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SR Scienze e Ricerche N. 41, 15 NOVEMBRE 2016 ISSN 2283-5873 41.

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SRScienze e RicercheN. 41, 15 NOVEMBRE 2016

ISSN 2283-5873

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GLI ANNALI 2015

1 numero in formato elettronico: 7,00 euro

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SRScienze e RicercheRIVISTA BIMENSILE · ISSN 2283-5873

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41. Sommario

FRANCO BAGNOLI, ROBERTO LIVI, GIOVANNA PACINIComunicare la scienza pag. 5

RICCARDO GALLODeclino industriale italiano irreversibile? No, se... pag. 9

GIUSEPPE MEDAULa concezione di Europa e i suoi confini pag. 13

FRANCESCA CAMILLI, JENNIFER CELANI, CHIARA NEPI, MARIA ADELE SIGNORINIAgrobiodiversità: tra arte e scienza pag. 20

PASQUALE CAPASSO, ENRICA ROSA GRANIERI, FRANCESCO MANFREDI,MICHELE SAVIANO, JOSEPH SPINAMetodo scientifico e scienza moderna pag. 29

FILIPPO MARIA SPOSINILanguage and Evolution pag. 38

EMILIANO VENTURAIl sublime di Palmira, tra corsi e ricorsi della storia pag. 43

SILVIO MARENGOLa fiera del Bue Grasso di Carrù pag. 47

VINCENZO VILLANILegge di Young, coefficiente di Poisson e curva stress-straindei polimeri pag. 51

ROBERTO FIESCHILa riflessologia plantare pag. 60

PAGINE SENZA TEMPO

Solet annuere. Bulla Domini Papae Honorii III super regulamfratrum minorum pag. 63

IL COMITATO SCIENTIFICO

n. 41 (15 novembre 2016)

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Coordinamento• Scienze matematiche, fisiche, chimiche e della terra:

Vincenzo Brandolini, Claudio Cassardo, Alberto Facchini, Savino Longo, Paola Magnaghi-Delfino, Giuseppe Morello, Annamaria Muoio, Andrea Natali, Marcello Pelillo, Marco Rigoli, Carmela Saturnino, Roberto Scan-done, Franco Taggi, Benedetto Tirozzi, Pietro Ursino

• Scienze biologiche e della salute: Riccardo N. Barbagallo, Cesario Bellantuono, Antonio Brunetti, Davide Festi, Maurizio Giuliani, Caterina La Porta, Alessandra Mazzeo, Antonio Miceli, Letizia Polito, Marco Zaffanello, Nicola Zambrano

• Scienze dell’ingegneria e dell’architettura: Orazio Carpenzano, Federico Cheli, Massimo Guarnieri, Giuliana Guaz-zaroni, Giovanna La Fianza, Angela Giovanna Leuzzi, Luciano Mescia, Maria Ines Pascariello, Vincenzo Sapienza, Maria Grazia Turco, Silvano Vergura

• Scienze dell’uomo, filosofiche, storiche, letterarie e della forma-zione: Enrico Acquaro, Angelo Ariemma, Carlo Beltrame, Marta Bertolaso, Ser-gio Bonetti, Emanuele Ferrari, Antonio Lucio Giannone, Domenico Ien-na, Rosa Lombardi, Gianna Marrone, Stefania Giulia Mazzone, Antonella Nuzzaci, Claudio Palumbo, Francesco Randazzo, Luca Refrigeri, Franco Riva, Mariagrazia Russo, Domenico Russo, Domenico Tafuri, Alessandro Teatini, Patrizia Torricelli, Agnese Visconti

• Scienze giuridiche, economiche e sociali: Giovanni Borriello, Marco Cilento, Luigi Colaianni, Riccardo Gallo, Ago-stina Latino, Elisa Pintus, Erica Varese, Alberto Virgilio, Maria Rosaria Viviano

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La rivista ospita due tipologie di contributi:• interventi, analisi, recensioni, comunicazioni e articoli di divulgazione

scientifica (solitamente in italiano).• ricerche e articoli scientifici (in italiano, in inglese o in altre lingue).

La direzione editoriale non è obbligata a motivare l’eventuale rifiuto op-posto alla pubblicazione di articoli, ricerche, contributi o interventi.

Non è previsto l’invio di estratti o copie omaggio agli autori.

Scienze e Ricerche è anche una pubblicazione peer reviewed. Le ricer-che e gli articoli scientifici sono sottoposti a una procedura di revi-sione paritaria che prevede il giudizio in forma anonima di almeno due “blind referees”. I referees non conoscono l’identità dell’autore e l’autore non conosce l’identità dei colleghi chiamati a giudicare il suo contributo. Gli articoli vengono resi anonimi, protetti e linkati in un’apposita sezione del sito. Ciascuno dei referees chiamati a valutar-li potrà accedervi esclusivamente mediante password, fornendo alla direzione il suo parere e suggerendo eventuali modifiche, migliora-menti o integrazioni. Il raccordo con gli autori è garantito dalla se-greteria di redazione.

Il parere dei referees non è vincolante per la direzione editoriale, cui spetta da ultimo - in raccordo con il coordinamento e il comitato scientifico - ogni decisione in caso di divergenza di opinioni tra i vari referees.

L’elenco dei referees impegnati nella valutazione degli articoli scientifi-ci viene pubblicato con cadenza annuale.

Chiunque può richiedere di far parte del collegio dei referees di Scienze e Ricerche allegando alla richiesta il proprio curriculum, comprensivo della data di nascita, e l’indicazione del settore scientifico-disciplina-re di propria particolare competenza.

Scienze e RicercheSede legale: Via Giuseppe Rosso 1/a, 00136 RomaRegistrazione presso il Tribunale di Roma n. 19/2015 del 2/2/2015Gestione editoriale: Agra Editrice Srl, RomaTipografia: Andersen SpaDirettore responsabile: Giancarlo Dosi

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N. 41, 15 NOVEMBRE 2016

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SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016 | SCIENZE DELLA FORMAZIONE

tifico è di primaria importanza per un futuro ricercatore. Non esiste però ad oggi, se non in casi sporadici, un insegnamento in questo senso: il laureando, o dottorando impara come si scrive un articolo con l’esperienza, leggendo altri articoli e, se è fortunato, seguendo le indicazioni del proprio tutor.

Anche la presentazione della propria ricerca tramite “talk” o poster ad un congresso non viene “studiata” nei normali corsi laurea o dottorato, con il rischio di non riuscire a fare una presentazione efficace, per inesperienza o timore di sba-gliare.

In particolare, bisogna tenere presente che il tipo di comu-nicazione dipende anche in questo caso dal pubblico a cui è diretto, per cui se la rivista è ultra-specializzata, la comuni-cazione è spesso molto tecnica e l’introduzione è scarna ed essenziale. Viceversa, se il pubblico atteso è multidiscipli-nare, bisogna curare in maniera particolare l’introduzione in modo da “catturare” l’attenzione dei potenziali interessati, anche al costo di ripetere cose che possono sembrare ovvie per gli specialisti.

Altro tipo di comunicazione è quella che ha come prota-gonista il pubblico generico della scienza. In passato questo tipo di comunicazione era materia ad uso quasi esclusivo di uffici stampa, di giornalisti o dei pochi ricercatori volenterosi che, nel loro tempo libero, si occupano di promuovere eventi per comunicare al pubblico le scoperte scientifiche, tramite conferenze o articoli.

Oggi non è più così: la comunicazione sta diventando an-che in Italia (in ritardo rispetto a altri paesi) parte integrante del lavoro di un ricercatore. Anche se a livello di carriera personale non riveste un grande peso, essa entra a far parte della valutazione dell’Università.

Infatti, negli ultimi anni alle tradizionali missioni delle Università quali la didattica e la ricerca, si è affiancata una terza missione, relativa al trasferimento dei risultati della ri-cerca verso la società. Si tratta sia del trasferimento tecno-logico della ricerca (brevetti, spin-off, contratti conto-terzi e convenzioni, intermediari) che della produzione di beni

Comunicare la scienza: esperienza di un corso per studenti di dottorato in fisica FRANCO BAGNOLI1,2 ROBERTO LIVI1,2 GIOVANNA PACINI1

1 Dipartimento di Fisica e Astronomia e Centro Interdipartimentale per lo Studio di Dinamiche Complesse (CSDC), Sesto Fiorentino (FI)2. INFN, Sez. Firenze

In questo articolo presentiamo il primo “esperimento” di un corso, composto da parti teoriche e parti laboratoriali, sul-la comunicazione scientifica e della scienza. Il corso è stato indirizzato ai dottorandi in Fisica e Ingegneria dell’Informa-zione presso l’Università degli Studi di Firenze, nell’anno accademico 2015-2016.

INTRODUZIONE: LA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA

Quando si parla di comunicazione della scienza bisogna distinguere tra comunicazione istituzio-nale (o comunicazione scientifica), divulgazione

e informazione. La comunicazione scientifica si basa fondamentalmente

sulla disseminazione dei risultati ottenuti, in genere da ri-cercatori di università e istituti di ricerca, attraverso riviste specializzate, o nei congressi di settore, utilizzando un lin-guaggio comprendente termini e formalismi comprensibili solo da un pubblico competente: un dialogo tra pari.

La comunicazione scientifica in senso stretto ha svilup-pato nel tempo caratteristiche peculiari, poiché il suo primo obiettivo è lo scambio e la diffusione di risultati scientifici, nell’ambito di una comunità scientifica ben specificata, al fine di facilitare e di consentire ogni ulteriore progresso nei vari campi di ricerca.

La comunicazione scientifica è parte integrante della “vita” di un ricercatore, anzi ne costituisce un requisito essenziale. Pubblicare articoli scientifici e partecipare a congressi per-mette al ricercatore di confrontarsi con i suoi “pari”, far co-noscere le proprie ricerche e valutare il proprio lavoro rispet-to agli scienziati.

Inoltre per poter accedere alla carriera nelle università o nei centri di ricerca, è necessario avere dei titoli che vengono calcolati sulla base delle pubblicazioni o meglio sulla base di indicatori bibliometrici che valutano sia il valore delle riviste sulle quali si pubblica, sia il numero di citazioni ricevute [1].

Risulta quindi chiaro che sapere scrivere un articolo scien-

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SCIENZE DELLA FORMAZIONE | SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016

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a farlo può essere una fonte di grandi soddisfazioni personali”.

Gli strumenti più efficaci della comunicazione della scien-za sono quelli non ufficiali come siti web personali, blog, video YouTube e pagine FaceBook. Raramente questi stru-menti sono utilizzati strutturalmente da un ente di ricerca, e comunque la loro percezione da parte del pubblico è diversa.

Infine, come ogni ricercatore sa, è sempre più importante ricorrere a finanziamenti su progetto (provenienti da enti e istituzioni italiani o comunitari) per poter avere i fondi ne-cessari per acquistare attrezzature e materiale, e/o riuscire a pagare collaboratori. Anche questo settore richiede lo svilup-po di capacità di comunicazione specifiche che quasi sempre non si devono limitare a sottolineare il valore intrinseco della ricerca ma anche le potenziali ricadute tecnologiche e socia-li, tenendo conto che spesso i valutatori non appartengono allo stesso settore di ricerca del proponente.

Nella fase di progettazione del corso abbiamo cercato di capire quanto la comunicazione della scienza sia materia di insegnamento in Italia.

LA COMUNICAZIONE DELLA SCIENZA COME

MATERIA DI INSEGNAMENTO IN ITALIA

Abbiamo effettuato una ricerca on line sull’offerta forma-tiva sulla comunicazione della scienza a livello universitario e post-universitario.

Abbiamo rilevato che c’è un certo numero di master e corsi post-universitari sulla comunicazione o il giornalismo scientifico, ma ben pochi sono i corsi di comunicazione della scienza inseriti in un curriculum universitario di primo e se-condo livello. Non abbiamo trovato esempi di tale insegna-mento a livello di dottorato.

Nella Tabella 1 sono riportati i corsi da noi trovati con una ricerca sul web.

pubblici sociali e culturali (public engagement, patrimonio culturale, formazione continua, sperimentazione clinica).

Il decreto legislativo 19/2012, che definisce i principi del sistema di Autovalutazione, Valutazione Periodica e Accre-ditamento, e successivamente il DM 47/2013 [2], che identi-fica gli indicatori e i parametri di valutazione periodica della ricerca e della terza missione, hanno riconosciuto a tutti gli effetti la terza missione come un compito istituzionale delle università, accanto a quelli tradizionali di insegnamento e di ricerca. I prodotti sopra menzionati entrano quindi a far parte della valutazione di ogni Università (VQR).

Questo cambiamento nel modo di vedere il rapporto tra scienziati e società è ben spiegato da Pietro Greco [3], gior-nalista e studioso di scienza e società, il quale sottolinea che:

“Siamo entrati in una nuova era dell’organizzazione del lavoro degli

uomini di scienza, un’era che è stata definita post-accademica (John

Ziman, 2002). Questa era è caratterizzata dal fatto che decisioni rile-

vanti per lo sviluppo della conoscenza scientifica vengono prese sem-

pre più dalla comunità scientifica (o dalle comunità scientifiche) in

compartecipazione con una serie variegata e variabile di altri gruppi

sociali”.

La responsabilità e la possibilità di essere protagonisti nel comunicare la scienza è quindi principalmente nelle mani dell’università e degli enti di ricerca, che hanno iniziato ad affiancare, alla comunicazione istituzionale, anche la divul-gazione scientifica.

I ricercatori quindi stanno diventando sempre di più i veri attori della comunicazione, e questo dovrebbe essere sentito non solo come “dovere” ma, come scrive Carrada [4], un’e-sigenza:

“Il desiderio di far conoscere i risultati delle proprie ricerche, o più in

generale del campo di studi nel quale si lavora, è un’esigenza assolu-

tamente naturale, che anche se taciuta accomuna la stragrande mag-

gioranza dei ricercatori. E’ bello uscire dai confini (anche umani) della

specializzazione e condividere con gli altri le proprie passioni: riuscire

Tabella 1: Elenco dei corsi su comunicazione della scienza

Tipologia Università o Ente Corso di laurea Titolo del corso SSD

Corso universitario Università degli Studi Di Parma

corso di Laurea triennale (DM270) in Scienze dell’Educazione e dei Processi Formativi

Didattica e divulgazione dlla scienza FIS/02

Corso universitario Università degli Studi dell’Insubria

Corso di Laurea triennale in Scienze della Comunicazione Comunicazione della scienza M-STO/05

Corso universitario Università degli studi di Torino

Corso di Laurea magistrale in scienze pedagogiche

Sociologia della scienza SPS/07

Master Università di Milano/Bicocca

MaCSISMaster in Comunicazione della Scienza e dell’Innovazione Sostenibile

Master SISSA TriesteMaster in Comunicazione della Scienza “Franco Prattico”.

Master Sapienza Università di Roma La Scienza nella Pratica Giornalistica

Master Università di FerraraMaster in Giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza

Master Università degli studi di Cagliari

Master in Comunicazione della scienza

Master Università degli Studi di Padova

Master in Comunicazione della scienza

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SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016 | SCIENZE DELLA FORMAZIONE

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argomenti scientifici emersi durante le settimane antecedenti il montaggio (una sorta di pillole di scienza) mentre il se-condo gruppo ha deciso di fare un’intervista a due di loro, commentando poi tutti insieme.

Questo lavoro è stato mandato in onda nell’ambito della trasmissione RadioMoka sull’emittente Novaradio [10]

Il secondo esercizio ha riguardato la stesura di un articolo divulgativo, che è stato poi analizzato collettivamente.

Il terzo esercizio ha riguardato una breve presentazione di un poster su argomenti specifici di ricerca dei dottorandi, con valutazione collettiva dell’efficacia comunicativa.

Similmente, nei laboratori della seconda parte del corso, è stato chiesto di elaborare la struttura di un articolo scientifico e poi di valutare, come se fossero revisori, alcuni articoli (di carattere generale) già pubblicati.

VALUTAZIONE DEL CORSO

Alla fine del corso è stato chiesto di esprimere una valu-tazione del corso tramite un questionario anonimo on line.

La prima domanda che riguardava l’opinione dei discenti sulla durata del corso e sul bilanciamento tra ore di teoria e ore di laboratorio. Questo aspetto ha soddisfatto il 75% degli studenti, così come la durata del corso.

Il quesito successivo riguardava l’interesse suscitato dai vari moduli.

I ragazzi dovevano votare i vari argomenti con un pun-teggio da 1 a 6 (numeri non ripetuti). I risultati sono riportati nella figura 1, in cui ogni colore corrisponde ad un voto rice-vuto per l’argomento specifico.

STRUTTURA E CONTENUTI DEL CORSO

Il corso, intitolato “laboratorio di comunicazione scien-tifica” e rivolto ai dottorandi di Fisica e Astronomia [5] e Ingegneria dell’Informazione [6] dell’Università di Firenze [7], è stato diviso in tre sezioni: comunicazione della scienza, scrittura articoli e scrittura di progetti europei. In altre parole: come comunicare i risultati scientifici al grande pubblico, ai colleghi e ai possibili finanziatori.

Le prime due parti erano composte da una parte teorica e una parte laboratoriale, l’ultima solo da una parte teorica.

Per quanto riguarda la parte di comunicazione e divulga-zione della scienza, abbiamo sfruttato la nostra esperienza come organizzatori dei caffè-scienza di Firenze e Prato [8] e di produttori/redattori di una trasmissione radio (RadioMo-ka) [9].

Per il primo argomento i temi trattati sono stati i seguenti:

Tema Tipologia

Comunicazione della scienza. Storia e metodologie.L’esperienza dei caffè-scienza

Teoria

Utilizzo dei media nella comunicazione. Focus sulle trasmissioni radiofoniche Teoria

Realizzazione di una puntata radiofonica Laboratorio

Partecipazione ad un caffè-scienza in presenza o in streaming

Visione di un evento divulgativo

Gli articoli divulgativi Teoria

Scrittura di un articolo divulgativo Laboratorio

Breve presentazione orale Laboratorio

Il secondo argomento è stato sviluppato nei i seguenti temi:

Tema Tipologia

Gli articoli scientifici. Analisi della struttura Teoria

Scrittura di un articolo scientifico Laboratorio

Il processo di revisione tra pari (peer-review) Teoria

Prova di revisione di un articolo scientifico Laboratorio

Politica editoriale e scelta delle riviste Teoria

Il terzo argomento è stato sviluppato con due lezioni teo-riche, comprendenti la ricerca e l’analisi dei bandi, gli ele-menti che compongono un progetto, l’analisi di due progetti europei finanziati.

ATTIVITÀ DI LABORATORIO

Il corso è stato inserito come opzionale all’interno dell’of-ferta formativa del corso di dottorato in Fisica e Astronomia, inseribile anche nel curriculum del dottorato in Ingegneria dell’Informazione. Ha avuto una durata frontale di 24 ore, a cui va sommato il lavoro personale che i ragazzi hanno svol-to autonomamente per sviluppare i laboratori (circa 20 ore).

Il corso è stato seguito da 12 dottorandi. Come primo esercizio laboratoriale, è stato chiesto ai par-

tecipanti di dividersi in due gruppi ed elaborare una parte di una puntata radiofonica, della durata di circa 10 minuti, avendo come scopo quello di costruire una micro-puntata. I due gruppi hanno svolto il compito in maniera molto diversa: il primo gruppo ha deciso di fare una “chiacchierata” sugli

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SCIENZE DELLA FORMAZIONE | SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016

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L’ultima domanda del questionario riguardava i nuovi possibili argomenti da inserire nel corso: gli studenti hanno votato come preferenza un laboratorio su una breve presen-tazione divulgativa (tipo TED [11]) e un approfondimento sulla costruzione di un progetto di ricerca di piccola taglia.

CO NCLUSIONI

Il corso è stato seguito con interesse ed è stato molto par-tecipato. Nonostante i molti impegni di studio e ricerca i ra-gazzi hanno bene accolto non solo le lezioni teoriche, ma anche i laboratori, per i quali hanno lavorato con entusiasmo producendo sia le trasmissioni radio, che gli articoli divulga-

tivi, che le presentazioni orali. La valu-tazione ricevuta è soddisfacente.

Cercheremo di superare le critiche e implementare i suggerimenti nel prossi-mo corso 2016-2017, in cui inseriremo la realizzazione di un video su YouTu-be e la scrittura di un piccolo progetto di ricerca, della taglia tipica per una borsa post-doc.

RI FERIMENTI

[1] Abilitazione scientifi ca nazionale Decreto Ministeriale del 7 giugno 2016 n. 120 http://attiministeriali.miur.it/anno-2016/giugno/dm-07062016-(1).aspx

[2] http://attiministeriali.miur.it/anno-2013/gennaio/dm-30012013.aspx

[3] Greco P., Il modello Venezia. La comunicazione nell’era post-accademi-ca della scienza http://ics.sissa.it/con-ferences/csIntroduzione.pdf (1999)

[4] Carrada G., Comunicare la scien-za: kit di sopravvivenza per ricercatori. Sironi Editore (2005)

[5] http://www.fi sica.unifi .it/vp-26- dottorato-in-fi sica-e-astronomia.html

[6] http://www.dinfo.unifi .it/vp-26- dottorati.html

[7] www.unifi .it[8] www.caffescienza.it[9] http://www.novaradio.info/pro-

grammi/radio-moka/ [10] http://podcast.novaradio.info/

2016/04/18/radio-moka-16-aprile- 2016/,

h t tp : / /podcas t .novaradio . info / 2016/04/26/radio-moka-23-aprile- 2016/

[11] https://www.ted.com/

È interessante notare che gli argomenti siano stati valutati come bilanciati, a parte il modulo che riguardava i progetti. Quest’ultimo modulo non ha riscosso molto interesse, probabilmente sono stati trattati principalmente i progetti europei, che hanno una taglia molto grande e sono fuori dall’orizzonte immediato di un dottorando.

Abbiamo infi ne chiesto quale argomento, secondo loro, andrebbe approfondito. Le risposte sono riepilogate nella fi -gura 2 (ogni colore corrisponde ad un voto ricevuto per l’ar-gomento specifi co).

Come evidenziato in fi gura, l’interesse dei ragazzi riguar-da soprattutto, ma non in maniera prevalente, la scrittura de-gli articoli scientifi ci e il laboratorio delle presentazioni orali.

Figura 1: risposte alla domanda: qual è l’argomento che ti ha interessato di più (la richiesta era di ordinare i 6 argomenti, a cui è stato poi assegnato un voto da 1 a 6)

Figura 2: risposta alla domanda: quali argomenti dovrebbero essere approfonditi? (la richiesta era di ordinare i 6 argomenti, a cui è stato poi assegnato un voto da 1 a 6)

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SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016 | POLITICHE INDUSTRIALI

Declino industriale italiano irreversibile? No, se...

RICCARDO GALLOSapienza, Università di Roma

settori industriali di Prometeia disse che negli anni seguenti ci sarebbe stato un aumento degli investimenti industriali1.

La seconda occasione importante fu una mia lezione il 10 ottobre 2011 all’Istituto di Management della Scuola Supe-riore Sant’Anna di Pisa per l’apertura dell’anno accademico. La mia analisi, basata su dati di bilancio d’impresa a fine 2010, integrava e avvalorava la diagnosi fatta tre anni e mez-zo prima, e conteneva un approfondimento critico sulle so-cietà di reti in monopolio. Il giorno dopo, in un servizio su quella mia lezione, Il Foglio titolò “Quelli che non investo-no” e quattro giorni dopo il direttore del quotidiano ci tornò su, dandomi ragione, impietosamente.

In seguito, oltre a una serie di articoli su L’Espresso e su Il Foglio, scrissi un lungo articolo per il Corriere della Sera, che dedicò un paginone alle mie analisi, con due diagrammi, e titolò “Il grande gelo degli investimenti”.

In sede accademica, ho pubblicato alcuni lavori scientifici e presentato i risultati delle ricerche ad alcuni convegni2,3,4.

Nonostante questa mia produzione, nel corso degli anni non sono riuscito ad alimentare un dibattito che riconducesse l’attenzione del policy maker sugli aspetti strutturali e sulla necessità non tanto di politiche di sostegno alla domanda ag-gregata interna, quanto piuttosto di politiche rivolte all’offer-ta e all’ammodernamento dell’apparato produttivo del paese.

Perciò, nella primavera del 2016 ho raccolto e sistematiz-zato tutte le riflessioni da me svolte nel tempo e le ho tra-

1 http://archivio-radiocor.ilsole24ore.com/articolo-611612/industria-inte sa-sanpaolo-prometeia/.2 Gallo R. (2011), Rinuncia alla crescita del sistema produttivo italiano, Economia e Politica Industriale – Journal of Industrial and Business Economics, vol. 38 (2), 148-157.3 Barbaresco G., Gallo R., Mauriello D. (2014), Main Changes in the Growth Process of the Italian Industrial System, Workshop Explaining Economic Change, 12 November 2014, Sapienza Università di Roma, Dipartimento di Economia e Diritto.4 Gallo R. (2016), Industria, Incertezza e Declino. Forse Rilancio?, Società Italiana di Economia e Politica Industriale, XIV Workshop annuale, Sessione 2 Politiche per l’industria in Italia ed Europa, Firenze 4-5 febbraio.

La deindustrializzazione rilevata in Italia nell’ultimo decennio può essere ben misura-ta, per le imprese industriali con più di 20 addetti, da almeno tre elementi: a) la ridu-zione del valore aggiunto rispetto al fattura-

to netto, cioè la riduzione di quanto l’impresa ci mette di suo in quel che vende; b) l’allungamento della vita utile dei mezzi di produzione, nel senso che le imprese tirano il col-lo agli impianti invece di chiuderli; c) il loro conseguente invecchiamento. Se si spinge l’analisi su un arco temporale superiore a dieci anni, se cioè la si prolunga più indietro ri-spetto alle evidenze di deindustrializzazione, si trova che in realtà la caduta degli investimenti tecnici risale a fine 1998. In quell’anno su cento progetti di nuovi investimenti privati ne furono rinviati 84, con percentuali anche superiori se si trattava di iniziative più rischiose ideate nell’alta tecnologia, o da parte di grandi imprese, o in regioni meridionali. Il 1998 fu anche l’anno in cui l’incertezza politica in Italia fu molto alta. Infine, a partire dal 1999 la competitività del paese im-boccò una discesa senza freni, secondo quanto dimostrano i maggiori organismi internazionali specializzati in materia.

È da circa dieci anni che io lavoro su queste analisi. La prima volta ne parlai il 30 maggio 2008 al seminario di Intesa Sanpaolo e Prometeia “L’Industria italiana al 2012”. Sotto-lineai che la caduta degli investimenti dell’ultimo decennio segnalava un processo di deindustrializzazione in corso da tempo. Dissi: «negli ultimi dieci anni le imprese italiane han-no fortemente alleggerito il loro contenuto industriale, han-no rallentato il rinnovamento degli impianti e hanno creato meno ricchezza, ma hanno ridotto i debiti finanziari. In que-sto modo si è proceduto a un indebolimento della struttura in-dustriale del Paese, mentre per il futuro è necessario investire di più e pensare meno a ridurre l’indebitamento». Ricordo che questa mia tesi non fu molto apprezzata, perché etero-dossa. Per esempio, il direttore del Centrostudi di Confindu-stria disse che nel 2012 ci sarebbe stato meno made in Italy e più made by imprese italiane. La responsabile dell’analisi

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Il 1998 fu anche l’anno a partire dal quale il nostro paese andò perdendo competitività. Esistono diversi indici inter-nazionali che la misurano, ma un po’ tutti concordano sul datare al 1998-99 l’inizio del deterioramento della compe-titività dell’Italia. Anche da questo versante, tuttavia, nella graduatoria 2015 il nostro paese ha fatto un apprezzabile balzo all’insù.

La perdita di competitività è il risultato di tante cose, dalla politica fiscale al debito pubblico, dall’inefficienza della Pubblica Amministrazione all’aumento del costo di reti e servizi a carico delle imprese industria-li. Ebbene, in Italia, le società di rete gas, rete elettrica e autostrade beneficiano di ta-riffe generose che non sono determinate dal mercato perché sono regolate da autorità am-ministrative. Queste società presentano per-formance economiche strabilianti, al punto tale che è lecito immaginare esistano margini ampi di riduzione delle tariffe stesse, che le autorità amministrative non riducono. Anzi, a questo punto si impone una riflessione sulle autorità di regolazione, guidate in passato da

vertici non sempre indipendenti dalla politica.Normalmente, nella pianificazione strategica, i vertici

aziendali affrontano la decisione se fare o no investimenti tecnici in nuovi mezzi di produzione. Se la politica economi-ca del paese che dovrebbe ospitare i nuovi investimenti ha un livello di incertezza accettabile, se cioè è abbastanza stabile e credibile, allora le aziende valutano il rischio fisiologico insito nel business e varano gli investimenti; se invece l’in-dicatore del livello di incertezza del paese è troppo alto (una sorta di inverso della fiducia delle imprese), allora le aziende rinviano gli investimenti a tempi migliori. Nel 1998 in Ita-lia fu misurato dall’Isae un incremento dell’incertezza tanto elevato da scoraggiare la stragrande maggioranza dei nuovi investimenti, specie quelli in progetti ad alta tecnologia, in imprese grandi, nel Mezzogiorno.

Il 1998 fu dunque l’anno al tempo stesso di inizio della caduta degli investimenti delle imprese industriali, di inizio del deterioramento della competitività del paese, di raggiun-gimento della massima incertezza nella politica economica e istituzionale. D’altronde, a ben riflettere, tra il 1990 e il 1998 in Italia, sotto la pressione della Commissione europea e del mercato unico, erano venute meno molte certezze pluride-cennali, erano stati smantellati uno dopo l’altro i principali strumenti dell’intervento pubblico nell’economia che il regi-me fascista sessant’anni prima aveva allestito per arroccare, proteggere e isolare l’Italia dagli effetti della crisi di borsa e finanziaria mondiale del 1929.

Dopo la seconda guerra mondiale tutti quegli strumenti, previa qualche correzione ideata dai governi illuminati dei primi anni Cinquanta, avevano consentito all’Italia di entra-re nel novero dei paesi industrializzati, ma poi erano stati asserviti alla gestione del potere dal partito di maggioranza relativa. È il caso: dell’IRI, primo dei tre enti a partecipazio-

sfuse nel pamphlet a mia firma: Torniamo a industriarci, a novant’anni dalla grande crisi, Guida Editori, Napoli. Ne riepilogo le conclusioni.

Nell’ultimo quarto di secolo, l’industria italiana comples-sivamente ha perso contenuto, il suo valore aggiunto è dimi-nuito rispetto al fatturato molto più della media europea, si è quasi dimezzato, diciamo che l’industria si è un po’ com-mercializzata, compra e rivende mettendoci non molto di suo. Nel 2014, tuttavia, questo processo di impoverimento si è fermato e il valore aggiunto ha recuperato un piccolo punto percentuale.

L’ultimo forte aumento del contenuto industriale c’era stato tra il 1980 e il 1988, nonostante neanche il governo dell’epoca avesse una moderna politica industriale, vi-sto che si limitò a introdurre incentivi all’in-novazione tecnologica, peraltro quasi tutti a beneficio delle imprese del Nord e non certo di quelle del Mezzogiorno. In quegli anni il merito della crescita, se così si può dire, fu della spesa pubblica di parte corrente che co-minciò a crescere in misura patologica, ali-mentando un debito abnorme.

La diminuzione del valore aggiunto misurata tra la fine de-gli anni Ottanta e la fine dei Novanta fu in parte conseguenza del processo di decentramento di funzioni aziendali che, a partire dalle imprese lombarde, diede origine al cosiddetto Terziario Avanzato e fu fisiologica perché rappresentò la ri-sposta competitiva italiana a cambiamenti nell’organizzazio-ne industriale che si andavano affermando in campo mondia-le. Una netta e chiara deindustrializzazione cominciò invece alla fine degli anni Novanta. La ragione di questo processo negativo è facilmente individuabile in una caduta degli inve-stimenti, che a partire dal 1998 si mantennero inferiori per-fino all’autofinanziamento (somma di ammortamenti e utili non distribuiti) e nonostante lo stesso autofinanziamento an-dasse calando. Calava perché i mezzi di produzione, via via che arrivavano alla fine della loro vita utile, invece di essere rimpiazzati, continuavano a restare in funzione senza dover essere ulteriormente ammortizzati; calava anche perché gli utili di gestione venivano svuotati da dividendi massiccia-mente distribuiti agli azionisti.

Lungo questo percorso di declino industriale, tuttavia, le aziende miglioravano la loro efficienza di gestione, salvava-no una sia pur solo apparente redditività (apparente perché in realtà ottenuta senza accantonare grossi ammortamenti), rim-borsavano i debiti e, contrariamente a quanto comunemente si pensi, rafforzavano il loro stato di salute patrimoniale e finanziario. Insomma, un po’ paradossalmente, le imprese invecchiate chiudevano i battenti in buone condizioni e lo fa-cevano sol perché gli imprenditori perdevano slancio e pro-pensione al rischio. La perdita di occupazione nelle medie e grandi imprese industriali italiane può essere stimata pari a un terzo di quella esistente all’inizio della deindustrializza-zione.

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governo, Confindustria non è mai stata in grado di impegna-re il comportamento imprenditoriale dei propri associati, né avrebbe potuto farlo perché questi restavano legittimamente gelosi della propria autonomia.

Per non citare il comportamento di chi, come la FIAT di Marchionne, ha perseguito una multinazionalizzazione dar-winiana, senza intervento dello Stato e addirittura contro il sindacato di imprenditori e lavoratori. Si è trattato in questo caso di un modello dirompente, di grande successo, ma diffi-cilmente replicabile sul grosso dell’industria italiana.

Nella primavera del 2014 il governo oggi in carica esor-dì puntando a rafforzare la domanda interna e, per questa via, a innescare una ripresa della produzione industriale e quindi dell’occupazione. Quella scelta fu di portata limitata, ma efficace. La successiva azione del governo, impostata su riforme idonee a migliorare la posizione competitiva del pa-ese, dal Jobs Act alla riforma dell’articolo 18 e alla riforma elettorale, contribuì a diminuire l’incertezza delle imprese. In senso opposto agirono gli squilibri geo-politici internazio-nali, sfociati nel crollo delle quotazioni del greggio.

Nel mese di marzo 2016 sono emerse due importanti novi-tà, entrambe mirate a organizzare risorse a medio-lungo ter-mine per far credito agli investimenti produttivi. Innanzitutto, il governo italiano offre un incentivo fiscale alle famiglie che incanalino il proprio risparmio verso investimenti produttivi in modo stabile e duraturo. Inoltre, la BCE non solo incentiva le banche che fanno credito alle imprese ma, soprattutto, a partire da metà 2016 acquista bond aziendali emessi da im-prese purché queste abbiano un rating “investment grade”. I problemi del finanziamento degli investimenti industriali sembra così risolto definitivamente.

Resta invece insoluto l’altro corno del dilemma, quello ben più importante, direi esistenziale, della propensione de-gli imprenditori a intraprendere, a investire. Questo dilemma

ne statale; dell’IMI, principale istituto di credito industriale; del protezionismo di mercato; del Comitato di ministri per il coordinamento della politica industriale. Questo smantel-lamento dell’intervento pubblico e la fine delle svalutazioni competitive della moneta, dovuto allo sfavorevole anco-raggio della lira al marco tedesco a fine 1996 e all’ingresso nell’euro due anni dopo, non furono compensati da alcun nuovo modello di governance dell’industria. Anche la con-certazione, dopo una prima efficace applicazione nel 1993, subì poi un grave colpo con il fallimento del governo che (anche in questo caso a fine 1998) l’aveva presa a sostanza del suo programma.

Seppure consentirono all’Italia di entrare nel novero dei paesi industrializzati, le partecipazioni statali non contribu-irono alla crescita di un tessuto produttivo del paese suffi-cientemente robusto e competitivo. Considerando poi che la seconda e la terza generazione sono meno innovative di quella dei fondatori delle imprese, invece di difendere osti-natamente imprese vecchie, lo Stato fa molto meglio a creare le condizioni perché nascano nuove giovani imprese.

La Confindustria, parlando a nome dei suoi associati, ha sempre chiesto al governo cose giuste ma, per così dire, ha chiesto di tutto e di più, da un maggior credito bancario a un aiuto per ricapitalizzare le imprese, dalla ricerca all’inno-vazione tecnologica, da una riforma del mercato del lavoro a una della Pubblica Amministrazione, dalla giustizia civile alle opere infrastrutturali, dalla politica commerciale estera al fisco, da scuola e sanità ai beni culturali, dalla politica estera fino al taglio del costo della politica. Ha chiesto tutte queste cose senza la benché minima autocritica, senza un ordine di priorità, senza indicare il bandolo della matassa, con l’im-plicita supina accettazione che il governo, volendo magari accogliere le istanze ma non avendo abbastanza soldi, faces-se poco di tutto, cioè alla fine nulla. Nell’interloquire con il

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cia dica pubblicamente in estrema sintesi qual è la priorità ragionevole e più prioritaria (mi scuso per l’espressione); quella che, una volta impostata nei tempi tecnici, consenta finalmente alle nostre imprese di sprigionare tutte le loro po-tenzialità, tornare a investire e cogliere le enormi potenzialità che il mercato globale offre.

Con la recente legge di bilancio 2017, approvata il 15 otto-bre 2016, il governo da un lato ha insistito in misure a favore della domanda pubblica aggregata (“Pacchetto previdenza”, pensioni, aumento della quattordicesima eccetera), dall’al-tro ha recepito alcune delle mie proposte sopra richiamate, dal lato dell’offerta. Per esempio: ha prorogato il cosiddetto Superammortamento 140% sugli investimenti in beni stru-mentali; lo ha innalzato al 250% su quelli ad alta tecnologia; ha rifinanziato il Fondo garanzia per attivare crediti bancari a sostegno delle piccole e medie imprese. Infine, ha posto una certa enfasi sull’obiettivo di recupero della competiti-vità del paese. Si tratta, da una prima sommaria lettura, di un’impostazione multipla, sintetizzata nello slogan del go-verno “competitività e merito, ma anche solidarietà”, tesa a obiettivi aventi ciascuno una misura inevitabilmente ridotta.

è legato all’incertezza, alla competitività del sistema Italia e alla convenienza economica. Faccio qui alcune proposte, due sul piano istituzionale e due su quello della convenienza economica.

Sul piano istituzionale, parto da quanto sollecitato dalla BCE, secondo cui «il contesto regolamentare dovrebbe es-sere reso più favorevole alla crescita economica». In primo luogo, sarebbe opportuno che il governo elaborasse una road map per l’ulteriore recupero della competitività del sistema produttivo, l’approvasse e affidasse a un ministro il compito di svolgere la verifica della sua attuazione e un’opera di sol-lecito (expediting) nei confronti di tutte le amministrazioni in qualunque modo competenti in materia, riferendone siste-maticamente in Consiglio dei ministri e proponendo se del caso l’adozione di eventuali misure correttive. Poiché con la soppressione del Cipi (sia chiaro, senza rimpianti) si è per-so un momento di coordinamento della politica industriale, poiché per politica industriale oggi si deve intendere quella della competitività del sistema produttivo, senza tentazioni di vetero-interventi diretti dello Stato nell’economia, e poi-ché il Ministero dello Sviluppo economico ha una capacità organizzativa e professionale ben superiore all’odierno ruolo di gestore delle crisi aziendali, sarebbe a mio giudizio oppor-tuno che questo compito di verifica e sollecito fosse affidato proprio al ministro dello Sviluppo economico.

In secondo luogo, il Parlamento dovrebbe accertare perché le tariffe di reti e servizi sono tanto alte e sproporzionata-mente remunerative per le società che li gestiscono. Poi, sul-la base delle risultanze di un simile accertamento, dovrebbe riconsiderare l’assetto istituzionale delle rispettive autorità di regolazione del mercato.

Sul piano della convenienza economica, parto dal mio convincimento che sarebbe sbagliato prendersela con una categoria, per esempio con gli imprenditori. Se essi dal 1998 sono fiacchi nella loro attitudine precipua, che è quella di in-vestire, vuol dire che sono venute meno le condizioni dell’e-cosistema che ne consentono le convenienze e la stessa so-pravvivenza della specie. Allora, il governo eccezionalmente consenta a tutte le medie imprese industriali di ammortizzare i nuovi eventuali investimenti del biennio 2017-2018 con coefficienti liberamente scelti, superiori ai massimi fiscali, fino magari a spesarli direttamente nel conto economico di ciascuno dei due esercizi. Così, per un paio d’anni, le im-prese investirebbero con entusiasmo, detrarrebbero le spese d’investimento, azzererebbero i loro già scarsi utili imponi-bili, non distribuirebbero dividendi, pagherebbero poche o nulle tasse sul reddito, il Fisco ci rimetterebbero un po’ ma poi, per tutta la vita dei nuovi impianti produttivi, nati già ammortizzati, gli utili e le maggiori entrate tributarie più che compenserebbero gli azionisti e il Fisco stesso. Il cosiddetto Superammortamento varato dal governo nella Legge di sta-bilità 2016 è risultato corretto nella qualità, ma insufficiente nella misura.

In secondo luogo, avendo raccolto il più ampio consenso tra i suoi elettori, conoscendone perciò timori e speranze re-condite, il nuovo presidente di Confindustria Vincenzo Boc-

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Cristianesimo4. Durante tutto il Medioevo, la forza del cri-stianesimo ha omogeneizzato gli Stati d’Europa e serviva an-che a marcare la linea di contrapposizione tra le terre europee cristianizzate, l’Africa saracena e l’Asia5. Artefice di questo concetto di Europa fu soprattutto l’Impero carolingio. Carlo Magno fu dunque il creatore di un «abbozzo» di Europa. Ma per veder formulato un concetto che vada al di fuori del mito, della geografia, della religione ed evidenzi i caratteri peculia-ri di questo continente dobbiamo aspettare il Rinascimento con una delle sue più brillanti figure: Niccolò Machiavelli6. Per il pensatore fiorentino, il tratto distintivo europeo, era il modo di organizzazione politica. Non solo, l’Europa voleva dire virtù individuali che si contrapponevano al dispotismo asiatico7. Machiavelli, su questo aspetto di antitesi tra mondo

4 Riguardo al cristianesimo come fattore di identificazione e ampliamen-to dei confini europei si vedano i lavori di: F. Guizot, L. von Ranke, C. Dawson, D. Hay, P. Brezzi, R. Morghen, B. Geremek, N. Davies.5 B. Geremek: “Le radici comuni dell’Europa”, Il Saggiatore, Milano, 1991, pp. 56-57.6 F. Chabod: “Storia dell’idea d’Europa”, Economica Laterza, Bari, 1995, p. 48.7 Ivi. p. 51.

La concezione di Europa e i suoi confini GIUSEPPE MEDAU

I confini geografici dell’Europa sono tutto-ra incerti, almeno nella sua parte orientale. Nessuno, infatti, è ancora riuscito a stabi-lire con esattezza dove finisce l’Europa e dove comincia l’Asia. Vi è un confine

convenzionale che designa la linea immaginaria che dagli Urali va fino al Mar Caspio. Quest’asse imma-ginario è cambiato con il tempo ed è stato accetta-to solo nell’Ottocento. Lucien Febvre considerava questo confine arbitrario e aleatorio, più una porta aperta che un vero e proprio confine1.

Oltre alla definizione di confine dell’Europa, più in generale, è il concetto di separazione dei conti-nenti stessi a essere piuttosto arbitrario. Spesso il confine si rifà a congetture di tipo storico, geogra-fico, etnico o politico. Confini che sfumano, si toccano e si rimescolano nella loro fluidità. Come ci fa notare Coglitore: «qualunque cosa sia stata “Europa” nel corso dei secoli, si è trattato sempre di un’entità geografica, politica e socio-culturale particolarmente fluida»2. Dentro questi confini can-gianti, però, vi risiedono delle comunità che percepiscono se stesse come europee e, chi non possiede i valori appartenenti a tale comunità, è percepito come «altro». L’insieme di va-lori che crea la visione delle cose in una comunità può essere definita come «identità».

Quando è nato, dunque, il concetto politico di Europa? Come si è evoluto nel tempo? La storiografia è concor-de nell’affermare che gli eventi fondamentali della nascita dell’Europa siano stati la caduta dell’Impero romano3 e il

1 L. Febvre: “L’Europa. Storia di una civiltà”, Donzelli, Roma, 1999, p. 98.2 M. Coglitore: “I confini dell’Europa. Globalizzazioni, conquiste, tecno-logie tra Ottocento e Novecento”, Cafoscarina, 2012, p. 16.3 Questa tesi, ripresa da più storici, è da attribuirsi principalmente a Marc Bloch. Emblematica la sua frase : «L’Europa sorge quando l’Impero roma-no crolla», in “Annales d’histoire économique et sociale”, p. 479.

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enormi. Si scoprirono giacimenti di metalli preziosi nelle Americhe, che mutarono nel profondo la società del vecchio continente. Come fa notare il Cipolla infatti:

Una parte del metallo, probabilmente un 25 per cento, fu trasferito in

Europa come reddito della Corona e con sovrani come quelli spagnoli

ossessionati dall’idea della Crociata cattolica questa parte del tesoro

fu immediatamente spesa, trasformata in domanda effettiva di servizi

militari e di erami e vettovaglie. L’altro 75 per cento del tesoro arrivò

in Europa come domanda effettiva di beni di consumo e di beni capi-

tali – soprattutto vino, olio, tessuti, sandali, cappelli, sapone, mobili,

attrezzi vari, gioielli, vetro, ecc. […]

Questa domanda con i suoi effetti moltiplicatori venne a coincidere

con un generale aumento della popolazione europea durante tutto il

secolo XVI12.

La Turchia musulmana era sicuramente un nemico, ma senza la precedente conquista arabo-islamica, sarebbe stato difficile questo slancio dei popoli europei. Infatti, i contatti con gli arabi, avevano elevato il livello tecnologico e scienti-fico della retrograda Europa medievale13. La penisola Iberica era il punto di contatto (e di scontro) tra le due civiltà. Come ci fa notare Schreiber:

In un bosco vicino all’odierna Padròn […] erano state viste delle luci

notturne e forme angeliche scendere dal cielo. E quando di lì a poco

trovarono nella macchia il cadavere incorrotto di un uomo sconosciu-

to, quel piccolo territorio costantemente minacciato dall’Islam cre-

dette che le spoglie mortali di un santo fossero venute dall’oriente.

Il devoto sovrano fece propria tale convinzione e ordinò che qualche

miglio più lontano costruissero un santuario di legno, ove i pellegrini

potessero pregare sulla tomba dello sconosciuto.

Probabilmente, così facendo, Alfonso contribuì alla Reconquista della

Spagna più che con le sorprendenti gesta di guerriero, poiché il pel-

legrinaggio a quel sepolcro fece nascere in tutti i cavalieri occidentali

l’impegno di liberare la penisola iberica14.

Nacque così Santiago de Compostela. Luogo simbolo di culto tutt’oggi e luogo del passato come emblema della ri-conquista dei confini.

In sostanza, l’affermarsi del concetto politico di Europa in età moderna, è strettamente collegato con una nuova e di-versa visione che si instaura nella società europea, dovuta agli sconvolgimenti derivati dall’innovazione tecnica, dalle scoperte geografiche, dall’espansione economica, dalla ri-flessione politico-istituzionale. È il secolo della rivoluzione scientifica, che continuerà anche per parte del XVII secolo.

Verrà un po’ meno quella Christianitas permeante e unifi-catrice, anche a causa dello scisma e della Riforma. I cristiani si dividono e si lanciano anatemi gli uni contro gli altri. L’u-nità cristiana non esiste più. Ciò non significa che la religio-

12 C. M. Cipolla: “Storia economica dell’Europa pre-industriale”, Il Mu-lino, Bologna, 2002, pp. 331-332.13 J. H. Parry: “Le grandi scoperte geografiche 1450-1650”, Il Saggiato-re, Milano, 1994, p. 39.14 H. Schreiber: “Gli arabi in spagna”, Garzanti, Milano, 1982, p. 94.

europeo e asiatico, si rifaceva a un’antica concezione greca. Come ci fa notare Duccio Balestracci infatti:

Per la cultura greca “Europa” sono le terre intorno al Mediterraneo

[…] Ogni altra idea di Europa è inesistente […] Se c’è un contenu-

to, questo non è tanto la consapevolezza di appartenere a una “terra”

diversa, quanto a una “civiltà” differente da quelle che circondano il

mondo ellenico e, in modo particolare, da quella che maggiormente è

avvertita in termini antagonistici: la cultura asiatica8.

Anche la cultura latina non farà passi in avanti sulla consa-pevolezza dell’identità territoriale e politica europea, e anche nella loro concezione è l’alterità (militare) a farla da padrona.

Dunque, Machiavelli, pur rifacendosi ad alcune antiche tradizioni concettuali del passato, mutua un vago e aleatorio concetto in un pensiero decisamente più organico. Il primato politico che veniva delineato sarà d’ora in poi fondamentale per la storia d’Europa. Nel Settecento Voltaire arrivò addi-rittura a dire che l’Europa (eccetto la Russia), appariva da lungo tempo come una specie di Repubblica suddivisa in più Stati (alcuni monarchici, altri misti, altri popolari), ma tutti collegati gli uni con gli altri, tutti con uguale fondamento religioso, tutti con gli stessi principi di diritto pubblico e di politica che erano sconosciuti ad altre parti del mondo9.

A contribuire a questa presa di coscienza fu sicuramen-te il ribaltato rapporto di forza tra l’Europa occidentale e il resto del mondo. Dopo secoli di profonda stagnazione dalla caduta dell’Impero romano, il Cinquecento rappresentò, gra-zie alle esplorazioni geografiche, il secolo in cui cominciò la supremazia europea. Le genti d’Europa sono consapevoli di aver mutuato dalla concezione umanistica un nuovo modo di vivere e guardare le cose: sono nate una nuova educazione, una nuova immagine dell’uomo, una nuova concezione del mondo attraverso la progressiva espansione del rinnovamen-to cominciato in Italia10. Il Burckhardt, sull’evoluzione so-ciale, individuale e politica dell’Italia ebbe a dire: «Nell’in-dole delle repubbliche e dei principati […], risiede, se non l’unica, certo la più potente causa per cui gli Italiani, prima di ogni altro popolo, si trasformarono in uomini moderni e meritarono di essere detti i figli primogeniti della presente Europa11». L’indole a cui Burckhardt si riferiva era l’indole politica, critica e analitica di cui si è già parlato. L’indole che permise di trasformare delle città in Stati moderni.

Dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1453, sembrava che i Turchi potessero conquistare il cuore dell’Europa, ma ina-spettatamente Portoghesi, Spagnoli, Olandesi e Inglesi riu-scirono ad aggirare il blocco turco lanciando offensive sugli oceani in più ondate, e in poco più di un secolo gettarono le basi della supremazia europea su scala mondiale. La ful-minea espansione transoceanica europea ebbe conseguenze

8 D. Balestracci: “Ai confini dell’Europa medievale”, Mondadori, Mila-no, 2008, p. 10.9 F. Chabod: op. cit., p. 56.10 E. Garin: “La cultura del Rinascimento”, EST, Berlino, 1996, p. 68.11 J. Burckhardt: “La civiltà del Rinascimento in Italia”, Newton, Roma, 1994, p. 113.

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mezzo a questi due poli vi erano, poi, tutta una serie di Stati con diverse soluzioni politico-istituzionali, alcuni anche di difficile classificazione.

Ma cos’era questo assolutismo contro cui le migliori menti europee si scagliarono ferocemente? Era una formula politi-ca sicuramente meno autocratica rispetto a quella degli zar o dei sultani. Esso affondava le sue radici nel periodo tardo feudale, in cui le monarchie avevano dovuto combattere i privilegi delle province e delle nobiltà, e nel mondo catto-lico, dove la Chiesa era rimasta immune da ogni controllo politico diretto. In realtà, una definizione univoca di assolu-tismo non esisteva, lo Stato assoluto per antonomasia, però, era quello francese in cui regnava Luigi XIV (1643-1715).

L’illuminismo secondo Kant fu il periodo dello sviluppo della civiltà europea in cui l’umanità abbandonò il suo sta-to di immaturità autoinflitta19. Frase decisamente forte, e in parte, vera. Se per «maturità civile» si intende l’abbandono di dogmi e la ricerca di risposte attraverso la verificabilità e le evidenze, sì, l’Europa aveva raggiunto la propria maturi-tà. Insomma, era stata raggiunta la nascita della razionalità scientifica. La Francia, da questo punto di vista, era la na-zione modello, che su iniziativa statale incentivava la ricerca scientifica e tecnologica attraverso accademie e società, le quali oltre ad essere presenti in gran numero sul suolo fran-cese, nacquero in altri Paesi d’Europa e anche al di fuori di essi20. Secondo lo storico dell’economia Mokyr, però, i pro-gressi tecnologici e le invenzioni francesi non riuscirono a svilupparsi pienamente in Francia, ma in Inghilterra. Ciò era dovuto, secondo Mokyr, al fatto che la Gran Bretagna vanta-va una forza lavoro molto meglio qualificata, e un sistema in grado di realizzare sul piano tecnico queste idee sviluppando i progetti sulla carta21.

Non solo, come si è già detto, la critica al potere costituito oltre a diventare organica, vedeva anche la partecipazione attiva delle masse popolari.

Attraverso i racconti di viaggio, poi, la nozione di superio-rità europea diventa diversità. Come ci fa notare Bourguet infatti:

L’esplorazione degli oceani, intraprende quella dei continenti e fonda

per l’Europa, con carte, disegni, erbari e collezioni, la materia di un

sapere enciclopedico sul mondo; e tuttavia molto diversa dal trionfo

conquistatore che caratterizza il XVI e il XIX secolo: dalle ricerche

condotte fino agli estremi confini del pianeta, gli esploratori, più che il

possesso vittorioso di terre nuove, riportano una messe di sementi e di

piante, un’immagine completa del globo e la fine di alcuni miti come

quelli delle terre australi e del buon selvaggio22.

Uno degli artefici di questo cambiamento fu sicuramente Montesquieu. Con il suo «viaggio immaginario» attraverso

19 Ivi. P. 666.20 M. Vovelle (a cura di): “L’uomo dell’Illuminismo”, Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 212-213.21 J. Mokyr: “Intervista a Joel Mokyr” in “Il Mulino”,n. 1/16, p. 144, Società Editrice il Mulino, Bologna.22 M. Vovelle: op. Cit. p. 283.

ne cristiana fu abbandonata ma che fu rilegata gradualmente alla sfera privata degli individui. Scienziati, artisti, filosofi, scrittori, svilupparono una forma mentis autonoma e anche i princìpi politici si liberarono del controllo della Chiesa15. In questo modo si sviluppò una critica svincolata dai dogmi ecclesiastici che poté esprimere una mentalità di tipo critica e analitica.

Il Rinascimento fu sicuramente un’età fortemente inno-vativa, ma rimaneva ancorata alle epoche passate cui fare riferimento. La classicità era considerata come modello di verità assoluta. Siamo dunque ancora lontani dalla mentalità illuministica e dal concetto moderno di «progresso». Questa forma mentis scientifica si presenterà nel secolo XVII, con la battaglia tra «antichi» e «moderni», i primi sostenevano il dogma dell’autorità e l’onniscienza dei classici, i secondi propugnavano il metodo di una ricerca critica e sperimentale ed evidenziavano le incoerenze degli scrittori antichi. Era il preludio delle «scienze dure». Non solo. Si passò, in mol-te aree, da attività puramente pastorali a quelle agricole più complesse, si svilupparono altresì governi stabili e la città fu presa come modello del vivere civile. Chiunque non viveva secondi tali valori era considerato incivile, non europeo. Un altro fattore importante erano i costumi, la vita sociale: gli scrittori francesi di quell’epoca sono soventi marcare la dif-ferenza tra nudità indiana e vestiti europei, tra la semplicità indiana e la raffinatezza europea16.

Uno dei motivi di differenziazione tra Europa e resto del mondo, per gli illuministi francesi, sarà proprio il modo di vivere delle diverse società. Anche i viaggi transoceanici, ovviamente, contribuiranno a risaltare il dualismo tra civiltà e inciviltà. L’Europa del XVII secolo è cambiata dal secolo precedente. Prima vi erano dei regni, ora, sempre di più, vi sono Stati monarchici regolari, con abbozzi di nazioni ai loro interni. Grazie a questa evoluzione la frammentazione feuda-le diminuisce. Le dinastie sono di meno numericamente ma più potenti. Le guerre (grazie anche al miglioramento delle armi e delle tattiche di combattimento) sono più devastanti. I sovrani cercano di non essere inglobati da altri sovrani. In questo modo nasce un equilibrio europeo17.

Nel Settecento, invece, vi fu una critica endogena rivolta all’Europa. Si ribalta addirittura la prospettiva delle cose: si criticano in modo violento le istituzioni dell’ancien regime. Il Settecento, oltre ad essere l’età della rivoluzione, parados-salmente, fu anche l’età dell’assolutissimo. La realtà, però, era enormemente più complessa rispetto a questa dicotomia. Innanzitutto la varietà dei sistemi politici esistenti era piut-tosto vasta e differenziata, gli Stati che erano davvero asso-lutisti erano in realtà una minoranza18. Tra i due estremi, ad esempio, possiamo annoverare la Confederazione elvetica e lo Stato della Chiesa. La prima decentralizzata, repubblicana e con una costituzione, la seconda totalmente autocratica. In

15 N. Davies: “Storia d’Europa”, Paravia Bruno Mondadori Editori, Mi-lano, 2001, p. 522.16 F. Chabod: op. cit., p. 75.17 L. Febvre: op. cit., p. 189.18 N. Davies: op. cit., p. 644.

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stretto di uomini colti, letterati, pensatori di sovente ricchi.

Sul perché, poi, questa rivo-luzione sia sbocciata in Euro-pa, tanto si è scritto, ma capire nel profondo cosa ha scatenato una rivoluzione di questo tipo è tutt’altro che agevole e non è questo lo spazio per dirime-re questo tipo di questione. Ci limiteremo a dire che l’Europa (la Francia in particolare) vi-veva in un clima di profonda inquietudine dovuta alla crisi finanziaria ed economica. L’e-sempio per una rivoluzione, però, venne dal di fuori dei con-fini europei: dall’America. Ne-gli Stati Uniti, infatti, la guerra

d’indipendenza (1776-1783) ebbe una vasta eco anche nel vecchio continente. Se gli americani si ribellarono contro la vecchia patria britannica, che non era sicuramente la patria del dispotismo, come si sarebbe dovuto considerare gli altri sovrani europei? Gli americani non volevano essere tassati senza rappresentanza in parlamento, in Europa quasi tutta la popolazione era tassata senza avere neanche un parlamento.

Nella seconda metà del secolo XVIII si affermerà veemen-temente un’idea altrettanto rivoluzionaria ma, forse, meno utopistica: l’idea di nazione. Questo sostantivo, che già si usava nel medioevo con altri significati, diventa da fatto cul-turale a fatto politico. Nella prima metà del secolo XVIII il termine Europa lo si trova un po’ dappertutto, verso la fine dello stesso secolo comincia invece a prendere piede il so-stantivo nazione, sostantivo che prende piede negli ambienti popolari, nell’esercito. L’uomo non può essere libero se non è cittadino, cittadino di una nazione, nazione costituita dal popolo. Come scriveva il Morandi su «L’idea dell’unità po-litica d’Europa nel XIX e nel XX secolo»:

Le lotte nazionali così aspre e diverse, in Italia, in Germania, nei

Balcani, nel mondo slavo, se da un lato favorivano il sorgere e il

diffondersi di ideali comuni, vibranti d’una solidarietà collettiva di

sentimenti e di speranze, dall’altra esasperavano certe caratteristiche

e tendenze dei singoli popoli, acuivano il distacco di alcuni Stati dagli

altri27.

In sostanza, dunque, il nazionalismo sacrificò il mito di un’Europa unitaria per quello più circoscritto della patria. Gli ideali europeistici cominciarono ad essere visti come ef-fimeri ed aleatori. Vi è, dunque, una forma mentis che va contro i principi universalistici illuministi: si va contro la ragione tipica dei pensatori settecenteschi rivendicando gli aspetti emotivi e sentimentali, contro le tendenze a livellare

27 P. Brezzi: “Realtà e mito dell’Europa: dall’antichità ai giorni nostri”, Studium, Roma, 1954, p. 93.

la Persia, il pensatore francese (l’opera si chiamava per l’ap-punto Lettres persanes, 1721), ci parla di Francia e di Europa tutta. A differenza del continen-te asiatico, in quello europeo vi era sicuramente più libertà, ma il modo in cui i governanti europei applicano la «ragion di Stato», è causa di grave malcon-tento. Il malcontento è dovuto soprattutto alla corruzione, che si rivolge contro lo stesso re di Francia Luigi XIV. Per ciò che riguarda quello che potremmo definire l’organizzazione della società, il Montesquieu cita la passione per il lavoro e per l’ar-ricchirsi23. Il commerciante di questa epoca, infatti, vive un’età florida, grazie al notevole impulso dato dagli scambi commerciali e dall’apogeo delle borghesie portuali24. Osservazioni che ritroveremo poi nel celeberrimo libro di Max Weber: «L’etica protestante e lo spirito del capitalismo». Questo fattore di sviluppo è dato dall’enorme progresso della scienza e della tecnologia e an-che dai nuovi metodi di organizzazione del lavoro. Queste sono altre caratteristiche marcatamente europee che dal Cin-quecento vanno sempre più espandendosi e implementando-si. Voltaire, grossomodo, vede la stessa Europa di Monte-squieu, anche se le sue domande sull’Europa sono diverse. Si chiede, infatti, se l’Europa contemporanea valga di più di quell’antica. L’antichità riverbera ancora la sua forza, ma il filosofo francese comprende che il progresso dell’Europa moderno, nel suo insieme, non è mai stato raggiunto da nes-sun altro. Comunque per Voltaire ciò che contraddistingue maggiormente gli europei dai non-europei sono i costumi: religione, ordinamento, governo, cibo, abiti, maniera di scri-vere, di esprimere, di pensare. Come ebbe a dire nel Saggio sui costumi del 175625.

Tra i pensatori illuministi che non tracciano solo differen-ze e si limitano ad una disamina, seppur approfondita, tra i diversi continenti, c’è Rousseau. Rousseau è portatore di una nuova concezione riguardo i confini nazionali, sostenendo che non vi fossero più francesi, tedeschi, spagnoli o inglesi, ma che vi fossero solo gli europei26. Anche se per Rousseau questo non era un bene, anzi. Il pensatore svizzero si chie-deva dove avrebbe portato questo appiattimento dei costumi che faceva sembrare gli europei tutti uguali.

La concezione di Europa di tutti gli illuministi, a prescin-dere da alcune divergenze, è una concezione decisamente elitaria. L’Europa dei pensatori illuministi è un concetto ri-

23 F. Chabod: op. Cit., pp. 97-98-99-100-101.24 M. Vovelle: op. Cit. p. 118.25 L. Febvre: op. cit., p. 204.26 Ivi. P. 206.

Montesquieu

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europea32. Ma l’effetto sulle masse era ininfluente, le masse nell’Ottocento erano povere e incolte, le questioni che pote-vano sembrare lontane e non potevano risolvere nell’imme-diato gli enormi problemi che le affliggevano non erano prese in considerazione. La politica degli Stati andava in tutt’altra direzione, anteponendo i propri interessi a discapito delle altre nazioni. La realpolitik, chia-ramente, si configurava come l’antitesi della comunità euro-pea. Dopo il 1870, dunque, più che comunione europea si do-vrebbe parlare di antagonismi europei.

Il Novecento fu il «secolo delle nazioni», ma, per quel-lo che riguarda la concezione dell’Europa, fu sicuramente anche il «secolo della disillusione». Infatti entrambe le due guerre mondiali segnarono il declino intercontinentale del Vecchio Mondo a favore di quello Nuovo. Le colonie, nel corso di questo secolo, vengono progressivamente perdute. Ma è proprio questa situazione di subalternità che diede la spinta ad una maggiore integrazione politica europea. Nel 1930 Aristide Briand indirizzò un memorandum alle can-cellerie europee per proporre la costituzione di una Union fédérale européenne. Si trattava sostanzialmente di un patto che affermasse l’unione morale tra i popoli europei e la soli-darietà tra gli Stati. Si tennero tre riunioni che portarono ad una organizzazione per scopi economici. Vi fu una conferen-za europea sui cereali, che finì in un nulla di fatto, ed il pro-getto di Briand, affidato a un «Comitato di studi per l’unione europea», fu subito abbandonato.

Dopo la seconda guerra mondiale l’Europa continuava ad essere divisa, stavolta in «blocchi». In Europa occidentale, però, la discussione sull’interazione politica continuò. Nel 1949 fu creato il Consiglio d’Europa, nel 1957 fu istituita la Cee. L’Europa riuscì così, almeno sul piano economico, a ritrovare un nuovo slancio, che la pose ai vertici del Pil mondiale. I membri iscritti alla Cee via via aumenteranno.

Il Consiglio d’Europa cominciò le sue attività (promuo-vere l’identità e l’unità europea) a Strasburgo con dei limiti evidenti dovuti alle riserve britanniche. Il consiglio era gesti-to da un comitato ministeriale che si riuniva a porte chiuse, e da un’assemblea consultiva pubblica. Di lì a breve (9 maggio 1950), Robert Schuman propose un piano per la creazione di istituzioni economiche, politiche e militari. Chiese l’isti-tuzione di una organizzazione economica per il coordina-mento dell’industria del ferro e dell’acciaio e l’istituzione di un esercito europeo, che insieme dovevano rappresentare il fondamento degli Stati Uniti d’Europa. Solo la proposta

32 F. Chabod: op. cit., P. 104.

tutto, e contro le tendenze anti-eroe del ‘700, esalta precisa-mente l’eroe, il genio, l’uomo che spezza le catene del vivere comune28. Non solo, nell’Otto-cento vi fu un altro fenomeno dirompente: la seconda rivolu-zione industriale. Un fenome-no che sebbene cominci come fatto economico, avrà profonda influenza sul vivere sociale. La «geografia» di questa rivoluzio-ne parte dall’Inghilterra, e via via, si estenderà all’Europa oc-cidentale. Per quanto riguarda questo processo, esso fu favo-rito sicuramente da un’organiz-zazione politica centralizzata e piuttosto efficiente. La lotta fra potere centrale e autonomie locali era stata vinta (pur con eccezioni e variabili al suo interno) dal potere centrale. I re-sidui delle giurisdizioni feudali e delle autonomie provinciali venivano erosi dalle illimitate pretese del Beamtenstaat29. Ovviamente, anche la disponibilità di capitale era adeguata per far sì che questa rivoluzione avvenisse, e ad esso, si ac-compagnava un livello di tecnica innovativa notevole, che era cominciata, come abbiamo visto, sin dal secolo XVI. An-che se, c’è da sottolineare, l’industrializzazione dell’Europa continentale fu più lenta di quella inglese, e, soprattutto, non si sviluppò in tutto il continente. I Paesi in cui attecchì in modo organico e sistematico, furono Francia, Paesi Bassi, Prussia e Belgio. Per l’Ashton, lo Stato, già da più di un se-colo dalla prima rivoluzione industriale, cominciò a ritirarsi dall’economia, limitandosi a continuare alcune vecchie poli-tiche come le concessioni alle compagnie commerciali30.

Anche l’aumento demografico, con la conseguente spinta della domanda interna, ebbe un ruolo importante. Non solo, dopo i cambiamenti avutisi nell’economia e nelle istituzioni, dopo il 1815, si ebbe un persistente aumento della domanda di manufatti e dell’offerta dei fattori di produzione31. Nelle aree più arretrate tutto questo non avveniva. Si può parlare dunque, in qualche modo, di «confini economici».

Durante il congresso di Vienna (1814-1815) si lavorò, tra le altre cose, per stabilire un equilibrio europeo in modo da garantire una pace duratura. Agli europeisti non erano rima-sti che pochi spazi di manovra. Tra questi, vi era lo scritto-re Victor Hugo. Lo scrittore francese auspicava un’Europa dove non vi fossero né francesi, né inglesi, né italiani, né tedeschi ma un’unità superiore che costituirà la fraternità

28 F. Chabod: “L’idea di nazione”, Universale Laterza, Bari, 1967, p. 17.29 D. S. Landes: “Prometeo liberato. La rivoluzione industriale in Europa dal 1750 ai giorni nostri”, Einaudi, Torino, 2000, p. 165. 30 T. S. Ashton: “La rivoluzione industriale”, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 146.31 D. S. Landes: Op. Cit. P. 200.

Rousseau

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zione del nuovo Fondo di coesio-ne per finanziare progetti nel campo dell’ambiente e delle reti transeu-ropee nei Paesi in cui il PIL non ol-trepassava il 90% della media comu-nitaria (Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo)35.

La ricerca e lo sviluppo tecno-logico, divenuta politica comune nell’Atto Unico, veniva disciplinata

dal Titolo XV del trattato. Anche la politica dell’ambiente diventava per la prima volta «politica comune». Una poli-tica che era già comune e subito presente nella Comunità, quella del commercio estero, ricevette un assetto completa-mente rinnovato: tutte le relazioni esterne vennero inserite in norme specifiche. Anche a livello di politica sociale vennero fatti dei passi avanti. Un accordo a Undici prevedeva infatti che: «la Comunità completi e sostenga l’azione degli stati membri» in settori come l’ambiente, la sicurezza e la salute dei lavoratori, le condizioni di lavoro, la parità tra uomini e donne, l’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro36.

L’Europa è riuscita a compiere passi da gigante nella sua ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale. Ma, com’è comune a molte altre aree capitaliste, vi sono sperequazioni enormi al suo interno. Nel Sud Europa, alcune regioni della Spagna, della Grecia, del Portogallo e dell’Italia vivono una situazione tutt’altro che rosea. È abbastanza comune pen-sare che questa aree non siano compiutamente Europa37. Il Pil è estremamente basso, la criminalità organizzata è capil-lare (ciò è vero specialmente nel Sud Italia), l’istruzione è inadeguata, lo smaltimento dei rifiuti anche. Si può parlare di confini sociali ed economici dunque? Ha senso parlare di confini in un società fortemente globalizzata? Dove gli accordi di Schengen permettono ai cittadini dell’Unione di spostarsi liberamente in Europa? Secondo Beck il Globali-smo indica il «punto di vista secondo cui il mercato mondiale rimuove o sostituisce l’azione politica, vale a dire l’ideolo-gia del dominio del mercato mondiale, l’ideologia del neo-liberismo38». Un mercato che sia marcatamente neoliberista

35 B. Olivi: “L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione europea 1948-1998”, Il Mulino, Bologna, 1993, pp. 385-386.36 Ivi. P. 387.37 F. Sidoti, M. Gammone: “Che cosa significa essere europeo? Una ricerca al cuore e ai confini dell’Europa”, Franco Angeli, Milano, 2013, p. 65.38 U. Beck: “Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della

economica riuscì a prendere il via. L’evidenza di questo processo di integrazione economica fu la creazione della Ceca (Comunità europea del carbo-ne e dell’acciaio), la quale doveva impedire la ricom-parsa di una base industriale milita-re separata all’in-terno dei singoli Paesi membri33. Furono i «Sei» a stipulare il trattato fondante (Francia, Germania, Italia, Benelux). Si decise, di comune accordo, di permettere il libero commercio del car-bone e dell’acciaio, di rispettare i regolamenti comuni rela-tivi alla fabbricazione e alla concorrenza e nel caso di una crisi, di controllare i prezzi e la produzione. Successivamente si stipularono due trattati a Roma che crearono l’Euratom e la Comunità Economica Europea (Mercato comune), che portava all’eliminazione di dazi interni, alla politica com-merciale estera comune, al coordinamento dei trasporti, alla politica agricola e fiscale, all’incentivazione della mobilità del capitale, del lavoro e dell’impresa.

Fu creata, dai sette Paesi esterni alla Cee, l’associazione europea di libero scambio (Efta, 1960-1995), ma, negli anni Settanta, Gran Bretagna e Danimarca la abbandonarono per entrare a far parte della Cee. La Gran Bretagna, oltre a questo episodio, avrà sempre un rapporto ambiguo con l’Europa che dura tutt’ora. Interessante il punto di vista di Giulio Andre-otti che ebbe a dichiarare che avendo gli inglesi il più antico parlamento effettivo, abituato a dialogare in modo continuo con la Camera dei comuni, è psicologicamente più difficile per loro cedere i poteri del Parlamento stesso a terzi34.

A prescindere dai Paesi aderenti, nel complesso, la Cee ottenne ottimi risultati soprattutto nella sfera economico/fi-nanziaria. Il sistema monetario europeo (Sme), prefissava la parità del tasso di cambio, evitando così fluttuazioni di mo-neta. Intanto, nel 1973, la Gran Bretagna entrava finalmente a pieno titolo nella Cee, seguita da Irlanda e Danimarca. Nel 1986 furono ammessi Spagna e Portogallo, vi erano dunque Dodici membri. I confini si allargavano ulteriormente. Nel 1992 si arrivò all’importante trattato di Maastricht. Il trattato, oltre ad ampliare le competenze della Comunità, rinnovava e completava le vecchie e le nuove competenze comunitarie e precisava gli obiettivi. La vera novità, però, era la crea-

33 N. Davies: op. cit., p. 1219.34 G. Andreotti: “Voices on Europe Collection”, in “Oral History Col-lections”, Historical Archives of the European Union, Firenze, 1998, p. 7.

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zionali. La globalizzazione dei mercati non è da intendersi solo in accezione negativa. Con la complicità di questo feno-meno, infatti, tra il 1980 e il 1994 la forza lavoro globale è aumentata di 630 milioni di unità superando di molto il tasso di crescita della popolazione46.

Comunque non siamo qui per discutere sugli effetti più o meno positivi (o negativi) dell’apertura dei mercati, ma per sottolineare gli effetti che questo tipo di processo ha sulle strutture portanti della società, siano esse statali, soprastatali o locali. Non crediamo, come sostiene il già citato Appadu-rai, che lo Stato nazione sia in limine mortis, anche se esso è indubbiamente in difficoltà. I confini geografici del mon-do occidentale sono definiti (escludendo i fattori destabiliz-zanti dei micronazionalismi storici d’Europa e del Quebec in Canada), ma la perdita di controllo da parte dei governi dell’economia, dei flussi di informazione e dell’immigrazio-ne fanno sì che l’idea di Stato e di nazione risulti mutevo-le e cangiante. Predire il futuro delle nazioni è una chimera e risulterebbe solo un «gioco erudito», piuttosto, come ha suggerito Giddens, chiedersi a che livello le responsabilità debbano essere demandate è il punto centrale di tutta la que-stione.

46 A. Giddens: Op. cit. p. 127.

e deregolamentato è un’utopia, ma se lo Stato si fa sempre più debole, non riuscendo a garantire diritti come lavoro e istruzione, qual è la giusta via da seguire? Troppo Stato è meglio di poco Stato? Non c’è dubbio che in alcuni Paesi la presenza dello Stato sia ingombrante e inefficiente. E, altresì, non c’è dubbio che questa inefficienza, con conseguente spreco di denaro pubblico di cui le istituzioni statali sono responsabili, hanno aperto la strada al neoliberismo e hanno ridotto la fiducia riposta nella sfera pubblica39. E, ancora, non vi è dubbio che i cittadini nutrono sempre minor fiducia nella politica40. Cosa comporta questa sfiducia? Come reagisce lo Stato-nazione a questo dilemma? Per il sociologo Giddens ciò che serve è una «democratizzazione della democrazia41», che si attua attraverso riforme costituzionali che eliminino simboli e privilegi arcaici, con misure che introducano maggiore trasparenza di fronte alla legge, e probabilmente anche forme di democrazia diretta42. Inoltre, sempre per lo studioso inglese, una seconda ondata di democratizzazione deve seguire l’influsso della globalizzazione, decentrando il potere verso le istituzioni regionali e locali, ma anche il tra-sferimento di potere democratico verso l’alto, al di sopra del livello dello Stato-Nazione e la democratizzazione dell’U-nione Europea, per Giddens, è lo strumento più ovvio per realizzare questo processo43. Dunque, da una parte dovrebbe esserci una responsabilizzazione dei cittadini che coopera-no con le istituzioni a loro vicine, dall’altra la risoluzione di alcune problematiche dovrebbero essere a carico di enti sovranazionali, come ad esempio le crisi finanziarie globali (la crisi del 2008 ancora non è stata superata).

L’antropologo Arjun Appadurai ci suggerisce di «pensarci al di là della nazione44». Secondo l’antropologo di origini indiane, infatti:

Uno dei fattori principali che può dar conto delle lacerazioni nell’u-

nione tra stato e nazione è che il genio nazionalista, mai contenuto

perfettamente nella lampada dello stato territoriale, è ora divenuto dia-

sporico. Trasportato nei patrimoni di popolazioni sempre più mobili

fatte di profughi, turisti, lavoratori ospiti, intellettuali transnazionali,

scienziati e immigrati clandestini, questo genio è sempre meno limita-

to dalle idee di confine spaziale o sovranità nazionale45.

Possiamo affermare, dunque, che la «cultura identitaria» di una popolazione è messa sempre più in crisi da flussi di popolazione e di comunicazione. Non solo, la globalizzazio-ne dei mercati toglie allo Stato nazionale il ruolo principe di dispensatore di lavoro. Esso non controlla più il sistema economico che transita invece per vie autonome e transna-

società planetaria”, Carocci, Roma, 2010, p. 22.39 A. Giddens: “Cogliere l’occasione. Le sfide di un mondo che cambia”, Carocci, Roma, 2000, pp. 64-65.40 Ivi. Pp. 67-68.41 Ibidem.42 Ivi. Pp. 68-69.43 Ivi. P. 69.44 A. Appadurai: “Modernità in polvere”, Raffaello Cortina Editore, 2012, Milano, p. 203.45 A. Appadurai: Ivi. P. 206.

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SCIENZE AGRARIE | SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016

della agrobiodiversità.Le testimonianze storico-artistiche che hanno dato il via

alla chiacchierata tra il pubblico di Caffescienza e le tre re-latrici sono state il trampolino di lancio per numerose rifles-sioni che da un primo sguardo alle opere dei due autori han-no condotto in maniera diretta e inesorabile a un confronto quanto mai attuale sull’agrobiodiversità e i rischi cui oggi è soggetta.

È indubbio che le considerazioni da farsi debbano parti-re dal bilancio dei vantaggi e delle perdite di cui è respon-sabile la moderna agricoltura, un bilancio che deve essere valutato considerando tutta una serie di aspetti (non solo quelli meramente ambientali) che riguardano lo sviluppo dell’agricoltura intensiva nei paesi cosiddetti occidentali dal secondo dopoguerra in poi. Uno degli esiti delle prati-che della moderna agricoltura è stata la selezione di varie-tà agricole più produttive, il cui sfruttamento, necessario in alcuni momenti storici, è stato forse esasperato, in altri, da interessi in agricoltura che hanno guardato principalmente a massicci vantaggi economico-produttivi su larga scala e nel breve periodo, senza tenere sufficientemente conto di tutte le ripercussioni a lungo termine. Se da una parte, infatti, è stato fondamentale garantire livelli elevati di produttività per soddisfare il fabbisogno alimentare di una popolazione in crescita, dall’altra, con gli anni, l’agricoltura intensiva ha comportato anche notevoli danni ambientali, come la depau-perazione del suolo o l’inquinamento delle acque, solo per citarne alcuni. Tra i rischi ambientali vi è stata, però, anche una forte riduzione di diversità biologica. Attualmente vi è un marcato ridimensionamento della variabilità intraspecifi-ca dei prodotti agricoli e si assiste al diffondersi, a livello globale, in aree tra loro territorialmente diverse, di varietà con le stesse caratteristiche genetiche e fenotipiche, dotate di capacità produttive che spesso travalicano non solo i confini geografici ma anche quelli stagionali.

In poche parole, si può parlare di processi di omologazione delle produzioni (dovuta altresì a fenomeni sociali e cultura-

Agrobiodiversità: tra arte e scienza FRANCESCA CAMILLI1, JENNIFER CELANI2, CHIARA NEPI3, MARIA ADELE SIGNORINI4

1 Istituto di Biometeorologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche e Associazione Culturale Caffescienza2 ex Soprintendenza speciale del Polo museale fiorentino, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo3 Sezione di Botanica del Museo di Storia Naturale dell’Università degli Studi di Firenze4 Dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Firenze

Attraverso un percorso tra arte e scienza, l’articolo illustra il significato della biodiversità agraria in un confronto tra l’attualità e la ricchezza delle varietà ortofrutticole alle men-se dei Medici tra Sei- e Settecento come rappresentate nelle tele di Bartolomeo Bimbi, con alcune riflessioni sull’impor-tanza e il valore che la biodiversità agraria ha per i territori, la cultura, il loro sviluppo socio-economico. Il felice connu-bio tra arte e scienze naturali, che si ricava da testimonianze artistiche e scientifiche quali la fedeltà botanica dei vegetali raffigurati in alcune tele o la bellezza dei modelli di frutti e piante delle collezioni, è testimonianza di un confronto anco-ra attuale tra scienza, arte e agricoltura.

Questo articolo riporta quanto illustrato nell’in-contro organizzato il 19 marzo 2015 dall’Asso-ciazione culturale Caffescienza di Firenze1 sulla

rappresentazione delle varietà frutticole e orticole nelle ope-re di Bartolomeo Bimbi e sulla documentazione scientifica prodotta sull’argomento dal botanico Pier Antonio Micheli. Con l’incontro si è proposto di narrare e discutere la figu-ra e le opere del pittore e del botanico fiorentini vissuti tra Seicento e Settecento, quali testimonianze ancora vive del-la ricchissima biodiversità agricola presente nella Toscana di Cosimo III de’ Medici e quale spunto di riflessione sulla biodiversità di interesse agrario al giorno d’oggi. Hanno gui-dato questa narrazione suddivisa in tre parti, rispettivamente: Jennifer Celani, storica dell’arte che ha introdotto la figura storico-artistica di Bartolomeo Bimbi; Chiara Nepi, botanica che ha guidato al confronto tra la documentazione dei quadri del pittore e quella del botanico Pier Antonio Micheli; Maria Adele Signorini, ricercatrice in Botanica applicata che ha in-vece approfondito il ruolo e il significato attuale e nel passato

1 L’Associazione Culturale Caffescienza di Firenze e Prato – www.caffescienza.it opera nel campo della comunicazione della scienza con l’obiettivo di coinvolgere la società in confronti e dibattiti aperti e informali sull’attualità della ricerca scientifica e tecnologica.

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SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016 | SCIENZE AGRARIE

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o pregiudizi da chi all’epoca se ne serviva, come i Medici, nella manifestazione della propria magnificenza e nella cre-scita e nello sviluppo delle proprie ‘imprese’ culturali.

Che cosa costituiscono dunque le opere del Bimbi? Sono documenti storici per ricostruire e comprendere in parte, al-meno, l’ambiente rurale toscano di qualche secolo fa? O for-se sono una rappresentazione dell’eccentricità della natura e della magnificenza dei Medici?

Le risposte possono essere tutte positive. Ma c’è dell’altro.Diversità e bellezza, abbondanza e ricchezza, colore e for-

ma sono elementi vivi che dalle opere di Bartolomeo Bimbi saltano agli occhi e incantano. Tuttavia, metterli in relazio-ne e coglierne il significato è un esercizio che può aiutare a comprendere oggi come sviluppare le giuste strategie per dar forza economica e culturale al valore della biodiversità agraria, mezzo per salvaguardare l’ambiente e tutelare il pae-saggio rurale: quel paesaggio che non è solo piacere estetico ma anche fonte di benessere, come dimostra la sua recente inclusione da parte dell’ISTAT tra gli indicatori di benesse-re. Diverse e rilevanti sono state le azioni compiute in Italia, a livello legislativo e di indirizzo, per la tutela della biodiver-sità: dalle ‘Linee guida per la conservazione e la caratteriz-zazione della biodiversità vegetale, animale e microbica di interesse per l’agricoltura. Piano nazionale sulla biodiversità di interesse agricolo’, alla recente legge 194/2015 per la tu-tela e valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare.

Sensibilizzare i cittadini sul ruolo e sulla funzione della biodiversità richiede, però, ancora sforzi collettivi del mon-do della ricerca. La biodiversità agraria è una tematica com-plessa, con ampie e profonde implicazioni economiche, am-bientali, sociali e culturali e necessita, per la sua tutela, di strategie di innovazione scientifica e tecnologica che solo la pluralità delle forme della conoscenza può rendere efficaci e sostenibili.

BARTOLOMEO BIMBI

Nelle silenziose sale al secondo piano della villa medicea di Poggio a Caiano sono conservati i tesori di un genere arti-stico oggetto della bramosia collezionistica delle corti euro-pee fra Sei e Settecento, quello della natura morta. Protago-nista indiscusso è il fiorentino Bartolomeo Bimbi (Settigna-no 1648 - Firenze 1729), vissuto fino all’età di 82 anni con tre generazioni di granduchi medicei, stimato esperto di raf-figurazioni ‘dal vero’. Iniziò la carriera di pittore autonomo dopo l’unico soggiorno fuori porta, quello romano (1670) in cui si avvicinò alla maniera di Mario Nuzzi detto ‘de’ fio-ri’2. Da quest’ultimo e dalle lezioni impartite dalla pittura fiamminga presente nella collezione del Gran Principe Fer-dinando, fra i suoi primi committenti, Bartolomeo Bimbi raggiunse alla fine del Seicento una fusione innovativa fra erudizione e spettacolarità. Con caratteristiche proprie del

2 F. S. Baldinucci, Vite di artisti dei secoli XVII-XVIII, 1725-1730, ed. a cura di A. Matteoli, Roma 1975

li) che colpiscono anche il comparto agricolo e alimentare. Si fatica, infatti, a riconoscere in alcune varietà di piante la capacità di adattamento a particolari ambienti o le particolari caratteristiche nutrizionali e organolettiche dei loro frutti o quegli elementi culturali risultato di scambi, movimenti di popolazioni e merci, che sono il risultato dell’applicazione di competenze e conoscenze agronomiche maturate localmente dall’uomo nel corso nei secoli e che permettevano alla pianta di adattarsi all’ambiente, al contrario di quanto accade oggi: l’ambiente viene adattato alla pianta, con forzature in termini energetici che possono essere causa di gravi squilibri am-bientali e territoriali.

Ma l’arte come si collega a tutto questo?Un aspetto che emerge ascoltando la vita e guardando le

opere di Bartolomeo Bimbi è l’aver messo le sue competenze artistiche a disposizione della volontà dei Medici suoi com-mittenti, di mostrare e perpetuare, in qualche modo, i prodot-ti agricoli straordinari ottenuti nelle terre del Granducato. Ma al di là di alcune rappresentazioni - bizzarrie vere e proprie che il granduca interpretava in maniera forse un po’ visio-naria, anche quali espressioni del divino - l’artista nei suoi dipinti riesce a esprimere in maniera convincente non solo la meraviglia scenografica di frutti e fiori, la loro opulenza teatrale, ma anche la ricchezza di contenuti botanici e agro-nomici, nonché l’accuratezza delle forme, delle superfici, degli attributi sensoriali e il richiamo a quegli elementi di ruralità così intimamente legati alla cultura delle campagne toscane. Con le opere del Bimbi sembra quasi di osservare delle scene in cui il pittore, oltre a raffigurare numerosissime varietà frutticole e orticole di diverse specie, offre di ciascu-na varietà anche una vera e propria catalogazione sistematica con precisi riferimenti ai nomi e ai luoghi di coltivazione. E allora la lettura del dipinto ci induce ad accostare a un’osser-vazione estetico-formale dell’oggetto, una riflessione sulla funzione, anche didattica, di tali classificazioni pomologiche che Bimbi ci presenta - è il caso di dirlo! - su un vassoio di argento.

Le capacità tecnico-pittoriche dell’artista, infatti, non pote-vano prescindere dalla conoscenza e dalla passione che l’ar-tista aveva per le scienze naturali, proprio per quei rapporti di lavoro e di stretta collaborazione, in particolare, con Cosimo III, “cultore” dell’opera della natura, ma anche per i rapporti con il botanico di corte Pier Antonio Micheli, che in questo processo di scambio armonico di discipline diverse ebbe un ruolo di indiscutibile importanza. È questo un altro elemento di riflessione che la conversazione su arte e scienza, in questo assaggio della Toscana tra Seicento e Settecento, fa emerge-re: la felice integrazione della conoscenza della natura con l’arte, come propellente per la crescita e lo sviluppo delle scienze naturali. Le opere del Bimbi sono testimonianza ed emblema di un periodo storico - forse a torto considerato di decadenza della famiglia Medici e della stessa Firenze, ma che molto ha dato per lo sviluppo della scienza e della tec-nologia - in cui le discipline umanistiche, quelle scientifiche e le arti non erano comparti tra loro separati, piuttosto vasi comunicanti cui veniva riconosciuta pari dignità senza timori

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sullo sfondo il paesaggio di Ponte a Cappiano, ancor oggi presente, dove l’animale fu catturato (intorno a Fucecchio) con il ponte per il controllo delle acque fatto costruire da Cosimo I de’ Medici alla metà del Cinquecento4. Nei casi di vere e proprie bizzarrie, come la vitellina nata con due teste, in chiare lettere il pittore documenta in primo piano sulla tela il racconto della morte dell’animale con note di quasi empa-tica tenerezza. I suoi veri capolavori però sono le grandi tele dette ‘frutterie’ presenti a Poggio a Caiano; rappresentazioni queste di tutte le varietà di frutti coltivati nel granducato, veri documenti della biodiversità presente all’epoca del granduca Cosimo III, artefice, tra l’altro, della denominazione d’origi-ne controllata del vino5 oltre che committente di questa pre-stigiosa serie. Lasciando agli esperti di rivelare i contenuti scientifici nascosti, qui si accenna brevemente agli elementi che ne distinguono lo stile: in ciascuna delle raffigurazioni, la natura è rappresentata in modo monumentale, straripante, teatrale, appunto; cesti e vassoi colmi di frutti - sono raffigu-rate ben 115 pere (figura 1), ad esempio - il cui singolo nome è riportato sui cartigli trompe-l’oeil; ognuno rappresentato nella sua consistenza naturale con colori caldi e seducenti, e contorni di effetti chiaroscurali impreziositi dal luccichio delle ricche cornici lignee intagliate e dorate dall’olandese Victor Crosten. A volte Bimbi usa la pennellata calma e pun-tigliosa, a volte veloce e a grandi macchie, pronta a cogliere

4 Museo della Natura Morta catalogo dei dipinti, a cura di Stefano Casciu, Livorno 2009, p. 1645 1716; Cfr. Rombai, Pinzani, Squarzanti in Storia del vino in Toscana 2000, pp.121-123

Barocco presenta fiori e frutti rari, uccelli migratori, animali eccezionali come personaggi su un palcoscenico, sotto ricche tende come quinte teatrali, o come veri e propri protagoni-sti ritratti ed identificati da iscrizioni ‘didattiche’ con dati di provenienza territoriale e caratteristiche specifiche. Il risulta-to ottenuto dall’artista nella sua ricca produzione - sono oltre cento i dipinti finora conosciuti - non solo riuscì a conferire visibilità alle indagini di botanica e zoologia promosse dai Medici, ma restituisce utili informazioni anche agli studiosi di oggi. Significativa ci pare la sintesi panoramica del Berru-ti (2003) sulla motivazione storica generale del suo succes-so: dopo le peripezie e le conquiste dei secoli precedenti “il Seicento rappresenta il trionfo della natura per un semplice motivo: ormai rassicuratosi delle sue capacità e collocatosi, per questo, al centro dell’universo, l’uomo del Seicento guar-da alla natura con parità di importanza”3. Aggiungo ora una breve notizia inedita: una richiesta di pagamento datata 1723 inviata alla segreteria dell’ultima Medici, l’Elettrice Palati-na, Anna Maria Luisa. Bimbi, all’apice della sua carriera, dichiara di dipingere dal vero quattro cedrati dalle fattezze stravaganti e richiede un compenso di sessanta lire, cioè l’e-quivalente di mesi di lavoro di un qualsiasi operaio dell’epo-ca. Dunque, si può dedurre che la natura ‘ritratta’ dal Bimbi aveva avuto un certo peso a corte. Fra le sue numerose opere, quelle più significative per il nostro pubblico di Caffescienza sono quelle con riferimenti al territorio: esemplare la tela raf-figurante un enorme ‘pesce Reina’ offerto dalla popolazio-ne al granduca Gian Gastone nel 1726; l’artista documenta

3 P. Berruti, Arte in tavola. Sapori e saperi, Firenze 2003, p. 147

Figura 1. Bartolomeo Bimbi, Pere, 1699. Olio su tela. Cornice di Victor Van Crosten. Villa medicea di Poggio a Caiano – MIBAC. Fonte Wikicommons

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grazie alla sua intelligenza e alla straordinaria capacità di osservazione riuscì a diventare espertissimo di piante, tanto che a 27 anni fu assunto da Cosimo III dei Medici come aiuto del curatore dei giardini botanici di Pisa e Firenze.

Pier Antonio Micheli raccoglieva piante per arricchire quei giardini e per questo iniziò le sue esplorazioni (non solo in Toscana ma in tutta Italia) conservando, allo stesso tempo, dei campioni con cui costruì un erbario che oggi prende il nome di ‘Erbario Micheli-Targioni’ perché successivamente venne integrato con le raccolte dei Targioni Tozzetti, ere-di della collezione Micheli. Questo erbario conservato nella sezione di botanica del Museo di Storia Naturale di Firenze contiene circa 25.000 campioni.

Tutto quello che Micheli compì nella sua vita di botanico - tutte le raccolte e gli studi sulle piante, le descrizioni e le analisi delle stesse - è raccolto in 71 volumi di manoscritti conservati presso la Biblioteca di Scienze dell’Università di Firenze. Egli infatti pubblicò solo due opere: la più impor-tante, Nova plantarum genera, in cui sono principalmente descritte 900 piante crittogame, nuove per la scienza, venne realizzata grazie a Giangastone dei Medici nel 1729.

L’erbario di Pier Antonio Micheli contiene le piante che il botanico raccoglieva nelle sue peregrinazioni lungo la peni-sola e costituisce per questo una vera e propria archiviazione, non di documenti scritti ma di materiali vegetali di cui il bo-tanico voleva studiare la diversità.

Ad esempio, Micheli mise insieme quasi mille campioni di leccio (Quercus ilex L.) raccolti andando in giro per Firenze, per i giardini, lungo i viali della città, alle Cascine, al Poggio

l’attimo prima che il tempo possa trasformare il soggetto colto in tutta la sua dignità. Grazie a Bartolomeo Bimbi, che lasciò anche il suo autoritratto, oggi visibile nel Corridoio Vasariano, abbiamo memoria di quella Firenze viva e colta, ancora una volta al centro del progresso scientifico, della bel-lezza artistica e dell’umana storia.

IL PITTORE E IL BOTANICO DI CORTE

In questo incontro sulla biodiversità e sulla biodiversità vegetale, è doveroso parlare del botanico Pier Antonio Mi-cheli che affiancò il pittore Bartolomeo Bimbi nell’immane opera di catalogazione del mondo vegetale.

Il pittore Bimbi, il botanico Micheli e Cosimo III dei Me-dici costituirono un sodalizio che non era cosa nuova nel-la dinastia dei Medici. Molti dei componenti della famiglia avevano coniugato il grande interesse per l’arte e tutte le sue espressioni con l’interesse per la natura, le scienze naturali e l’agricoltura. Solo per citare due esempi, il granduca Co-simo I dei Medici nel Cinquecento si era avvalso dell’opera di naturalisti e pittori, come Luca Ghini e Andrea Cesalpi-no, mentre il granduca Francesco I si avvalse dell’opera del naturalista Ulisse Aldrovandi e di quella artistica del pittore Jacopo Ligozzi. Nel Seicento con Cosimo III si assiste alla formazione di una sorta di troika tra l’artista, lo scienziato e il pittore che insieme riescono a realizzare un connubio tra arte e scienza finalizzato alla comprensione della natura.

Pier Antonio Micheli fu un grande botanico fiorentino. Nacque nel 1679. Di umili origini, fu un autodidatta ma,

Figura 2. Bartolomeo Bimbi, Fichi, 1696. Olio su tela. Villa medicea di Poggio a Caiano – MIBAC. Fonte Wikicommons

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pistoiese) con la possibilità di raccogliere una quantità mag-giore di documentazione e un numero maggiore di varietà vegetali di quanto non potesse fare il pittore.

Anche per le pere succede lo stesso. Bartolomeo Bimbi dipinge tre campionari dedicati al frutto del pero: uno è con-servato al Museo della Natura Morta di Poggio a Caiano, gli altri due sono conservati presso il museo di Capodimonte di Napoli. Nel dipinto di Poggio a Caiano (figura 1) sono raffi-gurate 115 varietà di pere: un numero enorme. Ugualmente Pier Antonio Micheli dedica una parte dei suoi manoscritti alla pere, descrivendone il doppio: 230 varietà, di cui 128 raffigurate. Una quantità strabiliante di pere tutte diverse. Bimbi le aveva raggruppate per epoca di maturazione e così fa anche Micheli che, nelle sue descrizioni, oltre al nome del-la varietà del frutto, ne descriveva la forma, ne citava la pro-venienza (i poderi in cui erano prodotte) e ne riportava anche le proprietà organolettiche, quali il sapore e la serbevolezza, ad esempio, facendone così un vero e proprio ritratto.

Tuttavia Bimbi non dipinse solo campionari di frutta, ma anche singoli soggetti vegetali. Ad esempio, nella figura 3 sono raffigurate le “albicocche di Germania”, straordinarie per dimensioni. La stessa cosa fa Micheli, riferendosi alle stesse albicocche come frutti di duecento grammi ciascuno. Inoltre, per quanto riguarda ancora la frutta, una gran parte dei manoscritti di Pier Antonio Micheli è dedicata alla de-scrizione e alla storia delle viti che si coltivavano in Toscana. In questi manoscritti sono descritte ben 187 varietà diverse di uve.

Ma come si è detto, Pier Antonio Micheli conserva anche

Imperiale, allo scopo di analizzare le differenze che potevano esserci nella dimensione e nella forma delle foglie e dei frutti per evidenziarne - in questo caso specifico all’interno della specie del leccio - la variabilità. Lo stesso avvenne anche con alcune piante coltivate, come ad esempio l’olivo. Nel suo erbario sono infatti conservati moltissimi reperti raccolti nei dintorni di Firenze, successivamente descritti e messi a confronto con tavole iconografiche nel manoscritto n. 23 in cui Micheli elenca cinquanta varietà diverse di olivo.

Per quanto riguarda le piante utilizzate in agricoltura, nel primo manoscritto che egli realizzò, il n. 25, descrisse, come recita il titolo stesso, la “Lista di tutte le Frutte che giorno per giorno dentro all’Anno sono poste alla Mensa dell’Altezza Reale del serenissimo Granduca di Toscana”, manifestando già, da giovane botanico, il profondo interesse che nutriva per le piante coltivate.

Questo interesse scientifico si incontrerà in modo molto proficuo con le opere del pittore Bartolomeo Bimbi. Infatti, le diverse attività del pittore e del botanico hanno l’intento di catalogare tutto quello che l’agricoltura produceva.

Nella figura 2 è illustrata la tela dei fichi di Bartolomeo Bimbi. Sono 51 varietà di fichi, divisi in ‘fichi settembrini’ e ‘primaticci’. Nel manoscritto di Micheli n. 46 le varietà di fichi sono 91. Perché Bimbi ne cita solo 51? I manoscritti di Micheli appartengono a un decennio successivo alla pit-tura di Bimbi; si deve pensare infatti, che mentre Bartolo-meo Bimbi dipingeva i frutti portati e regalati dai contadini al granduca Cosimo III, Pier Antonio Micheli esplorava da solo il contado fiorentino (e non solo, anche il pesciatino e il

Figura 3. Bartolomeo Bimbi, Albicocche di Germania, 1703. Olio su tela. Sezione di Botanica del Museo di Scienze Naturali (MSN) dell’Università di Firenze. Fonte MSN

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Bimbi in cui è citato Pier Antonio Micheli e che descrive un cavolfiore mostruoso insieme ad una radice di rafano, anch’essa mostruosa. Come possiamo leggere nel cartiglio, Bimbi cita proprio Micheli, botanico di corte, in una sorta di omaggio allo scienziato che lavorava insieme a lui.

RIFLESSIONI SULLA BIODIVERSITÀ

Guardando le opere di Bartolomeo Bimbi conservate al Museo della Natura Morta di Poggio a Caiano, la prima impressione che personalmente ricavo è quella di una gran-de bellezza; se si vuole, una bellezza relativamente sobria, considerando che si tratta di opere di epoca barocca. Subito dopo, colgo una sensazione di trionfale abbondanza, funzio-nale - come si sa - anche a esigenze autocelebrative e propa-gandistiche da parte del granduca Cosimo III. E tuttavia, da botanica e da persona appassionata di piante e abituata ad osservarle, la sensazione per me dominante guardando que-ste tele è il grande senso di diversità che le contraddistingue. E proprio sul tema della diversità mi piacerebbe fare qualche riflessione.

Si potrebbe ben dire che la pittura di epoca barocca ci ha abituato, anche nelle opere dello stesso Bimbi, a livelli di diversità apparentemente superiori, come salta all’occhio osservando una qualunque natura morta seicentesca con i suoi mazzi multicolori di fiori e i frutti variati che spesso li accompagnano. Un’opera come la grande tela di Bimbi che ritrae le pere sembrerebbe a prima vista assai più uniforme: in fondo solo di pere si tratta, e null’altro. Tuttavia, se si

campioni essiccati. Una varietà famosa di uve è la cosiddetta ‘Uva di tre volte’, rappresentata anche da Bartolomeo Bimbi. L’origine del nome di questa varietà non è conosciuta. Una spiegazione può essere legata al fatto che i grappoli erano grandi tre volte quelli comuni, oppure che questa varietà fruttificasse tre volte all’anno. Pure in questo caso c’è una corrispondenza tra quello che raffigurava il pittore Bimbi e ciò che archiviava lo scienziato Micheli. Sulle uve vi sono due tavole di Bartolomeo Bimbi conservate al Museo della Natura Morta di Poggio a Caiano, in cui sono ritratte 75 va-rietà diverse.

E ancora: la figura 4 è dedicata alla famosissima serie degli agrumi. Si tratta di una delle quattro enormi tele che Cosimo III fece dipingere per decorare le quattro pareti del casino della Villa della Topaia a Castello. Le tele, di dimensioni gigantesche, raffigurano 116 tipi diversi di agrumi: aranci, limoni, lumie e le famose bizzarrie, frutti strani che cresce-vano nei giardini dell’epoca.

Ancora una volta, in un manoscritto si ritrova la descrizio-ne di Pier Antonio Micheli di quegli stessi frutti: in questo caso il botanico fa un preciso riferimento ai dipinti di Barto-lomeo Bimbi, perché descrive proprio tutte le varietà di agru-mi raffigurati nelle quattro tele. C’è un rapporto strettissimo, dunque, tra pittore e scienziato. Le descrizioni che Micheli fa degli agrumi sono accompagnate da illustrazioni che sem-brano addirittura ricalcate su quelle di Bartolomeo Bimbi. In questo caso si può parlare di un vero e proprio inventario, quasi assimilabile ad un documento di tipo amministrativo. Infine, la figura 5 si riferisce all’unico dipinto di Bartolomeo

Figura 4. Bartolomeo Bimbi, Bartolomeo Bimbi, Melangoli, limoni e limette, 1715. Olio su tela. Villa medicea di Poggio a Caiano – MIBAC. Source Wikipedia

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luglio, agosto, settembre, ottobre, fino a quelle invernali, che venivano conservate nei ‘fruttai’, dove finivano di ma-turare dopo la raccolta. In questo modo era possibile avere pere per gran parte dell’anno, compresi i periodi freddi. La grande biodiversità documentata dal pittore è fatta dunque anche di stagionalità: ognuna delle varietà compariva in un periodo preciso dell’anno e lo contraddistingueva. E oggi? Non sempre dai frutti esposti sul banco di un fruttivendolo è possibile capire in che stagione siamo; anzi, diciamo che siamo abituati ad avere a disposizione più o meno la stes-sa frutta (o verdura) lungo tutto l’arco dell’anno. Più in ge-nerale, viviamo in un tempo in cui la stagionalità - in ogni suo aspetto - è molto meno accentuata: tra riscaldamento e condizionatori ci muoviamo in ambienti a temperatura più o meno costante, illuminati a giorno in qualunque momento della giornata e dell’anno; mangiamo la stessa frutta e gli stessi ortaggi a giugno e a dicembre; difficilmente riusciamo a cogliere - soprattutto nelle città - i sintomi che indicano il passaggio delle stagioni e che i nostri antenati dovevano co-noscere bene: foglie che cadono, giornate che si accorciano e conseguenti difficoltà ad avere luce per leggere, scrivere e lavorare; disagi dovuti al freddo e all’umidità delle case, geloni ai piedi e alle mani, fatica per scaldare gli ambienti; e poi finalmente gemme che si ingrossano, giornate che rico-minciano ad allungarsi, prime fioriture con i loro profumi. E mi fermo qui. Ai nostri giorni, forse solo i cambiamenti negli addobbi delle vetrine ci avvertono del procedere delle stagio-ni. Tanto che cominciano ad essere diffusi calendari o tabelle che riassumono la stagionalità dei diversi tipi di frutta e di

osserva la medesima tela ad un dettaglio maggiore, ecco che la diversità si mostra compiutamente. Proviamo ad osservare da vicino uno dei vassoi di pere del dipinto conservato al museo della Natura Morta di Poggio a Caiano (figura 1). A uno sguardo più attento, l’insieme si rivela un complesso va-rio per forme, colori, dimensioni - e verosimilmente sapori e profumi, anche se di questo il dipinto nulla può ovviamente dirci. Dunque, all’interno di un’assoluta omogeneità a livello di specie (tutte e solo pere), sulla tela è raffigurata una ele-vatissima diversità intraspecifica. Proviamo a fare due conti. Nel dipinto Bimbi ritrae 115 varietà di pere (figura 1); come ci ricordava Chiara Nepi, nello stesso periodo il botanico Pier Antonio Micheli nei suoi manoscritti ne descrive per la stessa agricoltura toscana addirittura 230. Dunque, i due documentano una varietà enorme di tipologie diverse dello stesso frutto (oggi potremmo chiamarle cultivar), disponibili all’epoca per la mensa granducale.

Qual è invece la situazione attuale? Quali e quante varie-tà di pere sono coltivate oggi? Si può dire che le principali cultivar che arrivano sulle nostre tavole sono più o meno una decina, e la maggior parte di queste sono varietà recenti che vengono da lontano, non certo varietà autoctone seleziona-te, coltivate e tramandate nel nostro territorio. Della grande varietà vegetale delle pere coltivate in Toscana documentate dai dipinti del Bimbi oggi rimangono solo briciole.

Approfondendo ancora l’osservazione della tela, ... di tutte le stagioni. In ciascuno dei vassoi del grande dipinto di Poggio a Caiano sono ritratte varietà che si raccolgono in momenti diversi dell’anno: le pere di giugno, quelle di

Figura 5. Bartolomeo Bimbi, Cavolfiore e ramolaccio, 1706. Olio su tela. Sezione di Botanica del Museo di Scienze Naturali (MSN) dell’Università di Firenze. Fonte MSN

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terizzata da sapore, profumo e consistenza diversi; più in generale, da diversa gradevolezza al gusto. È probabile che molte delle cultivar diffuse ai tempi di Cosimo III avessero caratteristiche organolettiche che potrebbero non essere ap-prezzate oggi dal consumatore, magari perché troppo aspre, o troppo dure; o perché necessitavano di particolari prepara-zioni prima di essere consumate. Ma certamente ciascuna di loro arricchiva la diversità presente, costituendo anche una preziosa riserva di risorse genetiche a cui attingere per sele-zionare nuove varietà. Cosa vogliamo dire invece della solita mela ‘Golden’ (tanto per fare un esempio) che si trova tutto l’anno sui banchi dei supermercati di tutto il mondo? Al più, che ha un sapore inoffensivo; ma oggi siamo abituati a sapori molto neutri nei nostri cibi - quando di sapori si riesce ad individuarne uno.

Insieme ad altre su cui non mi soffermo, tutte queste carat-teristiche - stagionalità, individualità, specificità territoriale, caratteristiche organolettiche - concorrevano a definire l’ele-vata varietà presente all’epoca all’interno di una stessa spe-cie di frutto, costituivano cioè la sua diversità intraspecifica (= diversità all’interno della specie). Sono tutti aspetti che oggi appaiono enormemente ridotti. Tuttavia, è interessante notare che accanto a questa bassissima diversità intraspeci-fica si osserva attualmente un deciso aumento del numero delle specie da frutto disponibili sul mercato, si rileva cioè una elevata diversità tra specie (diversità interspecifica). An-che questo è uno degli effetti di quel complesso fenomeno economico, sociale e culturale conosciuto come globalizza-zione, che ha ricadute anche sulla produzione del cibo e che fa sì che in gran parte del mondo oggi si mangino più o meno gli stessi cibi.

Riassumendo, si potrebbe dire che all’esigenza di avere frutta in ogni stagione, in ogni condizione ambientale e no-nostante le possibili avversità (insetti, malattie crittogamiche e altri parassiti), l’agricoltura tradizionale ha risposto per secoli con la diversità, con la selezione paziente, con l’accu-mulo e la trasmissione di un patrimonio di conoscenze grazie a cui, tramite l’adattamento guidato e sfruttando la biodiver-sità come risorsa, si potevano ottenere coltivazioni adatte a qualsiasi condizione, in grado di fornire frutta (o ortaggi) praticamente durante tutto il corso dell’anno. Alle medesi-me esigenze l’agricoltura che chiameremo per semplicità ‘globalizzata’ risponde invece con grandi apporti di ener-gia, in grado di modificare l’ambiente: lavorazioni profonde, fertilizzanti sintetici, colture protette (serre), uso intensivo di anticrittogamici e pesticidi in genere, trasporti su lunghi percorsi (aereo compreso), refrigerazione, conservazione in atmosfera modificata, e così via. Tutto questo naturalmente non è gratis, ma implica alti costi - energetici prima di tutto, ma anche economici e ambientali - che occorre tenere pre-senti.

Detto con altre parole: una strada è quella di adattarsi alle difficoltà dell’ambiente grazie alla diversità; l’altra è quella di modificare l’ambiente, rendendolo artificialmente favore-vole grazie all’energia. In un certo senso, si potrebbe dire che da una parte si risponde con l’elasticità e l’intelligenza;

ortaggi, indicando al consumatore quali sono ‘naturalmente’ disponibili nei diversi mesi e dunque qual è il momento più sensato per acquistarli e mangiarli: informazione questa che sarebbe apparsa fino a poco tempo fa inutile o addirittura as-surda, poiché la stagionalità della frutta non aveva bisogno di essere spiegata o insegnata, ma faceva parte della conoscen-za comune di tutti.

La varietà che si osserva nella tela che ha per soggetto le pere si ritrova anche nei dipinti dedicati alle altre tipologie di frutta e comprende anche aspetti diversi. Esiste ad esempio una diversità individuale, legata all’aspetto di ogni singolo frutto: certo in passato sul banco di un ortolano si vedevano insieme frutti di varie dimensioni, di forma più e meno re-golare, magari qua e là danneggiati da avversità o parassiti: nulla a che vedere con l’uniformità dei frutti che si può osser-vare in una cassetta della frutta dei giorni nostri, dove anche la differenza tra individui di una medesima varietà appare in gran parte perduta.

E c’è di più. Le varietà di frutta ritratte da Bimbi sono ac-compagnate da cartigli in cui sono riportati i nomi di ciascu-na, analogamente a quanto fa Micheli nei suoi scritti; in molti casi i nomi si riferiscono alle località di provenienza della frutta: susine ‘zuccine di Bologna’, pere ‘bergamotte bianche di Lunigiana’, ciliegie ‘duracine di Pomino’, fichi ‘rondinini di Borgo S. Sepolcro’, e così via. Emerge dunque con evi-denza una specificità territoriale di queste varietà. Ma una tipologia di frutta legata a un determinato territorio esprime una storia di adattamento guidato dall’uomo, attraverso una paziente opera di selezione che si è svolta attraverso i secoli e ha visto coinvolte generazioni di coltivatori; una storia di varietà che hanno trovato in quella località condizioni di vita (ambienti, terreni...) vantaggiosi per la loro sopravvivenza - o si potrebbe forse dire meglio che ambienti e terreni hanno trovato varietà adatte a crescervi. E ugualmente attraverso le generazioni sono state messe a punto nel corso del tempo le modalità e le tecniche di lavorazione più adatte per quel tipo di coltivazione, il modo di conservare il prodotto, le ricette di cucina per gustarlo, con un accumulo di conoscenze che non è più solo tecnica, ma cultura. Per questo si può dire che ogni varietà racconta non solo l’ambiente fisico e naturale in cui è stata selezionata, ma anche la storia e le tradizioni che a quell’ambiente e a quel territorio sono legate. Un conden-sato, dunque, di cultura e appartenenza, di cui probabilmente all’epoca vi era forte consapevolezza e che oggi si sta cer-cando faticosamente di recuperare, almeno per qualche va-rietà. Giacché nella maggior parte dei casi, che possiamo dire oggi della specificità territoriale della nostra frutta? Siamo abituati a trovare le stesse cultivar di mele o di pere in tutte le diverse parti d’Italia, magari accanto a frutta che arriva da paesi molto lontani. Eppure, da un certo punto di vista la perdita di un prodotto agricolo locale e degli aspetti culturali a questo legati si può considerare simile alla perdita di un dialetto o di altre tradizioni nate e tramandate all’interno di piccole comunità.

Infine, si può immaginare che ognuna delle diverse cul-tivar di frutta documentate nei dipinti di Bimbi fosse carat-

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dall’altra con la forza. Un’ultima considerazione: in ecologia un’elevata diversità

della comunità è considerata sintomo di salute e garanzia di stabilità. La diversità riflette la capacità del sistema di rag-giungere una condizione di equilibrio con l’energia dell’am-biente e costituisce una risorsa utile per tornare a quella condizione di equilibrio dopo un disturbo esterno o danno (la cosiddetta resilienza). Al contrario, un’agricoltura senza diversità è caratterizzata da un’enorme fragilità, in termini di costi energetici, economici e ambientali. È importante essere consapevoli che ciò implica costi e perdite anche sotto forma di cultura e di specificità delle comunità e del territorio, com-prese la varietà e la peculiarità del paesaggio.

Le opere di Bartolomeo Bimbi sono conservate presso il Museo della Natura Morta di Poggio a Caiano; la sezione di Botanica del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze; il Museo di Capodimonte a Napoli.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

Linee guida per la conservazione e la caratterizzazione della biodiversità vegetale, animale e microbica di interesse per l’agricoltura. Piano nazionale sulla biodiversità di in-teresse agricolo. 2012 Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, INEA, Istituto Nazionale di Economia Agraria.

LEGGE 1 dicembre 2015, n. 194 Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare (15G00210) (GU Serie Generale n.288 del 11-12-2015). Entrata in vigore del provvedimento: 26/12/2015

Paolo Berruti (a cura di) Arte in tavola. Sapori e saperi, a cura di. 2003 Edizioni Polistampa.

http://www.istat.it/it/misure-del-benessere/le-12-dimen-sioni-del-benessere/paesaggio-e-patrimonio-culturale

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ed i suoi modelli interpretativi hanno percorso un cammino lungo ed articolato che trova di certo un suo snodo decisivo nell’esperienza galileiana.

Col definirsi del metodo scientifico galileiano prende for-ma una insolita cosmologia che sposta la Terra e l’uomo dal centro del creato inau-gurando, di fatto, un’antro-pologia che, rispetto ad un sapere dogmatico o fondato su euristiche di tipo intuiti-vo, fa valere la verità della scienza. La scienza si strut-tura attraverso una modalità di osservazione della realtà che contraddice le evidenze del senso comune (attestan-ti, senza margine di dubbio, fosse il sole a muoversi di-segnando una parabola da oriente ad occidente). L’im-

presa galileiana getta perciò un nuovo sguardo conoscitivo sfidando le ipostatizzazioni teologico-aristoteliche e metten-do in discussione il geocentrismo fondato proprio sul senso comune e su semplici meccanismi intuitivi3.

Lo statuto della scienza si definisce attorno alla messa in discussione di verità assiomatiche e credenza stratificate

3 “Cosa hanno in comune i postulati di Euclide, la statica di Archimede, il concetto ippocratico della malattia, il principio d’inerzia o la prima legge del moto, il calcolo infinitesimale, la teorica cinetica del calore, la teoria della selezione naturale, la tavola periodica, la relatività speciale, la teoria microbica delle malattie e il codice genetico? Partono da ragionamenti che vanno contro l’esperienza comune e, usando diversi accorgimenti opera-tivi, arrivano a scoprire le leggi che governano il mondo naturale, o realtà che non sono accessibili ai nostri sensi. Ma le cui caratteristiche spiegano molte più cose delle nostre intuizioni”. G. CORBELLINI, Il sapere che ci migliora la vita, in DOMENICA Il Sole 24 Ore, 21 Agosto 2011 n. 227, p. 34.

Metodo scientifico e scienza moderna: riflessioni a margine dei percorsi genealogici PASQUALE CAPASSO, ENRICA ROSA GRANIERI, FRANCESCO MANFREDI, MICHELE SAVIANO, JOSEPH SPINAAssociazione Culturale DiSciMuS RFC

I. La storia della scienza è strutturalmente determinata dal tentativo di individuare le coordinate essenziali di un «meto-do» in grado di garantire la validità e la coerenza dei risultati del processo conoscitivo e della ricerca che lo supporta. La consapevolezza di una stra-tegia metodologica si intrec-cia, in tal senso, con la storia stessa dei saperi umani e del lento processo di raziona-lizzazione. Il biologo statu-nitense Edward O. Wilson ritiene di poter rintracciare nell’«incantesimo ionico» la scaturigine della «fiducia nell’unità delle scienze; la convinzione che il mondo sia ordinato e spiegabile gra-zie a un numero limitato di leggi naturali»1. In quello specifico orizzonte culturale si definiscono le coordinate essenziali di un sapere che, oltrepassando le verità propo-ste dal mito e dalla religione – sia in termini categoriali che metodologici -, costituisce un primo tentativo di interroga-zione e comprensione della realtà secondo schemi razionali e verificabili2. Da quell’orizzonte storico-culturale la scienza

1 E. O. WILSON, L’armonia meravigliosa. Dalla biologia alla religione, la nuova unità della conoscenza, Milano, 1998, pp. 4-5. Secondo Wilson le basi di questa convinzione sono individuabili nella Ionia del VI secolo a. C., nella figura di Talete di Mileto e della temperie culturale che pervade alcune colonie greche in Asia Minore e nel Mediterraneo. Soltanto due secoli dopo Aristotele definì Talete come fondatore delle scienze fisiche. Talete riteneva che la materia fosse costituita da acqua; tale convezione esprime una metafisica fondata sulla basa materiale del mondo e sull’unità della natura.2 Cfr. E. O. WILSON, op. cit., p. 7. «È questa la fonte dell’incantesimo ionico, scegliere di indagare la realtà oggettiva invece della rivelazione è un modo alternativo per soddisfare la nostra fame di religione». Ibidem.

Galileo Galilei

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magico6. Allo stesso tempo però nella costruzione, ancora abbozzata, di quello che sarà poi il moderno metodo scien-tifico, un ruolo non estraneo al suo sviluppo, in piena epoca rinascimentale, è quello svolto dalla figura del mago – incu-riosito della natura, attratto dalle macchine e dai congegni, intriso di «sperimentalismo» – che si confonde, si mescola a volte in maniera indistinguibile, a quella dello scienziato baconiano il cui sforzo è giungere ad una «magia rinnovata» capace di comprimere i tempi di quei processi che in natu-ra si realizzano in lunghissimi archi temporali7. Nel novero dei costruttori della nuova immagine del sapere un posto di primo piano è occupato, in questa prospettiva, da Bacone al quale filosofi e scienziati del Seicento e più tardi esponenti dell’Illuminismo e del Positivismo guardarono come uno dei grandi «padri fondatori» della scienza moderna. Il suo con-tributo alla chiarificazione dei fini, dei valori e dei modi at-traverso cui la scienza si pone rispetto alle altre forme e ma-nifestazioni della vita culturale, appare più che decisivo. In particolare nella promozione della consapevolezza del ruolo sociale della vita scientifica, nella diffusa considerazione che progresso e miglioramento delle condizioni di vita rappre-sentano un traguardo per l’impresa scientifica, nell’idea che la collaborazione organizzata e pianificata fra i ricercatori costituiscono fenomeni della vita culturale8. Se da una par-te Bacone conserva della tradizione magico rinascimentale l’assunto del «sapere come potenza», di una scienza «mini-stra della natura» che nell’investigazione del mondo si fa pa-drona della realtà fino a piegarla a suo piacimento9, dall’altra nello spalancare alla scienza moderna un nuovo orizzonte definisce il metodo culturale magico-alchimistico come un sapere, in fondo, fantastico o superstizioso, qualificando, ad esempio, Agrippa come «un triviale buffone che di ogni cosa ignobile una farsa»10 e Cardano come «un affannato costrut-

6 Cfr. AA. VV., Storia della scienza, Vol. I, (a cura di Paolo Rossi), To-rino, 1988, p. 41. Già infatti l’oratio dei filosofi alchimisti – scrive Pietro Bono da Ferrara attorno al 1330 – è scritta «in termini enigmatici, con figure estranee ed impossibili» al fine di non rivelare la «preziosa gemma» del sapere a chi non è degno, a chi non è dotto al punto di comprenderla (Cfr. PIETRO BONO, Pretiosa margarita novella, 1330, in AA. VV., Storia della scienza, op. cit.). Ancora, più tardi, circa due secoli dopo, Agrippa scriveva circa la distinzione fra uomini mortali e uomini divi-ni dotati della sapienza alchemica a cui gli uomini mortali non potevano accedere: «Confidare al volgo le parole impregnate della maestà divina è un’offesa alla religione» (Cfr. AGRIPPA, Filosofia occulta o della magia, Parigi, 1531, in AA. VV., Storia della scienza, op. cit.). Platone proibì la divulgazione dei misteri, Pitagora obbligava al silenzio i suoi disce-poli, Tertulliano pretendeva il giuramento del silenzio, addirittura Cristo stesso celò il suo verbo in modo che solo i discepoli più fidati potessero intenderlo. Concludeva, Agrippa, che ogni esperienza di magia «aborre il pubblico, vuole essere nascosta, si fortifica nel silenzio e viene distrutta ove venga dichiarata» (Cfr. Ibidem.).7 Cfr. AA. VV., Storia della scienza, op. cit., p. 43. Intersezioni, sovrap-posizioni, contatti, tra sapere magico-alchemico e scienza moderna che in epoca rinascimentale sono più che frequenti. “I bordi di quell’incredibile arazzo che fu tessuto nell’età del Rinascimento da maghi ed alchimisti si sovrappongono in più punti al tessuto della scienza e della tecnica moder-na”. Ivi, p. 47.8 Ivi, p. 44.9 Cfr. Ivi, p. 47.10 F. BACONE, Temporis Partus Masculus, 1603, in AA. VV., Storia della scienza, op. cit.

configurandosi come ininterrotto processo di esplorazione e di ristrutturazione della mondo, di disvelamento della realtà.

Nell’impresa scientifica qualsiasi asserzione è sottoposta al vaglio critico garantito da rigorosi meccanismi procedurali e da processi di codifica standardizzati che, oltretutto, rap-presentano una sorta di argine etico non soltanto per la co-munità scientifica, ma per il pubblico dei non specialisti: tra le maglie del metodo scientifico vengono alla luce la verità scientifica e le falsificazioni pseudoscientifiche. L’avventura della scienza e delle procedure metodologiche che ne garan-tiscono la correttezza è, sostanzialmente, una lunga e faticosa storia di tentativi di emancipazione, di affrancamento, da po-tenti auctoritates4, si chiamino aristotelismo, senso comune o verità di fede.

II. La nascita della scienza e, più precisamente, della «scienza moderna», fondata su regole e metodi basati sulle osservazioni oggettive dei fenomeni, si configura non tan-to come evento temporalmente circoscrivibile in uno spe-cifico contesto storico-culturale - sebbene una genesi della moderna avventura conoscitiva sia rintracciabile nel fervore dell’Europa del Seicento -, piuttosto come un lungo processo evolutivo attraversato anche da contraddizioni, un impasto di credenze e misticismo legato non di rado a convinzioni surreali di ordine culturale o religioso. Una storia, quella dell’emergere della moderna mentalità scientifica, che ha come filo conduttore la ricerca di un qualcosa di sempre nuovo, una traiettoria che corre lungo l’asse della tensione all’oltrepassamento, della meraviglia, da cui ha scaturigine l’interrogazione scientifica e di senso.

Nel tentativo di ricostruire la genesi della scienza moderna e della metodologia tecnico-scientifica, imprescindibile re-sta delineare, seppure sommariamente, protagonisti, tappe, correnti di pensiero che hanno contribuito alla definizione di quel corpus definito Scienza, dei suoi metodi e delle sue leggi, come ancora appare ai giorni nostri. «Chi vuole cono-scere i segreti, sappia segretamente custodire le cose segrete, riveli ciò che va rivelato e sigilli ciò che va sigillato, non dia ai cani le cose sacre e non getti le perle davanti ai porci»5. La citazione è tratta dal De magia veterum o Arbatel de magia e, traccia una netta linea di demarcazione tra la sapienza alche-mica, progenitrice della scienza, e la stessa scienza moderna, ossia l’idea di un sapere iniziatico appannaggio di pochi ini-ziati ossessivamente legati da un vincolo di segretezza che impediva di divulgare le conoscenze acquisite.

Nella ormai classica, Storia della scienza, curata da Pao-lo Rossi, proprio il tema della segretezza delle arti magiche, dell’interdizione alla diffusione delle nozioni alchemiche, rappresenta un motivo ricorrente all’interno di quella cor-rente di pensiero rinascimentale definita come ermetismo

4 Cfr. Introduzione al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, di A. PINOTTI, in G. GALILEI, Dialogo dei massimi sistemi, Milano 1996, pp. 14-18.5 De magia veterum o Arbatel de magia, Basilea, 1575, in AA. VV. Sto-ria della scienza, op. cit.

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tradizione illuministica, come marcia trionfale del sapere at-traverso le tenebre della magia e della superstizione, non si può disconoscere il peso rilevante che la tradizione magico-erme-tica ha esercitato sul pensiero di non pochi esponenti di spicco della rivoluzione scientifica. Si pensi, ad esempio, al Newton che non solo legge e riassume testi alchemici, ma dedica una porzio-ne non secondaria del suo tempo a ricerche di natura alchemica15. E tuttavia, nello scandire le tappe della storia della scienza moder-na, pur senza sconfessare il peso esercitato dalla cultura magico-alchemica, è difficile non regi-strare il profondo mutamento intervenuto nella ratio stessa del sapere scientifico. Una trasfor-

mazione che finisce con lo spostare l’attenzione su quello che si può definire come il fine utilitaristico della scienza e del progresso, morale, civile e politico, ad essa intrecciato.

Per gli epigoni della rivoluzione scientifica la restaura-zione del potere umano sulla natura e l’avanzamento del sapere acquistano una significatività e una pregnanza esclu-sivamente in una cornice contestuale più ampia che finisce con l’includere la religione, la morale, la politica. La «teo-crazia universale» di Tommaso Campanella, la «carità» di Bacone, il «cristianesimo universale» di Leibniz, la «pace universale» di Comenius, non sono separabili dai loro inte-ressi e dal rinnovato entusiasmo acceso dalla nuova scienza: rappresentano ambiti entro i quali la scienza, il sapere tecni-co-scientifico, può operare come strumento di liberazione e di riscatto, confini entro i quali la natura è, al tempo stesso, oggettivizzata, ma degna, comunque, di riverenza. Essa può essere «torturata» e piegata al servizio dell’uomo, ma resta «il libro sacro di Dio» da leggere in maniera ossequiosa e in spirito di umiltà16.

III. La scientia, nella sua specificità di «sapere», se da una parte s’impone come insieme di dati, leggi e teorie già note, dall’altra si rappresenta come «scoperta continua di nuove cose, leggi e teorie critiche, spesso demolitrici o creative»; in altre parole «l’edificio della scienza non cessa mai di svi-lupparsi […] è sempre in uso»17. Nel corso del Novecento il fisico e storico della scienza inglese John Desmond Bernal ha tentato di tracciare, in maniera sistematica, un profilo sto-rico della scienza a partire dalle origini della società umana. Uno sforzo che implicava uno studio della storia sociale ed

15 Cfr. AA. VV. Storia della scienza, op. cit., pp. 47-48.16 Cfr. Ivi, pp. 104-105.17 J. D. BERNAL, Storia della scienza, Roma, 1969, p. 22.

tore di ragnatele in continua contraddizione con le cose e con se stesso»11. Ed è sempre Baco-ne, nel Redargutio Philosophia-rum, a sostenere che se fra il cu-mulo di falsità la magia realizza qualcosa, ciò avviene non in vi-sta dell’utilità quanto della sola novità, travasando in tal modo nel «nuovo sapere» quell’idea di utile che si affaccia nella cultu-ra scientifica e mira al concreto miglioramento delle condizioni umane di vita. Il nuovo sapere cui Bacone guarda si dispiega attraverso una struttura organiz-zativa ed istituzionale che nei suoi progetti prevede la creazio-ne di giardini botanici, biblio-teche, laboratori, università. Il metodo della scienza ipotizzato da Bacone non lascia spazio al singolo, ma privilegia, ed eguaglia, le intelligenze. L’ideale baconiano della scienza diviene lentamente patrimonio co-mune, costruttore di una nuova epoca. «L’ardore della gen-te nell’aprire scuole» sembra infatti a Jan Amos Komensky (Comenius) intorno agli anni trenta del Seicento, una delle caratteristiche di questi tempi nuovi. La nuova immagine del sapere che ha il carattere dell’universalità si costruisce attorno ad un nucleo di pochi concetti chiave. Anzitutto l’i-dea che la sola appartenenza alla specie umana è garanzia di acceso alla scienza e alla verità per cui non è più indispen-sabile appartenere al novero di presunti iniziati. In secondo luogo, i percorsi attraverso i quali si rende accessibile la veri-tà sono tutt’altro che complicati, al contrario possono essere fruiti utilizzando un linguaggio, non banale, ma semplice e chiaro. Infine, il terzo assunto, posto a corollario dei primi, ritiene che qualsiasi uomo può accedere al sapere12. Come poi diranno Arnauld e Nicole negli Éléments de géométrie, la scienza consiste solo «nel portare più avanti quello che sappiamo naturalmente»13. Su questo specifico punto torne-ranno, con una certa insistenza, gli autori più diversi che a vario titolo possono essere annoverati fra gli esponenti della rivoluzione scientifica del Seicento14.

Se in epoca rinascimentale la scienza definisce se stessa a partire da un processo di smarcamento da visioni magiche, per giungere ad un’immagine della scienza, mutuata dalla

11 AA. VV., Storia della scienza, op. cit.12 Cfr. Ivi, pp. 43-52.13 A. ARNAULD - P. NICOLE, Éléments de géométrie, 1669, in AA. VV., Storia della scienza, op. cit.14 In Marin Mersenne il presupposto, di natura anti-magica ed anti-alche-mica, dell’uguaglianza delle idee è espresso con particolare chiarezza: «Un uomo non può fare nulla che un altro uomo non possa ugualmente fare e ciascuno contiene in sé tutto il ciò che è necessario per filosofare e ragio-nare di tutte le cose». M. MERSENNE, Quaestiones in Genesim, 1623, in AA. VV., Storia della scienza, op. cit.

Bacone

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ziati discendono dalla pratica della vita quotidiana e Bernal ne analizza le peculiarità tipiche: «lo scienziato si pone un compito ben preciso e osserva le condizioni in cui dovrà es-sere svolto per poi sperimentare i mezzi più adatti che ha a disposizione per svolgerlo»23: nel gergo, si passa dall’osser-vazione alla sperimentazione. L’osservazione è propedeutica ad un altro processo significativo che include la classifica-zione, finalizzata ad ordinare in un dato modo i vari gruppi di fenomeni, ed infine la misurazione, attraverso la quale si

pone a confronto una data quantità-tipo con la quantità che deve es-sere pesata o misurata. L’introduzione della misurazione spiana la strada ad una massiccia sperimentazione: l’at-tività sperimentale si compie prima su vasta scala, in seguito su scala ridotta e con maggiore precisione. Naturalmen-te ciò si rende possibile grazie alla messa a pun-to di strumenti materiali creati dallo scienziato, che finiscono col costi-tuire l’apparato della scienza, «utensili e stru-menti della vita quoti-diana adattati a scopi speciali»24. I risultati degli esperimenti danno forma al corpo organico della conoscenza scien-tifica, attraverso catene logiche essi vengono raggruppati tra loro,

collegati, messi a confronto in un ininterrotto processo di elaborazione fino a costruire «un edificio più o meno coeren-te di leggi, princìpi, ipotesi e teorie»25. È il metodo attraverso il quale l’agire scientifico si dispiega con l’intento di tentare di risolvere una serie di problemi, rispondere ad istanze ed aspettative diverse per la maggior parte legate a bisogni sociali26. A parere di Bernal «il progresso della scienza si è di fatto attuato mediante la soluzione dei problemi posti anzitutto dall’immediata necessità economica, e solo in un secondo momento sono sgorgati dal precedente pensiero scientifico», aggiungendo che «è molto più difficile indivi-

realtà, Enciclopedia dei ragazzi, 2006, p. 1.23 J. D. BERNAL, op. cit., p. 13.24 Ivi, p. 15.25 Ivi, p. 16.26 In tal senso non meno annosa appare la questione della scelta degli in-terrogativi cui la scienza dovrebbe rispondere. Cfr. A. SCIPIONI, Scienza e metodo scientifico, 2009, p. 6.

economica parallelo a quello della storia della scienza; un tentativo di ripensare l’intera avventura scientifica alla luce di una ridefinizione dei rapporti fra scienza e società, con-fluito nella sua Storia della scienza. Di fatto, spiega Bernal, nella complessa dinamica tra lavoro scientifico ed aspetta-tive sociali, lo scienziato agisce nella ferma convinzione di dover interagire con tre precise categorie sociali: i mecenati, persone o, nella maggior parte dei casi, enti che assicurano i fondi, i colleghi, attraverso i quali egli stesso può, più fa-cilmente, «vendere» al mecenate i frutti del suo lavoro, infine, il pubbli-co, fonte di conoscenza e di ispirazione18, senza il quale la scienza resta «un rito occulto pratica-to da un gruppo chiuso di eletti»19.

Bernal mostra l’im-magine di una scienza che assume sempre più il «prestigio di una profes-sione esclusiva», sui ge-neris rispetto alle altre, sempre meno accessibi-le20 al pubblico, i cui ri-sultati pratici non hanno quel «valore economico immediato»21 tipico del-le occupazioni comuni della società. Nel corso della storia della scienza l’istanza di ricercare un efficace metodo di vali-dazione diviene sempre più cogente. In realtà se il bisogno di individuare un metodo nasce proprio con il pensiero umano, «solo con la scienza moderna esso diventa un problema fondamentale: infatti senza un metodo scientifico non è possibile accrescere le nostre conoscenze del mondo naturale»22. Di fatto i metodi seguiti dagli scien-

18 Ivi, pp. 11-12.19 Ivi, p. 11.20 Il problema dell’accessibilità o meglio della trasmissibilità di notizie ed informazioni di contenuto tecno-scientifico attraverso uno stile chiaro semplice, ma non banale, che eviti inutili tecnicismi, così da destare in-teresse e raggiungere un pubblico eterogenei di cultura media, resta sullo sfondo del più ampio tema, ad esempio, del rapporto tra scienza, media e comunicazione. (Cfr. U. APOLLONIO, Scienza e ricerca: conquiste, sfide e dilemmi. L’importanza della divulgazione scientifica e tecnologica, Rubettino, 2002, p. 10.). E proprio il linguaggio della scienza, forse fra gli strumenti più importanti di cui essa dispone, rischia di essere, di fatto, una «barriera tra la scienza e l’uomo comune», rendendo urgente una sorta di «travasato nel linguaggio comune» per essere quanto più accessibile ad un pubblico sempre più vasto. (Cfr. J. D. BERNAL, op. cit., p. 16.). 21 J. D. BERNAL, op. cit., p. 9.22 G. POLIZZI, Metodi scientifici. Come orientare la conoscenza della

Cartesio

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to essenziale di una scienza che, nell’emanciparsi da ogni forma di pregiudizio speculativo, si costruisce attraverso l’osservazione scrupolosa e la sperimentazione sistematica. Una procedura che dalla conoscenza accumulata dei fatti osservati e sperimentali giunge alle verità generali attraverso un metodo induttivo ed empiricamente fondato30.

30 Cfr., E. ROLETTO, Produzione ed evoluzione dei saperi scientifici, Roma 2009, p. 19. Secondo Bacone l’induzione è un ragionamento che “interpreta” l’esperienza, riflettendo a lungo su di essa e, da essa, estra-polando progressivamente dei principi generali. Si tratta, dunque, di un ragionamento che procede dal noto verso l’ignoto e la cui natura è am-pliativa, in quanto le conclusioni alle quali giunge rappresentano qualcosa di più ampio delle premesse e dei fatti dai quali si è partiti. Lo scienzia-to in quest’ottica avrebbe dovuto procedere metodologicamente secondo un modello standard così sintetizzabile: moltiplicare (repetitio) e variare (variatio) le esperienze empiriche, estenderle (extensio) all’insieme del campo empirico preso in considerazione; trasferirle (traslatio) a campi em-pirici collaterali; praticare la soppressione (compulsio) di una variabile e notare le conseguenze sul fenomeno studiato. Infine, si devono combinare (copulatio) più esperienze e, grazie all’applicazione (applicatio) delle co-noscenze, mettere in evidenza nuove proprietà. A suo avviso lo scienziato deve procedere lentamente e progressivamente, gradino dopo gradino; in tal modo egli potrà formulare ipotesi solo dopo un’ordinata raccolta di dati e proporre una teoria solo dopo un’accurata sperimentazione. Un metodo di ricerca della verità fondato esclusivamente sui sensi e sull’intelletto. I fenomeni osservati dallo scienziato non devono poi essere semplicemen-te elencati, bensì classificati in base a precisi criteri stabiliti, ossia clas-sificati compilando apposite Tavole: di presenza, di assenza, dei gradi o comparative e di esclusione. In questo modo lo scienziato opera una scelta tra i fenomeni osservati, escludendo i fatti non importanti. Grazie al ragio-namento induttivo possono emergere le “qualità elementari” delle cose, quelle che Bacone chiama “forme”; gli scienziati, a loro volta, arrivano alla spiegazione dei fenomeni naturali tramite le relazioni che si possono stabilire tra le forme. La scienza di Bacone è essenzialmente qualitativa e dipende dalle impressioni sensoriali. Nel diciassettesimo secolo la diffu-sione dell’ideale di scienza baconiano rappresentò una svolta rivoluziona-ria. Essa era maturata in un contesto nel quale la risoluzione di problemi di qualsiasi natura era stata, fino ad allora, affidata alla metafisica e alla religione. In un mondo nel quale l’alchimia e le pratiche magiche erano abituali le idee di Bacone si affermarono come una vera e propria rivolu-zione paradigmatica.Il modello empirista sarà ripreso due secoli dopo dal Positivismo, del quale Auguste Comte è ritenuto forse il più illustre rappresentante. Come Bacone, Comte pensava che la conoscenza scientifica si basasse sui fatti osservati escludendo così qualsivoglia speculazione aprioristica che pre-cedesse l’osservazione dei fatti stessi. La scienza «positiva» si costruisce sull’interpretazione a posteriori dei fatti osservati. Il filosofo francese, tut-tavia, riconosceva che la mente ha bisogno di una teoria, per dedicarsi all’osservazione: è necessario collegare i fenomeni osservati a un principio generale per poter giungere a delle conclusioni. Di fronte alla contraddi-zione di un’osservazione che per risultare sensata deve integrarsi in un quadro teorico già disponibile (e quindi a priori), Comte sostiene che la mente dell’uomo prima di giungere al pieno della maturità, quella nella quale potrà dedicarsi esclusivamente ai fatti, attraversa uno stato primitivo nel quale è possibile che essa attribuisca importanza a speculazioni senza fondamento scientifico, che però finiscono col rappresentare l’architettura teorica della quale essa ha bisogno per poter interpretare le osservazioni che arriveranno successivamente. Pertanto, le teorie a priori, che non hanno senso nella prospettiva «po-sitiva», pur essendo indispensabili al suo funzionamento, «vengono con-siderate come i residui dei primi balbettamenti della nostra mente” (Ivi, 31.) L’evoluzione della mente umana passa attraverso tre fasi che Comte così definisce: Fase Teologica o Fittizia, nel corso della quale la mente si interessa essenzialmente della natura intima degli esseri: le cause prime e finali sono attribuite ad agenti soprannaturali (dei, spiriti, ecc.); Fase Metafisica o Astratta, la quale non sarebbe altro che una semplice modifi-cazione della precedente: gli agenti sovrannaturali sono sostituiti da forze astratte, entità in grado di provocare i fenomeni osservati (ad esempio, la forza vitale delle molecole organiche); Fase Scientifica o Positiva, nel

duare un problema che trovare la soluzione. Il primo atto richiede immaginazione, il secondo solo ingegno»27. Spes-so la storia della scienza è rappresentata come una storia di grandi scoperte cui si sarebbe giunti passando per una sorta di disvelamento ordinato e coerente dei segreti della natura in maniera del tutto scollata dai contesti socio-culturali entro i quali, le stesse scoperte, sono maturate e, tuttavia, se «pos-siamo affermare che il grande uomo ha avuto un’importanza determinante nel progresso scientifico, ciò non vuol dire che sia possibile considerare la sua opera rescissa dall’ambiente sociale in cui è nata»28. La comprensione del mondo passa attraverso la preliminare considerazione che lo scienziato partecipa al proprio tempo, ne è pienamente inserito: è questa la precondizione per promuovere un cambiamento sostanzia-le e una svolta nel cammino della conoscenza umana.

IV. Il problema dell’origine del sapere scientifico può es-sere approcciato a partire da un’analisi preventiva di quel-li che rappresentano i due principali strumenti d’indagine della realtà, vale a dire la facoltà di ragionare e la facol-tà di entrare in contatto con il mondo attraverso la media-zione sensoriale, ossia di osservare il mondo. Gli studiosi che hanno posto a fondamento della conoscenza l’esclusivo utilizzo della ragione sono conosciuti come «razionalisti», quelli che, invece, individuano le basi della scienza nell’uso dei sensi, e dunque nell’osservazione, sono solitamente detti «empiristi»29. Risale al XVI secolo l’avvio della riflessione intorno alla definizione del metodo scientifico, al quale ri-correre per produrre saperi scientifici. Una riflessione che acquista una sua sistematicità solo un secolo più tardi con le intuizioni di Bacone e di Cartesio. Per il primo la centralità dell’osservazione della natura e dei fenomeni resta impre-scindibile, osservazione che può compiersi attraverso l’uti-lizzo del ragionamento induttivo, o sintetico, che, muovendo dal particolare al generale, rende possibile la formulazione di un insieme di principi generali. Secondo Bacone gli studio-si della natura avrebbero dovuto accantonare ogni pensiero filosofico e speculativo, dal momento che, la fondazione di una vera conoscenza scientifica poteva realizzarsi esclusiva-mente sulla base di fatti osservati derivanti dall’esperienza e dalla prassi sperimentale. Proprio quest’ultimo aspetto fi-nisce per rappresentare, nell’orizzonte baconiano, il costrut-

27 J. D. BERNAL, op. cit., p. 17.28 Ibidem.29 Questo non significa che gli empiristi non facciano uso della ragio-ne. Significa che i razionalisti ritengono possibile produrre idee di natura scientifica senza disporre di dati d’osservazione, mentre gli empiristi ri-tengono che senza dati di osservazione non sia possibile produrre alcuna idea di natura scientifica. All’interrogativo Qual è l’ingrediente di base per elaborare conoscenze scientifiche? i razionalisti rispondono “il ragiona-mento”; gli empiristi ribattono “l’osservazione”. I filosofi dell’empirismo ritengono che le informazioni che provengono dai sensi hanno un ruolo fondamentale nell’acquisizione di conoscenza; a parere loro, infatti, la conoscenza scientifica si raggiunge tramite le facoltà percettive, ovvero grazie all’esperienza personale. Essa, dunque, è una conoscenza provata: le sue leggi/teorie derivano dai fatti acquisiti tramite osservazioni ed espe-rimenti. Di conseguenza, il sapere scientifico è tale solo perché oggettiva-mente dimostrato.

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un sapere scientifico, dai quali sarà possibile dedurre teorie e leggi oggettive. Una volta posta la verità degli assiomi di partenza, tutto ciò che ne discende è vero, grazie al rigore della logica e della matematica32.

Le intuizioni di Bacone e Cartesio «costituiscono due esempi significativi del cambiamento ormai in atto nel modo tradizionale di concepire la natura, cambiamento che prese per l’appunto avvio nel Rinascimento e che si affermò deci-samente nell’Illuminismo. Le opposte riflessioni dei due filo-sofi tendevano ad un comune obiettivo: fare in modo che lo studio della natura potesse svolgersi ed esprimersi in totale autonomia e fosse libero dai condizionamenti della metafisi-ca e della religione»33. Le loro opere ebbero larga diffusione intorno al XVII secolo, secolo che viene convenzionalmente indicato come quello della «rivoluzione scientifica», e, nel corso del quale, inizia a delinearsi, in maniera più netta, la separazione tra cultura umanistica e cultura scientifica sulla base del ricorso sistematico ad un metodo fondato sulla com-prensione «oggettiva» della natura.

V. Nel classico sulla Struttura delle rivoluzioni scientifi-che Thomas S. Kuhn introduce, per valutare lo sviluppo e il progresso della scienza, due dimensioni categoriali par-ticolarmente funzionali alla determinazione di un piano di analisi dell’articolazione del sapere scientifico nella sua specificità. Kuhn intende per scienza normale «una ricerca stabilmente fondata su uno o su più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scien-tifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costruire il fondamento della sua prassi ulteriore»34. Con «scienza normale» si fa dunque riferimento ad un sistema condiviso di teorie e prassi che definiscono il carattere stesso della ricerca scientifica a partire, appunto, dal riconoscimen-to della loro validità: la definizione di Kuhn evidenzia chia-ramente una connotazione storica del carattere «normale» di un sapere scientifico, definito entro i limiti di una più o meno estesa periodizzazione. Accanto alla definizione di «scienza normale», il concetto di «paradigma» rappresenta il nucleo fondativo dell’analisi kuhniana, rappresentando sostanzial-mente l’essenza stabilizzante che definisce in se stessa la portata della normalità scientifica. Se in genere «per para-digma si intende un modello o uno schema accettato, […] in una scienza […] un paradigma è raramente uno strumento di riproduzione. Invece, analogamente ad un verdetto giuridico accettato nel diritto comune, è lo strumento per una ulteriore articolazione e determinazione sotto nuove e più restrittive condizioni»35. Il paradigma tende ad imporsi ad un’epoca e ad una comunità scientifica in forza della sua capacità di rispondere e risolvere problemi che la comunità stessa rico-nosce come urgenti. In tal senso, Kuhn chiarisce che il ca-rattere preminente del paradigma non è l’esaustività rispetto

32 Cfr. Ivi, p. 26.33 Ibidem.34 T. S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino 1969, p. 29.35 Ivi, p. 43.

Cartesio, invece, per il quale la matematica rappresentava la regina delle scienze, propone un ragionamento di tipo de-duttivo o analitico, che, all’opposto, procede dal generale al particolare.

Se Bacone aveva insistito sull’opportunità di disfarsi dei preconcetti e delle credenze religiose, Cartesio radicalizza la volontà di liberare il pensiero da tutto ciò che considera su-perfluo, arcano, comunque non scientifico. Ne Il discorso sul metodo (1637) propone una netta separazione tra Chiesa e Ragione muovendo dalla premessa che esiste un Dio perfetto e giusto il quale ha posto delle leggi nella Natura, che, a loro volta, sono razionali e conoscibili dall’uomo, in quanto es-sere razionale. Il mondo è comprensibile proprio perché Dio lo ha creato tale. Pertanto gli uomini possono comprendere il mondo dal momento che la capacità di giudicare e conoscere «secondo la ragione» è stata loro data, anche se, talvolta, può essere offuscata dai pregiudizi31. La conoscenza della natura si dà soltanto facendo astrazione dai sensi, ecco il motivo per cui diviene imprescindibile l’urgenza di rifondare le scienze tramite un metodo semplice, comune a tutte, fondato sulla matematica e sulle leggi della meccanica. Partendo dai fon-damenti del sapere (i principi primi), gli scienziati stabilisco-no, mediante ragionamenti deduttivi, i principi generali di

corso della quale la mente umana riconosce l’impossibilità di pervenire a conoscenze assolute e rinuncia a cercare le cause ultime dei fenomeni (gli scienziati attraverso l’osservazione e il ragionamento, si limitano a scoprire le leggi naturali che regolano i rapporti esistenti tra i fatti e ne permettono la previsione). I critici del positivismo, a tal proposito, sosterranno che i positivisti, limi-tando il sapere scientifico solo a ciò che è percepibile con i sensi, hanno notevolmente ristretto il campo di indagine della scienza stessa. Al po-sitivismo verrà altresì imputata l’assoluta negazione dell’intervento di qualsiasi tipo di conoscenza apriori nella costruzione delle teorie; quasi dimenticando che l’osservazione è qualcosa di attivo, cioè, «osservare non è vedere; l’osservatore scientifico non si limita a contemplare passivamen-te la natura, con i sensi in stato di allerta, pronto ad afferrare il fatto che potrà essere oggetto di una nuova legge. L’osservazione scientifica esige la partecipazione della mente che è all’origine e la indirizza secondo le proprie esigenze. L’osservazione non è mai una “constatazione” priva di ogni idea preconcetta, ma il risultato di un “progetto”, di una volontà di ricostruzione del reale» (Ivi, p. 33.). 31 Ivi, p. 24. In base a ciò, Cartesio fa dedurre l’intero universo da Dio, tramite un metodo chiaro ed esatto in ogni suo passaggio. Come per Ba-cone, anche per Cartesio il metodo è tutto. È solo grazie ad esso che è possibile la conoscenza della natura e, tuttavia, per i due studiosi le regole che rendono un metodo valido sono diverse. Da una parte Bacone, la cui proposta metodologica, quella induttiva, vede nell’osservazione e nell’e-sperimento i due momenti chiave, dall’altra Cartesio, per il quale il solo ragionamento deduttivo garantisce un approdo alla verità. Diversamente dagli empiristi del suo tempo, per Cartesio la conoscenza del mondo non può derivare dall’enumerazione e dalla classificazione dei fenomeni osservati (proprietà qualitative), piuttosto dall’individuazione di un principio matematico esatto (proprietà quantitative). Contrariamente da Bacone Cartesio, nel riconoscere la natura ingannevole dei sensi, con-sidera la matematica l’unico strumento per acquisire la conoscenza. Per questo motivo è necessario individuare il metodo proprio della matematica estendendolo a tutte le discipline. Poste queste premesse si chiarisce il mo-tivo per cui Cartesio non aveva nella massima considerazione la sperimen-tazione; era infatti convinto che l’oggettività del sapere scientifico trovasse il suo fondamento proprio nei principi a priori (assiomi iniziali) ritenendo pertanto superfluo il supporto di dati sperimentali. Pur non escludendo del tutto la sperimentazione, semplicemente non la riteneva utile alla produ-zione di nuove conoscenze, al massimo avrebbe potuto confermare ulte-riormente le teorie ricavate attraverso il ragionamento deduttivo.

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re segue percorsi imprevedibili e strettamente correlati alla natura più propria del sapere stesso: ogni scienza ha vissuto una transizione da uno stadio di immaturità e di incertezza ad uno stadio di maturità e di progressiva acquisizione di con-sapevolezza rispetto alla propria natura ed ai propri obiettivi. Un paradigma risponde a domande che vengono definendosi all’interno dell’arco costitutivo del suo stesso statuto teorico e pratico: in questo senso il rapporto tra paradigma e siste-ma di interrogativi a cui esso dà origine, prova a rispondere, risponde effettivamente e lascia irrisolti, è rappresentabile attraverso dinamiche soltanto parzialmente riconducibili ad un modello lineare e razionalizzabile. Prima di tutto va spe-cificato che «per venire accettata come paradigma, una teoria deve sembrare migliore delle altre teorie in lizza, ma non deve necessariamente spiegare tutti i fatti coi quali ha a che fare, e di fatto non li spiega mai tutti»41. Un paradigma ha, quindi, una strutturale incompiutezza: genera problemi, ri-solve antichi problemi e nuove questioni, ma lascia aperto un orizzonte di questioni che vanno a sedimentarsi all’interno ed all’esterno dello spazio concettuale di una teoria paradig-matica.

Un paradigma deve costruire strumenti interpretativi per spiegare fatti; in tal senso, la connessione tra teoria e natura assume una rilevanza determinante nella strutturazione com-plessiva di un paradigma e nella sua possibilità di essere con-diviso e accettato dalla comunità di esperti del campo42. «I problemi concernenti l’articolazione del paradigma sono al tempo stesso teorici e sperimentali più di quanto lo sia ogni altro tipo di ricerca normale»43: il rapporto tra teoria e speri-mentazione riproduce in forma paradigmatica il rapporto tra interpretazione e natura e proprio nella tensione che questo piano di interconnessione tende a generare si realizza il com-plesso di processi che determinano un paradigma. Nella ten-sione costruttiva il paradigma non viene soltanto strutturato, ma migliorato, ripulito e riarticolato: per molti versi è questo il senso più intimo e caratterizzante dell’attività scientifica. Una scienza «normale» si definisce in questa attività attra-versata da tensioni ricostruttive: un paradigma si costruisce nel confronto con i fatti e, nell’analisi kuhniana, ciò avviene secondo una triplice modalità – connessa al carattere pecu-liare dei fatti -. «Innanzitutto v’è quella classe di fatti che il paradigma ha indicato come particolarmente rivelatori della natura delle cose. […] Una seconda abituale, ma più piccola, classe di determinazioni fattuali riguarda quei fatti che, pur non avendo per se stessi un grosso interesse, possono venire direttamente messi a confronto con le previsioni ricavate dal-la teoria paradigmatica. […] Una terza classe di esperimenti e di osservazioni […] consiste nel lavoro empirico intrapreso per arricchire la teoria paradigmatica, risolvendo alcune del-le ambiguità che vi sono rimaste»44.

storicamente graduali, ossia coestensive con lo sviluppo globale dei campi rispettivi nei quali hanno avuto luogo». Ibidem.41 Ivi, p. 37.42 Cfr. Ivi, p. 51.43 Ivi, p. 54.44 Ivi, pp. 45, 46, 48.

ad una categoria di problemi, ma la sua portata ed efficacia relative36.

In questa prospettiva, complementare alla categoria di «paradigma» troviamo l’orizzonte della «promessa»: in al-tri termini la prospettiva realizzativa che un paradigma è in grado di aprire e che, in relazione alla previsione dei risulta-ti rispetto al gruppo di problemi urgenti di una scienza, de-termina il successo stesso di un particolare paradigma. La scienza «normale» è dunque un sapere fondato su «paradig-mi» storicamente caratterizzati: esiste un’interconnessione strutturale tra le dinamiche della ricerca nello spazio specu-lativo di una scienza «normale» ed il riferimento ad un «pa-radigma», che, in sostanza, sostiene una tradizione di ricerca. La strutturazione di una scienza «normale» lungo le direttrici indicate dal «paradigma» segue, secondo Kuhn, due fasi fon-damentali: acquisire le coordinate del paradigma e ripulirlo «estendendo la conoscenza di quei fatti che il paradigma in-dica come particolarmente rivelatori, accrescendo la misura in cui questi fatti si accordano con le previsioni del paradig-ma, e articolando ulteriormente il paradigma stesso»37. Una scienza «normale» tende, dunque, a focalizzare l’attenzione su ciò che un «paradigma» indica come sistema di fatti fon-damentali, introducendo in tal modo un modello procedurale che prevede «restrizioni» nell’ambito della ricerca, diretta emanazione della struttura stessa del paradigma. Le restri-zioni non entrano in contrasto con il più generale processo di sviluppo del sapere scientifico nella misura in cui «la scien-za normale possiede un meccanismo interno che assicura il rilassamento delle restrizioni che vincolano la ricerca ogni-qualvolta il paradigma da cui quelle derivano cessa di fun-zionare efficacemente»38.

Ciò che sembra emergere dall’analisi kuhniana è una strut-tura funzionale della ricerca scientifica che si organizza se-condo orizzonti problematici dominati da «visioni del mon-do» rivolte alla risoluzione efficace di questioni specifiche e supportate dalla forza costruttiva offerta dalla prospettiva scelta. Il cammino della scienza segue, dunque, itinerari trac-ciati dalla definizione di «paradigmi» in grado di realizzare convergenze all’interno della comunità scientifica; va però precisato che «il cammino verso un consenso duraturo nel campo della ricerca è straordinariamente arduo»39. La con-figurazione di un «paradigma» non è un processo lineare e scontato e si articola, secondo Kuhn, attraverso ripuliture e ricostruzioni che caratterizzano la durata complessiva della prospettiva paradigmatica. «Dall’antichità preistorica in poi, tutti i campi di studio, uno dopo l’altro hanno attraversato la linea di separazione che divide ciò che lo storico potrebbe chiamare la preistoria del campo, considerato come scienza, e la sua storia propriamente detta»40. Il cammino di un sape-

36 Cfr. Ivi, p. 44.37 Ibidem.38 Ivi, p. 45.39 Ivi, p. 35.40 Ivi, p. 41: «Queste transizioni ad uno stadio di maturità sono state ra-ramente così improvvise ed inequivocabili come la mia discussione, neces-sariamente schematica, potrebbe far pensare. Ma non sono state neppure

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soluzione il rompicapo definisce il suo valore costruttivo e la sua funzione operativa nella conformazione dell’assetto di un paradigma. Il rompicapo non è mai un enigma dal ca-rattere aporetico, esso assume un valore costruttivo a parti-re dalla previsione della soluzione; in tal senso assumono valore determinante per una scienza «normale» i rompicapo solubili. Questa prospettiva concentra nelle mani del ricerca-tore e nella sua abilità come solutore la responsabilità della soluzione. «La sfida personale è come risolvere i rompicapo rimasti insoluti»48: in questa sfida si definisce il ruolo del ricercatore, dello scienziato, dell’individuo che è propenso a confrontarsi con gli interrogativi solubili rimasti insoluti in un campo specifico del sapere. «Lo scienziato […] deve sentirsi impegnato a comprendere il mondo e ad estendere la portata e la precisione dell’ordine che gli è stato dato. Que-sto impegno lo deve, a sua volta, guidare a scrutare, da solo o con l’aiuto dei colleghi, alcuni aspetti della natura fin nei minimi dettagli empirici. E se tale esame svela sacche di ap-parente disordine, queste lo devono allo stimolare a raffinare ulteriormente le sue tecniche di osservazione o a dare mag-giore articolazione alle sue teorie»49.

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45 Ivi, p. 54.46 Ivi, p. 57.47 Ibidem. «I termini rompicapo e solutore di rompicapo mettono in luce parecchi dei temi che hanno acquistato una importanza sempre maggiore nelle pagine precedenti. I rompicapo sono, nel significato assolutamente usuale qui usato, quella speciale categoria di problemi che possono servire a mettere a prova la ingegnosità o la abilità nel risolverli» (Ivi, p. 58).

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FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO | SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016

are all familiar to the fact that humans evolved from an ape-like creature called australopithecus. But, if biologically and genetically speaking our genotype still today is not so differ-ent from the genotype of an ape, we find incommensurable qualitative differences between the two species. So what is the critical point that marks the difference between the two mammals? According to large part of scientific communi-ty the development of language represents the ratio of our evolution (Lieberman, 2006). Then, the study of language may actually offer one of the most promising points in un-derstanding human nature and mind. While there is a con-solidated agreement on the importance of language, on the other hand there is no clear explanation of its role. Today’s scientific investigation on the development of mankind lies on an evolutionary approach. Following this idea, the origin of language as we know it, can be traced somewhere in the evolution of human specie that goes from our firsts hominid ancestors until our days. How can we outline the evolution of

Language and Evolution: For a Revision in the Study of Language FILIPPO MARIA SPOSINIDepartment of Philosophy, Sociology, Pedagogy and Applied Psychology (FISPPA), University of Padua, Italy

The purpose of this paper is to support and propose the idea that the lack of knowledge and the emerging difficulties in studying the elementary features of language derive from a misleading conception of the relationship among language, brain and mind. The investigation starts by considering the evolutionary theory and its current derivations, then the ma-jor approaches to the scientific study of language will be pre-sented, together with their basic assumptions. Finally there will be space for a discussion for the re-examination of the relationship between brain and language in evolution and, the reconsideration of the social nature of human language.

INTRODUCTION

At a certain time in human history, man started to use a complex symbolic system as a way of communication with his peers. Suddenly, a whole new landscape opened up. With subsequent refinements and im-

provements, the use of this system provided the opportunity for men to abstract elements of everyday reality, reproduce past moment of life and represent future happenings. He be-came self-aware and self-possessed. He found himself free of the immediacy of moment-to-moment life. From the fate-ful instant in which language became an essential element of a certain community, men began to spend time talking with themselves and with other. It was the beginning of what we now call “mental world”.

Hundreds of millions of years of evolution have produced incredible differentiation in living species, with incredibly complex organisms and surprisingly diversified behavioral patterns. Considering the overwhelming variation of life, we must reflect on the uniqueness of the homo sapiens sapiens among the hundred of thousands evolved on Earth because, as rightly stated by Terrence Deacon: «Only one of these species has ever wondered about its place in the world and only one evolved the ability to do so» (Deacon, 1998). We

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descend from a common ancestor or an ancestral gene pool and all current species are in a specific stage in the process of evolution, man included (Campbell & Reece, 2005).

In substance, today’s genetics does not give us the right to feel specials or uniques. Conducting a genetics comparison between men and an apes, we can discover how close we are to our hairy friends. DNA studies indicate that there is a tiny difference between chimpanzees and human genome. The DNA of the bonobo – a kind of chimpanzee – differs from humans’s DNA only for 1.2% (Prüfer, 2012). Everyone recognizes the physical similarities between men and apes. But qualitatively speaking, we find incommensurable dis-tinctions. So where is the difference? Where is the gap that separates us from the other apes? What is the crucial element that marks human experience? One of the most accepted an-swers that has been proposed states that humans are humans because they possess a complex and very diversified tool: the language.

MAINSTREAM APPROACHES IN LANGUAGE STUDIES

Language is thought to have originated when our ancestors started gradually changing their expressive systems. This de-velopment is said to have coincided with an increase in brain volume. If language is a consequence of an increased com-plexity of human nervous system, then we are led to think that our communication properties are nothing but an epiphe-nomenon of organic changes (Legrenzi & Umiltà, 2011). It is commonly argued that something happened to the human body, some kind of positive mutation. An increase in quan-tity at a certain point gave rise to deep qualitative changes. The evolution of man from the animal kingdom was based solely upon a quantitative difference in the nervous system (Weisskopf, 1979). The constant increase in the complexity of the brain reached a point at which the formation of the so-called «higher mental functions» including language, was possible. The hypothesis is that one of our lucky ancestors, due to substantial environmental changes, somehow present-ed new organic manifestations characterized by a more com-plex nervous system. The alteration in neuronal connections, predisposed the ideal conditions for the development of lan-guage. Ergo, an elaborate nervous system is considered the necessary condition for a of complex symbolic systems. No brain changes, no language: pretty straightforward.

According to this conception, the mind is said to be emerged from brain’s complexity. This framework has been very prolific for the development of several approaches to the scientific study of language and its origins. Noam Chom-sky is certainly one of the most important figures in the field and its theorization regarding «universal grammar» is still well-accepted and highly recognized (Chomsky, 1965). Chomsky argues that the ability of children to acquire the grammar of their first language, and the ability of adults to spontaneously use it, can only be explained by assuming that all human languages are a variations of a single gener-ic «universal grammar», a built-in property of human brain.

such amazing ability? According to a large part of contem-porary researchers, the modus princeps is to analyze in-depth brain functions and the brain anatomy of our ancestors (Mc-Crone, 1991). Despite all the scientific and technological ad-vances, there are still some critical pieces of the puzzle that remain unclear. Language, its evolution, characteristics and peculiarities seems to be a very foggy area of investigation.

The purpose of this paper is to support and propose the idea that the lack of knowledge and the emerging difficulties in studying the elementary features of language, can be settled over a substantial point that drives us to a misleading con-ception of the relationship among language, brain and mind. The investigation starts by considering the evolutionary the-ory and its current derivations, then the major approaches to the scientific study of language will be discussed, consider-ing also their basic assumptions. Finally there will be space for a discussion about the re-examination of the relationship between brain and language in evolution and, the reconsid-eration of the social nature of human language based on the analysis of the essential properties and relations.

EVOLUTION

At the end of 1859, a crackpot english naturalist named Charles Darwin published one of the most important books in the history of knowledge. The full title was: «The origin of species by means of natural selection: or the preservation of favoured races in the struggle for life», the goal was to explain in detail the innovative idea of «natural selection». He noted that the population growth would lead to a «strug-gle for existence» where favorable variations could prevail over others. Indeed, Darwin observed that for each gener-ation many offspring fail to survive because of limited re-sources (Darwin, 2001 [1859]). This simple idea was the key to understand the diversity of animals and plants from a common ancestry. Few decades after the publication of Darwin’s book the notions of «evolution» and «natural se-lection» found fruitful application in the human field. Using paleontology and comparative anatomy it has been possible to prove the scandalous evidence that humans and apes share a common ancestry. It was an incredible event that shocked the world. Sigmund Freud, at the beginning of the twentieth century commented the diffusion of the evolutionary theo-ry as a «narcissistic attack»: humans did not have a special place in the universe anymore.

Further steps commonly noted for the history of the evo-lutionary theory are the rediscovery of Gregory Mendel’s work on genetics during the second half of the nineteenth century and the publication of the structure of DNA by James Watson and Francis Crick that demonstrated a physical basis for inheritance. Nowadays, evolutionary theory presents us with a solid approach to understand life. It connects natural selection, the mendelian genetics and the molecular basis for inheritance into a unified theory that applies generally to any branch of biology. After hundred and fifty years of studies in evolution we can firmly assert that all living organisms

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community (e. g. Yeo & Eickhoff, 2016). Molecular biology and neurosciences are taking part in a common mission that involves whole armies of scientists applying cutting-edge technologies to understand what organic and genetic chang-es made the evolution of human language possible (Huth et al., 2016).

Facing this “mainstream” perspective we should analyze two critical points. First, the research framework guiding the entire scientific enterprise is strongly subjected to crit-ics. The idea that the formation of human language can be located in a precise cerebral region where brain changes are considered first to language formation, is far from indisputa-ble. Second, the reduction of language to structural elements such as grammar, syntax, voice patterns and writing proper-ties together with the consequent analysis based on individ-ual cases, is driving scientific research to a misleading path. This mainly because of a failure in considering one of the basic constituent of language: its social nature.

Let’s get in deep with these two arguments.

1. Inverting the Brain-Language Relationship

As described before, the evolution of language in human-kind is considered possible because of organic changes, a “special happening”, that took place somewhere in the his-tory of our specie and have been genetically transmitted to future offsprings. Human brain characteristics are unique and the same level of complexity cannot be found in some other species. Since the presence of human-like language is

The language information is considered to be already “in the brain” and it must take the organic form of a special device, a unique «language organ» that would be the ultimate dif-ference between human and animal. The formation of such special device is supposed to have evolved from a mutation that produced a new and better-equipped organism ready to develop language properties (Chomsky, 2002).1

Another important contribution was offered by Steven Pinker less than twenty years ago. He corroborates Chomsky ideas that language is an innate property, but he conceives the production of language as an instinctive externalization of a built-in knowledge that has evolved through genetics alterations. Speaking or writing is translating an internal lin-gua franca called «mentalese» into an actual language. An-imals are conceived to have some kind of a «primitive men-talese» that guides the production of any kind of language (Pinker, 1994).

These approaches to the scientific study of language con-stitute the leading trend in linguistics and are based on pre-cise assumptions that consider – as stated before – language as an epiphenomenon of brain complexity. By taking for granted the supposition that human brain is the cause of lan-guage, a scientific and thorough analysis of language origins and features should be focused solely on brain dynamics. And actually, this is exactly what is going on in the scientific

1 An «hopeful monster» is the name used by biologists to refer the incredible happening that has brought to the formation of an «ape plus language» (McCrone, 1991).

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Canguilhem, 1989 [1966]). The basic idea is that every phe-nomena under observation can be reduced for the purpose of knowledge to several distinct parts governed by specific identifiable dynamics (Bunge, 1967). In language studies we assist to a decomposition of human language in differ-ent subcategories that want to represent its elementary con-stituents. The attempt is to reduce and describe language in terms of syntax, grammar, voice or writing (Allan & Nou-dushan, 2015). Furthermore, an empirical methodology that aims to establish solid association between variables, is focused on the investigation of specific individual cases with the goal of generalization. This implies that the great majority of theories about language are based and directed to an experimental direction where the aim is to understand the big picture in terms of small connections studied under strict control. In brief, the analysis of language is based on the identification of certain elements that can be studied in laboratory in order to empirically verify the appropriateness of the hypotheses. The point is that every practice that fol-lows this path, excludes from the investigation a vital ele-ment that characterizes human language: its social nature (Wittgenstein, 1953; Vygotskij, 1962; Berger & Luckmann, 1966; Bateson, 1979).

We can support the argument with an easy example. Im-agine a room with two people sitting on a chair around a table. In the middle of the table there is an object that is un-known to both. Let’s say that they are interested and they want to understand it. One of the first things they would do is probably touch it, then there would be an attempt to compare the object with other similar items. A further step could be that they make up a name for it that precisely identifies that object, let’s say that they arbitrarily choose the name “sozy”. After that, the physical presence of the object is not required anymore for a discussion. The two people can freely keep talking about “sozy” its characteristics, its similarities, its properties and its attributes. Virtually, they can use “sozy” as the central point for a theory, for a poetry, for a musical piece, for a religion or even for a science. Here we can see the real potentiality of language as a social action. The origi-nal object by entering in the interaction between the two peo-ple through the use of a shared language, becomes something else, it changes in its nature. Through the use of a common language they have transformed the object in a symbol that can be used in many different ways and for many different purposes. The object has assumed a meaning that has been socially constructed trough the use of language (Harré & Gillet, 1994; Gergen, 1999).

CONCLUSIONS

The real advantage for our ancestors was not the act of naming things but the possibility to use the things named within a community that shared a language. This gave birth to a new world, a semantic world, virtually disconnected to sensible perceptions. With the development of shared symbolic system man became capable to construct another

necessarily associated with a complex nervous system and no other known specie manifests a symbolic system that can be compared to our language, it has been concluded that the relation between complex brain and highly-elaborated lan-guage is solid. Let’s consider for a moment the hypothesis where language is the result of a new organic equipment. How this mutation could have been possible? And most im-portant: might we think that before the “special happening” hominids had no language? As we try to answer the latter question we face huge concerns. If we consider our ancestor before the “special happening” we must assume that he or she – as an ape-like creature – could be able to communi-cate someway. We know that apes are actually expressive animals and, just like apes are able to produce and use some symbolic system, so should have been our ape-like ances-tor. If so, there must have been some sort of communication before the evolution of human-like language. We are forced to hypothesize that the continuous use of language within a community of speakers and the further sophistication of the symbolic system, led to organic adaptations and brain mod-ifications that have been successfully transmitted to future generations. Just like apes, our ancestors must had a way to create and reproduce a “primitive” system of symbols, and as it became enclosed it also became indispensable. In this process, the once “primitive” language must have evolved in a more complex language. These changes established a novel mode of expression into the evolutionary process where be-havioral patterns upset organic structures. Together with the neuro-anthropologist Terrence Deacon, we must hold the po-sition that brain evolution has been the response – and not the cause – of the increasing complexity of language (Deacon, 1998; Schilhab et al., 2012). From this perspective, language has to be conceived as the prime mover.

The primacy of language on the brain can also be support-ed by phylogenetic analysis. Genetics development is a long process. It takes thousands if not millions of years to appreci-ate a genotype modification that can conduct to a new specie. Although genetically and biologically speaking we are not so different from a man that lived in the Stone Age, the quality of our experience is incomparable. The continuos application of human language has brought outstanding advancements to our specie such as the scientific knowledge. The reconsider-ation of the role of language in the evolution of human brain and what we now call human “mind” would guide scientific knowledge to a strong shift that would consider language as the ultimate condition for human experience (Wittgenstein, 1953).

2. The Social Nature of Language

Just like any other scientific investigation from the 17th century onward, the study of language has followed a re-ductionist project. Although this approach has always been predominant in science and has brought many advantages, it seems clear nowadays that the extensive and indiscrimi-nate application of this strategy appears problematic (e. g.

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Yeo, B. T., & Eickhoff, S. B. (2016). Systems neurosci-ence: A modern map of the human cerebral cortex. Nature. doi:10.1038/nature18914

world, another reality that we now call «mental reality». But it has to be reminded that everything we name «mental» or «psychic» owns its existence to a certain use of language.

Although a reductionist approach to the study of language can be useful for linguistic reasons, the extension of this com-prehensive frame leaves out an entire domain of knowled-ge. Indeed, language is nothing outside a social interaction. The very nature of language has to be found in its use, in a symbolic environment. Language should be studied in re-lation with the specific context in which takes place. This is not to say that elements such as grammar, syntax, voice or writing are not important or irrelevant. But if we want to analyze not what language is, but what language does: to say, how language shapes and figures reality, then we need to revise our theoretical frame. Gaining this starting point we are in the position to open a new research program for the scientific study of language and furthermore, we can ad-dress some classical scientific and philosophical issues such as the nature of mind, the nature of language and the mind-body problem from a new and fruitful perspective ((Turchi & Orrù, 2014).

REFERENCES

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del sentimento e delle emozioni.

«Infatti il sublime trascina gli ascoltatori non alla persuasione, ma

all’estasi. Perché ciò che è meraviglioso s’accompagna sempre a un

senso di smarrimento e prevale su ciò che è solo convincente e grazio-

so […] la grandezza abbandonata a se stessa, senza la consapevolezza

di sé, è in pericolo, instabile, incostante, lasciata all’impeto irriflessivo

della propria audacia: spesso i geni hanno bisogno di un pungolo o di

un freno […] il sublime è la risonanza con una grande anima […] un

vero oratore deve evitare pensieri meschini e ignobili, poiché non è

possibile che chi coltiva per tutta la vita pensieri e occupazioni pic-

cini e servili possa produrre qualcosa di meraviglioso, degno di fama

immortale, dato che è logico che siano grandi i discorsi di coloro che

hanno pensieri profondi»3.

Queste sono solo alcune delle considerazione e delle indi-scutibili qualità di un testo che rimane tra i più attuali dalla classicità ad oggi. Nell’intestazione del manoscritto più an-tico (X secolo) viene riportata la dicitura «Dionisio oppure Longino» a dimostrazione che già all’epoca in cui esso fu trascritto (X secolo) si era persa memoria del suo autore, per la cui identità venivano avanzati i nomi di due eminenti re-tori di età imperiale, Dionisio d’Alicarnasso e Cassio Longi-no (talvolta l’autore viene indicato come Pseudo-Longino o Anonimo del Sublime)

L’Anonimo scrive per un nobile romano appassionato di letteratura greca, Postumio Floro Terenziano, il quale re-sta ignoto e quindi non è utile a risolvere i problemi di data-zione. Il suo intento è di esaminare cosa sia lo stile sublime (Hypsos), ciò che «induce a sentimenti e riflessioni più alte di quanto in esso è stato detto» e che quindi produce sui lettori un’impressione durevole.

Longino apre il trattato chiamando in causa l’opera Sul su-blime di Cecilio di Calatte4, scritta intorno al I secolo a.c., è

3 Anonimo, Il sublime, Oscar Mondadori, Milano, 2009, p. 57.4 Storico e critico letterario visse in Sicilia nella seconda parte del I. se-

Il sublime di Palmira, tra corsi e ricorsi della storia EMILIANO VENTURADottore di ricerca presso la Pontificia Università Lateranense

Nel Luglio del 2015 la città di Palmira viene invasa dagli uomini dello Stato Islamico, alcuni importanti reperti archeo-logici vengono distrutti, il maggior esperto del sito archeo-logico, il Professor Khaled Asaad, viene ucciso per essersi rifiutato di indicare il luogo in cui sono custoditi ulteriori reperti artistici e archeologici. Circa mille e ottocento anni prima la stessa città viene assediata dall’impero romano e un altro importante pensatore viene ucciso per la sua fedeltà alla regina Zenobia, si tratta di Cassio Longino. A lungo è stato creduto l’autore del primo ‘trattato di estetica’ Il sublime. Lo scritto che segue è volto a mettere in evidenza alcune caratte-ristiche in comune tra Cassio Longino e Khaled Asaad.

I fatti di cronaca accaduti nell’estate 2015 sono drammatici, ci si riferisce alla violenza perpetuata contro le persone e contro un sito storico-archeolo-gico unico come la città siriana di Palmira

Quando si legge di Palmira la memoria va im-mediatamente alla regina Zenobia che si oppose all’impero di Roma, subito dopo il riferimento va a Cassio Longino, letterato e filosofo neoplatonico del III secolo d.c., personag-gio di spicco e consigliere proprio della regina di Palmira, è con lui che si entra nel terreno specifico inerente al sublime.

A lungo Cassio Longino è stato considerato l’autore del trattato Il sublime, insieme alla Poetica di Aristotele1, una delle più importanti opere di ‘estetica’2 dell’antichità. Il trat-tato è una lunga disamina sul sublime, lo stile retorico eleva-to, che ha lo scopo di colpire il pubblico toccando le corde

1 Aristotele, Poetica, Oscar Mondadori, Milano, 1999. Il testo dello sta-girita meriterebbe uno studio a parte e un approfondimento, è sufficiente ricordare che in questo testo la poesia assume un valore conoscitivo uni-versale proprio in quanto imitazione della realtà sensibile, della natura, e proprio perché questa è realtà a tutti gli effetti l’imitazione produce cono-scenza. È un visione che entra in contrapposizione con la visione delle idee platoniche che mettono in secondo piano la realtà sensibile.2 Ricordo che l’Estetica come disciplina vera e propria nasce solo nel XVIII secolo, quando il filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgar-ten pubblica Aesthetica nel 1750.

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tutt’altro che irrealistico, considerata la situazione di instabilità politica che minava la potenza roma-na; inoltre questi territori si mostravano inclini e di-sponibili ad assumere una loro propria fisionomia, un profilo in qualche modo capace di autonomia cul-turale ed economica, l’a-bile politica sincretistica di Zenobia esaltava e favori-va queste caratteristiche. Iniziò ad attribuirsi in pub-blico titoli divini, il più ce-lebre dei quali era ‘discen-dente di Cleopatra’.

Orchestrò così la ribel-lione contro l’autorità Im-periale attuando una politi-ca espansionistica a partire dalla fine dal 269 e che si sviluppò nel 270, quando

Zenobia riuscì ad estendere il potere del suo regno conqui-stando la Bitinia e l’Egitto, minacciando addirittura il Bosfo-ro. Nella primavera del 271 richiamò Zabdas a Palmira e lo lanciò alla conquista di quella parte di Siria rimasta in mano romana. In questa spedizione fu coadiuvato dal suo sottopo-sto Settimio Zabbai. Zabdas, dal conto suo, condusse il suo esercito alla conquista dell’Asia Minore, tanto che in meno di un anno il Regno di Palmira acquisì i territori dell’Anato-lia e della Galazia. Il regno di Palmira aveva raggiunto il suo apogeo; Zenobia, con il suo grande esercito, aveva conqui-stato l’Anatolia e la Calcedonia, in precedenza erano cadute sotto il suo dominio Siria, Palestina, Libano ed Egitto.

Nel 270 d.c. divenne imperatore romano Aureliano6, a quel tempo impegnato in una campagna con le sue forze mi-litari, fu di fatto costretto a riconoscere, temporaneamente, l’autorità di Zenobia.

Ma nel 271, risolti i problemi che aveva in Italia, Aurelia-no decise di ristabilire il controllo romano sulle varie regioni, cominciando dal regno di Palmira; le battaglie che portarono alla riannessione della parte orientale dell’Impero romano sono note come ‘Campagne orientali’ di Aureliano.

Zenobia, assieme a Zabdas e qualche manipoli di solda-ti, aiutata nella fuga dai nomadi del deserto che attaccarono Aureliano si ritirò a Palmira, preparandosi a sostenere un as-sedio, sperando nell’arrivo degli aiuti persiani che furono sì

6 A questo imperatore, Aureliano, si deve l’importante cinta muraria (le mura Aureliane) che ancora circonda Roma, sintomo del periodo trava-gliato per l’Impero e di come la città non si sentisse al sicuro. Nel 274, inoltre, è stato il primo ad introdurre a Roma il culto del Sol Invictus im-ponendolo come culto di stato, il 25 dicembre diviene il Dies Natlis Solis Invictus proprio nei giorni delle festività antiche dei Saturnali.

con questo autore e contro questo testo che il nostro anonimo entra apertamente in polemica.

La critica più recente (Rostagni) ipotizza che l’autore del Sublime sia stato uno scolaro di Teo-doro, verosimilmente po-trebbe trattarsi dell’allievo Ermagora, in un passo del lessico di Suida si legge che «Ermagora insegnò a Roma all’epoca di Augu-sto, assieme a Cecilio di Calatte e morì molto avanti negli anni»5, il riferimento all’antagonista citato nel trattato potrebbe avallare l’ipotesi. Altri nomi fatti sono quelli di Elio Teone e più arbitrariamente si è pensato a Pompeo Gemino.

Tuttavia una parola fine su questa identificazione non è stata messa, non è ancora pos-sibile escludere con certezza Cassio Longino come autore del trattato Il sublime.

Longino è stato retore e filosofo con cittadinanza romana, uno dei più importanti consiglieri alla corte della regina Ze-nobia di Palmira, la donna che aveva reso il suo regno indi-pendente da Roma. Dopo aver passato gran parte della sua vita ad Atene e aver composto le sue opere più importanti, si trasferì nelle terre orientali. Sembra che in questa occa-sione abbia incontrato Zenobia, la regina, donna di talento e amante delle arti e della letteratura, lo fece suo maestro di letteratura greca.

A Palmira, Longino, scoprì il talento del consigliere, quan-do il re Odenato morì Zenobia ottenne il governo del regno, da quel momento si avvalse del pensiero di Longino. È lui ad incoraggiarla e spingerla a disfarsi delle leggi romane e rivendicare l’indipendenza del regno; la regina si appresta a scrivere una lettera all’imperatore Aureliano.

Zenobia teneva a Palmira una corte fastosa e insieme illu-minata, frequentata dagli intellettuali del tempo e da valenti uomini d’arme come il generale Zabda, che ne attuò l’impre-sa militare di espansione. Il progetto di Zenobia era di ren-dersi autonoma da Roma e di diventare signora dell’Oriente, riunendo sotto di sé la Siria, l’Egitto, l’Asia Minore, l’Ara-bia, regioni tutte nominalmente parte dell’impero romano, ma in realtà svincolatesi dal dominio di Roma. L’intento era

colo a. c., il suo trattato sul Sublime ci è noto grazie alla confutazione che ne fa l’Anonimo; è anche autore di In che modo lo stile attico è superiore a quello antico e Contro i Frigi.5 Ivi. p. 24.

La regina Zenobia di Palmira

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l’esecuzione con la stessa fermezza e sicurezza di Socrate. Longino nella vita privata si è sempre dimostrato particolar-mente amabile. Quando il suo allievo Porfirio lo abbandonò dicendo che avrebbe trovato un miglior maestro in Plotino, Longino non si dimostrò mai maldisposto, ma continuò a trattarlo con benevolenza e ad invitarlo a Palmira.

Zenobia, legata con delle catene d’oro, venne esibita come trofeo durante le celebrazioni per il trionfo di Aureliano, del 274. Alcune versioni suggeriscono che morì relativa-mente poco dopo il suo arrivo a Roma, per malattia o per lo sciopero della fame, più probabilmente per decapitazione, dato che si rifiutò di riconoscere Aureliano imperatore.

Un’altra fonte riferisce che Aureliano, colpito dalla sua bellezza e dignità e dal desiderio di grazia, liberò Zenobia e le concesse un’elegante villa a Tibur (Tivoli).

Queste faccende consegnate alla storia ricordano la nostra attualità, un esercito alle porte di Palmira, la difesa disarmata di un uomo di cultura che decide di non fuggire ma restare a salvare un inestimabile patrimonio artistico-culturale.

Cassio Longino rivive nella persona del Professor Khaled Asaad, l’uomo aveva passato la metà dei suoi 81 anni a stu-diare e proteggere Palmira, il sito archeologico patrimonio dell’Unesco conquistato dallo Stato islamico.

Lo avevano catturato a luglio del 2015, Asaad, e per un mese è stato interrogato, probabilmente torturato, per estor-cergli il nome del luogo in cui, con altri, poco prima dell’ar-rivo dei miliziani jihadisti, aveva nascosto i tesori del sito.

Voleva salvarli alla furia degli gli uomini del Califfato, all’odio cieco con cui, in nome del loro Dio, distruggono ciò che chiamano ‘apostata’ ma che in verità si chiama arte, bel-lezza, cultura. Il corpo dell’anziano archeologo, decapitato e appeso a una colonna di Palmira, è uno degli ultimi scempi di cui ci sia arrivata notizia dalla martoriata Siria.

Palmira è la Sposa del deserto, alla cui oasi si abbevera-vano le carovane che dall’Oriente, lungo la Via della seta, arrivavano sfinite e assetate; bellissima con i templi di Baal e delle antiche divinità pagane, con l’Impero romano si ag-giungeranno l’Agorà e il teatro, questo ancora splendido nei suoi resti. Crocevia di culture, persiana, greca e occidentale, che sopravvive nelle pietre dorate sotto il cielo del deserto.

Nato nel 1934 a Tadmur - nome arabo di Palmira - Asaad si era laureato nel 1962 all’università di Damasco, per co-minciare l’anno dopo a lavorare presso il Dipartimento dei musei e delle antichità come responsabile dei progetti di stu-dio e ricerca.

Nel 1963 fu nominato direttore del sito archeologico e del museo di Palmira, carica che avrebbe retto fino al 2003. Tra il 1962 e il 1966 Asaad partecipò a una importante campa-gna di scavi che permise il recupero di una parte della Via Colonnata romana e la scoperta di diverse tombe. Dopo il pensionamento ha continuato a lavorare come esperto nel Dipartimento dei musei e delle antichità, oltre che nelle sue collaborazioni con studiosi stranieri.

Tra i suoi libri figurano Le sculture di Palmira e Zenobia, regina di Palmira e dell’Oriente, dedicato alla sovrana che

inviati, ma risultarono relativamente esigui; troppo scarsi per poter salvare il Regno di Palmira dal suo destino. Zenobia si preparò a resistere, con le poche truppe che le restavano, all’assedio di Palmira che presto Aureliano avrebbe intrapre-so.

L’Imperatore mandò Probo a soggiogare l’Egitto, difeso da un contingente di circa 5.000 palmireni al comando del generale filo-palmireno Timagene, che fu in breve sconfitto. Dall’Egitto Probo puntò velocemente verso Palmira portare aiuto ad Aureliano.

Aureliano si presentò col suo esercito davanti alle mura della città nemica ed iniziò l’assedio. Per far terminare più velocemente le sofferenze dei suoi soldati, decise di proporre a Zenobia una resa molto vantaggiosa.

La regina, inaspettatamente, non volle aderire alla propo-sta dell’imperatore romano; fece scrivere una risposta dal suo più illustre consigliere, il filosofo Cassio Longino, nella quale rifiutò la resa in maniera sprezzante obbligando così Aureliano ad assediare Palmira, affermava che mai si sareb-be piegata ai romani. L’imperatore fu costretto a mantenere l’attacco e a impegnarsi con risolutezza contro le tribù del deserto che vennero sottomesse.

Con la città sotto assedio, la regina e il Consiglio cittadino, pensarono di inviare un’ambasceria guidata da Zenobia in persona presso il re persiano Sapore I (ignorando che questi fosse deceduto in quei frangenti), con lo scopo di ricevere rinforzi e salvare così il Regno. Zenobia decise di salire sul più veloce dei suoi dromedari, assieme al figlioletto, e di ten-tare di raggiungere il regno dei Sassanidi ma dopo poche mi-glia venne raggiunta e catturata dall’Imperatore, poco prima che attraversasse l’Eufrate.

I Palmireni erano incerti se continuare la lotta affrontando qualunque pericolo, oppure se arrendersi, chiedendo perdono all’imperatore romano. Alla fine prevalse la seconda solu-zione, tanto più che con la loro regina catturata e gran parte dell’esercito annientato e stremato, il generale Zabdas conse-gnò la città ai romani sul finire del 272; il Regno di Palmira era stato sottomesso, senza che l’oasi e la città avessero su-bito alcuna violenza.

Quando l’Imperatore ricevette la prigioniera Zenobia, le chiese per quale motivo lei avesse osato ribellarsi agli Impe-ratori romani. La regina, timorosa per la sua vita (l’esercito romano aveva infatti esplicitamente chiesto che fosse giu-stiziata), fece ricadere la colpa della sua ribellione ai suoi consiglieri, che con le loro parole avevano influenzato le sue decisioni, essendo lei una femmina (sesso debole) e dunque facilmente influenzabile.

Aureliano si fece convincere da queste parole, ne fece così le spese il filosofo Cassio Longino, primo consigliere di Ze-nobia, reo di aver scritto la lettera con cui la regina aveva rifiutato la resa, e punito con la morte.

Assieme al filosofo Cassio Longino, molti altri funzionari di Zenobia come il sofista Callinico e lo stesso generale Zab-das furono condannati a morte, mentre la regina ebbe sal-va la vita. In particolare si ricorda come il filosofo affrontò

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religiose; le considerava infatti le più terribili e nessuna lo è maggiormente di quella che rivela la collera di un dio irato.

Per Kant (Critica del giudizio) il sublime non nasce dal piacere della contemplazione di una forma bella ma trova ra-dici nei sentimenti di inquietudine e di orrore suscitati dalla dismisura.

La persona e le azioni di Khaled Asaad fanno convergere su di lui i diversi aspetti del sublime; quelli più armonici e legati al bello nella sua lunga carriera di docente e studioso, ma anche quelli dell’estetica del terrore, la minaccia verso la nostra incolumità.

L’eco delle storie e delle vicende della città di Palmira, la cultura e la morte di Cassio Longino ad opera di un impero invasore, si perpetua fino ad oggi; ancora una volta un eser-cito invasore (Is) giustizia un altro Cassio Longino (Khaled Asaad) tra le sublimi rovine di Palmira.

Che Cassio Longino sia stato o meno l’autore del Sublime rimane questione marginale, di sicuro la sua vita la sua dedi-zione alla causa di Palmira e di Zenobia, così come l’atteg-giamento di grandiosità tenuto davanti alla morte lo ricon-ducono inevitabilmente alle tematiche espresse dal trattato.

A marzo del 2016 la città è stata liberata dagli estremisti islamici grazie all’aiuto dell’esercito Russo. L’80 per cen-to dell’architettura dell’antica città siriana non sarebbe stata distrutta dall’iconoclastia dell’Isis. Lo sostiene Selon Maa-moun Abdulkarim, direttore di Antichità e Musei in Siria. Il colonnato, l’agorà, il teatro, i bagni di Diocleziano, il tempio di Nébo et d’Allat sono ancora in piedi, testimonianze di se-coli di arte e di storia. Distrutto invece il tempio di Bêl et Baalshamin, come decine di torri funerarie e l’arco trionfale, così come le sculture e i reperti del museo archeologico10.

Dopo le distruzioni inflitte dai terroristi si calcola che, per restaurare i monumenti di Palmira, saranno necessari almeno cinque anni, così ha affermato Selon Abdelkarim.

10 In verità alcuni sostengono che siano stati distrutti solo delle copie per poter meglio contrabbandare gli originali nel mercato nero delle opere d’arte, la notizia non è confermata.

nel III secolo dopo Cristo sfidò l’impero romano. Prima che i miliziani dello Stato islamico si impadronissero di Palmi-ra Asaad aveva collaborato a evacuare e a mettere in salvo numerosi reperti custoditi nel museo locale. Poi, nonostante i consigli di amici e colleghi che cercavano di convincerlo ad andarsene per non correre rischi, ha scelto di rimanere lì.

Per più di 50 anni Khaled Asaad era stato il responsabile delle antichità della città oggi nelle mani dei jihadisti. Ucciso con un coltello davanti alla folla, lo studioso aveva nascosto centinaia di statue in un luogo sicuro.

Il Professor Asaad è morto come i suoi lontani predeces-sori, Cassio Longino, Zabdas, Callinico, nel cuore della città che hanno voluto proteggere fino alla fine. Nel Trattato sul Sublime, il cui autore anonimo potrebbe essere Cassio Lon-gino, c’è scritto «il sublime è la risonanza con una grande anima», e sicuramente Khaled Asaad era in totale risonanza-assonanza con l’anima di questi pensatori, retori, filosofi. Esattamente come le opere d’arte o i resti archeologici, la vita di queste persone di grande spessore, e di immensa cul-tura, dovrebbe essere salvaguardata e protetta.

Fin dal suo inizio la filosofia, e il filosofo, è stata crimi-nalizzata; Socrate, Boezio, Bruno, Thomas Moore, vengono uccisi, Platone e Aristotele sfuggono per poco a condanne simili, la lista potrebbe essere assai più lunga.

Platone costituisce una Repubblica ideale mettendo i fi-losofi in cima alla gerarchia, forse per evitargli nuove con-danne, secoli dopo Plotino, a Roma, volendo imitare Platone ipotizza una polis chiamata Platonopoli in cui far rivivere gli ideali della Repubblica di Platone. Secondo Giorgio Colli già in Platone si assiste alla sconfitta della filosofia:

«Si erano chieste leggi a Parmenide e si era offerto il potere a Eraclito

[…] la filosofia si abbassa alla politica, raccomandandosi alla sua be-

nevolenza e supplicandola di essere presa in considerazione»7.

Il sublime ha dietro di sé una lunga storia, parte dall’an-tichità e approda alla modernità; in epoca greco romana l’attenzione si concentra sulla forma letteraria che esprime pathos ma anche phobos, ciò che provoca sbigottimento ma anche paura; gli aspetti moderni del sublime lo vedono legato a ciò che è sproporzionato rispetto alle nostre facoltà e che costituisce una minaccia per la nostra incolumità.

Per Mario Perniola8 questi aspetti del sublime moderno costituiscono un’estetica del terrore che si oppone all’este-tica conciliativa (sentimento del bello e dell’armonia); per Edmund Burke (1757) sublime è delightful horror, l’istinto di autoconservazione del soggetto si capovolge in desiderio di annientamento. Sempre nel Settecento John Dennis9 nel suo The Grounds of Criticism in Poetry (1704) vede come fonte del sublime il terrore entusiastico suscitato dalle idee

7 G. Colli, La natura ama nascondersi, Adelphi, Milano, 1988, p. 325.8 M. Perniola, Strategie del bello Quarant’anni di estetica italiana (1968-2008), Agalma n.18, Mimesis, Udine, 2009.9 Ivi. p. 58.

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come mezzo di trazione potente, adatto a spostare pesanti ca-richi nelle strade di collina, sia in salita che in discesa.

I bovini di razza piemontese, dal tipico mantello bianco, erano diffusi sia nella pianura come nelle vallate alpine o nelle colline delle Langhe o del Monferrato.

I vitelli maschi che venivano prescelti per diventare buoi dovevano esser robusti ma non eccessivamente muscolosi,

perché il grande sviluppo di masse muscolari non era accom-pagnato da un’uguale robustezza scheletrica e delle artico-lazioni. Venivano prescelti vitelli maschi di circa due mesi che al terzo mese di vita venivano castrati con l’uso di una speciale pinza. Questa manipolazione era svolta da alcuni al-levatori particolarmente abili, detti “castrini”fin da tempi in cui i veterinari non erano ancora presenti.

La castrazione al giorno d’oggi è incruenta (per l’impiego di anestetici generali e locali): non è una vera e propria ope-razione chirurgica con asportazione dei testicoli. Essa avvie-ne con l’impiego della “pinza di Burdizzo” con cui vengono compressi e chiusi il funicolo spermatico e i vasi sanguigni del testicolo. L’utilizzo di tori “interi” o non castrati non sa-rebbe stato possibile per l’impiego nei lavori agricoli proprio

La fiera del Bue Grasso di Carrù SILVIO MARENGO

In tutta la Langa storicamente si sono sempre usati tanti buoi. Per tutto il secolo XIX si sviluppò pro-gressivamente la coltivazione della vite e la pro-duzione di vino. Sotto il regno del Re di Sardegna Carlo Alberto (1831-1849) furono messe a punto e

sviluppate molte tecniche importanti ed innovative per l’a-gricoltura, come lo scasso dei terreni incolti, ossia un’aratura profonda, le tecniche di aratura annuale dei campi, lo scavo di diversi canali per l’irrigazione dei campi in pianura, il trasporto dei prodotti agricoli su robusti carri in legno e ferro.

Sulla Langa fu incrementata la coltivazio-ne delle vigne e, in assenza di mezzi mecca-nici, non ancora inventati, la fonte di forza lavoro era rappresentata dai buoi. Seguendo l’esempio di Camillo Benso Conte di Ca-vour che, al ritorno dai suoi viaggi giovanili in Europa, aveva acquistato molte colline nel comune di Grinzane, vicino ad Alba, molti contadini disboscarono le colline langarole e vi impiantarono vigneti di Nebbiolo, Dol-cetto e Barbera.

I mezzi di traino dei carri agricoli, degli aratri ed altri attrezzi, erano essenzialmen-te costituiti da buoi, ossia vitelli di razza bovina piemontese castrati da giovani e presto domati per l’impiego al traino. Questo accadeva nelle Langhe, dove i dislivelli da superare e la pesantezza dei carri ripieni rendeva insufficiente la forza degli asini, animali molto più leggeri.

Gli asini, insieme ai muli, erano molto più diffusi nelle vallate di montagna, perché più adatti ad essere caricati sul-la groppa e potevano quindi portare materiali sulla schiena , visto che in montagna vi erano pochissime strade adatte al passaggio dei carri. . Nelle cascine di pianura erano diffusi i buoi con la funzione di traino di aratri, voltini (aratri leggeri), ma talvolta erano presenti nelle cascine più ricche anche ro-busti cavalli da tiro. Per i piccoli spostamenti di paese, molto diffusi erano anche asini e muli nella popolazione di pianura.

Per questo motivo aveva preso piede nell’800 l’uso del bue

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da dedicare all’attività di addestramento. I giovani maschi castrati, detti manzi, erano aggiogati tut-

ti i giorni, e al giogo venivano progressivamente attaccati pesi sempre maggiori. Dopo la prima fase, di circa un mese, quando si vedeva che il manzo sopportava bene il peso, sen-za difficoltà, allora si attaccavano al giogo le lunghe stanghe di legno o catene pesanti. Ad esse era fissata una pesante slit-ta di legno, detta “rabèl”. Talvolta, in mancanza del “rabèl” erano attaccati alle catene dei tronchi di quercia, anch’essi molto pesanti.

Tutte queste operazioni richiedevano tempo e pazienza perché , come si sa, indurre altri a compiere azioni volute richiede grande forza di volontà. La stessa cosa accade per la “doma” dei cavalli, operazione impegnativa per abituare i cavalli riottosi a sopportare la sella.

I manzi già “collattati” venivano rivenduti in primavera ad un prezzo decisamente maggiorato.

L‘impiego del bue avveniva da primavera ad autunno inol-trato, e ciò dipendeva dalle esigenze del suo proprietario.

Era usato per l’aratura dei campi, più profonda , per l’a-ratura della terra nei vigneti con “voltini” più leggeri, per il traino di rimorchi agricoli carichi di fieno appena sfalciato a maggio, di paglia di grano a giugno, di ceste di uva da set-tembre e ottobre, oppure carichi di botti o damigiane o legna in inverno.

Specialmente i buoi, che venivano usati ad arare la terra e trainare i carri sulle strade, dovevano essere ferrati una volta o due all’anno.

I maniscalchi erano le persone che forgiavano i ferri tondi in modo da adattarli alle esigenze del piede del cavallo o del bue . In lingua piemontese il maniscalco che ferrava i cavalli era chiamato “fèra- cavàl” mentre quello che ferrava i buoi era chiamato “fera- bèu”.

I ferri che venivano forgiati sul posto dal ”fèra-bèu” erano delle placche appiattite di ferro che erano in numero di due per ogni zampa ed erano della stessa dimensione dei due un-ghioni del piede del bue. La loro forma è reniforme (simile ai reni ) con le dimensioni di circa sette centimetri di larghezza e quattordici di lunghezza per ciascuna unghia. Presentava-no dei fori (cinque o sei) sul lato esterno che consentivano al maniscalco di piantare dei chiodi passanti anche attraver-so l’esterno dell’unghia (alla stessa maniera dei cavalli) per il fissaggio. Queste due placche avevano anche una lingua metallica che si trovava nella parte anteriore che, curvando verso l’alto, consentiva l’aggancio sopra all’unghia.

Naturalmente il cavallo da tiro o il bue, essendo anima-li imponenti, dovevano esser trattenuti ben fermi durante l’operazione di ferratura, che necessita di sollevare a turno uno dei quattro arti dell’animale per il fissaggio dei ferri. La struttura che veniva utilizzata per lo scopo era costituita da una specie di gabbia costituita da sei alti pali di legno soli-damente infissi nel terreno, collegati da robuste stanghe. In tal modo l’animale era condotto all’interno e legato per la cavezza. e con due fasce passanti sotto la pancia e l’addome . Con un sistema ingegnoso di carrucole e corde passanti in alto, si faceva sollevare un arto per volta all’animale. Due

per l’aggressività tipica del maschio intero. La stessa cosa avviene nei cavalli maschi, che ben presto

vengono castrati per poterli più facilmente domare e maneg-giare, vedendo la grande irruenza dei cavalli maschi interi, detti “stalloni”.

Nell’animale castrato viene a mancare la presenza del te-stosterone, l’ormone maschile responsabile della “libido”o carica sessuale e riproduttiva, e dell’ aggressività ad esso col-legata. L’animale castrato vive tranquillo, diventa docile e maneggevole .Tutte le energie del suo organismo non essen-do più utilizzate per l’istinto sessuale, vengono impiegate per l’allungamento dei segmenti ossei delle zampe, della schiena e del collo. Anche la sua intelligenza diventa limpida e sere-na, non essendo più spinta dall’aggressività mascolina per la difesa del territorio e dall’ istinto riproduttivo.

Alcuni allevatori erano proprietari della casa e del terre-no agricolo e venivano chiamati “particolari” , termine che deriva dal latino “particola” o piccola parte. Altri allevatori meno fortunati erano i “mezzadri” che lavoravano i campi e occupavano le cascine di proprietà dei ricchi , di solito espo-nenti di famiglie nobiliari come conti o marchesi, ma talvolta anche alti ufficiali dell’esercito. Lo testimoniano i nomi di molte antiche cascine come “cascina del Colonnello”o “ca-scina del Generale”oppure “cascina Miraglio”, contrazione del termine Ammiraglio.

La differente posizione economica tra i vari agricoltori condizionava l’utilizzo o meno di buoi già domati. Chi ave-va più soldi poteva permettersi di acquistare, seppure a caro prezzo, dei buoi già addestrati, che in lingua piemontese si diceva “collattati” o “dornati”.

Inoltre sul territorio piemontese circolavano molti com-mercianti di bestiame, detti “negozianti da bestie”, persone che giravano di cascina in cascina, conoscevano bene il ter-ritorio e le persone che lo abitavano, e spostavano animali da vita, come le vacche gravide, o vitelli da ingrassare, o vitelli giovani da destinare al lavoro agricolo, come i buoi, da un proprietario all’ altro.

I vitelli piemontesi “di fassone”, quelli con masse musco-lari (fasce o fassoni) molto sviluppate, erano destinati all’in-grasso e alla produzione di carne, ovviamente perché erano più remunerativi, rispetto a quelli con masse muscolari meno sviluppate. Inoltre, se messi sotto

sforzo, quelli con masse muscolari abnormi erano più sog-getti all’affaticamento, visto il peso corporeo che dovevano sopportare. Per fare un paragone con la specie umana, coloro che praticano il culturismo, ed hanno sviluppato masse mu-scolari imponenti, da un punto di vista atletico non hanno grandi prestazioni. Al contrario accade al maratoneta o al corridore, al ciclista o al nuotatore, che non è appesantito da troppe zavorre.

Pertanto i vitelli “di mezza coscia” erano i più ricercati sia dai mezzadri che dai negozianti, che intendevano acquistarli in autunno, farli castrare e addestrarli a sopportare il peso del giogo. Nei mesi invernali, quando i lavori agricoli sono fermi, e le giornate più corte, i contadini avevano più tempo

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lentamente a destra e l’aratore pronunciava ad alta voce la parola EISS… EISS… EISS… ripetendola in modo forte e chiaro. Se si arrivava in fondo al campo arando nella dire-zione opposta, bisognava girare a sinistra, per non cammi-nare sul terreno appena arato, e il ragazzo sempre tirando la cordicella, girava a sinistra. In quel momento l’aratore scandiva ripetutamente la parola SA…SA… SA…. SA . In questo modo , ripetendo l’operazione molte volte per tutta l’ampiezza del campo, i buoi docili finivano per associare il suono EISS…EISS alla necessità di curvare a destra, e quando sentivano la parola SA…SA… SA… imparavano a sterzare a sinistra.

Quando i buoi avevano imparato il significato dei segnali vocali, l’aratore poteva affrontare il campo da arare da solo, senza nessuno davanti alle bestie.

L’orario più adatto per le operazioni di aratura erano le prime ore del mattino, quando l’aria è fresca e non si sen-te ancora il sole pungente. Ma questo valeva solamente per l’aratura estiva, che avveniva più raramente, subito dopo la mietitura del grano o dell’orzo. Se l’aratura avveniva nei mesi autunnali, la temperatura era più fresca anche durante il giorno.

Alle tre il bovaro governava i buoi, li alimentava con fieno e crusca a volontà. Poi si partiva per il campo , verso le dure zolle che aspettavano di essere rivoltate.

Intorno alle tre e mezza tramonta Venere, che non è una stella ma un pianeta, come tutti sanno.

Ma data la sua lucentezza, era considerata una stella ed era soprannominata Stella Boera ( questo epiteto ha il significato presumibile di stella dei buoi ) . A partire dalla Stella Boera si iniziava l’aratura, approfittando della frescura del primo mattino. Si continuava per tutta la giornata, fino a sera. Un’u-nità di misura agraria per i terreni è la “giornata” piemontese che corrisponde a 3810 metri quadri. L’uso di questo termine sta appunto ad indicare la porzione di terreno che un buon aratore poteva arare in un giorno con una coppia di buoi ben “dornati”.

Dopo dieci anni di carriera lavorativa, se il padrone si ren-

tipici esempi di travagli per la ferratu-ra dei buoi e cavalli da tiro si possono ancora ammirare a Santo Stefano Belbo in via XXV Aprile , a pochi metri dalla piazza principale del paese, e l’altro a San Donato di Mango. Quest’ ultimo si trova montato dietro al vecchio pollaio del parroco, riattato e trasformato per iniziativa dell’associazione culturale Arvangia , presieduta dallo storico Do-nato Bosca, in sede permanente di mo-stre per giovani artisti , chiamato con il pittoresco nome “ Nì ‘d r ‘artista” (nido dell’ artista).

La presenza del travaglio per buoi a Santo Stefano Belbo indica che anche tra Langa e Monferrato l’impiego del bue era molto diffuso. Infatti , fin da tempi antichi, sia a Carrù che a Moncalvo d’Asti, per la zona del Monferrato, si teneva una fiera per lo smercio dei buoi a fine carriera.

La carriera lavorativa di un bue durava dieci o dodici anni, ma corrono voci di buoi vissuti fino a vent’anni. Di solito il bue da lavoro a dieci anni era considerato maturo e , a seconda della quantità di lavoro che aveva svolto, il padrone poteva decidere di metterlo all’ingrasso o di tenerlo ancora per un paio d’anni a lavorare. Chi sapeva di averlo utilizzato tanto, a dieci anni lo metteva all’ingrasso , in preparazione della fiera. Chi invece lo utilizzava poche volte all’anno pre-feriva tenerlo ancora in attività .

I buoi di proprietà di cascine grandi, di solito due, erano avvezzi a lavorare in coppia e in tal modo procedevano più spediti , senza stancarsi troppo, e potevano così arare terreni più estesi.Una coppia di buoi ben “dornati”(addestrati) era in grado di conoscere perfettamente i segnali vocali lanciati dall’aratore . Questi teneva saldamente i manici dell’aratro, perché restasse nella giusta direzione e scavasse il solco sem-pre costante. A volte erano presenti pietre nel terreno che potevano far sobbalzare il vomere o farlo andare fuori solco.

Quando i buoi trainavano un aratro in coppia, se la lama dell’aratro tagliava la terra e la versava verso destra, il bue di destra doveva marciare dentro il solco mentre quello accop-piato di sinistra marciava sulla terra da arare e restava più in alto rispetto all’altro. Se il bue di destra non stava dentro il solco, l’aratro sarebbe andato fuori solco.

A volte, se i buoi non erano ben addestrati, era necessario che una donna o una persona giovane tenesse i buoi con una cordicella alla cavezza, per guidarli.

Per addestrare dei buoi giovani, il contadino faceva pas-sare un bambino o bambina (erano impiegati dai sette anni in su) per camminare davanti al bue nel campo. Il fanciullo, camminando un metro davanti ai buoi, li teneva con una cor-dicella attaccata alla loro cavezza. Durante l’aratura , andan-do dritto , si diceva VA … VA… VA …

Quando si arrivava in fondo al campo, il ragazzo girava

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fiato da un vino rosso di Langa,a partire dalle sei di mattina, nel giorno della fiera.

Per tutta la mattinata continua l’affluenza dei buoi, che vengono attaccati alle sbarre del mercato coperto. Oggi ci sono delle giurie apposite formate da esperti del settore che li valutano.

I compratori sono macellai che vengono da lontano, da Torino, ma anche dalla Lombardia o dalla Liguria. Essi scel-gono le bestie da comprare. Mediamente i buoi presentati alla fiera pesano intorno a centoventi miriagrammi (dodici quintali) ma i più grandi possono facilmente superare i tre-dici quintali.

La giuria di esperti decide quali sono i più belli e pesanti. In palio per i primi classificati c’è una coppa, la gualdrappa e un premio in denaro. La gualdrappa è un telo rosso(drappo) tutto ricamato con la scritta del premio della Fiera e l’anno . La premiazione avviene a partire alle undici di mattina , con un lungo elenco dei capi premiati. Dopo la premiazione, la gualdrappa vinta viene stesa sulla schiena degli animali pre-miati e alle tredici i buoi vengono incolonnati e fatti sfilare per le vie principali del paese. Per consuetudine, i soldi e la coppa vanno all’ allevatore o al negoziante che lo ven-de, mentre la gualdrappa va al macellaio che la sistema sulla schiena del suo bue per la sfilata e in seguito potrà esporla nella vetrina della macelleria come prova dell’acquisto di un bue premiato sulla piazza di Carrù.

Dunque questa tradizione affonda le radici nella storia . Da tutto ciò si deduce che , fin da tempi antichi, in un’eco-nomia povera di prodotti alimentari e di denaro circolante, nulla poteva essere sprecato . Anche le carni, tutt’altro che tenere , di un bue che per dieci o dodici anni aveva tirato ara-tri e carri pesanti, dovevano essere migliorate con l’ingrasso e utilizzate.

La durezza delle fibre muscolari di tali animali era mitigata mediante la lunga bollitura delle carni.

Il bollito di Carrù nasce proprio dall’esigenza di rammolli-re la fibrosità delle carni e renderla più appetibile.

Oggi questo problema non esiste più perché i buoi, non essendo più utilizzati per i lavori agricoli, vengono prodotti e ingrassati fino al quarto anno di vita, in cui raggiungono la maturità della carne senza alcuna stopposità.

Rimane il fatto storico che la coltivazione della vite, molto diffusa sulla Langa, si è sviluppata su ampia scala a partire dal XIX secolo ma, mettendo da parte le annate sfavorevoli, riusciva ad arricchire solamente i nobili e pochi grandi pro-prietari terrieri. La vera fonte di sussistenza per la popolazio-ne in tempi antichi, sulla Langa della Malora, quella cantata da Pavese e da Fenoglio, è stato l’allevamento di bestiame bovino di razza piemontese, ma anche di maiali, pecore e capre, polli e conigli.

Essi sono stati nei secoli passati la vera fonte proteica e di sopravvivenza di tutte le popolazioni, sia per la carne pro-dotta in modo diretto, sia per i formaggi a partire dal latte di vacca o di pecora.

deva conto che il bue non era più in grado di trainare carri o fare lavori pesanti, allora decideva di collocarlo “a riposo” e di ingrassarlo. Si procurava qualche altro vitello castrato e “collattato” da impiegare in sostituzione .

Le parti muscolari della coscia e delle spalle, sottoposte a tanti e prolungati sforzi, si indurivano e diventavano fibrose. Un bue adulto normalmente diventava molto più alto di un toro e pesava da otto a nove quintali quando era in attività.

Il bue da ingrassare, oltre al solito fieno e crusca con cui veniva nutrito tutto l’anno, riceveva una razione molto più succulenta e ricca di amidi , come farina di mais o di orzo, e proteine, come favino schiacciato (fave) o erba “liessa” (lo-ietto) . Con questa alimentazione il bue , nel giro di sei mesi, passava da otto quintali di peso a dieci o dodici quintali e a dicembre era pronto per andare alla Fiera del bue Grasso di Carrù. Spesso chi si incaricava di raccogliere i buoi grassi in cima alla Langa e di portarli a confluire a Carrù il giorno della fiera non era l’allevatore del bue perché, dopo averlo usato una decina d’anni , questi si era affezionato un po’ e non aveva il cuore di portarlo a vendere. Entravano in gioco, negli anni ’50 o ’60 del ‘900 i negozianti da bestie, che fin dal giorno prima della fiera erano in giro per raccoglierli, comprarli e portarli a rivendere .

Un bue grasso era venduto nel 1960 a circa 450.000 lire al negoziante, il quale lo portava a Carrù e lo rivendeva ai macellai con un guadagno di circa centomila lire.

La fiera del Bue Grasso di Carrù si tiene a dicembre, due giovedì prima di Natale.

Fin dal 1473 esiste testimonianza scritta di una fiera dei buoi nel comune di Carrù , posto sulla sponda sinistra del Ta-naro, vicino alle colline langarole da una parte e alle pianure piemontesi dall’altra. Un buon punto di incontro per produt-tori di bestiame e compratori-macellai.

Nell’anno 1635 il Duca Vittorio Amedeo I istituì la fiera annuale che doveva tenersi sempre dopo il 4 novembre, ri-correnza di San Carlo. Nel 1910, per l’aumento demografico la carne scarseggiava ed il suo prezzo era notevolmente au-mentato. Per ovviare a tale carenza, il Comizio Agrario di Mondovì decretò che i buoi a fine carriera fossero ingrassati al meglio e confluissero alla Fiera di Carrù che fu ufficial-mente denominata Fiera del Bue Grasso.

Un tempo i “particolari” e i mezzadri di mezza provin-cia di Cuneo accorrevano , come importante appuntamento annuale del settore dell’allevamento, come oggi può essere considerata la Fiera Agricola di Verona per l’agricoltura o il Salone dell’Auto per il settore automobilistico.

Fin dalle primissime ore del mattino partivano dai loro ca-solari e arrivavano intorno alle cinque a Carrù. Facevano un giro tra i tanti buoi che confluivano e, a mano a mano che venivano attaccati alle sbarre del mercato, si salutavano le persone conosciute , come negozianti da bestie, macellai e contadini . Poi si recavano subito a riscaldarsi e rifocillarsi intorno alle sei in una delle tante osterie del paese. Fin da tempi antichi in quelle trattorie si serve un piatto di bollito , accompagnato dalla testina di vitello, e generosamente innaf-

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SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016 | SCIENZE MATEMATICHE, FISICHE, CHIMICHE E DELLA TERRA

Legge di Young, coefficiente di Poisson e curva stress-strain dei polimeri VINCENZO VILLANIDipartimento di Scienze, Università della Basilicata

Materiale strutturale – struttura meccanica – sollecitazione meccanica formano il trinomio logico fondamentale

alla base della scienza dei materiali.

Le proprietà strutturali di un corpo dipendono fortemente dalla sua geometria che può essere molto complessa

(Fig. 1).

Figura 1. “Un albero non è un cono!” (Benoît Mandelbrot, 1924 – 2010, matematico polacco-francese, padre della

geometria frattale).

Le funzioni biologiche (metaboliche, strutturali, …) di un organismo o parte di un organismo richiedono

spesso una forma complessa ed organizzata. Ecco allora la ‘forma ad albero’ (universalmente diffusa)

altamente ramificata che ottimizza la distribuzione dei nutrienti, la fotosintesi e la relazione struttura-funzione

meccanica (ad esempio la resistenza al vento). D’altronde se le travi d’acciaio non fossero sagomate e collegate

in un modo altamente specifico e razionale, non sarebbe stato possibile elevare la Torre Eiffel!

Le sollecitazioni meccaniche sono di due tipi: forze e momenti. La forza applicata provocherebbe

un’accelerazione traslazionale; il momento meccanico, l’accelerazione rotazionale. Tuttavia se il corpo è

vincolato, non potendo traslare o ruotare, risulterà deformato.

Le forze (o carichi), a loro volta, sono di due tipi: normali o tangenziali. Le prime provocano la deformazione

di trazione o compressione; le seconde di taglio. Altresì i momenti sono di due tipi: flettenti o torcenti.

Per quanto complessa possa essere la sollecitazione (e quindi la deformazione) a cui un corpo è sottoposto,

localmente una forza generica è sempre scomponibile in componenti normali e tangenziali. Consideriamo un

caso semplice: un carico generico P applicato alla superficie di base di un cilindro (Fig. 2).

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Figura 2. Il carico generico P applicato alla superficie di base di un corpo cilindrico.

Considerato il sistema di riferimento cartesiano con l’asse y lungo l’asse di simmetria del cilindro, il carico P

è decomposto nelle sue componenti ortogonali ( xP , yP , zP ). Osserviamo allora che yP è una forza normale

perché ortogonale alla superficie di applicazione, xP e zP forze tangenziali, in quanto tangenti alla superficie

di applicazione. Analogamente per le sezioni parallele alla superfice di base. Allo stesso modo una forza

generica applicata in un punto generico sarà comunque decomposta in componenti normali e di taglio su di un

elemento di superficie dS.

Consideriamo un cilindro al quale è applicata una forza normale alla superficie di base. Sia la forza allineata

con l’asse longitudinale (Fig. 3).

Figura 3. Il carico normale P applicato alla superficie di base di un cilindro.

Se il cilindro è vincolato (incastrato) alla faccia opposta, su quest’ultima si ha una forza P− (reazione

vincolare, III principio della Dinamica).

Il corpo non potendo accelerare con moto di traslazione si deforma: se le forze sono di trazione (rivolte verso

l’esterno del corpo) osserveremo un allungamento; se le forze sono di compressione (rivolte verso l’interno del

corpo) osserveremo un accorciamento della lunghezza del cilindro.

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Sia il nostro cilindro di lunghezza l, area di base A. Come conseguenza dell’applicazione della forza P

osserviamo la deformazione Δl. Cerchiamo l’equazione che correla queste quattro grandezze per piccole

deformazioni.

Osserviamo che raddoppiando la forza applicata, raddoppia la deformazione osservata (ad es. P1 = 1 N → Δl1

= 2 mm; P2 = 2 N → Δl2 = 4 mm, …), quindi Δl è linearmente proporzionale a P e scriviamo:

Pl ∝Δ

Osserviamo ora che raddoppiando la lunghezza del cilindro ( a parità di forza P) raddoppia la deformazione

osservata (Figura 4).

Figura 4. La deformazione è proporzionale alla lunghezza dell’elemento.

come se gli elementi fossero disposti ‘in serie’, abbiamo:

ll ∝Δ

Infine, raddoppiando l’area di base (a forza costante) la deformazione dimezza (elementi ‘in parallelo’), si ha:

Al 1∝Δ

Raccogliamo le tre relazioni di proporzionalità in una sola espressione (essendo indipendenti):

AlPl ⋅

∝Δ

Scriviamo l’equazione di Young:

llE

AP Δ

⋅=

dove E è il modulo elastico o modulo di Young, definito da Thomas Young (scienziato britannico, 1773 –

1829) nel 1807.

La forza per unità di superficie (P/A, forza unitaria) è detto sforzo σ; la deformazione per unità di lunghezza

(Δl/l, deformazione unitaria) è la deformazione relativa ε. Quindi,

εσ ⋅= E

Sperimentalmente effettuiamo misure di trazione (o compressione), mediante le ‘macchine per prove tensili’

(ad esempio, l’ Instrom Tensile Tester), costruendo il diagramma σ vs. ε ovvero σ = f(ε).

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Un tipico ‘diagramma stress-strain’ per un materiale polimerico termoplastico è riportato in

Figura 5.

Figura 5. La tipica curva stress-strain di un polimero termoplastico.

Si tratta di una caratteristica curva elasto-plastica. Il tratto OA rappresenta la ‘zona elastica’ in cui vale

l’equazione di Young εσ ⋅= E . Questa deformazione nei biomateriali rigidi, ad esempio, è di pochi punti

percentuali, nell’osso la linearità vale fino ad allungamenti del 2%. Il tratto AB rappresenta la ‘zona di

snervamento’ ed il punto Y è lo ‘yield point’ a cui corrispondente lo ‘yield strain’ e ‘yield stress’. Nel tratto

elastico la deformazione è reversibile; nel tratto di snervamento, il materiale comincia a cedere in modo

irreversibile. Macroscopicamente, nel tratto AB, osserviamo una strozzatura del campione detta “necking” in

cui compare un forte restringimento trasversale (Figura 6).

Dal punto di vista microscopico abbiamo una modifica della morfologia cristallina: i microcristalli orientati in

modo isotropo (sferuliti) scorrono orientandosi con la direzione della deformazione.

Figura 6. Il ‘necking’ di un materiale deformato a trazione.

Il tratto BC corrisponde alla ‘zona di deformazione plastica’. Osserviamo che in questa zona la deformazione

procede a sforzo costante. Questo comportamento è tipico dei fluidi (in cui lo sforzo è proporzionale alla

velocità di deformazione) con deformazione irreversibile. Se in questo tratto è rimossa la forza di trazione, il

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materiale recupera solo la deformazione elastica εl e risulta deformato in modo permanente εp. Dal punto di

vista microscopico in questa zona i domini cristallini scorrono gli uni rispetto agli altri nella direzione della

forza applicata, in questo modo otteniamo l’ ‘orientamento’ del materiale. Il tratto CF corrisponde alla ‘zona di

incrudimento’. In questa zona le catene si allineano reciprocamente, distendendosi via via in modo completo

fino alla rottura dei legami covalenti in corrispondenza del ‘punto di frattura’ (Fig. 7).

Figura 7. Il modello di J. M. Schultz (Polymer Material Science, 1974) delle modifiche microscopiche occorrenti durante il processo di stiro di un polimero semicristallino. La fase A è quella elastica: prima si ha la deformazione della zona amorfa (A1) e quindi di quella cristallina (A2); la fase B corrisponde allo snervamento del materiale ed allo scorrimento plastico, con la formazione del necking; la fase C all’incrudimento e alla frattura.

Possiamo scrivere equazioni equivalenti a εσ ⋅= E .

In particolare,

lS Δσ ⋅= dove lES =

Dove S è la ‘rigidità’ o ‘stiffness’ del materiale: rappresenta la costante di proporzionalità tra lo sforzo e la

deformazione assoluta; la rigidità del corpo è inversamente proporzionale alla sua lunghezza, pertanto i pezzi

piccoli sono più ‘rigidi’ di quelli lunghi: “piccolo è forte!”.

Inoltre, abbiamo:

σεσε ⋅=⇒⋅= JE1

Dove J è l’inverso del modulo E ed è detta ‘cedevolezza’ o ‘compliance’ del materiale.

Consideriamo un polimero termoplastico. Dalla curva σ-ε ricaviamo il modulo di Young (coefficiente angolare

della retta tangente alla curva all’origine) (1), lo sforzo e la deformazione di snervamento σy e εy (2), lo sforzo

e la deformazione di rottura σr e εr (3), la resilienza (4) e la tenacità del materiale (5).

La curva σ-ε presenta andamento diverso al variare della temperatura e della velocità di deformazione (ε ),

comportamento tipico di un materiale viscoelastico (Figura 8).

A bassa temperatura (T0) σ cresce quasi linearmente con ε fino alla rottura che avviene in modo fragile.

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Figura 8. Curve stress-strain di un polimero termoplastico al variare della velocità di deformazione e della temperatura.

A temperatura più elevata (T1) osserviamo lo “snervamento” del materiale (σy-εy) e successiva rottura a basse

deformazioni (~20%). A temperatura ancora più alta (T2), superato lo snervamento, la strizione (necking) si

stabilizza e si estende a tutto il campione: si ottengono allungamenti fino al 1000% (pari a 10 volte la

lunghezza originaria). In corrispondenza della rottura si registra un aumento dello sforzo necessario

(incrudimento per stiro). A temperatura ancora superiore (T3), otteniamo una deformazione omogenea con

rottura a grandi deformazioni, comportamento tipico degli elastomeri. Il comportamento inverso si ottiene

passando da bassa velocità di deformazione ( 0ε ) a velocità crescenti ( 321 εεε ,, ).

Quindi il modulo di Young e σy diminuiscono all’aumentare della temperatura ed aumentano con la

velocità di deformazione.

Si passa da un comportamento elasto-fragile ad elasto-plastico ed infine elastomerico.

L’area sottesa alla curva σ-ε ( ∫r dε

εσ0

) rappresenta il lavoro meccanico compiuto sul materiale fino alla

rottura (tenacità T) o nella zona elastica (resilienza R): per T<Tg il materiale è fragile (come il polisterene a

temperatura ambiente), per Tg<T<Tm il materiale è tenace (come il polietilene). Ad alte velocità di

deformazione i materiali polimerici diventano fragili, quindi la misura della fragilità di un materiale viene

effettuata con prove d’urto.

Applichiamo la legge di Young per calcolare la deformazione di un campione di sezione trasversale costante o

variabile. Per un cilindro o un prisma (solidi a sezione costante) in trazione o compressione osserveremo la

deformazione

AElPl⋅

⋅=Δ

Per il cilindro 2rA ⋅= π quindi 2rElPl⋅

⋅=π

Δ

Per un corpo a sezione variabile la deformazione assoluta comporta un processo di integrazione.

Consideriamo un tronco di cono di altezza l e raggi di base r0 e rl:

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Figura 9. La deformazione a trazione di un tronco di cono.

L’equazione di Young sarà valida per la deformazione infinitesima dl della sezione di spessore infinitesimo dx

e sezione 2xx rA ⋅= π ,

xAEdxPdl⋅⋅

=

Allora per integrazione abbiamo

∫=l

xAdx

EPl

rx ha un andamento lineare:

00 rx

lrrqmxr l

x +⋅−

=+=

Integrando si ottiene:

lrErlPl⋅

⋅=

0πΔ

La resistenza alla trazione (compressione) di un tronco di cono è inversamente proporzionale al prodotto dei

raggi di base.

In modo analogo avremmo trattato il problema per un profilo della sezione, ad esempio, parabolica

cbxaxrx ++= 2 o esponenziale xbx ear ⋅⋅= (come può accedere per il tronco di un albero o di una torre).

Ben più complesso è trattare una forma irregolare (pensiamo al tronco di un ulivo, …).

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In una prova di trazione, abbiamo riferito lo sforzo alla sezione iniziale ottenendo lo sforzo e la deformazione

ingegneristici. Tuttavia, possiamo tener conto che la sezione trasversale cambia durante la prova ottenendo lo

sforzo e la deformazione reali:

ldld

llE =⇒= ε

Δ integrando

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛ +=⎟⎟

⎞⎜⎜⎝

⎛== ∫

i

il

l i

f

lllln

ll

lnldlf

i

Δε

( )εε += 1ln

Analogamente

( )εσσ += 1

Consideriamo infine, l’esperimento di trazione, bidimensionale per semplicità, di Fig. 10

Figura 10. La deformazione a trazione di un elemento rettangolare.

Siméon-Denis Poisson ( matematico, fisico ed astronomo francese, 1781 – 1840) osservando che la

deformazione trasversale ttt

ε+

= è proporzionale a quella longitudinale lll Δ

ε+

= :

εε ∝t

definì nel 1829 la costante di proporzionalità ν, modulo o coefficiente di Poisson:

ενε ⋅−=t

Quindi,

εε

ν t−= essendo 0<tε il segno meno assicura che il coefficiente sia positivo.

Quando non si osserva variazione di volume (ΔV = 0, materiale incomprimibile) come per il cautchou (gomma

naturale) ν = 0.5. Se 50.<ν il materiale aumenta di volume, ΔV > 0, in trazione, mentre ΔV < 0 in

compressione.

In un materiale omogeneo (densità costante in ogni punto) e isotropo (proprietà costanti lungo ogni direzione)

50.≤ν . Tuttavia, molti materiali compositi polimerici hanno morfologia molecolare complessa che li rende

anisotropi (proprietà elastiche differenti nelle diverse direzioni), in questo caso possiamo avere 50.>ν . Ad

esempio, i muscoli (biocompositi a morfologia fibrillare), come è noto, si ingrossano considerevolmente in

contrazione con 1≈ν .

La deformazione del cristallino (costituito di biomateriale proteico) durante la visione è un’importante

applicazione biologica del coefficiente di Poisson. Quando il muscolo è rilassato il cristallino (dalla forma

lenticolare) è al suo diametro massimo e minimo spessore. In questo modo è massimo il suo raggio di

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curvatura e quindi la distanza focale è praticamente all’infinito. Per mettere a fuoco oggetti vicini, il muscolo si

contrae comprimendo longitudinalmente la lente che si ingrossa trasversalmente incurvandosi, riducendo in

questo modo il raggio di curvatura e la distanza focale.

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Nel locale dove questa operazione veniva compiuta ho no-tato in bella vista, sulla parete, un grande poster che illustra la Riflessologia plantare. Si tratta – secondo i suoi sostenitori – di una tecnica curativa che prende spunto dall’antica medi-cina tradizionale cinese; secondo altri risale all’antico Egitto.

La tecnica si baserebbe sui concetti di riflessologia ed energia. Il principio di base è quello secondo cui sulla pian-ta del piede si riflette ogni altra parte del nostro organismo, come se si trattasse di una specie di mappatura di ogni sin-golo organo interno o apparato. In termini più scientifici, si può dire che ogni zona della pianta del piede è connessa, tramite una terminazione nervosa, a una parte della colonna vertebrale, che a sua volta la mette in contatto con un organo. Di conseguenza, ogni tipo di stimolazione o manipolazione eseguita su una parte del piede si andrà a riflettere, con effetti

La riflessologia plantare ROBERTO FIESCHI

Professore emerito di Fisica, Università degli Studi di Parma

Anche a causa dell’età avanzata, fatico mol-to a piegarmi. La mattina la semplice ope-razione di infilarmi le calze è una lotta che spesso mi vede sconfitto. Anche il taglio delle unghie dei piedi da tempo risulta

difficile. Ho tentato di risolvere il problema acquistando una lunga lima da ferro che mi consentisse almeno di accorciar-le un poco senza piegarmi allo spasimo, ma anche così non ottenevo risultati soddisfacenti. (Mi rendo conto che queste mie piccole traversie non interessano nessuno, ma mi servo-no per introdurre un argomento che riveste un certo interesse, così proseguo).

Ho poi scoperto che per modica cifra, IVA inclusa, potevo rivolgermi a un centro dove gentili operatrici tagliavano e limavano con singolare perizia; il mio problema era risolto.

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toterapia, floriterapia, medicina ayurvedica, aromoterapia, chiropratica, nuova medicina germanica, fiori di Bach, pra-noterapia, iridologia,ecc.) anche la Riflessologia plantare non può avere altra efficacia diagnostica o curativa se non un effetto placebo.

Recentemente ho letto di un test accurato, effettuato nel 2000 (A blinded investigation into the accuracy of reflexo-logy charts.), per verificare la vantata efficacia diagnostica di questa tecnica. Furono scelti otto adulti affetti da uno o più sintomi; due reflessiologisti, che ignoravano lo stato de-gli otto soggetti, esaminarono i piedi di ognuno di loro e si espressero sulla presenza, o meno, dei sei sintomi. Risultò che i reflessiologisti non erano in grado di individuare i sin-tomi presenti e che non erano nemmeno in accordo tra di loro. Conclusione: “Despite certain limitations to the data provided by this study, the results do not suggest that reflexo-logy techniques are a valid method of diagnosis.”

Ho rinunciato di fornire queste informazioni alle operatrici del centro estetico: per fare bene il lavoro che gli dà il pane è meglio che siano convinte della efficacia della Riflessolo-gia; dopotutto il loro trattamento della pianta del piede non fa danno. Anzi, ciascuno di noi avrà sperimentato con il/la proprio partner quanta gioia dà un intenso, prolungato mas-saggio ai piedi.

Attenzione però a generalizzare che le Medicine alter-native (o non convenzionali) non fanno danno. Uno studio pubblicato sulla rivista Pediatrics e basato su un sondaggio nazionale statunitense che ha coinvolto un campione di no-vemila ragazzi mostra che solo il 33% dei bambini di fami-glie dove si ricorre alla cosiddetta medicina non convenzio-nale, come l’agopuntura o l’omeopatia, viene anche vacci-

positivi o negativi, sull’organo a essa collegato. Il poster in-fatti contiene la mappa plantare dei punti riflessi, cioè i punti della pianta del piede collegati ad alcune parti del nostro cor-po, su cui si possono esercitare delle pressioni per ottenere benefici effetti.

Con la riflessologia plantare sarebbe possibile alleviare il mal di testa e il mal di schiena, ridurre lo stress, sciogliere la tensione alle spalle, persino mitigare i sintomi del raffred-dore.

In rete si trovano molti articoli che illustrano, in modo più o meno simile, la tecnica, i suoi pregi e i buoni risultati che si ottengono; tutti concordano che attraverso il massaggio dei piedi si possono prevenire e curare molte patologie in tutto il corpo. Sono elencati anche molti centri che la praticano, con le relative tariffe.

Alcuni anni fa anche Carlo, principe di Galles, paladino controverso della medicina alternativa, in un suo libro (Har-mony: A New Way of Looking at Our World.) si pronunciò a favore di questa tecnica: “the subtle signs of imbalance reve-aled by the examination of the feet”; His Royal Highness si spinse a sostenere: “I have also learnt from leading experts how we can understand a great deal about the causes of ill health through more traditional methods of diagnosis — for example, through examination of the iris, ears, tongue, feet and pulse, very much the basis of the Indian Ayurvedic sy-stem.”

Tuttavia nessuno studio di anatomia o di fisiologia ha mai mostrato la presunta connessione tra le varie zone plantari e i vari organi. Di conseguenza, basandosi sul principio di causalità, si potrebbe tranquillamente concludere che, al pari delle altre medicine alternative (agopuntura, omeopatia, fi-

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nato contro l’influenza, una percentuale inferiore a quella di famiglie che non si avvalgono di cure non convenzionali.

Qualche caso più drammatico; a Rimini una giovane ma-dre ha rifiutato la chemioterapia perché voleva seguire le teorie del dottor Hamer (la nuova medicina germanica) e, il 29 agosto, la figlia è morta di una forma di leucemia che è curabile con antibiotici; a Padova una ragazza diciottenne è morta di leucemia dopo che i genitori e lei stessa avevano rifiutato la chemio sostenendo il metodo Hamer.

PS - Prima di inviare questo pezzo per la pubblicazione on-line, l’ho sottoposto ai miei figli e nipoti per una revisio-ne critica. In linea di massima sono d’accordo; qui trascrivo alcune delle loro osservazioni critiche:

Oss. 1 - Toglierei i riferimenti tra parentesi ad altre te-rapie alternative, per non fare d’ogni erba un fascio e non colpire altre sensibilità senza gli argomenti diretti.

R. - Le lascio perché, pur conscio della difficoltà di scuote-re la fede nelle Medicine alternative, intendo proprio mette-re in evidenza l’ampiezza dell’offerta e la varietà dei metodi proposti, che di per sé dovrebbero essere un indice della loro inattendibilità.

Oss. 2 - Cercherei più di un esperimento che ne smentisca la fondatezza. A ruoli invertiti, un singolo esperimento su 8 soggetti che dimostrasse l’efficacia della tecnica non mi con-vincerebbe, soprattutto a causa del campione troppo esiguo.

R. - Concordo. Tuttavia, unito alla considerazione sulla inesistenza di connessioni tra le varie zone plantari e i vari organi, mi sembra che il discorso sia convincente.

Oss. 3 - A volte, riflettendo sui benefici delle terapie alter-native, penso che i benefici che la gente sente potrebbero ve-nire sí dalla terapia, ma per motivi collaterali che non hanno a che fare con la mistica pseudoteoria che si usa per giusti-ficarla. Cerco di esemplificare... Nel caso della riflessologia, o dei massaggi ai piedi -che io adoro-, penso che rilassano tanto, e che, a volte, a seconda di dove chi massaggia preme, si sente un brivido che ricorre il corpo, fino alla schiena, o il collo, o la mano... Non so se ciò vuol dire che ci sia una connessione nervosa, ma potrebbe certamente portare tanti a credere che sia cosí. Io penso che il contatto físico, il ri-lassarsi, il fatto di darsi un tempo “fuori dal mondo”, in un contesto dedicato a se stessi, possono essere fonte di guari-gione e benessere molto oltre all’effetto placebo. Vuol dire che la riflessologia è vera? Forse no, ma vuol dire che ci può essere chi ne tragga un beneficio vero, per cause parallele.

R. – Concordo. Aggiungo che il rapporto “medico” pa-ziente, che in genere è personalizzato e umanamente caldo, è di per sé appagante e può favorire l’effetto placebo.

Oss. 4 - Mi piace molto come cominci, e sono pienamente d’accordo con il contenuto, ma non so se letto da qualcuno che crede alla riflessologia lo spingerebbe a ripensarci...

R. - Concordo.

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SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016 | PAGINE SENZA TEMPO

Solet annuere. Bulla Domini Papae Honorii III super regulam fratrum minorum

Honorio ac successoribus eius canonice intrantibus et Eccle-siae Romanae. Et alii fratres teneantur fratri Francisco et eius sucessoribus obedire.

De his qui volunt vitam istam accipere, et qualiter recipi debeant.Caput II

Si qui voluerint hanc vitam accipere et venerint ad fratres nostros, mittant eos ad suos ministros provinciales, quibus solummodo et non aliis recipiendi fratres licentia conceda-

tur. Ministri vero diligen-ter examinent eos de fide catholica et ecclesiaticis sacramentis.

Et si haec omnia cre-dant et velint ea fideliter et usque in finem firmiter obervare, et uxores non habent vel, si habent, et iam monasterium intrave-rint uxores vel, licentiam eis dederint auctoritate dioecesani episcopi, voto continentiae iam emisso, et illius sint aetatis exo-res, quod non possit de eis oriri suspicio, dicant illis verbum sancti Evangelii, quod vadant et vendant omnia sua et ea studeant pauperibus erogare. Quod si facere non potuerint, sufficit eis bona voluntas.

Et caveant fratres et eo-rum ministri, ne solliciti sint de rebus suis tempo-ralibus, ut libere faciant

Pubblichiamo la bolla “Solet annuere” con cui Papa Ono-rio III approvò il 29 novembre 1223 la Regola dei Frati Mi-nori di San Francesco.

Prologus in regulam fratrum minorum.Honorius Episcopus servus servorum Dei dilectis filiis,

fratri Francisco et aliis fratribus de Ordine Fratrum Mino-rum, salutem et apostolicam Benedictionem: Solet annuere Sedes Apostolica piis votis et honestis petentium desideriis favorem benivolum impertiri. Eapropter, dilecti in Domino filii, vestris piis precibus inclinati, ordinis vestri re-gulam, a bonae memoriae Innocentio papa, praede-cessore nostro, approba-tam, annotatam praesen-tibus, auctoritate vobis apostolica confirmamus et praesentis scripti patro-cinio communimus: Quae talis est,

In nomine Domini

Incipit Regula et Vita Fratrum Minorum.Caput Primum

Regula et vita Minorum Fratrum haec est, scilicet Domini Nostri Jesu Chri-sti sanctum Evangelium observare vivendo in obe-dientia, sine proprio et in castitate.

Frater Franciscus pro-mittit obedientiam et re-verentiam domino papae

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nam. Tamen pro necessitatibus infirmorum et aliis fratribus induendis, per amicos spirituales, ministri tantum et custodes sollicitam curam gerant secundum loca et tempora et frigidas regiones, sicut necessitati viderint expedire; eo semper salvo, ut, sicut dictum est, denarios vel pecuniam non recipiant.

De modo laboraniCaput V

Fratres illi, quibus gratiam dedit Dominus laborandi, labo-rent fideliter et devote, ita quod, excluso otio animae inimic, sanctae orationis et devotionis spiritum non extinguant, cui debent cetera temporalia deservire. De mercede vero laboris pro se et suis fratribus corporis necessario recipiant praeter denarios vel pecuniam et hoc humiliter, sicut decet servos Dei et paupertatis sanctissimae sectatores.

Quod nihil approprient sibi fratres, et de eleemosyna petenda et de fratribus infirmisCaput VI

Fratres nihil sibi approprient nec domum nec locum nec aliquam rem. Et tanquam peregrini et advenae in hoc saeculo in paupertate et humilitate Domino famulantes vadant pro eleemosyna confidenter, nec oportet eos verecundari, quia Dominus pro nobis se fecit pauperem in hoc mundo. Haec est illa celsitudo altissimae paupertatis, quae vos, carissi-mos fratres meos, heredes et reges regni caelorum instituit, pauperes rebus fecit, virtutibus sublimavit. Haec sit portio vestra, quae perducit in terram viventium. Cui, dilectissimi fratres, totaliter inhaerentes nihil aliud pro nomine Domini nostri Jesus Christi in perpetuum sub caelo habere velitis.

Et, ubicumque sunt et se invenerint fratres, ostendant se domesticos invicem interse. Et secure manifestet unus alteri necessitatem suam, quia, si mater nutrit et diligit filium suum carnalem, quanto diligentius debet quis diligere et nutrire fratrem suum spiritualem?

Et, si quis eorum in infirmitate ceciderit, alii fratres debent ei servire, sicut vellent sibi serviri.

De poenitentia fratribus peccantibus imponenda.Caput VII

Si qui fratrum, instigante inimico, mortaliter peccaverint, pro illis peccatis, de quibus ordinatum fuerit inter fratres, ut recurratur ad solos ministros provinciales, teneantur praedi-cit fratres ad eos recurrere quam citius poterint, sine more. Ipsi vero ministri, si presbyteri sunt, cum misericordia iniun-gant illis poenitentiam; si vero presbyteri non sunt, iniungi faciant per alios sacerdotes ordinis, sicut eis secudum Deum melius videbitur expedire. Et cavere debent, ne irascantur et conturbentur propter peccatum alicuius, quia ira et conturba-tio in se et in aliis impediunt caritatem.

De electione generalis ministri huius fraternitatis et de capitulo Pentecostes.Caput VIII

Universi fratres unum de fratribus istius religionis tene-antur semper habere generalem ministrum et servum totius

de rebus suis, quidquid Dominus inspiraverit eis. Si tamen consilium requiratur, licentiam habeant ministri mittendi eos ad aliquos Deum timentes, quorum consilio bona sua pau-peribus erogentur. Postea concedant eis pannos probationis, videlicet duas tunicas sine caputio et cingulum et braccas et caparonem usque ad cingulum, nisi eisdem ministris aliud secundum Deum aliquando videatur. Finito vero anno proba-tionis, recipiantur ad oboedientiam promittentes vitam istam semper et regulam observare.

Et nullo modo licebit eis de ista religione exire iuxta man-datum domini papae, quia secudum sanctum Evangelium nemo mittens manum ad aratrum et aspiciens retro aptus est regno Dei.

Et illi qui iam promiserunt oboedientiam habeant tunicam cum caputio et aliam sine caputione qui voluerint habere. Et qui necessitate coguntur possint portare calceamenta. Et fra-tres omnes vestimentis vilibus induantur et possint ea repe-tiare de saccis et aliis petiis cum benedictione Dei. Quos mo-neo et exhortor, ne despiciant neque iudicent homines, quos vident mollibus vestimentis et coloratis indutus, uti cibis et potibus delicatis, sed magis unusquisque iudicet et despiciat semetipsum.

De divino officio et ieiunio et quomodo fratres debeant ire per mundum.Caput III

Clerici faciant divinum officium secundum ordinem san-ctae Romanae Ecclesiae excepto psalterio, ex quo habere poterunt breviaria.

Laici vero dicant viginti quator Pater Noster pro matutino, pro laude quinque, pro prima, tertia, secta, nona, pro qualibet istarum septem, pro vesperis autem duodecim, pro comple-torio septem et orent pro defunctis.

Et ieiunent a festo Omnium Sanctorum usque ad Nativita-tem Domini. Sanctam vero quadragesimam, quae incipit ab Epiphania usque ad continuo quadraginta dies, quam Domi-nus suo sancto ieiunio consecravit, qui voluntarie eam ieiu-nant benedicti sint a Domino, et qui nolunt non sint astricit. Sed aliam usque ad Resurrectionem Domini ieiunent..

Aliis autem temporibus non teneantur nisi sexta feria ie-iunare. Tempore vero manifestae necessitatis non teneantur fratres ieiunio corporali.

Consulo vero, moneo et exhortor fratres meos in Domi-no Jesu Christo, ut quando vadunt per mundum, non litigent neque contendant verbis, nec alio iudicent; sed sint mites, pacifici et modesti, mansueti et humiles, honeste loquentes omnibus, sicut decet. Et non debeant equitare, nisi manifesta necessitate vel infirmitate cogantur.

In quamcumque domum intraverint, primum dicant: Pax huic domui. Et secundum sanctum Evangelium de omnibus cibis, qui apponuntur eis, liceat manducare.

Quod fratres non recipiant pecuniam.Caput IV

Praecipio firmiter fratribus universis, ut nullo modo dena-rios vel pecuniam recipiant per se vel per interpositam perso-

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SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016 | PAGINE SENZA TEMPO

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concessa est licentia specialis; nec fiant compartres virorum vel mulierum nec hac occasione inter fratres vel de fratribus scandalum oriatur.

De euntibus inter saracenos et alios infideles.Caput XII

Quicumque fratrum divina inspiratione voluerint ire inter saracenos et alios infideles petant inde licentiam a suis mi-nistris provincialibus. Ministri vero nullis eundi licentiam tribuant, nisi eis quos viderint esse idoneos ad mittendum..

Ad haec per obedientiam iniungo ministris, ut petant a do-mino papa unum de sancte Romanae Eccclesiae cardinalibus, qui sit gubernator, protector et corrector istius fraternitatis, ut semper subditi et subiecti pedibus eiusdem sanctae Ecclesiae stabiles in fide catholica paupertatem et humilitatem et san-ctum evangelium Domini nostri Jesu Christi, quod firmiter promisimus, observemus.

Nulli ergo omnino hominum liceat hanc paginam nostrae confirmationis infringere, vel ei ausu temerario contraire. Si quis autem hoc attentatre praesumpserit, indignationem om-nipotentis Dei et beatorum Petri et Pauli, apostolorum eius, se noverit incursurum.

Datum Laterani tertio kalendas decembris, Pontificatus nostri anno octavo.

fraternitatis et ei teneantur firmiter obedire. Quo decedente, electio successoris fiat a ministris provincialbius et custo-dibus in capitulo Pentecostes, in quo provinciales ministri teneantur semper insimul convenire, ubicumque a generali ministro fuerit constitutum; et hoc semel in tribus annis vel ad alium terminum maiorem vel minorem, sicut a praedicto ministro fuerit ordinatum.

De praedicatoribus.Caput IX

Fratres non praedicent in episcopatu alicuius episcopi, cum ab eo illis fuerit contradictum. Et nullus fratrum populo penitus audeat praedicare, nisis a ministro generali huius fra-ternitatis fuerit examinatus et approbatus, et ab eo officium sibi praedicationis concessum.

Moneo quoque et exhortor eosdem fratres, ut in praedica-tione, quam faciunt, sint examinata et casta eorum eloquia, ad utilitatem et aedificationem populi, annuntiando eis vitia et virtutes, poenam et gloriam cum brevitate sermonis; quia verbum abbreviatum fecit Dominus super terram.

De admonitione et correctione fratrum.Caput X

Fratres, qui sunt ministri et servi aliorum fraturm, visitent et moneant fratres suos et humiliter et caritative corrigant eos, non praecipientes eis aliquid, quod sit contra animam suam et regulam nostram. Fratres vero, qui sunt subditi, re-cordentur, quod propter Deum abnegaverunt proprias volun-tates. Unde firmiter praecipio eis, ut obediant suis ministris in omnibus quae promiserunt Domino observare et non sunt contraria animae et regulae nostrae. Et ubicumque sunt fra-tres, qui scirent et cognoscerent, se non posse regulam spiri-tualiter observare, ad suos ministros debeant et possint recur-rere. Ministri vero caritative et benigne eos recipiant et tan-tam familiaritatem habeant circa ipsos, ut dicere possint eis et facere sicut domini servis suis; nam ita debet esse, quod ministri sint servi omnium fratrum.

Moneo vero et exhortor in Domino Jesu Christo, ut caveant fratres ab omni superbia, vana gloria, invidia, avaritia cura et sollicitudine hujus saeculi detractrione et murmuratione, et non curent nescientes litteras litteras discere; seb attendant, quod super omnia desiderare debent habere Spiritum Domini et sanctam eius operationem, orare semper ad eum puro cor-de et habere humilitatem, patientiam in persecutione et infir-mitate et diligere eos qui nos persequuntur et reprehendunt et arguunt, quia dicit Dominus: Diligite inimicos vestros et orate pro persequentibus et calumniantibus vos. Beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam, quoniam ipsorum est regnum caelorum. Qui autem perseveraverit usque in fi-nem hic salvus erit.

Quod fratres non ingrediantur monasteria monacharum.Caput XI

Praecipio firmiter fratribus universis, ne habeant suspec-ta consortia vel consilia mulierum, et ne ingrediantur mo-nasteria monacharum praeter illos, quibus a sede apostolica

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ISSN 2283-5873

SRScienze e RicercheMENSILE - N. 8 - GIUGNO 2015

8.

ISSN 2283-5873

Luis e Simon Cremonese

Viaggio in Corsica

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SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016 | IL COMITATO SCIENTIFICO

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Comitato scientifico

15 NOVEMBRE 2016

Adriano Barra (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Alessio Bosio (Università degli Studi di Parma)Maria Grazia Bridelli (Università degli Studi di Parma)Gian Paolo Brivio (Università degli Studi di Milano Bicocca)Tolmino Corazzari (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)Giacomo Mauro D’Ariano (Università degli Studi di Pavia)Alessandra De Lorenzi (Università Ca’ Foscari Venezia)Carlo del Papa (Università degli Studi di Udine)Andrea Ferrara (Scuola Normale Superiore)Roberto Fieschi (Università degli Studi di Parma)Andrea Frova (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Alessandro Gabrielli (Alma Mater Università di Bologna)Maurizio Iori (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Gaetano Lanzalone (Università degli Studi di Enna Kore)Savino Longo (Università degli Studi di Bari Aldo Moro)Luca Malagoli (Istituto A. Volta di Sassuolo)Marisa Michelini (Università degli Studi di Udine)Lino Miramonti (Università degli Studi di Milano)Annamaria Muoio (Università degli Studi di Messina)Luigi Pilo (Università degli Studi dell’Aquila)Nicola Piovella (Università degli Studi di Milano)Franco Taggi

CHIMICA Vincenzo Barone (Scuola Normale Superiore)Ignazio Blanco (Università degli Studi di Catania)Vincenzo Brandolini (Università degli Studi di Ferrara)Irene Dini (Università degli Studi di Napoli Federico II)Antonino Famulari (Politecnico di Milano)Sergio Ferro (Università degli Studi di Ferrara)Francesca Caterina Izzo (Università Ca’ Foscari Venezia)Marcello Locatelli (Università degli Studi G. D’Annunzio Chieti Pescara)Salvatore Lorusso (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Placido Mineo (Università degli Studi di Catania)Andrea Natali (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Neri Niccolai (Università degli Studi di Siena)Stefano Protti (Università degli Studi di Pavia)

SCIENZE MATEMATICHE, FISICHE, CHIMICHE E DELLA TERRA

MATEMATICAElena Agliari (Sapienza Università di Roma) Andrea Bonfiglioli (Alma Mater Studiorum Università di Bologna) Lorenzo Carlucci (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Umberto Cerruti (Università degli Studi di Torino)Luca Di Persio (Università degli Studi di Verona)Alberto Facchini (Università degli Studi di Padova)Luca Granieri (Università degli Studi di Napoli Federico II)Paola Magnaghi-Delfino (Politecnico di Milano)Paolo Maria Mariano (Università degli Studi di Firenze)Vito Napolitano (Seconda Università degli Studi di Napoli)Giorgio Riccardi (Seconda Università degli Studi di Napoli)Marco Rigoli (Università degli Studi di Milano)Gloria Rinaldi (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)Brunello Tirozzi (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Guido Zaccarelli (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)

INFORMATICAStefano Bistarelli (Università degli Studi di Perugia)Angelo Ciaramella (Università degli Studi di Napoli Parthenope)Davide Ciucci (Università degli Studi di Milano Bicocca)Mario Pavone (Università degli Studi di Catania)Marcello Pelillo (Università Ca’ Foscari Venezia)Giuseppe Scanniello (Università degli Studi della Basilicata)Lorenzo Tortora de Falco (Università degli Studi Roma Tre)Pietro Ursino (Università degli Studi dell’Insubria)

FISICAFabrizio Arciprete (Università degli Studi di Roma Tor Vergata)Franco Bagnoli (Università degli Studi di Firenze)

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IL COMITATO SCIENTIFICO | SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016

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Mario Pestarino (Università degli Studi di Genova)Giovanni Fulvio Russo (Università degli Studi di Napoli Parthenope)Roberto Sandulli (Università degli Studi di Napoli Parthenope)Valeria Specchia (Università del Salento)Luana Toniolo (Università degli Studi di Padova)Renata Viscuso (Università degli Studi di Catania)Nicola Zambrano (Università degli Studi di Napoli Federico II)

MEDICINAAmedeo Amedei (Università degli Studi di Firenze)Adriano Angelucci (Università degli Studi dell’Aquila)Nicola Avenia (Università degli Studi di Perugia)Cesario Bellantuono (Università Politecnica delle Marche)Antonio Brunetti (Università degli Studi Magna Græcia di Catanzaro)Marco Cambiaghi (Università degli Studi di Torino)Marco Carotenuto (Seconda Università degli Studi di Napoli)Angelo Cazzadori (Università degli Studi di Verona)Massimiliano Contesini (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)Maria Esposito (Seconda Università degli Studi di Napoli)Paolo Francesco Fabene (Università degli Studi di Verona) Davide Festi (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Lucio Achille Gaspari (Università degli Studi di Roma Tor Vergata)Maurizio Giuliani (Università degli Studi dell’Aquila)Roberta Granese (Università degli Studi di Messina)Paolo Gritti (Seconda Università degli Studi di Napoli)Ciro Isidoro (Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro)Antonio Simone Laganà (Università degli Studi di Messina)Angelo Lavano (Università degli Studi Magna Græcia di Catanzaro)Elena Martinelli (Università degli Studi di Firenze)Filomena Mazzeo (Università degli Studi di Napoli Parthenope)Massimo Miniati (Università degli Studi di Firenze)Letteria Minutoli (Università degli Studi di Messina)Luigi Muratori (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Antonella Nespoli (Università degli Studi di Milano Bicocca)Giuseppe Pignataro (Università degli Studi di Napoli Federico II)Letizia Polito (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Edoardo Raposio (Università degli Studi di Parma)Giuseppina Rizzo (Università degli Studi di Messina)Elisabetta Rovida (Università degli Studi di Firenze)Davide Schiffer (Università degli Studi di Torino)Tullio Scrimali (Università degli Studi di Catania)Leandra Silvestro (Università degli Studi di Torino)Bartolomeo Valentino (Seconda Università degli Studi di Napoli)Marco Zaffanello (Università degli Studi di Verona)

Andrea Pucci (Università di Pisa)Carmela Saturnino (Università degli Studi di Salerno)Pietro Tagliatesta (Università degli Studi di Roma Tor Vergata)Vincenzo Villani (Università degli Studi della Basilicata)Scienze della TerraGiovanni Bruno (Politecnico di Bari)Claudio Cassardo (Università degli Studi di Torino)Piero Di Carlo (Università degli Studi dell’Aquila)Luca Lanci (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo)Michele Lustrino (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Enrico Miccadei (Università degli Studi G. D’Annunzio Chieti Pescara)Giovanni Santarato (Università degli Studi di Ferrara)Roberto Scandone (Università degli Studi Roma Tre)

SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE

BIOLOGIAFrancesca Arnaboldi (Università degli Studi di Milano)Silvia Arossa (Università Politecnica delle Marche)Giuseppe Barbiero (Università della Valle d’Aosta)Massimiliano Bergallo (Università degli Studi di Torino)Mario Bortolozzi (Università degli Studi di Padova)Maurizio Francesco Brivio (Università degli Studi dell’Insubria)Stefania Bulotta (Università degli Studi Magna Græcia di Catanzaro)Antonella Carsana (Università degli Studi di Napoli Federico II)Bruno Cicolani (Università degli Studi dell’Aquila)Paola Coccetti (Università degli Studi di Milano Bicocca)Marco Colasanti (Università degli Studi Roma Tre)Renata Cozzi (Università degli Studi Roma Tre)Pierangelo Crucitti (SRSN - Società Romana di Scienze Naturali)Roberta Di Pietro (Università degli Studi G. D’Annunzio Chieti Pescara)Francesco Dondero (Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro)Guglielmina Froldi (Università degli Studi di Padova)Simone Giannecchini (Università degli Studi di Firenze)Erminio Giavini (Università degli Studi di Milano)Gianni Guidetti (Università degli Studi di Pavia)Angela Ianaro (Università degli Studi di Napoli Federico II)Caterina La Porta (Università degli Studi di Milano)Fabrizio Loreni (Università degli Studi di Roma Tor Vergata)Stefania Marzocco (Università degli Studi di Salerno)Fabrizio Mattei (Istituto Superiore di Sanità)Elisabetta Meacci (Università degli Studi di Firenze)Antonio Miceli (Università del Salento)Salvatore Nesci (Alma Mater Studiorum Università di BolognaNicolò Parrinello (Università degli Studi di Palermo)Gianni Pavan (Università degli Studi di Pavia)

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SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016 | IL COMITATO SCIENTIFICO

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di Napoli)Antonio Formisano (Università degli Studi di Napoli Federico II)Gabriele Garnero (Università degli Studi di Torino)Giada Gasparini (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Francesca Giglio (Università Mediterranea di Reggio Calabria)Anna Granà (Università degli Studi di Palermo)Angela Giovanna Leuzzi (Università degli Studi di Camerino)Mara Lombardi (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Angelo Luongo (Università degli Studi dell’Aquila)Michele Mossa (Politecnico di Bari)Maurizio Oddo (Università degli Studi di Enna Kore)Pier Luigi Paolillo (Politecnico di Milano)Maria Ines Pascariello (Università degli Studi di Napoli Federico II)Ivana Passamani (Università degli Studi di Brescia)Giovanni Perillo (Università degli Studi di Napoli Parthenope)Lucia Pietroni (Università degli Studi di Camerino)Bernardino Romano (Università degli Studi dell’Aquila)Cesare Renzo Romeo (Politecnico di Torino)Giovanni Santi (Università di Pisa)Vincenzo Sapienza (Università degli Studi di Catania)Michelangelo Savino (Università degli Studi di Padova)Massimiliano Savorra (Università degli Studi del Molise)Maria Grazia Turco (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Herman van Bergeijk (Technische Universiteit Delft, Nederland)Antonella Violano (Seconda Università degli Studi di Napoli)

INGEGNERIA INDUSTRIALESergio Baragetti (Università degli Studi di Bergamo)Salvatore Brischetto (Politecnico di Torino)Eugenio Brusa (Politecnico di Torino)Federico Cheli (Politecnico di Milano)Gianpiero Colangelo (Università del Salento)Simone Colombo (Politecnico di Milano)Giorgio De Pasquale (Politecnico di Torino)Sergio della ValleAlberto Gallifuoco (Università degli Studi dell’Aquila)Giancarlo Genta (Politecnico di Torino)Massimo Guarnieri (Università degli Studi di Padova)Francesco Iacoviello (Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale)Giovanna La Fianza (Università degli Studi del Molise)Luigi Landini (Università di Pisa)Francesco Lattarulo (Politecnico di Bari)Vinicio Magi (Università degli Studi della Basilicata)Salvo Marcuccio (Università di Pisa)Raffaele Marotta (Università degli Studi di Napoli Federico II)Riccardo Nobile (Università del Salento)Carlo Rottenbacher (Università degli Studi di Pavia)Carlo Santulli (Università degli Studi di Camerino)

SCIENZE AGRARIE Umberto Anastasi (Università degli Studi di Catania)Sergio Angeli (Libera Università di Bolzano)Stefania Balzan (Università degli Studi di Padova)Riccardo N. Barbagallo (Università degli Studi di Catania)Graziella Benedetto (Università degli Studi di Sassari)Gino Ciafardini (Università degli Studi del Molise)Francesco Contò (Università degli Studi di Foggia)Tullia Gallina Toschi (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Alessandra Mazzeo (Università degli Studi del Molise)Alberto Minelli (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Francesco Sottile (Università degli Studi di Palermo)Antonio Stasi (Università degli Studi di Foggia)Giuseppe Tataranni (Università degli Studi della Basilicata)Antonino Testa (Università degli Studi di Napoli Federico II)Francesco Vizzarri (Università degli Studi del Molise)Aldo Zechini D’Aulerio (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)

SCIENZE VETERINARIE Monica Colitti (Università degli Studi di Udine)Edo D’Agaro (Università degli Studi di Udine)Gianfranco Militerno (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Giuseppe Morello (Università degli Studi di Palermo)Frine Eleonora Scaglione (Università degli Studi di Torino)Patrizia Serratore (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Dominga Soglia (Università degli Studi di Torino)

SCIENZE DELL’INGEGNERIA E DELL’ARCHITETTURA

INGEGNERIA CIVILE E ARCHITETTURAFilippo Angelucci (Università degli Studi G. D’Annunzio Chieti Pescara)Francesco Augelli (Politecnico di Milano)Silvia Barbero (Politecnico di Torino)Cinzia Bellone (Università degli Studi Guglielmo Marconi)Michele Betti (Università degli Studi di Firenze)Alberto Bologna (École Polytechnique Fédérale de Lausanne, Switzerland)Francesco Saverio Capaldo (Università degli Studi di Napoli Federico II)Alessandro Capra (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)Alessandra Carlini (Università degli Studi Roma Tre)Orazio Carpenzano (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Arnaldo Cecchini (Università degli Studi di Sassari)Elisabetta Cianfanelli (Università degli Studi di Firenze)Carlo Coppola (Seconda Università degli Studi di Napoli)Alessandra Cucurnia (Università degli Studi di Firenze)Sebastiano D’Urso (Università degli Studi di Catania)Caterina Cristina Fiorentino (Seconda Università degli Studi

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IL COMITATO SCIENTIFICO | SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016

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Domenico Russo (Università degli Studi G. D’Annunzio Chieti Pescara)Giuseppe Solaro (Università degli Studi di Foggia)Silvia Stucchi (Università Cattolica del Sacro Cuore)Immacolata Tempesta (Università del Salento)Gabriella Vanotti (Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro)

LINGUE E LETTERATUREDonella Antelmi (IULM - Libera Università di Lingue e Comunicazione)Antonella Benucci (Università per Stranieri di Siena)Alessandra Calanchi (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo)Giovanna Carloni (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo)Carla Comellini (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Barbara D’Annunzio (Università Ca’ Foscari Venezia)Cosimo De Giovanni (Università degli Studi di Cagliari)Roberto De Romanis (Università degli Studi di Perugia)Pierangela Diadori (Università per Stranieri di Siena)Mirko Grimaldi (Università del Salento)Peggy Katelhoen (Università degli Studi di Torino)Paola Martinuzzi (Università Ca’ Foscari Venezia)Fabio MatassaMaria Grazia Meriggi (Università degli Studi di Bergamo)Erika Notti (Università Cattolica del Sacro Cuore)Alberta Novello (Università Ca’ Foscari Venezia)Mariagrazia Russo (Università degli Studi della Tuscia)Matteo Santipolo (Università degli Studi di Padova)Cristina Schiavone (Università di Macerata)Paolo Torresan (Università Ca’ Foscari Venezia)Patrizia Torricelli (Università degli Studi di Messina)Ute Christiane Weidenhiller (Università degli Studi Roma Tre)Maria Teresa Zanola (Università Cattolica del Sacro Cuore)

ORIENTALISTICARosa Conte (Università di Macerata)Rosa Lombardi (Università degli Studi Roma Tre)

STORIAAndrea Candela (Università degli Studi dell’Insubria)Paolo Carusi (Università degli Studi Roma Tre)Marco Ciardi (Alma Mater Studiorum, Università di Bologna)Chiara d’Auria (Università degli Studi di Salerno)Fabrizio Dal Passo (Sapienza Università di Roma)Daria De Donno (Università del Salento)Isabella Gagliardi (Università degli Studi di Firenze)Giuseppe Motta (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Rossano Pazzagli (Università degli Studi del Molise)Luciana Petracca (Università del Salento)Francesco Randazzo (Università degli Studi di Perugia)Milena Sabato (Università del Salento)Leonardo Sacco (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Marco Santoro (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa)

Silvano Vergura (Politecnico di Bari)Gabriele Virzì Mariotti (Università degli Studi di Palermo)Antonio Zuorro (Università degli Studi di Roma La Sapienza)

INGEGNERIA DELL’INFORMAZIONEItalo GhidiniAlessio Giorgetti (Scuola Superiore Sant’Anna di Studi Universitari e di Perfezionamento)Giada Giorgi (Università degli Studi di Padova)Agostino Giorgio (Politecnico di Bari)Giuliana Guazzaroni (Università Politecnica delle Marche)Alberto Marchetti Spaccamela (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Emilio Matricciani (Politecnico di Milano)Luciano Mescia (Politecnico di Bari)Anna Gina Perri (Politecnico di Bari)Fiora Pirri (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Gaetano Valenza (Università di Pisa)

SCIENZE DELL’UOMO, FILOSOFICHE, STORICHE E LETTERARIE

SCIENZE DELL’ANTICHITÀEnrico Acquaro (Alma Mater Studiorum Università di Bologna) Carlo Beltrame (Università Ca’ Foscari Venezia)Fulvia Ciliberto (Università degli Studi del Molise)Massimiliano David (Alma Mater Studiorum Università di Bologna) Francesca Ghedini (Università degli Studi di Padova)Maria Teresa Guaitoli (Alma Mater Studiorum Università di Bologna) Alessandro Teatini (Università degli Studi di Sassari)Guido Vannini (Università degli Studi di Firenze)

SCIENZE ARTISTICHEOrnella Castiglione (Università degli Studi di Milano Bicocca)Emanuele Ferrari (Università degli Studi di Milano Bicocca)Anna Lucia Natale (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Gigliola Novali (Università degli Studi di Genova)Gianni Nuti (Università della Valle d’Aosta)Gaetano Oliva (Università Cattolica del Sacro Cuore)Matteo Segafreddo (Università Ca’ Foscari Venezia)

FILOLOGIA E LETTERATURA ITALIANAEmanuela Andreoni Fontecedro (Università degli Studi Roma Tre)Angelo Ariemma (Centro di Documentazione Europea Altiero Spinelli)Gian Paolo Caprettini (Università degli Studi di Torino)Alberto Carli (Università degli Studi del Molise)Antonio Lucio Giannone (Università del Salento)Alessio Persic (Università Cattolica del Sacro Cuore)Marco Perugini (Università degli Studi Guglielmo Marconi)

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SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016 | IL COMITATO SCIENTIFICO

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Marco D’Addario (Università degli Studi di Milano Bicocca)Enrico Giora (Università Vita-Salute San Raffaele)Antonio Godino (Università del Salento)Paola Gremigni (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Alessandra Cecilia Jacomuzzi (Università Ca’ Foscari Venezia)Caterina Lombardo (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Paola Magnano (Università degli Studi di Enna Kore)Susanna Pallini (Università degli Studi Roma Tre)Claudio Palumbo (Università degli Studi di Parma)Olimpia Pino (Università degli Studi di Parma)Vincenzo Paolo Senese (Seconda Università degli Studi di Napoli)Renato Vignati (Università di Macerata)Arturo Xibilia (Università degli Studi di Catania)

SCIENZE MOTORIEMassimiliano Gollin (Università degli Studi di Torino)Pasqualino Maietta Latessa (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Francesco Perrotta (Libera Università di Bolzano)Domenico Tafuri (Università degli Studi di Napoli Parthenope)

SCIENZE GIURIDICHE, ECONOMICHE E SOCIALI

DIRITTOGaetano Armao (Università degli Studi di Palermo)Elena Bellisario (Università degli Studi Roma Tre)Antonietta Chiantia (Università degli Studi di Messina)Daniele Coduti (Università degli Studi di Foggia)Stefano Colloca (Università degli Studi di Pavia)Angela Cossiri (Università di Macerata)Giovanni Di Cosimo (Università di Macerata)Lorenzo Gagliardi (Università degli Studi di Milano)Giancarlo Guarino (Università degli Studi di Napoli Federico II)Rolandino Guidotti (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Giovanni Iudica (Università degli Studi di Catania)Agostina Latino (Università degli Studi di Camerino)Antonio Maria Leozappa (Università del Salento)Massimiliano Mancini (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Simone Mezzacapo (Università degli Studi di Perugia)Silvia Nicodemo (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Antonio Palma (Università degli Studi di Napoli Federico II)Biancamaria Raganelli (Università degli Studi di Roma Tor Vergata)Carlo Rasia (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Francesco Rende (Università degli Studi di Messina)Gennaro Rotondo (Seconda Università degli Studi di Napoli)Gianpaolo Maria Ruotolo (Università degli Studi di Foggia -

Paolo Scarpi (Università degli Studi di Padova)Antonio Scornajenghi (Università degli Studi Roma Tre)Anna Toscano (Università degli Studi di Milano)Luigi Traetta (Università degli Studi di Foggia)Gabriella Valera (Università degli Studi di Trieste)Angelo Ventrone (Università di Macerata)Agnese Visconti

ETNOLOGIADomenico Ienna (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Giuseppe Scandurra (Università degli Studi di Ferrara)

GEOGRAFIAAnna Rosa Candura (Università degli Studi di Pavia)Margherita Ciervo (Università degli Studi di Foggia)Paolo Molinari (Università Cattolica del Sacro Cuore)Emanuele Poli (Università degli Studi di Pavia)Stefano Soriani (Università Ca’ Foscari Venezia)

FILOSOFIAMario Alai (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo)Marta Bertolaso (Università Campus Bio-Medico di Roma)Diego Fusaro (Università Vita-Salute San Raffaele)Stefano Maso (Università Ca’ Foscari Venezia)Stefania Giulia Mazzone (Università degli Studi di Catania)Franco Riva (Università Cattolica del Sacro Cuore)

PEDAGOGIAGiovanni Arduini (Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale)Sergio BonettiRosa Cera (Università degli Studi di Foggia)Maria D’Ambrosio (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa)Paola Dal Toso (Università degli Studi di Verona)Barbara De Serio (Università degli Studi di Foggia)Maria Amata Garito (UTIU - Università Telematica Internazionale Uninettuno)Anna Granata (Università degli Studi di Torino)Gianna Marrone (Università degli Studi Roma Tre)Giovanni Moretti (Università degli Studi Roma Tre)Laura Moschini (Università degli Studi Roma Tre)Antonella Nuzzaci (Università degli Studi dell’Aquila)Luca Refrigeri (Università degli Studi del Molise)Stefano Salmeri (Università degli Studi di Enna Kore)Flavia Santoianni (Università degli Studi di Napoli Federico II)Fabrizio Manuel Sirignano (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa)

PSICOLOGIABarbara Barcaccia (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Giuseppe Curcio (Università degli Studi dell’Aquila)Francesca Cuzzocrea (Università degli Studi di Messina)

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IL COMITATO SCIENTIFICO | SCIENZE E RICERCHE • N. 41 • 15 NOVEMBRE 2016

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Luigi De Cesare (Università degli Studi di Foggia)Massimiliano Giacalone (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Monica Palma (Università del Salento)

SCIENZE POLITICHE E SOCIALISilvano Belligni (Università degli Studi di Torino)Carlo Bolognesi (Università degli Studi eCampus)Giovanni Borriello (Università degli Studi Roma Tre)Domenico Carbone (Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro)Marco Cilento (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Luigi Colaianni (Università degli Studi di Padova)Ivo Colozzi (Alma Mater Studiorum Università di Bologna)Paolo Corvo (Università degli Studi di Scienze Gastronomiche)Giuliana Costa (Politecnico di Milano)Sara Gentile (Università degli Studi di Catania)Michele Lanna (Seconda Università degli Studi di Napoli)Andrea Lombardinilo (Università degli Studi G. D’Annunzio Chieti Pescara)Maurizio Lozzi (presidente CONSCOM)Vincenzo Memoli (Università degli Studi di Milano)Andrea Millefiorini (Seconda Università degli Studi di Napoli)Fortunato Musella (Università degli Studi di Napoli Federico II)Cristiana Ottaviano (Università degli Studi di Bergamo)Paola Panarese (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Gianluca Pastori (Università Cattolica del Sacro Cuore)Pasquale Peluso (Università degli Studi Guglielmo Marconi)Matteo Pizzigallo (Università degli Studi di Napoli Federico II)Irene Ranaldi (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Andrea Spreafico (Università degli Studi Roma Tre)Luca Toschi (Università degli Studi di Firenze)Anna Lisa Tota (Università degli Studi Roma Tre)Roberto Veraldi (Università degli Studi G. D’Annunzio Chieti Pescara)Fabio Zucca (Università degli Studi dell’Insubria)

King’s College London)Fabrizia Santini (Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro)Lorenzo Scillitani (Università degli Studi del Molise)Domenico Siclari (Università per Stranieri Dante Alighieri)Giuseppe Spoto (Università degli Studi Roma Tre)Anna Lucia Valvo (Università degli Studi Internazionali di Roma)Alberto Virgilio (Seconda Università degli Studi di Napoli)Maria Rosaria Viviano (Seconda Università degli Studi di Napoli)

ECONOMIARossella Agliardi (Alma Mater Studiorum Università di Bologna) Vincenzo Asero (Università degli Studi di Catania)Giuliana Birindelli (Università degli Studi G. D’Annunzio Chieti Pescara)Domenico Bodega (Università Cattolica del Sacro Cuore)Sabrina Bonomi (Università degli Studi eCampus)Antonio Botti (Università degli Studi di Salerno)Luigi Bottone (Università Carlo Cattaneo - LIUC)Rossella Canestrino (Università degli Studi di Napoli Parthenope)Antonio Capaldo (Università Cattolica del Sacro Cuore)Laura Castellucci (Università degli Studi di Roma Tor Vergata)Fausto Cavallaro (Università degli Studi del Molise)Luciano Consolati (Università degli Studi Guglielmo Marconi)Gaetano Cuomo (Università degli Studi di Napoli Federico II)Giovanni Favero (Università Ca’ Foscari Venezia)Mariantonietta Fiore (Università degli Studi di Foggia)Massimo Franco (Università degli Studi di Napoli Federico II)Riccardo Gallo (Università degli Studi di Roma La Sapienza)Pierpaolo Giannoccolo (Alma Mater Studiorum Università di Bologna) Carolina Guerini (Università Carlo Cattaneo - LIUC)Pierpaolo Magliocca (Università degli Studi di Foggia)Alfonso Marino (Seconda Università degli Studi di Napoli)Giuseppe Marotta (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)Elisa Pintus (Università della Valle d’Aosta)Maria Cristina Quirici (Università di Pisa)Alessia Sammarra (Università degli Studi dell’Aquila)Barbara Scozzi (Politecnico di Bari)Filippo Sgroi (Università degli Studi di Palermo)Claudio Socci (Università di Macerata)Michela Soverchia (Università di Macerata)Riccardo Stacchezzini (Università degli Studi di Verona)Giuseppe Tardivo (Università degli Studi di Torino)Caterina Tricase (Università degli Studi di Foggia)Erica Varese (Università degli Studi di Torino)

STATISTICAAntonio Attalienti (Università degli Studi di Bari Aldo Moro)

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Da qualsiasi parte si prendano le mosse, insieme alla fraternità si sollevano sempre diversi conflitti con la responsabi-lità, con la città degli uomini, con la giustizia. Proprio la fraternità con i suoi conflitti dà vita alla struttura di compren-sione per poterla pensare, che si colloca tanto a livello pratico, di vissuto comune e di esperienze collettive, quanto a livello fondamentale dove agisce un orizzonte anche mitico. Dentro la fraternità vivono i miti. Dentro i miti vive la fraternità. Il rapporto tra miti e fraternità è sempre sul punto d’implosione. Da un lato perché le esperienze concrete di fraternità sono inclini, al di là del loro colore, a mitizzare se stesse e a presentarsi quale splendido e indiscutibile modello di convivenza umana. Dall’altro lato perché il meccanismo del mitizzare tende a produrre un’immagine di fraternità bloccata che assomiglia al riflesso di se stessi nello specchio. Dove sta il problema? Le fraternità della storia sono spesso intrise di rivalità, di violenza, di esclusione, di preferenza, di fratricidio, non sono mai del tutto ciò cui aspirano e ciò che dicono di essere... (dall’introduzione)

FRANCO RIVA, Fraternità o morte - FRANCO RIVA, La domanda di Caino. Miti e fraternità - PAOLO SCO-LARI, Nietzsche e i tramonti della fraternità - DIANA GIANOLA, Fraternità, disincanto e libertà. Max Weber - FEDERICA STIZZA, Il fratello, il prossimo e la giustizia. Emmanuel Lévinas - FRANCESCA MARTINELLI, Una fraternità postmoderna

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ELISABETTA STRICKLAND Essere donna e fare scienza in Italia: un’impresa difficile DAVIDE BARBA E MARIANGELA

D’AMBROSIO Donne e ricerca: “fare” genere nell’ambito scientifico ALESSANDRA MAZZEO Tertium non datur DANIELA

GRIGNOLI Donne in ricerca ROSA MARIA FANELLI, ANGELA DI NOCERA La presenza delle donne nel settore europeo della ricerca scientifica e tecnologica STEFANO OSSICINI Marie Curie, Hertha Ayrton e le altre. Donne e scienziate VINCENZO VILLANI Marie-Sophie Germain: matematica e fisica romantica dell’800 ANNA TOSCANO Il gabbiano ha preso il volo. Valentina V. Tereshkova - Samantha Cristoforetti. Una conquista lunga cinquantuno anni GABRIELLA

BERNARDI Pino e le sue astronome PATRIZIA TORRICELLI Donne, e le parole per parlarne AGOSTINA LATINO Genesi e analisi della Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica PAOLA

MAGNANO, ANNA PAOLILLO, GIUSEPPE SANTISI Autostima e autoefficacia, identità di genere e soddisfazione lavorativa. Implicazioni per la scelta di carriera DOMENICO CARBONE Cos’è la politica? Opinioni a confronto tra le donne elette nei comuni italiani LUCIA PIETRONI Rosa vs Blu. I Gender Studies e la cultura del design GIULIANA GUAZZARONI La realtà aumentata nell’arte: una scelta di genere è mettersi in gioco e performare CHIARA D’AURIA La donna cinese nel Nuovo Millennio SILVIA CAMILOTTI Saperi e sapori d’altrove: le scrittrici (si) raccontano LAURA MOSCHINI Con occhi di donna: Margaret Fuller e la Repubblica Romana (1847-49), Un’analisi di genere nel giornalismo del XIX secolo

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All’età di 246 anni, Taddeus Sierpinskij ci ha lasciati. Un’età ragguardevole,

certamente; ma, ciononostante, una grave perdita per la Scienza e la Cultura. Non ci si può non chiedere, infatti, quante altre gemme di pensiero avrebbe potuto regalare all’umanità il Nostro, se solo avesse potuto stare con noi ancora qualche tempo. Sulla sua età Egli soleva spesso scherzare: «Non è mio merito - amava ripetere - si tratta soltanto di buona salute». E spesso soggiungeva: «Buona salute che mi deriva probabilmente dall’aver imparato sin da bambino a dire: ‘No!’». Come ebbe a rimarcare una volta, durante una sua conferenza all’università di Cambridge: «Di fronte ad una persona di oggi sono senza dubbio un fenomeno da baraccone; di fronte ad un profeta pre-diluvio sono invece soltanto un giovanotto di belle speranze». Ma ora, purtroppo, se n’è andato per sempre. Parlare di un uomo come lui non è facile: si rischia in ogni momento di cadere nell’esaltazione del personaggio o nel commento più banale. Certo è che Taddeus Sierpinskij è stato un precursore in numerosi campi dello scibile, dalla Matematica alla Sofrologia, dalla Fisica alla Contabilità Generale dello Stato. Elencare tutti i Suoi contributi, noti e meno noti, a quello che potremmo in modo riduttivo definire ‘Progresso Scientifico, Tecnico, Creativo ed Etico’ dell’H. sapiens sapiens, appare impresa destinata in partenza all’insuccesso; tuttavia, uno sforzo in questo senso sembra opportuno e quanto mai attuale in un mondo proteso verso un futuro incerto; in un mondo che dimentica sovente messaggi ed insegnamenti preziosi del passato, quali quelli del Sierpinskij, i soli che possano fornire indicazioni razionali per la soluzione di nuovi e vecchi problemi. A questa impresa, ardua e delicata ma, come detto, dovuta ed opportuna, decidemmo trent’anni or sono di dedicarci, con costanza, testardaggine, rigore ed entusiasmo. (dall’introduzione)

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1. IL SISTEMA SCOLASTICO IN ITALIA

MASSIMO BALDACCI Una bussola pedagogica: l’idea di scuola - LUCIANO BENADUSI Le malattie della scuola italiana: molto serie ma non drammatiche - URMBERTO MARGIOTTA Una “buona scuola” potrà generare una “scuola dei talenti”? 2. POLITICHE SCOLASTICHE E MONDO DEL LAVORO

ANDREA GAVOSTO E STEFANO MOLINA Introduzione - ALBERTO STANCHI La condizione occupazionale dei diplomati: una ricognizione delle informazioni disponibili - TOMMASO DE LUCA Problemi e prospettive dell’alternanza scuola-lavoro in Italia - GIUNIO LUZZATTO E STEFANIA MANGANO Competenze scolastiche e mondo del lavoro - VANNA MONDUCCI Scuola e lavoro: il sistema duale può attecchire in Italia? Un’esperienza sul campo3. LA VALUTAZIONE NEI SISTEMI DI ISTRUZIONE SUPERIORE: SCUOLA E UNIVERSITÀ

GIORGIO ALLULLI Valutazione ed assicurazione di qualità della formazione professionale in Europa - LUISA RIBOLZI

I sistemi di istruzione universitaria di fronte alla valutazione. Un orizzonte europeo - FRANCESCO GAROFALO Bibliometrico vs non bibliometrico. Due modelli di definizione del sapere - ORAZIO CARPENZANO, MANUELA RAITANO

Gli esiti incerti della valutazione della ricerca APPENDICI

ELENA GIGLIARELLI Internazionalizzazione e ricerca scientifica. Le strategie del CNRAltri approfondimenti a cura di ENZO SIVIERO, MICHELE CULATTI, LUCA GUIDO, LUCIO BONAFEDE, SALVATORE RUSSO,

GIOSUÈ BOSCATO, ALESSANDRA DAL CIN, SILVIA IENTILE, FRANCESCA SCIARRETTA

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