. Tant’è vero che gli inglesi chiamano lo stesso frutto apple, i francesi la chiamano pomme e i tedeschi apfel. La mela si chiama così solo perché così è stata denominata

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LETTERATURE | SCIENZE E RICERCHE • N. 6 • APRILE 2015 • SUPPLEMENTO 1

Cronache di uno strano amore: Gli americani e la bomba atomica nei Tranquillized Fifties ALESSANDRA CALANCHIDipartimento di Studi Internazionali: Storia, Lingue, Culture, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo

There are no longer problems of the spirit.

There is only the question: When will I be blown up?

(William Faulkner 1950)

Asked to nominate a worthy successor to Victor Frankenstein’s

macabre brainchild, what should we choose from our

contemporary inventory of terrors? The bomb? […]

(Theodore Roszak 1974)

The world before Hiroshima is a distant, black-and-white place, a

gone world

(Erik Davis 2014)

1. PREMESSA

E’ mia intenzione in questo articolo analizzare la costru-zione culturale e mediatica della paura della bomba atomica (e delle reazioni a tale paura) nel periodo che va all’incirca dal 1951 al 1964 – il periodo della beat generation, del mac-cartismo e della pop art – nei suoi vari aspetti e nelle sue varie tipologie, concentrandomi sui rapporti fra scienziati e potere, fra politica e media, e su alcuni casi particolarmente significativi: una poesia, una canzone, un cartone animato e un film. La tesi che intendo dimostrare è che si sia trattato non solo di un’operazione congiunta di scienza e politica, ma di una vasta e consapevole operazione mediatica e di mer-cato senza precedenti. La mia posizione si affianca a quel-la espressa da Margaret Henrikson, la quale sostiene che la bomba atomica abbia avuto un impatto rivoluzionario sulla cultura americana, condizionando tutti gli strati sociali e gli ambienti culturali, da Elvis Presley all’Accademia, e ren-dendo il popolo americano, negli anni del dopo-Hiroshima, “schizoide”. Per la maggioranza degli americani, infatti, la bomba “became the unifying symbol of American safety and consensus,” mentre per una crescente minoranza rappresen-tava “American insecurity, immorality, insanity, and rebel-

liousness” (Henrikson 1997: xxii). Intendo tuttavia distac-carmi lievemente dalla sua tesi che l’atomica abbia costituito la radice di un moral awakening che ha poi portato all’insor-gere dei movimenti di protesta degli anni ’60, e concentrarmi piuttosto sulle dinamiche mediatiche e culturali con cui si è creata la paura.

Nonostante “Fear of the bomb has, for many years, been an integral influence on our social consciousness” (Shapiro 2002: 13), è negli anni ’50 del secolo scorso che si concentra la punta massima di tale paura. Non è un caso che gli anni ’50 siano chiamati Tranquillized: non perché “tranquilli” ma, al contrario, proprio perché si rende necessario sopire le paure – vuoi mediante l’uso di psicofarmaci, vuoi attraverso la TV, vuoi grazie al “palliativo” della villetta suburbana e dell’automobile nel garage – in modo che esse vengano se-date, occultate, represse, e la paranoia che li caratterizza pos-sa essere, se non curata, ben nascosta. Nonostante la crescita e l’enfasi sul progresso, infatti,

The average family of the period could never be certain where pro-

gress would be taking them by decade’s end. Who really knew for

sure? They might find themselves driving down one of the new multi-

lane parkways in their atomic-powered sedan or cowering in some

suburban bomb shelter listening to the sirens’ last mournful wailings.

No wonder the psychiatric fraternity enjoyed a newfound prestige

during this period, and the pharmaceutical companies happily made

a fortune selling tranquilizers to an increasingly troubled populace.

(Davis 2014: xiv)

Basandomi sugli assunti formulati da Terry Heller, che ha analizzato acutamente gli effetti del racconto del terrore, desidero precisare che la paura è sempre generata dalla per-cezione di una minaccia considerata pericolosa per la vita. Nonostante Seneca (poeta, drammaturgo e politico romano) affermasse già nel I secolo d.C. che le nostre paure sono mol-to più numerose dei pericoli concreti che corriamo, essendo condizionate dall’immaginazione, una posizione condivisa

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alleati non sarebbero continuati in modo del tutto indolore, che la pace sarebbe durata poco, e che gli esperimenti atomi-ci sarebbero proseguiti. USA e URSS si suddivisero le zone di reciproca influenza, ma era una pace molto calda o, come venne chiamata, una guerra fredda; quando poi nel 1949 si seppe che anche l’URSS aveva l’atomica, il senso di sicu-rezza che il primato degli USA dava ai cittadini americani cominciò a vacillare, e il colpo di grazia fu dato nel 1957 con il lancio in orbita del primo satellite artificiale sovietico, lo Sputnik, che rendeva gli USA “vulnerable to attack by a foreign power and […] virtually powerless to prevent it” (Lipschutz 2001: 85).

La presenza di forme di paura (timore, terrore, panico) in tutta la storia della cultura angloamericana è palese. Fin dalle origini, la meraviglia degli europei di fronte al Nuovo Mon-do si è mescolata con timori e terrori di ogni genere, tanto che potremmo quasi tracciare una storia della paura e delle sue rappresentazioni che va dall’epoca coloniale fino all’or-rore postmoderno e post-umano dei morti viventi e dei canni-bali seriali che vediamo quotidianamente ri-medializzati nel-le serie televisive. Naturalmente le ragioni della paura sono cambiate nel corso del tempo e, ammesso che la paura possa essere definita una categoria estetica, essa è stata declinata diversamente a seconda del periodo storico, del genere, dello stile e naturalmente degli obiettivi.

Sul versante storico-politico, il Novecento è costellato fin dal livello lessicale dall’uso di fear e dei suoi sinonimi: non solo si apre all’insegna del Red Scare (che inizia subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre nel 1917) e si conclude all’insegna

dallo scrittore americano Henry James nel racconto “The Beast in the Jungle” (1903), la paura è sempre causata da un motivo che sarebbe opportuno individuare a livello sociale e politico ancor prima che psicologico: cosa che tentò di fare il presidente F. D. Roosevelt inserendo la “libertà dalla paura” nel suo celebre Four Freedoms Speech (1941): “freedom of speech, of worship, from want, and from fear”. Era il 6 gen-naio; un incipit d’anno costruttivo e ottimistico, che sarebbe naufragato a fine anno, con insolente simmetria (il 7 dicem-bre), con l’attacco giapponese a Pearl Harbor.

La paura legata a minacce più o meno definite e ricono-scibili ha assunto molte forme e identità nel corso del tempo, ma negli anni ’50 e nei primi anni ’60 la paura della Bomba – “il reale tecnologico che supera la fiction” (Proietti 2009: 274) – sovrasta tutte le altre, in quanto ha un nome preciso e un correlativo oggettivo razionalmente indiscutibile. Se nell’agosto del 1945, al termine della seconda guerra mon-diale, gli americani parevano essersi dimenticati di Pearl Harbor, erano euforici e ballavano per strada, convinti che il fatto di essere la maggiore potenza mondiale (sul piano sia politico, sia scientifico) li avrebbe preservati da guai fu-turi, già l’anno successivo il film The Beginning or the End (Norman Taurog) li metteva di fronte a un inquietante inter-rogativo esistenziale. Sui rapporti tra la politica e Hollywood e sull’intensificazione di tali rapporti dopo l’attacco a Pearl Harbor si rimanda a Slocum (2006), mentre Boyer sottolinea la funzione di Hollywood nel mantenere il bipolarismo so-ciale di paranoia e negazione (1985).

Anche nella realtà si comprese presto che i rapporti con gli

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su un aereo che si chiama “Enola Guy” in onore della madre del pilota (accompagnato da “The Great Artist” e da un terzo aereo deputato a fotografare e filmare l’evento, chiamato in seguito “Necessary Evil”). “Fat Man” invece viaggia su “Su-perfortress”. Il bambino e il ciccione causeranno la distruzio-ne pressoché totale delle due città e un numero di vittime che si aggirano sui 300.000 morti fra coloro che perdono subito la vita e quelli che muoiono per l’esposizione a radiazioni. Il fungo atomico che si alza dalle città è alto quasi 20 km.

Nessun nemico, mai, userà l’atomica contro gli Stati Uni-ti, nemmeno l’Unione Sovietica, nonostante tutta la guerra fredda si basi sulla paura che questo possa accadere. Nel frat-tempo gli americani effettuano diversi esperimenti nucleari, sia, fra il 1946 e il 1958, nell’atollo delle isole Bikini (oce-ano Pacifico), sia sul territorio nazionale, nel Nevada Test Center o Test Site, dove gli esperimenti continueranno fino all’alba del nuovo millennio. Fra le bombe sperimentate ci sono le famigerate bombe termonucleari (a idrogeno o bom-be H). Le prime sono molte grandi: la loro potenza è superio-re di 500 o anche 1000 volte la carica esplosiva della bomba sganciata su Hiroshima. Perfino Robert Oppenheimer, il loro creatore (direttore del Manhattan Project) non le riteneva ef-ficaci come armi da guerra, in quanto avrebbero fatto troppi morti fra i civili, e preferiva bombe più piccole. I suoi col-laboratori ne crearono quindi una quantità di altre tipologie, che furono testate in vari stati fra cui il Nevada e lo Utah. La portata complessiva degli armamenti nucleari fu chiamata “overkill” e misurava quante volte gli USA avrebbero potuto distruggere l’URSS (e il mondo intero) e viceversa quante volte i Sovietici avrebbero potuto fare lo stesso. E’ stato cal-colato che “By the end of the 1960s, the overkill factor was well above ten and perhaps as high as fifty” (Lipschutz 2001: 85). Eppure,

All of this strategic mysticism might not have mattered had the Uni-

ted States been more careful about publicizing its nuclear might. The

American public did not really want to know very much about the

prospects of atomic holocaust, but there was political hay to be made

by exaggerating the threat from the Soviets and the robustness of U.S.

preparations in response. […] At the same time, the public was beco-

ming increasingly nervous. (Ibidem)

Tra i principali protagonisti della strategia nucleare tro-viamo, naturalmente, anche personaggi influenti della poli-tica, fra cui Henry Kissinger (che diventerà consigliere per la sicurezza nazionale e poi segretario di stato tra il 1969 e il 1977, nonché premio Nobel per la pace nel 1973) e Her-man Kahn (fondatore dello Hudson Institute e membro del RAND). Kissinger pubblica Nuclear Weapons and Foreign Policy nel 1957, proponendo una versione limitata della guerra nucleare: è convinto infatti che “the promise (or th-reat) of all-out nuclear war was simply not a credible one” (Lipschutz 2001: 91). Kahn invece, in Thermonuclear War (1960) e On Escalation (1965), pone la questione relativa alle strategie utili a “to keep war between the superpowers from escalating into a full-scale nuclear ‘spasm’” (Ibidem).

della minaccia terroristica (l’attentato alle Twin Towers nel 2001), ma nel 1938 ci presenta l’ondata di panico colletti-vo causato dalla trasmissione del radiodramma The War of the Worlds da parte del giovane Orson Welles; nel 1941 – lo stesso anno in cui, qualche mese dopo, l’America subi-rà l’attacco giapponese a Pearl Harbor – la “freedom from fear” costituisce il fulcro del celebre Four Freedom Speech pronunciato dal presidente Franklin Delano Roosevelt; e per quasi tutta la seconda metà (dalla fine della seconda guer-ra mondiale al crollo del muro di Berlino) è occupato dalla guerra fredda tra USA e URSS.

Come vedremo, la politica è strettamente intrecciata alla letteratura e ai media. Sul versante letterario e cinematogra-fico, nei decenni che seguono la prima guerra mondiale e la crisi del ’29 non solo i grandi capolavori di Salinger, Kerou-ac, Malamud, Bellow, ma anche la narrativa hard boiled e il film noir, sono prodotti perfetti di un periodo di instabili-tà sociale che interpretano al meglio il “modernist sense of fragmentation and discontinuity” della waste land americana (Horsley, 2001, p. 3). Tutto questo si radicalizzerà nei decen-ni successivi, convogliando “a lot of fear around” (Duncan, 2000, p. 39) nell’horror e nella fantascienza. Ci occupere-mo in questa sede di quest’ultima solo in modo marginale, poiché tale genere offre un’enorme quantità di materiale sull’argomento, in quanto nel secondo dopoguerra è proprio la bomba a “dare intensità etico all’impegno fantascientifi-co” (Proietti 2009: 285).

La paura della bomba rappresenta una tipologia partico-larmente degna di attenzione poiché è legata da un lato alla scoperta e implementazione dell’energia nucleare, dunque a un’idea di scienza e di una tecnologia eccezionalmente pro-gredite, dall’altro alla necessità (talora all’urgenza) di difen-dere la sicurezza nazionale: quanto può esservi di più lontano possibile, dunque, dall’intermediazione di forze soprannatu-rali (il fantasma) o della psicologia dell’inconscio (l’incu-bo, la psicosi). Inoltre, la paura dell’atomica interessa vari settori, dalla stampa all’istruzione all’intrattenimento, crean-do un fenomeno culturale a molte facce che pur nascendo nell’ambito della fisica nucleare e della politica estera finisce per coinvolgere tutte le componenti sociali. La famiglia di-venta un’arena privilegiata di rappresentazione: nel cinema, ad esempio, spesso la paura del nucleare si collega a scene familiari, come accade nel film Strategic Air Command, in cui “references to nuclear strike capabilities are lightly fol-ded into scenes of family life” e si parla addirittura di “ ‘a new family of nuclear weapons’ and a newborn baby called ‘Hope’ ” (Hollings 2014: 139).

Le due bombe atomiche più tristemente note sono quelle che gli americani sganciano sul Giappone come rappresaglia per l’attacco di Pearl Harbor: a Hiroshima il 6 agosto e a Nagasaki il 9 agosto del 1945. Hanno addirittura un nome: la prima si chiama “Little Boy” e la seconda “Fat Man”. Si tratta naturalmente di un nome in codice dato da motivi di sicurezza, ma la scelta di nomignoli così familiari non è ca-suale: si sta già addomesticando il pericolo, lo si sta renden-do più accettabile, e come non bastasse “Little Boy” viaggia

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segretamente nei laboratori di Los Alamos, Nuovo Messico. Il progetto, diretto da Robert Oppenheimer, include i mag-giori fisici del mondo, molti dei quali, come si diceva, profu-ghi dall’Europa. La prima bomba al plutonio (soprannomina-ta “The Gadget”) viene fatta esplodere il 16 luglio 1945 dagli scienziati di Los Alamos ad Alamogordo, nel New Mexico2. L’esperimento diventerà famoso come Trinity Test, un nome deciso dal direttore del Laboratorio, J. Robert Oppenheimer, ispirato a una poesia del poeta inglese John Donne:

O blessed glorious Trinity,

Bones to philosophy, but milk to faith,

Which, as wise serpents, diversely

Most slipperiness, yet most entanglings hath,

As you distinguish’d, undistinct,

By power, love, knowledge be,

Give me a such self different instinct,

Of these let all me elemented be,

Of power, to love, to know you unnumbered three3.

In realtà, quello che si sta facendo è ben poco poetico. Se-guiranno infatti, come si sa, i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. L’anno successivo il giornalista del New York Times William L. Laurence, che ha assistito al test, conia l’espressione “Atomic Age” e nello stesso anno l’economi-sta e editorialista di Business Week Virgil Jordan pubblica il saggio Manifesto for the Atomic Age4. Cinque anni dopo nasce l’era moderna della fantascienza (Perkowitz 2007) e dieci anni dopo, nel 1955, viene compilato il Manifesto di Russell-Einstein, col quale i due scienziati invitano i colleghi di tutto il mondo a riunirsi per discutere sui rischi per l’uma-nità prodotti delle armi nucleari.

3. DUCK AND COVER (1951)

Con l’espressione “duck and cover” si indica un metodo di protezione contro un attacco nucleare a sorpresa, consi-stente nel gettarsi a terra e ripararsi la testa nel miglior modo possibile. Naturalmente la sua efficacia dipende dalla di-stanza dell’esplosione, ma funziona anche come placebo per contenere l’ansia della popolazione fornendo un possibile strumento di controllo. Nel 1951 questa espressione diventa anche il titolo di un fascicoletto che viene distribuito in 20 milioni di copie, di un disco, di un programma radiofonico5 e di un cortometraggio della durata di circa nove minuti6 pro-gettato dalla FCDA (Federal Civile Defense Administration) per le scuole ma visto da tutta la popolazione americana. Il filmato è composto da una parte animata, il cui protagonista

2 Video visibile in <https://www.youtube.com/watch?v=7dfK9G7UDok> (19/03/2015).3 <http://www.luminarium.org/sevenlit/donne/litany.php> (19/03/2015)4 <http://www.foreignaffairs.com/articles/112028/virgil-jordan/manifesto-for-the-atomic-age> (19/03/2015)5 Joshua Binus, 2004, in <http://oregonhistoryproject.org/articles/historical-records/duck-and-cover-civil-defense-pamphlet/#.VQqO_ilDB0s> (18/03/2015).6 <https://www.youtube.com/watch?v=IKqXu-5jw60> (18/03/2015).

Al contrario di Kissinger, egli minimizza i costi di una pos-sibile guerra totale e suggerisce con incredibile cinismo che perdite dai 20 ai 50 milioni di vite umane non sarebbero poi un fatto così grave: anzi, egli aggiunge, i sopravvissuti non invidieranno di certo i morti. Un concetto che verrà ripreso nel film Dr Strangelove, nelle parole del generale Turgidson.

In questo contesto era naturale che emergesse l’esigenza (l’urgenza) di far conoscere alla cittadinanza – almeno a grandi linee – i rischi di un attacco nucleare, non solo per evi-tare il panico attivando un’ordinata gestione dell’emergenza ma, contemporaneamente, per giustificare il proseguire degli esperimenti a difesa della nazione. Tanto che il discorso sulla bomba, uscita dai confini della fisica prima, e della politica poi, sarebbe diventato a tutti gli effetti uno dei maggiori fe-nomeni culturali e letterari dell’epoca.

La black comedy The Atomic Café (Jayne Loader 1982)1, composta di sezioni di cinegiornali, notizie, filmati di vario tipo risalenti al periodo in oggetto (dagli anni ’40 agli inizi degli anni ’60), ben interpreta lo spirito dell’epoca e offre ai rilassati spettatori degli anni ‘80 – e a quelli meno rilassati di oggi – uno sguardo critico e consapevole sulla costruzione e sulla rappresentazione della paura del nucleare, rappresen-tando un contributo prezioso allo studio di questo fenomeno.

2. LA RESPONSABILITÀ DEI FISICI (1905-1955)

Dal punto di vista della fisica, tutto nasce dalla teoria della relatività ristretta di Albert Einstein (1905), il cui fondamen-to teorico è il principio di equivalenza massa-energia: esso suggerisce in linea di principio la possibilità di trasformare direttamente la materia in energia o viceversa. Tale possibili-tà può spiegare il fenomeno della radioattività, ovvero il fatto che certi elementi emettono energia spontanea. Si constata che ciò avviene in particolare all’interno dei nuclei atomici, il cui decadimento provoca un rilascio di energia (reazione nucleare). Nella seconda metà degli anni ’30, in seguito alla scoperta del neutrone, si sviluppa l’idea che una reazione nu-cleare (fissione) si possa anche produrre artificialmente. Nel 1938 viene osservata per la prima volta la fissione nucleare da Otto Hahn e Fritz Strassman a Berlino, poi confermata dalle ulteriori analisi di Lise Meitner e Otto Fritsch.

Intanto, in seguito alle persecuzioni degli ebrei in Germa-nia (Leggi di Norimberga: 1935) e alle leggi razziali in Italia (1938), molti scienziati europei si rifugiano negli USA, tra cui Enrico Fermi, Leo Szilard, Edward Teller, Eugene Wi-gner e la stessa Meitner). Nel 1939 Fermi e Szilard convin-cono Einstein (che risiede negli USA già dalla fine del 1932 e prenderà la cittadinanza nel 1940) a scrivere una lettera al presidente Roosevelt per segnalare il pericolo dell’energia atomica e la possibilità ipotetica di costruire una bomba uti-lizzando il principio della fissione, cosa su cui probabilmente in Germania si sta già lavorando. Il governo statunitense co-mincia così a interessarsi alle ricerche e stanzia somme in-genti per finanziare il Manhattan Project, che verrà condotto

1 <https://www.youtube.com/watch?v=ssKiI1P3lT4> (17/03/2015).

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strutte; e resta il fatto che tra il 1946 e il 1958 furono gli Stati Uniti e non potenziali nemici a provocare decine di esplo-sioni nucleari nell’atollo di Bikini. Si poteva, insomma, ben intuire che a nulla sarebbe servito ripararsi il capo con le mani. Sono convinta che Duck and Cover – che non contiene immagini di esplosione ma solo di forte luminosità – agisse soprattutto a livello di gestione ordinata dell’emergenza, che fosse un antidoto all’eccesso di paura e che al tempo stesso ricordasse a tutta la popolazione che la Difesa aveva tutta la legittimazione a ricorrere a misure estreme in caso di reale minaccia. Inoltre la scelta di indirizzarsi soprattutto ai bam-bini rivela la necessità politica di entrare nell’educazione / istruzione allo scopo di formare una nazione consapevole che una nuova era è iniziata. Una frase più volte ripetute è

che siamo tutti pronti ad af-frontare altri pericoli (esplo-sioni, terremoti, ecc.) ma ora “we must be ready for a new danger: the atomic bomb […] First, you duck; then, you cover”. Gli attacchi possono essere con o senza preavviso; i secondi sono naturalmente quelli più insidiosi, in quanto la bomba può arrivare “at any time”, “day or night”, “in the city or the country”. Questo concetto ricorre nel filmato e nonostante sia stemperato dalla canzoncina allegra di chiusura del film è sufficiente a mantenere un livello ade-guato di paura nella popola-

zione e a “educare” i giovani americani in questo senso.

4. BOMB (1958)

Qualche anno dopo Duck and Cover, la lunga poesia “Bomb”8, scritta da Gregory Corso e pubblicata da City Lights nel 1958, fu ferocemente attaccata dagli studenti pa-cifisti nel corso della sua prima lettura ad alta voce a Oxford. Eppure il messaggio evidente nel cantare la Bomba (“I sing thee Bomb”) da parte di un appartenente alla beat generation era esattamente l’opposto. Il fulcro della composizione – fin dal titolo e dalla struttura, graficamente simile a quella di un fungo atomico – stava infatti nella provocazione rispetto al regime, nella volontà di proclamare un consenso che in realtà non c’era. “I cannot hate you” dice il poeta nel secondo verso e questo non-odio diventa, nel corso del poema, ammirazione (“athletic Death sportive Bomb”); la bomba diventa reincar-nazione del Messia (“Hosannah”), metafora della primavera (“Spring”) e del futuro (“Behind you the hallooing Future”), e finalmente oggetto d’amore (“I am unable to hate what is

8 <http://www.litkicks.com/Texts/Bomb.html> (19/03/2015) e <https://www.youtube.com/watch?v=saWe763FFYY> (19/03/2015).

è Bert the Turtle, che possedendo un guscio sa sempre “what to do”, e da parti recitate da attori che simulano la reazione a un allarme atomico mettendosi in salvo ordinatamente, senza farsi prendere dal panico, ognuno come può. Ci sono anche indicazioni riguardanti i rifugi di quartiere, e scene surreali in cui un’allegra famigliola riunita a gustarsi un pic-nic in campagna si ripara coprendosi con la tovaglia.

La motivazione che sta alla base di tale campagna straor-dinaria è l’annuncio, nel 1949, che anche l’URSS possiede l’atomica. Di conseguenza, si rende necessario istruire la po-polazione al riguardo:

Federal efforts to educate the public about the risks of an atomic attack

and strategies to survive took many forms, including the promotion

and distribution of short films,

radio programs, news articles,

posters, and pamphlets. By

promoting readiness in the face

of atomic war, administrators

of the FCDA hoped to alert the

public to the dangers of atomic

war, alarming them enough to

participate in civil defense pro-

grams but not enough to panic

or become fatalistic7.

Duck and Cover viene di-stribuito come film nel 1952 dalla Archer Productions, Inc.. La prima proiezione pubblica è effettuata nel mese di gennaio, nell’ambito di uno show itinerante sponsorizzato dalla FCDA chiamato “Alert America,” che fa il giro degli Stati Uniti per tutta la durata del 1952. A partire dal mese di marzo, con l’approvazione della National Education Asso-ciation, il cortometraggio viene proiettato in tutte le scuole del Paese:

The animated main character, Bert the Turtle, provided students with

a cheery instructor to guide them in the most up-to-date survival stra-

tegy for a nuclear attack. The plan was simple and straightforward

[…] According to the FCDA, “If DUCK AND COVER is carefully

integrated with a study of civil defense, it can help your pupils acquire

a quick and easy technique for self-protection from an atomic explo-

sion as well as help them understand the need for civil defense”.

E’ difficile quantificare, oggi, la dose di buona e di catti-va fede presenti in tale filmato. E’ vero che molte cose non si sapevano ancora (fu soprattutto l’avvento della bomba a idrogeno, nel 1952, a rendere i consigli della tartaruga Ber-tie inefficaci contro bombe centinaia di volte più potenti di quelle sganciate sul Giappone), ma si sapeva comunque che nel 1945 due intere città erano state quasi completamente di-

7 Joshua Binus, op. cit.

Robert Oppenheimer

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Whom bomb?

We bomb them!

Whom bomb?

We bomb them!

Whom bomb?

You bomb you!

Whom bomb?

You bomb you!

Whom bomb?

You bomb you!

Whom bomb?

You bomb you! […]

Qui la ripetizione ossessiva della parola bomb declinata in ogni modo e forma (come verbo e nome), unitamente all’e-lenco infinito di interrogativi, finisce per svuotarla di signifi-cato, per farci capire la follia di un’apocalisse evitabile di cui tutti siamo vittime e responsabili.

5. WE WILL ALL GO TOGETHER WHEN WE GO (1959)

Tornando agli anni ’50, che ormai volgono al termine, la canzone che porta questo titolo fu composta da Tom Leh-rer10, cantante e matematico newyorkese di origine ebrea, sostenitore dei diritti civili e di manifesta fede anti-nucleare. La musica è allegra e anche le parole, pur rimandando a un immaginario tetro (il funerale evocato nelle prime strofe), mirano in realtà dare un messaggio di gioiosa evasione o ac-cettazione della realtà. Questo l’incipit e il ritornello:

When you attend a funeral,

It is sad to think that sooner or

Later those you love will do the same for you.

And you may have thought it tragic,

Not to mention other adjecives,

to think of all the weeping they will do.

But don’t you worry.

No more ashes, no more sackcloth.

And an armband made of black cloth

Will some day never more adorn a sleeve.

For if the bomb that drops on you

Gets your friends and neighbors too,

There’ll be nobody left behind to grieve.

And we will all go together when we go.

What a comforting fact that is to know.

Universal bereavement,

An inspiring achievement,

Yes, we all will go together when we go.

We will all go together when we go. […]11

10 <https://www.youtube.com/watch?v=frAEmhqdLFs> (13/03/2015).11 <http://artists.letssingit.com/tom-lehrer-lyrics-we-will-all-go-together-when-we-go-s5dxhgc> (19/03/2015).

necessary to love”; “I love thee”; O Bomb I love you”). Qua e là spuntano, fra un verso e l’altro, l’insofferenza e l’indi-gnazione del poeta per la società in cui vive (“I can’t exist in a world that consents // a child in a park a man dying in an electric chair”), la sua posizione rispetto all’assunzione di responsabilità (“you are as cruel as man makes you”) e la dichiarazione di una cinica verità esistenziale (“you’re no crueller than cancer”); ma le emozioni autentiche della voce poetica si perdono nel rumore circostante (della politica, del-la guerra, del capitalismo, dell’indifferenza) e nel frastuo-no onomatopeico dell’esplosione finale (“BOOM BOOM BOOM BOOM BOOM // BOOM ye skies and BOOM ye suns // BOOM BOOM ye moons ye stars BOOM” etc.):

Corso’s style is wild and impressive, but “Bomb” nevertheless arti-

culates sophisticated social and religious questions that continue to

plague us even after the fear of total nuclear holocaust has been eased

somewhat by the end of the Cold War. Though “Bomb” overflows

with surreal juxtapositions and farcical absurdity, the humor is not

an end in itself but rather a tool to destabilize the reader’s ingrained

assumptions about nuclear apocalypse. (Kraemer 2002: 211)

Si tratta di una poesia da leggere (e da ascoltare) ad alta voce, lasciandosi trasportare dal ritmo e dalle sonorità, oltre che dalle parole e dai significati. Analogamente alla “sorella” Howl dell’altro grande poeta beat Allen Ginsberg (1955), è ancor meglio se la si “urla” e se la si legge in gruppo. Non è una composizione intimista e confessionale, ma una decla-mazione pubblica, rabbiosa, ribelle e provocatoria. L’analisi del testo richiederebbe altra sede; mi limiterò a suggerire al-cuni percorsi oltre a quelli già delineati. Dopo l’ascolto con-sigliato, possibilmente in lingua (vi sono numerose letture disponibili in rete), e dopo una prima lettura, è il momento di passare alla vera e propria analisi testuale: suggerisco di utilizzare un’edizione con testo a fronte, oppure di tenere a portata di mano un buon dizionario. Per una lettura di tipo culturale, suggerisco di essere collegati a un motore di ri-cerca in modo da aprire dei varchi nel percorso, anzichè fer-marsi alle prime difficoltà. Ci accorgeremo solo così che il compito richiesto dal poeta è molto più complesso del sem-plice esercizio di interpretazione (in cui si sono cimentati fin troppi critici) e al contempo più affascinante, perché ci apre finestre insospettate sulla Storia, sulle geografie e sulle topo-grafie dell’immaginazione e dell’identità.

Nel 1971 anche Allen Ginsberg dedicherà una poesia – an-cor più sperimentale – alla bomba: “Hum Bomb!”9, di cui riporto le prime due strofe:

Whom bomb?

We bomb them!

Whom bomb?

We bomb them!

9 <http://www.americanpoems.com/poets/Allen-Ginsberg/3689> (18/03/2015) e <https://www.youtube.com/watch?v=swwZO3LUm5Q> (18/03/2015).

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of the most significant technological innovations of the past century, and both are very important to the culture” (2002: 5). L’importanza delle intersezioni fra la bomba e il cinema è testimoniata dalla quantità di materiale video prodotto du-rante la guerra e il dopoguerra: questo, insieme ai numerosi film, rivela “how deeply concerned are Americans about the bomb and its impact on the struggle for survival, the indivi-dual’s pursuit of spiritual or psychological rebirth, and the establishment of a just society” (Ibidem: 6). In questa ottica la bomba diviene una sorta di categoria virtuale kantiana, un filtro interiore della mente che dà forma alla nostra compren-sione del mondo (Boyer 1985: xviii).

E’ doveroso riportare che alcuni critici hanno espresso la convinzione che i film sull’atomica siano stati inadegua-ti a rappresentare il disastro nucleare e c’è addirittura chi li condanna per aver contribuito a un collettivo mind-numbing (Berger 1994, Evans 1998, Perrine 1998). Diverso è il parere di Shapiro, che scrive: “Rather than denial, both bomb films and the critical commentary suggest how different strata of the culture are struggling to come to terms with the bomb” (2002: 9). Egli sottolinea anche che Hollywood non è una struttura monolitica e che, a differenza di altri generi, come ad esempio il western, questa è una categoria “that crosses the boundaries of many genres” (Ibidem: 7).

In questa sede citeremo solo alcuni film a titolo di esem-pio, fra quelli che riteniamo maggiormente significativi: in ordine cronologico, partiamo da The Next Voice You Hear (William A. Wellman, 1950), dove per una settimana la voce di Dio parla alla radio (tranne il settimo giorno, quando, no-nostante in tutto il mondo milioni di persone si sono riunite per ascoltarlo, prevedibilmente “si riposa”). Gli spettatori non sentono mai nulla: sono solo i personaggi che sentono la Voce e ne parlano fra loro. Fra le curiosità, uno dei per-sonaggi (interpretato da Nancy Davis – la futura First Lady Reagan!) “ wonders if God’s voice on the radio is one of tho-se ‘Orson Welles things’”14. Il materiale originale del film, tratto da un racconto di George Sumner Albee, comprendeva “God performing grand miracles, such as […] the vanishing of Russia’s military weapons”, ma alla fine il film, sia per motive religiosi, sia per ragioni di budget, non incluse alcun effetto speciale15.

Mentre in The Day the Earth Stood Still (Robert Wise, 1951) si minaccia la distruzione dell’intero pianeta, in Red Planet Mars (Harry Horner, 1952) si esprime la speranza che un deus ex machina converta i russi e salvi il mondo dall’o-locausto nucleare: ambientato nel 1957, narra del progetto di stabilire un contatto radio con Marte attraverso un conge-gno chiamato “hydrogen valve” (il riferimento alla bomba a idrogeno è palese). Il contatto viene stabilito, ma si scoprirà che in realtà solo gli ultimi messaggi (che parlano di pace) vengono effettivamente da Marte, mentre i primi erano frut-to di una macchinazione tendente a distruggere gli USA e

14 <www.youtube.com/watch?v=KRxf9qS5PUk> (21/02/2015).15 <http://www.filmscoremonthly.com/notes/next_voice_you_hear.html> (21/02/2015).

Mediante una serie di metafore che spostano l’attenzione dall’individuo alla collettività (le “french potatoes”, le braci, il mondo come “our rotisserie”) e grazie all’uso di rime che coniugano lo humor alla catastrofe (“When it’s time for the fallout” // “Saint Peter calls us all out”, oppure “When the air becomes uranious” // “We will all go simultaneous”) l’arti-sta fa appello al senso di comunità e vicinato (“neighbors”) citando en passant le catastrofi della letteratura americana (il “maelstrom” di Poe) e acronimi solo in apparenza rassi-curanti (“ICBM” sta per “Intercontinental Ballistic Missile, un missile con raggio superiore ai 5500 km progettato per il lancio di armi nucleari).

La simulazione (messa in scena?) di un unhappy ending collettivo allude alle forme di esorcismo con cui l’enter-tainment cerca di tenere sotto controllo la paura della ca-tastrofe ovvero il fallout emotivo del dramma nucleare. E’ vero che mediante la risata si allontana l’ansia e mediante la condivisione del timore individuale nella grande “padella” collettiva ci si consola con la retorica del “mal comune”, ma il messaggio dell’artista va oltre l’escapismo e mostra molta più affinità con la provocazione di Corso e con la parodia che vedremo in Kubrick.

Solo negli anni successivi gli artisti della pop art produco-no opere legate all’ansia del nucleare: Andy Warhol dipinge Atomic Bomb nel 1965 e James Rosenquist realizza nello stesso anno F-11112.

6. DR STRANGELOVE (1963)

I film che, implicitamente o meno, parlano dell’atomica sono decine. In genere appartengono a un filone che poi si evolverà nel cosiddetto cinema apocalittico o catastrofista, che vede la sopravvivenza dell’umanità intera, o di una co-munità circoscritta, dopo eventi eccezionalmente violenti e distruttivi. Un sottofilone di questo cinema è stato chiamato cinema dell’emergenza e comprende i film in cui si fa “in-tervenire nel racconto un pericolo mortale per la collettività, un’emergenza appunto, per mostrare la reazione che si met-te in atto di fronte a questa minaccia” (Brodesco 2008: 17). Questo tipo di cinema conosce la sua prima fioritura negli anni ’50 nell’atmosfera della guerra fredda e si declina nei decenni successivi secondo varie tipologie (complotti, di-sastro ecologico, impatto di meteoriti o comete, invasione aliena, catastrofe nucleare). Come sostiene Sontag, la fanta-scienza continua a placare le ansie sociali rendendo il disa-stro normale, e tiene desto l’orrore evocandolo in continua-zione (cit. in Brodasco 2008: 43).

Shapiro13 conia addirittura l’espressione atomic bomb ci-nema a designare il genere di cui intendiamo occuparci in questa sede, e si spinge a trovare un terreno comune fra il ci-nema e l’atomica: “The cinema and the atomic bomb are two

12 Le opere sono visibili in vari siti. Per esempio, si vedano: <http://www.saatchigallery.com/aipe/andy_warhol.htm> (19/03/20159 e <http://www.moma.org/explore/inside_out/2012/02/14/f-111-1965> (19/03/2015).

13 Esiste anche un sito: <www.atomicbombcinema.com> (12/03/2015).

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Jekyll, Moreau) nonché dal Rotwald di Metropolis l’immagi-ne dello scienziato pericolosamente incline a sperimentazio-ni azzardate ed eticamente scorrette. Più distruttore apocalit-tico che salvatore dell’umanità, lo scienziato mostra qui tratti espressionistici (cfr. il dottor Mabuse e il dottor Caligari) che si coniugano a elementi comici e difetti fisici, inserendosi nella schiera degli scienziati “quasi costantemente sull’or-lo di una crisi di nervi” (Brodesco 2008: 79). E’ descritto nel Dizionario dei film come “il più bell’attacco che sia sta-to fatto alla follia atomica dei nostri tempi, e al militarismo americano. […] Kubrick descrive ghignando il meccanismo atroce in cui siamo inseriti, la danza macabra di cui siamo partecipi” (Sadoul 1990).

La vicenda narrata in Dr. Strangelove (un film che ha ele-menti in comune anche con Fail-Safe) esemplifica alla per-fezione, fin dal titolo scelto da Kubrick per il suo film, il vincolo ambivalente che collega sentimenti non immediata-mente intercorrelati come la preoccupazione e l’amore: un tipo di amore che ci ricorda molto da vicino la fase finale del-la distopia orwelliana Nineteen-Eighty Four (1938), quando il protagonista, deprivato definitivamente della sua volontà, “loves the Big Brother”; ed evidentemente analogo anche all’amore espresso da Gregory Corso per la Bomba nella sua poesia omonima. Chiaro, qui siamo nel campo della paro-dia: ma anche quest’ultima è un modo per esorcizzare del-la paura, come insegna la tradizione ebraica (a cui è legato, per nascita, il regista). E l’ambivalenza ritorna a più livelli, a partire dai nomi dei personaggi (il generale Jack D. Ripper, l’ambasciatore sovietico Sadesky e lo stesso dr Strangelove, scienziato ex-nazista naturalizzato americano.

Il film ruota intorno alla decisione, presa unilateralmente dal generale americano, di ordinare ad alcuni bombardieri di procedere oltre il punto di non ritorno (fail-safe). Ne se-gue una diatriba diplomatica telefonica resa più difficile (e comica) dal fatto che il primo ministro sovietico è sempre ubriaco e man mano che passa il tempo cresce il rischio che venga attivato “a computer-controlled nuclear doomsday device that will automatically wipe out all life if they are attacked” (Perkowitz 2007: 99). Alla fine tutti i bombar-dieri vengono recuperati, tranne uno il cui pilota prosegue nella sua missione cavalcando la bomba in stile western e agitando in aria il cappello. Intanto, nella War Room, “the assembled contemplate the end of the world. Dr Strangelove suggests that the country’s leaders might repair to some deep mines, which, if stocked with sufficient supplies and women, would permit them to wait out the 100-year period of deadly radioactivity”(Lipschutz 2001: 89).

Il problema cruciale del film sta nel cosiddetto punto di non ritorno. Questo concetto è stato definito anche il “chi-cken game” o gioco della gallina, e oltre a Dr Strangelove è presente in un altro celebre film dell’epoca, divenuto un cult: Rebel Without a Cause (Nicholas Ray, 1955), dove coppie di giovani si sfidano a una gara estrema lanciando le loro auto a massima velocità per provare chi all’ultimo momento riusci-rà a salvarsi. Il deterrente chiamato Doomsday Machine nel film di Kubrick assomiglia anche al dispositivo che, come si

l’URSS da parte di un ex nazista. Invasion U.S.A. (Alfred E. Green, 1952), il cui manifesto promozionale prometteva “It will scare the pants off you!”16, vede gli Stati Uniti attaccati da una potenza (che utilizza armi atomiche) mai nominata, ma riconoscibile come l’Unione sovietica.

Anche Invasion of the Body Snatchers (Don Siegel, 1956, basato su un romanzo di Jack Finney, 1955), pur non riguar-dando esplicitamente la bomba atomica, “raised the pos-sibility of being taken over unawares – by whom or what is never made very clear – without knowing it” (Lipschutz 2001: 7). La vicenda è ricollegabile agli esperimenti atomi-ci e alla diffusa paura della bomba, soprattutto proveniente dall’Unione Sovietica; i “baccelli” che catturano l’identità dei personaggi sostituendoli con alieni identici ma privi di emozioni sono chiaramente riferibili alla paura dell’omolo-gazione comunista e rappresentano “lo spettro maccartista della penetrazione comunista” (Proietti 2009: 289). In chiu-sura del decennio troviamo due film degni di nota. On the Beach (Stanley Kramer 1959) mostra le tragiche conseguen-ze della terza guerra mondiale. I pochi superstiti al disastro nucleare sono destinati a morire a causa delle radiazioni, e quando un personaggio chiede a un altro chi secondo lui ab-bia iniziato la guerra, questi gli risponde: “Albert Einstein”. The World, the Flesh, and the Devil (Ranald MacDougall 1959) mette in scena tre soli personaggi – un uomo bianco, una donna bianca e un uomo di colore – che sono gli unici sopravvissuti nel Nord America a una guerra nucleare che ha devastato il pianeta. I tre saranno costretti nel corso del film a rivedere i loro pregiudizi di razza e di genere. Vediamo bene che ci stiamo avvicinando agli anni ’60.

Aprono il decennio successivo due film estremamente in-teressanti e intercorrelati. Il primo si intitola Fail-Safe (Sid-ney Lumet, 1964) ed è tratto dal romanzo omonimo di Euge-ne Burdick e Harvey Wheeler (pubblicato nel 1962, l’anno dopo la costruzione del Muro di Berlino), che narra di come la catastrofe atomica globale venga evitata distruggendo si-multaneamente New York e Mosca: il presidente USA au-spica che tale drammatico sacrificio di entrambe le nazioni porterà a un’era di disarmo nucleare e di pace. Il secondo è la nota black comedy di Stanley Kubrick Dr. Strangelo-ve, or How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (1964), definito da Shapiro “the most important event of the era” (2002: 150), ispirata al romanzo britannico Two Hours to Doom (Peter Bryant, pseud. di Peter George, 1958 – lo stesso anno di “Bomb” di Gregory Corso; poi ripubblicato in USA come Red Alert), dove si sta per sacrificare Atlantic City, che però alla fine viene salvata. La dinamica è la me-desima di cui sopra e ha un nome: MAD ovvero Mutually Assured Destruction.

Questo film, la cui uscita fu ritardata a causa dell’assas-sinio del presidente J. F. Kennedy, si appropria facilmente dell’immaginario legato alla bomba, ripescando dal reperto-rio rinascimentale, gotico e vittoriano (Faust, Frankenstein,

16 <http://en.wikipedia.org/wiki/Invasion_U.S.A._(1952_film)> (12/03/2015).

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of weapons”, Shapiro 2002: 145), siamo arrivati all’ultima fase, quella definitiva, dello strano amore per la bomba. I decenni successivi si concentreranno sul dopo-bomba e sul post-umano.

7. I FALL-OUT SHELTERS

L’ultimo aspetto di cui ci occupiamo relativamente alla paura della bomba atomica riguarda la dimensione abitativa, che negli anni presi in esame viene a includere nel progetto-casa la predisposizione, ove ciò sia possibile, di stanze sot-terranee da usarsi in caso di emergenza. Abbiamo già visto questo espediente nel finale del Dr Strangelove, anche se in quel caso è un fenomeno limitato all’élite in grado di permet-terselo: un’élite di politici e scienziati (maschi).

Durante i Tranquillized Fifties e per tutta la guerra fredda si diffonde in realtà anche a livello della borghesia il desi-derio di costruirsi (o ricavarsi) rifugi sotterranei in vista di un possibile attacco atomico, sul modello di quelli militari e civili organizzati a livello di città e di quartiere (che vanno ad aggiungersi al programma National Emergency Alarm Re-peater (N.E.A.R.) allo scopo di rinforzare il sistema già esi-stente di sirene, altoparlanti e annunci radio nell’evenienza di attacco nucleare, programma che si concluderà nel 1967).

Il citato Herman Kahn, pensando ai possibili sopravvis-suti di un eventuale disastro nucleare, scrive in questi anni che “Deep shelters would protect the survivors, allow them to live reasonably comfortably lives, and enable them to re-build the United States in a matter of decades (another po-sition parodied in the ‘shelter race’ at the end of Dr Stran-gelove)” (cit. in Lipschutz 2001: 91). Nel 1961, sotto la direzione di S. L. Pittman, il governo federale inaugura il Community Fallout Shelter Program e lo stesso presidente J. F. Kennedy raccomanda l’utilizzo dei rifugi anti-atomici (fallout shelters, da fall-out, ricaduta di scorie nucleari in seguito a esplosione) in un articolo pubblicato dalla rivista Life nel settembre 1961. Nel novembre dello stesso anno la rivista Fortune pubblica un articolo in cui Nelson Rockefel-ler, Edward Teller, Herman Kahn e Chet Holifield espon-gono il loro progetto di creare un’immensa rete sotterranea di rifugi antiatomici tale da ospitare milioni di persone in caso di guerra nucleare. Sempre nel 1961 diventa operativo il Cheyenne Mountain Nuclear Bunker.

Il tipico rifugio della famiglia suburbana consiste in una stanza ricavata da una cantina già preesistente, o scavata all’uopo, che viene resa più sicura tramite blindatura, e che viene riempita di masserizie e oggetti d’uso comune. Stanze di questo genere, a ben vedere, esistevano negli Stati Uniti fin dai tempi della Frontiera: tutte le tipiche fattorie (viste in tanti film western) ne possedevano almeno una, a cui si accedeva tramite una botola, per difendersi dalle incursioni e dalle razzie degli “indiani” e dei banditi. Una versione horror la conosciamo nel film The Night of the Living Dead di Ge-orge Romero (1968), che pur riguardando gli zombies esce in piena guerra fredda. In tempi recenti, la shelter room si è evoluta nella cosiddetta safe room, sostanzialmente identica

è saputo solo nel 1994, i sovietici avevano veramente messo a punto, e che è stato chiamato “Dead Hand”. Anche gli USA comunque avevano vari dispositivi di sicurezza che avrebbe-ro permesso a un attacco di essere bloccato all’ultimo mo-mento (Lipschutz 2001: 92-93).

Il discorso di Kubrick si colloca però in una riflessione più ampia che proseguirà nel suo film successivo, il capolavoro 2001 A Space Odyssey (1968), nel momento in cui il pri-mate usa l’osso come arma e poi lo scaglia in aria: “L’osso, la prima arma, ha già dentro di sé le estreme conseguenze della sua invenzione. Tra l’osso e la bomba atomica, l’Arma per eccellenza, non c’è una vera distanza” (Brodesco 2008: 101). Kubrick ribalta con questo film la paura della bomba: “la bomba non è un evento mostruoso e imprevedibile e il problema non è più (solo) quello della bomba, ma dell’uso che l’uomo fa della conoscenza” (Ibidem). E’ interessante anche notare che non si vede mai come reagisce la popo-lazione, che resta fuori campo: “L’umanità potrebbe estin-guersi senza nemmeno rendersene conto. In questo senso, il messaggio di Stranamore è anche una sfida al consenso culturale” (Ibidem: 104). Del resto questo film, che dal pun-to di vista contenutistico rappresenta perfettamente gli anni ’50, contenendo tutti i maggiori “elements of paranoia and political insanity that characterized the fifties” (Wolfe 1976: 61) e interpretando appieno il contesto della guerra fredda (Wheelan 2003), appartiene di fatto già al decennio succes-sivo, gli anni ’60 – ben diversi dai Tranquillized Fifties pur nel proseguimento della guerra fredda e della percezione del-la minaccia atomica – non solo per i metodi e le tecniche, ma anche per il fatto che la sua uscita fu posticipata a causa dell’assassinio di Kennedy, una scelta che “marked the de-marcation point between the era of the bomb and our own era of paranoia” (Wolfe 1976: 66). Pur non condividendo in pieno la posizione di Henrickson, che in un certo qual modo “overemphasizes the bomb as an instrument of cultural chan-ge”, Van Ells concorda con la studiosa quando definisce Dr. Strangelove “the first open critique of the bomb in popular culture” e chiama l’America a cavallo fra gli anni ’50 e ’60 “Strangelove’s America”17.

Se da un lato la vicenda si conclude col progetto un ri-fugio sotterraneo, forse una visiona utopica della sepoltura – “Dr Strangelove begins in the air but inevitably ends un-derground”, Frayling 2005: 106) – le ultime sequenze del film, “shots of mushroom clouds and the British World War II tune ‘We’ll meet again’”18 (Lipschutz 2001: 89), rappre-sentano “an orgasmic montage of nuclear explosions” (Fray-ling 2005: 107). Esauriti i preliminari (ben visibili nella se-quenza del rifornimento aereo di combustibile, che evoca una copulazione, e nella “anthropomorphic sexualization

17 Mark D. Van Ells , H-Net Reviews in the Humanities and Social Sciences, January 1988, <http://www.h-net.org/reviews/showpdf.php?id=1609> (13/03/2015).18 La canzone “We’ll meet again” di Vera Lynn è citata anche nella canzone “Vera” dei Pink Floyd (album The Wall, 1979). Il riferimento è ironico perché il personaggio della canzone cantata da Roger Waters non è destinato a riincontrare suo padre, caduto in guerra.

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8. CONCLUSIONE

La paura dell’atomica è un fenomeno cruciale sia a livello storico-politico sia a livello mediatico e culturale. In parti-colare, si è visto come negli anni ’50 si concentrino le mag-giori preoccupazioni e anche le più significative reazioni a tale paura. Tali reazioni interessano artisti, scrittori e registi che, se da un lato avvallano e giustificano la paura, dall’atro tentano ciascuno con mezzi diversi di esorcizzarla. Inoltre la catastrofe esce dall’ambito ristretto del laboratorio e di-venta globale, minacciando l’intera umanità, e questo porta a riflettere sui rapporti e sulle tensioni fra società, politica e scienza e sul modo con cui queste si relazionano con la sfera della cultura e dello spettacolo. La visione dell’apocalisse, infine, fa sorgere e maturare interrogativi sulle relazioni fra l’uomo e la natura, sul nostro posto nel mondo, sulle nostre responsabilità verso le generazioni future. Studiare l’impatto di tutto questo sui Tranquillized Fifties ci aiuta non solo a co-noscere meglio un periodo importante della storia culturale statunitense, ma anche a comprendere meglio i meccanismi che sottendono la costruzione della paura, le tecniche di rap-presentazione del nemico assoluto e, in generale, il delicato e fragile equilibrio che esiste tra politica, scienza e industria culturale.

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La parola “lacerata” in Paul AusterROSSELLA GIANGRANDEDipartimento di studi umanistici, Università del Salento

windows that stand between [them] and the world” (p. 174), dirà in The New York Trilogy (1987). Parola, dunque, come barriera, ostacolo tra sé e gli altri, piuttosto che come mezzo di comunicazione. Una parola anch’essa “doppia”, eviden-ziata nella sua ambiguità e arbitrarietà: tutto grazie ad essa di-viene relativo. Una parola “bianca in omaggio alla parola che

deve ancora scriversi” (Jabès 1984, p. 30) che dà vita ad un linguaggio solipsistico, che è quello dei personaggi becket-tiani: un linguaggio che nega se stesso e si rivela un inganno nel momento in cui tradisce la sua assurdità. Una parola, per dirla con Edmund Jabès ‘orfana’ (1987, p. 30), che ci si sfor-za di dominare ma che inevitabilmente rimanda ad una pro-fonda solitudine che Auster condivide con Hamsun in questa visione nichilista. La sua opera, ricca di un’universalità di temi e di influenze letterarie, diventa così “Babel-like”, il luogo privilegiato ed appropriato di una ricerca insaziabile in cui la parola, arricchendosi di tanti significati, non significa più nulla rendendo il lettore consapevole dell’inadeguatezza

Nato a Newark, New Jersey, il 3 febbra-io 1947, Paul Auster, di origine ebraica, vive in pieno contesto postmoderno la crisi dell’uomo contemporaneo. Erede di Samuel Beckett, Eugene Ionesco e Franz

Kafka, Auster, uno dei rappresentanti più solidi e originali della nuova generazione di scrittori statunitensi (De Angelis, Ricciardi 2004, p. 366), risente del male di vivere in quell’u-niverso che Jabès definisce “lacerato” ( Pagetti 1991, p. 52).. In particolare, la memoria dell’essere ebreo e quella della Shoah, come ricordo del ‘non dicibile’, lo ossessiona per cui diviene lo spazio nel quale l’evento accade una seconda volta, ricostruzione di un passato storico. Condividendo il pensiero filosofico di Sant’Agostino, lo definisce come un immenso santuario conservato in noi stessi, come qualcosa che permette la comprensione del pensiero umano; una sorta di mitologia dell’anima. La consapevolezza che: “[…] the condition of being a writer has little become almost the same as being a Jew”, lo porta alla convinzione che “every writer in some way experiences the jewish condition, because every writer, every creator lives in a kind of exile” (Auster 1991, p. 151). La Jewishness, come per tanti scrittori ebrei a lui contemporanei, viene ad essere paradigma della condizione umana, e l’ebreo, il fantasma della storia – il sofferente per eccellenza -, il simbolo della condizione esistenziale dell’uo-mo: l’everyman di Bernard Malamud.

L’impossibiltà di esprimersi dopo il dramma vissuto1 viene esplicitata nel testo a vari livelli. L’angoscia, la dis-locazione legata ad un senso di inadeguatezza e alla consapevolezza di una esistenza precaria, caotica e senza scopo, in cui il nulla e l’assurdo sono concepiti come condizione universale, por-ta l’autore verso una ‘dequalificazione’della parola, esaltata nella sua ‘meaningless’: “Words are transparernt […] great

1 Paul Celan, nato a Czernowitz (Romania) nel 1920 da una famiglia ebreo-tedesca si chiedeva cosa potesse esprimere la parola dopo Aus-chwitz.

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“with no before or after” (Auster 1991), Auster distrugge la progressione lineare della storia e affida al caso l’avan-zamento della trama. Ciò che viene enfatizzato nell’ opera letteraria è “l’intenzione”, piuttosto che il renderla concreta. La tensione, nei suoi romanzi, come nelle opere teatrali di Beckett, sale in virtù della casualità che prima o poi inter-verrà e che in un universo imprevedibile è l’unica costante. Infatti, la stagnazione che spesso caratterizza le opere di en-trambi, viene interrotta da un evento inaspettato che rompe quella fastidiosa sensazione di tedio. Non c’è, dunque, una ‘vera’ azione drammatica in senso aristotelico, l’opera non è più una creazione in cui gli elementi si connettono attraver-so una relazione logico-casuale: sono tutte “pseudo-azioni” inscenate solo per ammazzare il tempo. E’ l’imprevisto che viene utilizzato da Auster come fonte di immaginazione. In The Invention of Solitude egli sottolinea che:

His life is so fragmented that each time he sees a connection betwe-

en two fragments, he is tempted to took for a meaning to look beyond

the facts of his existence (p. 143).

Nel suo mondo disgregato, perchè non più regolato dalle norme aristoteliche, ogni frammento esiste come unità sepa-rata: senza un ordine che faccia da collante, tutto risulta go-vernato dalla casualità che sola acquista la connotazione di realtà e dove l’imprevisto diviene norma. L’abnorme diviene la regola; crollano le certezze, per cui lo scrittore arriverà a dire: “Reality is something we invent” (1993), e, rifacendosi aYeats “Life is waiting for something that will never arrive” (In Beckett 1941, p. 22), nella pesante angoscia dell’evento che accadrà. Compito del poeta non è riportare ciò che acca-de, ma ciò che potrebbe accadere.

Nella vita nulla avviene secondo una logica, e l’irrazio-nale viene ad identificarsi con la realtà: una realtà che non esiste, che si configura come una “chinese box, an infinite series of containers within containers” (Auster 1991, p. 80), in cui anche gli oggetti sono come “remnants of thought, of consciousness, emblems of the solitude in which a man co-mes to make decisions about himself.” (Auster 1988, p. 11). Nella frattura tra pensiero e scrittura, l’estetica del testo post-moderno si viene a basare sulla divergenza tra presentazione e realtà e:

[…] the I am trying to tell is somehow incompatible with language,

that the degree to which it resists language is an exact measure of how

closely I have come to saying something important and that when the

moment arrives for me to say one truly important thing. I will not be

able to say it. (Ivi, p.32)

È, dunque, il sublime kafkiano frutto della differenza tra la nostra facoltà di presentare qualcosa e la vera concezione di essa. Auster spezza l’ordine lineare degli eventi introducen-do il caso, negando al suo soggetto la conoscenza della verità e disperdendo la nozione di unità di coscienza dell’autore.

Si delinea, dunque, quello che Roland Barthes (1968, p. 55) definisce il ‘suicidio’ della scrittura che diventa la distru-

del linguaggio come mezzo di comunicazione. Le parole, nei suoi romanzi, precipitano nell’irrilevanza, assurdamente si oscurano nel tentativo di rivelarsi e gli stessi personaggi si configurano come fantasmi (e qui, inconsciamente forse, balena il processo di dis-identificazione operato nei confronti degli ebrei ridotti a numeri) capaci di vedersi (gli uni con gli altri) ma impossibilitati, a causa della fallibilità della parola, a comunicare. Ma nessuna parola è utilizzata alla leggera: essa è prima assimilata attraverso l’esperienza, caricandosi inizialmente di potere e alla fine precipita nel nulla, come accade nella poesia di Ungaretti da cui Auster è influenzato. Dettata da un’assoluta necessità, testimonia sulla pagina un ‘atto di sopravvivenza’ che, solo, la legittimizza. L’accettazi-one del ‘Nulla’, dell’illogico (in The Invention of Solitude [1982] dirà che “Things are inert: they have meaning only in function of the life that makes use of them. When that life ends, the things change […] They are tangible ghosts, condemned to survive in a a world they no longer belong to.” p. 10), del caso cui adattare continuamente la propria traiettoria, il “coraggio di essere di fronte alla disperazione” (Tillich 1968, p. 32), il senso di quello che John Barth defi-nisce ‘definitività’ (1967, pp. 29-34), non sono che il punto di partenza per una ricerca mistica da parte di Auster, in un mondo in cui l’assenza di Dio aveva permesso lo sterminio.

In questa terra desolata e degradata (come non pensare alla visione apocalittica della città di In the Country of Last Things [1988]), Dio stesso è ridotto a un nome da rivendito-re d’auto. Emblematica risulta la soppressione, nel nome Bab-el, di ‘EL’ che in ebraico indica Dio, a sottolineare che non vi è nessuna certezza sulla presenza di una entità divina, di una guida soprannaturale, di un Assoluto che con la sua ‘latitanza-mancanza’ nega all’uomo la possibilità di trovare un equilibrio esistenziale.

In un’intervista, lo scrittore dirà:

Io sono una persona molto spirituale, in continua ricerca. Sono con-

vinto che facciamo parte di una cosa enormemente più grande di noi,

che non riusciamo a capire. Però sono restio a chiamarla Dio. Non

credo che esista un’intelligenza superiore che ha pensato tutto questo.

(Mastrolilli 2012)

CASUALITÀ E IRRAZIONALITÀ NELL’ASSURDO

CONTEMPORANEO

Un mondo in decomposizione anche quello di City of Glass (1985), un mondo post-atomico, così vuoto che la comparsa di un solo essere umano appare una minaccia mostruosa. E’ un mondo “ove le ombre dell’immaginazione decadente, nu-trita delle opere di Schopenauer, Nietzsche, Bergson, evoca-no scenari apocalittici ed esplosioni di un linguaggio scisso e atomizzato” (Pagetti 1991, p. 52), dove la storia non ha un inizio o una fine: tutto avviene per caso, e il caso viene elevato ad una sorta di principio ontologico, di demiurgo. Anche i personaggi sono intrappolati in questa rete tessuta dal caso: non riescono a reagire; c’è poco da sognare, da rim-piangere. Come scrittore di frammenti che esistono da soli

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generalmente in un ambiente chiuso, come un albergo isola-to, un treno, una stanza chiusa, e lo spazio funge da mezzo necessario per risolvere il crimine perché, restringendo lo spazio, si restringe anche la lista dei possibili colpevoli. Inol-tre, l’abilità da parte del detective di usare lo spazio suggeri-sce la possibilità di vederlo come facente parte dello stesso spazio urbano post-moderno, con tutta la crudezza dei suoi effetti alienanti.

Le lunghe camminate di Quinn richiamano sia l’opposto della figura classica del detective, sia il suo scopo: la ricerca della persona scomparsa. Egli si muove tra i due estremi, tra il mondo della borghesia, della solidità e della sicurezza e quello degli emarginati, dei senzatetto, della criminalità: e, quindi, in un limbo che sancisce la sua non-esistenza –sot-tolineata dalla molteplicità di nomi assunti- se non nel mo-mento in cui si occupa di un caso. Malgrado il rischio di per-dersi, Quinn conta comunque sempre di ritrovarsi, di aver la capacità, la certezza di ricollocarsi, pur vagando senza meta; certezza, però, che alla fine perderà.

Nella dicotomia tra il suo mondo e quello esterno con cui si confronta nella vita, le passeggiate verso il nulla tradisco-no la sua fiducia in una stabilità di luoghi, e il ruolo del de-tective è quello di mantenere tale stabilità che egli sente di trovare nel proprio appartamento, l’unica ‘cosa’ che gli dà un senso di sicurezza, oppure nel proprio ufficio: rifugi dal caos della città moderna. L’attenzione dello scrittore nei confronti della casa è, dunque, qualcosa di più della semplice relazio-ne tra il soggetto e la sua posizione nel mondo. Il senso di appartenenza ad un determinato luogo ha sempre avuto come simbolo la casa intesa come àncora che fornisce, a livello di spazi, una struttura architettonica non mutevole, sicura, alla quale l’uomo aspira di tornare; una risorsa, quindi, ras-sicurazione della propria identità. La casa acquista, così, una importante funzione ideologica e in City of Glass Auster ne riconcettualizza il concetto spaziale mettendola a confron-to con gli spazi pedonali di cui si usufruisce e che incidono anche sulla costruzione del Sè. Nonostante la frammentazio-ne dell’identità che il protagonista subisce nel corso della narrazione, è soltanto quando perde la casa che perde ogni speranza di ritrovarsi. City of Glass viene a rappresentare la deriva di un uomo lontano da casa, dove ‘casa’ è in realtà un luogo che non esiste. Quinn diviene un senzatetto, convinto però che la sua condizione sia illusoria e che “he could return to being Quinn whenever he wished” (Ivi p. 62). Subentra, quindi, una concezione dello spazio in chiave postmoderna, dal momento che esso diventa un’illusione quando il concet-to di ‘casa’ è messo in discussione, e con esso la stabilità so-ciale ed individuale di cui è ideologicamente intrisa. Il senso di disagio che egli prova è evidenziato dalle strutture degli edifici che lo circondano. Lo spazio non si piega in modo tradizionale a dettami di ordine e controllo, e il protagoni-sta Quinn, fin dall’inizio, non avendo porti sicuri, familiari o affettivi, cui rivolgersi (domina sempre il senso di essere “ a perpetual outsider, a tourist of his own life” [1982], p. 9), passa gran parte del proprio tempo vagando senza meta per la città, sforzandosi quasi di perdersi, in tutti i sensi:

zione di ogni punto d’origine, un obbligo, una necessità per sopravvivere (“no longer an act of free will” ammetterà lo stesso Auster [2008]), un processo di scoperta nella confu-sione totale, un modo di “penetrating the world and finding one’s place in it” (Auster 1989, p. 170): una trasposizione sulla pagina di un Io alla ricerca del Sé che si scopre in una condizione di nudità assoluta. Significativo è, per questo, il ritratto del padre di Auster, posto nel suo studio di Atlantic City, che riproduce l’immagine presa da differenti angola-zioni, così da suscitare nell’osservatore l’impressione che più uomini siano seduti intorno al tavolo, e che lo stesso au-tore definì “il ritratto dell’uomo invisibile” per cui “at times I have the feeling that I am writing about three or four dif-ferent men, each one distinct, each one a contradiction of all the others” (Auster 1988, p. 31).

Si crea, così, una prosa disarticolata, caratterizzata da uno stile “direct, unchuttered, and active” (Le Roy 1977, p. 148) e una tecnica marcatamente autorefenziale che dà vita ad una sequenza logico-narrativa spezzata, una narrazione spesso ellittica, in cui i piani narrativi si intersecano e si confondono in una commistione di voci narranti grazie anche all’uso di tempi verbali e punti di vista diversi: la pagina viene a con-figurarsi come un ‘ammasso verbale’ (La Polla 1983, p. 71) e il romanzo un pastiche di riferimenti e citazioni letterarie dove convivono le anime dei vari autori da cui Auster è in-fluenzato.

LO SPAZIO METAFORA DELLA SOLITUDINE UMANA

La predilezione nei confronti di spazi chiusi che si confi-gurano come pilastri della coscienza, scaturisce da una fon-damentale visione solipsistica dell’uomo e dalla convinzione – tipicamente Hawthorniana- che solo in solitudine l’uomo si può conoscere e, drammaticamente, conoscere i propri li-miti: solitudine che si manifesta come un aspetto terrificante dell’ Io che si è volatilizzato ed esiste solo grazie alla voce di un altro; la percezione di noi stessi nasce, dunque, da un monologo infinito, come Auster rileva in The Red Notebook (1995), con un Sé/Altro. Daniel Quinn che scrive romanzi nel suo appartamento in City of Glass (1985); Fanshawe che in Ghosts (1986) scrive in estrema solitudine in una stanza; David Zimmer che in Moon Palace (1989) ha proprio il co-gnome della stanza; Jim Nashe che in The Music o f Chance (1993) è imprigionato dietro le mura di una tenuta: ricordano l’esperienza di Auster in una stanza di Parigi. “Stanza chiu-sa” che è ricca, dunque, di significati metaforici: una “locked room” mentale e fisica nella quale sono intrappolati tutti i personaggi che, attraverso un atto catartico di volontà perso-nale, prendono coscienza per fuggire e riconquistare la loro libertà. Spazio chiuso che assume anche il ruolo di “guscio-scudo” che impedisce al mondo di entrare, travolgendo tutti con le sue incertezze.

La detective story oltre a ben definire i ruoli che lettore, au-tore, personaggio devono avere nella creazione di un libro, si adatta all’esplorazione dello spazio urbano che diventa parte integrante del mistero stesso, in quanto l’omicidio avviene

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identical is at the same time radically other, radically different and

trasparency is equivalent to pacity. (Ivi p. 143)

La città di vetro non ha favorito l’osservazione dell’altro quanto quella di sé che però risulta un estraneo.Titolo già significativo, dal momento che la trasparenza del vetro fa sì che tutto si possa vedere, ma che la presenza di barriere impedisce la vera comunicazione. Il concetto che “every person is the author of his own life” (Auster 1989, p. 4), offre la leggerezza di ‘essere’ l’altro, di rimanere in super-ficie dimenticando il peso della propria coscienza, non pen-sando a se stesso come ‘figura reale’, ma con l’angoscia del non-essere. Quinn vive attraverso l’esistenza immaginaria di Max Work, il detective dei suoi racconti. Più Work con-tinua a vivere fuori dal mondo, più Quinn ne diventa alie-no. Egli sparisce nello spazio della sua ermetica esistenza. Work diventa reale, mentre Quinn diviene finzione. Siamo allo sgretolamento dell’individuo (di qui la consapevolezza in The Invention of Solitude, che “[…] he was an invisible man. Invisible to others, and most likely invisible to himself as well” p. 7); egli si rende conto che la sua vita sta andando a rotoli: il suo appartamento con tutti i suoi effetti personali è stato svuotato e occupato da un nuovo inquilino. Lo spazio che conteneva tutta la sua vita non esiste più. Qualcuno si è appropriato del suo mondo facendolo sentire un ‘outsider’. Nella disintegrazione del personaggio, nella defunzionaliz-zazione dell’autore, la trama viene a riflettere una “central emptiness under the absent god” (Slavoj 1995, p. 25).

AUSTER E L’AMERICA DELL’800

L’influenza che l’ottocento americano viene ad esercitare in Auster, imprime in vari modi un’impronta notevole.

Hawthorne che egli ripercorre nell’incrocio tra immagina-rio e reale, diviene fonte delle sue divagazioni metafisiche e della doppia e multipla identità dei suoi personaggi, ispiran-dolo nell’abitudine ad auto-escludersi dalla società e nell’u-tilizzo della strategia narrativa in terza o seconda persona finalizzata ad una presa di distanza autoriale e, dunque, al coinvolgimento di tutti. Ma mentre in Wakefield Hawthorne esplora la possibilità di perdere il proprio posto nel mondo e nutre il timore che, vagando senza meta, si possano oltrepas-sare i confini dettati dalla società, e superare il punto di non ritorno, in Auster il detective prende atto della possibilità di non poter più tornare.

In The New York Trilogy riprende il genere poliziesco di Poe e in City of Glass risente del racconto allegorico di William Wilson, nella lotta tra bene e male. I personaggi di Auster esplorano il loro ruolo all’interno della società, così come quelli di Poe si studiano in rapporto alla folla da cui vengono assorbiti, annullandosi. Ma se la classica storia di investigazione arriva alla soluzione del crimine, il lavoro di Auster affronta, ancora una volta, i misteri insolubili legati alla propria identità, e anzicchè dare delle soluzioni, pone ulteriori domande. Per questo il ‘suo’ detective “becomes a pilgrim searching for correspondence between signifiers and

New York was an inexhaustible space, a labyrinth of endless steps,

and no matter how far he walked, no matter how well he came to

know its neighborhoods and streets, it always left him with the feeling

of being lost. Lost, not only in the city, but within himself as well.

Each time he took a walk, he left as though he were leaving himself

behind…reducing himself to a seeing eye. On his best walks he was

able to feel that he was nowhere. And this, finally, was all he ever

asked of things, to be nowhere. New York was the nowhere he had

built around himself. (Auster 1987, pp. 3-4)

Le strade di New York, dove è difficile avvertire il senso del futuro e di speranza, fanno da cornice, dunque, ad una profonda inquietudine esistenziale. E’ la metropoli di Joyce Carol Oates, poliedrica e ambigua, in cui non è facile so-pravvivere, “palcoscenico di trame dall’esito oscuro” (Pala 1997, p. 72), scenario dei più assurdi crimini che stravolgono il precario equilibrio societario.

New York è una ‘city of glass’, come il titolo del roman-zo indica: “haunted […] by a myth of transparency; trans-parency of the self to nature, of the self to the other, of all selvesto society, and all this represented (…) by a universal transparency of building materials” (Vidler 1992, p. 217), vale a dire il vetro che “it was thought, would eradicate the domain of myth, suspicion, tyranny, and above all else the irrational”. (Ivi p. 168)

Quello che nel moderno appariva come una facilitazione dello scrutare, dell’analizzare, è ora soltanto un’altra illusio-ne, ottica e spaziale. Il vetro agisce da deterrente, diventa un limite che vieta l’accesso invece di garantirlo, e così la tra-sparenza “quickly turns into obscurity (its apparent opposite) and reflectivity (its reversal)” (Ivi p. 220). La condizione di Quinn si fa più manifesta quando, dopo la lunga permanenza nel vicolo, si vede riflesso nello specchio posto sul prospetto dell’edificio e, ancora una volta, non riconosce l’immagine di sé.

Feature for feauture, he studied the face in front of him and slowly

began to notice that this person bore a certain resemblance to the man

he had always thought of as himself…He tried to remember himself

as he had been before, but he found it difficult. He looked at this new

Quinn and shrugged. It did not really matter. He had been one thing

before, and now he was another. It was neither better nor worse. It was

different, and that was all. (Auster 1987, p. 143)

La sua esperienza è certamente simile ad una sospensione tra un approfondimento della realtà e una continua riflessio-ne. Il gioco fisico e metaforico di continuo rimando tra spec-chi, lo porta a scoprire sempre più qualcosa che riguarda se stesso, ma che è altro. Lo specchio è, dunque:

[…] a surface at once pure and impure, almost material yet virtually

unreal; it presents the Ego with its own material presence, calling up

its counterpart, its absence from- and at the same time its inherence

in- this ‘other’ space. Inasmuch as its symmetry is projected therein,

the Ego is liable to ‘recognize’ itself in the ‘other’, but it does not in

fact coincide with it: ‘other merely represents ‘Ego’… Here what is

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figura come ‘object hunter’ che cerca di dare un senso alla sua storia la cui lettura, come afferma Barthes (1968, p. 55), diventa un atto stereotipale.

Una ricerca che è anche una ricerca di sé per un senso di fallimento a livello personale e societario, nel bisogno di ripiegarsi su se stesso per la difficoltà di una conoscenza, ormai negata dalla società, che conciliasse la propria origine ebraica con il mondo post-olocausto. Di qui la trasposizio-ne sulla pagina, del Sé come scrittore: Peter in Leviathan (1993), Walt in Mr Vertigo (1994), David Zimmer in The Book of Illusions (2002), Sidney in Oracle Night (2004). Auster, trasferendo frammenti della propria vita sulla carta, diviene egli stesso personaggio e, insieme alle sue creature, aspira junghianamente ad un ritorno nel grembo materno (“ within the mental uterus of a closed space” , 1996 p. 64) per una rinascita; in un bisogno di dare un significato alla propria esistenza, di ritrovarsi. Egli afferma:

I’m very interested in exposing the works, as it were. When you

pick up a book, everyone knows it’s imaginary. You don’t have to

pretend it’s not a book. We don’t have to pretend that people don’t

write books. That omniscient third-person narration isn’t the only way

to do it. Once you’re writing in the first person, then the narrator is a

writer. (1988, p. 85)

La confusione di ruoli determina una drammatica presa di coscienza dell’assenza di identità: “Perhaps I’m Peter Stil-lman. Perhaps I’m not. My real name is Peter Nobody (City of Glass, p. 18)”. I riferimenti autobiografici sono finalizzati, dunque, a dare un’impronta reale all’autore che sente di per-dere il suo ruolo tradizionale tra le altre voci che polifonica-mente parlano nel testo, ma da esse lo scrittore prende, poi, le distanze quasi sentendosi ‘disintegrare’. Ecco perché egli scrive in The Art of Hunger:

“The self whose name appears on the covers of books is finally not

the same self that writes books” (p.277). Il senso di “disintegrazione”

lo spinge a trattare se stesso come se fosse qualcun altro, ad estraniarsi

per riuscire a cogliere il suo Io, in un processo di identificazione che,

però alla fine, è destinato al fallimento e “We are left with nothing

but death” (The Invention of Solitude p. 5). La consunzione fisica si

manifesta in The Country of Last Things (1988), dove Isabel muore di

una malattia genetica; mentre, a livello psicologico, avviene in Moon

Palace (1989) dove causa la frammentazione dell’unità di coscienza

dell’autore come creatore e regolatore di verità: “[…] Then I imma-

gine my head cracking open, splatering like the eggs that had fallen

to the floor of my room. I felt my brains dribbling out of me. I saw

myself in pieces”. (p. 43)

Samuel Farr in The Country of Last Things, cerca di scri-vere delle storie tratte da interviste fatte sulla vita cittadina, senza concentrarsi su di una in particolare. Il risultato è che egli finisce con l’avere una storia dalle dimensioni così gran-di che è impossibile per chiunque raccontarla. Lo scrittore, dunque, è l’epitome di questo dilemma esistenziale, perché il mondo che egli vive, cioè quello del libro, è costituito da

signifieds” e il suo io, sempre più frammentato e diviso, in-traprende “a quest for his own identity” (Russell 1990, pp. 71-84), esplorando, in chiave postmoderna, la mancanza di verità nel mondo.

Lo spazio infinito che la città suggerirebbe è in realtà una piccola stanza di cui lo specchio collocato su un muro muta la profondità e in cui le persone non sono che doppi di se stesse. La presenza del ‘Doppelganger’ è finalizzata a sotto-lineare la confusa identità dei personaggi (in Ghosts i ruoli del detective e di chi doveva essere spiato si scambiano) e, dunque, della loro solitudine; come se ad essi sia negata la possibilità di esistere come individui e che siano confinati nell’artificio. Così, Daniel Quinn scrittore di storie poli-ziesche, ingaggiato per equivoco da una telefonata fatta nel cuore della notte da un signore ad un tale di nome Paul Au-ster, vive la sua vita attraverso l’esistenza di William Wilson (nome del famoso racconto di E.A. Poe) suo pseudonimo, e quella di Max Work, protagonista delle sue storie. E’, in defi-nitiva, quella che Massimo Fusillo (1998, p. 35) chiama ‘du-plicazione dell’io’, cioè l’identificazione con una coscienza scissa in due, in cui il lettore si immerge in un mondo fittizio dove esistono due incarnazioni dello stesso personaggio, for-malizzando la scomposizione di un soggetto in varie istanze conflittuali. Così, anche l’altro personaggio di City of Glass, Peter Stilman, ha molti doppi: padre e figlio con lo stesso nome. Ma:

[…] if duality is a compulsion, it isalso a recourse. It embodies a

response to demands made by the environment (…) and to promote a

belief in the biological necessity of the single self, of an experienced

integrity. (Miller 1987)

Scopo della presenza dei ‘doppi’ è di evidenziare che i per-sonaggi hanno pochissimo controllo sulla storia, lasciando all’autore il compito di ordinare gli eventi insieme al lettore che, con la sua immaginazione e fantasia, cerca di dare un significato al testo, in uno stato di confusione.

La ‘storia’ dell’autore passa attraverso il pensiero del letto-re; viene filtrata da esso, e si trasforma grazie alla sua capa-cità di elaborazione. Se viene a mancare il presupposto della detective fiction nel momento in cui viene detto a Quinn che non esiste alcun mistero da risolvere, non viene meno, però, il ruolo del lettore che viene abituato, nel corso del racconto, a leggere il testo in quanto tale, senza tentare più di darvi un senso, una trama, uno sviluppo razionale: non si cerca più la coerenza nel testo. Esso è così complesso e labirintico che il lettore, “posto dal testo in una situazione di ‘smarrimento epistemologico’” (Gozzi 1991, p. 303) sperimenta quello che Barthes definisce ‘state of loss’ (1977, p. 130) e, comple-tamente disorientato, può solo essere cosciente che leggere è lo sforzo di competere linguisticamente con l’autore. Com-petizione che va scemando nel nulla nel corso della fuga del protagonista dal mondo della parola al mondo del silenzio. “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” dice Montale (1980, p. 127), evidenzian-do l’incapacità del poeta di ‘spiegare’ il mondo. Egli si con-

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dunque, molti tratti distintivi. Alla fine, realizzano di essere stati costretti a dire parole o a compiere azioni che non ne-cessariamente avrebbero scelto di dire o fare. Sono stati posti in questo labirinto dall’autore, in questo dedalo che dà loro l’illusione del controllo, ma che è in realtà una trappola cre-ata su misura. In tal modo, ciò che appare una libera scelta, risulta essere qualcosa di predeterminato dalla figura invisi-

bile dello scrit-tore. I personag-gi sono messi nella condizione di sconfiggere la tirannia dell’ar-tificio e dei li-miti che il libro impone solo nel momento in cui riescono a defi-nire ciò che sta accadendo loro.

Il testo che, nelle intricate relazioni sotte-se e nel rappor-to tra vivere e scrivere risente dell’influsso di Thoreau, non perviene ad una conclusione fi-nale:

The end is only

imaginary, a desti-

nation you invent

to keep yourself

going, but a point

comes when you re-

alize you will never get there. You might have to stop, but that is only

because you have ran out of time. You stop but that does not mean you

have come to the end. (Ivi, p. 183)

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Beckett, incontrato a Parigi, non poteva non rappresentare un punto di riferimento nell’evoluzione letteraria di Auster. La trilogia, Molloy, Malone Dies e The Unnamable, è il mo-mento in cui Beckett gioca con le identità dei personaggi, smonta e rimonta le gerarchie che li regolano. Ecco che in Auster, come in Beckett, risulta normale trascorrere il tempo in un’urna ( Beckett 1961, Oh les beaux jours) o in un bi-done di rifiuti (Beckett 1956, Fin de partie), o in una stanza al buio senza avere contatti con il mondo esterno (Auster 1987). L’assurdo di Beckett si esplicita in Auster attraver-so i suoi personaggi bloccati nella narrazione, aspettando un cambiamento che non arriva. L’inutilità dei loro sforzi lascia il lettore in una condizione di incertezza.

fantasmi, uomini che usano la parola scritta per stabilire una comunicazione con persone che non hanno mai incontrato, quali appunto i lettori. Ed il testo, in cui convergono le inten-zioni dell’autore che è il produttore e le aspettative del lettore che ne è il fruitore, si configura drammaticamente come luo-go di solitudini in cui confluisce la libertà del lettore, come destinatario del testo, e quella dell’autore, in un tentativo di condivisione che è anche un grido d’aiuto.

Il significato diventa, così, un fatto di interpre-tazione, e alla fine, per dirla con Lyotard, gli scrittori scri-vono “without knowing for whom they are speaking” (1979 p. 26). La crisi di valori in un ‘disintegrating world’ che non comunica più nulla, si tradu-ce in crisi dello scrittore che si interroga sul suo ruolo defunzio-nalizzato e sulla frammentazione di tutti gli ele-menti del testo: Foucault parla di ‘scompar-sa dell’autore’ (1979, p. 144) e Barthes della sua morte (1977, p. 56). In Auster l’autore non è più principio unificante, espressione di una organizzazione centrale:

Writing is a solitary business. It takes over your life. In some sense,

a writer has no life of his own. Even when he’s there, he’s not really

there (Auster 1987, p. 209)

I personaggi, la cui disamina spirituale risente dell’influsso di Melville, attraverso la fede lottano per rimettere in sesto un mondo frammentato. “Knowledge” dirà Auster “ comes slowly, and when it comes, it is often at great personal ex-pense” (1987, p. 189). Bartleby in Bartleby the Scrivener di Melville, è un’allegoria della libertà rappresentando lo stato di libero arbitrio, mentre il narratore è costantemente limitato dalla convinzione del destino. Essi si presentano come im-magini riflesse, una proiezione delle sue incertezze, dei suoi dubbi, delle sue paure e delle sue ansie e con essi condivide,

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Quello che Auster definì ’the burden of Beckett’ (1988, p. 34) era il riconoscimento che dopo Beckett nulla poteva essere come prima, per cui l’emarginazione dei personaggi di Beckett sfocia nella desolante condizione di ‘homeless’ in Auster. Personaggi che improvvisano la recita della vita. L’assunto esistenzialista di Beckett secondo il quale non vi sono risposte alle domande si traduce in Auster in un senso di mistero e di angoscia che accompagna la costruzione mate-riale di un muro, dotato chiaramente di un enorme significato simbolico e religioso. La convinzione di non avere diritti, la paura di essere puniti (per il “Our being born?” [Beckett 1956, p. 11] ) e la speranza di essere salvati di Waiting for Godot, si manifesta in The Music of Chance nel desolante riferimento allegorico alla punizione e al castigo che in qual-che modo hanno a che fare col peccato di essere venuti al mondo.

Facendo suo il ruolo che Montaigne aveva assegnato alla letteratura, le attribuisce il compito di far imparare a vivere: ecco che in Oracle Night (2003) viene conferito alla scrittura il valore dell’incantesimo grazie al quale Sidney Orr rico-mincia a scrivere dopo una malattia. Così, anche la poesia diviene per Auster mezzo per questa presa di coscienza. In un mondo dove sono venuti meno i miti, gli eroi, gli dei, i dilemmi, essi sono poeti tragici incongrui in questo tipo di universo. Anche la traduzione cui Auster si dedica quasi cre-andosi ‘un’identità per procura’, lo conduce all’esplorazione dei limiti della propria lingua, esplicitando le ambiguità della propria identità biografica e letteraria.

E’ un’America disorientata, quella di Auster, che nega senza rendersene conto i valori che l’hanno fondata e ma-nifesta il fallimento dell’utopia dell’American Dream: è il paese delle innumerevoli contraddizioni, culla dell’ipocrisia dove l’idea di libertà convive con indecenti manifestazioni di schiavitù e razzismo.

Nessuna conclusione, nessuna catarsi è più possibile per queste vicende senza sviluppo.

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loro definizione come singole entità separate.2 Tale processo, come del resto la dissoluzione stessa dello Stato jugoslavo, ha avuto le conseguenze più clamorose in Bosnia-Erzegovi-na, la repubblica jugoslava (insieme a quella macedone) con la più complessa struttura etnica, dove le questioni linguisti-che riflettono le controverse relazioni sociali e politiche cor-

renti tra le nazionalità serba, croata e bosniaco-musulmana (bošnjaci).3 In tal senso, la Bosnia-Erzegovina, una “picco-

2 La lingua serbo-croata è riconosciuta nella sociolinguistica interna-zionale come lingua pluricentrica con varianti nazionali (serbo, croato, bosniaco e montenegrino) mutuamente intelligibili. La definizione si ri-ferisce a quelle lingue che hanno diversi centri interattivi ognuno con una propria variante nazionale e proprie norme codificate. Anche se esisto-no differenze tra le varianti nazionali, soprattutto lessicali e fonologiche, come nel caso dell’inglese americano e britannico, queste risultano essere così poche da non influenzare la comunicazione fra interlocutori e quindi da non essere considerate lingue distinte. Si veda in generale M. Clyne, Pluricentric Languages, Differing Norms in Different Nations, York Mou-ton de Gruyter, Berlin and New York, 1992.3 Dal 1993 il termine bošnjaci (“bosgnacchi”) è usato per indicare i bosniaci musulmani, mentre il più generico termine bosanci (“bosniaci”) indica i cittadini della Bosnia-Erzegovina senza specificare l’appartenenza

Lingua e identità nazionale in Bosnia-Erzegovina. Dal multiculturalismo all’esclusivismo linguistico ANIDA SOKOLUniversità degli Studi di Roma, La Sapienza

La storia della lingua serbo-croata, dal XIX secolo ai no-stri giorni, segue le turbolente vicende storiche della regione jugoslava.1 Durante i diversi momenti storici, gli aspetti lin-guistici sono spesso serviti a consolidare obiettivi politici, rappresentando sia uno strumento fondamentale per l’unifi-cazione delle nazionalità slave del sud, sia un riflesso dell’af-fermazione delle identità nazionali specifiche delle diverse componenti jugoslave. L’importan-za della lingua nella regione è evidente se si con-sidera il fatto che essa è stata sia una delle prin-cipali basi per l’unificazione dei popoli jugoslavi nel Regno dei Serbi, Croati, Sloveni (Kraljevina Srba, Hrvata i Slovenaca, SHS) nel 1918, sia, du-rante la disintegrazione della Repubblica Socia-lista Federale di Jugoslavia (Socijalistička Fede-rativna Republika Jugoslavija, SFRJ) negli anni Novanta del XX secolo, uno dei primi obiettivi delle diverse componenti nazionali e delle entità statali subentranti per affermare la propria spe-cificità nazionale. Il serbo-croato, codificato nel XIX secolo come un’unica lingua sulla base della variante più diffusa, quella del dialetto štokavski, oggi per ragioni politiche e nazionaliste è stato invece “disintegrato” in quattro lingue nazionali: serbo, cro-ato, bosniaco e montenegrino, nonostante dal punto di vista sociolinguistico non esistessero i concreti presupposti per la

1 Nell’elaborato la definizione “lingua serbo-croata” continua ad essere utilizzata nonostante negli ultimi due decenni sia divenuta desueta nell’a-rea ex jugoslava. A livello internazionale, invece, il termine è ancora usato da alcuni linguisti come Snježana Kordić con un’accezione strettamente geografica, che non esclude quindi bosniaci musulmani e montenegrini – come affermano al contrario i linguisti “nazionalisti” – poiché denota i margini di una vasta area linguistica che ha vissuto tradizionalmente una prevalenza numerica e di conseguenza politica e culturale di serbi e croati. Si veda S. Kordić, Jezik i nacionalizam, Durieux, Zagreb, 2000, p. 267. Il termine oggi più utilizzato per denominare la lingua comune in Bosnia-Erzegovina è “lingua bosniaca/croata/serba” (BHS jezik).

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autocratico e metastorico della sua sovranità politica, dove non erano le nazioni, tanto meno le lingue, a legittimare il sovrano; solamente sul finire dell’epoca ottomana, l’ammini-strazione imperiale in Bosnia-Erzegovina cerca d’intervenire nelle questioni nazionali a causa dell’influenza esercitata dai vicini territori serbi e croati. Al tempo stesso, quando ottiene l’amministrazione della Bosnia-Erzegovina al Congresso di Berlino del 1878, l’Austria-Ungheria per sopravvivere all’e-poca della nazionalizzazione delle masse è già stata costretta a rimodellarsi come monarchia dualistica e pertanto è pronta a contrastare le crescenti identità nazionali con l’introduzio-ne di strategie adeguate comprendenti anche specifiche poli-tiche linguistiche.

Successivamente, nella “prima” Jugoslavia, quella monar-chica (1918-1941), Belgrado impone con risultati discutibili un’uniformità linguistica finalizzata a rafforzare l’unità na-zionale e politica del Paese: la sopravvivenza delle tensioni nazionaliste porta infatti alla prima disgregazione jugoslava, sotto i colpi delle potenze dell’Asse, e alla breve e tragica parentesi dello Stato Indipendente Croato (1941-1945), che comprendeva anche la Bosnia-Erzegovina, durante il quale il croato è proclamato lingua ufficiale e l’alfabeto cirillico, caratteristico della scrittura serba, viene proibito.6 Nella “se-conda” Jugoslavia, quella socialista (1945-1991), invece, la lingua serbo-croata ritorna a essere un mezzo di unificazione nazionale: un primo momento di comune standardizzazione linguistica del serbo-croato (fino al 1965), tuttavia, lascia il passo a una progressiva separazione in varianti nazionali de-finitivamente condotta alle estreme conseguenze dai primi anni Novanta in poi.7

Durante il regime di Tito, infatti, il serbo-croato è la “lin-gua franca” dello Stato comune socialista, comprensibile an-che alle altre nazionalità e minoranze jugoslave. In linea con la politica di Bratstvo i jedinstvo (“Fratellanza e unità”), di-retta derivazione della propaganda partigiana jugoslava della Seconda guerra mondiale, due centri culturali e linguistici, Zagabria e Belgrado, sin dagli anni Cinquanta lavorano di comune accordo alla codificazione del serbo-croato finaliz-zata alla pubblicazione di un dizionario e di un’ortografia della lingua comune. L’esistenza di un’unica lingua è riaffer-mata dall’Accordo di Novi Sad (Novosadski dogovor)8 del 1954, che riconosce pari dignità all’alfabeto latino utilizzato dai croati e a quello cirillico utilizzato dai serbi, così come alle due pronunce dello štokavski, quella ekavski orienta-le (ovvero con epicentro Belgrado) e ijekavski occidentale

6 Sulla persistenza delle tensioni nazionali all’interno del Regno dei Ser-bi, Croati e Sloveni, con una serie di riferimenti anche agli aspetti lin-guistici, si veda I. Banac, The National Question in Yugoslavia. Origins, History, Politics, Cornell University Press, Ithaca-London, 1984. Sulle politiche linguistiche nello Stato Indipendente Croato si veda invece M. Samardžija (a cura di), Hrvatski jezik, pravopis i jezična politika u NDH, Hrvatska sveučilišna naklada, Zagreb, 2008.7 Sulle politiche linguistiche nel periodo della Jugoslavia socialista si veda R. Bugarski, C. Hawkesworth, Language Planning in Yugoslavia, Slavica Publishers, Columbus, 1992.8 Zaključci novosadskog sastanka o hrvatskom ili srpskom jeziku i pravo-pisu, in Jezik, god. 3, br. 3, veljača 1955, p. 65.

la” Jugoslavia che vive profonde contraddizioni, con la con-vivenza in una regione relativamente ristretta di tre “lingue” – serbo, croato e bosniaco – varianti di uno stesso idioma pluricentrico, rappresenta quindi un caso sociolinguistico unico.

LINGUA COME STRUMENTO POLITICO

Nell’area ex jugoslava la questione linguistica riflette la complessa questione nazionale slavo-meridionale, l’identi-tà di popoli – serbi, croati, bosniaci e montenegrini – che parlano la stessa lingua ma hanno spesso perseguito finalità politiche divergenti e in contrasto tra loro. Con le dovute dif-ferenze, soprattutto lessicali, sviluppate nel corso del tempo e all’interno di differenti contesti politico-culturali, la lingua serbo-croata si è rivelata un ottimo strumento per il conse-guimento di obiettivi politici e l’affermazione dell’identità nazionale, ovvero un ottimo strumento di Nation-building.4 I diversi regimi politici della Bosnia-Erzegovina hanno tentato di imporre, con più o meno successo, determinate soluzioni politiche e relative scelte linguistiche, nella maggior parte dei casi per ridurre le tensioni tra le nazionalità slave del sud, ma spesso anche per esasperarle. Se durante il periodo otto-mano non esisteva da parte della Sublime Porta un reale inte-resse politico per le questioni linguistiche, e lingua e scrittura si sviluppavano separatamente nelle diverse comunità con-fessionali cristiane e musulmana, il dominio austro-ungarico (1878-1918) è il primo a imporre una politica linguistica volta alla creazione di un’unica nazione bosniaca con la fi-nalità di neutralizzare le influenze nazionaliste provenienti dal vicino Regno di Serbia e dagli stessi territori croati all’in-terno dell’Impero.5 Il disinteresse dell’Impero ottomano per le questioni linguistiche nasceva soprattutto dal fondamento

nazionale. Sui musulmani di Bosnia-Erzegovina si veda: F. Friedman, The Bosnian Muslims, Denial of a Nation, Westview Press, Boulder-Oxford, 1996; G. Motta, From One Dynasty to Another: The Muslims of Bosnia from Habsburg to Karađorđević, in G. Motta, Less than nations. Cen-tral-Eastern European Minorities after WWI, vol. II, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle, 2013, pp. 153-187.4 Lo studioso norvegese P. Kolstø definisce il concetto di Nation-build-ing come “strategies of identity consolidation within states and distinguish it from ‘state-building’. The latter term, as we use it, pertains to the ad-ministrative, economic and military groundwork of functional states – the ‘hard’ aspects of state construction. Nation-building, in contrast, concerns only the ‘softer’ aspects of state consolidation, such as the construction of a shared identity and a sense of unity among the population”. Cfr. P. Kolstø (a cura di), Strategies of Symbolic Nation-building in South Eastern Europe, Ashgate, Farnham, 2014, p. 3.5 In generale sulla storia della Bosnia-Erzegovina si veda N. Malcolm, Storia della Bosnia. Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 2000. Per quanto riguarda l’area slavo-meridionale nel XIX secolo si rimanda, nella vasta produzione storiografica esistente, a S. Clissold (a cura di), Storia della Jugoslavia. Gli slavi del sud dalle origini a oggi, Einaudi, Torino, 1969; A. Tamborra, L’Europa centro-orientale nei secoli XIX-XX (1800-1920), Vallardi, Milano, 1971. In merito agli aspetti lin-guistici in questione si rimanda a S. Mønnesland (a cura di), Jezik u Bosni i Hercegovini, Institut za jezik u Sarajevu, Institut za istočnoevropske i orijentalne studije, Oslo, 2005, e in particolare per la politica linguistica austro-ungarica in Bosnia-Erzegovina M. Šator, Bosanski/Hrvatski/Srpski jezik u BiH do 1914, Univerzitet Džemal Bijedić, Fakultet humanističkih nauka, Mostar, 2004.

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a crearne una terza. Ciò rischiava di contribuire alla disin-tegrazione della tradizionale cultura bosniaco-erzegovese, attraverso un’istruzione separata con due o tre programmi, terminologie e libri di testo nell’ambito educativo, realtà che effettivamente si concretizzerà negli anni Novanta durante e in seguito al conflitto jugoslavo.12

Al fine di scongiurare tale ipotesi negli anni Settanta si svi-luppa un’intensa attività di ricerca filologica presso l’Istituto linguistico di Sarajevo (Institut za jezik i književnost u Sara-jevu), fondato nel 1973. L’Istituto diventerà il più importan-te centro linguistico della Bosnia-Erzegovina coinvolgendo i principali linguisti dell’intera Jugoslavia nella formulazione della politica linguistica specifica bosniaca. A tal fine, Mi-lan Šipka, primo direttore dell’Istituto, nell’ottobre del 1973 organizzerà una conferenza a Mostar, nota come Mostarsko savjetovanje, dove interverranno più di trecento tra linguisti, insegnanti e rappresentanti delle associazioni culturali jugo-slave.13 Più in generale, i progetti dell’Istituto per la lingua includeranno l’analisi del linguaggio utilizzato dai media, lo studio degli scrittori della Bosnia-Erzegovina del XIX e XX secolo, della lingua della letteratura alhamijado e della terminologia pedagogica. Oggi l’Istituto, a causa delle poli-tiche nazionaliste che dominano le tre nazionalità costituenti l’attuale Bosnia-Erzegovina e nonostante la prolifica attività di ricerca scientifica sviluppata anche negli anni successivi alla guerra del 1992-1995, è rimasto ai margini della società e della vita accademica del Paese proprio in virtù delle sue posizioni multiculturali ereditate dell’epoca jugoslava. L’I-stituto, infatti, privato del supporto statale, decurtato del pro-prio personale e soprattutto improntato a un programma di ricerca “a-nazionale”, non è riuscito ad adeguarsi alle nuove correnti politiche che condizionano anche le questioni lin-guistiche. L’Istituto non solo è stato abbandonato dai suoi collaboratori serbi e croati, ma ha visto venire meno il so-stegno della stessa popolazione bošnjak. Nel nuovo contesto politico e sociale, non è stato capace di assumere il ruolo guida nell’analisi della codificazione linguistica: i suoi ten-tativi di mantenere divisa la scienza filologica dalle politiche nazionali sono puntualmente falliti. Per tale ragione negli ultimi anni ha intrapreso una serie d’iniziative scientifiche volte a riconquistare il terreno perduto affermando il sostan-ziale riconoscimento di tre standard linguistici per la Bosnia-Erzegovina, seppure con la distinzione delle peculiari forme di lingua serba e croata del Paese da quelle propriamente parlate in Serbia e Croazia.14

12 I numerosi documenti, articoli e proclamazioni prodotti in quel perio-do in difesa del multiculturalismo bosniaco-erzegovese sono raccolti in: M. Šipka (a cura di), Mostarsko savjetovanje o književnom jeziku, Institut za jezik i književnost, Sarajevo, 1974; Id. (a cura di), Standardni jezici i nacionalni odnosi u Bosni i Hercegovini (1850-2000), dokumenti, Institut za jezik, Sarajevo, 2001.13 Zaključci o sprovođenju književnojezičke politike u Bosni i Hercego-vini, in Mostarsko savjetovanje..., pp. 197-199.14 N. Veljevac, Standardna novoštokavština i jezička situacija u Bo-sni i Hercegovini, in N. Valjevac et al., Standardna novoštokavština i bosanskohercegovačka jezička situacija, Institut za jezik, Sarajevo, 2005, pp. 12-14.

(con epicentro Zagabria). L’accordo stabilisce l’obbligo di usare entrambi i nomi nazionali (srpski-hrvatski) per la de-nominazione dell’idioma comune. Qualsiasi espressione di nazionalismo linguistico è in tal modo emarginata, anche se tensioni emergeranno già nel 1966 con la pubblicazione del controverso dizionario di lingua serbo-croata del serbo Miloš Moskovljević – immediatamente ritirato dal commercio – 9 e con la “Dichiarazione sul nome e la posizione della lingua letteraria croata” (Deklaracija o nazivu i položaju hrvatsko-ga književnog jezika) del 1967, prodromo della “primavera croata” del 1971, che rivendica, a nome delle più importanti istituzioni culturali e linguistiche croate, la distinzione a li-vello costituzionale della lingua croata da quella serba (quin-di non più srpskohrvatski ma srpski e hrvatski) e il suo uso nel sistema educativo e nei media della Repubblica federale di Croazia.10

Progressivamente, dunque, il risveglio delle tensioni na-zionaliste in Jugoslavia contribuisce allo sviluppo di poli-tiche linguistiche separate per le diverse entità nazionali di lingua serbo-croata, che portano, insieme alle rivendicazioni politiche per una maggiore autonomia regionale, alla formu-lazione della riforma costituzionale del 1974, che prevede una nuova definizione del serbo-croato e lascia un più ampio margine di interpretazione della questione linguistica alle singole repubbliche federali e alle due regioni autonome del-la Serbia, quelle del Kosovo e della Vojvodina.11 In risposta all’ascesa del nazionalismo politico e culturale nello Stato jugoslavo, nel 1967 una politica linguistica specifica è inoltre adottata per la prima volta in Bosnia-Erzegovina. Due anni prima, infatti, durante il Congresso linguistico di Sarajevo (Peti kongres jugoslavenskih slavista), un primo importante conflitto tra linguisti serbi e croati era emerso in merito alla questione dell’unità linguistica, delle sue varianti e delle sue differenze, conflitto che negli anni successivi avrebbe pro-vocato come reazione il proliferare di numerosi documenti e proclamazioni volte a tutelare il multiculturalismo bosniaco-erzegovese. L’esistenza di due varianti del serbo-croato e la risoluzione della questione linguistica jugoslava secondo linee nazionali minacciava il carattere multinazionale della Repubblica della Bosnia-Erzegovina, che non aveva al suo interno zone etnicamente omogenee. Qualora si fosse so-stenuta la polarizzazione linguistica in due varianti, serba e croata, i bosniaci musulmani sarebbero stati costretti a sce-gliere tra le due versioni – il che rappresentava un aspetto di assimilazione nazionale a livello linguistico e culturale – o

9 In particolare, Rečnik srpskohrvatskog jezika di Miloš Moskovljević viene proibito per la presenza di una serie di definizioni controverse quali quelle relative ai termini četnik e partizan. Si veda T.F. Magner, Language and Nationalism in Yugoslavia, in Canadian Slavic Studies, vol. 1, n. 3, 1967, p. 340.10 Cfr. J. Hekman (a cura di), Deklaracija o nazivu i položaju hrvatskog književnog jezika, Građa za povijest Deklaracije, Matica hrvatska, Zagreb, 1997.11 Jezičke odredbe u ustavima od 1974. godine, Ustav Socijalističke Fe-derativne Republike Jugoslavije, in B. Petranović, M. Zečević (a cura di), Jugoslovenski Federalizam, ideje i stvarnost. Tematska zbirka dokumena-ta, II, 1943-1986, Prosveta, Beograd, 1986, p. 747.

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A sostegno delle loro argomentazioni, i linguisti “naziona-li” rafforzano differenze e peculiarità delle proprie varianti, fino ad arrivare alla formulazione di nuove parole (neologi-smi) come avviene soprattutto in Croazia.19 Tale discrepanza tra la sociolinguistica e le politiche linguistiche nell’area ex jugoslava è il risultato della violenta disintegrazione dello Stato comune e della creazione dei nuovi Stati nazionali. In tal senso, la lingua ha avuto dunque un ruolo più simbolico che comunicativo, finalizzato al superamento del messag-gio jugoslavo di Bratstvo i jedinstvo, che aveva avuto come obiettivo – anche attraverso la lingua comune – il manteni-mento dell’unità dello Stato federale.

Le politiche linguistiche nazionaliste degli Stati eredi della vecchia Jugoslavia, così come il lavoro alla base dell’unio-ne linguistica jugoslava avviata dai “padri” del serbo-croato Vuk Stefanović Karadžić (1787-1864) e Ljudevit Gaj (1809-1872) a partire dal XIX secolo, hanno alla loro origine l’ap-proccio “primordialista” alla questione della lingua e della nazione sviluppato durante il romanticismo tedesco della fine del XVIII secolo da Johann Gottfried Herder. Secondo Herder la lingua ha un ruolo sacro per la definizione di un’i-dentità nazionale e, come conseguenza, fondamentale per la preservazione di quest’ultima si rivela la tutela del purismo linguistico, ovvero la pratica di definire o riconoscere una varietà linguistica come più pura e di qualità intrinsecamen-te superiore rispetto ad altre varianti.20 È ben noto come il protezionismo linguistico assuma spesso la forma di una purificazione della lingua dalle contaminazioni linguistiche straniere.21 È altrettanto noto come tale dinamica in Europa abbia raggiunto le sue espressioni più estreme durante i re-gimi totalitari, come ad esempio quelli nazista in Germania e fascista in Italia, o per quanto riguarda più specificamente il tema in oggetto, il regime ustaša dello Stato Indipendente Croato, durante il quale il purismo linguistico divenne parte integrante delle politiche di annientamento della minoranza serba rimasta all’interno dei suoi confini.22

Secondo l’approccio “primordialista”, l’esistenza delle na-

tity in the Balkans, Serbo-Croatian and its Disintegration, Oxford Uni-versity Press, New York, 2004, che offre un quadro generale della que-stione linguistica nella regione negli ultimi venti anni. Si vedano inoltre le pubblicazioni di D. Škiljan, Jezična politika, Naprijed, Zagreb, 1988; Id., Javni jezik, Biblioteka XX vek, Beograd, 1998; Id., Govor nacij: Jezik, nacija, Hrvati, Golden Marketing, Zagreb, 2008; e di R. Bugarski, Jezik od rata do mira, Slavograf, Beograd, 1995; Id., Lica jezika, Biblioteka XX vek, Beograd, 2002; Id., Nova lica jezika, Biblioteka XX vek, Beo-grad, 2002. In lingua italiana si segnalano i seguenti contributi: S. Pelussi, Voci dalle periferie dell’Europa. Lingua e identità: la moltiplicazione de-gli idiomi nella ex-Jugoslavia, in Cives, 2008, pp. 126-140; G. Manzelli, Dall’aggregazione alla disgregazione: frammenti di storia della lingua e della letteratura serbocroata (bosniaca, croata, monetenegrina e serba), in I. Putzu, G. Mazzon, Lingue, letterature, nazioni, Centri e periferie tra Europa e Mediterraneo, FrancoAngeli, 2012, Milano, pp. 371-420.19 S. Mønnesland, Od zajedničkog standarda do trostandardne situacije, in S. Mønnesland (a cura di), op. cit., p. 481.20 Su Herder si veda H. Alder, W. Koepke, A Companion to the Works of Johann Gottfried Herder, Campen House, New York, 2006.21 Si veda in generale: T. George, Lingustic purism, Longman, London-New York, 1992; B.H. Jemudd, M.J. Sharipo, The politics of languge pu-rism, Walter de Gruyer & Co., Berlin-New York, 1989.22 Si veda S. Kordić. op.cit., pp. 10-68.

SECESSIONISMO NAZIONALE E “BALCANIZZAZIONE”

LINGUISTICA

Nonostante i numerosi tentativi rivolti a mantenere un ap-proccio tollerante e di apertura nei confronti delle politiche linguistiche in Jugoslavia e nello specifico nella Bosnia-Erzegovina, le tensioni nazionaliste che hanno portato alla violenta dissoluzione del Paese hanno inevitabilmente coin-volto anche la questione della lingua. All’inizio degli anni Novanta il consolidamento politico dei partiti nazionalisti ha portato con sé politiche linguistiche “nazionaliste” finalizza-te a differenziare le varianti linguistiche serbo-croate ed ele-varle a idiomi nazionali, per ottenere, usando la definizione di Joshua Fishman, il contrastive self-identification, il conso-lidamento dell’identità nazionale attraverso un sentimento di comunità che unisce e identifica coloro che parlano la stessa lingua, separandoli da coloro che non la parlano.15 Secessio-nismo nazionale e regionale hanno incluso anche le naturali tendenze a completare l’indipendenza politica con il “separa-tismo linguistico” (linguistic separatism), processo definito da Eric Hobsbawm “Balcanizzazione linguistica” (linguistic Balkanization).16

I linguisti “nazionali” e il testo costituzionale della Bosnia-Erzegovina oggi considerano il serbo, il croato e il bosniaco tre lingue separate, che contribuiscono a stabilire diversi mo-delli educativi e formativi. Negli Stati eredi della Jugoslavia i “pianificatori” della lingua sono ricorsi a esperimenti di vera e propria ingegneria linguistica, riscoprendo a fini poli-tici le tradizioni passate, ovvero l’usable past, per dirla con le parole di Anthony Smith relative al Nation-building.17 Il “separatismo linguistico” è oggi sostenuto dalle teorie di lin-guisti, intellettuali, scrittori e storici dell’area ex-jugoslava, come ad esempio Dalibor Brozović e Stjepan Babić in Croa-zia, Dževad Jahić e Senahid Halilović in Bosnia-Erzegovina, o Adnan Čirgić in Montenegro, che hanno avuto un ruolo fondamentale nella “lotta” per l’elevazione delle varianti na-zionali a veri e propri idiomi, ponendo le basi per lo sviluppo delle politiche linguistiche “nazionaliste” delle repubbliche post-jugoslave. Le principali argomentazioni sostenute da questi linguisti sono: che ogni nazione ha diritto alla propria lingua; che le varianti del serbo-croato di oggi risultano di-verse rispetto a quelle del passato; che la “lingua comune” della Jugoslavia è stata una creazione artificiale imposta e il serbo-croato, in realtà, non è mai realmente esistito.18

15 J. Fishman, Language and nationalism, New Berry House Publishers, Rowley, 1972, pp. 44-52.16 “In the area of national and regional secessionism there is a natural tendency to complement political independence by linguistic separatism”. Cfr. E. Hobsbawm, Language, Culture and National Identity, in Social Research, vol. 63, n. 4, winter 1996, pp. 1065-1080.17 A. Smith, The “Golden Age” and National Renewal, in G. Hosking, G. Schopflin (a cura di), Myths and Nationhood, Hurst & Co., London, 1997, pp. 36-59.18 In generale, negli ultimi anni rari sono stati gli studi che hanno di-mostrato un’analisi critica del fenomeno della “disintegrazione” del ser-bo-croato. Tra questi sicuramente la già menzionata pubblicazione Jezik i nacionalizam di Snježana Kordić, decisamente critica nei confronti del “purismo croato”, e il lavoro di Robert D. Greenberg Language and Iden-

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strumento di Nation-building.27 In tal modo, la lingua tra-smette soprattutto un forte senso di appartenenza a un grup-po, diventando così uno strumento per il consolidamento dell’identità nazionale. Dopo la caduta della Jugoslavia, che secondo Kølsto rappresenta insieme alla dissoluzione sovie-tica la terza ondata di Nation-building, dopo quelle avvenute in epoca moderna nell’Europa occidentale e la decolonizza-zione in Africa e Asia nel XX secolo, i nuovi Stati post-jugo-slavi hanno avuto bisogno di una nuova identità. Al contrario delle prime due “ondate”, la terza ha avuto periodi di tempo molto più breve, e metodi diretti e indiretti di consolidamen-to dell’identità sono stati più forti lì dove simboli e rituali hanno svolto un ruolo cruciale. In tal senso, anche le poli-tiche linguistiche sono state mirate ad affermare le proprie specificità nazionali. Strumentale alla dimostrazione di tale presupposto, durante e dopo la guerra degli anni Novanta, nell’area ex jugoslava si è assistito al proliferare di una serie di pubblicazioni che reinterpretavano l’evoluzione storica delle singole varianti del serbo-croato – il linguista ameri-cano Ralph Fasold sottolinea che la lingua funziona come collegamento con il “glorioso passato” dei popoli –28 come ad esempio il testo di Milan Moguš del 1993 sulla storia del-la lingua croata o quello di Mushin Rizvić sulla lingua bo-sniaca.29 Secondo il linguista australiano Michael Clyne, le lingue pluricentriche unificano e dividono i popoli al tempo stesso: si unificano le persone attraverso l’uso della lingua e si separano attraverso lo sviluppo di norme nazionali, come nel caso del serbo-croato.30

LA LINGUA NELLA BOSNIA-ERZEGOVINA DEGLI

ACCORDI DI DAYTON

In Croazia, dove la definizione “lingua letteraria croata” era riconosciuta già dalla Costituzione jugoslava del 1974, nel 1990 la nuova costituzione decreta il croato lingua nazio-nale ufficiale e lo stesso avviene in Serbia per la lingua serba con la “Legge sull’uso ufficiale della lingua e della scrittura” (Zakon o službenoj upotrebi jezika i pisama). Nel 1992 la lingua serba con la pronuncia ekavski o ijekavski e l’alfabeto cirillico – salvo l’uso di quello latino in casi particolari – è inoltre proclamata lingua ufficiale nella Repubblica Federale di Jugoslava (Serbia e Montenegro). Parallelamente anche in Bosnia-Erzegovina c’è chi sostiene la necessità di ricono-scere una lingua peculiare per i bosniaci musulmani. In quel periodo in Bosnia-Erzegovina la politica linguistica del 1970 era ancora in uso e le denominazioni ufficiali vigenti era-no ancora srpskohrvatski e hrvatskosrpski. Nei media, e in particolar modo nel quotidiano Oslobođenje, sarebbe seguito un acceso dibattito sulla questione linguistica. Autori come

27 Cfr: Kolstø, op.cit, p. 4.28 Cfr. R. Fasold, The Sociolinguistics of Society, Oxford, Blackwell, 1984, p. 77. 29 M. Moguš, Povijest hrvatskoga književnog jezika, Globus, Zagreb, 1993; M. Rizvić, Bosna i Bošnjaci: jezik i pismo, Preporod, Sarajevo, 1996.30 M. Clyne, op. cit., p. 1.

zionalità serba, croata, bosniaca e montenegrina, comporta necessariamente l’esistenza di quattro idiomi separati. La convinzione che una nazione corrisponda a una determina-ta area linguistica, tuttavia, ha incontrato le confutazioni di numerosi studiosi. L’area ex jugoslava e in generale i Balca-ni rappresentano tra l’altro un esempio appropriato di come in molte aree d’Europa, le frontiere linguistiche e i confini nazionali difficilmente corrispondano. Già nel 1882 nel suo famoso articolo Che cos’è la nazione? (Qu’est-ce qu’une nation?), Ernest Renan aveva sottolineato il pericolo e l’in-conveniente di far coincidere a ogni costo lingua e nazione. Secondo Renan, le origini di una nazione andavano ricercate invece in un passato e una volontà comune, ovvero “la vo-lontà comune di ricordare e dimenticare”.23

Come Renan, anche gli etnosimbolisti considerano passa-to, miti e simboli, concetti fondamentali per la formazione di una nazione. Secondo Anthony Smith, infatti, la nazione è una popolazione umana che condivide territorio, miti e me-morie storiche, una massa con una comune cultura pubbli-ca, un’economia comune e comuni diritti e doveri per i suoi membri.24 La nazione troverebbe dunque le proprie origini nell’ethnie, ovvero in forme pre-moderne di identità cultu-rali collettive con miti, storie e culture comuni, associati a un territorio specifico e a un forte senso di solidarietà.25 I modernisti come Benedict Anderson, Ernest Gellner e Eric Hobsbawm, infine, tendono invece a sottolineare la natura artefatta delle nazioni e del nazionalismo, intesi come vere e proprie invenzioni, prodotti del modernismo con scopi politici ed economici. In tal senso le nazioni non avrebbero dunque le loro origini negli elementi culturali o sociali, ma rappresenterebbero quasi esclusivamente una forma di stra-tegia politica.26

Se la lingua non corrisponde a una sola nazione, anche questa diventa dunque un elemento importante per definire l’identità nazionale, etnica e sociale, rappresentando uno

23 E. Renan, Qu’est-ce qu’une nation?, Presses-Pocket, Paris, 1992.24 “A named human population sharing an historic territory, common myths and historical memories, a mass, public culture, a common econo-my and common legal rights and duties for all members”. Cfr. A.D. Smith, National Identity, Penguin, London, 1991, p. 14.25 “Pre-modern forms of collective cultural identities, human popula-tions with shared ancestry myths, histories and cultures, having an associ-ation with a specific territory and a sense of solidarity”. Cfr. A.D. Smith, The Ethnic Origins of Nations, Blackwell, Oxford, 1986, p. 32. Kolstø raccomanda cautela nell’applicazione agli Stati balcanici della distinzione occidentale fra i termini “nazione” ed “etnia”. Il significato del termine serbo-croato narod non corrisponde né a “gruppo etnico” né a “nazione”, o almeno alle definizioni che di questi concetti si hanno nella cultura occi-dentale. In questa, infatti, “gruppo etnico” è un concetto non-politico, che esula dall’appartenenza o meno di una popolazione a uno Stato, mentre la “nazione” è intesa come un concetto politico e prevede l’inclusione di una determinata popolazione all’interno di uno Stato. Narod, invece, nel senso tradizionale della parola, rappresenta simultaneamente un concetto culturale e politico, denotando un gruppo culturale che possiede un’iden-tità politica legata a un determinato Stato ma non coincide esclusivamente con la popolazione di quello Stato. P. Kolstø (a cura di), op.cit..., p. 5.26 Si vedano: B. Anderson, Imagined Communities Reflections on the Origins and Spread of Nationalism, Verso, London, 1983; E. Gellner, Na-tions and Nationalism, Basil Blackwell, Oxford, 1983; E. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), The Invention of Tradition, University Press, Cambrid-ge, 1983.

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guiranno altre pubblicazioni finalizzate alla codificazione e all’affermazione dell’originalità della lingua bosniaca come idioma dei musulmani di Bosnia-Erzegovina in contrapposi-zione a quella dei serbi e dei croati: l’ortografia Pravopis bo-sanskog jezika di Halilović (1996), la Gramatika bosanskog jezika di Halilović, Jahić e Palić, e ancora le pubblicazioni di Jahić Bošnjački narod i njegov jezik (1999) e Bosanski jezik u 100 pitanja i odgovora (1999).38 Nel 1998 si tiene inoltre a Bihać il “Simposio sulla lingua bosniaca” (Simpozij o bosanskom jeziku),39 cui partecipano quasi esclusivamente linguisti bosniaco-musulmani che ribadiscono esplicitamen-te la peculiarità della lingua bosniaca.40 Oltre a ciò, infine, un altro importante documento, la “Carta della lingua bosniaca” (Povelja o bosanskom jeziku), è firmato nel 2002 da sessanta intellettuali bosniaci musulmani per il diritto a chiamare la propria lingua “bosniaca” (bosanski), nome non riconosciuto da serbi e croati in quanto collegato al Paese comune e non alla singola nazionalità bošnjak.41

In seguito agli Accordi di Dayton che hanno posto fine al conflitto del 1992-1995, la Bosnia-Erzegovina è oggi com-posta di due entità amministrative, la Federazione della Bo-snia-Erzegovina (51% del territorio) e la Republika Srpska (49%), cui si aggiunge il distretto autonomo di Brčko. Nella Costituzione della Federazione, entità in cui vivono preva-lentemente bosniaci musulmani e croati, era inizialmente scritto (1994): “Le lingue ufficiali della Federazione sono il bosniaco e il croato. L’alfabeto ufficiale è il latino”.42 Il

38 S. Halilović, Pravopis bosanskog jezika, Preporod, Kulturno društvo Bošnjaka, Sarajevo, 1996; S. Halilović, D. Jahić, I. Palić, Gramatika bo-sanskog jezika, Dom štampe, Zenica, 2000; Dž. Jahić, Bošnjački narod i njegov jezik, Dom štampe, Zenica, 1999; Id., Bosanski jezik u 100 pitanja i odgovora, Ljiljan, Sarajevo, 1999.39 Nel contributo presentato al Simposio, Jahić elenca le sedici ragio-ni che testimonierebbero l’esistenza di una lingua bosniaca diversa dalla serba e dalla croata: l’esistenza di un etnos che ha creato e conservato la lingua; la discendenza dei bosniaci musulmani dagli eretici medievali bogumili; l’esistenza di un regno medioevale bosniaco; l’islamizzazione avvenuta nel periodo ottomano; il nome “lingua bosniaca” risalente al me-dioevo; l’esistenza in passato della particolare letteratura alhamijado; la particolare scrittura bosančica; la pubblicazione del dizionario della lingua bosniaca di Muhamed Hevaija Uskufi nel 1631; le riforme linguistiche arabe; la politica linguistica di Benjamin Von Kállay durante il periodo austro-ungarico; la ricca tradizione orale bosniaca; la letteratura dei bo-sniaci musulmani del XIX secolo; e infine il diritto di ogni nazione ad ave-re la propria lingua. Cfr. Dž. Jahić, Lingvistički i kulturno-historijski izvori bosanskog jezika, in I. Čedić (a cura di), Simpozij o bosanskom jeziku, zbornik radova, Institut za jezik i književnost, Sarajevo, 1997, pp. 28-29.40 Il linguista americano Curtis Ford ha analizzato il congresso nel con-testo di First Congress Phenomenon e Status planning. Si veda C. Ford, Language Planning in Bosnia and Herzegovina, the 1998 Bihać Syposium, in The Slavic and East European Journal, vol. 46, no. 2, summer 2002, pp. 349-361. La sociolinguistica moderna attribuisce un importante significato ai primi congressi per la codificazione delle lingue nazionali. Fishman lo definisce il “fenomeno del primo congresso”: “early efforts at both corpus planning and status planning, i.e., efforts to purify, enrich and/or standard-ize the language itself, on the one hand, and efforts to protect, foster, and require the language, on the other hand”. Cfr. J.A. Fishman (a cura di), The Earliest Stage of Language Planning, The “First Congress” Phenomenon, Mouton du Gruyter, Berlin, 1993, p. 2.41 Povelja o bosanskom jeziku, http://bichamilton.com/web/wpcontent/themes/calvary/docs/Povelja%20o%20Bosanskom%20jeziku.pdf42 Odluka o proglašenju Federacije Bosne i Hercegovina, Službene no-vine Federacije Bosne i Hercegovina, 21 juli/srpanj 1994.

Alija Isaković,31 Amira Idrizbegović e Senahid Halilović32 sostengono il diritto dei bosniaci musulmani ad avere una propria lingua e nel 1991 due pubblicazioni fondamentali, Jezik bosanskih muslimana di Dževad Jahić e Bosanski jezik dello stesso Halilović, che riconoscono la peculiarità della lingua dei musulmani soprattutto per la presenza di parole d’origine orientale (orijentalizmi) – ovvero prestiti linguisti-ci dalla lingua turca e araba affermatisi durante il periodo ottomano –, vengono pubblicati.33

Il riconoscimento della lingua bosniaca, al pari di quella serba e croata, in tale contesto viene considerato un passag-gio fondamentale per la conferma dell’esistenza della nazio-nalità bosniaco-musulmana, riconosciuta solamente negli anni Sessanta durante il periodo socialista ma seriamente mi-nacciata nel corso della violenta dissoluzione jugoslava dei primi anni Novanta. Alla fine del 1992, dopo la dichiarazio-ne d’indipendenza della Bosnia-Erzegovina che rigettata dai serbi sarà causa della deflagrazione della guerra, centocinque intellettuali bosniaci firmano una lettera indirizzata al gover-no bosniaco-erzegovese dal titolo “Per l’uguaglianza dei mu-sulmani bosniaci nella lingua” (Za ravnopravnost Bosanskih Muslimana u jeziku) con la richiesta che nella Costituzione della Bosnia-Erzegovina sia specificato che le lingue ufficiali della Repubblica sono la bosniaca, la croata e la serba con il dialetto ijekavski.34 Nel 1993 il governo introduce un nuovo regolamento costituzionale che afferma: “Nella Repubblica della Bosnia-Erzegovina la lingua ufficiale in uso è quella standard letteraria con la pronuncia ijekavica dei suoi popoli costitutivi, chiamata con uno dei tre nomi: bosniaca, serba, croata”.35 Il regolamento emanato dal Ministero della Pubbli-ca Istruzione sostiene che i tre nomi (lingua bosniaca, serba e croata) saranno adottati dagli insegnanti nell’ambito del sistema educativo nazionale, mentre gli studenti avranno fa-coltà di scegliere il termine preferito.36 L’obiettivo è quello di conservare l’immagine multiculturale e multinazionale della Bosnia-Erzegovina, preservandone l’unità e l’indipendenza. Il termine che già allora va affermandosi e riscontra un mag-giore utilizzo, comunque, è “lingua bosniaca”, definizione consolidata dalla pubblicazione nel 1994 – durante la guerra – della prima grammatica della lingua bosniaca per le scuole superiori di Hanka Vajzović e Husein Zvrko.37 A questa se-

31 Alija Isaković è stato uno dei più noti sostenitori del riconoscimen-to della lingua bosniaca come idioma nazionale. Nel 1992 ha pubblicato Rječnik karakteristične leksike u bosanskom jeziku, Svjetlost, Sarajevo.32 A. Idrizbegović, U Prilog bosanskom jeziku, in Oslobođenje, Sarajevo 23. 2. 1991; S. Halilović, Govorim i pišem bosanski, in Oslobođenje, 16. 2. 1991.33 Si veda Dž. Jahić, Jezik bosanskih muslimana, Bibiloteka Ključanin, Sarajevo, 1991; S. Halilović, Bosanski jezik, Biblioteka Ključanin, Sara-jevo, 1991.34 Pismo Predsjedništvu BiH, Za ravnopravnost bosanskog jezika, in Oslobođenje, 13. 7. 1992.35 Uredba sa zakonskom snagom o nazivu jezika u službenoj upotrebi u Republici Bosni i Hercegovini za vrijeme ratnog stanja, in Službeni list Republike Bosne i Hercegovine, 1. septembar 1993.36 I bosanski, i srpski jezik, Saopćenje Ministarstva za obrazovanje, kul-turu, nauku i sport RBiH, in Oslobođenje, 7. 4. 1995.37 H. Vajzović, H. Zvrko, Gramatika Bosanskog jezika, I-IV razrad gim-nazije, Ministarstvo obrazovanja i nauke, Sarajevo, 1994.

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insegnanti della Republika Srpska.46 Per i croati della Bosnia-Erzegovina, infine, la politica lin-

guistica è strettamente collegata a quella vigente nella vicina Croazia, dove negli anni Novanta è tornato in auge un puri-smo linguistico estremista che Snježena Kordić collega di-rettamente alle politiche linguistiche adottate durante la Se-conda guerra mondiale nello Stato Indipendente Croato e più in generale tipica dei regimi totalitari quali sono stati quelli nazista e fascista. Al tempo stesso, vi sono intellettuali croati come Ivan Lovrenović e Mile Stojić che rifiutano l’adozione della variante di Zagabria in quanto tradizionalmente estra-nea alla popolazione croata della Bosnia-Erzegovina. 47

L’esistenza di tre varianti linguistiche mutualmente intel-legibili ora elevate alla dignità di veri e propri idiomi crea non pochi problemi nell’ambito educativo e pedagogico. L’affermazione di politiche linguistiche di natura naziona-lista ha visto un progressivo allontanamento delle diverse varianti del serbo-croato dal punto di vista lessicale e fo-nologico che avrà come conseguenza l’impossibilità per le future generazioni serbe, croate, bosniache o montenegrine di comunicare e comprendersi reciprocamente, cosa che an-cora oggi avviene con grande facilità essendo ancora le loro lingue quasi del tutto identiche. Nell’area ex jugoslava come in Bosnia-Erzegovina non esistevano i presupposti sociolin-guistici per la proclamazione di lingue standard separate dal comune serbo-croato. Tale situazione rappresenta anche un problema economico, se si considera che nelle istituzioni bosniaco-erzegovesi tutti i documenti devono essere “tradot-ti” in tre lingue, nonostante non si vada oltre alcune minime differenze di carattere lessicale. Per aggirare le controversie relative al nome della lingua comune, oggi, dopo la dissolu-zione della Jugoslavia, nell’area ex jugoslava ci si riferisce ad essa – soprattutto negli ambienti multiculturali che rifiu-tano le logiche nazionaliste – con il termine naš jezik, “la nostra lingua”.

46 Zakon o službenoj upotrebi jezika i pisma, in Službeni glasnik Repu-blike Srpske, 8.6.1996.47 Sulla kroatizacija (“croatizzazione”) della lingua in Bosnia-Erze-govina si veda H. Vajzović, Jezik i politika: Kroatizacija jezika na pro-storu Bosne i Hercegovine – agresija ili ustavno pravo?, in B. Tošović, A. Wonisch (a cura di), Bošnjački pogledi na odnose između bosanskog, hrvatskog i srpskog jezika, Institut für Slawistik der Karl-Franzens-Uni-versität Graz-Institut za jezik, 2009, pp. 143-156.

tribunale costitutivo (ustavni sud) ha tuttavia dichiarato l’affermazione non del tutto corretta e in disaccordo con i principi espressi nella carta costituzionale; per tale motivo la definizione è stata modificata in: “Le lingue ufficiali della Federazione della Bosnia-Erzegovina sono la lingua bosnia-ca, la lingua croata e la lingua serba. Gli alfabeti ufficiali sono il latino e il cirillico”.43 Sull’altro versante, nella Repu-blika Srpska, l’entità dove vivono prevalentemente i serbi di Bosnia-Erzegovina, la lingua serba è stata introdotta come ufficiale nel 1992. La Costituzione dell’entità serba inizial-mente recitava: “Nella Repubblica la lingua serba con pro-nuncia ijekavica e ekavica e l’alfabeto cirillico è quella d’uso ufficiale, mentre l’alfabeto latino potrà essere utilizzato solo nel modo determinato dalla legge”. Nella prime tre classi scolastiche sarebbero stati insegnati entrambi gli alfabeti, mentre per il diploma e altra documentazione doveva essere utilizzato il cirillico. Tuttavia, poiché anche tale definizione e prassi non erano in linea con l’Accordo di Dayton, anche queste sono state rapidamente cambiate. Oggi sulla Costitu-zione della Republika Srpska è scritto che le lingue ufficiali sono quelle dei serbi, dei bošnjaci e dei croati. Gli alfabeti ufficiali sono il cirillico e il latino. In questo modo, ovvero usando un riferimento ai tre popoli costituenti e non alle loro lingue, è stato evitato di usare il termine “lingua bosniaca”, non riconosciuto dai serbi.44

Già durante la guerra, il governo serbo di Pale aveva com-piuto dei tentativi di proclamare l’ekavica pronuncia ufficia-le della Republika Srpska, nonostante questa fosse del tutto estranea ai serbi della Bosnia-Erzegovina. Il tentativo era stato sostenuto da linguisti quali Branislav Brborić e Pavle Ivić e dal ministro della Cultura Đoko Stojičić, che aveva sostenuto ci si trovasse dinanzi all’ultima opportunità di unificare definitivamente il popolo serbo attraverso l’omo-logazione linguistica. La proposta, comunque, aveva anche incontrato il disappunto di tanti altri linguisti serbi, come nel caso del belgradese Ranko Bugarski, che l’aveva considerata un vero e proprio tentativo di “pulizia etnica linguistica”, as-surda dal punto di vista linguistico e politicamente pericolo-sa.45 Il governo della Republika Srpska aveva poi continuato su tale linea anche dopo la guerra, quando nel 1996 con la “Legge sull’uso ufficiale della lingua e della scrittura” (Za-kon o službenoj upotrebi jezika i pisma), aveva stabilito che nelle scuole primarie gli insegnanti dovessero utilizzare la pronuncia ekavica, mentre gli insegnanti e gli studenti nelle scuole superiori e nelle università potevano usare anche la ijekavica. La pronuncia ekavica era proclamata obbligatoria anche nei media, nelle pubblicazioni e per gli organi gover-nativi, insieme all’uso del cirillico. Venivano stabilite mul-te dai duemila ai diecimila dinari per chi avesse infranto la legge, che tuttavia era presto proclamata incostituzionale in seguito a un’azione legale intrapresa dall’associazione degli

43 Ustav Federacije Bosne i Hercegovine, http://skupstinabd.ba/ustavi/f/ustav_federacije_bosne_i_hercegovine.pdf44 Ustav Republike Srpske, http://www.narodnaskupstinars.net/upload/documents/lat/ustav_republike_srpske.pdf.45 S. Mønessland, op.cit., pp. 490-491.

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Ma quanti e quali derivati hanno le parole più usate? Qualche dato sulle famiglie etimo-morfologiche del lessico italianoDOMENICO RUSSOUniversità degli Studi G. D’Annunzio Chieti Pescara

no i colleghi di fisica, di ‘fare le misure’.

2. LE TRAFILE

ETIMOLOGICHE DEL

VDB

Come si sa, una clas-sificazione comoda e corretta delle trafile eti-mologiche di un qual-siasi lessico prevede in genere tre tipi fonda-mentali di etimologie: a) le etimologie incer-te; b) le etimologie endogene e c) le etimologie esogene. Ogni tipo si articola in specie e ogni specie presenta i suoi esemplari.

Se prendiamo in considerazione le 6.694 parole (lemmi) di base dell’italiano che ci fornisce l’edizione 1999 del Gradit, risulta che il nostro VdB deriva da un totale di 114 trafile eti-mologiche diverse. Le incerte sono di 6 specie; le endogene di 28 e le esogene di 80, suddivise in 5 sottospecie diverse. In particolare le cinque sottospecie di tralfile esogene risultano essere 19 dal latino; 4 dal greco; 24 dalle lingue straniere; 19 dalle lingue antiche e 14 dai dialetti d’Italia, come riassume la tabella 1 che segue, dove sono allineati in ordine decre-scente tipo, specie e consistenza assoluta e percentuale delle trafile etimologiche:

G., Dizionario etimologico italiano, 5 voll., Barbera, Firenze, 1950-57, 19752; DELI: Dizionario etimologico della lingua italiana, Cortelazzo M., Zolli P., 5 voll., Bologna, Zanichelli, 19992; LEI: Pfister M., Lessico eti-mologico italiano, Reichert Verlag, Wiesbaden, 1984 e sgg.; GE, Garzanti etimologico, De Mauro T., Mancini M., Milano, Garzanti, 2000) affiancati dalla schermata della ricerca avanzata dell’edizione elettronica del Gradit, facile da usare e da far usare.

1 . IL NOSTRO VOCABOLARIO DI BASE

Conosciamo da tempo quali sono le parole più usate e note dell’italiano1 e da tempo sappiamo tutto (o quasi) sulla loro ricchez-za di significati (accezioni dicono i lingui-sti); sui contesti in cui vengono usate, (il

‘lavoro’ che fanno, direbbero l’Alice di Caroll e Maria Luisa Altieri Biagi); sulla loro consistenza grafica (le parole più lunghe, quelle più corte - meglio digitabili e comprensibili le seconde, meno le prime, che però ci aiutano a essere più accurati e precisi), sulla loro frequenza e rango nei testi scrit-ti e in quelli parlati da tutti gli italiani (per esempio, il fatto che poche centinaia di loro fanno il 90%, di tutti i testi scritti, stranezze del reale...) e molto altro ancora.2

Ma quando parliamo di parole è un po’ come parlare dell’universo: di cose da sapere se ne presentano in conti-nuazione e questo vale ovviamente anche per il vocabolario di base della nostra lingua.3 Succede così che a un certo pun-to uno possa chiedersi: ma quali sono le etimologie da cui derivano le parole più usate? Che è come chiedersi: qual è o quali sono le lingue che stanno nell’anima storica dei nostri discorsi, delle nostre idee, della nostra cultura? Dare una ri-sposta precisa a questa domanda non comporta alcun proble-ma metodologico: il dominio etimologico del lessico italiano è oggi ben stabilito e documentato,4 si tratta solo, come dico-

1 Per sapere facilmente e immediatamente quali sono basta consultare il CD-ROM del Gradit (Grande dizionario italiano dell’uso, ideato e diretto da Tullio De Mauro, Torino, Utet, 1999).2 Per saperne di più si può vedere la raccolta di lavori curata nel 2005 da Isabella Chiari e Tullio De Mauro per Aracne di Roma: Parole e numeri. Analisi quantitative dei fatti di lingua.3 Tanto per dirne una, ancora Isabella Chiari e Tullio De Mauro, nel loro The new basic vocabulary of Italian: problems and methods, hanno an-nunciato il NVdB (Nuovo Vocabolario di Base) sulla «Rivista di statistica applicata / Italian Journal of Applied Statistics» (vol. 22, 1, 2012, alle pagine 21-35).4 Ogni media biblioteca ha in consultazione se non tutte almeno un paio di queste quattro sigle: DEI, DELI, LEI e GE (DEI: Battisti C., Alessio

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più della metà con del ‘latino barbaro e corrotto’ e per un buon terzo con dell’‘italiano puro’. Una ‘spolverata’ di lin-gue straniere e ‘tracce’ di lingue antiche e dialettali comple-tano la nostra ‘ricetta’ (che ci auguriamo risulti gradita a chi si attarda ancora oggi a lamentar-ne l’imbarbari-mento).

3. LE

DERIVAZIONI

Con le misu-re fatte sul VdB sappiamo di cosa parliamo quando parlia-mo delle etimo-logie delle pa-role più usate e possiamo scen-dere anche nei minimi dettagli per un ampio ventaglio di impieghi particolari: usi narrativi per esempio, di documentazione e verifi ca di ipotesi storiche, di redazione dei libri di testo (non precisamente un settore da portare ad esempio, purtroppo), di uso fi ne della nostra lingua, di usi ludici della stessa e così via.

Ma manipolando le stringhe etimologiche viene un’ulte-riore curiosità, scientifi ca ma anche pratica. Stabilito qual è l’universo etimologico dei nostri lemmi, possiamo anche stabilire se a loro volta queste parole sono a capo di una loro trafi la successiva? E se sì, quante e soprattutto quali paro-le hanno contribuito a produrre? In altri termini: è possibile stabilire qual è la produttività etimo-morfologica delle parole più usate?

La risposta a questa ulteriore domanda è affermativa. Lo è soprattutto grazie ai dati raccolti in un lavoro di qualche anno

fa, forse non degnamente valorizzato ma in realtà per molti versi prezioso, in cui il lessico comune dell’italiano è stato raccolto in base alle famiglie etimo-morfologiche cui appartengo-no i vari lemmi, vale a dire nel me-ritorio Dizionario Italiano Ragionato (Dir) che Angelo Gianni realizzò per la D’Anna di Firenze nel 1987.

Nel panorama dei lavori linguistici italiano questo vocabolario rappre-senta un po’ un singletone lessicogra-fi co, sia perché non deriva da espe-rienze precedenti, come per esempio i dizionari etimologici o quelli analo-gici o di sinonimi e contrari, ma ten-ta per la prima volta in italiano voci

Tabella 1 - La composizione etimologica del VdB

Tipo Nr. Consistenza Consistenza in %

Dal latino 19 3.628 54,19%

Trafi le endogene 28 2.360 35,25%

Dalle lingue straniere 24 317 4,73%

Trafi le incerte 6 194 2,89%

Dalle lingue antiche 19 143 2,13%

Dal greco 4 33 0,49%

Dai dialetti 14 19 0,28%

Ora, generalmente, non si fa caso al fatto che le stringhe etimologiche dei vocabolari non valgono tanto per se stesse, quanto per la densità e l’importanza delle informazioni che racchiudono nelle poche parole e abbreviazioni (diciamo la verità, complicate da capire) con cui sono redatte. Sfugge cioè il fatto che la riga etimologica del dizionario è una sor-ta di cromosoma linguistico, storico e culturale. In realtà, a esaminarla da vicino, una qualunque trafi la può essere usa-ta come titolo di una o più narrazioni di argomento storico, antropologico, scientifi co che faccia leva sul contenuto se-mantico della parola, sul percorso cronologico dalla prima attestazione a oggi, sui popoli o sui luoghi coinvolti, sulle istituzioni, sulle concezioni etiche, religiose, sentimentali o razionali che nel corso del tempo hanno preso forma e consi-stenza. Risulta così che il 90% dei nostri testi scritti e parlati risale a poco più di un centinaio di trafi le che, se svolte nella loro completezza, produrrebbero una massa enciclopedica di conoscenze di ogni tipo.

Se le espansioni delle trafi le etimologiche appaiono illimi-tate o almeno molto estense, viste nel loro insieme le stesse trafi le mettono in rilievo dati di caratterizzazione generale dell’italiano. Tra questi, ci sembra che il più saliente emerga dalla sintesi che si può estrarre dalla tabella 1 già presentata, e che ci pare consista nel vedere come l’italiano moderno sia, celiando un po’, una grande ‘torta’ linguistica fatta per

Grafi co 1 - Le componenti storiche dell’italiano di base

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so; lettera; letto; libero; libro; liceo; licere; lido; lieto; lieve; ligure; lima; limite; limone; limpido; lingua; lino; liquido; lista; lite; litro; lode; logo; lottare; lucano; lucchetto; luccio; luce; luglio; lumaca; ecc. La loro caratteristica più evidente è che questi capofamiglia si candidano ipso facto a svolge-re un ruolo strategico sia dal punto di vista storico, che da quello teorico, che da quello educativo in particolare (quali parole migliori di loro da presentare ai bambini nelle prime fasi dell’apprendimento e/o da usare nella loro letteratura?). L’altra caratteristica evidente di questo gruppo di parole è il fatto che, da sole, coprono poco meno di un terzo (il 27,11%) dell’intero VdB, in altre parole: sono la ‘radice’ principale del nostro lessico di frequenza.

Entrando più nello specifico possiamo andare a vedere quali e quanti sono i derivati etimo-morfologici del lessico di base e stabilire che:

a) nel VdB i 576 capofamiglia esterni producono 1.382 unità, pari al 20,45% del totale dei lemmi e disegnano una regione lessicale in cui le relazioni sono raramente prive di attrattiva, come accennano gli esempi seguenti: affogare cf esterno: fauci; affollare cf esterno: follone; aggiornare cf esterno: dì; aggrapparsi cf esterno: graffa; ago cf esterno: acuire; agonia cf esterno: agone; agosto cf esterno: augu-re; agricolo cf esterno: agro2; agricoltore cf esterno: agro2; agricoltura cf esterno: agro2; aguzzare cf esterno: acuire; alba cf esterno: albo; albanese cf esterno: albania; alfabeto cf esterno: alfa; algerino cf esterno: algeria; alimentare1 cf esterno: alere; alimentare2 cf esterno: alere; alimentazione cf esterno: alere; alimento cf esterno: alere;

b) i 1.815 capofamiglia interni producono invece 3.497 lemmi, vale a dire oltre la metà dei lemmi (il 52,24%) come nel caso di convivere cf interno: vivere; corrompere cf in-terno: rompere; determinare cf interno: termine; dettare cf interno: dire; deviare cf interno: via; disfare cf interno: fare; educare cf interno: durre; esprimere cf interno: premere; il-luminare cf interno: lume; nobile cf interno: noto1; occidente cf interno: cadere.

E’ allora interessante notare come a partire dai 1.815 capo-famiglia interni si dipani un fitto reticolo di relazioni storiche e grammaticali che interessa direttamente la linguistica stori-ca e quella teorica, ma anche gli studi filosofici e antropolo-gici attinenti al linguaggio e la galassia delle riflessioni edu-cative. Tra capofamiglia interni e loro derivati è coinvolto in questo reticolo circa l’80% del lessico di base e i rapporti che risultano tra queste componenti mostrano analogie, a ci-fre di poco variate, con la classica tripartizione statistica tra vocabolario fondamentale (capofamiglia interni), di alto uso (derivati da interni) e disponibile (derivati da esterni).

4. I DERIVATI ESTERNI

Ma è possibile andare anche oltre le osservazioni fin qui fatte. I dati del Dir non solo aiutano a stabilire le dervazioni all’interno del vocabolario di base, ma più in generale in-vitano inevitabilmente a stabilire anche le derivazioni del vocabolario di base nell’intero lessico comune dell’italiano.

consistenti di ‘parenti’ di un capolemma morfo-etimologico, sia anche perché presta una particolare attenzione alle possi-bilità di lettura dell’utente non specialista. E’ indubbio che un’attenta revisione tecnica gioverebbe alla sua affidabilità

(poco o nulla si dice sui criteri di raccolta e redazione per esem-pio), ma il fatto stesso di mettere a disposi-zione una massa di dati molto consisten-te ne fa un’interes-sante opera di frontie-ra.

3.1. Le derivazioni interne. Un tempo era corrente e im-portante la nozione di ‘capofamiglia’. Fortunatamente questa nozione ha perso il suo rilievo antropologico e ciò rende li-bero questo termine per indicare quell’unità lessematica che gli studi storico-linguistici ci segnalano come il lemma che la massa parlante ha posto ‘a capo’, in quanto primo o ulti-mo a ritroso, di una più o meno nutrita serie di altre unità linguistiche, di una famiglia insomma, nel senso usato dal filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein nelle sue ben note Ri-cerche filosofiche (tradotto da Mario Trinchero per Einaudi nel 1967).

Il concetto di famiglia nel senso di Wittgenstein è utilis-simo nello studio del lessico. Se infatti incrociamo i dati del Gradit con quelli del DIR possiamo individuare con chia-rezza il fatto che il nostro vocabolario di base ha due radici ben distinte. Una è costituita dai capofamiglia che non fanno parte del VdB e l’altra dai capofamiglia che invece ne sono parte importante.

I capofamiglia dei 6.694 lessemi del VdB considerati sono infatti 2.391 in totale. 576 sono parole che non appartengono (più) al nostro lessico quotidiano e frequente. Si tratta di lem-mi come: mane; meare; memore; menda; mergere; meridie; mescere; mnemo; mola; morbo; morfo; murmurare; musa; noiare; nolo; nube; nullo; nunzio, ecc. In sostanza, parole spesso, ma non sempre, obsolete nell’uso comune e tuttavia grandi rappresentanti della nostra tradizione letteraria e quin-di della nostra storia linguistica.

Al loro fianco si schierano 1.815 capofamiglia che inve-ce sono a tutti gli effetti parole del VdB. Si tratta in questo caso di parole come: lavagna; lavare; lavorare; lebbra; lec-care; legare; legge; leggere; legno; lento; leone; lepre; les-

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sue proprietà etimo-morfologiche sull’intera compagine vo-cabolare dell’italiano. Anche in questo caso si manifesta la presenza dell’ancoraggio alla tradizione, degli 815 lemmi derivati produttivi infatti 547 (8,17% del VdB) sono lemmi che hanno il capofamiglia interno e 304 (4,54% del VdB) in-vece fanno da tramite tra i capofamiglia esterni e unità lessi-cali anch’esse esterne al VdB. Le trafile derivative terminano invece con i 4.028 lemmi non produttivi (60% ca del VdB) di cui 1.078 (16,10% del VdB) hanno provenienza esterna e 2.950 (44,07% del VdB) hanno provenienza interna.

Colte nel loro insieme le derivazioni esterne si impongo-no con evidenza: le proprietà storiche e morfologiche del si proiettano infatti al suo esterno su ben 46.451 unità lessicali, come dire, in sintesi, su una massa vocabolare superiore alla metà della massa vocabolare individuale adulta calcolata in un massimo di 80.000 parole.

5. CHIUSURA E INVITO

L’esplorazione della struttura etimo-morfologica del dà modo di immaginare una pluralità di posssibili applicazio-ni. Tanto per dire, seguire la capacità produttiva dei lemmi permette di mettere al centro dell’attenzione nozioni seman-tiche di grande valore strategico soprattutto agli alti livelli di produttività. Si esaminino sotto questo profilo per esempio i 15 lemmi che producono più di 200 derivati: mano, raggio, trarre, porta, quattro, muovere, reggere, porre, tre, vedere, genere, stare, metro e il già menzionato fare.

Qui invitiamo solo quanti scrivono per e parlano ai bam-bini e ragazzi (ma anche tanti adulti e i molti neoitaliani) a tener conto del fatto che si possono individuare almeno tre gruppi di lemmi per ordine decrescente di capacità produtti-va. Considerato fuori catalogo, per così dire, il lessema più produttivo in assoluto dell’intero VdB e quindi dell’intero lessico italiano, il verbo fare (strano a dirsi, o forse a confer-ma del fatto, in un paese spesso considerato ‘chiacchierone’) con i suoi 820 derivati diretti e indiretti, si può considerare che esistono:

(a) 212 lessemi che passando da 352 a 50 derivati produ-cono da soli nel vocabolario comune italiano 20.689 lemmi diversi;

(b) 807 lessemi che passando da 49 a 11 derivati produco-no nel vocabolario italiano 17.936 altri lemmi e infine che esistono

(c) 1.646 lemmi che con una escursione che va da 10 a 1 sono presenti nel vocabolario italiano in 7.826 lessemi non di base.

Come dire che è possibile dare a ognuno dei nostri giovani destinatari la chiave d’ingresso giusta al momento giusto.

Occorre infatti considerare che la particolare struttura re-ticolare e plasticamente sistemica dei lessici delle lingue as-segna alle parole più frequenti anche il ruolo di ‘motorino d’avviamento’, o, più tecnicamente, di ‘principio di attiva-zione’, di tutta la complessa e multiforme macchina lingui-stica. Si citavano all’inizio il patrimonio accettivo (come dire semantica e cultura) e quello dei contesti d’uso (come dire variabilità e pragmatica). Lo stesso si può e deve dire per le relazioni storico-morfologiche. E’ facile percepire infat-ti, anche a un primo esame, come il VdB appaia prima e si confermi poi, un potente generatore di unità lessicali a lui esterne, appartenenti cioè a tutte le altre fasce del lessico, da quello comune a quelle tecnico-scientifiche.

Se si adotta una formula di produttività del tipo x/y, con x numero dei derivati non di base e y numero dei lemmi che li governano, si isolano ben 145 gradi di produttività differenti e si individuano tutte le famiglie relative ai vari gradi. Ai nostri calcoli gli estremi sono compresi tra 1/206 e 820/1, vale a dire che 206 lemmi producono un solo derivato non di base e che 820 derivati non di base provengo da un solo VdB. Per esempio all’11/66 troviamo i casi di convivere cf interno: vivere der: convitare, convitato, convito, convitto, convittore, convittrice, conviva, convivente, convivenza, conviviale, convivio; corrompere cf interno: rompere der: corrompibile, corrompimento, corrompitore, corrotto1, cor-ruttela, corruttibile, corruttività, corruttivo, corruttore, cor-ruttrice, corruzione; determinare cf interno: termine der: de-terminabile, determinabilità, determinante, determinatezza, determinativo, determinato, determinatore, determinazione, determinismo, determinista, deterministico; dettare cf in-terno: dire der: dettame, dettato, dettatore, dettatura, diktat, dittafono, dittare, dittatore, dittatoriale, dittatorio, dittatura; deviare cf interno: via der: deviamento, devianza, deviata, deviatorio, deviatore, deviazione, deviazionismo, deviazio-nista, deviazionistico, devio, deviometro; disfare cf interno: fare der: disfacibile, disfacimento, disfacitore, disfacitura, disfatta, disfatti bile, disfattismo, disfattista, disfattistico, disfatto; educare cf interno: durre der: educanda, educan-dato, educatamente, educativo, educato, educatore, educatri-ce, educatorio, educazione, edurre, eduzione; esprimere cf interno: premere der: espressamente, espressione, espres-sionismo, espressionista, espressionisticamente, espressio-nistico, espressivamente, espressività, espressivo, espresso, esprimibile; illuminare cf interno: lume der: illuminabile, illuminamento, illuminativo, illuminato, illuminatore, illu-minazione, illuminismo, illuminista, illuministico, illumino-metro, illuminoteca; nobile cf interno: noto1 der: nobildon-na, nobilesco, nobilare, nobiliario, nobilitamento, nobilitare, nobilitazione, nobiltà, nobilume, noblesse oblige; occidente cf interno: cadere der: occasionale, occasionare, occasione, occaso, occidentale, occidentalismo e così via.

Ad avere capacità produttiva esterna non sono solo i capo-famiglia ma anche una buona percentuale di lemmi derivati. Manifestano infatti questa funzione produttiva oltre ai 1.815 capofamiglia anche 815 lemmi derivati, il che significa che il 40% ca (2.666 unità) del vocabolario di base proietta le

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Scienza e Poesia VINCENZO CROSIODocente nelle scuole superiori e docente relatore all’Istituto degli studi storici e filosofici di Napoli

come si accorse il Nietzsche, estremo indagatore del campo epistemico e fisico, Leopardi è forse il più noto tra i poeti che segnano con linee così eleganti ma anche forti la topografia del luogo poetico. Leopardi ci indica il senso, la direzione in cui muoversi per alcune note sul legame tra scienza e poesia. Gaston Bachelard, il grande matematico, ingegnere ed epi-

stemologo francese, colse meglio di tutti questo legame, che è appunto uno spazio, un luogo della poesia, come costru-zione, come architettura di uno spazio, come immaginazione che avvicina l’uomo all’infinito. Tra l’infinito coscienziale e l’infinito matematico, cosmico. Quasi che l’uno fosse possi-bile come risonanza dell’altro. Quasi che lo spazio poetico fosse l’abitazione sua propria, della parola, così come lo spa-zio fisico fosse l’abitazione dell’umano. Il suo heimat, il suo luogo originario:

Nell’anima distesa che medita e sogna, una immensità pare at-

La relazione scienza/poesia è una delle più intriganti e conflittuali relazioni tra campi del sapere. Intorno agli anni ’90 del secolo scorso Ilya Prigogine tentò di gettare un pon-te tra le scienze e l’umanesimo. Nel post-moderno i confini tra i domini del sapere si sbriciolavano, pur nelle differenze specifiche, un po’ come il muro di Berlino. La complessità del sistema mondo impose una rivisitazio-ne anche tra scienza e poesia. In questo ar-ticolo si dà conto dei passaggi essenziali di questa relazione.

Scrive Giacomo Leopardi ne ‘La Ginestra’, uno dei can-ti più belli, più affascinanti, più complessi della nostra letteratura poetica, questi

straordinari versi che introducono ad un’e-stetica dello sguardo, della visibilità e della visione, quasi una notazione dell’interrela-zione tra l’occhio-visione e l’universo frat-talico e corpuscolare insieme:

e quando miro,

Quegli ancor più senz’alcun fin remoti

Nodi quasi di stelle

Che a noi paion qual nebbia, cui non l’uomo

E non la terra sol, ma tutte in uno,

Del numero infinito e della mole,

Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

O sono ignote, o così paion come

Essi alla terra, un punto

Di luce nebulosa;

Questi versi riprendono il maestoso e nobile ondeggiare dell’altro canto “L’Infinito” e ci si accorge del confine labi-le, discreto, anche se incerto tra scienza e poesia. Tra scien-za, poesia e filosofia. Grandissimo poeta, strabiliante filosofo

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visione sana, non illusoria della re-altà e dunque dentro una sana imma-ginazione poetica, che è domanda all’oggetto stesso dell’indagine: Che fai tu in ciel? Dimmi che fai, silen-ziosa Luna?, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

Per Lucrezio poi la vastità del mondo è effetto di una vastità del vuoto, una proprietà del vuoto stes-so, secondo la visione epicurea e de-mocritea, atomista del reale. Esatta-mente come nella teoria elettroquan-tistica del vuoto. Né più né meno. Il quantum, la quantità vuota è esatta-mente il principio stesso della inde-terminazione fisica e matematica se-condo Planck e secondo Heisenberg (Richard P.F eynman, Sei pezzi fa-cili. Lectures on Physics). Così la intende pure la filosofia buddhista della vacuità. Ed è singolare, se non incredibile, che questo venga detto dall’intuito poetico:

Quegli ancor più senz’alcun fin remoti

Nodi quasi di stelle

Che a noi paion qual nebbia.

Nodi dunque che sono quasi stelle

e che a noi appaion come nebulose. Si capisce allora come il matematico

Paolo Zellini introduca costantemente le sue lezioni sull’infi-nito e sul numero con la poesia di Leopardi. Tra l’effetto nu-merico di una matrice e l’effetto strabiliante dei Canti Pisani di Ezra Pound che differenza c’è?

Ma non vorrei parlare del rapporto tra scienza e poesia solo attraverso la cosa più evidente, voglio invece parlare proprio della relazione che c’è, se c’è, tra l’immaginazione poetica e l’immaginazione scientifica. O meglio tra la feno-menologia dello spirito scientifico e la fenomenologia dello spirito poetico. Dal mio punto di vista, si tratta proprio di questo: di un punto di vista della fenomenologia dello spiri-to, cioè di quelle categorie che per le neuroscienze è l’attività di ideare, immaginare e realizzare, la cosiddetta attività auto poietica. L’autopoiesi, la autogenerazione delle cognizioni, delle strutture pensanti, delle strutture creative appartengono sostanzialmente all’intera dimensione della biosemiosfera, del vivente e dunque anche del mondo umano. Il mondo psi-chico come quello del vivente è una macchina auto poietica e simbolica, secondo Maturana e Varela, una macchina au-topietica che produce segni che hanno il carattere di un sim-bolo, di una topologia segnica e simbolica. E’ una macchina semiotica, generativa di segni dentro un sistema della mente natura e della mente natura non natura, artificiale. Come so-stiene Chomsky in “Le strutture della sintassi”. Già Freud (e

tendere le immagini dell’immensità. Lo spirito vede e rivede og-

getti, in un oggetto l’anima trova il nido di una immensità�(G.

Bachelard, Lo spazio poetico. pag. 212).

Nella correzione a mano nel testo autografo di Leopardi dell’Infinito, viene trascritto infinità al posto di immensità, ma che comparirà poi nel testo dato alla stampa al posto di infinità. Dunque immensità è parola Leopardiana meditata, scelta dopo una lunga esitazione.

Ma c’è un’altra correzione: interminati spazi al posto di interminato spazio. A 15 anni leopardi aveva scritto e pub-blicato un’opera scientifica, una Storia dell’Astronomia che ricevette le attenzioni dell’Università di Bonn, che chiamò il giovane autore a tenere delle lezioni di Fisica e Astrono-mia in quella città. Leopardi rispose di essere solo un poeta. Margherita Hack ha nobilitato questo sforzo dell’adolescen-te Leopardi, scrivendo insieme con lui, con Leopardi, pro-seguendo da dove Leopardi era giunto, un’altra storia della astronomia. Ma la categoria filosofica è vastità che appartie-ne anche al genio di Baudelaire dove il calco originario è la vastità dell’essere e della esistenza, come ci ricorda Anassi-mandro. Al di là del nostro essere, l’esistenza dell’infinito, dell’incommensurabile. Sembra quasi che la categoria della in finitudine, ontologica, fisica, sia la qualità estrema di una

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e quelli determinati nello spazio dell’individuo fin dalla sua vita e dal suo concepimento. Eppure i poeti ci dimostrano che è dall’incontro dell’uomo con se stesso e con gli altri signi-ficati che scaturiscono, attraverso i secoli, le forze più fertili ed immaginative della nostra cultura e, come si sa, sono stati i poeti stessi e gli artisti a infondere alle passioni e alle vicis-situdini dell’individuo la dimensione umana del psichico e del tragico (Andreas Giannakoulas, Processi creativi e crea-tività). Dunque dal fondo della macchina che produce segni e simboli che la condizione naturale ed umana induce nel sapiens, che ne modifica la sensibilità e la conoscenza nella

temporalità storica, avvie-ne un imprevedibile scarto linguistico e della coscien-za. Questa è la poesia, que-sto è l’intuito e il dominio sapienziale della poesia, cui affidiamo appunto que-sta logica combinatoria di segni e simboli che hanno raccontato, all’alba della civiltà e della civiltà della scrittura, ad esempio le pe-ripezie di Odisseo che così, nelle peripezie del mondo e sue personali, sperimenta la tenacia del suo multifor-me ingegno.

La trascrizione in un codice sillabico, sintatti-co di queste esperienze dell’umano, la meraviglia dell’umano, noi la definia-mo in un ordine/disordine, caotico e normativo, che è la poesia. Dissimmetria e simmetria, ordine e caos, numero e non numero, rit-mo e misura sono gli algo-ritmi sapienziali di questa macchina di scrittura semi-otica. La poesia è la mani-festazione geniale e tragica

di questa esperienza dell’essere gettato nel mondo. Il modo migliore che l’uomo conosca di immaginare se stesso e il mondo. Questo è il senso della poesia per Horderlin e dunque anche per Heidegger, che gli dedicherà significativamente un saggio. E che i poeti come i matematici rinnovino sempre questa esperienza, quella del calcolo e quella della poesia la dice lunga sulla fascinazione che ha presso l’uomo e la mac-china calcolatrice e la macchina simbolica, ambedue cioè macchine poetiche, il cui confine è un confine bilingue carat-terizzato da una asimmetria tra esterno e interno, come intel-ligentemente nota Jury Lotmann. E’ lo scarto, la differenza tra il reale reale e l’astratto simbolico che opera come strut-tura di senso poetico, come nella ricorsività matematica. In

poi Piaget), accennava e chiarirà queste funzioni pulsionali e quasi cibernetiche legate alle pulsioni appunto, ad una logica del desiderio. Scrivono Franco Scalzone e Gemma Zontini in “Freud e il suo invisibile fantasma”: Un sistema rappresen-tazionale, come lo è lo psichismo umano, è costruito su una rete di categorie ed è autoreferente: cioè esso è in relazione soprattutto con altre sue parti più che con l’esterno. Ma qual è il processo che permette alla macchina - come lo chiama lo stesso Freud - di mettersi a camminare da sola da un mo-mento all’altro?”

L’incosciente macchinico come chiamano Deleuze e Guattari la produzione di senso proprio del testo e in particolare del testo poeti-co (Julia Kristeva insegna) produce il linguaggio dei segni attraverso un asse simbolico particolare. Un asse diacronico e uno sin-cronico come se fosse la texture, un canovaccio in cui il çà parle, la parola di Lacan, scrive il suo lin-guaggio come fa la maglia con l’uncinetto. Il segno è dunque un senso traslato del reale (Julia Kristeva e Roman Jakobson). Una mappa di un territorio, una topografia che introduce ad una tipologia dei luoghi poetici secondo una com-binazione di segni fonetici e sintattici, le unità fone-matiche, che costruiscono la meravigliosa macchi-na di produzione poetica. Una macchina astratta e trascendente come i Nu-meri di Cantor sulla sua diagonale. Scrive il fisico Franco Piperno in “Mac-chine, scienza, linguaggi”: Il momento in cui la matematica riconosce i propri limiti, si conclude proprio nel computer o, metaforicamente, nello spazio cibernetico. Ma concludendosi ci lascia come residui gli aspetti linguistici non formali, il linguaggio comune come presupposto di tutto questo. Il transfinito, il trascendente, il segno astratto coniuga secondo un formalismo grammaticale generativo qualcosa che produce combinandolo, il reale con il non reale, il formale matematico con il non formale del lin-guaggio comune e metaforico, il materico con l’immateriale, il corpo vivo con corpo di relazione astratto.

E’ stato osservato che ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime come i quark, i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni

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dello sciamano dell’Indonesia, che eleva il suo canto not-turno per metabolizzare la sua solitudine, che si è rifiutato di entrare nella civiltà mercantile occidentale, e lo sguardo d’incertezza di Einstein, io ci vedo poca differenza.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

G. Leopardi, Opere, UtetP. Zellini, Breve storia dell’infinito, AdelphiG. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo libriM. Blanchot, Lo spazio letterario, EinaudiH. Maturana e F. Varela, Macchine ed esseri viventi,

AstrolabioAlfonso M. Iacono, L’evento e l’osservatore, Pierluigi Lu-

brina editoreR. Jakobson, La sviluppo della semiotica, BompianiN. Chomsky, Le strutture della sintassi, LaterzaG. Deleuze-F.Guattari, Mille piani, EinaudiIlya Prigogine-Isabel Stengler, La nouvelle alliance, Gal-

limardDouglass. R. Hofstadter, Godel, Escher, Bach, AdelphiP. Lévy, Il virtuale, Raffaello Cortina R. P. Feynman, Sei pezzi facili, AdelphiFranco Piperno, Macchine, scienza, linguaggi, in Ciber-

nauti, CastelvecchiF. Scalzone-G.Zontini, Freud e il suo invisibile fantasma,

in Tempo d’Analisi n. 2 2013, AracneA. Giannakoulas, Processi creativi e creatività, in Tempo

d’Analisi n. 2 2013, Aracne

altro ambito, quello musicale, l’esperienza del canone inver-so, della ricorsività del suono, di una infinita piega ricorsiva, matematica e metamatematica, di J. Sebastian Bach, produce appunto questa magia sonora della esperienza creativa.

‘Questo incantesimo poetico-matematico, questo mantra (tessuto poetico, formula magica), così come l’esametro gre-co o l’anna-viraj (verso di dieci suoni in dieci suoni) dei poe-mi vedici, conduce la spola del senso, del tessuto di verso in verso fino alla potenza (viraj) dell’assoluto metamatematico. Dunque la poesia nella sua essenza è un evento, uno scarto temporale tra il reale e l’immaginario. Oserei dire un Potlach quasi divino, un infinito intrattenimento tra un osservatore e un osservato, tra un dicitore e un ascoltatore, tra uno sguardo e una serie di percezioni del reale, un campo fenomenico di cognizioni relazionate. E relazionabili. Alla poesia compe-te, è consentito ciò che alla scienza è vietato e viceversa. E ad entrambe, la facoltà del conoscere per linearità logica o non linearità semantica. E’ il caso questo di Dante Alighieri che fa scendere o salire i suoi demoni infernali o le sue virtù angeliche nelle volute geometriche, nella spirale logaritmica del ritmo ternario, fa salire o scendere se stesso fino alla di-mensione del senza fine, dell’incommensurato regno divino, dell’ensof cabalistico. Il senza nome, il senza volto, il senza numero, Dio viene reinventato nell’immaginazione poetica di un sogno, di una reverie, teologica ed angelica.

Verso il basso, con una torsione verso il basso e con conti-nue linee di fuga, la scrittura di Kafka delinea una topografia della Non provvidenza che segna nel negativo l’esperienza di Dio. L’ingresso nel villaggio del signor K., dell’agrimensore ne “Il Castello”, è un capolavoro di questa tensione verso il basso della misura aurea. Nessun altro definisce meglio di Kafka il Luogo come luogo dell’umano, fino alla nichila-zione, fino alla metamorfosi dell’umano nel non umano. Un non numero, l’assenza di un numero, il grado zero di ogni conoscenza, permette a Kafka di analizzare centimetro per centimetro l’essenza dell’umano. Nella prima fondazione di un cyberspazio, come in un quadro di Escher, nella surreal-tà di Magritte o De Chirico, nella spazialità simbolica del Maestro dei Pannelli Barberini e di Francesco del Cossa, del Bramantino, nella maestria angelica e fiamminga della Ma-donna Salting di Antonello da Messina, nello spazio poeti-co ancora gotico di Barthélemy d’Eyck. E’ questa, secondo Pierre Lévy, filosofo ed ingegnere informatico, l’origine del-la potenza del virtuale, la potenza stessa dell’immaginazione e della memoria. Dal segno logografico, dalla scrittura, alla potenza della virtualità matematica e poetica, creativa.

Abbiamo definito la relazione tra scienza e poesia? Non lo so. So che le linee di questa cartografia del conoscibile sia affidata alla scienza topologica di Poincarè e Renè Thom e che tocchi alla poesia indicare il senso dell’oltre, oltre il qua-le scompare ogni distinzione. Così è per il telescopio spaziale Hubble o il viaggio della sonda Cassini, così è per lo sguardo rivolto al cielo del Pastore errante dell’Asia di G. Leopardi, o le visioni poetiche ed ultramondane di Rimbaud, Baudelaire, Th. De Quincey o J. Joyce. Un provvisorio sguardo gettato dentro i confini dell’universo. In fondo tra il canto alla luna

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Cristina da Pizzano: la poetessa delle vedove… FAUSTA GENZIANA LE PIANE

data imprecisata ma che egli stesso sa pronosticare esatta-mente. In seguito, lo sposo di Cristina prende congedo da lei per accompagnare il re che si trasferisce a Beauvais e muore, a soli trentaquattro anni, vittima forse della peste:

Sono vedova, sola e di nero vestitacol viso triste semplicemente acconciata;con grande corruccio abbandonata al doloreporto l’amarissimo lutto che mi uccide.

Rimasta vedova a venticinque anni con tre figli, Cristina è abbattuta dal dolore desiderando più morire che vivere. In questo quadro di sofferenza profonda si aggiunge una mol-titudine di miserabili occupazioni. Cristina per i suoi deve assumere la guida della famiglia. Gli stipendi dei notai reali non sempre all’epoca sono pagati con regolarità; passeran-no più di ventuno anni prima che Cristina possa recuperare gli arretrati dovuti a suo marito dalla Corte dei Conti. Deve intentare un processo che durerà tredici anni e che vince ma deve aspettare per avere la somma dovuta. Il debito saldato è

A quattro anni Cristi-na da Pizzano lascia Bologna la Grassa, per seguire la sua fa-miglia in Francia, a

Parigi, su richiesta del Re Carlo V che vuole il padre, Tommaso, accanto a sé come medico, consigliere e astrologo. E infatti alla morte del Re nel 1380, Tommaso è presente insieme ad un al-tro “fisico” (medico) del re. Tommaso ha affermato, in verità, che il Re era fuori pericolo e teme che la sua errata previsione e la conseguente morte del sovrano lo privino del favore di cui pri-ma godeva.

Tommaso ha studiato a Bologna, sede di una famosa Università, poi è stato chiamato al servizio della Repubblica di Venezia e si è sposato lì con la figlia di un dottore in medicina. Una figlia di nome Cristina (ma seguirono anche due maschi, Paolo e Aghinolfo) nasce da questo matrimonio ed è a lei che dobbiamo tutto quanto si sa della sua famiglia e del Re che la protegge. Cristina, ragaz-za affascinante e assai corteggiata, è sposata all’epoca della morte del Re con Etienne Castel, figlio di un ciambellano del re, che esercita saltuariamente anche la carica di ufficiale addetto alla conservazione delle armi, e già si annuncia la nascita di un erede.

Grazie al favore del re, Cristina e la sua famiglia vivono agiatamente. Cristina ha avuto un’infanzia felice, colma di tenerezza, che le ha permesso di fiorire e di acquistare corag-gio. A Cristina non piace filare, ha sete di sapere. Alla morte di Carlo V scoppiano tumulti tra gli studenti e le guardie reali e il suo successore, il suo primogenito Carlo, non ha che do-dici anni. Nessuno nella cerchia del nuovo re si cura di pro-lungare il favore di cui fino ad allora ha goduto e la famiglia si sente scivolare nelle ristrettezze. Tommaso muore in una

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la donna sola, autonoma, coraggiosa, insomma la vedova. Inoltre, grazie alla sua lunga esperienza, Cristina dispensa

consigli alle vedove e scrive una sorta di tratta-to sull’educazione della donna, il Livre des trois vertus. La sua carriera è sorprendente: in sei anni scrive quindici volumi che si cura anche di far ornare di deliziose mi-niature. Il successo subi-to risponde al suo sforzo.

Verso la fine del se-colo gli avversari di una volta, re di Francia e re d’Inghilterra, moltiplica-no i gesti di distensione. Cristina riceve una pro-posta da John Montagu, conte di Salisbury: invia-re suo figlio maggiore, Jean Castel, in Inghilter-ra poiché anche lui ha un figlio, Thomas, anche lui di dodici o tredici anni, con il quale Jean può es-

sere allevato e ricevere un’educazione da cavaliere: è la sua opera, la sua poesia che l’hanno fatta notare dal grande si-gnore inglese. Ma Salisbury è fatto prigioniero, il re deposto, messo in prigione e è eletto nuovo re il duca di Lancaster. Salisbury e alcuni altri tentano un colpo di mano che fallisce in seguito ad un tradimento. Il re d’Inghilterra, Riccardo II e Salisbury sono assassinati. Cristina perde il suo secondo figlio, sua figlia manifesta il desiderio di prendere il velo e Jean sta per rientrare ma non tornerà mai più in Inghilterra. Cristina cerca allora il favore del Duca di Milano, Gian Ga-leazzo Visconti che però è assassinato. Alla fine Jean rima-ne in Francia e ottiene come suo padre la carica di notaio e segretario del re. Cristina canta nei suoi versi le lotte tra la Francia e l’Inghilterra.

Ma ecco all’orizzonte un altro impegno per la nostra in-domita poetessa: una polemica letteraria che diventa la pri-ma disputa antifemminista della storia. Cristina non ama il famosissimo Roman de la Rose, best-seller dell’epoca, vera e propria Bibbia per gli universitari, composto di due parti: la prima, del 1245, scritta da Guillaume de Lorris, è l’opera cortese per eccellenza, allegorica e un po’ preziosa; la secon-da, è scritta cinquant’anni dopo da un universitario di Parigi, Jean de Meung, che decide di completare l’opera incompiuta di de Lorris. Questa seconda parte accentua la visione del professore che disserta, dell’universitario che si sente supe-riore agli altri anche in virtù dei suoi diplomi. Presto Cristina attacca Honoré Bouvet che è nominato membro di una com-missione che deve controllare le evasioni fiscali e si avvale della protezione di Jean de Meung. Cristina rimprovera ai

considerato come una gratificazione e non come il pagamen-to di una somma dovuta a Etienne Castel. Ciò è sentito come un’ingiustizia da Cristina che l’improvvisa scom-parsa del marito lascia totalmente inerme, obbli-gata giorno dopo giorno a battersi da sola contro creditori senza scrupoli. Investe una piccola som-ma di danaro lasciatale dal suo sposo affidandola ad un mercante che le fa credere che è stato deru-bato. Altro processo (ne ha per quindici anni) che è perso perché le prove di tale circostanza sono dif-ficili da provare. Iniziano altri processi con gran-di spese e costi. Cristina cade malata e, pur nella malattia, deve decidersi, alla fine del 1392, a ven-dere l’eredità lasciatale dal padre, per tamponare i debiti più pressanti ed imparare tra l’altro che si può essere diffamata senza motivo. La sua arma segreta dinanzi a tante avversità? La poesia che ama da sempre. Proprio nell’anno della morte del marito – il 1390 – prende parte a un concorso poetico e la sua ballata è ben accolta. Spesso proietta il suo scoraggiamento nei versi, come in questa ballata (nel 1399 ne ha scritte cento):

Ahimé dove dunque troveranno confortopovere vedove dei loro beni spogliategiacché in Francia che seppe essere il porto della loro salvezza, e dove le esiliatepotevano rifugiarsi, e anche le smarrite,oggi non trovano più amicizia.I nobili non ne hanno alcuna pietàNé di più ne hanno i chierici, grandi o meno importanti(…)

Si cimenta in tutti i generi della poesia cortese allora in uso, oltre alla ballata già citata, i lais o virelais, i rondeaux, i jeux à vendre e anche tutti i temi in voga: Cristina è ora l’amante ora la Dama e tocca tutti i temi che Amore può suscitare, come il mal di lontananza o quello della speranza o dell’attesa e della rottura.

I suoi versi più belli, appassionati e avvincenti sono quelli che cantano il lutto, il dolore, lo sconforto e anche quella ne-cessità in cui ella si trova di recitare in poesia una commedia perpetua. Ma un tema in particolare le sarà caro, quello delle vedove abbandonate che sviluppa attraverso il mito di Se-miramide in La Cité des femmes. Semiramide è per Cristina

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la passion de Notre-Seigneur nelle quali tenta di consolare le donne rattristate dal lutto per la morte del duca di Borgogna. Cristina, che si è sforzata di riportare in tempo utile un po’ di saggezza in un mondo in preda alla follia, passerà gli ultimi anni in convento a Poissy (anticamera del cimitero) vicino a sua figlia. Anche la poesia, che era stata la sua estrema risor-sa, le sembrava in quel momento futile, superata, sproposi-tata alla durezza dei tempi. Ma, in seguito all’assedio tolto a Orléans da parte di Giovanna la Pulzella e all’incoronazione di re Carlo a Reims, Cristina, dopo undici anni di silenzio, riprende la penna: scrive cinquantasei strofe piene di entu-siasmo e emozione:

Ecco una donna, semplice pastorella,più prode di quanto mai uomo fu a Roma.

Giovanna, che risponde pienamente ai desideri di Cristina, è la donna sola per eccellenza, unica, risoluta e a Cristina non sembra vero, a lei che ha passato una parte della sua esistenza a tentare di convincere i contemporanei che sba-gliavano a disprezzare la donna:

Ah! Quale onore al femminilesesso che Dio ama…

Giovanna avrà gli stessi nemici di Cristina, gli universitari di Parigi. Non si conosce con precisione la data della morte di Cristina

nobili, ai grandi di quel mondo che non ha smesso di fre-quentare, di mancare ai propri doveri e questo è dovuto alla perdita dei valori cortesi che coincide con la scomparsa del ruolo delle donne. Attacca la seconda parte del Roman de la Rose, biasima Jean de Meung, l’anticortese per eccellenza, il misogino, che ha compilato un processo contro le donne e ha insegnato ai potenziali seduttori i mezzi per vincere una pulzella con frode e astuzia.

Jean de Montreuil, preposto di Lille e segretario del re re-dige nel 1401 un trattatelo in francese, oggi perduto, che in-via ad notabile chierico – probabilmente il maestro Gontier Col legato alla cancelleria reale. Jean de Montreuil,dopo aver letto il Roman de la Rose, loda il suo autore, ma Cristina impugna la penna. Col risponde, c’è uno scambio epistolare. Ma Cristina trova un appoggio, Jean Gerson che mette pub-blicamente in discussione le parole di de Meung. Cristina - garante dell’Ordine della Rosa - vuole portare il dibattito che agita i signori della Sorbona davanti alla regina stessa che apprezza il suo talento. L’ultima parola di questo dibattito spetta a Cristina, conscia del mutamento che avviene nella sua epoca.

Ora Cristina ha una grande occasione, una promozione: Filippo l’Ardito la incarica di scrivere il resoconto del regno di Carlo V suo fratello ma quando ha appena terminato la prima parte dell’opera apprende che il duca è morto. Conti-nua a scrivere e due anni più tardi il duca Giovanni acquiste-rà il suo manoscritto. Scrive alla regina Isabella di Baviera, avvertendo i pericoli di uno scontro fra Luigi d’Orléans e Giovanni Senzapaura, tra Francia e Borgogna, chiedendole di assumere il ruolo di arbitro. Luigi è ucciso in un agguato, Giovanni Senza paura confessa il suo crimine.

Cristina è stata letta anche oltre le frontiere con maggiore attenzione che in Francia, ma qui c’è qualcuno la cui voce sarà molto ascoltata a partire dal 1408: Jean Petit. Si tratta di un dottore dell’Università di Parigi intervenuto nel dibattito sullo scisma del papato. Diviene in seguito consigliere e por-tavoce ufficiale del Duca di Borgogna che ben aveva agito a far uccidere il duca d’Orléans, colpevole di lesa maestà, tra-dimento, stregoneria e il re aveva il dovere di ricompensarlo. Questa è l’arringa che fa Jean Petit a Parigi. I contemporanei sono coscienti del potere sia morale che politico che essa de-tiene e l’omicida era riuscito a ribaltare l’opinione in suo fa-vore. Cristina cerca di operare sempre la pace. Pensando alla lotta tra borgognoni e armagnacchi, alle scene di violenza a cui aveva assistito, all’orrore di questa guerra condotta senza curarsi di ogni sentimento umano, di ogni legame fraterno tra gente che viveva nella stessa terra e parlava la stessa lingua, inizia a comporre una nuova opera: il Livre des faits d’armes et de chevalerie. Quest’opera dimostra quanto Cristina si sia interessata profondamente di tutte le preoccupazioni del tempo, anche di quelle più lontane dall’ambito femminile. Cristina inizia altre due nuove opere, il Livre de la paix che dedica al delfino Luigi di Guienna dove moltiplicherà i suoi consigli al principe perché si faccia amare dai suoi sudditi e si circondi di cavalieri forti e giusti e lo esorta alla clemenza, alla verità e alla generosità e le Heures de contemplation sur

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Elsa Morante CRISTINA TIRINZONI

Morante, autri-ce del saggio Leggere Elsa Morante: Ara-coelì, La storia. Il mondo salva-to dai ragazzini (Carocci, 2003), intervenuta al convegno. “ una

delle voci femminili più forti della letteratura italiana, figura fortissima di donna e di intellettuale libera dagli stereotipi e forse proprio per questo poco raccontata. Una mente di pri-mo livello, di cui si sente una grande nostalgia”

Voleva essere definita scrittore, non scrittricePreferì essere chiamata scrittore per non essere equiparata

ad una scrittura femminile minore ma sicuramente la sua è scrittura femminile come poche.

Il rapporto della scrittrice con l’universo femminile ap-pare ambiguo e controverso.

Non ebbe con il femminismo, in vita, molti rapporti né buoni, forse più radicali nella sostanza e meno radicali nel-le pratiche. Non era femminista ma aveva avuto il coraggio di emanciparsi, di uscire di casa, all’inizio degli anni trenta una scelta che pago duramente, con la fame e non solo. Una femminilità sicuramente complessa. Si sentiva ragazzo più che donna. La Morante racconta in vari luoghi che scrivendo le memorie di Arturo realizzava un suo vecchio sogno: “Ho sempre desiderato di essere un ragazzo, e ancora adesso vor-rei esserlo: non un uomo, ma un ragazzo.(…) Indipendente ma bisognosa d’affetto, attratta dalla maternità ma mai riso-luta nel desiderarla fino in fondo.

Tema centrale, costante nell’opera dell’autrice, è pro-prio la maternità, il mistero del legame madre–figlio.

Quella della Morante è un”interrogazione profonda e com-plessa sul materno. La maternità attrae la Morante, passando per una duplice e opposta concezione, in cui da un lato vi è

Non si può vivere senza religione, scriveva. Parlo di quella religione che è l’altruismo, il lavora-re per gli altri. L’arte,

per esempio, nasce da questo desiderio di spendersi, è una forma di religione. Occhi viola che sfumavano nell’azzurro, da gatta. Capricciosa, infantile, selvatica, passiona-le, possessiva, gelosa, umorale, intolle-rante verso la mediocrità e la volgarità. Perentoria nei suoi giudizi, capace di grandi dolcezze e inaspettate generosità, amava i gatti, i reietti e i diseredati. Una mente visionaria. Una femminilità tempestosa. Indipendente ma bisognosa d’affetto. Starle vicino era difficile, talvolta. Era estrema, in-fatti, non conosceva mezze misure. Esistevano il bianco e il nero. “Elsa Morante è stata amata o idoleggiata lungo tutto il corso della sua vita. Un fascino, il suo, che si sprigionava fortissimo a dispetto di un carattere esigente e difficile”, così l’ha ricordata a un recente convegno milanese con cui si sono aperte le celebrazioni nel trentennale della sua scomparsa, Daniele Morante, il nipote preferito, figlio di Marcello, uno dei fratelli della scrittrice (e padre anche di Laura Morante), appassionato custode e curatore di L’amata - lettere di e a Elsa Morante (Einaudi), in cui ha raccolto circa 4.000 pezzi fra lettere, abbozzi e minute dei più importanti carteggi della scrittrice, da quelli con il marito Alberto Moravia a quelli con Pasolini, ma anche le lettere private, quelle che rivelano i dubbi, gli amori, le amicizie della scrittrice di cui quest’an-no ricorre il trentennale della scomparsa. “Elsa Morante era una narratrice pura, una grandissima scrittrice visionaria - su questo non c’ è dubbio: la qualità della sua immaginazione – così potente, vorticosa, sovraccarica. I suoi romanzi-catte-drale, li ha costruiti sul gioco della finzione e sull’incrocio di molteplici generi e filoni letterari”, ha sottolineato Concetta. D’Angeli, docente di drammaturgia presso l’Università de-gli Studi di Pisa , studiosa da sempre della scrittura di Elsa

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no Visconti, su cui circolano fin troppe leggende. Ebbe al-tri amori, principalmente scelti tra i giovani, come il pittore americano Bill Morrow, il “ragazzetto celeste”, dalle ciocche dal “sapore di nido”, fu per Elsa fu una specie di incrocio tra un amante e un figlio. La sua morte – cadde da un grattacielo a New York il 30 aprile 1962_, la gettò nella disperazione e nell’orrore di vivere. Anche perché lei la interpretò come un suicidio.

Aveva orrore della vecchiaia Il declino della giovinezza e della grazia mi rattrista più

della morte, diceva.Lo scandalo è crescere, è invecchiare, diceva. Lo scandalo è diventare adulti, è corrompersi. Per molto tempo vinse la sfida con l’anagrafe, sembrando di gran lunga più giovane, poi la vecchiaia arrivò improvvisa, inac-cettabile “d’un sol colpo sono diventata vecchia”. Gli ulti-mi anni di Elsa Morante sono stati tormentati dalla malattia. Una sera del 1980, mentre è a cena con alcuni amici, cade e si rompe il femore. Fu costretta ad una dolorosa immobili-tà. Quest’uragano sconvolse il corpo di Elsa, lo trasformò, facendolo occupare a una persona nella quale Elsa non ri-conobbe mai se stessa.Inizia il tracollo che la porterà nell’a-prile 1983 a tentare il suicidio, sventato per il fortuito arrivo della fedele governante Lucia Mansi. passerà gli ultimi anni da una clinica a un’altra, con brevi e tal volta insostenibili ritorni a casa, tra ricadute ed effimeri momenti di ripresa, operazioni chirurgiche e cure mediche, prima di spegnersi, il 25 novembre 1985.

Ma sono le opere a continuare a parlare e alle quali è bene che torni chi già le conosce, invitando a leggere, anche profittando degli anniversari, chi ancora non le conosca . Quale romanzo suggerisce alle nostre lettrici?

Aracoeli, l’ultimo romanzo, che a differenza di molti con-sidero il suo capolavoro. Una mescolanza di tragedia farsa parodia. Quel testo complesso e a tratti ostico, mette in cam-po un sapere narrativo quasi magico e a tutt’oggi mi pare una delle opere più affascinanti del secolo scorso. È la storia di un viaggio immaginario e reale a ritroso nel tempo e nello spa-zio che compie Manuele, quarantenne omosessuale infelice e sofferente,alla ricerca della figura materna l’andalusa Ara-coeli morta ormai da tempo che, dopo averlo teneramente e vischiosamente amato lo ha all’improvviso allontanato da sé con brutalità. E’ all’insegna di un pessimismo irredimibile: nulla si salva..Eppure fermenta tutto il mistero senza fondo della vita.di una realtà che non si sa mai dove comincia a essere fittizzia. Nonostante pessimismi, perplessità, dubbi e sconforti, nemmeno nell’ultimo romanzo Elsa Morante ha contraddetto al mandato che, ha riconosciuto all’arte: il com-pito, storico oltre che morale, di ridare realtà al mondo. In un tempo di estrema mutazione quale è il nostro, quando l’uma-no stesso sembra cambiare, i romanzi e le poesie morantiane hanno oggi la grandezza dei classici perché vanno al fondo dei problemi che ci legano e ci angosciano più che mai. Non resta che riprendere in mano le sue opere e rileggerle anche alla luce di quello che Elsa Morante ha vissuto e di quanto anche l’universo femminile e non solo quello siano cambiati.

un immagine di madre idealizzata e il rapporto madre-figlio visto come unione assoluta, fusionale . D”altro canto raccon-ta anche le implicazioni dolorose o violente del sentimento materno e di un attaccamento madre figlio quasi morboso. Le pagine dedicate ai personaggi bambini si aprono pause di dolcezza. La felicità per la Morante è la beatitudine fusio-nale in cui ci culliamo, bambini, prima di sapere che siamo soli, smarriti nel mondo. Da quella breve parentesi di felici-tà ignara scaturisce anche tutto il dolore, l’ostinata ricerca di quell’ora perduta e sempre reinventata,Il nucleo ispirati-vo dell’opera morantiana è spesso: la cacciata dall’Eden, il “limbo” fuori del quale non v’è eliso”.

Sono spesso madri di maschi molto amati Mentre il rapporto madre-figlio è generalmente rappresentato in modo felice e soddisfacente, quello fra madre e figlia è spesso conflittuale. Come è stato il rapporto fra Elsa e sua madre?

Maledetta e benedetta insieme. Il rapporto è stato ricorda-to da Marcello, uno dei fratelli della Morante (padre di Da-niele e di Laura, ndr) nell’autobiografia Maledetta Benedetta . Irma Poggibonsi era una donna ebrea, colta, socialista, face-va la maestra elementare. Capì da subito il genio della figlia, che scriveva filastrocche, fiabe e raccontini fin da bambina. Irma portò i suoi scritti alla rivista “I diritti della scuola” e al “Corriere dei Piccoli”, le spianò la strada. Certo fece un terribile compromesso con il marito, mettendo i figli in una posizione insostenibile. Elsa se ne andò di casa, a diciotto anni oltre che per dedicarsi totalmente alla scrittura, anche per la difficile situazione familiare.Da un certo momento in poi l’ha sempre più allontanata da sé. Anche se andava a tro-varla una volta al mese a Viterbo, dove era ricoverata. Elsa non la volle al premio Strega nel 1957, non la volle nemme-no al matrimonio con Alberto Moravia. Ma al tempo in cui era ricoverata in clinica, la sognava molto la madre.

Elsa Morante è sempre stata molto gelosa della sua vita privata. Solo di recente state rivelate di recente alcune gravi problematiche della famiglia Morante

Sì, c’era un padre finto, il marito della madre, Augusto Mo-rante. Un siciliano che, impotente, chiese alla moglie Irma di non lasciarlo. Per ottenere questo acconsentì che lei avesse figli, cinque (considerando anche il primogenito, morto poco dopo la nascita), con un altro, Francesco Lo Monaco, anche lui siciliano. Una situazione familiare difficile. Ma sono in-timamente convinta che il rapporto con il femminile e il ma-terno rimase il vero nodo di tutta la sua vita e il suo dramma più profondo.

La vita sentimentale di Elsa Morante, non fu semplice né felice.

Non è facile raccontarla. Lei, non parlò molto di sé uf-ficialmente, anche se le sue opere sono intessute delle sue vicende, magistralmente trasfigurate. Amatissima Eppure lei non si sentiva amata da nessuno, non nel senso profondo della parola. Una sete inappagata d’amore percorre come un potente leitmotiv la sua biografia Sappiamo del matrimonio con Alberto Moravia. Poi ci furono gli amori per gli uomini giovani e/o omossessuali. Sappiamo dell’amore per Luchi-

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Lo scoppio della Grande Guerra attraverso “La Voce” di Prezzolini ROBERTO SCIARRONEDipartimento di Storia, Culture, Religioni, Università degli Studi di Roma La Sapienza

ghilterra furono vicine allo scontro a Fascioda, in Sudan (1898), mentre la stessa Repubblica francese e l’Italia svilup-parono aspre tensioni in conseguenza dell’occupazione fran-

cese della Tunisia. Sempre a causa della corsa “imperialista” Francia, Inghilterra e Germania sfiorarono la guerra in Ma-rocco (1905 e 1911), la corsa tedesca al riarmo navale rap-presentò, sul finire del secolo XIX, il più forte motivo di fri-zione con l’Impero britannico.4 Parallelamente Stati Uniti e Giappone seguirono la logica imperialistica europea: così la

bipolare, un numero crescente di analisti ha ripreso la denominazione di “Grande gioco” per indicare la competizione tra Russia e Stati Uniti per l’influenza sullo spazio meridionale della ex Unione Sovietica - dal Cau-caso sino all’Asia centrale. 4 L’ammiraglio, e Segretario di Stato per il ministero della Marina impe-riale tedesca, Alfred von Tirpitz aumentò nel 1900 la forza navale tedesca tramite un progetto di legge che mise in allarme l’ammiragliato inglese. Nelle motivazioni della legge suddetta si specificò che la flotta tedesca avrebbe dovuto essere tanto forte “da rivaleggiare alla pari con le più gran-di potenze”. Cit. in R. Sciarrone, Strategie militari franco-tedesche a con-fronto (1905-1913), Nuova Cultura, Roma, 2013, p. 25.

La guerra del 1914-18 fu la prima guerra “mondiale” e di “massa” nella storia dell’u-manità, per la prima volta coinvolse una po-tenza non europea, gli Stati Uniti d’America, che nel 1917 col suo in-

tervento decisero il conflitto a vantaggio dell’Intesa, riducendone successivamente l’autonomia dei Paesi europei, mutandone gli equilibri continentali sedi-mentati nel corso del “Lungo XIX secolo”.1 Dilaga-rono su ogni fronte e in ogni esercito gli ammutina-menti, le diserzioni e ogni forma di fuga, collettiva o individuale, dall’obbligo di uccidere o essere uccisi, sino alla soluzione di porre fine alla guerra dandosi prigionieri al nemico o, nella peggiore delle ipotesi, procurandosi provvidenziali ferite e automutilazioni. La guerra arrivò al termine di un processo apertosi nella seconda parte dell’Ottocento e risoltosi in pochi decenni con la spartizione del pianeta da parte delle potenze europee.2 La Russia e l’Inghilterra erano contrapposte nel “grande gioco” asiatico, tra India, Persia e Afghanistan, oltre a cercare di dirimere la strisciante crisi dell’Impero ottomano.3 Francia e In-

1 Il termine fu coniato dallo storico britannico di origine ebraica e di for-mazione marxista Eric Hobsbawm. Lo studioso indicò l’Ottocento come un secolo che si estese, almeno dal punto di vista storiografico, tra il 1789 e il 1914. Sviluppò la sua teoria in tre saggi distinti: Le rivoluzioni borghesi (1789-1848), Il trionfo della borghesia (1848-1875) e L’età degli imperi (1875-1914). Nel corso del primo conflitto mondiale molti degli accordi politici internazionali furono sospesi fino a disegnare uno scenario nuovo nel secolo XX che, secondo lo storico britannico, si sarebbe rivelato tanto “breve” quanto denso di mutamenti, sia sul piano politico e sociale sia su quello economico e delle scoperte scientifiche. Cfr. E. Hobsbawm, Il Secolo breve, Rizzoli, Milano, 2006.2 Per una sintesi storiografica accurata sull’imperialismo europeo ot-tocentesco vedi R.F. Betts, L’alba illusoria, L’imperialismo europeo nell’Ottocento, Il Mulino, Bologna, 2008.3 “Grande gioco” è la definizione attribuita tradizionalmente dagli stori-ci alla competizione scatenatasi, nel XIX secolo, tra Impero britannico e Impero russo per il controllo della regione centro-asiatica e del subconti-nente indiano. Successivamente, nell’ambito del contesto regionale post-

Prezzolini in un disegno di Luciano Guarnieri

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che balcaniche un modello per la realizzazione dell’unità na-zionale, un esempio da imitare e da seguire per gli emergenti Stati nazionali. Nel periodo compreso tra il Congresso di Berlino (1878) alla Prima guerra mondiale, gli ufficiali italia-ni – addetti militari, membri delle commissioni per la delimi-tazione dei confini, esperti e delegati ai convegni internazio-nali, personale in servizio presso gli eserciti stranieri – furo-no infatti attivi nella regione, offrendo la loro esperienza tecnica e organizzativa nel processo di ridefinizione politica dell’area, resa problematica dagli accesi contrasti fra nazio-nalità. La Grande guerra non deflagrò così sui lontani confini tra gli imperi coloniali, ma a Sarajevo, in una delle tante pe-riferie del continente europeo, dove le spinte espansioniste ed egemoniche di tutte le potenze continentali si sovrappose-ro alle micce innescate dai micro-nazionalismi, nuovi popoli desiderosi di emanciparsi non solo dall’Impero ottomano ma anche da quello austro-ungarico. Tornado a occidente non può essere sottovalutata la querelle franco-tedesca, risalente al 1870 (conflitto franco-prussiano), che esasperò i rapporti tra le due potenze vicine e produsse il sistema di blocchi d’al-leanze contrapposti, Triplice Alleanza e Intesa, che si con-frontarono poi nel corso della Prima guerra mondiale. L’Ita-lia entrò in guerra nel maggio del 1915, allorché il conflitto era già iniziato da dieci mesi, schierandosi a fianco dell’Inte-sa contro l’Impero austro-ungarico fin allora suo alleato. La scelta di interrompere l’alleanza con gli imperi centrali fu certamente sofferta da parte dell’Italia, classe politica e opi-nione pubblica si spaccarono in due fronti contrapposti. Il 2 agosto 1914, a guerra appena scoppiata, il governo di Anto-nio Salandra dichiarò la ferma neutralità italiana, la decisone, giustificata dal carattere difensivo della Triplice (l’Austria-Ungheria non era stata attaccata, né aveva consultato l’Italia prima d’intraprendere l’azione offensiva contro la Serbia), trovò unanimi tutte le principali forze politiche. Ma, una vol-ta scartata l’ipotesi di un intervento a fianco degli imperi cen-trali iniziò a paventarsi l’eventualità opposta: quella di una guerra contro l’Austria che, qualora fosse stata vinta, avreb-be potuto completare il processo risorgimentale (Trento e Trieste) apertosi e mai chiusosi mezzo secolo prima. Porta-voce di questa linea “interventista” furono in primis gruppi e partiti della sinistra democratica: i repubblicani, guardiani della tradizione garibaldina; i radicali e i socialriformisti di Leonida Bissolati, molto legati alla politica transalpina; e na-turalmente le associazioni irredentiste, ricche di fuoriusciti dall’Impero austro-ungarico come Cesare Battisti leader dei socialisti trentini. Ad essi si unirono esponenti delle frange estremiste ed “eretiche” del movimento operaio, come ad esempio i capi del sindacalismo rivoluzionario Alceste De Ambris e Filippo Corridoni, convertitisi alla causa della guerra “preventiva”. Sull’opposto versante dello schiera-mento politico, promotori attivi dell’intervento erano i nazio-nalisti mentre più prudente e graduale fu l’adesione alla cau-sa dell’intervento dei gruppi liberal-conservatori, rappresen-tati maggiormente dal «Corriere della Sera» di Luigi Alberti-

tura, Roma, 2012.

competizione in Manciuria portò alla guerra russo-giappone-se (1905), che vide l’inaspettata vittoria degli asiatici, e la White House mosse guerra alla Spagna a Cuba (1898). L’o-dierna storiografia è d’accordo però nell’asserire che la causa principale del conflitto non vada ricercata nella competizione coloniale in sé. Lo studio dello storico tedesco Fritz Fischer sugli obiettivi di guerra dell’Impero tedesco mostra come questo, frustrato nelle sue aspirazioni coloniali, abbia trasfe-rito la sua pressione imperialistica sull’Europa orientale.5 Fischer dopo avere analizzato nelle linee essenziali lo svilup-po economico-sociale della Germania dagli anni ‘90 al 1914, mostrò senza pregiudizi le precise responsabilità dei maggio-ri capi politici e militari tedeschi per spingere l’Austria-Un-gheria a un conflitto dal quale si ripromettevano il corona-mento dei loro sogni imperialistici. Il progressivo sistema di dominazione politica ed economica del Reich era regolato in forma diretta e indiretta: dalle limitate annessioni ai confini occidentali e orientali (province polacche e lituane, francesi, belghe e olandesi), attraverso la creazione di Stati-cuscinetto vassalli (Belgio e Romania, Polonia, Finlandia, Ucraina), si doveva giungere a una Mitteleuropa sotto direzione tedesca, che avrebbe dovuto allargare la sua sfera d’influenza a gran parte d’Europa, Asia e Africa. Fischer dimostrò la coerenza e la praticità di questo programma, rincorso dagli uomini di governo con l’appoggio di industriali, finanzieri e personalità legate alla cultura tedesca: le varie fasi del conflitto, le prin-cipali operazioni belliche, le stesse trattative segrete e i son-daggi per la pace fanno da sfondo a quest’importante rico-struzione del più ambizioso piano di conquista elaborato prima della tragica avventura hitleriana. Un altro studio, del-lo statunitense Richard Webster, individuò nei Balcani del primo quindicennio del XX secolo un’area di crescente con-flittualità tra le potenze per il controllo, ancora una volta, di spazi e risorse, di influenze e affari, nella crisi sempre più forte dell’Impero ottomano da cui sorsero nuovi Stati nazio-ne come la Bulgaria, la Romania, la Serbia e la stessa Tur-chia rinnovata dalla rivoluzione dei “giovani turchi” (1908).6 Quali ragioni possono aver spinto un Paese dalle tradizioni non imperialiste e non capitalistiche come l’Italia, a esporsi in due guerre mondiali e in tre campagne coloniali? Webster, nel suo studio, cercò di ipotizzare le cause di tale fenomeno nel “decollo economico” del periodo giolittiano, analizzando la realtà politico-economica italiana dagli inizi del secolo alla crisi del 1915. Ad ogni modo le “guerre balcaniche”, che opposero gli Stati dell’area tra loro, coinvolgendo anche la Grecia, tra il 1912 e il 1913, evidenziarono la difficoltà di raggiungere un equilibrio, seppur approssimativo, nell’area. Uno degli ultimi lavori dello storico italiano Antonello Bia-gini né tratteggia le fasi più salienti attraverso i documenti prodotti dagli ufficiali italiani impegnati, a vario titolo, nell’area balcanica.7 L’Italia rappresentò per le élites politi-

5 Cfr. F. Fischer, Assalto al potere mondiale, La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi Editore, Milano, 1965.6 Cfr. R. Webster, L’imperialismo industriale italiano 1908-1915, Einau-di Editore, Milano, 1974.7 Cfr. A. Biagini, L’Italia e le guerre balcaniche, Edizioni Nuova Cul-

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parlamento di accettare le proposte anglo-russo-francesi fir-mando il Patto di Londra il 26 aprile 1915. Le clausole prin-cipali definivano che l’Italia avrebbe ottenuto, in caso di vit-toria, il Trentino, il Sud Tirolo fino al confine naturale del Brennero, la Venezia Giulia e l’intera penisola istriana, a parte la città di Fiume, una parte della Dalmazia e numerose isole adriatiche. Isolati e disorientati i socialisti non riusciro-

no ad organizzare una efficace opposi-zione e ribadirono la loro ostilità alla guerra e la loro fedeltà all’internaziona-lismo proletario. La crisi dell’intervento lasciò un segno tangibile nella vita poli-tica e sociale italiana, mostrando tra l’al-tro che larga parte delle masse popolari rimaneva estranea ai valori patriottici. In questo contesto s’innestano gli articoli e le opinioni pubblicate da «La Voce» di Giuseppe Prezzolini nel 1914, che di se-guito analizzo alla luce degli eventi dei primi sei mesi di guerra. La rivista cultu-rale, fondata a Firenze nel 1908, fu pub-blicata dapprima con periodicità setti-manale, poi dal 1914 la cadenza fu quin-dicinale e la direzione passò esclusiva-mente a Prezzolini, a parte un breve pe-riodo tra l’aprile e l’ottobre 1912 in cui la direzione passò a Giovanni Papini. Alla rivista si affiancò la Libreria della Voce che pubblicò volumi e “quaderni” di natura critico-storica. Nata durante il fervore culturale all’inizio del Novecen-

to prese posizione contro il tardo positivismo, bersaglio del cristianesimo e dell’idealismo in genere. I nomi che contri-buirono a rendere importante la rivista testimoniano la varie-tà e le correnti di diversa origine presenti: Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, per citarne alcuni. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Prezzolini schieratosi apertamente per l’intervento dell’Italia lasciò «La Voce» che, sotto la direzione di Giuseppe De Ro-bertis (dicembre 1914-dicembre 1916) si trasformò in rivista esclusivamente letteraria, infine per otto mesi, dal maggio al dicembre 1915, apparve in 14 numeri una seconda Voce, edizione politica edita a Roma e detta “gialla” per il colore della copertina, diretta dallo stesso Prezzolini. I primi sei mesi di guerra coincidono però con la presenza di numerosi articoli ed editoriali sul conflitto, da cui traspare la netta ten-denza della rivista a commentare circa le scelte di politica estera dell’Italia. Ripercorriamo il lungo dibattito, tra inter-ventisti e neutralisti, che si svolse sulle pagine de «La Voce» nei mesi precedenti e, soprattutto, all’indomani dell’assassi-nio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, ucciso a Sarajevo il 28 giugno 1914 dal nazionalista serbo Gavrilo Princip.

L’editoriale del 13 gennaio aprì la rivista soffermandosi sul concetto di “libertà”:

ni e i loro riferimenti politici in Antonio Salandra e Sidney Sonnino, allora ministro degli Esteri. L’ala più forte dello schieramento liberale, con a capo Giovanni Giolitti, si schie-rò su una linea più neutralista, poiché si pensò che l’Italia non sarebbe stata preparata ad affrontare una guerra lunga e logorante. Giolitti era certo che Roma avrebbe potuto ottene-re dagli imperi centrali, come compenso per la sua neutralità, buona parte dei territori rivendicati.8 Av-verso e ostile in maniera alquanto decisa all’intervento era il mondo cattolico ita-liano, il nuovo papa Benedetto XV, sali-to al soglio pontificio nel settembre 1914, si fece portavoce dell’atteggia-mento pacifista tormentato dall’ipotesi di una guerra dell’Italia accanto la Fran-cia anticlericale contro la cattolica Au-stria-Ungheria. Netta infine fu la con-danna alla guerra da parte del Partito Socialista Italiano (Psi) e dalla Confede-razione Generale Italiana del Lavoro (Cgl), in aperto contrasto con la scelta patriottica dei maggiori partiti socialisti europei. L’unica, fragorosa, defezione importante fu quella del direttore del-l’«Avanti!» Benito Mussolini il quale, dopo aver orchestrato dalle prime pagine del suo giornale una forte campagna per la “neutralità assoluta”, si schierò im-provvisamente a favore dell’intervento.9 Destituito ed espulso dal partito Musso-lini fondò un nuovo quotidiano «Il Popo-lo d’Italia» (novembre 1914), principale tribuna dell’inter-ventismo italiano. In termini di forza parlamentare e di peso nella società i neutralisti erano dunque in netta prevalenza, ma non costituivano uno schieramento omogeneo, capace di trasformarsi in alleanza politica, il “partito della guerra” po-teva contare sui settori più dinamici della società, quelli che sostanzialmente contribuivano a formare l’opinione pubbli-ca. Erano infatti interventisti gli studenti, gli insegnanti, i professionisti, la piccola e media borghesia colta, probabil-mente più sensibile ai valori patriottici. Gli intellettuali di maggior prestigio, a parte Benedetto Croce, scelsero la linea interventista: Giovanni Gentile, Giuseppe Prezzolini, Lugi Einaudi e Gaetano Salvemini. Il caso più tipico fu quello del-lo scrittore Gabriele D’Annunzio che s’improvvisò per l’oc-casione capopopolo ricoprendo un ruolo di rilievo nelle ma-nifestazioni di piazza a favore dell’intervento. Ma ciò che in definitiva decise l’esito dello scontro fra neutralisti e inter-ventisti fu l’atteggiamento del capo del governo, del ministro degli Esteri e del re. Salandra e Sonnino strinsero rapporti segreti con le potenze dell’Intesa infine decisero, di comune accordo con il re Vittorio Emanuele III, senza informare il

8 Vedi l’esaustiva opera di M. Isneghi, G. Rochat, La grande guerra 1914-1918, La Nuova Italia, Firenze, 1999.9 Si veda R. De Felice, Mussolini: il rivoluzionario, 1883-1920, Einaudi Editore, Milano, 2005.

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ze. La necessità di prendere parte al tavolo delle decisioni continentali spinse i vertici politico-militari ad aggiungere nel corso degli anni sempre più peso alla diplomazia ita-liana che, seppur mai considerata alla pari, mostrò tutta la sua incidenza allorché l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando palesò l’importanza di averla come alleata. Dal punto di vista economico, fu fatto il massimo per migliora-re le condizioni dell’apparato militare post-unitario, la sto-riografia italiana ed europea ha poi a lungo dibattuto sulla necessità o meno dell’alleanza con gli Imperi centrali poi rovesciata nel 1914. Va riconosciuto il grande merito ai diri-genti politici e militari dell’epoca di aver affrancato il Paese, seppur tra mille difficoltà, dalle ingerenze delle potenze eu-ropee e di aver mantenuto unito uno Stato che subito dopo il 1861 sembrava avesse tutti i sintomi di una repentina di-sgregazione. Ma nell’aprile 1914 i possibili scenari di guer-ra destarono parecchia contraddizione sulla stampa italiana. Ancora una volta il direttore de «La Voce» Giuseppe Prez-zolini entrò nel dibattito con il suo stile pacato ma deciso:

La forza è l’ultimo rifugio dei deboli e degli oppressi. Combattere la guerra è voler impedire a chi è schiacciato dalla lettera della legge e della consuetudine, dall’inganno o dalla prepotenza, di potersi almeno sfogare, di cadere e di subir l’oppressione con la rivolta, di correre l’a-lea della lotta brutale. Coloro che fanno la propaganda del pacifismo dimenticano che vi sono ancora ingiustizie legali, e finché queste in-giustizie legali esisteranno, il togliere ai privati e ai popoli l’uso della forza, la speranza di rendersi forti, è chiudere l’uomo in un mondo più nero e più orrido di quello che qualsiasi atroce guerra può fare. Io ca-pisco coloro che negano la guerra, assolutamente; e che negano allora qualunque resistenza al male. Capisco Tolstoj. E’ stupido, infantile, degno di contadini. Ma è logico chiaro, diritto. Non capisco coloro che fanno distinzioni fra guerra e guerra, fra guerra e rivoluzione, fra guer-ra e rivolta. E’ obliquo, insincero, falso […]. Chi combatte contro la guerra deve combattere ogni violenza, anche lo sciopero, il boicottag-gio, la concorrenza commerciale. Chi è rivoluzionario non dovrebbe gridare contro la guerra. Chi dice viva la Comune non dovrebbe dire abbasso Adua. Si dice che la guerra non è civile. Eppure la guerra è per certe persone l’unica forma possibile di partecipazione alla civiltà umana. Finché sarà necessario cementare le costituzioni, le leggi, i confini, le proprietà, i diritti, d’una forza, e di una forza determinata a difendere quelle costituzioni e quelle leggi, quei confini e quelle proprietà, quei diritti, con l’estremo, del sangue e della morte, fino ad allora migliaia di persone che si dicono uomini soltanto in quanto s’incamminano verso l’umanità, non potranno mostrare questo loro avviamento che sacrificandosi e morendo. Oh certo che la persona col-ta e intelligente, l’europeo di cui parla Nietzsche potrebbe benissimo esser superiore al campo di battaglia; come potrebbe essere superiore al letto matrimoniale, se crea altre cose che figli, cioè opere immor-tali. Ma alla grande maggioranza non è data immortalità che quella concessa da un seme fecondo ed altro eroismo che quello concesso da una trincea […]. Aboliremo la guerra quando non ci saranno più vincitori e vinti nella vita. Fino ad allora la guerra sarà una garanzia di considerazione anche per i vinti tale che nessuno vorrà togliersi questa prova di valore di fronte al nemico. Chi si è difeso bene si conquista la stima del vincitore. Chi cade vigliaccamente ha la sconfitta e il di-sprezzo. Un vinto che si è difeso fa sempre paura, perciò lo si tratta bene. Il vinto che si è battuto, insomma, riesce a entrare nella nuova condizione di cose che il vincitore crea […]. Io capisco benissimo l’internazionalismo. Sento con perfetta sicurezza che si avvia a una civiltà mondiale, che l’Europa è destinata a europeizzare l’universo. Ma un vero internazionalista dovrebbe capire che a quel capolavoro di civiltà mondiale non si può giungere che a traverso la concorrenza e la lotta fra le civiltà e le nazioni. Niente civiltà mondiale senza lotte e senza guerre. E il dovere di tutte le nazioni, di tutti i popoli, di tutte le civiltà è di tener duro, ciascuno nel suo campo, di cercare di vincere, od essendo vinti di costringere il vincitore ad uno sforzo più grande.

Io credo che noi italiani abbiam bisogno, più che i tedeschi e gli ingle-si, di libertà interiore, morale, religiosa, scientifica, filosofica, per po-ter essere liberi politicamente, all’aria aperta. Ne abbiam bisogno, per-ché andiamo in casa, come casa o persona nostra, il nostro più grande nemico, il nemico dello spirito libero, l’autorità spirituale, infallibile (Papa Pio, Papa Mazzini)! Quando si pensa a quest’originale di spirito umano, che per esaltare se stesso (per celebrare la sua natura, diceva il nostro Don Giambattista) arriva fino a farsi il tiranno di se stesso, ci è da diventar matti davvero! E quando si pensa che nell’occidente l’Italia fu destinata a fare da portatrice per sé e per altri, ed educare eunuchi per tutti i serragli del vecchio e del nuovo mondo, ci è da diventar due volte matti!10

Ben più “calzante” con gli eventi di natura militare, che di lì a poco avrebbero occupato le prime pagine della stampa europea, l’articolo di Prezzolini su «La Voce» del 28 genna-io 1914. Il direttore si scaglia contro i “nuovi barbari”, per-correndo il dibattito, tutto italiano, in auge negli ambienti eruditi:

Una civiltà che minaccia di stancarsi ha bisogno d’una guerra o d’una rivolta per riprender vigore, vi muore o si rialza, perché ciò che distin-gue un fuoco da una candela è che il primo, sotto il vento, cresce, la seconda si spenge. L’Italia in questi ultimi anni godeva di troppa pace e civiltà intellettuali. Positivismo, misticismo, modernismo, metodo storico, dannunzianismo erano stati seppelliti […]. L’idealismo mili-tante era finito per far posto all’idealismo trionfante: c’era ora l’idea-lismo riposante. La Critica diventava più storica, recensiva e riempiva di fonti e imitazioni quel che dava un tempo a scomposizioni di idee e a polemiche. Ci voleva qualche minaccia, una guerra o una rivolta, per restituirci l’energia combattiva; una provincia ancora barbara da incivilire, il nemico alle porte, che so io? Ci vengono sotto il naso i nuovi barbari a ricordarci che si deve ancora combattere. Fan prudere le mani. Li abbiamo lasciati scorrazzare sul nostro territorio per un anno quand’era più facile ricacciarli. Ma ora basta. Bisogna difendere l’intelligenza dalla nuova barbarie.11

Gli eventi che portano alla primo conflitto mondiale ci aiutano, inoltre, a definire quali furono i problemi e le pro-spettive che l’apparato militare italiano dovette affrontare nel corso del suo faticoso processo di riforme. Le alleanze militari, le trame diplomatiche, le convenzioni e i trattati s’inserirono pienamente nell’intricato dedalo di provvedi-menti che lo Stato Maggiore italiano produsse dal 1871 al 1914. Le influenze, degli uni e degli altri, mutarono il volto dell’esercito italiano che da anello debole dell’alleanza con gli Imperi centrali divenne quanto mai l’ago della bilancia nello scontro che si andava a profilare tra i due blocchi di potenze contrapposti. Alla vigilia dello scoppio del primo conflitto mondiale l’Italia aveva migliorato il proprio appa-rato militare e dato una fisionomia più dinamica e “vicina” agli eserciti delle maggiori potenze continentali dell’epoca. Il modello di esercito prussiano fu preso quale punto di rife-rimento iniziale e successivamente adattato alle possibilità di bilancio dei vari governi a cavallo del XIX e XX secolo. Diversi eventi, come la sconfitta patita in Etiopia (1895) e la guerra in Libia (1911-12), modificarono le priorità dei vari ministri della Guerra e dei capi di Stato Maggiore in termini di spesa e chiaramente di rapporti con le altre poten-

10 Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea (BSMC), R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 13 gennaio 1914, p. 1.11 Ivi, 28 gennaio 1914, pp. 1-9.

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affinché accettasse le condizioni italiane. Fu infatti su pres-sione di von Moltke che il 26 luglio il cancelliere tedesco spedì a Vienna un telegramma d’appoggio alle richieste ita-liane.15 Forse l’atteggiamento del Capo di S.M. imperiale era dovuto al fatto che a differenza della classe politica di allora egli non era sicuro che il conflitto austro-serbo potes-se restare localizzato. Oltre a ciò la scomparsa del generale Pollio rendeva la situazione ancora più incerta. Nonostante ciò dopo aver assunto la sua nuova carica Cadorna indirizzò due dispacci ai pari grado degli eserciti alleati, ribadendo l’appoggio e i sentimenti di amicizia che legavano l’Italia alle altre due potenze della Triplice. E’ proprio il 28 giugno «La Voce» pubblica il numero 12 aprendo un dibattito sul delicato tema dell’uso della forza, da parte del governo, in-fluenzata dai fatti di Ancona:

Perché in Italia la polizia è antipatica alla popolazione? Perché In Italia ciò che rappresenta l’autorità non è simpatico alla popolazio-ne? Perché, in qualunque conflitto la gran maggioranza, soprattutto la maggioranza dei poveri, è portata a simpatizzare con chi si rivolta e non appoggia chi difende la legge? Cinquant’anni di storia italiana son lì per rispondere. Governo oppressivo; gruppi d’interessi partico-lari prevalenti a danno dell’interesse generale; tasse sproporzionate alle forze del Paese; deficienza nelle opere di educazione e di istru-zione; tradizioni di ostilità al governo; reclutamento pessimo delle guardie di sicurezza; relazioni della pubblica sicurezza con la camorra per scopi elettorali; relazioni della pubblica sicurezza con la mala vita sotto pretesto dei buoni costumi; coscienza pubblica elevantesi a poco alla volta a cognizione di questo stato di cose. […] Ogni avvenimento è uno spiraglio che apre la visione di tutta la vita nazionale. Perché la grande maggioranza fosse convinta che alcuni carabinieri ed una guardia sparassero senza bisogno il giorno 7 giugno (salvo errore) uccidendo un cittadino e ferendone altri, erano necessari e sufficienti tutti i cinquant’anni della nostra unità.16

Lucida fotografia della società italiana, da parte di Prez-zolini, che non lesina critiche nei confronti dei partiti libera-li. Il malessere economico, che l’Italia stava faticosamente affrontando, provocarono secondo il direttore de «La Voce» uno stato di irritazione più grave di quello scaturito dalle ultime elezioni politiche:

Oggi i partiti liberali scontano il peccato di non essersi opposti in tem-po alla infatuazione nazionalista per la conquista libica; scontano il peccato di non aver esposto al pubblico italiano per mezzo dei loro organi le difficoltà dell’impresa e soprattutto il peso economico che avrebbe provocato; scontano il peccato di non avere fatto quello che, presso che solo nei partiti liberali, l’on. Mosca fece. Il socialismo, il repubblicanesimo non sono cresciuti in Italia. Coloro che hanno rav-vicinato gli avvenimenti recenti a quelli del 1908 hanno perfettamente ragione. Non manca al paragone neppure la guerra d’Africa che ne fu la causa: con questa differenza che allora, siccome fummo battuti e costretti a fare una politica casalinga, restaurar le finanze fu relati-vamente facile, ora invece che siamo vincitori non possiamo tornare indietro e il peso finanziario durerà molto più tempo. I responsabili dei fatti del giugno 1914 sono dunque i responsabili dell’impresa libica: gli stessi. […] Noi abbiamo un popolo magnifico, e una borghesia bassa. Le nostre classi dirigenti sono sempre pronte quando si tratta di godere i piacere del potere, sono sempre lontane quando si tratta di pagare gli oneri.17

15 Ibidem.16 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 28 giugno 1914, p. 3.17 Ivi, 28 giugno 1914, pp. 7-8.

Non si collabora al mondo coll’abbracciamento ma con la polemica. Il libero scambio in economia politica, vuol dire guerra in politica inter-nazionale e polemica nella coltura. Gli storici di oggi vedono la causa delle guerre nei maneggi delle case Krupp, Terni, Schneider ecc. mi ricordano quegli storici dell’antichità che le vedevano nei capricci delle cortigiane e mantenute regali. Ma il “naso” di Cleopatra resterà sempre un’immagine della miopia degli storici e non della vanità della storia. Le teste son piccole non il mondo.12

L’articolo ci mostra chiaramente l’idea che sulla guerra aveva Prezzolini. L’edizione del 28 aprile 1914 si chiude con un annuncio commerciale: “A chiunque comprerà per LIRE DIECI di nostre edizioni manderemo gratis LA VOCE fino al 31 dicembre 1914”13. Di li a poco sarebbe scoppiata la guerra e annunci come questo avrebbero, per molti, perso ogni importanza. L’assassinio dell’arciduca Francesco Fer-dinando a Sarajevo provocò l’inizio della catena di eventi che diedero inizio allo scoppio della Prima guerra mondia-le (28 giugno 1914). Per il partito interventista austriaco si presentava quindi l’occasione di vendicare la morte dell’ar-ciduca attaccando la Serbia, come da tempo Conrad profes-sava, i vertici militari della duplice monarchia non avevano intenzione però di scatenare un conflitto di dimensioni eu-ropee. A Vienna si era certi che nel caso di un fermo atteg-giamento della Germania la Russia non si sarebbe mossa come avvenuto nel corso delle due crisi albanesi dell’anno precedente. Per quanto concerneva l’Italia, dagli eventi del luglio 1913, gli austriaci credevano che essa non si sarebbe intromessa nella questione serba. Per ottenere l’appoggio italiano sarebbe stato di primaria importanza promettere compensi territoriali, cosa che i politici austriaci non aveva-no alcuna intenzione di fare, vi era poi il pericolo che l’Italia si opponesse all’azione mettendo in allarme l’Intesa. L’ap-poggio italiano fu valutato però come non indispensabile dall’establishment austro-ungarico, mentre i tedeschi proba-bilmente non riuscirono a valutare con la necessaria lucidità la situazione che si venne a creare nell’estate del 1914. Da parte italiana la morte del generale Pollio privò l’esercito in un momento alquanto cruciale di una figura estremamente importante. Luigi Cadorna, nuovo Capo di Stato Maggio-re, si trovò a fronteggiare una situazione d’emergenza, del resto soltanto pronte garanzie austriache circa la questione dei compensi avrebbero potuto indurre l’Italia a partecipare a un conflitto causato da un’azione offensiva della duplice monarchia, diretta a tutelare interessi esclusivamente propri e non rientrante in alcun modo tra quelle previste per il ca-sus foederis del trattato della Triplice. Se quindi l’Austria avesse consentito all’Italia la cessione del Trentino e l’auto-nomia di Trieste e se: «Noi nel contempo avessimo loro dato affidamenti per Tunisi e Nizza, avremmo avuto l’Italia dalla nostra», così affermò il principe von Bülow nelle sue Me-morie.14 Mentre i dirigenti politici degli Imperi centrali non capirono l’importanza che siffatte concessioni avrebbero potuto rappresentare di lì a poco, il Capo di S.M. germanico von Moltke avviò diversi colloqui con l’Austria-Ungheria

12 Ivi, 28 aprile 1914, pp. 1-6.13 Ibidem.14 B. von Bülow, Memorie, Mondadori, Milano, 1931, p. 192.

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comunque a Strasburgo a par-tire dal 6 agosto, lo scarico si sarebbe dovuto concludere secondo i piani dell’ufficio trasporti dello Stato Maggiore germanico entro giorno 15. Il generale Cadorna, conscio de-gli oneri della carica che andò a ricoprire, si era reso perfet-tamente conto della gravità della situazione provocata dagli eventi internazionali di quei giorni. Il Capo di S.M. proponeva quindi la cancella-zione di Genova dall’elenco delle fortezze e lo smantella-mento delle sue batterie i cui pezzi, abbastanza antiquati, avrebbero dovuto essere tra-

sferiti in Appennino per realizzarvi un ridotto, ma non solo. Disponeva di provvedere subito all’occupazione avanzata e al presidio delle fortezze sulla frontiera nord-ovest, far rien-trare le truppe sospendendo i campi, mettere in preallarme le grandi unità destinate a operare sulle Alpi o a essere inviate in Germania, far rientrare dalla Cirenaica quattro battaglio-ni alpini e rinforzare gli organici, completando il richiamo della classe 1891. La macchina organizzativa dell’apparato militare italiano si era quindi messa in moto. Inoltre veni-va disposto lo sgombero delle risorse concentrate presso il porto di Genova, il trasporto dell’artiglieria atta a comple-tare l’armamento delle fortezze dalla frontiera nordorientale a quella nordoccidentale e bisognava preparare l’opinione pubblica all’eventualità di una guerra. Ai provvedimenti più importanti il ministro della Guerra dava esecuzione imme-diata, il 31 luglio quindi si provvedeva alla difesa avanzata della frontiera con la Francia, disposto il trasferimento da fortezza da est a ovest, e ordinato il rimpatrio dalla Libia di parecchie unità ufficiali e sottufficiali. Lo stesso Cadorna sollecitò il ministro della Guerra alla messa in stato di di-fesa delle piazze di Messina e della Maddalena, inviando al re una memoria sintetica sulla radunata nord-ovest e sul trasporto in Germania della maggior forza possibile. Il nuo-vo Capo di S.M. illustrava poi a Vittorio Emanuele III la storia degli accordi italo-tedeschi e chiariva la sua posizione in merito:

L’intima persuasione mia in proposito è che la vitale questione non sia suscettibile di diversa soluzione. […] Ma è altresì mio convinci-mento che la soluzione prospettata non corrisponderà compiutamente agli interessi della Patria se non quando avrà raggiunta la maggiore estensione cui essa è capace. […] Ritengo in altri termini che si debba non soltanto tornare ad assegnare 5 corpi d’Armata (oltre alle divisio-ni di cavalleria) all’Armata da inviare in Germania, ma che si debba tendere ad inviare su quello che, nel conflitto, rappresenterà il teatro principale della guerra. […] L’interesse nostro non può non collimare con l’interesse generale del gruppo di alleanza al quale partecipiamo. […] Il non compiere da parte nostra il massimo sforzo per concorrere a ridargli stabilità tornerebbe esiziale all’interesse generale ed a quello nostro in particolare. […] L’interesse strategico consiglia e comanda

L’editoriale di Prezzolini, ben strutturato, faceva rife-rimento ai fatti accaduti l’8 giugno ad Ancona, definiti successivamente dalla sto-riografia “settimana rossa”. All’alba di lunedì 8 giugno 1914, l’Italia fu attraversata dalla rivolta: per le strade del-le principali città della peniso-la infuriarono violenti scontri tra forza pubblica e sciope-ranti. Il profondo disagio eco-nomico e sociale esasperò i disordini, alla vigilia della Prima guerra mondiale, dando vita a una vera e propria insur-rezione antimonarchica e anti-militarista, che mise in luce le debolezze del governo e della corona sabauda. L’episodio costituì uno dei primi esempi di protesta pacifista che si susseguiranno nel Novecento, ma anche una preoccupante esacerbazione dei conflitti sociali che annunciarono le cri-si del primo dopoguerra. La scintilla deflagrò ad Ancona, città portuale già particolarmente “calda” durante altri epi-sodi di sollevazione, dove in occasione del 7 giugno, festa dello Statuto Albertino, ebbe luogo una manifestazione di protesta opposta alla parata ufficiale. Dopo la morte di tre dimostranti, la reazione esplose in un’aperta rivolta genera-le: dalla città occupata l’insurrezione si estese, attraverso le Marche, in tutta la Romagna e si accesero focolai in tutti i più importanti centri italiani. Dopo giorni di combattimenti e barricate, con l’intervento dell’esercito il 10 giugno 1914, la Confederazione Generale del Lavoro revocò lo sciopero e il 13 giugno, di fatto, la rivolta cessò.

Nel frattempo il generale von Moltke ricevette la co-municazione di neutralità, da parte italiana, allorché la si-tuazione stava precipitando, infatti il 25 luglio la Serbia aveva mobilitato, l’Austria aveva indetto una mobilitazione parziale e la Russia (26 luglio) aveva iniziato a preparare il proprio esercito. Il 29 fu inoltre indetta la mobilitazione ge-nerale in Montenegro e l’Inghilterra diramò il “telegramma d’avviso” per l’esercito e per la flotta e la Russia ordinò la mobilitazione parziale contro l’Austria-Ungheria. Ai primi di agosto l’imperatore tedesco Guglielmo II si rivolgeva di-rettamene al re d’Italia Vittorio Emanuele III e von Moltke affermava al cancelliere Theobald von Bethmann Hollweg: «Non m’importa se l’Italia non invierà in Germania un no-tevole contingente di truppe. Mi basta che invii a causa della situazione politica, poche forze, fosse anche una sola divisione di cavalleria. L’importante è che l’Italia entri in guerra a fianco degli alleati. A ciò è sufficiente il minimo contributo militare».18 L’arrivo della 3ª armata era atteso

18 W. Foerster, Aus der Gedankenwerkstatt des Deutschen Generals-tabes, Berlin, 1931, p. 101.

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che sarebbero state necessarie importanti concessioni all’Italia per averla dalla pro-pria parte. Si credette probabilmente che l’Italia non avrebbe osato abbandonare la Germania, i calcoli austriaci si rivela-rono del tutto errati. Il 3 agosto Cadorna consegnava all’addetto militare austriaco la sua personale risposta a Conrad, senza entrare nel merito della richiesta, il Capo di S.M. italiano fece valere la dichiarazio-ne di neutralità del Regno d’Italia chiu-dendo la scambio di note. Secondo parte della storiografia il mancato intervento italiano sarebbe da attribuirsi a ragioni militari, secondo l’addetto militare au-

striaco a Roma la vera ragione della neutralità italiana era da ricercarsi nell’impreparazione dell’esercito regio oltre a forti carenze di ordine finanziario, queste debolezze sareb-bero state mascherate motivando la neutralità col pretesto di una guerra offensiva. Nel 1914 l’Italia, seppur tra varie difficoltà, aveva sotto le armi le due classi 1892 e 1893, qua-si 235mila uomini, oltre 41mila tra raffermati e carabinieri, inoltre furono richiamati per esigenza di pubblica sicurezza 76mila uomini della classe 1891 da poco congedati, in totale 352mila uomini di truppa perfettamente istruiti, 50mila dei quali in Libia. Numeri importanti. Vi erano poi sotto le armi 33mila reclute della 2ª categoria del 1893. Le carenze non mancavano, come ad esempio le 200mila serie di vestiario, ma queste erano più contenute rispetto le previsioni di parte della stampa neutralista dell’epoca. Escluse in parte le ra-gioni militari, non rimasero che quelle politiche e in primis la questione dei compensi. Anche dopo la proclamazione della neutralità, per la quale si adottò una formula che la-sciava aperta ogni possibilità, fu più volte avanzata l’ipotesi di un intervento italiano a fianco degli Imperi centrali.

Del resto dopo la proclamazione della neutralità (1 ago-sto) fu ordinato il richiamo degli ufficiali dall’estero, fu di-sposto l’armamento con materiale a deformazione per tutte le batterie dell’artiglieria da campagna ordinandole su 4 pezzi, fu ordinata la formazione di un altro battaglione per ogni reggimento formato da uno e istruito che i richiamati esuberanti ai centri di cavalleria fossero spostati all’artiglie-ria. Tutte queste misure furono adottate dai vertici militari in completa sintonia con il governo. Salandra optò per la neutralità già sul finire di luglio, data la mobilitazione della Marina e quella occulta dell’esercito si era pronti a ogni so-luzione, ma quella prevista era che l’Italia prendesse parte al conflitto assieme ai suoi alleati. L’annuncio dell’intervento inglese, poi, fece svanire del tutto la possibilità di un’azione italiana a breve termine (5 agosto), ma influì parallelamente l’atteggiamento di Vienna teso a non aprire alcuna trattativa riguardante il Trentino. In siffatta situazione in cui, è bene ricordarlo, mancava il casus foederis previsto dalla Tripli-ce, la neutralità italiana prendeva consistenza sempre più. Questa decisione non mancò di scatenare la sorpresa degli Imperi centrali che con il passare del tempo si trasformò in

di considerare le forze armate della triplice come se appartenessero ad un unico esercito e ripartirle con un concetto direttivo unico. E poiché il teatro principale delle operazioni è quello settentrionale dovranno convergere le masse preponderanti delle forze dei collegati.19

Nel leggere la memoria si comprende che Cadorna do-veva essere stato informato della posizione del re, contraria all’impiego delle truppe italiane in un settore in cui il Coman-do Supremo italiano non ne avrebbe avuto il pieno controllo. Intanto anche la Marina italiana aveva iniziato le operazioni di mobilitazione con grande rapidità, i vertici militari fran-cesi stavano iniziando a prendere misure cautelative, infatti l’addetto militare italiano a Parigi, colonnello di Breganze, confermò che le truppe erano state richiamate nelle guar-nigioni e le piazzeforti erano stato messe in stato di difesa. Breganze ebbe modo di ravvisare che l’opinione pubblica francese era ben disposta verso l’Italia e che predominava la convinzione della neutralità italiana. La stampa si mostrava incline a un atteggiamento conciliante nei confronti dell’I-talia e le misure prese al confine con la penisola erano state, fino a quel momento, pochissime.20 Il 2 agosto una lettera di Conrad indirizzata a Cadorna esortava il Capo di Stato Mag-giore italiano ad appoggiare l’esercito austro-ungarico tra-mite l’invio di alcune truppe, questa lettera sorprese i vertici militari italiani poiché anche durante la direzione di Pollio non vi era stata alcuna trattativa al riguardo. Questo atteg-giamento rappresentava la situazione che si era venuta a cre-are a Vienna, la classe politica austriaca infatti aveva visto svanire negli anni precedenti ogni speranza di espansione nella penisola balcanica, avevano inoltre sopportato le azio-ni provocatorie serbe e montenegrine e cercato di evitare il precipitare della situazione. Dopo l’assassinio dell’arciduca tutto mutò, l’Austria-Ungheria mise in preventivo un’azione offensiva contro la Serbia poiché era comune convinzione che l’appoggio tedesco avrebbe frenato l’attivismo russo e il conflitto sarebbe rimasto circoscritto. Allorché questi piani si rivelarono errati, e le pressioni francesi provocarono l’in-tervento russo, il governo viennese fu sorpreso e sopraffatto dall’incedere degli eventi. La duplice monarchia non si rese conto né dell’importanza dell’intervento italiano né del fatto

19 M. Mazzetti, L’esercito italiano nella triplice alleanza, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1974, p. 433.20 Ivi, p. 434.

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riconosciuta, abbastanza imparziale, per giudicare; così forte da far rispettare il proprio giudizio; tanto rispettata ed amata, da non avere bisogno di forza. E la visione si annebbia di fronte all’indiscutibile fat-to che non possiamo essere neutrali, non siamo abbastanza forti, non ci amano. Ma intanto la neutralità è stata un bene perché ha affermato una cosa: l’autonomia dell’Italia, che in questo conflitto l’Italia ha de-gli interessi propri, degli interessi che non sono quelli delle nazioni alla coda delle quali ci vorrebbero portare. Il primo dovere di un pae-se è l’autonomia. Il miglior modo di collaborare alla civiltà umana è quello di portarvi intatta la propria libertà e la propria natura. Noi non siamo né la Francia, né la Germania. Sia pure uno di questi paesi più civile dell’altro noi tradiremmo la civiltà ponendoci al suo servizio. Noi renderemo il massimo servizio alla sua civiltà mostrando la nostra autonomia. E dal punto di vista politico noi non vediamo per l’Italia alcuna ragione di decidere fra la Francia e la Germania ma piutto-sto parecchie di decidere fra l’Inghilterra e l’Austria. La neutralità è stata dunque un bene, in quanto ha dichiarato la nostra indipendenza dalle altre nazioni ma in modo attivo. La neutralità è stata eccellente ma come transizione e preparazione alla guerra. Non possiamo essere imparziali quando tutti i nostri interessi sono in gioco. E il principale interesse è questo che l’Italia è fatta ma non è compiuta. E soprattutto che l’Italia non essendosi fatta da sola aspetta finalmente l’atto che la dimostrerà capace di fare da sé. Il ’59 fu con la l’aiuto della Francia, il ’60 con la protezione dell’Inghilterra, il ’66 con le forze della Prussia, il ’70 per l’assenza dei francesi. Il 1914 sarà una data di più o una data nuova? La Libia ha cancellato Adua. Quale nome cancellerà quelli di Lissa e Custoza? Il primo interesse dell’Italia è di dimostrare al mondo che essa ha dei propri interessi.22

Prezzolini descrive con lucida chiarezza gli even-ti di politica estera più importanti, per l’Italia, degli ul-timi sessant’anni, chiedendosi quale fosse la scelta mi-gliore da compire per il Paese in quel delicato momento. Non ha dubbi. La neutralità, almeno all’inizio delle osti-lità, gli sembrò la soluzione più saggia. Neutralità, però, vista in chiave di preparazione alla guerra, resa neces-saria, secondo il direttore de «La Voce», dagli innumere-voli interessi in gioco per cui inevitabile. Nei passi suc-cessivi Prezzolini specifica quali fossero gli elementi da prendere in considerazione nel caso si dovesse abbando-nare l’iniziale neutralità dichiarata dal governo italiano:

Come per la guerra di Libia noi volemmo, contro il facilismo e la leggerezza nazionalista, presentare quegli elementi di previsione che dal lato economico, strategico, internazionale purtroppo la realtà si è incaricata di dichiarare fondati così anche per questa guerra vogliamo opporci al facinolismo ed alla letteratura che già han gettato i loro rami parassitari allo sfruttamento dell’intuizione popolare, riconfer-mando i nostri convincimenti. La guerra non sarà e, specialmente non augurabile sia, troppo facile; non deve essere fatta per aiutare nessu-no, ma per nostri fini autonomi, soprattutto per poterci presentare, il giorno della pace, con il possesso effettivo, l’unico che oggi conti, di quanto sta a cuore agli italiani. Una delle maggiori disgrazie della guerra libica fu la convinzione che essa sarebbe stata facilissima e breve. Anche per la nostra non occorrono illusioni: non può, non è augurabile sia facile; difficilmente sarà breve. Ma gli italiani danno oggi maggiori speranze. Si sente nel paese un accordo più serio perché non v’è cupidigia di terre da fruttare di pingui raccolti da mietere, di oro zolfo diamanti da raccogliere. Si tratta di passare il nostro esame. Fummo, finora, una nazione aspirante al grado di grande. Oggi non si tratta neppur di questo ma di ben altro. Si tratta di sapere se siamo una nazione.23

L’edizione di settembre vede protagonista la «La Voce»

22 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 28 agosto 1914, p. 3.23 Ivi, 28 agosto 1914, pp. 5-8.

aperta indignazione. La Triplice era arrivata alla sua natu-rale fine. La durezza dell’atteggiamento tedesco, dopo l’an-nuncio della neutralità italiana, fu una diretta conseguenza della totale convinzione circa l’intervento sicuro italiano a fianco degli alleati. Se all’inizio dell’alleanza i rapporti non si erano mai ammantati di incondizionata fiducia, nel corso degli anni, soprattutto l’ultimo anno e mezzo, si ve-rificò un cambiamento d’opinione in quanto la personalità del generale Pollio e i suoi sforzi per raggiungere accordi sicuri suscitarono una giustificata fiducia nella sua fedeltà all’alleanza e una seria predisposizione ad aiutare gli alleati. Von Moltke cercò di indirizzare questi buoni rapporti per consolidare i trattati militari e le convenzioni, tuttavia senza mai pienamente contare sulla cooperazione italiana, stretta com’era tra problemi di ordine finanziario e carenze di livel-lo logistico, derivanti, in parte, dalla logorante guerra in Li-bia. La realtà dei fatti, una volta conosciuta la neutralità ita-liana, mostrava come per il Capo di Stato Maggiore tedesco contasse molto l’aiuto dell’esercito italiano. D’altra parte se von Moltke non avesse creduto all’invio della 3ª armata non avrebbe manifestato tutta la sua incredulità allorché Salan-dra affermava la neutralità dell’Italia. Nel novembre 1914 il generale tedesco scrisse:

Da anni l’intesa prendeva una posizione contraria alla Triplice. Solo un anno prima della guerra furono rivisti e rinnovati gli accordi tra Italia e Germania, nella primavera del 1914 questi accordi furono stabiliti in modo impegnativo. L’Italia si era impegnata a mettere a disposizione, in caso di guerra tra la Germania e la Francia, due di-visioni di cavalleria e tre corpi d’armata. […] Nello stesso modo fu concluso un accordo navale tra Germania, Italia e Austria secondo il quale doveva avere luogo un’azione comune della marina austriaca e italiana, a cui avrebbero preso parte le navi tedesche che si trovassero nel Mediterraneo allo scoppio della guerra. Tutti questi accordi furono presi in maniera così chiara e impegnativa da non lasciare dubbi sulla fedeltà dell’Italia alla Triplice. Ciò nonostante l’Italia ha mancato alla sua parola. Dichiarò la sua neutralità passando sopra, con indifferen-za, a tutti gli accordi. Un tradimento più oltraggioso forse non si trova nella storia.21

A due mesi dall’assassinio dell’arciduca Francesco Fer-dinando, Prezzolini aprì l’edizione del 28 agosto inserendo-si nell’acceso dibattito tra “neutralisti e interventisti” con queste parole:

Il mistero della generazione di un nuovo mondo europeo si compie. Forze oscure scaturite dalla profondità dell’essere sono al travaglio ed il parto avviene tra rivi mostruosi di sangue e gemiti che fanno freme-re. Noi non guardiamo soltanto al dolore. Salute al mondo nuovo! Ci darà la guerra quello che molti delle nostre generazioni hanno atteso da una rivoluzione? L’animo è calmo di fronte alla totalità del fatto che si compie e non possiamo dubitar di domani. La civiltà non muo-re! Indietreggia per prendere un nuovo slancio. Si tuffa nella barbarie per rinvigorirsi. Vincesse per quella che ci sembra barbarie, non sarà mai che l’albero selvatico sul quale s’annesta il ramo dolce, domestico e tenero. Non esiste un monopolio della civiltà. Nessun popolo ha il possesso esclusivo dell’ideale. Tutti i popoli hanno una sola missione, alla quale più o meno ritrarsi agli occhi di chi domina. […] L’Italia ha scelto la parte più grande e più bella. Ma troppo difficile. Non siamo abbastanza alti per essere neutrali. Il nostro pensiero si arresta davanti alla carezzevole visione di un’Italia abbastanza superiore, abbastanza

21 H. von Moltke, Erinnerungen, Briefe, Dockumente, 1877-1916, Stuttgart, 1922, pp. 8-9.

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Il 13 novembre Prezzolini firmò il consueto editoriale che annunciava le novità della rivista per il 1915, ma anche la sua uscita di scena da direttore de «La Voce», lasciando a Giuseppe De Robertis la direzione, quest’ultimo nominato dallo stesso Prezzolini. Ecco le sue ultime parole: “Sarebbe stato un mio vivo desiderio dedicarmi tutto a la Voce, la-sciando ogni altra collaborazione ma questo non è possibile. Del resto ho sempre sperato ed atteso in questi anni, fin dal primo anno de La Voce, qualcuno, un giovane, che mi sosti-tuisse. La Voce è fatta per i giovani!”.29

NOTA BIBLIOGRAFICA

B. von Bülow, Memorie, Mondadori, Milano, 1931;F. Fischer, Assalto al potere mondiale, La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi Editore, Milano, 1965; M. Mazzetti, L’esercito italiano nella triplice alleanza, Edi-zioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1974; R. Webster, L’imperialismo industriale italiano 1908-1915, Einaudi Editore, Milano, 1974; M. Isneghi, G. Rochat, La grande guerra 1914-1918, La Nuova Italia, Firenze, 1999; R. De Felice, Mussolini: il rivoluzionario, 1883-1920, Ei-naudi Editore, Milano, 2005; E. Hobsbawm, Il Secolo breve, Rizzoli, Milano, 2006; R.F. Betts, L’alba illusoria, L’imperialismo europeo nell’Ot-tocento, Il Mulino, Bologna, 2008; A. Biagini, L’Italia e le guerre balcaniche, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2012; R. Sciarrone, Strategie militari franco-tedesche a confronto (1905-1913), Nuova Cultura, Roma, 2013.

FONTI

Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea (BSMC), R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 13 gennaio 1914; 28 gen-naio 1914; 28 aprile 1914; 28 giugno 1914; 28 agosto 1914; 13 settembre 1914; 28 settembre 1914; 13 novembre 1914.

29 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 13 novembre 1914, p. 2.

del dibattito che interessò partiti politici e associazioni cul-turali italiane di fronte alla guerra. Il partito liberale, secon-do Prezzolini, si mostrò quello più sfuggente e obbediente in maniera passiva alle decisioni imposte dal governo.24 Il giornalismo borghese: “Ha almeno un pensiero. Pensa per la borghesia che non saprebbe altrimenti che cosa pensare”.25

In grave imbarazzo, secondo il direttore, si trovavano i na-zionalisti, dopo le feroci campagne contro la Francia, la democrazia, l’anticlericalismo e le pubbliche dichiarazioni: “Perché si marciasse assieme ai tirolesi e agli ulani”.26 I cle-ricali temevano invece il seme anti clericale che una vittoria della Francia avrebbe potuto seminare, mentre i repubblica-ni avrebbero voluto attaccare sin da subito l’Austria, rappre-sentando in pieno le ideologie irredentiste.

I pacifisti – responsabili in parte della debolezza delle nazioni che alle loro lusinghe hanno dato più retta, come la Francia, la quale, se si salverà dal militarismo tedesco lo dovrà al militarismo russo - cercano di riparare al disastro delle loro idee, dicendo che da questa guerra così immane nascerà un salutare amore per la pace. E’ certo che, per risol-levarsi dalla catastrofe economica, parecchie nazioni vorranno godere lunghi anni di pace, e che, se questa guerra darà soluzione a molte questioni si avrà la probabilità di un periodo di riposo assai lungo. Ma basta guardare la carta del mondo per capire che nessuna nazione vor-rà rinunziare a prevedere i più aspri conflitti venturi, ai quali saranno chiamati mezzi di distruzione più potenti, leghe di stati più vaste, eser-citi più numerosi. Basti pensare all’inevitabile conflitto dell’occidente con gli slavi, a quello tra Stati Uniti e Giappone, alle risoluzioni delle questioni dell’Asia Minore e della Cina, per capire che, quanto spetta ad occhio umano guardare, vi saranno ancora guerre e più micidiali. Invece di propaganda pacifista credo che le nazioni si prepareranno a guerre più grandiose, per le quali, poiché oggi la massa è tutt’altro che resa indifferente dall’impiego di mezzi distruttivi efficacissimi, occorrerà che il tutto il popolo sia preparato, in modo da offrire con uno sforzo organico e ordinato, il massimo della potenza.27

L’edizione del 28 settembre si aprì con il consueto edi-toriale del direttore Prezzolini, dal titolo La guerra tradita, che torna sul tema della neutralità:

Nel momento in cui scrivo è opinione diffusa che ogni possibilità di azione immediata sia scomparsa. Il governo evidentemente, si riserva di tutelare i nostri interessi appena siano compromessi e forse vuole aspettare l’autorevole esempio e la spinta della Rumenia, che ha dato prove certo non comuni di destrezza e di tempismo. Agli uomini che sono al governo è già parso un atto eroico dichiarare la neutralità […], comunque sia mi pare ormai certo, che il tempo di un atto eroico è passato. Ormai la fortuna ha ceduto la sua chioma e volto la sua ruota. Non v’è chi ragioni che non sappia a chi, presto o tardi, arriderà la vit-toria. E anche se noi agiremo con la massima buona fede del mondo, saremo sempre veduti come gente che s’è volta alla forza, alla fortu-na, alla opportunità, al ricatto. […] Il nostro paese ne risente sempre, rivoluzionario in principio, conservatore in fine, ma né l’una cosa né l’altra nettamente. Lo stato, che doveva realizzare l’antitesi del catto-licismo, complotta, mercanteggia, tratta, tollera i cattolici. La chiesa vive a spese e con tolleranza di un regime che dovrebbe condannare come empio. Il socialismo patteggia con i borghesi per averne favori di riforme. I borghesi si assicurano contro la rivoluzione cedendo i posti grassi ai socialisti. L’Italia soffre di questa perpetua finzione, in cui nessuno è al suo posto. La guerra sarà abolita nel mondo il giorno in cui nel mondo ci sarà giustizia: non prima!28

24 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 13 settembre 1914, p. 4.25 Ivi, 13 settembre, p. 5.26 Ibidem.27 Ivi, 13 settembre, p. 8.28 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 28 settembre 1914, pp. 2-4.

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Le case della vita di Emma Bovary FEDERICA CASINI

vo con una figlia che lo aiuta nella direzione della casa. La divisione di ruoli è anche una divisione di spazi: mentre il padre è alla guida di tutto quello che è esterno alla proprietà (gli edifici agricoli, i campi, gli operai), la figlia si occupa dell’interno della fattoria. Esiste di fatto una separazione tra due sfere, tra due dimensioni antitetiche: il fuori e il den-

tro, il mondo dell’autorità maschile e il mondo femminile. La dialettica spazio interno/esterno è fondamentale nel ro-manzo. Nella fase iniziale del libro lo spazio è raffigurato apparentemente secondo i canoni del romanzo classico, che riproduce un’immagine dell’uomo basata sull’assetto sociale borghese. La rappresentazione solida e rassicurante di questa casa di campagna veicola precisi valori sociali, come il pos-sesso. All’apparenza rispettabile della fattoria corrisponde, all’interno di essa, l’immagine di ragazza di buona famiglia della sua padrona: «mademoiselle Rouault, élevée au cou-vent, chez les Ursulines, avait reçu, comme on dit, une belle éducation»3. Emma tuttavia non è felice, la vita di campagna non le piace. In una casa in cui è padrona ma si sente vaga-

L’educazione sentimentale di Emma Bovary passa anche attraverso le case in cui abita. Il processo di evo-luzione o, meglio, di deformazione morale e spirituale della giovane

donna, alla quale si assiste nel corso del romanzo, è forte-mente collegato alla questione degli spazi abita-tivi che fanno da scenario e da contenitore alla sua esistenza. La centralità della descrizione in rapporto allo spazio romanzesco è evidente in Madame Bovary. Osserveremo le descrizioni de-gli spazi più significativi del romanzo, seguendo l’ordine cronologico in cui il narratore li presen-ta, per mostrarne la trasformazione progressiva in funzione della disfatta esistenziale della protago-nista e per dimostrare il valore negativo che l’am-biente casa riveste nella vicenda di Emma. A ogni fase significativa della vita di Madame Bovary fa infatti da sfondo un’abitazione la cui architettura immaginaria possiede un profondo valore sim-bolico: una struttura fisica che riflette i bisogni psicologici, le aspirazioni più segrete, i moti dell’animo, il modo di essere e apparire della protagonista.

La prima «casa della vita»1 legata all’eroina del roman-zo flaubertiano è la casa natale, la fattoria dei Bertaux dove Emma è cresciuta. La descrizione della ferme rimanda all’universo rurale della provincia settentrionale francese. «C’était une ferme de bonne apparence»2, una fattoria di bell’aspetto, dove, alla casa padronale, si affiancano altri fab-bricati disposti in maniera simmetrica e ordinata. La fattoria nel suo insieme è l’espressione fedele dello status del suo proprietario, un agiato agricoltore normanno rimasto vedo-

1 Titolo del libro di M. PRAZ, La casa della vita, Milano, Mondadori, 1958. 2 G. FLAUBERT, Madame Bovary (1857), Paris, Gallimard, 1972, p. 37. 3 Ivi, p. 42.

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convenzionale del maniero e dei suoi interni, espressione di un’antica nobiltà che ha voluto rinnovare le forme della propria dimora pur restando fedele alla tradizione, appare a Emma in tutta la sua imponenza e immobilità atemporale:

Le château, de construction moderne, à l’italienne, avec deux ailes

avançant et trois perrons, se déployait au bas d’une immense pelouse

où paissaient quelques vaches, entre des bouquets de grands arbres

espacés, tandis que des bannettes d’arbustes, rhododendrons, serin-

gas et boules-de-neige bombaient leurs touffes de verdure inégales

sur la ligne courbe du chemin sablé. Une rivière passait sous un pont;

à travers la brume, on distinguait des bâtiments à toit de chaume,

éparpillés dans la prairie, que bordaient en pente douce deux coteaux

couverts de bois, et par derrière, dans les massifs, se tenaient, sur deux

lignes parallèles, les remises et les écuries, restes conservés de l’an-

cien château démoli6.

Emma è introdotta nella casa di sogno dal marchese stesso che, affacciatosi a metà della scalinata, le offre il braccio. Ma

mente prigioniera, Emma, che è comunque benestante, ha un suo spazio personale, una camera in cui può leggere. Di tutte le stanze della casa, la camera è il luogo che meglio rispec-chia l’interiorità della sua proprietaria, è il rifugio, l’être chez soi di contro alle gerarchie della maison, la regione d’intimi-tà che le permette di fantasticare attraverso la lettura e, così facendo, di sfuggire alla realtà che la opprime.

Celebrate le nozze con il mediocre Charles, Emma lascia la casa del padre per andare ad abitare a Tostes, una picco-la cittadina dove il marito esercita la professione di medico. L’ubicazione della casa, esattamente in linea con la strada e la disposizione delle stanze (in cui la salle, l’ambiente dove si mangiava e passava la giornata, è contigua al cabinet, il modesto ambulatorio) riportano ad una dimensione in cui lo spazio domestico e quello professionale sono inscindibili, esercitando un’invadenza nei confronti della vita dei per-sonaggi: «L’odeur des roux pénétrait à travers la muraille, pendant les consultations, de même que l’on entendait de la cuisine, les malades tousser dans le cabinet et débiter toute leur histoire»4.

Emma non si trova inizialmente a suo agio in questa casa piuttosto anonima come il suo proprietario, tanto da provare immediatamente il bisogno di introdurre qualche cambia-mento nell’arredamento dell’abitazione. I suoi tentativi di personalizzare e agire sullo spazio comune alla coppia sono comunque vani perché si rende ben presto conto di non ama-re Charles e la monotona calma domestica di quell’ordinario e piatto ménage, abituata com’è a sognare dai libri i tumulti della passione, ad imitare le eroine romantiche attraverso la ricerca di un grande amore che dia un senso profondo alla sua esistenza e appaghi le velleità romanzesche del proprio essere. Il consenso al matrimonio era stato dettato dall’ansia di un nuovo stato, di un cambiamento, dalla voglia di fuggire dalla propria gabbia familiare, dalla necessità di un nuovo spazio vitale - concepito secondo i canoni e i topoi del più manierato gusto ottocentesco - che si concluderà in amara disillusione.

La casa vagheggiata da Emma si nutre dei classici della letteratura romantica o che la prefigurano nella sensibilità, accomunati dal desiderio di evasione, dalla ricerca di un al-trove geografico e temporale. È lo spazio esotico della ca-setta di bambù di Paul et Virginie; lo spazio gotico del vec-chio maniero dei romanzi storici alla Walter Scott, in cui le «châtelaines au long corsage, […] sous le trèfle des ogives, passaient leurs jours, le coude sur la pierre et le menton dans la main, à regarder venir du fond de la campagne un cavalier à plume blanche qui galope sur un cheval noir»5.

Il sogno di soggiornare in uno spazio ideale pare dive-nire realtà quando la coppia viene invitata dal marchese di Andervilliers al castello della Vaubyessard per una serata mondana. La partenza in carrozza dei due provinciali per il castello e la descrizione del ballo richiamano i contes de fées e in particolare quello di Cendrillon. L’immagine austera e

4 Ivi, p. 59. 5 Ivi, p. 66.

6 Ivi, p. 79. 7 Ivi, p. 90. 8 R. GIRARD, Mensonge romantique et vérité romanesque, Paris, Grasset, 1961.9 J. DE GAULTIER, Le Bovarysme, Paris, 1913.10 G. FLAUBERT, Madame Bovary, cit., p. 102.

Gustave Flaubert

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sentait l’ennui plus lourd qui retombait sur elle. Elle serait bien descendue causer avec la bonne, mais une pudeur la re-tenait»14. L’isolamento nel cuore di uno spazio privato ha il valore di una fuga totale, regressiva, al resto del mondo e alla parola, segno di una grave sofferenza patologica che si rivela anche nell’abbandono totale della casa e della cura di sé in questa fase di attesa di un avvenimento che venga a ravvivare la vita della protagonista, a trascinarla di nuovo negli scenari di felicità e passione che pensa di avere intravisto al ballo.

L’agognato cambiamento arriva con il trasferimento nel borgo di Yonville, dove Charles, preoccupato per le condi-zioni di salute della moglie, chiede e ottiene il trasferimento. Si tratta del quarto spostamento per lei, ossia la quarta volta che dorme in un posto nuovo. Emma ama i cambiamenti di luogo e di spazio. Ognuno di essi ha sempre significato l’ini-zio di un nuovo capitolo nella sua esistenza:

C’était la quatrième fois qu’elle couchait dans un endroit inconnu. La

première avait été le jour de son entrée au couvent, la seconde celle de

son arrivée à Tostes, la troisième à la Vaubyessard, la quatrième était

celle-ci; et chacune s’était trouvée faire dans sa vie comme l’inaugu-

ration d’une phase nouvelle. Elle ne croyait pas que les choses pussent

se représenter les mêmes à des places différentes, et, puisque la portion

vécue avait été mauvaise, sans doute ce qui restait à consommer serait

meilleur15.

L’attesa novità non guarisce Emma dal suo inafferrabile malessere, anzi, significherà l’inizio della sua rovina econo-mica e morale, a causa dei crescenti debiti contratti con il merciaio Lhereux e della ricerca di relazioni extra coniugali, che la illudono di potersi prendere una rivincita sulla felicità che le mancava, sui suoi sogni troppo alti, sulla sua «maison trop étroite»16.

Il primo tradimento reale di Emma è l’amore con Ro-dolphe, uno spregiudicato gentiluomo di campagna che, da abile Tartuffe, si introduce nella casa dei Bovary, di cui vor-rebbe violare l’intimità seducendo la moglie del suo proprie-tario:

– Que vous seriez charitable, poursuivit-il en se relevant, de satisfaire

une fantaisie ! C’était de visiter sa maison ; il désirait la connaître ; et,

madame Bovary n’y voyant point d’inconvénient, ils se levaient tous

les deux, quand Charles entra17.

Conquistata la fiducia del marito, Rodolphe, navigato don-giovanni, illude Emma parlandole con i luoghi comuni del sentimento. Dopo aver consumato l’adulterio, Emma si chiu-de come sempre nella sua camera e, guardandosi allo spec-chio, vi gusta il suo trionfo, che le pare l’inizio di una nuova pubertà di felicità e amore18. Una mattina in cui Charles esce

ogni tentativo di confondersi, di penetrare nelle esistenze de-gli abitanti di quel mondo dorato è vana e la luce del mattino riporta Emma alla prosaicità della realtà, alla quale deve suo malgrado rassegnarsi. La ripresa in chiave ironica della fiaba di Cenerentola da parte di Flaubert si chiude con la protago-nista che ripone nel cassettone della sua camera, nello spazio tutto per sé della stanza tutta per sé, gli emblemi del mito femminile per eccellenza: il vestito e le scarpette del ballo, che si erano ingiallite al contatto con la cera del pavimento in modo analogo al suo cuore che, «au frottement de la richesse, il s’était placé dessus quelque chose qui ne s’effacerait pas»7. Da quel momento in poi Emma, forgiando il suo desiderio su quello delle gentildonne conosciute al castello8, farà di tutto per diventare diversa da ciò che è9, cercando di acquisire un nuovo essere tramite una dispendiosa ricerca di beni di lusso con cui abbellire la sua casa e la sua persona.

Il ricordo della casa di sogno apre un solco profondo nell’esistenza della giovane donna, fungendo da vero e pro-prio spartiacque, di autrefois e di aujourd’hui tra la sua vita e le case che finora ha attraversato. Il contatto con il mondo elegante della nobiltà acutizza la malattia spirituale di Emma, che si sente sempre più insoddisfatta e presa in trappola nel-lo stagnante universo della mediocrità e del conformismo borghese: «Souvent elle s’obstinait à ne pas sortir, puis elle suffoquait, ouvrait les fenêtres, s’habillait en robe légère»10.

Emma si siede spesso vicino alla finestra, vi si affaccia, os-serva il mondo attraverso essa. Alla dimensione dello spazio abitativo è infatti strettamente connesso, in Madame Bovary, il tema della finestra, che costituisce lo spazio fisico e sim-bolico della condizione di sogno della protagonista. Anzi-ché rappresentare il luogo privilegiato di chi cuce o ricama, la finestra diviene per Emma, osserva Brombert, il simbolo dell’attesa, apertura sullo spazio che suscita il sogno11, via di fuga e al tempo stesso ostacolo tra lei e il mondo, spazio di confine tra ciò che è infinito e ciò che è limitato, tra l’univer-so dell’altrove, della vita vagheggiata e lo spazio chiuso in cui è confinata la sua esistenza.

Il senso di claustrazione che opprime la donna dopo il ri-torno al mondo reale è rappresentato in modo significativo dall’immagine del futuro dall’aspetto di un «corridor tout noir, et qui avait au fond sa porte bien fermée»12. L’animo di Emma si rispecchia perfettamente nelle forme di uno spa-zio domestico immobile, in cui non riesce più a stare né a condividere col marito, «dans cette petite salle au rez-de-chaussée, avec le poële qui fumait, la porte qui criait, les murs qui suintaient, les pavés humides ; toute l’amertume de l’existence, lui semblait servie sur son assiette, […]»13. Di fronte alla monotonia delle interminabili giornate e alla normalità di quell’esistenza, Emma «remontait, fermait la porte, étalait les charbons, et, défaillant à la chaleur du foyer,

11 V. BROMBERT, Flaubert par lui même, Paris, Seuil, 1971.12 G. FLAUBERT, Madame Bovary, cit., p. 98. 13 Ivi, p. 101. 14 Ivi, p. 99. 15 Ivi, p. 126.

16 Ivi, p. 153. 17 Ivi, p. 212. 18 Ivi, pp. 218-219.19 Ivi, p. 220.

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Madame Bovary ha cura di preservare: « Elle allait sur la pointe de ses pieds nus regar-der encore une fois si la porte était fermée, puis elle faisait d’un seul geste tomber en-semble tous ses vêtements; […]»22.

La felicità di Emma è però di breve durata. Il processo di corruzione morale e spi-rituale in cui è sprofondata, unito ad una crescente disil-lusione nei confronti della monotonia dell’adulterio e del suo amante, determinano una progressiva sregolatezza del suo comportamento, che la porta sempre più a isolar-si nella sua camera, divenu-ta luogo in cui dedicarsi a letture stravaganti, sorta di piccolo serraglio domestico in consonanza con il gusto per l’Oriente tipico di fine secolo:

Elle restait là tout le long du

jour, engourdie, à peine vê-

tue, et de temps à autre faisait

fumer des pastilles du sérail,

qu’elle avait achetées à Rouen,

dans la boutique d’un Algé-

rien23.

La raffinatezza del suo vivere quotidiano esige un dispendio ormai insosteni-bile di risorse economiche, che provocano la rovina completa della donna. Il primo bene che viene investito dal sequestro esecutivo disposto dal tribunale è proprio la casa che condivide con Charles, compresa di tutti i mobili e di quegli effetti personali ai quali è indissolubilmente legata la vita della sua proprietaria. L’intimità dello spazio dome-stico è drammaticamente spezzata quando l’ufficiale del pi-gnoramento si installa nel solaio, la stanza che custodisce la memoria della casa e apre lo scrittoio personale di Emma (esempio di microstruttura privata all’interno della macro-struttura domestica) in cui sono conservate le lettere di Ro-dolphe. Da quel momento tutta l’esistenza di Emma «jusque dans ses recoins les plus intimes, fut, comme un cadavre que

di buon ora, Emma è presa dall’audace voglia di raggiungere segretamente Rodolphe nel suo castello, avventurandosi per la campagna allo spuntar del giorno:

Après la cour de la ferme, il y avait un corps de logis qui devait être

le château. Elle y entra, comme si les murs, à son approche, se fussent

écartés d’eux-mêmes. Un grand escalier droit montait vers un cor-

ridor. Emma tourna la clanche d’une porte, et tout à coup, au fond de

la chambre, elle aperçut un homme qui dormait. C’était Rodolphe.

Elle poussa un cri19.

Il castello addormentato è una casa animata dalle passioni, i cui muri si schiudono al passaggio di Emma. L’atmosfe-ra immersa nel sogno del castello deserto e il suo principe dormiente rimandano ad un’altra fiaba cara all’immagina-rio femminile, La belle au bois dormant, ulteriore bersaglio della satira flaubertiana nei confronti del romanticismo della protagonista e del suo desiderio di indipendenza. In diversi passi del romanzo Emma si atteggia a uomo o, almeno, as-sume abitudini maschili, come fumare sigarette, cosa all’e-poca ritenuta disdicevole se non addirittura scandalosa. Nel castello di Rodolphe Emma cerca di penetrare negli spazi più privati della dimora del suo amante esaminando la sua camera, aprendo i cassetti dei mobili, pettinandosi col suo pettine, guardandosi nel suo specchio da barba e mettendosi tra i denti la cannuccia di una pipa.

Il trauma provocato dalla fine della relazione con Rodolphe fa precipitare Emma in uno stato di abbattimento simile al coma. Una volta ristabilitasi, le fantasie romantiche tornano prepotentemente a farsi sentire nel suo cuore, in occasione della rappresentazione della Lucia di Lammermoor, alla qua-le assiste con Charles e dove incontra per caso Léon, di cui si era innamorata alcuni anni prima. I due diventano subito amanti e cercano settimanalmente un loro spazio di intimità all’Hotêl de Boulogne, affittando una camera dove «ils viva-ient là, volets fermés, portes closes, avec des fleurs par terre et des sirops à la glace, qu’on leur apportait dès le matin20».

La nuova casa di Emma ha colori accesi ed è arredata ad arte per far risaltare i sentimenti degli amanti, quasi aderisse loro come una seconda pelle:

Ils étaient si complètement perdus en la possession d’eux mêmes,

qu’ils se croyaient là dans leur maison particulière, et devant y vivre

jusqu’à la mort, comme deux éternels jeunes époux. Ils disaient : notre

chambre, notre tapis, nos fauteuils, […] 21.

La chiusura all’interno di questo spazio di seduzione e trasgressione è simboleggiata dalla chiusura della porta, che rappresenta una soglia, un limite, una frontiera tra ciò che è interno alla camera e ciò che esiste all’esterno, tra la dimen-sione intima della coppia e quella pubblica del mondo, che

20 Ivi, p. 331. 21 Ivi, p. 341. 22 Ivi, p. 362. 23 Ivi, p. 369.

24 Ivi, p. 377. 25 Ivi, p. 398. 26 Ivi, p. 363.

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ne letteraria dello spazio nel mondo contemporaneo, in cui esso assume sempre più le caratteristiche di “cosa” in sé, di involucro impenetrabile ed inaccessibile anziché di ambiente al servizio dell’individuo, anticipando in alcune soluzioni il Nouveau roman e l’Ecole du regard. In questa prospettiva, la tormentata erranza attraverso le case della protagonista appare in ultima analisi come una continua fuga da una con-dizione esistenziale inadeguata, angusta e deprimente. Dal tentativo di evasione dall’abitazione paterna, passando per la ossessiva ricerca di una dimora come luogo di sogno, sedu-zione e trasgressione, il viaggio di Emma si conclude tra le mura di casa, nella grigia quotidianità della propria camera da letto, lasciandosi morire accanto a un uomo che non ha mai amato, in un talamo divenuto spazio di morte fisico e metaforico, metonimia del suo matrimonio e di una insuffi-cienza di vita26, di un échec totale, senza appello né reden-zione, che è, per Flaubert, quello dell’intero genere umano. A ennesima riprova che: «La Bovary, c’est moi».

BIBLIOGRAFIA

Opere (letteratura primaria)G. FLAUBERT, Madame Bovary, Paris, Gallimard, 1972.

Letteratura criticaG. BACHELARD, La poétique de l’espace (1958), Paris,

Les Presses universitaires de France, 1961.V. BROMBERT, Flaubert par lui même, Paris, Seuil,

1971.M. BUTOR, “L’espace du roman”, in Essais sur le roman,

Paris, Gallimard, 1964, pp. 48-58.J. DE GAULTIER, Le Bovarysme, Paris, 1913.D. FOUCAUT DINIS, La dialectique de l’espace:

intérieurs et extérieurs, dans O crime do Padre Amaro, de Eça de Queiros et Madame Bovary de Gustave Flaubert, «Máthesis», n. 12, 2003.

G. GENETTE, “La littérature et l’espace”, in Figures II, Paris, Editions du Seuil, 1969, pp. 43-48.

R. GIRARD, Mensonge romantique et vérité romanesque, Paris, Grasset, 1961.

J. GREIMAS, Pour une sémiotique topologique, in AA.VV., Sémiotique de l’espace, Paris, Denoel-Gonthier, 1979, pp. 11-43.

G. LUKACS, Narrare o descrivere?, in G. LUKACS, Il marxismo e la critica letteraria, Torino, Einaudi, 1953, pp. 275-331.

M. PRAZ, La casa della vita, Milano, Mondadori, 1958.

l’on autopsie»24. La donna, disperata, cerca allora con-forto in Rodolphe, che si mostra del tutto sordo alla sua drammatica richiesta di aiuto. Uscendo dalla camera che anni prima aveva em-paticamente accolto i loro amori, il castello addormen-tato, ora divenuto insensi-bile e indifferente alle sorti di Emma, pare addirittura animarsi di sentimenti ostili nei suoi confronti, respin-gendola come aveva fatto il suo padrone:

Elle sortit. Les murs tremblaient,

le plafond l’écrasait ; et elle re-

passa par la longue allée, en tré-

buchant contre les tas de feuilles

mortes que le vent dispersait.

Enfin elle arriva au saut-de-loup

devant la grille; elle se cassa les

ongles contre la serrure, tant elle

se dépêchait pour l’ouvrir. Puis,

cent pas plus loin, essoufflée, près

de tomber, elle s’arrêta. Et alors,

se détournant, elle aperçut encore

une fois l’impassible château, avec

le parc, les jardins, les trois cours,

et toutes les fenêtres de la façade25.

Il passo segna metafo-ricamente nel romanzo il passaggio ad un’immagine di spazio abitativo disuma-nizzato, che nega le aspira-zioni dell’uomo moderno, evidenziando la frattura

creatasi tra esso e la realtà che lo circonda. Come gli ideali romantici, sgretolatisi al contatto con la cruda realtà borghe-se, anche le case della vita di Madame Bovary crollano mi-seramente, spazzate via dalla furia di un destino implacabile. Completamente sola e messa alla porta da tutte le persone e dai luoghi che avevano contato per lei, Emma, vittima del-le proprie illusioni, decide di farla finita ingerendo veleno e cercando nella morte l’ultimo spazio capace di accoglierla. Nella parte conclusiva del romanzo si assiste alla fine del concetto di casa intesa come berceau, ambiente caldo e ovat-tato che, come un utero materno, accoglie e ripara l’uomo dal regno del Fuori, dalle potenze nemiche del mondo ester-no per divenire microcosmo negativo, prigione, illusione e mortificazione dell’essere poiché proiezione dei mali di chi la abita. Il processo di reificazione della casa che appare, a tratti, nel romanzo flaubertiano annuncia la rappresentazio-

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La scienza dipinta dei Preraffaelliti VINCENZA ROSIELLOCentro Europeo di Studi Rossettiani

stente modernità della PRB (Pre-Raphaelite Brotherhood), l’avanguardia culturale inglese fiorita nella seconda metà dell’Ottocento, è stata ampiamente analizzata sia in ambi-to letterario ed artistico, che in quello politico e religioso, mentre sono di solito trascurati i suoi legami con la Scienza. Probabilmente, gli interessi di quel gruppo eterogeneo di ar-

tisti e letterati che animarono la Confraternita dei PreRaffa-elliti sono stati sinora pregiudizialmente ritenuti lontani dalle problematiche scientifiche. Un giudizio in parte giustificato da cultura e tendenze personali dei protagonisti, ma indub-biamente condizionato da impostazioni critiche fondate sulla tradizionale contraddizione filosofica fra creatività artistica e ricerca scientifica, ribadita da William Wordsworth nella famosa “Preface” delle “Lyrical Ballads”.

Alcuni recenti studi

1 hanno tuttavia rivelato gli inattesi le-

1 V. Rosiello, “I Rossetti e la Scienza”, contributo negli Atti del Conveg-no internazionale di studi “I Rossetti e l’Italia”, a cura di G. Oliva e M.

Questo articolo illustra come i dipinti dei PreRaffaelliti abbiano inquadrato la Scienza e propone un modello per co-struire nuovi ponti tra Scienza ed Umanesimo.

INTRODUZIONE: COMUNICARE LA SCIENZA CON

L’ARTE

I numerosi manuali sulla comunicazione della scienza si limitano, di solito, ad analizzare il ruolo delle immagini nell’elaborare efficace-mente ogni progetto dedicato all’educazione scientifica. Una lunga tradizione da Leonardo

da Vinci, sino agli eccessi di Dan Brown, suggerisce che potrebbe risultare fecondo aggiungere una nuova strategia progettuale per la divulgazione, utilizzando la descrizione di quadri famosi per illustrare le tematiche scientifiche.

Esempi di letteratura dipinta, di riletture di quadri alla luce dei soggetti letterari a cui si ispirano, riempiono intere antologie di “Visual poetry”, ed il “figuralism” è divenuto una vera e propria categoria accademica. In analogia, potrebbe risultare estremamente fecondo pre-sentare anche i contenuti scientifici utilizzando la lente d’ingrandimento dell’arte. Inoltre, questo approccio po-trebbe evitare che la Scienza continui ad essere percepita come una disciplina arida e sterile, destinata ad occuparsi di una conoscenza assiomaticamente limitata che «ha ucciso il Sole, rendendolo una palla di gas con delle macchie», come sosteneva D. H. Lawrence.

Accostare contestualmente quadri ed argomenti scientifici rinnova il dialogo tra Arte e Scienza, e nel contempo forni-sce un metodo per individuare le segrete faglie di contatto in cui massima è l’attività tellurica ed eruttiva tra due cultu-re, che per troppo tempo hanno rinnegato sistematicamente ogni possibile interazione. Le zone in grado di generare le più feconde contaminazioni si nascondono spesso all’inter-no di esperienze culturali trascurate. Ad esempio, la persi-

Dante Gabriel Rossetti, Monna Vanna, 1866

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questa condiscendenza culturale. Analizzando i quattro fa-scicoli della rivista programmatica “The Germ” e le biografie dei fondatori del movimento: William Holman Hunt e Dante Gabriel Rossetti, le più recenti revisioni critiche hanno rive-lato, sin dalle origini, le numerose intersezioni dei PreRaffa-elliti con la scienza e la tecnologia del tempo.

Il ritardo nel rivalutare i legami tra i PreRaffaelliti e la Scienza, si può comprendere dal peso attribuito agli atteg-giamenti di Dante Gabriel Rossetti, convinto, senza grandi sensi di colpa, che fosse poco pratico, “of very little use in life”, sapere se fosse la Terra a girare intorno al Sole o vice-versa. La conoscenza degli uomini e delle loro necessità gli aveva confermato che l’efficenza delle nozioni scientifiche non avevano certo più valore delle spiegazioni mistico-alle-goriche della Natura tipiche della società medioevale.

Nonostante tali pregiudizi, i PreRaffaelliti non furono in-sensibili allo Zeitgeist, lo spirito del tempo, in cui la scienza, la tecnologia e la medicina permeavano la cultura inglese del XIX secolo, influendo nella narrativa, nel teatro, compa-rendo nelle rassegne politiche e persino nelle caricature dei giornali popolari.

In particolare, dai loro memoriali ed epistolari, è emersa sin dalle origini la duplice anima del PreRaffaellitismo, con il contrasto tra il realismo di Hunt e di John Everett Millais, e la sensibilità idealistica di Dante Gabriel Rossetti, e successi-vamente di William Morris ed Edward Burne-Jones.

Questo dualismo del movimento si manifestò sin dai sog-getti dei primi dipinti, raffiguranti la bottega di un falegname del “Cristo nella casa dei genitori” di Millais, e nella più simbolica annunciazione “Ecce Ancilla Domini” di Dante Gabriel Rossetti, in cui fu sempre presente l’influenza eser-citata dagli studi danteschi in chiave allegorica del padre Ga-briele, talentuoso esule politico, punto di riferimento di gran parte della comunità di espatriati risorgimentali italiani.

DAL CULTO ALL’UTOPIA DELLA BELLEZZA

Nella sua evoluzione, da cenacolo elitario a fenomeno di costume, la fratellanza preraffaellita non rinunciò mai ad approfondire le proprie aspirazioni per un radicale rinnova-mento morale della società – intento comune tra i giovani di ogni tempo – non attraverso la religione, la tecnologia, la politica, ma attraverso l’Arte, facendo della Bellezza il crite-rio ispiratore del proprio programma, come recitava il verso guida della loro generazione: “A Thing of Beauty Is a Joy Forever” di John Keats.

Occorre notare che il culto della Bellezza, tipico dell’Arte, fu concepito dai PreRaffaelliti come un’utopia verso i suoi valori più autentici e meno artefatti, in deliberata contrap-posizione agli stereotipati canoni di perfezione che si erano progressivamente imposti nella pittura, sino al culmine dei dipinti di Raffaello. Tale caratteristica li indusse a riferirsi ai valori estetici formali di purezza e semplicità dei pittori italiani del Quattrocento, prima di Raffaello. Dal settembre 1848, questi geni ribelli cominciarono a distinguersi dalla convenzionale ritrattistica e paesaggistica vittoriana, con-

gami tra la scienza vittoriana e le attività dei PreRaffaelliti nella letteratura, la pittura, la scultura, il design, la moda e l’arredamento.

L’ulteriore progetto di ricerca “The Pre-Raphaelites and Science”, coordinato da John Holmes (attuale Chair della British Society for Literature and Science) ha evidenziato i loro rapporti con le istituzioni scientifiche britanniche per impreziosire sedi illustri, come l’Oxford University Museum of Natural History ed il Natural History Museum, nel quar-tiere di South Kensington a Londra.

Del resto, occorre notare che agli inizi dell’Ottocento in Inghilterra, il pensiero scientifico prevalente era ispirato alla teologia naturale. Lo stesso approccio scientifico presente nelle severe pagine dei “Principia” di Newton, le cui celebri regulae philosophandi (le regole del metodo scientifico) ap-paiono in evidente analogia con le norme dell’esegesi delle Sacre Scritture.

La degenerazione dei rapporti tra pensiero umanistico e scientifico divenne una querelle ideologica solo in tarda epo-ca vittoriana, catalizzata dalle vivaci controversie tra coloro, come Matthew Arnold, che denunciavano la pervasività del-la scienza e la progressiva disattenzione verso i valori spiri-tuali ed estetici da parte dei più accesi sostenitori, come Tho-mas Henry Huxley, del modello evoluzionistico di Darwin e delle teorie geologiche avverse alla tradizionale cronologia della Genesi.

Tuttavia, al sorgere del movimento preraffaellita, era an-cora prevalente un modo di ragionare indirizzato alla ricerca di crescenti conferme dell’intelligenza del disegno divino, per mezzo di sempre più accurate descrizioni dei più minuti dettagli del mondo visibile. Questo metodo di investigazione fornì agli artisti un principio per le loro aspirazioni di rappre-sentare gli aspetti trascendentali della realtà.

In questa identificazione di obiettivi tra scienziati ed artisti, le ambizioni visionarie dei PreRaffaelliti si prefissero, pro-grammaticamente in nome dell’Arte, di emulare le finalità progettuali della scienza e della tecnica dell’età vittoriana, in un comune tentativo di scoprire e comprendere l’essenza del mondo che ci circonda attraverso la rivelazione e la riprodu-zione dei suoi più minuti particolari.

Determinante per la loro estetica furono le idee di John Ruskin, che, nei primi due volumi del carismatico trattato “Modern Painters”, suggerì la necessità della “Truth to Na-ture”, del valore della riproduzione del particolare. Altret-tanto determinanti furono per i PreRaffaelliti, le idee molto radicali di Thomas Carlyle a proposito della schiavitù della civiltà delle macchine e sulle promesse tradite nel proces-so di industrializzazione dell’Inghilterra, a cui si attribuiva l’origine delle aspre lotte sociali dell’epoca. Il richiamo insi-stito all’analisi dei dettagli più nascosti degli eventi storici e biblici apparivano essenziali per confermare la natura prov-videnziale della Storia ed auspicare un ritorno ad un mondo ideale più giusto.

L’estetica della Confraternita dei PreRaffaelliti deriva da

Menna (Carabba editrice, 2010) pp. 477-491. ISBN 978-88-6344-129-1

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dei pittori del primo Rinascimento, gra-zie alla traduzione in inglese del “Libro dell’Arte”, il famoso manuale trecentesco di pittura di Cennino Cennini.

Questi aspetti tec-nici distintivi co-muni dei capolavori della Confraternita (in gran parte nella collezione della Tate National Gallery of British Art di Lon-dra) ci rivelano lo stile, gli orizzonti e le prospettive con-divise del PreRaffa-ellitismo. Tuttavia, l’unità artificiale della Confraternita si disgregò rapidamen-te. Coloro che segui-rono Homan Hunt, come John Brett, William Davis, John Inchbold e George Price Boyce, appro-fondirono i temi del “figuralism” natura-listico, in ossequio al motto “Back to natu-re!”.

La qualità fotogra-fica dei paesaggi preraffaelliti era una caratteristica molto apprezzata, in un epoca in cui le tecnologie riproduttive non avevano affatto la qualità contemporanea. La cura di ripro-durre i dettagli, come se li osservassero attraverso un micro-scopio, mostrava quanto i PreRaffaeliti fossero affascinati dai progressi delle scienze naturali e le loro composizioni divennero le illustrazioni predilette dei manuali botanici e geologici, come si nota dalle molte illustrazioni tardo preraf-faellite nella rivista positivista “Fortnightly Review”. I sog-getti dei paesaggi erano osservati con accuratezza scientifica e riprodotti con una tale precisione che le rocce, gli animali, i corsi d’acqua sembrano catturare i segreti dell’ambiente, con un dettaglio del tutto estraneo alla qualità fotografica mono-cromatica dell’epoca.

Un esempio caratteristico del “figuralism” botanico è rap-presentato da uno dei primi paesaggi preraffaelliti ad essere esposti alla Royal Academy nel 1852: “May, in the Regent’s Park”, dipinto dalla finestra di casa da Charles Allston Col-lins, uno degli amici intimi di Millais. L’aspetto botanico domina sull’aspetto artistico ed ogni singolo dettaglio è rap-

trapponendo i temi del misticismo medioevale all’edonismo paganeggiante del pieno Rinascimento e sviluppando un programma che aveva molti punti in comune con altri mo-vimenti del tempo come i puristi italiani ed i “nazareni” te-deschi. Tuttavia, a differenza di questi, che innestarono la loro estetica nell’idealismo filosofico, i PreRaffaelliti inglesi approfondirono autonomamente una problematica di tipo morale e sociale sul potere rinnovatore dell’Arte, in grado di reagire da una parte alla concezione materialista della vita, dall’altra alle brutture del rapace capitalismo industriale in rapida ascesa.

Malgrado la loro dicotomia costituzionale, ispirandosi al presunto modello delle corporazioni medioevali, la Confra-ternita cominciò ad approfondire in modo condiviso i propri interessi. Gli esordi, come spesso accade, non furono pri-vi di polemiche, per l’opposizione agli insegnamenti della Royal Academy. I primi dipinti esposti nel 1849 sconvolsero i critici vittoriani come Charles Dickens, grande estimato-re dei canoni artistici interpretati da Raffaello, che espresse il suo disappunto verso Millais in un polemico articolo del 1850 “Old Lamps for New Ones”. Solo con il favore di John Ruskin, convinto sostenitore e mecenate dei giovani innova-tori, la fortuna del gruppo si consolidò.

Nonostante il gruppo primitivo si sciogliesse assai presto (1853), tuttavia le idealità iniziali si perpetuarono in una pro-duzione che a lungo condizionò l’opera della generazione successiva di artisti.

La bellezza fu utilizzata come chiave per interpretare il mondo, senza limitarsi a rielaborare i precetti del romantici-smo, impegnato ad identificare estetica ed etica, ma andan-do oltre, nella convinzione che “Bellezza è Verità, Verità è Bellezza”, ossia estetica come conoscenza.

La ricerca della verità è una lotta infinita dell’uomo per comprendere la complessità delle innumerevoli forme che la Natura gli prospetta. Per raggiungere la conoscenza, l’uma-nità ha spesso fatto ricorso alla sensibilità intuitiva dell’ar-te, sebbene più spesso si sia rivolta alla religione. Solo con l’Illuminismo, la Scienza ha conquistato quell’egemonia che ha mantenuto con successo durante tutta l’epoca industriale.

In ogni caso, il progresso scientifico e quello umanistico sono andati di pari passo, con una singolare interdipendenza tra il miglioramento del benessere materiale ed il progresso dello spirito.

IL “FIGURALISM” NATURALISTICO ED IL

“FIGURALISM” MISTICO-SIMBOLICO

L’adesione dei PreRaffaelliti verso i temi scientifici si ma-nifesta in una maggiore cura verso i dettagli. Dipingendo con originalità visiva, spesso con l’uso di colori puri, presi diretta-mente dalla natura, selezionarono composti di resine naturali, e pigmenti fabbricati da George Field (il famoso fornitore di colori per Turner), per riprodurre il più fedelmente possibile ogni dettaglio. Si avvalsero dell’uso del fondo imbiancato che cominciò a diffondersi con la traduzione nel 1840 della Teoria dei Colori di Goethe ed approfondirono le tecniche

Dante Gabriel Rossetti - Sancta Lilias - 1874

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montagna e di quelli del naturalista svizzero Louis Agassiz sulla glaciologia.

A ben guardare, questo paesaggio – se accuratamente ana-lizzato – rivelerebbe probabilmente un metodo di composi-zione frattale. La morfologia del paesaggio sembra spontane-amente riprodotta con l’applicazione della teoria dei frattali: un linguaggio matematico in grado di rappresentare rigoro-samente l’irregolarità di forme naturali che in ogni picco-lo dettaglio conservano il disegno globale, come un grande triangolo è composto di piccoli tasselli triangolari. Non è fa-cile riconoscere, dai cristalli di ghiaccio sino alla forma del ghiacciaio, le regole di “autosomiglianza” dei frattali, in cui una qualsiasi parte tende a riprodurre la figura intera. Merita di essere ricordato che i cristalli che compongono ogni fiocco di neve hanno nascosto per secoli le cause della propria bel-lezza. Le simmetrie esagonali dei cristalli di ghiaccio sono state riconosciute per la prima volta nel 1611, in un saggio poco conosciuto di Keplero intitolato “Strena Seu De Nive Sexangula”, per essere poi studiate nei primi anni del Nove-cento, attraverso l’ausilio dei raggi X. La teoria dei frattali si applica efficacemente allo studio dei fiocchi di neve, for-nendo alcuni classici esempi di riproduzioni frattali, tra cui il merletto di Helge von Koch, una generalizzazione della curva di Peano. E’ singolare notare che l’approccio frattale manifesta prodigiose analogie con le aspirazioni formulate da Ruskin.

Nel tempo, l’attenzione eccessiva per un resa fotografi-ca, se non vivisezionistica, dei paesaggi, finì per soffocare l’immaginazione e degenerò in una successiva produzione di maniera sempre meno gradita.

Nonostante il loro preziosismo compositivo, le opere di questi artisti persero di prestigio soprattutto a causa dello svi-luppo della fotografia e della consapevolezza che l’esattezza dei dettagli, non avrebbe mai potuto corrispondere ad una completa comprensione della realtà. I progressi scientifici ci hanno confermato che l’essenziale risulta invisibile all’os-servazione, e come il volto non risulta in grado di rivelare l’anima, allo stesso modo indagando i dettagli superficiali, non è possibile dedurre il senso profondo della realtà.

Un successo diverso arrise all’esperienza opposta perse-guita da Dante Gabriel Rossetti, il fondatore della Confra-ternita che, col tempo, assunse il ruolo di uno dei più puri rappresentanti di quella classe a sé, che da sempre sono gli eccentrici inglesi. Rossetti tentò di rivalutare il carattere tra-scendente della realtà gettando un ponte sull’abisso che se-para il sentimento dall’esperienza. Estimatori delle idealità esaltate nel manuale “The Stones of Venice” di Ruskin e nel saggio storico “Past and Present” di Carlyle, i PreRaffaelliti legati a Rossetti intercettarono, ed in parte anticiparono, le insoddisfazioni profonde della società vittoriana nell’Inghil-terra in piena Rivoluzione Industriale.

In questa impresa, Rossetti fu affiancato ben presto da Edward Burne-Jones, e con meno convinzione dal più prag-matico William Morris, il cui senso degli affari spinse lo stesso Dante Gabriel Rossetti a rendere feconda la propria sensibilità figurativa associandosi con i nuovi confratelli

presentato con tale scintillante precisio-ne da far pensare di essere stato dipinto con l’ausilio di una lente d’ingrandimen-to. Nulla è indistinto: anche gli alberi sul-lo sfondo appaiono con rami e foglie ben definite. Un’ac-curatezza che i più critici obiettavano eccessiva, giacché tali parlicolari: «at the distance ... could by no means be seen with such hortus sic-cus minuteness (in lontananza non c’è modo di osservarli con tale dettaglio da erbario)». Questo dipinto rispetta il cri-terio della “Truth to Nature”, elaborato nel trattato “Modern Painters” di John Ruskin, con l’adesio-ne alla verità del par-ticolare, in contrasto all’allusiva percezio-ne del globale dei pa-esaggisti vittoriani.

Certamente, il di-pinto deve conservare

l’unità ma, come Ruskin annotava «not at the expense of the inexhaustible perfection of nature’s details», esortando gli artisti a corredare con maggiore dovizia di particolari le loro opere. Ovviamente, Holman Hunt risultò il più sensibile alla lezione di Ruskin. I quadri “The Hireling Sheperd (1851)” e “Our English Coasts (1852)” ne sono evidenti manifestazio-ni. Lo stesso quadro più famoso della Confraternita – l’O-phelia di Millais – risulta un’esaltazione del dettaglio, sin nelle gemme della vegetazione che avvolge il gelido annega-mento della sventurata eroina skakespeariana.

Nella vasta produzione preraffaellita, il dipinto “Il ghiac-ciaio di Rosenlaui” di John Brett è il paesaggio che meglio illustra le caratteristiche del nuovo modo di dipingere. Il “fi-guralism” geologico del dipinto abiura la visione panorami-ca di Turner a favore della cura di ogni singolo elemento, con una composizione nitida e sinuosa, con dettagli strati-grafici che farebbero la passione degli esperti di geologia, dove tuttavia inattesi salti di scala e la mancanza di un unico punto prospettico, manifestano un senso dissociato del pun-to di vista e rivelano l’influenza degli scritti di Ruskin sulla

Dante Gabriel Rossetti - Sancta Lilias - 1874

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L’utopica bellezza ambita dai PreRaffaelliti si tradusse in una progressiva sublimazione della figura femminile. Tutta-via, il “figuralism” simbolico a cui aspiravano teneva conto simultaneamente della concretezza e del mistico del trascen-dente, come testimoniano i dettagli dei loro dipinti d’ispira-zione storica, biblica e letteraria. I sorprendenti dettagli degli abiti e degli arredi continuano ad essere fonte di ispirazione anche per l’architettura. Ad esempio, le miniature del dipin-to “Roman de la Rose” contribuirono a definire l’assetto del giardino della Red House, il luogo dell’anima dei Morris a Bexley Heath nel Kent.

Con meno superficialità ed esuberanza di Rossetti, il visio-nario Edward Burne-Jones rivelò l’aspirazione ad un mondo migliore e la necessità di valori più profondi di quelli propo-sti dall’utilitarismo ed il materialismo che andava afferman-dosi nella tarda epoca vittoriana.

Nell’epoca dell’esaltazione delle grandi cannoniere e dei cavi transatlantici, la rappresentazione fiduciosa di figure an-geliche non era semplicemente un conforto per estraniarsi da una realtà ansiogena. Programmaticamente, rifletteva i desi-deri e le attese delle nuove classi agiate forgiatesi nella Ri-voluzione Industriale, che pretendevano per i propri figli un mondo migliore con più gentilezza ed armonia. Una speran-za destinata ad essere travolta dalla crisi della Prima Grande Guerra Mondiale.

Il dipinto di Edward Burne-Jones “The Golden Stai-rs” (1880) rende al meglio questo anelito per un mondo ideale, ma non astratto. Il tema sembra ispirato ad uno dei racconti più famosi della Bibbia: il sogno di Giacobbe con la visione profetica della scalinata verso il Paradiso, che aveva già suggestionato William Blake.

Nella Genesi (Genesis 28:10-15) si narra che Giacobbe abbia avuto in sogno l’apparizione di una scalinata, affol-lata di presenze angeliche, che dalla Terra raggiungesse il Paradiso.

L’esegesi della narrazione biblica (Giovanni 1:51) assegna alla scalinata lo stesso ruolo di Cristo (come mezzo per acce-dere al Paradiso). Il sogno della scala a spirale verso il Cielo è tradotta da Burne-Jones senza evidenti connotati religiosi o sofisticate astrazioni. Nelle preziose figure angelicate, si possono riconoscere le vestali, compagne e figlie, dell’uni-verso preraffaellita. Tutte le immagini nascondono analogie figurative indirizzate a suggerire un significato metaforico della contiguità tra mondo reale e trascendenza, mortalità ed eternità. Il carattere divino della visione profetica di Giacob-be è manifestato dalla presenza delle raffinate proporzioni matematiche, legate alla sezione aurea: il rapporto tra una grandezza maggiore e una minore, delle quali la maggiore è media proporzionale tra la minore e la somma delle due grandezze, ed in pratica è la soluzione positiva dell’equazio-ne algebrica x2 - x - 1 = 0.

Questa divina proporzione corrisponde al valore numerico л 1 _ Φ = 2 cos (__) = __ (1 + √5) ≡ 1,6180339... 5 2

ed è indicata con la lettera greca Φ, dalla lettera iniziale del

nella produzione industriale di arredi con stile e qualità della finitura artigianale, irriducibili alla massificazione esaltata nella formidabile mostra del primo EXPO, nel Crystal Palace di Londra nel 1851. In nome di questa filosofia, precursore illustre del movimento Art & Craft, fu promossa la nascita della manifattura Morris, Marshall, Faulkner & Co. dedita ancora oggi, con il marchio Sanderson and Sons and Liberty, a creare ricercati motivi decorativi da utilizzare su vetro, ce-ramiche, piastrelle, carte da parati, e tessuti.

Questo interesse per le arti decorative, dal 1859, indusse Rossetti ad ispirarsi ai capolavori di Tiziano e Veronese, al-lontanandosi progressivamente dai soggetti religiosi e dalle ricostruzioni del mondo medievale influenzati dall’ossessio-ne dantesca e dal ciclo arturiano.

Edward Burne-Jones, The Golden Stairs (1880) (Tate Britain, Londra)

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Ruskin, vanno incontro alla Natura con un cuore singolare, camminando in sua compagnia operosamente e con fiducia.

Il respiro del PreRaffaellitismo non si affievolirà fino a quando gli artisti saranno in grado di leggere ed interpretare le fertili pagine del libro chiamato Natura.

nome greco dello scultore Fidia). Sin dall’antichità è stata utilizzata quale unità di misura dell’armo-nia, affermandosi come canone estetico nel Rinascimento, con la pubblicazione nel 1509 del famo-so manuale del matematico Luca Pacioli, illustrato con i disegni di Leonardo da Vinci. Considerata quasi la chiave mistica dell’ar-monia nelle arti e nelle scienze, la sezione aurea fu impiegata am-piamente nei quadri di Piero del-la Francesca e Sandro Botticelli, autori rinascimentali precedenti a Raffaello. La sezione aurea appare nelle dimensioni della scala e del-la tromba tra le mani della quar-ta fanciulla dall’alto (identificata come la figlia Margaret dell’auto-re), nelle lunghezze delle gonne, nelle dimensioni della porta e del lucernario in cima alla scalinata.

QUANDO FINISCE

UN’AVANGUARDIA?

Il valore di ogni movimento cul-turale non si misura dal suo per-sistere, ma in base agli elementi anticipatori dei successivi paradigmi estetici. Per cui, non è semplice spiegare come questa avanguardia artistica fiorita in epoca vittoriana sia ri-masta in vitale sintonia con l’arte e la cultura successiva, se non indagando quanto abbia anticipato i temi dei movimenti impressionista e simbolico.

Certamente l’indizio che i PreRaffaelliti contengano an-cora elementi di rigenerante modernità è certificata dal suc-cesso di critica e di pubblico del tour mondiale della più recente esposizione itinerante “Pre-Raphaelites: Victorian Avant-Garde”, inaugurata a Londra nel 2012, ammirata da oltre un milione di visitatori alla National Gallery of Art di Washington, al Pushkin Museum of Fine Arts di Mosca, alla Mori Arts Center Gallery di Tokyo, ed infine, nel 2014, a Palazzo Chiablese, la rinnovata sede espositiva del Palazzo Reale di Torino.

L’utopia della Bellezza ha rappresentato la ragione ideale che ha permesso a questo movimento di non scomparire mai del tutto, proponendosi alle generazioni seguenti come fonte a cui attingere, riadattare, reinventare e riproporre la propria ispirazione.

Sebbene non si possa dire che ci abbiano lasciato in eredità una nuova scuola di pittura, tuttavia i veri eredi del PreRaffa-ellitismo sono tutti quegli artisti che continuano fermamente a lavorare sfidando le mode e i dettami imposti da certi mo-vimenti artistici in auge. I veri eredi sono tutti coloro che sfi-dano l’indifferenza e l’autocompiacimento e come asseriva

John Brett, Il ghiacciaio di Rosenlaui (1856) (Tate Britain, Londra)

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Appendice

Come la scintillazione delle stelle abbia origine nell’occhio), offre una compatta analisi sulle modalità di approccio com-plesso al sapere operato da Leonardo, partendo dagli studi sulla percezione visiva, sviluppando nel successivo Ca-pitolo II, L’acqua (articolato in Resti di una chiusa, Al servizio del tiranno, Un nido d’amore nel mulino, Leonardo di-venta scrittore, Musica d’acqua, In fila indiana in una viuzza), una riflessione sulla ricerca compiuta dall’artista per lo sviluppo di una efficace modalità grafica funzionale per la registrazione delle proprie osservazioni ed esperienze scientifico/artistiche. Con i Capitoli III, La guerra (composto da La fisica della distruzione, Amorra, Ilopanna, Il pat-to con il diavolo, Strangolato all’alba, La belva nell’uomo), IV, Il sogno del volo (Da solo contro la forza di gravità, «Serra la sala di sopra…», «Leonardo pensava in modo troppo complicato», La temeraria Judy Leden, Volare non significa battere le ali), V, Automi (con i paragrafi Borsette e scaldabagni, L’entrata in scena del leone meccanico, Una vita per Leonardo, Automi suona-tori di campane, Il computer di Leonar-do) e VI, Sotto la pelle (sviluppato in Nella camera mortuaria di Santa Maria Nuova, Il sesso a raggi x, L’uomo è una macchina, Spedizioni nel cuore pulsan-te, Meglio essere filosofo che cristiano), Klein amplifica ulteriormente il proprio testo che, dopo il Capitolo VII, Doman-de ultime (suddiviso in Conchiglie sulle

(e già oggetto di numerosi studi) con il suo percorso formativo, offrendo in tal modo un particolare approccio specu-lativo dal quale trae origine una rifles-sione di stampo pedagogico. Obiettivo di quest’ultima risulta essere il porre in primo piano le peculiarità visionarie e di gestione ed elaborazione dei saperi operate dalla mente del maestro di Vin-ci, la cui creatività risulterà essenzial-mente frutto di una particolare e costan-te modalità complessa di processazione di un’informazione/sapere.

Grande spirito di osservazione, ine-sauribili intuizioni e soprattutto costanti proiezioni oltre i limiti della sua con-temporaneità: questi aspetti possono essere intesi come le principali compo-nenti del complesso patrimonio cono-scitivo di Leonardo ed è su tali vettori che Klein sviluppa la propria analisi, tracciando l’immagine dell’artista/uomo, spinto da un irrefrenabile deside-rio di conoscenza ma soprattutto consa-pevole, spesso in modo doloroso, delle contraddizioni e dei limiti del proprio tempo.

Il volume, che si apre con un’Intro-duzione nella quale l’autore compie una indagine sulle specificità della do-cumentazione manoscritta dell’artista pervenutaci, si compone di sette capito-li: il Capitolo I, Lo sguardo (composto dai paragrafi L’artista come studioso del cervello, Nati dalla cassetta di dia-positive per identikit, La legge della pi-ramide, Nella biblioteca di Sua Maestà,

L’eredità diLeonardo da VinciROBERTO TOSCANO

[…] che probabilità ci sono che oggi un giovane possa imparare ad usare i suoi doni naturali come

seppe fare un tempo il maestro di Vin-ci? […] » e che cosa ne sarebbe stato di Leonardo se avesse avuto un percor-so formativo in linea, per esempio, con le direttive dell’attuale scenario della scuola standard, vincolato da un reper-torio dogmatico di protocolli educativi omologanti?

Fu la fucina ‘sperimentale’ di saperi offerta dai programmi formativi multi e transdisciplinari della bottega di An-drea di Michele di Francesco di Cione, meglio conosciuto come il Verrocchio, ad assicurare allo studente Leonardo la necessaria dose di curiosità, sorgente primaria di quell’inesauribile creatività, senso critico, autonomia e spirito di ri-cerca, punti luce del genio vinciano.

Stefan Klein, nello sviluppare i conte-nuti dell’interessante volume L’eredità di Leonardo. Il genio che reinventò il mondo (traduzione italiana dell’origi-nale Da Vincis Vermächtnis, oder Wie Leonardo die Welt neu erfand del 2008) , edito da Bollati Boringhieri, traccia un originale percorso di ricerca, che pone frequentemente in relazione alcu-ni temi scientifici ed artistici presenti nella produzione dell’artista/scienziato

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pendici dei monti, O mirabile giustizia di te, Primo Motore!, L’anima del feto, Visioni della fine del mondo) ed un Epilogo (L’eredità di Leonardo), utili momenti di riflessione sulle peculiarità visionarie e profetiche del pensiero te-orico dell’artista/scienziato e sulla mo-dernità del suo approccio complesso al sapere, si chiude con una funzionale Cronologia. Completano il volume un utile apparato di note, un’esaustiva Bi-bliografia e gli indici delle illustrazioni e dei nomi.

Sulla definizione di morteANDREA CANDELA

Malgrado l’apparente ov-vietà di significati che il senso comune da sempre

attribuisce alla condizione del morto, definire con certezza una linea di de-marcazione tra la vita e la morte è, ed è stato, tutt’altro che semplice ed evi-dente. Lo si evince con chiarezza dal voluminoso saggio collettaneo Storia della definizione di morte, curato da Francesco Paolo de Ceglia, docente di Storia della Scienza all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro., pub-blicato da FrancoAngeli. Il testo, a più voci ma delineando uno sviluppo coe-rente e attento al dettaglio, ripercorre la storia dell’idea di morte e delle relative tecniche di diagnosi e accertamento, dall’antichità ai giorni nostri; senza ignorare, di concerto, l’ambito delle discussioni bioetiche e pubbliche con-temporanee, nonché contesti culturali differenti da quelli rientranti nel nove-ro delle sole vicende storiche dell’Oc-cidente. Le riflessioni di ampio respiro sulle concenzioni “tanatologiche” in Oriente (es. Cina, Giappone, India) o nei paesi di professione islamica con-sentono, infatti, di aprire un dialogo in-terculturale sull’insieme delle valenze simboliche e sociali attribuite all’idea di morte in realtà storiche e geografi-che distanti da quelle più prossime. Nel saggio non mancano, tuttavia, contri-buti attraverso i quali poter approfondi-

morte come processo (XVIII secolo), fino alla morte sospesa delle più mo-derne tecnologie di rianimazione. Così se ancora nei secoli XVIII e XIX «… la massima preoccupazione era evitare che soggetti viventi fossero dichiarati morti, attualmente i medici intensivi cercano di evitare che pazienti morti continuino a essere considerati viventi e trattati di conseguenza» (C. A. De-fanti, Soglie. Medicina e fine della vita, 2007, p. 204).

Richiamandosi all’insegnamento storiografico delle Annales d’histoire économique et sociale (1929), il libro si struttura lungo alcune direttrici princi-pali di sviluppo. La prima parte si con-centra sulle idee di morte nelle civiltà antiche orientali e occidentali, appro-fondendo sia l’ambito delle problema-tiche medico-fisiologiche sia quello dei miti e delle credenze funebri. La lettura si snoda lungo un tragitto articolato e coinvolgente, dall’epopea di Gilgameš alle superstizioni sul vampirismo del mondo bizantino e slavo, attraversando gli ambiti della riflessione egizia, cine-se, indiana e greco-romana. La seconda sezione ripercorre, invece, la storia del dibattito tanatologico dal Medioevo alle soglie della contemporaneità. Le tematiche affrontate sono decisamente numerose e di indubbio interesse an-che per il non specialista. Il lettore si imbatte, così, nei trattati per il prolun-gamento della vita della medicina bas-somedievale, nelle differenti e talora curiose metodiche con cui, tra Seicento e Ottocento, si diagnosticavano i casi di morte apparente, nonché nelle dispu-te pre-rivoluzionarie sull’uso “etico” della ghigliottina. Vi è, altresì, spazio per suggestive digressioni sui tentativi di rianimazione dei cadaveri mediante l’utilizzo della corrente elettrica (Fran-kenstein docet) e sugli immaginari tafofobici del diciannovesimo secolo. L’analisi non trascura, tuttavia, il con-testo delle teorie scientifiche. A inizio Ottocento, spicca senza dubbio quel-la di tripode vitale proposta da Marie François Xavier Bichat, secondo cui la morte origina dalla cessazione dell’at-tività di uno dei tre organi vitali: cuo-re, cervello, polmoni; questa compor-ta l’interruzione delle funzioni anche

re anche la complessità di quel dibattito specialistico e laico che, soprattutto in età moderna e contemporanea, ha ani-mato il contesto scientifico e culturale italiano sull’argomento. Un soggetto, quest’ultimo, talora ignorato dalla let-teratura internazionale. La trasversalità e l’ampiezza delle tematiche discusse arricchiscono, pertanto, di osservazioni inedite le linee di indagine già tracciate dai precedenti lavori di Philippe Ariès (L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, 1977) e Michel Vovelle (La mor-te e l’Occidente, 1983), senza dubbio pietre miliari e riferimenti irrinunciabi-li nell’ambito degli studi storico-tana-tologici.

Il carattere interdisciplinare e corale della ricerca coordinata da de Ceglia impreziosisce le fatiche che hanno con-dotto alla pubblicazione del volume, circoscrivendone senz’altro uno dei punti di forza e di maggiore interes-se, specialmente qualora si consideri come, tutt’oggi, una parte dell’accade-mia italiana manifesti ancora qualche reticenza nell’abbandonare ormai frusti confini dottrinali.

Raccogliendo i contributi prove-nienti da studiosi di diversa estrazione, l’opera si struttura come narrazione collettiva sull’insieme delle molteplici immagini e rappresentazioni della mor-te. Ne emerge un lungo ragionamento punteggiato da un’esigenza continua di definizione e ri-definizione dei confini, delle valenze, dei sintomi e dei decorsi del decesso. Il fenomeno del morire è stato, ed è tuttora, oggetto di indagini filosofiche, teologiche e scientifiche, attraverso le quali poter meglio stabili-re l’istante dell’exitus, ovvero l’attimo in cui l’anima, o diversamente la vita, abbandona il corpo. Alle riflessioni più squisitamente storiche, si sovrappon-gono considerazioni di carattere demo-etnoantropologico, filosofico-religioso, medico-scientifico, linguistico e mas-smediologico. Queste svelano come l’estesa e mai conclusa indagine sullo statuto ontologico ed epistemico del morente o del morto abbia continua-mente oscillato tra accezioni, esigen-ze e prospettive talora inconciliabili: dall’idea statica di morte, intesa come momento, all’immagine dinamica della

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è stato ricevuto molto male in Aus-tria. Jauffret non è nuovo a questi casi: nel 2010, la famiglia del banchiere Édouard Stern lo persegue per il ro-manzo Sévère che mette in scena l’assassinio del banchiere per mano dell’amante, Cécile Brossard. Parecchi scrittori lo hanno difeso firmando una petizione, Michel Houellebecq, Virgi-nie Despentes, Christine Angot, Phi-lippe Djian, Philippe Sollers, Frédéric Beigbeder, Yann Moix e Bernard-Hen-ri Lévy. Nel gennaio 2014 esce il ro-manzo La Ballade de Rikers Island, che evoca l’affare del Sofitel di New York : Dominique Strauss-Kahn lo de-nuncia assieme all’editore, Le Seuil, dopo la pubblicazione del libro.

Nella storia della letteratura, tanti scrittori si sono fatti paladini di fat-ti quotidiani emblematici: pensiamo a Zola che ha difeso Dreyfuss oppure a Voltaire che si è battuto per Calas oppure ancora a Jean Giono e l’affare Dominici.

Che cosa spinge alcuni autori a oc-cuparsi di un fatto di cronaca? Per che cosa Anthony è il pretesto ?

Per indagare, in ogni senso. Nina è anima empatica (le nostre

voci, un’unica voce, s’incontreranno), pura, capace di sentire la sofferenza degli altri: scriverò la tua storia, sarò la tua voce…per me, entrare e uscire dal tuo “Io” rendendomi alter-Ego di un romanzo troppo scabro e scabroso, di un’autoanalisi che potrebbe con-figurarsi quale coscienza collettiva, criticabile perché mai ti ha accettato, salvato.

Nina scrittrice si fa voce degli ultimi. Je suis toi, dichiara in una bellissima poesia dedicata alle vittime del massa-cro di Parigi.

La scrittrice evidenzia dapprima la sproporzione tra i reati commessi e la pena inflitta. Poi esplora i compor-tamenti, le reazioni, i sentimenti dei protagonisti, si cala nella mente del protagonista, descrive parole e rituali della sua quotidianità, s’indigna (e noi con lei), si avvicina ai “diversi”, alla vita da scontare ai margini, ipotizza il futuro. Cerca spiegazione e verità ma in realtà cerca l’uomo con tutte le sue contraddizioni, con il lato oscuro e l’a-

per diversi motivi. Primo, per le vicende umane del pro-

tagonista, segnato dalla violenza del padre – il Mostro, come lo chiama lui – che, senza consultare o decidere in-sieme alla madre – l’Estranea, sempre come la definisce Anthony –, lo segna all’anagrafe come “femmina”, mentre lui, con il tempo, svilupperà la consa-pevolezza di avere una struttura ma-schile. Questa è una storia tanto aspra quanto metafisica: a tratti sconvolgen-te, la definisce Nina nella sua lettera a Anthony. Vittima di un padre-padrone violento, Anthony, dapprima affidato in Scozia alle cure della zia (Ann, la sua unica vera madre), poi tornato con i genitori, è costretto a scappare di casa: fa il saldatore, il riparatore di frigorife-ri, vive per strada, si nutre di scarti, si ammala di tumore, vive di furtarelli, si sposta a Firenze, poi a Roma, vive in macchina, gira l’Italia, ha per amico un cane (Max), tenta il suicidio.

Secondo, per le vicende giudizia-rie: Anthony si trova a Rebibbia dal 2013 per scontare i reati di furti che si sono accumulati fino ad arrivare ad una pena detentiva di più di 17 anni di reclusione e migliaia di euro in multe.

Ma due sono gli aspetti che saltano immediatamente agli occhi con forza, a mio avviso: il ruolo della memoria e l’incontro con Nina (l’incontro di due anime) che conduce alla riflessione sul ruolo della scrittura.

Anthony lo afferma chiaramente: la memoria lo protegge. E ora per parlare di sé deve farla a pezzi, deve infran-gerla: la memoria vorrebbe cancellare se stessa insieme al mio vissuto. Mi costringo in quest’ultima necessaria violenza: quella del ricordo... nella porzione giornaliera dei ricordi vorrei esaurire…. Anthony DEVE ricordare, per riscattarsi, per ricostruire la propria identità ferita: domani…la memoria troverà in se stessa la propria fonte.

Quello di Anthony non è il primo caso di cronaca prestato alla lettera-tura. In questo momento in Francia sta avendo molto successo un libro di Régis Jauffret tradotto in italiano con il titolo L’inferno e ritorno che narra gli avvenimenti dell’affare Fritzl e che

degli altri due. Le ipotesi del chirurgo e fisiologo francese influenzeranno profondamente l’indagine successiva e buona parte della tanatologia nove-centesca. A quest’ultima è dedicata la terza sezione del saggio, che riprende gli snodi salienti del dibattito contem-poraneo, illustrandone gli aspetti più controversi e le corrispettive implica-zioni: bioetiche, neurologiche, citoge-netiche e giuridiche. Si coglie nella ri-definizione epistemologica della Har-vard Medical School un punto di svolta essenziale della riflessione novecen-tesca. La crescita delle conoscenze in ambito medico-fisiologico, il sensibile miglioramento delle tecnologie di ria-nimazione e, infine, la progressiva isti-tuzionalizzazione della trapiantologia, hanno consentito infatti di ridisegnare il concetto di morte, specialmente dal punto di vista tecnico-diagnostico. È subentrato, di conseguenza, lo status di morte cerebrale e si sono schiuse importanti problematiche etiche (euta-nasia, trapianti, accanimento terapeuti-co), che tuttora gravano pesantemente sul dibattito scientifico e laico. Esem-plare il caso di Eluana Englaro, ripreso e discusso nello scritto finale. A sigil-lo del volume due sezioni conclusive: l’una sul ruolo storicamente svolto da cuore, cervello e polmoni nel definire il confine tra vita e morte, l’altra sulle rappresentazioni del morire nell’imma-ginario.

Il saggio, a chiusura di ogni singolo contributo, riporta un’ampia raccolta bibliografica di fonti primarie e se-condarie. Degno di nota, infine, il si-gnificativo apparato iconografico, che consente di approfondire le puntuali informazioni presenti nel testo.

Portavo un canto di gioia nelle tascheFAUSTA GENZIANA LE PIANE

Il recente libro di Nina Marocco-lo scritto a quattro mani con An-thony Wallace – Ero nato erro-

re, Storia di Anthony, Edizioni Pagine, 2015 - lascia interdetti e disorientati

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Qualche studiosoUno dei primi in Italia ad occuparsi

di philosophy for children è Antonio Cosentino che ha approfondito il pen-siero di Lipman e si è posto da subi-to l’interrogativo della traduzione in italiano della preposizione for. È più corretto usare per oppure di,a,da? Inol-tre con tale azzardata traduzione si ri-schiava di venir accusati di prendere in giro i filosofi “seri”o di voler sfruttare i bambini per attirare l’attenzione sullo studio della filosofia.

La traduzione più appropriata oggi sarebbe “pratica filosofica di comuni-tà” ovvero pratica della ricerca filoso-fica in comunità di ragazzi e bambini. Dove i poli essenziali di significato sono pratica, ricerca, comunità. Cosen-tino si sofferma su “comunità”: portare la filosofia in classe avrebbe un senso ridotto, bisogna perciò preparare il set-ting e cambiare il paradigma perché la filosofia non è solo ermeneutica, spe-culazione, teoremi, storia, al contrario la filosofia è e può essere una pratica. Il setting attuale è tradizionale, formato da piccole cellule in cui un’insegnante si assicura la direzione univoca dell’in-segnamento e quindi potrebbe forgiare la mente dell’alunno. La scuola attuale va quindi riformata, secondo il filosofo, imprescindibile risulta la formazione degli insegnanti, la conseguente tra-sformazione della didattica tradiziona-le in uno stile didattico “facilitatore”. La filosofia deve trovare altri linguag-gi, ribadisce Cosentino, perché alcu-ni hanno creduto di poterla integrare nell’habitus consolidato del professore/maestro e invece hanno provocato delle inadeguatezze perché non tutti gli inse-gnanti hanno una preparazione filoso-fica di base. Una sua ultima osserva-zione in conclusione sulla pedagogia di Dewey, Piaget, Vigotsky che prendono in considerazione anche un approccio filosofico per i bambini e che si basano su I Dialoghi di Platone (www.filoso-fico.net)

Il secondo intervento si focalizza su un metodo che parte da un altro presup-posto: fino ad oggi ogni setting diven-tava un rituale, una sorpresa ben studia-ta a cui i bambini vogliono rispondere favorevolmente per non dispiacere

Poi le nostre voci, un’unica voce, sin-contreranno.

Il libro è una riflessione sul ruolo del-la famiglia e delle Istituzioni nell’edu-cazione dei giovani, una denuncia forte del fatto che è possibile spezzare la catena del determinismo materialistico (pensiamo ai personaggi dei romanzi di Zola) e della violenza con la consape-volezza: Padre, tua madre era cattiva. Ti picchiava. Mi picchiava col bastone. Tu sei diventato come lei : cattivo, ubriaco, senza amore.

Ero nato errore è un piccolo gioiello di poesia, di alto lirismo.

Gli Stati Generali di filosofia per bambiniCLAUDIA CAMICIA

Parlare di filosofia e bambini non è più una controtendenza e lo dimostra la sala gremita

e i followers su Twitter durante i primi Stati Generali di Filosofia per Bambi-ni organizzati da Ilaria Rodelli di Lu-dosofici e condotti da Dorella Cianci, dottoranda alla Facoltà di Scienze Umane della LUMSA e collaboratrice della pagina culturale domenicale de Il Sole24ore. Si parla quindi di filosofia, bambini e scuola declinati a seconda degli interventi ma cambiando l’ordi-ne degli addendi la somma dà lo stesso risultato: la filosofia si pratica fin da piccoli! Il metodo però non è univoco e bisogna considerarne e valutarne le peculiarità.“I bambini non sono cavie da esaminare filosoficamente - dice Cristina Lenoci - né sono ascoltatori passivi indottrinati con pillole filoso-fiche. Il nostro gruppo, nato intorno all’Università di Perugia (grazie al Prof. Livio Rossetti), parla di filosofia con i bambini, i quali riflettono su al-cuni temi e si pongono delle domande: questo è il senso del filosofare ad ogni età. Ai bambini, inoltre, non importa fino in fondo se quello è il pensiero di Kant o di Aristotele, ma conta il loro essere al centro e interrogarsi su ciò che li circonda (e questo riguarda anche do-mande scientifiche).”

bisso che c’è in lui.Mi chiedo se oggi esiste ancora la fi-

gura dell’intellettuale … Il verbo pro-vocare (v.tr. - Eccitare o irritare spin-gendo a una reazione per lo più violen-ta, dal latino provocare, comp. di pro- e vocare, “chiamare fuori”) sembra non avere più senso in una società che ha catalogato tutto, incasellato tutto, digerito tutto: è persa, diceva Ennio Flaiano, nel Grande Sbadiglio; tutto riduce all’ordine del già visto, se non del gioco, e nella quale ogni infrazio-ne al codice genera inevitabilmente il rimpianto del codice e l’inevitabile re-staurazione. E in cui gli anticorpi ser-vono a omeostatizzare il Sistema e far-lo prosperare ancor più: sono parole di Gianfranco Tomei su Pier Paolo Paso-lini (Pier Paolo Pasolini: l’intellettuale come oppositore). Parole sempre at-tuali. Pasolini manca a tutti e il grande dono che lascia in eredità è la volontà e la passione e l’attitudine a “pensare” la diversità. A comunicare con la diversi-tà. A mettersi nell’ottica della diversità. Per comprendere meglio la propria. E’ ciò che fa Nina Maroccolo con questo libro, pensa la diversità e vuole credere con forza che situazioni come quelle narrate nel libro non accadano più a nessuno.

Mi viene in aiuto una frase di Jean-Paul Sartre: L’intellettuale è colui che si occupa di ciò che non lo riguarda. Non è uno specialista, che difende af-fari di clan o di partito, e neanche un tuttologo che si improvvisa esperto in ogni campo, ma è un eterno apprendi-sta e come tutti gli eterni apprendisti deraglia da una disciplina all’altra, rischia molto spesso di prendere delle cantonate, ma altrettanto spesso ri-schia di vedere cose che sfuggono agli specialisti.

E allora mi rispondo che sì, esistono gli intellettuali oggi e uno di questi è Nina Maroccolo, capace di indignarsi, di affondare il dito nelle piaghe della società e di mostrare al mondo le in-giustizie con determinazione e volontà: scriverò la tua storia…se vuoi sarò la tua voce…una voce che dalla tua in-teriorità emerga, e sia precisa, netta, dura, dura come l’intera tua vita. Rico-pierò fedelmente le parti da te scritte.

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vorrei consegnare a un ipotetico letto-re, a una ipotetica lettrice la mia specia-le idea del giorno che non c’è ancora, fratello, talora somigliante, del giorno che non c’è più. Essendo il presente il tempo in cui la pasta fermenta e tutto cambia per ripresentarsi identico ma insieme differente, totalmente disponi-bile al corso nuovo.

G.P.C. VisioniI.In questo prato distesole vostre anime bianchedisegnano un coro di sorrisi.Lo spirito vede raccoglie semina e disponecome il fioraio che si è svegliato tra le sue rose.Le case i campi gli alberiridanno i loro suoni all’angelus di oggi,ancora estate della frutta matura.

Prende il tempo le sue misurema io qui senza specchisenza alcuno che guardiesco dal divenireper sospendermi nel lieve respiro della terra.

II.Ogni pensiero è un incontrocon i passeggeri della mente,girando le mosse di invisibili mani,vólti perduti in quel che si dice passatoe che invece è soltanto lontano.Di un dove che non dobbiamo sapere,noi compagni della stessa speranza.

(settembre 2014)

Svoltando in biciclettaChinato sull’esca all’angolo dei desperadosdove i cani accettano mutiche i padroni gettino l’amo tutto il giornosapendo che non son lì per pescarema per tradire il tempo come fosse una donna,girata la curva del nullaoggi è san Pietroqui nel villaggioall’omelia père Antoineha detto che Cristo aveva scelto i

ca di punta: si tratta solo di chiarire che la filosofia è anche altro.” (Livio Ros-setti, Scuola per piccoli Socrate).

Cosa leggono i giovani filosofi?Carlo Altini della Fondazione San

Carlo ha presentato la loro propo-sta di “fare filosofia” e le due collane Piccole Ragioni e Filosofare. La pre-occupazione e la cura che applicano alle loro pubblicazioni e ai loro corsi di formazione vertono innanzitutto sulla scelta del linguaggio, anche la loro metodologia procede dalla phi-losophy with children e lo dimostrano i seminari tenuti annualmente nelle scuole dell’infanzia di Modena. Dal 2011 hanno già trattato temi complessi come: la cittadinanza, l’ordine, l’uto-pia, il bene/male e sono convinti che bisogna insistere sulle idee di carattere etico e non epistemologico. La collana Piccole Ragioni si rivolge a filosofi da 3 a 5 anni e ha ottenuto un buon riscon-tro, invece la collana FilosoFare è per filosofi più maturi, entro i 10 anni. Gli autori hanno trattato la paura, l’auto-nomia, il tempo, l’io che spesso sono stati oggetto di progetti teorici in corsi specifici (fondazionesancarlo.it)

“Il fondamento su cui lavoriamo – conclude Altini – è di carattere etico, la filosofia è uno strumento di sapere critico con cui si costruisce il cittadi-no non il consumatore.” I primi Stati Generali della Filosofia per Bambini hanno increspato la superficie e molta materia giace nel fondo marino in atte-sa di venire a galla; bisogna munirsi di pinne, occhiali e coraggio per sondare gli abissi e …apprezzare i colori della pratica filosofica.

Il giornodel lievitoGIAN PAOLO CAPRETTINI

Questioni di etimologia, di senso delle origini. Vorrei dire dell’ieri, in inglese

yesterday - il giorno del lievito (“yea-ster day”), che prepara il crescere della pasta per il giorno successivo. E così

il maestro e assecondare il momento ludico. Livio Rossetti di Amicasofia, propone “philosophy with children”. Dal 2007 nei 13 numeri pubblicati del-la rivista semestrale amicasofia.it gli studiosi si sono confrontati sui risultati e le teorie. Alcuni testi fondamentali per documentarsi sull’argomento sono pubblicati a firma di S. Viti, A. Presen-tini, A. R. Nutarelli.

In cosa consiste il metodo “philoso-phy with children”?

L’adulto deve giocare la carta dell’a-scolto: individuare un oggetto di rifles-sione, soffermarsi su un percorso e far parlare liberamente i bambini senza dare un inquadramento preliminare. Non usa quindi il racconto iniziale per creare il setting, a volte non usa la disposizione a cerchio; potrebbe sem-brare un’esposizione più povera invece sarà più autentica. Questo metodo si prefigge di scardinare quella didattica maieutica con cui le maestre instillano le nozioni e i comportamenti, il bam-bino di solito è pronto a recepirli e a interiorizzarli a scapito di una sua ri-flessione personale. Bisogna eliminare la cattiva abitudine di far disegnare o recitare i bambini dopo una conversa-zione filosofica, è un feed back errato. Il docente/animatore deve assumere un ruolo critico: il suo compito è far capire al bambino che il momento filosofico lo aiuta a pensare in proprio, a trarre profitto dal confronto tra bambini. A seconda della fascia d’età ognuno ab-bozza la propria filosofia, l’essenziale è dare spazio alle idee di ognuno.

“Eppure la filosofia, in quanto orien-tamento globale, è un’azione del pen-siero che non può dipendere più di tan-to da libri e lezioni. Quindi la filosofia che si fa può ben pretendere a un più alto grado di genuinità (compensato dalla maggiore precarietà) rispetto alla filosofia dei libri e dei corsi universita-ri. E accade che la modalità non pro-fessionalizzata del filosofare cominci a rivendicare il suo spazio in questa e in altre forme, in una “agorà” che, a seconda dei casi, è la classe, il caffè, la piazza, la “saletta di filosofia” all’in-terno del penitenziario o forse anche Twitter. Senza nulla togliere alla ricer-

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doppio maligno che mi abiti dentrosenza chieder permesso quando vuoi farti sentire.Imprecazioni, lamenti, offese, sgarbi,quella impietosa gamma di cui vuoi dar contoper distruggere un po’ di giusto fatto prima.

A te demonio basta una sequenza d’ attimiqualche brivido bastardo che rovini il mio castello di carte,il mio bene che devo poi ricucire come un pescatore la sua retesquarciata dallo squalo.

Non saprò mai il perchéanche se è stato spiegato,perché il sublime, il sacro, l’assoluta pienezza della gioia,il semplice decorso,la giusta rispondenza di ogni cosa al suo perché,le belle carezze del lieto succedersidiventino rovinesi infilino nel flusso di una preghieracon il guasto blasfemo di un pensiero distorto.

Non mi consolo,niente misericordiainutilmente invoco spiegazione dai miei errori che ho convocato al tribunale di una verità pellegrinache ogni giorno inciampa e fa male.

Prenderli questi peccatiquesti danni arrecatiqueste bestemmienon come urli dissonanti di un pacifico bricoleurche si è pestato un dito col martello,prenderli invece a pegno di riconoscimentodella mia, non tua non sua non loro,la mia colpa di cui devo far tesoroperché troppo facile è chiedere perdono.

Il guinzaglio del destinoTra i passanti che si sono fermatia guardare il tramonto

così il turista può mandarti un sorrisoa te che pescavi nel sol dell’avvenireperché les moules de Bouziguesin cucina si coprissero di vino e cipolla.

Ogni vita merita un ricordoe il tuo così vicino al luogo richiesto da tuttispiega perché soltanto i puri di cuoreavranno la gloria dei cielidopo aver provato quella dei mari.

(Mèze, luglio 2012)

Lisbona ti amoDistesa nella notte che quasi non c’è piùla pensilina sbocca nel battello che attendee a un piccolo puhh parte verso il pontemosso da fantasmi che miagolano col fado.Loro due in piedi discutono sul molo, lui, è ancora sabato,nel suo vestito elegantepunta il dito verso lei urlando qualcosa,a lei così piccola senza tacchi con le scarpe in mano.Intanto macchine sfrecciano e il cielo si fa più regolareal giorno che deve sbocciare.Un amore in crisi come le finanze del paese,in crisi perché attende qualcosa che non verràforse perché non dipende da loro.Un nero mi passa davanti mentre mi incantodel 25 aprile, quel ponte con grandi chele rosseficcate nella sabbia dell’0ceano.Il ragazzo intanto è tornato: solo, senza lei, orgoglioso si allontanamentre altri due in auto si fermanoattratti dal nulla silenteche ora è di tutti.Laggiù il ristorante diventa rosacome un fondo tinta steso di fretta.Lisbona è una donnaprigioniera della sua bellezza.

(agosto 2012) Doppio malignoTroppo tardi ti darò la colpa,

pescatoriperché lavorano in équipee c’è sempre più bisogno di solidarietà.E dunque tu pescatore solitario,che anarchico tieni la lenza potrai soltanto sperare come Nerudache lui a quattro zampeti possa scodinzolare nel regno dei cieli.Per questo lanci in mare il pesce troppo piccolocon un gesto di fraternità.

(giugno 2014)

Cibo misticoA chi porterò i porcinii borlotti e la zucca mantovana?Comporranno una bella natura morta mentalese aggiungerò un posto a tavolaun Emmaus originaleper il padre mio che ora è nei Cieli.

(21 giugno 2013)

I pensieri degli altriCosa me ne faccio dei pensieri degli altri?Potrei farne un governo ma sono sempre io costretto a scegliere chi starà all’opposizione.

Lo stranieroSereno come un alienodistratto come un pedonesta sul marciapiedeguardando la strada,poi si sporge, saltella, attraversaafferra quel che gli getta l’amica.Ogni giorno le va incontro,sa che ha merce di qualitàche lui stesso potrebbe procurarsicon qualche fatica.Ma preferisce volare da Vandache quando gli lancia una sardinadal banco della pescadorialo trasforma da accattone in nobile uccello.Lui, il gabbiano reale,il cliente più strano di Tossa de mar.

(luglio 2012)

L’andirivieniTi hanno messo la foto Tintinvicino alla toilette

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Ora tutto affidiamoallo schermo del nuovo dio.Anche Narcisosaggiamente multimedialeaspetta di sapere dal sistemase quell’immagine è davvero suase meglio non poteva risultareusando un’altra risoluzione.

Follie, nevrosi accolte come liberazioni.

Intanto la campana rintoccaè domenica ancora,ascoltiamo l’appello programmatocome il fragoroso refrain d’un cellulare.

Intanto disoccupatiindugiamo, estraneiall’ora che a ogni colpo s’abbrevia.

Il tribunale-tempioSoltanto colonne e parolenel palazzo che non è un tempioma un tribunale.Dove ci si confessa non ci sono sacerdoti giudicima giudici sacerdoti.

L’orizzonte inquietoPerenne ritorno della seranel ciclo sportivo del giornopiù breve più lungoa seconda del fiato.L’autunno indugia nel frattempoe quegli occhi tradiscono piacere, impagabile però dato che le ricevutesono finite e io quasi con loro.

Resta oscuro il seguito dello strappo che ora porrei al tuo incanto.Seguimi ma soltanto col pensierospegni e riaccendi come vuoila mia tenerezza,conserva per me quel fiore finto finito in un bicchiere di whiskyubriaco nel surreale sofisma di ogni età.

Eccessivi eccipienti eccitano.Eccessiviincidentiuccidono.

Incidonoincipienti incendi.

Incitaall’incederel’indecenteche incespica.

In cieloun uncinograffia le stelle.

Avicennas’avvicendae Ho Chi Minhs’avvicinaminaccioso.Chi si celanel bosco?

Chi suona la campanaNell’irrealtà viviamoconvinti che l’abitudinerallenti la misura del tempo.

Martellano le campane domenica.Leggo della straduccia buia verso le rose di Smirne. Rose che s’incantano la sera e il mattino tardano a sbocciare.

Prima di Seferis la mentes’era portata a Ginevra, sul lagomentre là la pigra compagnia di Mary e dei romantici suoisognava l’uomo del freddo,Frankensteinl’orrore tragico dell’astrazione.

Prima che il mondo finisse imprigionatonelle chimere di cristallocorrevamo al telefono appeso al muro,controllavamo a cofano apertolo spinterogenocon la sapienza dell’inesperto.

è arrivato un gabbiano reale.Nessuno lo nota.Anche lui fissa l’astro lontanofermo tra la piccola follacome il cane di qualcuno.Poi lo lasciano lìsenza guardarlo,al guinzaglio del destino.

(Grau du Roi, 29 giugno 2012)

La bellezza dell’egualeUn giorno preso a casocome una donna nella follacome un bimbo all’uscita da scuolacome un libro sulla bancarellacome un fiore al mercato.

Un giorno normalepieno del suo tempoorgoglioso del suo pocoincantato nell’ovvio colore del cielo.

Un giorno come un altroperché anche i giorni son tutti egualise sono bellinell’altalena che Tu muovi alle nostre spallecon noi pronti a saltare a scendereo ad attendere una spinta ancora.

Dove finisce una cosa ne comincia un’altraAlturealtarialtalenantitra alialcoolizzate.All’improvvisoAlcesti e Alcmeone.Alchimie,alambicchi dialluminioallampanati.Alleatialternatividall’amiciziaaltera.Altri,allineatiall’alto muroalitavanol’ultimo alluvionaleaddio.

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glie negli occhi e poi nelle parole, e nulla è archiviato e nulla è fisso, nulla si può dare per scontato. Sei l’esempio coerente del divenire della materia, del ciclo dell’esistenza che non ha fine ma si rinnova, cambia, si evolve in forme anche sconosciute ma palpabili e re-ali come le nostre strade.Come vivi la vigilia di ogni cambiamento? Come ti avvisa il corpo e come si preannuncia nella mente il nuovo logo?

Prima di ogni cambiamento comin-cio ad ammalarmi. Raffreddori che si ripetono, tosse, malessere, dolori alle ossa. Poi comincio a sbraitare che non ne posso più. Poi mi intristisco. Cam-bio pettinatura, colore dei capelli. E un giorno mi guardo e sono nuova. Co-mincio a fischiettare la mattina, a can-terellare. Poi gli occhi si accendono. E sono invasa da un benessere nuovo. Sono cambiata . Sogno moltissimo pri-ma di cambiare. Tutti sogni con mes-saggi positivi, anche se io sono triste e demoralizzata. E all’improvviso si accende la luce su una mia nuova iden-tità, fresca, allegra e giocosa. Quando mi sto rinnovando ho voglia sempre di giocare. E’ la fase nascente di qualche cosa che mi incanta e mi cambia.

Ti ho vista innamorata, dei gabbiani della Polveriera, dei libri della Biblio-teca Monteverdi, delle scale di ragazzi alla Sapienza. Ti ho vista innamorata della poesia per mille nuove giornate e per le parole nuove innamorate. Ti ho vista e ti ho vissuta come fattore uma-no, come gene del nome, come vate e come vestale del verbo da sguainare. Ora vedo la luce calda di una lampada sul comodino e il vestito di ferro sopra il manichino. Che cosa stavolta ti ha cambiato il poeta-destino?

No, combatto in modo diverso. La luce calda sopra il comodino mi piace moltissimo ma è soltanto una pausa per riprendere fiato. Per comprende-re meglio i miei percorsi. Il vestito di ferro lo vedi sopra il manichino? Forse voglio combattere nuda. Senza alcuna difesa. Senza rete e senza sapere dove. Il combattimento è più raffinato, meno evidente. Silenzioso. Sono diventa-ta più raffinata. Ho fatto incontri che hanno reso più raffinata la mia anima.

ha salvata. Proprio mentre affogavo. Mi ha accolta come un abbraccio che mi ha riportato a galla. E’ la vita che mi riconquista ogni volta. Io nasco di-sperata. Perché capisco subito, sin da quando avevo tre anni, il distacco dagli affetti. E per questo resto disperata di fronte alla mia impotenza. Poi la vita mi riprende e mi riaccende di amori.

La tua poesia spesso si fa storia, leg-genda, rilettura. I personaggi prendo-no anime che nessuno ha percepito e che, con forza, ribaltano il proprio e l’altrui destino con uno scoprire im-provviso di albe diverse e di un diverso mattino. Donne e uomini di altri tempi e di altri ranghi confidano a te sola ciò che il passato ha ordinatamente confu-so, o tu riesci a sentire ciò che nessuno è mai riuscito ad ascoltare?

Sono molto curiosa. Mi intriga capi-re, sapere, scandagliare l’anima delle persone famose. Le mie interviste ai grandi poeti nascono da questa predi-sposizione ad indagare. Così entro in contatto quasi onirico con i personaggi del passato. Ma comunque c’è anche una mia predisposizione a travalicare i limiti del tempo e discutere a distanze secolari. Mi dona una sconfinata sen-sazione di pacatezza. Quasi un esse-re riuscita a superare le barriere della morte. Che francamente odio con tutta me stessa almeno fino a che qualcuno non mi mostra realmente una vita oltre questa.

Quale dolore di donna abbraccia risposte senza vergogna che sembrano emergere da pozzanghere eterne e di-venire in fretta torri pronte a scalare il cielo con la sola forza del pensiero?

Mi piace moltissimo questa tua do-manda ma non riesco a mettermi in onda con lei. E’ bellissima così senza risposta. E’ una poesia che vale per tut-ti. E’ vero ho scritto un a poesia sulle pozzanghere. Ma non nasceva dal do-lore caso mai da un contrasto. Non rie-sco a rispondere a questa domanda ma mi piace lasciarla così senza risposta. Non cancellarla. Forse la mia incapaci-tà significa qualcosa.

In te il mutamento è visibile, si co-

Donne di luna e di scure DANIELA FABRIZI INTERVISTA

ANNA MANNA

Daniela Fabrizi: Anna, la tua ragione è scalza e muo-ve le sue orme sulla sabbia

di un tempo che non è mai del tutto passato né del tutto presente se non nell’incipit del dopo che contiene a stento l’altrove e l’altro quando. Quali battaglie si sono combattute all’inter-no del tuo vivere intensamente?

Anna Manna: A volte ho l’impres-sione che molte altre vite potevano essere vissute. Forse alcune mi appar-tenevano per “celeste naturalezza”per dirla con Leopardi. Erano giorni in sintonia con il creato, con la natura, con me stessa. Ma io non credo nella felicità sempre. E mi è capitato di voler conservare intatto uno stato d’animo. Senza viverlo. Per renderlo vivibi-le sempre. Non saprei dirti se la vera battaglia è rinunciare ad una identi-tà nuova, ad una storia nuova, ad un mondo nuovo. Oppure se la battaglia vera è rinverdire il sogno. Ti faccio un esempio non mi sono sposata con una cerimonia come tante . Sì in chiesa, ma eravamo pochissimi e poi subito siamo partiti. Mi sembra come se… ancora mi debbo sposare. E mi piace mantenere intatto questo stato d’animo. E’ una ra-gione scalza, l’hai detto anche tu e sulla sabbia si cancella ogni impronta.

In te poeta qualcosa evade subitaneo dal pensiero statico e vissuto, qualcosa che fugge verso il mare, un mare ora disteso ora rabbioso come il tumultuo-so battito del cuore. Quanto dista dal cuore quel tuo mare, e quante volte hai rischiato di annegare?

Moltissime volte. Penso che spes-so sono proprio annegata. Nel dolore, per esempio per la morte tragica di mio padre. Per le difficoltà giovanili di mio figlio. Per alcune incompren-sioni caratteriali con mio marito. Per la fine di alcuni dialoghi ai quali tenevo moltissimo. Per la stupidità di chi mi stava intorno. Per la perdita di una per-sona cara. Quel mare di cui parli mi

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unità e separazione si alternano e si mescolano nella costruzione. Che rap-porto ha Anna Manna con il proprio maschile e come, nel tempo, ha sapu-to fondere e distribuire le differenze di genere all’interno del suo pensiero? A te mi lega molto della vita e molto hai legato tu del mio sentire. L’esperienza di scrivere in due ci ha portate altrove, dove la legge non è più delle parole e il giudizio prescinde la ragione. Mate-matiche difficili non ci hanno impedito di scrivere teoremi di corpi lucidi né di rendere l’Io di ognuna felice di tanti “noi” capaci. Cosa ha portato questa esperienza nel tuo essere poeta-donna?

Ad un certo punto ho sentito i limiti di una poesia soltanto mia. Dovevo sta-re zitta oppure trovare un altro da me con cui dialogare. Fare poesia nel limi-te della mia anima ormai mi soffocava. Sono assolutamente per la relazione. Il soliloquio mi sembra follia. Il compia-cimento mi sembra un narcisismo inu-tile. Trovare il nostro dialogo è stato un rilancio ed una conferma. Credere di nuovo nella poesia perché leggevo la tua poesia. La solitudine mi distrugge. Mi spegne. Chiedimi: vorresti essere Leopardi? Ti risponderò: mai! E’ stato troppo solo.

Daniela Fabrizi e Anna Manna sono coautrici del libro “Donne di luna e di scure - Poesie nel web” edito da Il Convivio, con un Saggio-introduzione di Aldo Onorati

passionali, mi offendo. Quale può es-sere allora il rosso per scelta oggi ? Il rosso variegato delle ciliegie. Cupo ed allegro insieme. Torbido e chiaro,mai inquietante. Comunque primaverile .Non è il rosso di un bicchiere di vino. E’ un rosso dolce, molto morbido come la polpa delle ciliegie.

Madre è una parola onnipotente. Sia chi ha figli, sia chi non ne ha, ne ri-conosce l’archetipo iniziatico, il seme dell’umanità. Una sorta di potere che nessun uomo può carpire, ma anche una debolezza estrema, un pugnale nel fianco, un ricatto-riscatto, un perde-re per avere ed un avere per perdere. Qual è e quale è stato il tuo percorso di madre?

Sono molto legata a mio figlio. Trop-po. La mia felicità dipende dal suo benessere. Lui mi domina completa-mente, mi ricatta, mi riscatta. Tutto insomma. Ma sono madre anche verso altre persone. Mia sorella, mia madre, mio fratello, mio marito stesso. E’ la mia debolezza. Se me ne fregassi starei sicuramente meglio. Ma l’amore o c’è o non c’è. Ed in me c’è.

Donna tu lo sei fin nel minuscolo cel-lulare. Ma donna è dono e condanna, è lotta ed è gioia, è un’alchimia sovrana che regola le leggi della terra. Quanto ti è costato e quanto ti ha dato l’essere donna?

Ho fatto una gran fatica a farmi ascol-tare come fossi un maschio. Ognuno , prima di tutto, si accorgeva che io ero donna. E questo mi dava fastidio. Mi sembrava un’offesa. Una diminuzione delle mie capacità mentali. Oggi, se tornassi indietro, sarei meno giudice degli altri e di me stessa. Sono donna, e allora è normale che gli altri mi veda-no donna. E’ la mia voce di donna che voglio tirare fuori, perché la mia vita è vita di donna. Inutile stare a mascherar-si da uomo.

Ognuno di noi deve fare i conti con il proprio contrario. E la persona è “persona” quando incarna e bilancia il proprio maschile e il proprio fem-minile. Nel poeta di più: osmosi e di-sgregazione, amalgama e sottrazione,

Comunque mi piace moltissimo che tu sei stata testimone dei miei innamo-ramenti intellettuali. I gabbiani della polveriera… una sensazione raffina-tissima! Irripetibile. I libri della Mon-teverdi… sì la biblioteca è stata come una nuova Madre. I ragazzi sulla sca-linata… sono dentro il mio cuore e la mia testa ancora. Ogni mattina m’im-mergo nell’onda di questa gioventù che reclama una presenza vera, concreta. Mi somigliano. Sulle scalinate di let-tere offrono cioccolata, cornetti, caffè, ogni mattina. E’ la Rivoluzione dolce, quella intelligente. Resti a guardarli: donne ed uomini che s’industriano at-torno ad una tavola imbandita. Penso che stiano riappropriandosi del senso della vita. E’ la fine di tutti gli ismi. L’intellettuale ha tolto la maschera, è diventato uomo normale insieme agli altri. E s’interroga sulle difficoltà della vita quotidiana, mangiando una fetta di ciambellone. Sono molto simpatici.

Il rosso dei tuoi capelli, il rosso delle tue labbra, il rosso delle tue pergame-ne, il rosso delle tue parole... Nessun colore ti appartiene come questo, testi-mone del tuo essere viva e vitale, rossa come il fuoco ma amaranto come i ri-cordi dell’amore... Quale sfumatura di rosso oggi ti appartiene?

Io in realtà sono gelida e distante. Il rosso è il mantello che indosso. Tutti mi credono una forza naturale ed invece sono una forza intellettuale e psichica. Il mio vero colore è l’azzurro, il verde. Ma con questi colori sarei aristocratica ed invece voglio essere immersa nella realtà. Il rosso è ciò che vorrei essere e non sono. Dici che il mio rosso è una maschera? E’ possibile. In realtà sono fragilissima ed innamoratissima. Di-pendente e bisognosa. Mario Mazzan-tini, ti ricordi, diceva che il mio viso, dietro l’apparente autonomia, era biso-gnoso. Il rosso è una forza che l’uma-nità non ha, ma cerca. Non amo in ros-so, il mio è un amore tutto di testa dai colori iridescenti azzurri e verdi. Non sono una passionale. Mio marito dice che sono una trappola terribile. Perché l’apparenza promette passione ed inve-ce tendo le catene alate del sentimento. Se qualcuno è legato a me per motivi